lunedì 11 maggio 2009

Repubblica 11.5.09
Se la politica dei barbari cancella i diritti di tutti
di Stefano Rodotà


Servono 10, 100, 1000 Rosa Parks all´incontrario per reagire alle proposte segregazioniste nella metropolitana milanese (Rosa Parks era la donna nera che, nel ´55 in Alabama, andò a sedersi nella parte di un autobus riservata ai bianchi, fu arrestata, ma il suo gesto avviò la fine della segregazione).
Si può organizzare una pacifica marcia su Milano di cittadini italiani di pelle bianca e capello liscio che vadano a sedersi in metropolitana accanto agli immigrati, anzi cedano loro il posto? Si può chiedere al sindaco Moratti di usare i suoi colloqui su YouTube con Red Ronnie per una serie di convinti elogi degli immigrati brutti, sporchi e cattivi, e tuttavia indispensabili? Si può andare a Bergamo e esigere che si possa mendicare per più di un´ora? Si può andare nelle città che hanno inaugurato un protezionismo nazional-gastronomico (suppongo a difesa delle schifose pizze surgelate con pomodori cinesi e cascami di formaggio) e ordinare ad alta voce kebab, cibi aztechi e altri piatti etnici? Si può essere d´accordo con Vaticano e Onu nelle critiche alle politiche di "respingimento" selvaggio dei disperati che cercano di approdare sulle nostre coste? Si può chiedere ai mezzi d´informazione decenti di dedicare uno spazio specifico e ben identificato per segnalare gli episodi di strisciante o palese razzismo quotidiano?
E infine (o prima di tutto): si può dire al presidente del Consiglio che il suo «no all´Italia multietnica» da una parte è un´insensatezza, perché basta guardare i volti delle persone per strada e si vede che l´Italia è multietnica senza possibilità di ritorno, e dall´altra che questo modo di parlare è l´ennesimo, pericolosissimo rifiuto di dare al nostro paese strutture e cultura rispettose dei diritti di tutti? Capisco che a Berlusconi la Costituzione non piaccia. Ma è il caso di ricordargli che l´articolo 3 vieta le discriminazioni basate proprio su razza, lingua e religione e che la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea, da lui votata, non solo ribadisce questo principio ma, all´articolo 22 afferma anche la necessità di rispettare "la diversità culturale, religiosa e linguistica". Questi sono appunto i tratti di una società multietnica. Negandola, Berlusconi si pone una volta di più fuori dal quadro costituzionale italiano e europeo.
Si deve essere intransigenti per impedire che si consolidi ancora di più un perverso senso comune che non è eccessivo chiamare razzismo. Certo, si possono accogliere con compiacimento la scomparsa delle norme sui medici-spia e i presidi-spia o le bacchettate di Gianfranco Fini a Matteo Salvini, inventore dei vagoni "riservati" agli immigrati nella metropolitana di Milano. Ma il semplice fatto che queste proposte vengano ormai avanzate a getto continuo, e arrivino fino alla soglia della loro trasformazione in norme di legge, è sconvolgente, è il segno di una regressione civile che rischia di cambiare nel fondo il modo d´essere della società italiana.
Quando parlamentari, presidenti di Regione, sindaci, persone con responsabilità pubbliche fanno schiette dichiarazioni di razzismo, si producono almeno due effetti. Il primo riguarda il fatto che il cosiddetto "cittadino comune" si senta legittimato non solo a pensare nello stesso modo, ma a tenere comportamenti che rispecchiano appunto la linea dettata dai suoi rappresentanti, innescando forme di rifiuto dell´immigrato che arrivano, come tristemente ci ricordano le cronache, fino all´assassinio. La società, in questo modo, conosce la barbarie, alla quale rischia di assuefarsi.
Il secondo effetto riguarda la raccolta del consenso, "lo stare sul territorio", l´essere in sintonia con il "popolo". Non ho dubbi sul fatto che la sinistra, nelle sue varie declinazioni, abbia gravemente indebolito le sue capacità di "leggere" e interpretare trasformazioni e bisogni della società italiana seguendo le chimere del partito leggero, affidando la propria capacità rappresentativa alla presenza nei talk show televisivi, divenendo oligarchica, accettando la logica della pura "democrazia d´investitura" che interrompe proprio il circuito della comunicazione continua con i cittadini. Ed è vero che la Lega si è insediata anche in questo vuoto. Ma, fatta questa constatazione e considerata la necessità di tornare ad altre forme di rapporto con i cittadini, si può poi sottovalutare il modo in cui tutto questo è avvenuto, la sollecitazione continua di pulsioni verso identità aggressive, in una parola la costruzione dell´"altro" come nemico?
Una lunga condiscendenza ha fatto sì che questo atteggiamento si consolidasse. Sono state degradate a folklore le parole pesanti e irriferibili di sindaci e parlamentari della Lega, i maiali trascinati sui terreni destinati alla costruzione di una moschea. Si è pensato che le cene del lunedì ad Arcore tra Berlusconi e Bossi servissero davvero a disinnescare le "bravate" dei capi leghisti. Invece la deriva è continuata, si è trasformata in linea politica sempre più esibita (perché lamentarsi poi delle reazioni dell´Unione europea, che mi auguro sempre più vigili e dure?), ha trovato nelle ultime parole di Berlusconi una sorta di benedizione finale.
Non è mai troppo tardi per reagire, per impegnarsi seriamente nel contrastare questa resistibile ascesa. Bisogna farlo essendo consapevoli di quel che stiamo perdendo. Il rispetto della dignità delle persone, degradate ad oggetto da accettare o respingere come un carico più o meno avariato, a merce da sfruttare da parte di imprenditori rapaci. Il rispetto del principio di eguaglianza, quando l´immigrato è discriminato davanti alla legge per questa sua condizione personale (lo vieta l´articolo 3 della Costituzione). Il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, quando salute, istruzione, possibilità di sposarsi vengono negati o compressi, cancellando così una idea di cittadinanza che consiste in un insieme di diritti che ci appartengono in quanto persone e che ci accompagnano quale che sia il luogo del mondo in cui ci troviamo. Quando si aprono questi varchi, ci si riferisce formalmente agli immigrati, ma in realtà si creano le premesse per mettere in discussione le libertà di tutti. È già avvenuto. Possiamo rassegnarci a vivere in un paese incivile?

Corriere della Sera 11.5.09
A sinistra Il sì di Matteo Colaninno. Cofferati contrario
Il Pd e il caso Fassino Parisi apre, no dalemiano
di Gianna Fregonara


ROMA — «Respingimento» o «rimpatrio» dei clandestini? Fermarli cioè prima che arri­vino alle frontiere (anche via mare) o acco­glierli e, se senza diritto di restare, rimandar­li da dove provengono? Passa attraverso que­sti due termini la discussione dentro il Pd, di fronte alle misure e alle polemiche di questi giorni. E’ Piero Fassino ad accendere le polve­ri. No alla linea pregiudiziale sull’immigrazio­ne, sì a posizioni impopolari ma credibili co­me quella di dire che «respingere i barconi non è uno scandalo», anche se la politica del­l’immigrazione dovrebbe essere un’altra che dia più diritti ai regolari e blocchi i clandesti­ni. Il segretario del partito Dario Franceschi­ni svicola nella propaganda elettorale, duran­te in 1/2ora con Lucia Annunziata. Ma c’è tut­to uno schieramento che passa per i cattolici e arriva fino a Massimo D’Alema che non so­lo non la pensa come Fassino, ma glielo dice a chiare lettere. Anzi, c’è chi considera im­provvida un’uscita così a meno di un mese dal voto.
Spiega Livia Turco: «Quelle che stanno av­venendo sono espulsioni collettive, che viola­no i diritti di asilo, bisognava prima di ripor­tare i clandestini in Libia fare almeno dei rapi­di accertamenti. Si tratta di diritti fondamen­tali, non di dettagli». Lo strappo di Fassino che chiede «alla sinistra di cambiare per evi­tare la guerra tra poveri» piace invece molto a Matteo Colaninno: «Penso che queste idee aiutino il Pd in questo momento. Dobbiamo capire che quella degli immigrati è una situa­zione complessa che va gestita con equilibrio e che chiede severità contro i clandestini ma inclusione per chi vuole integrarsi». E le bar­che respinte? «Se rientra nel diritto interna­zionale, si può fare. Altro è usarle come fa il governo per fare propaganda e annunci sen­za riscontro».
Il più netto nel difendere Fassino è Arturo Parisi: «Guai — dice tranchant l’ex ministro della Difesa — se il rispetto dei diritti umani dovesse essere considerato alternativo al ri­spetto della leggi della Repubblica». Non la pensa così il capolista del Nord Ovest del Pd Sergio Cofferati: «Nelle azioni di questi gior­ni c’è un’evidente violazione dei diritti uma­ni. Mi sembra che si tratti di decisioni prese a freddo dal governo». Insomma «scandalo­se ». Soprattutto, fanno notare nel Pd, nel pie­no della campagna elettorale: «Il tema vero non sono i rimpatri e chi ne ha fatti di più ma la battaglia contro l’immigrazione clandesti­na e la difesa dei diritti umani», chiosa il vice capogruppo dalemiano Nicola Latorre.
«Non fermiamoci alla propaganda sul re­spingimento dei barconi — suggerisce l’ex ministro Linda Lanzillotta —. Dobbiamo fare una riflessione perché il tema degli immigra­ti non va affrontato in modo ideologico né con l’approccio pararazzista della Lega, che vorrebbe il reato di immigrazione clandesti­na che non servirebbe a nulla». Insomma, sì ai diritti agli immigrati e al contrasto severo ma non inumano contro i clandestini. Sareb­be il tempo di riflettere secondo la Lanzillot­ta e il senatore Pietro Ichino pensa che il Pd si debba occupare di preparare nuove propo­ste per la politica dell’immigrazione e di coo­perazione con i Paesi del Mediterraneo per scoraggiare l’arrivo dei barconi e vorrebbe oc­cuparsene sistematicamente.

Corriere della Sera 11.5.09
Ferrero: il Pd perderà ancora e con parecchi gol di scarto


ROMA — «Con quanti gol di scarto il Pd perderà la sfida europea con il Pdl è un problema che interessa solo la panchina di Dario Franceschini, ma non riguarda certamente le sorti del campionato e del paese. Per l’Italia, per l’Europa e per i loro cittadini non sarà lo scarto tra Pdl e Pd a fare la differenza. Anche perché a Strasburgo, quando si tratta di adottare le decisioni fondamentali, giocano tutti dalla stessa parte del campo». Lo afferma Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista. «Le principali direttive comunitarie — prosegue — vengono regolarmente assunte col concorso univoco di popolari, liberali e socialisti europei. Cioè i tre gruppi dove siedono affiancati sia gli eletti del Pdl berlusconiano che quelli del partito democratico. Il 6 e 7 giugno prossimi i soli gol di scarto davvero importanti per i cittadini italiani ed europei saranno quelli realizzati dalla lista comunista che, insieme alle forze del Gue, si oppone all’Europa mercantile in nome dei diritti dei popoli e della persona umana».

Repubblica 11.5.09
I figli di Tienanmen
Ci sono i genitori che piangono i loro ragazzi morti. Ci sono ex ribelli che son diventati ricchi. Sono lo specchio della Cina. Vent’anni dopo
di Federico Rampini


«Pensi che possono mandare l´esercito a ucciderci?» Zhang Xianling non dimenticherà mai quella domanda. Le ultime parole di suo figlio. E non può perdonarsi di avergli risposto: «E´ impossibile, non è mai successo, il partito comunista non lo ha fatto neppure durante le violenze della Rivoluzione culturale. Possono sparare proiettili di gomma o prendervi a manganellate. Proteggiti la testa». Era la sera del 3 giugno 1989, suo figlio Wang Nan aveva 19 anni e ancora poche ore di vita. Nella notte sarebbe morto a Piazza Tienanmen. Era venuto a casa dei genitori che avevano amici a cena. Ma quando dalle finestre si udirono i primi spari Wang era già là fuori. «Da un mese andava ogni giorno a Tienanmen – mi dice la mamma – aveva seguito tutto lo sciopero della fame iniziato il 13 maggio dagli studenti. La sua passione era la foto, da grande voleva fare il fotoreporter. Su e giù per la città in bicicletta, con l´apparecchio a tracolla: mi diceva che stava fissando la storia nelle sue foto». Wang avrebbe potuto lasciare centinaia di immagini, documenti eccezionali: la sua memoria di quel maggio 1989 quando Pechino sognò la democrazia. «Ma la macchina fotografica è scomparsa - racconta la madre – fu la prima cosa che gli strapparono i soldati mentre lui era a terra moribondo. E due giorni dopo i suoi amici bruciarono anche le foto che aveva a casa, erano prove che la polizia poteva usare per arrestarli».
Come quegli scatti di Wang distrutti per sempre, nella coscienza della Cina di oggi c´è un grande vuoto, il tabù di una pagina di storia cancellata d´imperio. La signora Zhang mi guida nei luoghi della tragedia, in uno straziante pellegrinaggio che lei ha ripetuto troppe volte in questi vent´anni. All´angolo della via Nanchang, l´ingresso occidentale di Piazza Tienanmen di fronte all´Assemblea del Popolo, ora scorrono fiumi di automobili, e una massa di passanti frettolosi e indifferenti. Lì mi indica il marciapiede dove il figlio è caduto.
Una madre che piange il figlio Un professore, oggi dissidente, che lottò con i suoi studenti. Un ex ragazzo ribelle diventato imprenditore di successo. Li accomuna il dolore, e il ricordo di una speranza. Quella nata nel maggio, e uccisa nel giugno, di vent´anni fa. Quando in Piazza Tienanmen l´"esercito del popolo" sparò su una generazione in cerca di libertà. Nei loro racconti la Cina di oggi si guarda allo specchio
"Come celebreremo questo ventennale? Probabilmente agli arresti domiciliari"
Oggi molti credono alla storia riscritta dal partito: quei ragazzi volevano la guerra civile

«La pallottola è entrata dalla tempia e uscita dietro la nuca. Ma non è morto subito! C´era tanta gente attorno a lui, ho rintracciato i testimoni, ho ritrovato il medico Hu che cercava di soccorrere i feriti e fu bloccato dai soldati. Ho parlato con il tassista Liu, ricorda un´anziana donna in ginocchio che supplicava i militari, perché lasciassero portar via mio figlio che sanguinava alla testa. Una crudeltà mostruosa. Neppure in guerra si impedisce di curare i feriti». Camminiamo per poche decine di metri ed ecco sul fianco della Piazza la scuola media statale numero 28: la madre punta il dito, lì c´è l´aiuola dove il corpo di Wang Nan fu ritrovato a dieci giorni dal massacro. Almeno il suo cadavere si è salvato, l´ho potuto identificare. Sa perché? A scuola lui era arrivato primo in un´esercitazione, il premio era una cintura dell´esercito che lui metteva sempre. Nella confusione dopo la strage, quando i poliziotti sono venuti a portar via i morti, per la cintura qualcuno l´ha scambiato per un soldato e lo hanno sepolto lì. La maggior parte delle vittime invece le cremavano per far sparire le prove. Altre madri di Tienanmen hanno avuto una sorte perfino peggiore della mia, la morte dei loro figli è stata negata, censurata per sempre». Rientriamo a casa sua. La signora Zhang tira fuori da un armadio un vecchio casco rosso da motociclista. Fu l´unica precauzione che il figlio prese quella sera uscendo di casa, confortato dalle parole della madre: «Non spareranno per uccidere, non è possibile». Dietro, il casco è deformato da un gonfiore osceno, il grosso foro della pallottola.
Li ricorda bene quei ragazzi dell´89, il professor Xu Youyu. «Erano ingenui rivoluzionari, volevano cambiare la Cina ma molti di loro credevano ancora negli ideali che il comunismo gli aveva insegnato a scuola. L´esercito è del popolo, mi dicevano, starà dalla nostra parte». Xu viene a trovarmi a casa, sperando di eludere la sorveglianza della polizia. Lui è rimasto fedele agli ideali di quella primavera democratica. E´ un noto dissidente, nel dicembre scorso ha sfidato il regime firmando l´appello Carta 08 per i diritti umani. All´epoca della rivolta Xu aveva quarant´anni, insegnava all´Accademia delle Scienze Sociali e il maggio dell´89 lo visse con i suoi studenti fino all´ultimo. «Sono rimasto al centro di Piazza Tienanmen per tutta la notte, fra il 3 e il 4 giugno, mentre si stringeva la morsa dei carriarmati. Non potevo andarmene finché l´ultimo dei miei ragazzi non riusciva a scappare. Sono rientrato a casa all´alba, camminando come un automa in mezzo a quel paesaggio di morte. Sembrava un´allucinazione. Ricordo di aver sfiorato tre giovani distesi su un marciapiede, così calmi e immobili che ho pensato: perché dormono qui per terra, adesso? Erano crivellati di colpi».
Zhang Boshu oggi è un altro leader del nuovo dissenso cinese. L´89 cambiò la sua vita: «Aprii gli occhi sulla degenerazione del partito comunista, il baratro in cui è capace di precipitarci l´autoritarismo». Lui vent´anni fa fu salvato da un´istintiva paura della moglie. «La sera del 3 giugno - ricorda - ero tornato a riposare qualche ora a casa, in periferia, e lei fece sparire la mia bicicletta per impedirmi di tornare a passare quella notte con gli studenti». Anche lui è tra i firmatari di Carta 08. Oggi vive destreggiandosi tra le angherie del regime, la sorveglianza poliziesca sui suoi spostamenti, i castighi che gli infliggono le autorità accademiche. Ha l´aspetto di un giovane Pietro Nenni cinese, gli occhiali da ultramiope con le lenti spesse, la capigliatura scarmigliata, la foga nel parlare. Si esalta quando rivive l´atmosfera di quel maggio, ricostruisce giorno per giorno l´escalation degli eventi: «Per un mese e mezzo Pechino fu al centro dell´attenzione mondiale, ci sentivamo a un passo dalla conquista della libertà, fino a quella notte di terrore che uccise ogni illusione».
Tutto comincia il 22 aprile 1989 al funerale di Hu Yaobang, l´ex leader riformista del partito, quando il corteo funebre all´improvviso si trasforma in una gigantesca manifestazione di protesta. Il 4 maggio una marea studentesca invade Piazza Tienanmen, in ricordo di un´altra ribellione giovanile che sconvolse la capitale esattamente 70 anni prima. Proprio com´era accaduto all´inizio del Novecento, i giovani istruiti della capitale diventano l´avanguardia che dà voce a un´esasperazione diffusa in tutti gli strati sociali. Le riforme di mercato volute dall´erede moderato di Mao, Deng Xiaoping, stentano a diffondere il benessere e hanno portato l´inflazione alle stelle. Nel partito dilaga la corruzione. L´élite delle università assaggia i primi frutti dell´apertura verso il resto del mondo, divora le notizie dall´estero, si sente parte dello storico sommovimento in atto in Unione sovietica e nell´Europa centrale, discute di diritti umani, di democrazia. Il 13 maggio parte lo sciopero della fame tra i giovani accampati sulla Piazza Tienanmen: il centro simbolico del potere politico dai tempi degli imperatori. «Quella data fu scelta con cura - ricorda Zhang Boshu - perché il 15 era prevista la visita ufficiale del leader sovietico Michail Gorbaciov. In quel momento il regime cinese era spaccato. Deng vedeva un complotto destabilizzante, quei giovani in piazza gli evocavano ricordi di un altro caos, il decennio della Rivoluzione culturale. Sul fronte opposto c´era il segretario del partito, Zhao Ziyang, favorevole alle riforme politiche e disposto a dialogare con noi. In quella impasse speravamo che la visita di Gorbaciov potesse aiutarci. Urss e Cina erano ancora le due Chiese del comunismo mondiale, con Gorbaciov c´era un nuovo flusso di idee, la sensazione che tutto poteva cambiare». La visita del leader sovietico offriva anche una visibilità senza precedenti, per l´arrivo di tanti reporter occidentali al suo seguito. Gli studenti di Pechino fecero le mosse giuste per colpire l´opinione pubblica mondiale. L´immagine potente della Statua della Libertà in polistirolo eretta davanti alla gigantografia di Mao, all´ingresso della Città Proibita, era perfetta per le riprese della Cnn. Ma lo "spiraglio Gorbaciov" si richiuse in fretta. «Il 17 maggio la partita era compromessa - dice Zhang Boshu - Ai vertici la resa dei conti si era conclusa con la vittoria di Deng. Il 18 maggio Zhao Ziyang fece un gesto disperato, uscì dai palazzi del potere per venire a parlare con noi in Piazza Tienanmen. Era l´atto finale di un perdente, prima dell´uscita di scena. Zhao era ancora formalmente il capo del partito, in realtà il potere gli scivolava via dalle mani. Venne a scongiurarci di interrompere lo sciopero della fame. Piangeva e continuava a ripetere: è troppo tardi ormai. Quarantotto ore dopo, la sera del 19 maggio, scattava la legge marziale. Quando io andai a portare una lettera di protesta alla redazione del Quotidiano del Popolo, un vicedirettore mi rispose: "Ormai qui dentro pubblichiamo solo quello che comanda l´esercito"». Il massacro si poteva ancora evitare? «Noi ci illudevamo - ricorda Zhang Boshu - perché ci fu uno stallo di due settimane. Per due volte l´esercito tentò di entrare in città e fu respinto dalla popolazione civile, che era dalla nostra parte. Ma più il regime stentava a riprendere il controllo di Tienanmen, più Deng si allarmava, si convinceva che era in gioco la sopravvivenza del partito. E cresceva la sua determinazione».
La ferocia finale la ricorda anche Shen Shiyun, un ex-ragazzo dell´89 che oggi è rientrato nei ranghi, come la maggioranza dei suoi coetanei. Da piccolo imprenditore, proprietario di una rete di negozi di telefonini, nella Cina del 2009 Shen gode i tanti benefici dello sviluppo economico. Non ha lo spirito del reduce, non ha contatti con gli ambienti del dissenso. Nel suo mondo privato però custodisce la memoria di vent´anni fa, quel maggio che anche lui passò con i compagni a occupare Piazza Tienanmen. La sua vita ha voltato pagina; non per questo è disposto a perdonare il massacro: «Cominciarono a sparare dieci chilometri prima del centro. Aprirsi un varco nella folla che resisteva era così difficile che si facevano strada uccidendo. Tra la gente di Pechino nessuno poteva credere che sarebbero stati capaci di tanto. Quando si capì che avevano l´ordine di fare una strage la gente urlava con orrore: "è peggio dell´invasione giapponese!". La controreazione fu spontanea: tank assaliti, incendiati, soldati aggrediti. Ma contro l´esercito non avevamo chances. A me hanno ammazzato l´amico più caro, un giovane ricercatore dell´università, morto in ospedale dopo venti giorni di agonia. In seguito per anni la polizia si è accanita sulla sua vedova. Ogni 5 aprile alla festa dei morti, ogni 4 giugno, lei riceveva minacce e avvertimenti pesanti: proibito unirsi agli altri parenti delle vittime. Un giorno è sparita, ha fatto perdere le tracce, ha tagliato tutti i rapporti anche con me, forse non sopportava più il peso di quel ricordo». L´imprenditore Shen è la prova vivente che il regime non ha usato solo la repressione. Vent´anni di boom hanno costruito una base di consenso reale, il progresso nelle condizioni di vita è stato stupefacente. Eppure anche lui conserva uno spirito critico: «Dopo Tienanmen - dice - il partito ha anestetizzato le nuove generazioni con l´ideologia del denaro. Questi giovani apolitici non si pongono più domande».
Il revisionismo di regime è riuscito a riscrivere la storia. Molti cinesi hanno finito per accettare l´unica versione di quegli eventi, quella di Deng: secondo lui gli studenti di Tenanmen stavano per trascinare il paese in una nuova guerra civile, come nel primo Novecento o nella Rivoluzione culturale. «E la maggior parte degli intellettuali da allora sono stati letteralmente comprati - osserva il professor Xu - Mai nella storia della Cina c´erano state tante opportunità di carriera e di arricchimento. Promozioni, denaro, successo, abbondano per chi accetta di stare al gioco».
Due generazioni di leader si sono succedute al potere dopo Deng. Neppure l´attuale classe dirigente, tecnocratica e modernizzatrice, trova il coraggio di un gesto pacificatore. Il numero delle vittime dell´89 rimane coperto dal segreto di Stato. «E´ la logica del regime, perché discutere liberamente quella tragedia è un passo pericoloso per loro. Il dogma dell´infallibilità del partito non si può rimettere in gioco. Si aprirebbe la strada al pluralismo, i cinesi chiederebbero di più». I dissidenti Xu e Zhang, la mamma del fotografo Wang, non sanno ancora come passeranno questo 4 giugno. Si avverte il desiderio di un gesto, una testimonianza, anche privata, perché il ventennale non passi sotto silenzio. «Probabilmente finiremo agli arresti domiciliari molto prima», commenta amaro il professor Xu.

Repubblica 11.5.09
La natura vibrante di Utagawa Hiroshige
Il paesaggio e le diversità tra Oriente e Occidente nella rassegna sul pittore giapponese
di Cesare De Seta


Quando ci si accosta alle civiltà artistiche asiatiche, i concetti formali ed estetici dell´Occidente sono scarsamente utili per provare a capire. Per l´estetica giapponese la comprensione è intuitiva e percettiva. Lo spiega in modo esemplare Donald Richie in Sull´estetica giapponese, edito ora da Lindau, che ho letto con profitto prima di visitare alla Fondazione Roma la bella mostra Hiroshige, a cura di Gian Carlo Calza (catalogo Skira, fino al 7 giugno). Le nostre convenzioni formali sono ancora differenti se ci si accosta al tema del paesaggio che in Occidente è codificato dalla prospettiva, introdotta in Giappone per la prima volta con le vedute di Edo, oggi Tokyo, di Utagawa Hiroshige (1797-1858). Ma la veduta a volo d´uccello, così tipica del vedutismo occidentale, si trasforma nelle vedute radenti, come quella di Okawabata, di questo pittore tra i più grandi del suo tempo, non impari a un maestro come Hokusai. Questi lo precede di una generazione, essendo nato nel 1960, e le sue vedute del monte Fuji furono una rivoluzione nel modo di concepire il paesaggio.
La mostra romana presenta una ricca selezione di stampe di Hiroshige, parte della strepitosa collezione di oltre 3000 fogli della Honolulu Academy of Arts raccolti da James Michener, autore del romanzo Sayonara. Hiroshige era nato in una famiglia di samurai di basso rango e tredicenne aveva iniziato la sua lenta formazione di artista alla scuola di Toyohiro. La cosa più difficile per un pittore giapponese era quella di trovare un editore che stampasse i suoi disegni: un processo molto lento e minuzioso che viene illustrato in mostra in modo efficace. Tra il 1830 e il 1831 Hiroshige pubblica Luoghi celebri della capitale orientale ancora influenzati da Hokusai. Liberatosi dal ruolo di funzionario dello shogun il pittore trova una sua originale strada. Le informazioni biografiche su di lui sono assai poche, scrive Calza, ma è certo che le Cinquantatre stazioni di posta del Tokaido 1933-1934 ebbero un grande successo, furono stampate in due volumi e molte vedute tirate in fogli sciolti.
Ora conviene lasciarsi andare a questi fogli policromi che sono scanditi in sezioni tematiche: molto spesso nelle stampe figurano testi poetici che sono consustanziali alla pittura giapponese. La scrittura è essa stessa un modo di dipingere. Fiori, uccelli, pesci, alberi, le onde del mare, lo scrosciare di una cascata, il ripido pendio di una rupe, l´apparire della luna sono il mondo vibrante della natura che viene rappresentato con rara sensibilità e libertà immaginativa. Dai dettagli si passa con estrema lentezza a vedute panoramiche dalla focale sempre più ampia e articolata: paesaggi in senso proprio. Nella serie tarda delle Cento vedute di luoghi celebri o in quelle di Edo, assai più tarde, Hiroshige compie miracoli di virtuosismo e dipinge persino il fitto cadere della pioggia. Solo a Kyoto ho riconosciuto lembi di questi paesaggi, del tutto scomparsi a Tokyo, che vive solo nelle vedute di Edo. Compaiono in questo variegato universo dipinto su fogli di carta di riso architetture e ponti, paesaggi marini e montani, ma anche personaggi e folle, dame e cavalieri, pescatori e manovali con tagli e inquadrature che ci fanno capire quanto importante sia stata questa secolare tradizione figurativa e quanto essa abbia influenzato il grande cinema giapponese.

Repubblica 11.5.09
Un nuovo museo inaugurato da Balla e Kandinsky
di P. V.


Anche Lucca ha il suo centro per l´arte contemporanea. Si chiama Lu. C. C. A., acronimo di Lucca Center of Contemporary Art. È stato aperto due giorni fa con la mostra Un mondo visivo nuovo. "Origine", Balla, Kandinsky e le astrazioni degli anni ´50 (a cura di Francesca Romana Morelli e Maurizio Vanni). Il Lu. C. C. A. è allestito all´interno di Palazzo Boccella, un antico edificio nel centro storico di Lucca, a pochi passi dalla celebre Piazza Anfiteatro. Un nuovo spazio dedicato all´arte contemporanea, concepito secondo principi innovativi di intendere e fruire lo spazio museale. L´intenzione è quella di creare dei veri viaggi all´interno dell´arte contemporanea.
Il tema della mostra affronta attraverso cinquanta opere tra dipinti e sculture il dibattito scaturito all´interno del gruppo "Origine", formato nel 1951 da Ettore Colla, Giuseppe Capogrossi, Alberto Burri e Mario Ballocco e trasformato nel 1952 in Fondazione Origine, centro di riferimento internazionale per l´approfondimento delle problematiche e la divulgazione dell´arte astratta. Presieduta da un comitato operativo che vide come motori propulsori Colla e il critico Emilio Villa, ma anche i più giovani Piero Dorazio e Achille Perilli, provenienti da Forma 1 e dall´Age d´Or, e personalità come Enrico Prampolini e Sebastian Matta, la Fondazione operò sino al 1958, con il coinvolgimento di un ampio numero di artisti: Emilio Vedova, Atanasio Soldati, Afro, Antonio Sanfilippo, Carla Accardi, Pietro Consagra, Toti Scialoja, Giulio Turcato, Edgardo Mannucci, Mimmo Rotella.
La necessità di trovare un codice atto a esprimere le avventure della coscienza dell´uomo durante la ricostruzione di un mondo distrutto dal conflitto mondiale porta gli artisti di "Origine" a cercare i propri "padri" in determinati protagonisti delle avanguardie: Kandinsky, Mondrian, Sonia Delaunay, Arp e Balla. Come avevano già fatto la Bauhaus e De Stijl, l´utopia di creare un "mondo visivo nuovo" si intreccia con l´urbanistica e l´architettura. L´arte astratta appare il linguaggio più adeguato a scandagliare e a interpretare la natura del proprio tempo e ad andare alle radici della coscienza del fare arte.

Repubblica 11.5.09
Enzo Cucchi. Quanta luce nella caverna di Nietzsche
di Achille Bonito Oliva


Da Helsinki alla Triennale di Milano omaggio all’artista tra pittura, disegni e sculture

È di nuovo sulla scena Enzo Cucchi. Oggi alla Triennale di Milano vernissage dell´atelier Bovisa con una mostra a lui dedicata (fino al 14 giugno), il 29 giugno è a Capodimonte, a Napoli, mentre Helsinki ospita, ancora per una settimana, novanta opere nell´EMMA-Espoo Museum of Modern Art. È uno straordinario excursus della sua opera: pittura, disegni e sculture, dal 1980 ad oggi.
Impressiona la progressione figurabile dell´opus di Cucchi che accetta la forte inerzia del dipingere, mette le colline, gli alberi, le case, i teschi, i cavalli, gli asini, le pecore, le torri, i gatti, gli uccelli, le nuvole al riparo, sotto il segno della guardata curva dove nulla precipita o va a picco, perché non esiste peso ma sempre una corsa ancorata a un interiore rallentamento, che poi significa la saggezza della distanza ravvicinata, che trova la sua origine nel pensiero religioso della pittura medievale in cui le figure sono emanazione del sentimento, lo spazio emanazione delle figure. Qui confluiscono tutte le istanze, nell´ordine del quadro si addensano anche le forze del disordine che accetta di inscriversi dentro il movimento parabolico del paesaggio, dentro la sostanza inclinata della natura: Quadro al buio sul mare (‘80), Succede ai pianoforti di fiamme nere (‘83). L´artista fonda un´architettura della natura, costruisce la casa o la collina secondo un progetto di fuga che non riguarda soltanto lo sguardo, ma anche la casa stessa e la collina. L´orizzonte è immobile e grave insieme.
Le distanze scivolano veloci e attente a non produrre catastrofi. Anche il vuoto non si fissa in un disagio metafisico, ma si inclina, anch´esso veloce, tra i vari volumi, perché il paesaggio è dipinto per correggere l´aria, per renderla più profumata e luminosa: Tavoli per pensare (‘96), Il muro dello sguardo (‘96). Un´epifania dell´istante trattiene le cose dentro la soglia di un presente duraturo e persistente. Le cose si innalzano ad un´altezza che non porta ebbrezza ma senso pacato di una sospensione che nasce dalla naturale forza delle cose stesse, per grazia ricevuta.
Cucchi libera la natura da ogni superbia, depura figure e oggetto da ogni tensione che non sia quella sana della loro forte densità interiore. Egli sottrae le cose alla loro necessità e gravitazionalità, in modo che l´immagine possa accedere ad un nuovo ordine terrestre, abitato da un modo circolare ma non meccanico. L´immagine vola rasoterra alla superficie del quadro, ben ancorata alla materia della pittura. Eppure esegue una sua navigazione incessante mediante una parabola che corre lungo varie orbite che non si incontrano mai: Breve volo (2001), Kamikaze (2001).
Cucchi lascia l´immagine aperta a tutte le sue peripezie, aperta verso molte direzioni. L´immagine attraversa l´aria e vi staziona, valica gli ingombri della casa e gli intrighi delle foreste, mette in contatto il cielo e le aureole, fino ad imboccare i sentieri sensibili dell´eterna illuminazione, da cui è possibile scorgere l´arte santa: Corpum cristi (2004).
I paesaggi di Cucchi hanno sempre una luce precaria, come uno sguardo che porta chiarezza spostandosi in maniera nomade da un punto all´altro, con la consapevolezza di questa precarietà che dipende dalla vista appuntita dell´artista, il quale corre velocemente, con le sue abbreviazioni stilistiche, a realizzare i suoi territori magmatici. Un attraversamento di spazio e di tempo, da architetture vicine fino alla lontananza delle colonne del Partenone: Casa dell´altro Mondo (2006), Pena capitale (2006).
La condizione visionaria dell´opera di Cucchi, in tutto il panorama internazionale della Transavanguardia, garantisce un´immagine che non si accontenta di sfiorare la pelle della pittura o la superficie della scultura. «Dietro ogni caverna ve n´è un´altra più profonda, deve essercene un´altra più profonda, un mondo più vasto, più estraneo, più ricco sotto la superficie, un abisso al di sotto di ogni fondo, al di là di ogni fondazione» (Nietzsche). Come si può desumere anche dai grandi disegni esposti alla Triennale di Milano, di cui mi sono occupato personalmente, Cucchi cerca di dare senso alle sue immagini, profondità alla caverna del suo immaginario. Anche quando diventano architettura, come Costume interiore per il Museo di Capodimonte (dal 29 giugno a cura di "Incontri Internazionali d´Arte"), che compete con la Torre di Babele e con l´omaggio di Tatlin alla Terza Internazionale, ingombrando con la sua altezza il cortile della Reggia.
L´opera è un deposito, reso esemplare nella forma cilindrica dal metallo, di energie che suscitano immagini, soffi di materia ed estensioni galleggianti nell´aria. Un tessuto visivo di una iconografia tridimensionale, sicuramente proveniente da un territorio di immagini tutto italiano che affonda le proprie ascendenze in un presente Medioevo, dal quale l´artista marchigiano ha estratto la precaria spiritualità delle sue immagini, ridando all´arte il suo altrove e rendendola abitabile.

Repubblica 11.5.09
Il ritorno di Napoleone. Il gesso di Canova a Brera restaurato
Pinacoteca di Brera. Fino al 31 dicembre.


Proseguono le celebrazioni del bicentenario del museo. Da vedere il calco del monumentale Napoleone come Marte pacificatore eseguito da Antonio Canova, restaurato da Daniele Angellotto con la direzione di Matteo Ceriana. Il colosso, uno dei cinque calchi realizzati dal formatore Vincenzo Malpieri nel 1808, viene acquistato da Eugenio di Beauharnais nel 1809 per l'Accademia di Belle Arti di Brera e collocato nelle Gallerie, in occasione dell'apertura della Pinacoteca il 15 agosto, genetliaco dell'imperatore.

l’Unità 11.5.09
Cinque domande a Dario Vergassola
di Susanna Turco


1 Apicella
Solidarietà ad Apicella, per cominciare. Dice che è discriminato, speriamo che con le nuove nomine in Rai si trovi meglio. Che il prossimo direttore, quale che sia lo salutiamo, rimetta in piedi il festival Napoli contro tutti, e che gli dia più spazio di Sanremo, così che finalmente Apicella trionfi. Nel caso, gli farò da accordatore.
2 Maroni (e l’omeopatia)
Si vanta di aver respinto 1500 immigrati in 5 giorni: difficile combattere i cambiamenti del mondo con l’omeopatia, ma contento lui. Avranno venti secondi in più di supremazia della razza padana.
3 Italia in metrò
Se Berlusconi prendesse la metropolitana, vedrebbe che la società è già multirazziale, multicolore, multirompiscatole anche. E capirebbe che è difficile dar contro a Darwin.
4 Moniti (a Berlusconi)
A Berlusca dico: occhio, perché la Cei si è accorta di quel che ha detto. E rimandare la gente a morire nel proprio Paese non è una cosa furba in campagna elettorale.
5 Smentire
Tanto il Cav mente sapendo di poter smentire. All’ultimo dirà che è stato un complotto, inviterà tutti alla partita Milan contro Vaticano e, indicando da quale Paese proviene ciascuno dei suoi calciatori, dimostrerà che lui sì è multietnico davvero. L’arbitro sarà Apicella.

l’Unità 11.5.09
Intervista a Benjamin Barber
«L’Occidente è già multietnico, Berlusconi guarda al passato»
Il politologo americano, oggi ospite di Reset a Milano, definisce «falsi» gli argomenti xenofobi
Nelle città spazi comuni per culture diverse
di Gabriel Bertinetto


Le città per natura favoriscono l’integrazione multietnica. Ad ostacolarla intervengono scelte politiche che sfruttano le paure irrazionali della gente, soprattutto in tempi di crisi. Così dice all’Unità il politologo Benjamin Barber, relatore oggi al convegno organizzato da «Reset» a Milano in piazza Belgioioso 1: «La città, uno spazio comune, molte culture».
Professor Barber, suscita clamore in Italia il no del premier Berlusconi alla multietnicità. Ma una società monoetnica è un’opzione praticabile nel mondo moderno?
«Assolutamente no. Berlusconi non respinge un potenziale sviluppo del futuro, ma una realtà già in atto. L’Italia è parte di un mondo multietnico e culturalmente interdipendente. Tanto che nel mio Paese, gli Stati Uniti, per la prima volta abbiamo un capo di Stato genuina espressione di questa molteplicità. Il vostro presidente del Consiglio dice no al presente, e sì al passato. Vuole irrealisticamente retrocedere a qualcosa che non esiste più».
Considerazioni morali a parte, rifiutare la multietnicità conviene?
«È un danno, perché la logica dell’immigrazione è economica. Coloro che legalmente o clandestinamente lasciano la Libia per l’Italia, il Marocco per la Spagna, il Messico per gli Usa, il Guatemala per il Messico, lo fanno spinti da motivazioni prettamente economiche. Chi da fuori viene in Italia, non lo fa per trasformarla in una società multietnica, ma per trovare un’occupazione. L’economia globale richiede una forza lavoro mobile. Quando Berlusconi parla contro l’immigrazione, rifiuta la logica della globalizzazione. Come proprietario di un’azienda mediatica di dimensioni internazionali, dovrebbe essere il primo a saperlo».
Gli argomenti sovente usati dagli xenofobi sono: ci rubano il lavoro e rendono le nostre città insicure. Che fondamento hanno?
«Le statistiche non confortano l’ipotesi che gli immigrati siano tendenzialmente più dediti ad attività criminali che non i locali. La delinquenza è universalmente ripartita. Non è vero poi che portino via il posto ai già residenti. Vengono a svolgere i lavori offerti dal mercato. Gli argomenti degli xenofobi sono falsi ma servono a personaggi ccome Berlusconi da voi, o Cheney da noi, per cavalcare le paure dei concittadini e trarne vantaggi politici».
Ci sono modelli di sviluppo architettonico e urbano che possono meglio aiutare l’integrazione etnica?
«In realtà le città per loro natura sono organismi multiculturali. Negli ultimi 40 anni in alcune metropoli la popolazione è cresciuta di 30 o 40 volte. E questo non per germinazione interna ma grazie ad afflussi massicci dall’esterno. Sono individui mossi dal bisogno di un lavoro, dal desiderio di cambiare vita, dalla necessità di sottrarsi ad ambienti ostili. La città è per se stessa fondata sull’anonimato e sulla contiguità di comunità diverse. È vicinanza, comunicazione. Non esiste il problema di disegnare gli spazi urbani in maniera da favorire una multiculturalità che è già ad essi intrinseca».
Può esserci però scontro anzichè integrazione. Come evitare l’uno e favorire l’altra?
«In un agglomerato urbano si manifestano due tendenze. La stessa persona all’interno del suo quartiere vive le condizioni dell’identità culturale originaria, ma nel rapporto con le istituzioni, attraverso la sua attività lavorativa, facendo uso dei mezzi di trasporto, sperimenta un costante processo di integrazione. La compresenza di comunità etniche diverse nella medesima città alimenta questa doppia esposizione culturale di ogni singolo individuo. Un nigeriano, che faccia il taxista a Londra o Parigi, ed abiti in un quartiere popolato da suoi connazionali, si trova ad essere simultaneamente un africano all’estero ed un cittadino cosmopolita. Se una città non esprime le sue potenzialità naturali di integrazione e armonica interdipendenza è a causa di scelte politiche».
L’Italia è una terra di ex-emigranti. La religione cristiana predica la fratellanza. Eppure nè l’esperienza storica, né le radici culturali sembrano averci vaccinato a sufficienza contro il morbo del razzismo. Perché?
«Il miglior vaccino può essere inefficace se il virus è potente. La crisi economica in corso è uno di quei virus che spianano il terreno a chi propugna la politica della paura e ostacola il cammino ai fautori della politica della speranza. Ecco perché è facile oggi per Berlusconi martellare la gente con messaggi pericolosamente reazionari».

domenica 10 maggio 2009

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l’Unità 10.5.09
Leggi razziali e stella gialla
Adesso scopriamo che le legge razziali sono già in funzione, mentre tanti fanno finta di non sapere. Proprio come nel 1938
di Furio Colombo


“Leggi razziali” non è una frase eccessiva. È una descrizione letterale e corretta che Franceschini, segretario del Pd, ha detto con tragica esattezza per descrivere il “pacchetto sicurezza” della Lega.
La stella gialla che i Radicali indossano in questi giorni di una campagna elettorale dalla quale saranno esclusi con rigoroso rito mediatico, non è una trovata frivola o offensiva, come è stato detto. È la rappresentazione di un fatto. L’elenco delle illegalità, negazioni e sopraffazioni contro libertà fondamentali italiane, secondo i Radicali, è lungo e comincia subito, quando è ancora fresca la firma di Terracini in calce alla nostra Costituzione, nel 1948.
Si può convenire o no. Fin dalla rinascita, questo giornale ha detto e ripetuto ogni giorno che Berlusconi, con il peso immenso della ricchezza usata per comperare la politica, ha portato un peggioramento pauroso nella già oscura vita pubblica italiana, un peggioramento che a momenti pare irreversibile.
In un caso o nell’altro l’Italia è una sola. L’Italia che decide quali voci sono stonate e quali voci non si devono sentire, un anno dopo l’altro, un decennio dopo l’altro. L’Italia che perseguita senza tregua e senza vergogna gli immigrati proprio come al tempo delle leggi razziali. Fatti così profondamente illegali, e pure accettati, devono essere cominciati presto. Se questo è il peggio, c’è stato un prima.
Per esempio, la settimana è stata segnata da una notizia grave e squallida: il deputato Salvini della Lega esige che nei metrò di Milano i posti a sedere siano riservati ai lombardi. Come si riconosceranno i lombardi? Dagli insulti agli immigrati che hanno osato sedersi? Dalla violenza per farli alzare? Si fanno avanti squadre razziste come gli americani bianchi prima di Rosa Parks, di Martin Luther King e di Robert Kennedy. In un mondo normale una simile regola dovrebbe essere respinta con sdegno, come la peggiore offesa.
Ma questa è l’Italia in cui centinaia di naufraghi disperati, metà donne e bambini, e una di loro morta e putrefatta, sono stati lasciati in mare per giorni e notti al largo delle coste italiane. E’ la storia della nave turca “Pinar” , colpevole di averli salvati, tenuta ferma in mare dalla corvetta militare italiana “Lavinia”. Probabilmente è la prima volta, nella Repubblica italiana nata dalla Resistenza, che ai marinai italiani viene ordinato di non soccorrere i superstiti disperati del mare. Viene ordinato di tenerli fermi e lontani benché stremati.
Atti indegni di questo tipo, come le aggressioni e i linciaggi, tendono a ripetersi in questa Italia. Nuovi immigrati alla deriva, al largo delle coste libiche sono stati avvistati da un mercantile italiano che si è guardato bene dal prestare soccorso dopo ciò che era toccato alla nave turca. Si trattava - ci ha detto il giornalista Viviano di Repubblica (7 maggio) - di 227 disperati tra cui 40 donne. Sono subito arrivate sul posto unità della Marina militare italiana con un ordine barbaro e disumano del ministro dell’Interno della Padania insediato a Roma: le centinaia di profughi disperati raccolti in mare sono stati riportati in Libia. Vuol dire condannati a morte, per esecuzione, per inedia nei campi profughi del deserto, per schiavitù (lavoro forzato senza paga), per l’abbandono in aree prive di tutto, in violazione della Costituzione italiana e della Carta dei Diritti dell’Uomo, come ha scritto con sdegno L’Osservatore Romano.
Ogni possibile richiesta di diritto d’asilo, per quanto urgente e legittima, viene in questo modo vietata da marinai italiani usati come poliziotti crudeli di una dittatura senza scrupoli.
Adesso scopriamo che, prima ancora che il Parlamento italiano affronti l’odioso “pacchetto sicurezza” della Lega e lo voti con l’espediente della “fiducia” in modo da bloccare ogni discussione, adesso scopriamo che le “leggi razziali” sono già in funzione, oggi, in questa Italia, mentre tanti, in politica o nella vita di tutti i giorni, fanno finta di non sapere, non vedere, di non essere disturbati. Proprio come nel 1938. Ma nel 1938 quelle schiene piegate di un popolo erano state preparate da quasi due decenni di fascismo.
Dicono i Radicali: anche oggi una simile rinuncia alla libertà, alla opposizione, alla critica non arriva tutta in una volta come una valanga. Ci vuole una lunga preparazione per cedere senza resistenza i propri diritti.
Di fronte al diffuso silenzio per la paurosa epoca italiana che stiamo vivendo è inevitabile chiedersi: e se i Radicali, indossando la loro maleducata e impropria stella gialla, avessero ragione?

l’Unità 10.5.09
Senza rancore
di Conchita De Gregorio


Dire no all'Italia multietnica è come opporsi alle maree. Come dire mi oppongo al passare del tempo. Gli anni cambiano i connotati degli uomini e delle società. Nel caso delle persone si invecchia, per esempio: conoscete qualcuno che dica mi oppongo? Se lo conoscete provate a convincerlo come si fa con uno che non sta bene, spiegategli che non saranno le protesi a fermare i giorni, davvero no. Oltretutto il tempo assai spesso rasserena e migliora. Non sempre ma capita, quando succede è uno spettacolo che valeva la pena aspettare quarant'anni. In copertina Gemma Calabresi e Licia Pinelli, sono appunto quarant'anni da allora, la storia d'Italia nel mezzo. Tutte le rughe in faccia, i segni del dolore uno per uno eppure a guardarle si vede solo il sorriso, le mani nelle mani. Si vede la luce che sempre torna dall'ombra, come nei giorni. Il mondo in cui viviamo ha un presidente d'America nato da un padre africano, in Italia avrebbe problemi col permesso di soggiorno. L'Italia multietnica non è una teoria no global, è un dato di fatto censito persino dal dossier Caritas. Sulla base delle proiezioni dell'Istituto nazionale di statistica (un altro ente non sospetto di simpatie comuniste) l'organismo pastorale dei vescovi ha stimato che a metà del secolo gli immigrati nel nostro paese saranno più di dodici (12) milioni, il 18 per cento della popolazione italiana del 2050. Una persona su cinque. «Pertanto - si legge - il futuro dell'Italia non è immaginabile senza gli immigrati e questi non possono essere più considerati una presenza accessoria». Il no all'Italia multietnica non è nemmeno un proposito realizzabile. Perché è impossibile che il capo di un governo ignori una nozione tanto elementare, che non veda la direzione della storia e il dispiegarsi della cronaca. È una pura e semplice dichiarazione propagandistica che ha, molto probabilmente, il solo scopo di blandire la Lega. Vi sembrerà piccola cosa di fronte alla forza dell'evidenza, piccola e sciocca cosa. Eppure è così. D'altra parte la politica di questo governo sul tema immigrazione è segnata da dichiarazioni roboanti e «cattiviste» che si oppongono alla realtà. Un altro dato. Nel 2007 (governo Prodi) gli sbarchi di immigrati furono poco più di 20.000. Nel 2008 (governo Prodi, da maggio Berlusconi) quasi raddoppiarono: 37.000. Nei primi mesi di quest'anno (dati aggiornati allo scorso 22 aprile) sono raddoppiati rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Fermare le maree non è possibile. Si può, al massimo, abbaiare alla luna.
«Se torno indietro negli anni - dice Gemma Calabresi a Licia Pinelli, il presidente Napolitano fra loro - mi rendo conto che le nostre due famiglie sono state divise. Siamo stati tutti vittime della stagione dell'odio e del terrorismo. Ora non è più tempo di recriminazioni ma della memoria, che deve essere sgombra da sentimenti di rancore. Chissà, a volte l'uomo è schiavo di certi preconcetti e forse questo falso pudore del mondo che ci guarda ci ha portate a non incontrarci prima». «È stata una bella giornata», dice Licia Pinelli. «Forse incontrarci prima ci avrebbe aiutate a superare un dolore che è lo stesso», risponde Gemma Calabresi. C’era bisogno di questo tempo. Di invecchiare, sì. Di trovare alla fine del cammino la serenità e la saggezza per dire: si può.

Repubblica 10.5.09
Al mercato della paura
di Ilvo Diamanti


Ormai è impossibile affrontare il tema della "sicurezza" nel dibattito pubblico, ridotto a materia di propaganda politica. Sui giornali e in Parlamento.
Se ne parla per catturare il consenso dei cittadini, non per risolvere i problemi. Nel sostenerlo ci pare di scrivere lo stesso articolo. Un´altra volta. Eppure è difficile non tornare sull´argomento. Perché l´argomento ritorna, puntuale, al centro del dibattito politico. Come in questa fase, segnata dalle polemiche intorno al decreto sulla "sicurezza" (appunto). A proposito del quale Franceschini ha parlato di nuove "leggi razziali". Anche se gli aspetti più critici della legge sono stati esclusi dal testo. Ci riferiamo alla possibilità, offerta ai medici e ai pubblici funzionari (i presidi, per esempio), di denunciare i clandestini. Altre iniziative venate di razzismo invece, non riguardano il governo, ma singoli politici e amministratori locali. Come la proposta di segregare gli stranieri nei trasporti pubblici, a Milano. Assegnando loro posti e vagoni separati. Una provocazione, anche questa. Capace, però, di intercettare consensi, solo a evocarla. La Lega, su questa base, sta costruendo la sua campagna elettorale in vista delle prossime europee. Per conquistare consensi nel Nord, ma anche altrove. Presentandosi come il partito della sicurezza-bricolage, da perseguire in ogni modo. Anche l´imbarcazione carica di immigrati respinta dalla nostra Marina e consegnata alla Libia rientra in questa strategia politica e mediatica. Serve, cioè, come "annuncio". Esibisce la volontà determinata del governo, ma soprattutto del ministro dell´Interni e della Lega, di respingere l´invasione degli stranieri. Di rimandarli là dove sono partiti. Chissenefrega che fine faranno. Noi non possiamo accogliere i poveracci di tutto il mondo.
Gli alleati di centrodestra, in parte, approvano. In parte no. Comunque, non si possono dissociare, altrimenti la maggioranza si dissolve. E poi non vuole abbandonare l´argomento della paura dell´altro alla Lega. Così Berlusconi approva. Si adegua al linguaggio leghista e dice "no all´Italia multietnica". In aperta polemica con la "sinistra, che ha aperto le porte a tutti". (Anche se i flussi da quando è tornata al governo la destra sono raddoppiati). E la sinistra, chiamata in causa, si adegua: nel linguaggio e negli argomenti. Oppone alla retorica della cattiveria quella buonista (che, in assenza di alternative, preferisco). Denuncia il razzismo. Esorta all´integrazione. Senza, tuttavia, spiegare "come" realizzarla. Si appella all´indignazione della Chiesa (contro cui, peraltro, si indigna quando si occupa di etica). Così la "sicurezza" sfuma in una nebulosa che mixa immagini indistinte. Criminali piccoli e medi, immigrati, zingari, stranieri. Ridotti a slogan.
Un tema così importante (e critico) dovrebbe venire affrontato in modo co-operativo. Attraverso il confronto e la progettazione comune. Invece, è abbandonato al gioco delle parti. In balia degli interessi e degli imperativi immediati. La "fabbrica della sicurezza" (titolo di una bella ricerca curata da Fabrizio Battistelli e pubblicata da Franco Angeli), d´altronde, si scontra con il "mercato della paura". Il quale non limita la sua offerta all´ambito politico-elettorale, ma presenta una gamma di prodotti ampia e differenziata (come suggerisce una riflessione di Gianluigi Storti).
a) La paura, insieme all´in-sicurezza: è un format di largo seguito, sui media. Nei notiziari di informazione, nei programmi di "vita vera e vissuta", nelle trasmissioni di approfondimento. A ogni ora del giorno, in ogni canale, incontriamo uno stupro, un´aggressione, un omicidio, un delitto, una catastrofe. E poi fiction di genere, che primeggiano negli indici di ascolto. Sky ha dedicato due canali alle "scene del crimine". 24 ore su 24 dedicate alla "paura".
E´ significativa l´evoluzione (o forse la d-evoluzione) dei tipi sociali interpretati da Antonio Albanese. Attore e analista acuto del nostro tempo. Da Epifanio, il personaggio stralunato e naif (ricorda vagamente Prodi), proposto vent´anni fa, fino al "ministro della paura" (accanto al "sottosegretario all´angoscia") esibito ai nostri giorni.
b) La paura alimenta la domanda di autodifesa delle famiglie (come ha rilevato il rapporto Demos-Unipolis sul sentimento di insicurezza), che trasformano le case in bunker. Con porte blindate, vetri antisfondamento, sistemi di allarme sempre più sofisticati. All´esterno: recinzioni e cani mostruosi. In tasca e nei cassetti: armi per difesa personale.
c) Disseminati ovunque sistemi di osservazione, occhi elettronici che ci guardano. A ogni angolo. In ogni luogo. Mentre si diffondono poliziotti e polizie, ronde e servizi d´ordine. La sicurezza: affidata sempre più al privato e sempre meno al pubblico.
d) Intorno alla paura e all´insicurezza si è formata una molteplicità di figure professionali. Psicologi, psicanalisti, analisti, psicoterapeuti. E sociologi, criminologi, assistenti sociali. Operano in istituzioni, associazioni, studi. Nel pubblico, nel privato e nel privato-sociale.
e) Infine, come dimenticare la miriade di prodotti chimici al servizio della nostra angoscia? Occupano interi scaffali sempre più ampi, dentro a farmacie sempre più ampie. Supermarket dove il padiglione dedicato alla paura, di mese in mese, allarga lo spazio e l´offerta.
Per questo è difficile sconfiggere la paura e fabbricare la sicurezza. Perché la sicurezza è un bene durevole, che richiede un impegno di lungo periodo e di lunga durata. L´insicurezza, la paura, no. Sono beni ad alta deperibilità. Più li consumi più cresce la domanda. Garantiscono alti guadagni in breve tempo. Per costruire la sicurezza occorrerebbe agire con una visione lunga. Disporre di valori forti. Servirebbero attori politici e sociali disposti a lavorare insieme. In nome del "bene comune". Ispirati da una fede o almeno da un´ideologia provvidenziale. Pronti a investire sul futuro. Mentre ora domina il marketing. Trionfa il mercato della paura. Dove non esiste domani. È sempre oggi. È sempre campagna elettorale.
Che l´angoscia sia con noi.

Repubblica 10.5.09
L’allarme di Laura Boldrini, portavoce dell’Unhcr: non si possono respingere i profughi
L’Onu: rispettate il diritto d’asilo nei centri libici controlli difficili
"I migranti ci parlano del loro viaggio attraverso il deserto e verso l’Italia come di un inferno"
di Caterina Pasolini


ROMA - Lei, che di rifugiati si occupa per l´Alto Commissariato, che conosce i campi nel mondo dove vengono rinchiusi, è preoccupata. Misura le parole ma mette dei paletti Laura Boldrini, portavoce dell´Unhcr, l´agenzia Onu.
L´Italia non rispetta diritti e convenzioni?
«Respingere in Libia gli immigrati entra in rotta di collisione col diritto di asilo, così come è regolato da leggi nazionali, europee e internazionali. Esiste infatti il principio del non respingimento nel caso di gente bisognosa di protezione».
Il governo dice che sono clandestini.
«Non lo sono. Il più delle volte sono rifugiati e lo dimostra il fatto che la metà di quelli che arrivano a Lampedusa e chiede asilo lo ottiene dall´Italia dopo un accurato lavoro che vede la collaborazione di prefetti e dell´Unhcr in 15 commissioni. Ecco, vorremmo che si intensificasse la collaborazione che c´è sempre stata col governo italiano».
E la Libia?
«La Libia non ha firmato la convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati, non ha un sistema di asilo in linea con gli standard previsti e non possiamo entrare in tutti i centri di detenzione».
Quindi?
«Non siamo in grado di garantire la loro effettiva protezione se vengono rispediti in Libia, dove stiamo lavorando per avere un riconoscimento formale della nostra presenza potendo così entrare nei centri».
Cosa raccontano i richiedenti asilo?
«Parlano del loro viaggio attraverso il deserto, in Libia e verso l´Italia, come di un inferno, dove hanno subito trattamenti disumani, violenze, abusi. Soprattutto le donne. E quando sono nei centri di detenzione tutto è discrezionale, non hanno certezza del diritto né di quanto ci resteranno».
Che fare?
Visto che sono stati mandati in un paese che non ha firmato la convenzione di Ginevra, per l´Unhcr sarebbe importante che l´Italia ottenga dalla Libia delle rassicurazioni che le persone bisognose di protezione non verranno rimandate nei paesi di origine da cui sono fuggite a causa di persecuzione. In passato purtroppo ci sono state situazioni di questo genere e di alcuni non si è mai più saputo nulla».
Cosa dice l´Europa?
«Il diritto europeo in materia di asilo fa capo alla convenzione di Ginevra, al principio di non respingimento. La corte di Strasburgo per i diritti umani ha poi detto che non si può espellere persone verso paesi dove c´è il rischio che vengano torturate o siano oggetto di trattamenti degradanti. È questo vale anche quando si respinge».

Repubblica 10.5.09
Parla un immigrato nigeriano "respinto" con altri duecento sulle coste della Libia
Dalla prigione l´appello dei dannati "Ci trattano come bestie, salvateci"
Il presidente del Consiglio dei rifugiati: "Non ci autorizzano ad entrare nei centri"
di Francesco Viviano


LAMPEDUSA - «Due donne sono morte, sono morte poco dopo che siamo sbarcati a Tripoli dalle motovedette italiane. Erano sfinite, come tanti altri... Ci hanno lasciati sulla banchina, sotto il sole per ore e ore. E quelle due donne, trascinate sulla banchina, non ce l´hanno fatta. Altri due uomini sono in fin di vita. Aiutateci, veniteci a salvare, vi chiediamo di avere pietà. Ci sono altre donne e dei bambini, non lasciateci qui».
Il grido di dolore, di disperazione, arriva da una prigione libica, a Al Zawia, a pochi chilometri da Tripoli, dove da giovedì scorso si trovano rinchiusi decine di immigrati «respinti» dalle motovedette della Guardia di Finanza e dalla Guardia Costiera, che inizialmente li avevano soccorsi a bordo di tre barconi nel Canale di Sicilia. L´uomo che parla è un nigeriano, ha 22 anni, è con la moglie di 18 anni, che ha abortito dopo i giorni in mare e ora nella prigione libica. E tra le donne rispedite a Tripoli, due, come conferma Christopher Hein, presidente del Cir (Consiglio Internazionale per i Rifugiati) erano incinte.
«Una di loro - afferma Hein - era in gravi condizioni. Il rappresentante a Tripoli del Cir ha visto che è stata trasferita d´urgenza in un ospedale di Tripoli. Finora nessuno degli esponenti delle organizzazioni umanitarie ha avuto la possibilità di entrare nei centri e vedere cosa accade. Le autorità libiche non ci hanno concesso i permessi, le pratiche burocratiche sono lunghe e difficili. Sono seriamente preoccupato».
Ma come sono morte queste donne? Chiediamo al «prigioniero»: «Sono morte alcune ore dopo essere state lasciate sulla banchina insieme agli altri. I militari libici trascinavano le donne che erano prive di sensi per la stanchezza mentre altri, anche loro svenuti, venivano lasciati a terra senza nessuna assistenza. Adesso ci hanno ammassato in queste prigioni, stanno separando i cristiani dai musulmani e abbiamo molta paura. La polizia libica e quella italiana lavoravano insieme, gli italiani ci hanno salvati ma poi ci hanno lasciati a Tripoli».
Il caos che regna dentro la prigione arriva anche alle nostre orecchie, l´uomo parla tentando di non farsi vedere dai militari libici. «Sono cattivi qui, non ci danno da mangiare, ci trattano come animali. Stiamo soffrendo tutti, in questo momento ci sono due uomini privi di conoscenza a causa della grande fatica che abbiamo affrontato e delle botte dei poliziotti. Vi preghiamo: fate qualcosa. Fateci andare via da qui, qualsiasi posto va bene per noi, abbiamo bisogno di voi ora, stiamo soffrendo».
Spesso la conversazione telefonica è disturbata, cade la linea, riproviamo a chiamare e per fortuna il «prigioniero» ci risponde.
Il suo nome è contenuto nella lunga lista dei 238 (e non 223 come detto dalle fonti italiane) extracomunitari rispediti in Libia, quasi tutti nigeriani, etiopi, eritrei e somali. Ci dice che è nigeriano e che, come tutti gli altri, prima di arrivare in Libia ha fatto un lungo viaggio con la moglie. «Siamo stati in Libia tanto tempo, ci maltrattavano, e quando finalmente ci hanno concesso di partire l´abbiamo fatto, ma è stato tutto inutile. Molti di noi sono morti durante la traversata del deserto e quelli che sono sopravvissuti speravano di avere finalmente raggiunto l´Italia».
Il nostro interlocutore ci comunica che uomini e donne sono rinchiusi in prigioni separate. «Anche mia moglie è stata portata via, ho paura che possano farle del male come spesso è accaduto a tante donne che sono state in Libia. Molte di loro vengono violentate e restano anche incinte. Mia moglie l´ho sempre protetta, ma adesso è sola e non so cosa possa accadere. Vi supplichiamo, aiutateci, non ci abbandonate».
La conversazione con il «prigioniero» nigeriano si conclude con una frase paradossale: «Grazie - dice al cronista - e che Dio vi benedica».

Corriere della Sera Salute 10.5.09
Adesso i medici devono denunciare i clandestini
risponde Riccardo Renzi


Tra i miei amici ho anche alcuni extracomuni­tari, che sono per lo più in regola, ma che hanno a loro volta amici e congiunti che sono qui in Italia come 'clandestini'. Mi hanno chiesto se adesso possono o no andare in un ospedale pubblico a curarsi senza paura di essere denunciati. Io ho provato a seguire la questione, ma non ho ben ca­pito come è andata a finire.
M.V. Padova

Capisco che lei non abbia le idee chiare, perché la que­stione si è col tempo com­plicata e le notizie sono sta­te più volte contradditto­rie. In sostanza però il risul­tato è che oggi i medici, do­po l'approvazione del decre­to sicurezza, hanno l'obbli­go di denunciare i clandesti­ni che si rivolgono agli ospedali.
Lei ricorda giustamente che dopo le discussioni, le proteste e gli appelli, anche di molte organizzazioni me­diche, era stata fatta retro­marcia rispetto all’emenda­mento che aboliva l'esen­zione dei medici dal segna­lare gli irregolari alle autori­tà. Così infatti era avvenuto e il famoso comma non era stato toccato. Ma nel frat­tempo è stata varata una nuova legge di riferimento, nella quale è stato introdot­to il reato di clandestinità. A questo punto il medico che opera in una struttura pubblica, in quanto pubbli­co ufficiale, è costretto a se­gnalare un reato di cui vie­ne a conoscenza, in assenza di una specifica norma di esenzione. E siamo quindi tornati al punto di parten­za. I presidi-spia non sono passati, ma i medici-spia sì. E di nuovo è partito l'ap­pello di una decina di asso­ciazioni e sindacati medici al presidente della camera Fini perché intervenga di nuovo.
Delle eventuali conseguen­ze per la sicurezza sanitaria di una norma che allontani i clandestini dalle strutture mediche abbiamo parlato più volte. Credo che il re­cente allarme per l’epide­mia influenzale, anche se questa si sta rivelando più mite di quanto si temesse, dia un'idea di quello che può succedere. Ancor più significativo è quello che sta già succedendo: è stato segnalata (ma mancano da­ti certi) una diminuzione di accessi di clandestini negli ambulatori e negli ospeda­li, in seguito alle polemiche di questi mesi. Mentre, in un convegno tenutosi in settimana a Milano, è stato riferito che i casi di Tbc in città hanno un'incidenza superiore di tre volte alla media nazionale e che sette su dieci riguardano extraco­munitari. Che sarebbe me­glio tenere sotto controllo.

Repubblica 10.5.09
Le trame e i segreti della corte imperiale
di Eugenio Scalfari


È passata poco più d´una settimana da quando la signora Veronica Lario in Berlusconi ha rotto il velo del "Mulino bianco" collocato tra le ville di Arcore e Macherio, scatenando una "tempesta perfetta" registrata con ampiezza dai giornali e dalle televisioni di tutto il mondo. Viene in mente il "Truman Show", quel libro e quel film di grande successo che raccontarono qualche anno fa di un giovane scelto fin dalla nascita da una grande catena televisiva, protagonista a sua insaputa di un "reality" seguito da un immenso pubblico fino a quando la barriera che chiudeva lo spazio del "set" venne varcata e il giovane acquistò coscienza ed entrò finalmente nel mondo reale.
Qui è accaduto e sta accadendo qualche cosa di analogo con la differenza, certo non di poco conto, che il "reality" non è immaginario ma reale, è reale il protagonista che è il capo del governo ed è reale lo spazio in cui l´azione si svolge, i comprimari che lo circondano, i cortigiani, i ministri, il popolo. Tutto è tremendamente reale, eppure è nello stesso tempo immaginario, mediatico, politico. In Italia va dunque in scena un "Truman Show" e tutti noi ne siamo gli attori. Non so se riderne o disperarsene. Scegliete voi cari lettori.
Attorno a questa situazione a dir poco anomala si sono accese molte discussioni e sono emersi molti temi distinti uno dall´altro e tuttavia interdipendenti. Uno di questi riguarda il modo d´essere e per conseguenza il modo di vivere di Silvio Berlusconi.
Non è certo la prima volta che questo tema sale al centro dell´attenzione pubblica ma mai come in questo caso che ha mescolato la politica e il "corpo del re" al gossip più pruriginoso che coinvolge i rapporti tra il pubblico e il privato.
Il secondo tema riguarda il corpo delle donne, il rispetto che gli si deve e le offese che gli si recano nonché i modi con i quali lo si usa. "Mode d´emploi".
Il terzo tema riguarda la sensibilità (o l´insensibilità) dei cattolici, dei loro pastori, della Chiesa su questo complesso di questioni etiche e al tempo stesso politiche.
C´è poi il tema concernente gli effetti o i mancati effetti di queste vicende sulla pubblica opinione e sulle intenzioni di voto che ne derivano. Questa discussione mette anche in causa il ruolo dei "media", la loro oggettività e la loro faziosità.
I vari temi sono da tempo sotto esame da parte dei giornali e delle televisioni ma è nell´ultima settimana che la temperatura è salita e la tensione ha raggiunto il massimo.
Il pubblico è abbastanza frastornato e le posizioni si vanno rapidamente radicalizzando. Ma è anche vero che per la prima volta si è aperta una crepa nel muro fin qui compatto del consenso berlusconiano. La crepa è visibile ma è ancora presto per stabilirne la profondità. Se riguarda soltanto l´intonaco non avrà conseguenze sulla solidità dell´edificio. Oppure si estenderà intaccando le fondamenta, i muri maestri e il tetto. I sondaggi già effettuati a ridosso dei fatti non hanno ancora l´attendibilità necessaria per far capire la natura delle lesioni che quell´edificio ha subìto.
* * *
Comincio con un´osservazione che riguarda i rapporti tra la sfera pubblica e quella privata. Sulla "Stampa" di mercoledì Barbara Spinelli ha approfondito questo tema ed ha scritto: «Sarebbe bello se gli uomini politici appendessero all´attaccapanni tutte le loro questioni private prima di entrare nell´agorà della politica» ed ha aggiunto: «Si vorrebbe non saper nulla dell´uomo politico se non quel che riguarda il bene comune, nulla delle sue notti o delle sue vacanze, nulla delle sue barche, delle sue tribù parentali, nulla neanche del suo credere o non credere in Dio. La cosa pubblica sarebbe bello che fosse un piccolo lembo di terra dove l´umanità fa politica».
Cara Barbara, sarebbe bello? Una volta tanto non concordo con te, se non altro perché non è mai accaduto, neppure nella polis di Pericle, di Socrate, di Alcibiade. Non è mai accaduto nella storia antica e tanto meno in quella moderna. Soprattutto non è mai accaduto quando il potere raggiunge livelli di spinto autoritarismo o addirittura diventa potere assoluto.
In tempi di democrazia una sottile distanza tra pubblico e privato può sussistere, ma in regimi autoritari o assoluti quella tenda divisoria cade del tutto.
L´esempio più eloquente si ha guardando alla Francia del re Sole che dette il tono per 150 anni a tutte le corti d´Europa. Lo Stato era il re, proprietà e patrimonio del re, e così l´esercizio della giustizia e dell´amministrazione, la pace e la guerra. Nulla era privato nella vita del re, ogni suo gesto, ogni sua frequentazione, ogni suo attimo si svolgeva al cospetto del pubblico, a cominciare dal suo risveglio, delle sue funzioni corporali, del suo più intimo "nettoyage" cui era adibito un ciambellano di nobile famiglia che aveva il privilegio di "pulire il re".
Le amanti del re abitavano a corte e apparivano al braccio del sovrano senza alcuna mistificazione.
In tempi moderni qualche ipocrisia in più ha attenuato queste esibizioni ma non molto. Mussolini si esibiva a dorso nudo tra i contadini e i muratori, ma nascondeva Claretta nonostante si vivesse in tempi di potere assoluto. Voglio qui ricordare la battuta recente di Alessandra sua nipote: a chi gli domandava quali fossero le differenze tra suo nonno e Berlusconi in tema di frequentazioni femminili, ha risposto: «Mio nonno non ha mai fatto ministro la Petacci». In effetti la differenza è notevole, anzi è una delle materie del contendere e la si trova esplicitamente indicata nella dichiarazione all´agenzia Ansa di Veronica Lario.
* * *
Nella trasmissione di Bruno Vespa dedicata a Berlusconi e alla sua rottura con la moglie il titolo che campeggiava sul telone di fondo era: «Oggi parlo io». Infatti così è stato per oltre due ore, ha parlato soltanto lui anche se, oltre al conduttore come sempre abilissimo, c´erano tre "figuranti" nelle persone del direttore del "Corriere della Sera", del direttore del "Messaggero" e dell´estroso Sansonetti, già direttore di "Liberazione".
Sono amico di Ferruccio De Bortoli e ho stima di lui sicché uso con disagio la parola "figurante" ma non ne trovo altre più appropriate. La loquela berlusconiana ha letteralmente sommerso i tre colleghi. Il direttore del "Corriere" ha avuto soltanto la possibilità di raccomandare al premier maggior sobrietà nell´esercizio delle sue pubbliche funzioni, ma si è preso un rimbrotto immediato perché il Protagonista ha rivendicato il suo modo d´essere come un irrinunciabile esempio di democrazia popolare. Lui è fatto così e va preso così, dicono i suoi amici e ricordano la canzone da lui preferita nel suo repertorio canoro: «Je suis comme je suis» di Juliette Gréco, che lui canta spesso con molta grazia.
Per il resto i tre colleghi hanno ascoltato silenti il suo lunghissimo monologo. Forse sarebbe stato meglio se avessero rinunciato ad una presenza alquanto umiliante.
E´ andato così in scena un processo in contumacia contro la moglie Veronica di fronte a quattro milioni di spettatori. Lui ha negato tutti gli addebiti come a suo tempo fece Bill Clinton, fino a quando dovette smentirsi platealmente per evitare l'"impeachment".
Clinton aveva cominciato col negare qualsiasi rapporto sessuale con la stagista della Casa Bianca e continuò imperterrito a ripetere questa sua verità pur di fronte all´immenso clamore dei "media" di tutto il mondo. Il tambureggiamento dei giornali e delle televisioni durò a lungo; Clinton dovette ripetere le sue affermazioni di innocenza davanti ad un Grand Jury fino a quando Monica Lewinsky confidò la sua verità ad un´amica che vuotò il sacco con la stampa. A quel punto l´ipotesi d´un impeachment per aver mentito al congresso diventò incombente e Clinton confessò per evitare un giudizio che si sarebbe probabilmente risolto con la sua infamante rimozione dalla carica.
Confrontare le normative italiane in proposito con quelle americane sarebbe umiliante. Aggiungo soltanto che nella sua lettera all´Ansa la signora Berlusconi-Lario denuncia il clima di omertà che circonda e protegge le malefatte dell´ "imperatore". Ne abbiamo avuto una prova eloquente durante la trasmissione di Santoro con la prestazione dell´avvocato e deputato Niccolò Ghedini. Non avevo mai visto un avvocato difensore comportarsi non come un professionista libero anche se impegnato a proteggere gli interessi del suo cliente, ma come un servitore addestrato a picchiare mettendosi sotto i piedi la logica oltre che la verità.
Il vero spettacolo di quella trasmissione è stato lui, Niccolò Ghedini; nella sua doppia qualifica di avvocato di un solo cliente e di rappresentante del popolo e legislatore molto si è detto e scritto ma non abbastanza. E´ perfino peggio di Previti che nelle sue malefatte ostentava almeno una sua grandezza. Il suo più giovane collega sembra piuttosto un pretoriano, perfettamente appropriato all´aria di basso impero che circola con tutte le sue flatulenze nei palazzi del potere.
* * *
Un´altra osservazione che bisogna fare riguarda la ricattabilità: Berlusconi è una persona ricattabile perché nega alcune circostanze che sembrano evidenti e che sono a conoscenza diretta di altre persone. Queste persone sono state e saranno colmate di benefici, ma dei loro servizi egli non può disfarsi quand´anche lo volesse poiché sono al corrente di segreti piccoli o grandi che potrebbero offuscare o addirittura interrompere i suoi successi e il suo potere.
Spesso è accaduto che tra queste persone si verificassero contrasti e che la loro riservatezza fosse dunque a rischio. Finora il leader è riuscito a mediare, a conciliare, a tacitare, ma il rischio è ricorrente e spiega anche alcune vicende altrimenti incomprensibili.
Una di esse, la più recente, è l´amicizia tra il premier e Elio Letizia, padre di Noemi. Non si sa come sia nata quell´amicizia né quando, una spessa coltre di reticenza ne copre l´origine e la natura alla stregua di un vero e proprio segreto di Stato. Basta leggere o ascoltare le interviste del signor Letizia – personaggio con non lievi trascorsi penali – per rendersi conto di reticenze a dir poco inquietanti.
La stampa ha tra gli altri suoi compiti quello di controllare il potere e cercare la verità bucando il velo della reticenza. E´ dunque comprensibile anche se abominevole che la stampa sia una delle principali preoccupazioni di chi detiene il potere. Preoccupazioni "pelose" che si esercitano sulle proprietà dei giornali, sui direttori, sui giornalisti con compiti di rilievo. Gli editti di persecuzione contro giornalisti scomodi servono a metterli fuorigioco, i premi servono invece a favorirne la conversione.
Sarebbe impietoso farne l´elenco ed anche non necessario: basta infatti seguirne i percorsi e le carriere determinate dal Palazzo e gli effetti "deontologici" che ne derivano per averne contezza.
* * *
Questa fitta rete di premi, benefici, ricatti potenziali, lotte di potere, è stata messa in crisi da una donna, da una moglie, dalla sua denuncia pubblica, dall´assunzione di un rischio altissimo e personale.
La denuncia riguarda vizi pubblici e vizi privati che tuttavia costituiscono, come già detto, un contesto unico e non scindibile. Tutta la discussione sulle cosiddette veline assume, nelle parole di Veronica Lario, un significato preciso: la selezione distorta della classe dirigente, ormai interamente rimessa alle scelte capricciose dell´ "imperatore".
Lo scandalo non proviene dal reclutamento privilegiato nel mondo dello spettacolo né dall´età né dal sesso delle prescelte, ma dalla preparazione politica sulla quale purtroppo circolano idee improprie.
La politica come tutti la vorremmo ha come premessa una adeguata formazione culturale coltivata in famiglia, a scuola e con letture che contribuiscano a svegliare la fantasia e a far crescere coscienza, carattere e senso di responsabilità.
I giovani che acquisiscono questa preparazione culturale sentono talvolta dentro di loro una vocazione politica, il desiderio di occuparsi del bene comune e di rappresentare interessi legittimi e valori congeniali al loro modo di essere e di pensare. Il seguito è affidato alla capacità individuale, agli incontri, ai punti di riferimento che la società esprime e alla competitività individuale.
Questo è il solo modo adatto a selezionare i talenti politici. Va detto purtroppo che è caduto in disuso in un´epoca di portaborse e di "yes-men".
* * *
Resta da parlare dei cattolici, della Chiesa e delle reazioni che questa vicenda ha suscitato. Se fosse ancora tra noi Pietro Scoppola intervenire su questo tema gli spetterebbe di diritto: si tratta di etica, un valore che coinvolge in modi diversi ma egualmente intensi sia il pensiero laico sia il mondo cattolico, con in più per quest´ultimo che l´etica è strettamente intrecciata al sentimento religioso e quindi impedisce il cinismo dell´indifferenza o almeno così dovrebbe.
Per quel che emerge da alcuni segnali il mondo cattolico, o per esser più precisi il laicato cattolico, vive con molto disagio il paganesimo berlusconiano abbinato ad una «devozione» di natura commerciale agli interessi della Chiesa. Proprio perché questo disagio è forte ed esercita una pressione intensa nelle Comunità e negli Oratori, la Conferenza episcopale l´ha assunto come proprio e il suo giornale, l´ "Avvenire", ne ha dato conto.
Le reazioni della Santa Sede, manifestate tre giorni fa dal Segretario di Stato vaticano al plenipotenziario berlusconiano Gianni Letta, sono state invece di ben diversa natura. Si è raccomandata prudenza, maggior riserbo, abbassamento dei toni, offrendo in contropartita il silenzio della Santa Sede su quanto è accaduto. Il tema del possibile divorzio riguarderebbe un matrimonio civile e quindi non interessa la Chiesa. Semmai e paradossalmente quel divorzio sanerebbe lo strappo del primo divorzio, invalido per il diritto canonico poiché scioglieva un matrimonio celebrato religiosamente.
Un paradosso che riduce l´etica cattolica ad una ripugnante casistica, spiegata e condivisa da Francesco Cossiga che si era recato a solidarizzare col premier e poi, interrogato dai giornalisti, ha così risposto: «Alla Chiesa importa molto dei comportamenti privati, ma tra un devoto monogamo che contesta certe sue direttive ed uno sciupafemmine che le dà invece una mano concreta, la Chiesa dice bravo allo sciupafemmine. Sant´Ambrogio disse non a caso "Ecclesia casta et meretrix"».
Se è per questo, Dante disse assai di peggio. Era ghibellino e non si faceva certo intimidire.

il Riformista 10.5.09
Anche Karl Marx ingravidava la sua cameriera
di Luca Josi


Dopo quindici anni di gastroscopia giudiziaria cercare la dimensione penale di Berlusconi non più nell'aggettivo ma nel sostantivo fa un po' pena

Perché in America! Perché in America!
È tutto un dire che se fossimo un paese serio alcune cose mica passerebbero così sotto gamba. E le cose, appunto, sono quelle: il sesso.
È così buffo essere stati nel maggioritario della storia sempre dalla parte giusta, l'occidente, e ritrovarsi quelli che la pensavano all'opposto spiegarti come ci si comporterebbe oltreoceano. Però chi non voleva immaginare i cosacchi abbeverarsi alle fontane di San Pietro - noi - mica sperava di veder sgorgare dalle stesse Coca Cola.
L'America è una grandissima nazione alla quale il mondo occidentale deve dire, egoisticamente, grazie per la pace regalata; così come un italiano, garantista e riformista, deve onorare Berlusconi per la deriva implosiva scongiurata nei primi anni novanta.
Però, se si può scegliere, meglio copiarne i plus anziché i minus.
Esempi. Dopo una tirata di orecchie durata un ventennio: e il mercato americano di su, il mercato americano di giù, il mercato americano - che rimane il motore del mondo - ci ha spiegato che anche lì qualche problemino c'era. E la cronaca che è sempre gravida d'indizi un po' di tracce le aveva lasciate sul tappeto come quegli allucioni usciti dalle calze bucate di Paul Wolfowitz, presidente della Banca Mondiale, che togliendosi le scarpe per entrare in una moschea aveva chiarito lo stato finanziario più di quanto nessun analista o prodigioso giornalista d'inchiesta economica fosse riuscito a nascondere negli ultimi quindici anni. E il problema, evidentemente, non era la biancheria.
L'America, e quindi il mondo intero, rischiò poi l'impasse per un appuntamento orale tra un presidente, Clinton, e una sua stagista. Il suo accusatore però, Newt Gingrich, era contemporaneamente impegnato a consumare, nelle stesse ore, la sua relazione extraconiugale (che lo porterà al terzo matrimonio). Soffriva eticamente ma doveva combattere "il nemico dell'America normale". Un problema così esiziale, il sexgate, da non risparmiare lo stesso giudice.
Noi che di giudici d'onore non ce ne siamo risparmiati - come quello che in Tangentopoli se avesse incontrato sé stesso si sarebbe dovuto arrestare - ci domandiamo perché mischiare cose che starebbero bene lontane (per esempio l'ossimoro contemporaneo del "privato pubblico").
Delle idee morali e sessuali del chirurgo che ci trapianta il cuore sappiamo che c'interessa poco. A dire il vero anche dei sentimenti del proprietario di quel cuore. Chiediamo solo e valutiamo la moralità del prossimo nella sua competenza, nella gestione delle sue tecniche, nel rapporto che sta tra il suo impegno a mantenerci in vita e il risultato.
Questo dovrebbe valere per la politica e per le responsabilità con cui seleziona la classe dirigente.
Se io dunque non condivido quel metodo proverò a trarne vantaggio offrendo al mio elettorato un'alternativa che lui attende. Il mio vantaggio sarà nell'usare le sue debolezze per offrire qualcosa di migliore ma non saranno le sue debolezze a rendermi migliore. Un brocco non cambia la sua condizione perché inveisce verso i, presunti, difetti altrui. Non diventa migliore, più capace e talentuoso. Probabilmente brocco rimarrà e pure rancoroso.
Ma chi s'immaginava poi che la sinistra boccaccesca, goliardica, un po' erotica si sarebbe evoluta in questo movimento di abatini?
Scoprire in Berlusconi una galanteria endemica non implica il Pulitzer. Ha chiamato il suo popolo delle Libertà, non della Castità, in un paese che si divide spesso tra chi aspira a farsi gli affari suoi e chi gli affari tuoi.
Ma dopo quindici anni di gastroscopia giudiziaria cercare la sua dimensione penale non più nell'aggettivo ma nel sostantivo fa un po' pena.
Una sinistra che ha le idee chiarissime, beata lei, sulla disponibilità assoluta della vita (eutanasia) ma che le ha altrettanto chiare sull'indisponibilità di quella tua privata (intercettazioni e frequentazioni dopo lavorative). Che condanna le soap opera ma ne imbastisce una. Che parla al popolo ma non a quello "guappo". Che pretende, dagli altri, nei suoi tribunali mediatici quello che non domanda a sé. Tipo: uno che di mestiere fa il Savonarola delle frequentazioni altrui e poi passa le vacanze coi favoreggiatori dei mafiosi (s'è sbagliato); una che declama teatralmente la condanna delle tue infamie giovaniliste e a 18 anni frequentava maturi industriali a quattro ruote senza il consenso della di loro moglie; una che si scandalizza per l'uso della donna e poi ci piazza sul gluteo la testata del suo giornale; una che ha difeso pure le libertà dei criceti e poi si ferma di fronte a quelle di Arcore (dopo aver dimenticato, per realpolitik ministeriale, pure quelle dei cinesi); infine il sacerdote, il migliore di tutti - è adorazione sincera - che in gioventù discettava su come "la fellatio andasse sicuramente considerata di destra" (consegnando alla sinistra il cunnilinguus) per poi inventare le hostess del giornalismo.
Bene. Una domanda a questi fulmini dell'investigazione di denuncia: la spazzatura del rinascimento partenopeo l'abbiamo mancata perché stava nascosta tutta lì a Casoria?
PS: che la cosa fosse fallata e poco seria in origine lo ricordano i mentori. Il fondatore morale degli esageratori, Karl Marx, mentre si concentrava a scrivere su come emancipare le masse ingravidava Demuth Helene. Sua cameriera. Precaria.
luca@josi.it

il Riformista 10.5.09
Elogio dell'ipocrisia
Le donne del Cav. e quelle dell'Avv.
di Alberto Mingardi


Alla conta delle conquiste, l'Avvocato Agnelli forse sorpassa ancora il premier, forse no, forse sono pari. Ma c'è una differenza cruciale fra i due

Una società libera è una società ipocrita. Ci costringe a pensarci la grande soap opera nazionale. La libertà di noi tutti è basata in qualche misura su un senso di decoro, di autocensura, di comprensione dei giusti limiti che noi stessi dobbiamo imporre ai nostri comportamenti. Queste limitazioni non è neppure importante siano reali, realmente sentite come necessarie, frutto di scelta morale consapevole. Serve solo che siano esibite.
A Silvio Berlusconi, un po' di riservatezza avrebbe ampiamente risparmiato il "Veronicagate". C'è qualcuno che pensa veramente che "la signora" tenesse conto delle scappatelle, pronta a scattare in piedi come un grillo al raggiungimento della numero mille? In tutta evidenza, no. Dal visone di Francesca Dellera di cui racconta Brass, all'harem di Villa Certosa, Veronica era pienamente consapevole dell'uomo che ha sposato. Fra i due, c'era una sorta di contratto. Le beghine che le rimproverano: ma lo sapevi!, non sbagliano.
Epperò esiste sempre una misura che prima o poi si colma. Alla conta delle conquiste, l'Avvocato Agnelli forse sorpassa ancora il premier, forse no, forse sono pari. Ma c'è una differenza cruciale fra i due, che va oltre la tradizionale acquiescenza della stampa per il padrone charmant e il non trascurabile dettaglio che, pur non sapendo come e se Gianni "retribuisse" le sue, non si è mai sospettato lo facesse coi soldi nostri, mettendo loro a disposizione uno scranno parlamentare. La differenza sta nell'accortezza dell'Avvocato. Che non è eleganza dei comportamenti (come userebbe scrivere, per il nostro congenito servilismo di pennivendoli), ma riflesso di una, per quanto tenue, pressione sociale.
Il silenzio serve al bugiardo e al fedifrago per evitare di contraddirsi. Il Berlusconi che si trova ad applicare a Veronica l'eterno schema del "teorema" si smentisce non solo su date, luoghi, storie professionali degli "amici". Ma contraddice la risposta di comunicazione che aveva dato alla precedente sortita di Veronica: la festa del compleanno, le foto coi nipotini, la somministrazione al pubblico di un'immagine comunque imperniata sulla centralità degli affetti.
È ben vero che tutto questo a Berlusconi è probabile non costi niente. Gli varrà il voto ammirato dei galletti d'Italia, e la simmetrica complicità delle pollastre. All'italiano medio, non sembra neanche singolare che un premier si trovi a divorziare quand'è nel pieno delle sue funzioni. Pace. Se non fosse che è proprio questo il problema.
La sinistra ha posto per anni il tema del conflitto d'interessi adombrando un abuso di potere. Sbagliava: più la concentrazione di potere è visibile, più è facile per l'opinione pubblica vigilare sugli abusi. Quando l'opinione pubblica l'abuso lo ammette, lo tollera e ci ride su, c'è un problema, d'accordo, ma non sta nell'assenza di disciplina dei conflitti d'interessi.
No, il tema del conflitto d'interessi andava valorizzato in altro senso, facendo leva sul più banale e borghese degli argomenti: ci sono cose che non si fanno solo perché "non stanno bene". La vita pubblica non può prescindere da una centralità delle forme. Quelle forme meritano di essere onorate perché consentono una convivenza ordinata. Ci permettono di prevedere il comportamento dei nostri simili. Mantengono il discorso pubblico in un certo tracciato. Costituiscono il lascito più superficiale, ma non meno importante, di quella cosa che chiamiamo civiltà.
"Vizi privati, pubbliche virtù". L'argomento di Bernard de Mandeville era diverso: attività poco commendevoli di per sé, sono socialmente utili. Con Adam Smith, si arriva al desiderio d'arricchirsi del fornaio, che ci consente di avere il pane in tavola.
La questione non è quella. È che i vizi privati devono rimanere privati, e perché ciò avvenga serve che la società dosi riprovazione e tolleranza. Tolleranza per qualsiasi cosa un individuo faccia fra le quattro mura di casa sua. Riprovazione perché da quelle mura non esca. Si può dire che l'ipocrisia ogni tanto produce sofferenza. È vero. La liberazione sessuale ha reso la ricerca della felicità possibile per un numero maggiore di persone che in passato.
Nondimeno, alla conta delle libertà di letto, non è che ci siamo inventati nulla. Eminenti politici della prima repubblica hanno condotto per anni doppie vite silenziose. E qualsiasi perversione noi si possa immaginare, state certi che c'è qualcuno che l'ha praticata prima.
Il punto cruciale è che la storia di Berlusconi è quella di noi tutti. Meno telecamere uguale più libertà. E il non capire questo è conseguenza di un bisogno di esibizione, o di un'arroganza da monopolista della competizione politica, che comunque prepara da sé un futuro al contrario.
La nostra libertà è incardinata sulla distinzione fra pubblico e privato. Il rispetto del privato di tutti ne è insostituibile garanzia. Se perdiamo la nozione stessa di una sfera privata, se noi stessi ci mettiamo caparbiamente in piazza, se pensiamo di essere più forti delle convenzioni e di poterne fare a meno, non stiamo garantendoci una libertà maggiore. Le stiamo preparando la fossa. Perché titillando la pruderie del nostro vicino di casa, presto o tardi facciamo scattare meccanismi che, dall'invidia all'emulazione, ci priveranno di quello che è nostro. "Non desiderare la donna d'altri" è un comandamento mica per caso.
Le società libere si fondano su uno standard d'ipocrisia. La donna d'altri ce la si può anche fare, ma non sotto gli occhi del padre o del marito.

Corriere della Sera 10.5.09
Popolarità, non c’è l’«effetto Veronica»
di Renato Mannheimer


È passato un anno dall’insediamento del­l’esecutivo guidato da Berlusconi. Già da quel momento esso aveva ottenuto un grado di po­polarità particolarmente elevato, superiore a quello rilevabile per altri governi precedenti, incluso quello condotto dal Cavaliere nel 2005. Nei mesi successivi il consenso si accreb­be notevolmente, salvo subire poi una diminu­zione in occasione dell’insorgere della crisi e della discussione sulla manovra finanziaria. Si tratta di un trend che è stato nel passato comu­ne a tutti i governi, che sperimentano spesso un calo di popolarità dopo qualche tempo dal­l’avvio del loro operato. Ma, diversamente dai suoi predecessori e dall’esperienza di altre na­zioni, Berlusconi è riuscito successivamente a riprendere il favore dell’elettorato.
Guardando ai dodici mesi passati, grosso­modo metà dell’elettorato manifesta soddisfa­zione per l’operato del governo in questo peri­odo. Poco più di un terzo, invece, definisce quest’anno «un po’ deludente rispetto alle aspettative»: tra costoro vi è, com’era facile at­tendersi, la maggioranza di quanti avevano vo­tato per l’opposizione, ma anche circa il 16% degli elettori per il Pdl e Lega.
Se però si indaga il giudizio sugli ultimi me­si, la quota di consenso si accresce: il 56% esprime un giudizio positivo sull’operato del governo nel suo complesso: contano al riguar­do le azioni intraprese dopo il terremoto che, come si sa, hanno ottenuto l’approvazione an­che di una quota significativa dell’elettorato di opposizione. E anche la figura individuale del Cavaliere gode di un esteso consenso, pari al 54%. Il giudizio su Berlusconi è particolarmen­te positivo tra i più giovani, tra chi possiede un titolo di studio medio (mentre, com’è acca­duto anche in passato, la netta maggioranza — 65% — di laureati manifesta un orientamen­to critico) e nelle regioni meridionali. Ancora, apprezzano particolarmente l’azione del Cava­liere le casalinghe: ma anche la maggioranza di tutte le altre categorie professionali ne ap­prova l’operato. Colpisce, in particolare, il giu­dizio degli operai, tra i quali il consenso supe­ra il 56%.
Parrebbe dunque che gli ultimi avvenimen­ti che hanno riguardato Berlusconi e, in parti­colare, la vicenda del divorzio richiesto da Ve­ronica Lario, non abbiano influito granché sul livello della sua popolarità. Chi aveva un giudi­zio negativo lo ha ribadito e in certi casi — grossomodo il 30% dei critici — accentuato. E chi invece esprimeva una valutazione positiva non pare averla mutata di molto. Lo prova an­che il fatto che il 77% dell’elettorato dichiara che le recenti vicende personali di Berlusconi non hanno mutato il giudizio — positivo o ne­gativo — già maturato sul conto del leader. Questa posizione è più elevata tra i giovani e tra chi risiede al Nord ed è solo poco meno condivisa (76%) dall’elettorato cattolico. È ve­ro che quasi il 20% dell’elettorato dichiara di avere peggiorato il proprio giudizio su Berlu­sconi. Ma il 90% di costoro aveva già un’opinio­ne negativa del Cavaliere. L’impatto sfavorevo­le pare quindi assai contenuto.
Insomma, ancora una volta, nel nostro Pae­se — e diversamente da altrove — la vita per­sonale di un politico incide poco significativa­mente sul suo consenso. D’altra parte, quasi metà (44%) dell’elettorato italiano ritiene che «un politico può avere anche una vita privata non esemplare: l’importante è che svolga be­ne il proprio lavoro».

Corriere della Sera 10.5.09
Cento giovani ai corsi di formazione di FareFuturo e Italianieuropei. E la Camera lancia lezioni di «patriottismo costituzionale»
«Summer school» comuni per le fondazioni di Fini e D’Alema
di Maria Teresa Meli


ROMA — Chissà cosa di­ranno nel centrodestra delle prossime iniziative di FareFu­turo, la fondazione di Gian­franco Fini. Dopo i molti esercizi di dietrologia e le tante polemiche suscitate perché il web-magazine di questa associazione ha attac­cato il velinismo, le veline e una certa prassi politica ber­lusconiana, sicuramente le prossime mosse di FareFutu­ro non passeranno inosserva­te nel Pdl.
Quali che saranno le rea­zioni, comunque il presiden­te della Camera non sembra avere nessuna intenzione di tirarsi indietro e di mettere il guinzaglio al gruppo di intel­lettuali a lui vicini che fa par­te di questa associazione. An­zi, è stato lo stesso Fini a sol­lecitare l’attuazione di due nuovi progetti da condurre insieme a Italianieuropei di Massimo D’Alema.
Del resto, già lo scorso an­no ad Asolo le due fondazio­ni avevano collaborato a un seminario di studio sulle ri­forme istituzionali ed eletto­rali. In quell’occasione il pre­sidente della Camera e l’ex ministro degli Esteri aveva­no trovato più di un punto di contatto su questo terreno e avevano prefigurato un per­corso comune tra maggioran­za e opposizione per ripren­dere in mano queste delicate e annose questioni. Il che aveva scatenato le ire di una parte del centrodestra e pro­vocato l’altolà del capogrup­po del Pdl Fabrizio Cicchitto. Ora è probabile che vi sarà un bis di polemiche. Una pri­ma iniziativa, promossa dal­la presidenza stessa della Ca­mera, e che coinvolge anche altre fondazioni oltre a Fare­Futuro e Italianieuropei, con­siste in una serie di corsi di quel che Fini definisce «pa­triottismo costituzionale» a cui parteciperanno studenti italiani e immigrati di nuova generazione. E’ un modo, spiega Andrea Peruzy di Ita­lianieuropei, «per far cono­scere e studiare ai giovani la nostra Carta costituzionale». Ossia quella Carta che la Le­ga e l’ala forzista del Popolo delle Libertà vogliono assolu­tamente cambiare.
Non si tratta, quindi, di un argomento casuale, come non è casuale l’idea di coin­volgere in questo progetto gli immigrati. Ancora una volta Gianfranco Fini si smar­ca e prosegue un percorso politico e culturale che lo porta a differenziarsi sempre di più dalla maggioranza.
Ma è alle viste anche un’al­tra iniziativa. Questa volta a portarla avanti saranno solo le fondazioni di Massimo D’Alema e del presidente del­la Camera. Italianieuropei e FareFuturo istituiranno una sorta di «Summer school» per tenere dei corsi di forma­zione politica. Vi parteciperanno un centi­naio di studenti, cinquanta verranno scelti dalla fonda­zione di D’Alema e cinquan­ta da quella di Fini. Infatti, dopo l’esperienza di Asolo, le due associazioni hanno pensato di continuare la col­laborazione. Fini e D’Alema hanno deciso di «avere an­nualmente » appuntamenti di questo tipo, per permette­re ai giovani, ha spiegato l’ex ministro degli Esteri, «di di­scutere insieme a studiosi e politici dei problemi del Pae­se e della realtà internaziona­le ». E sicuramente la rinnova­ta intesa tra le due fondazio­ni farà discutere il centrode­stra.

Corriere della Sera 10.5.09
Saggi e proposte parlamentari a trent’anni dalle norme che chiusero i manicomi
Il dibattito. Dimensione sanitaria e disagio sociale: come è cambiato l’approccio alla malattia mentale
Così è stato tradito Basaglia: successi (e lacune) di una legge
Accuse ideologiche, rivalità personali, carenze nell’applicazione
Claudio Magris, un dibattito con Michele Zanetti e Gilberto Corbellini


Michele Zanetti e Francesco Parmegiani sono gli autori di Basaglia. Una biografia (Lint Editoriale, pagine 137, e 16,90), viaggio nella vita privata e pubblica di Franco Basaglia e nella rivoluzione della cosiddetta antipsichiatria. Gilberto Corbellini e Giovanni Jervis hanno invece pubblicato La razionalità negata (Bollati Boringhieri, pagine 174, e 12): una analisi delle conseguenze sociali e sanitarie della legge 180 affrontata da uno psichiatra e da uno storico della medicina.

Michele Zanetti: È stata una costante sfida su molti fronti: politico, amministrativo, giudiziario. Ma soprattutto è stata una sfida culturale
Gilberto Corbellini: Ho cercato di dimostrare che i difetti della legge 180 dipendevano dall’influenza nefasta dell’ideologia antipsichiatrica del decennio precedente

1978. La legge 180 del 13 maggio 1978, nota come legge Basaglia, è la normativa quadro che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio
1979. Dal 1971 al 1979 Franco Basaglia diresse l’ospedale psichiatrico triestino di San Giovanni, un’esperienza chiave per l’elaborazione delle nuove teorie sul disagio mentale

Lo psichiatra. Franco Basaglia (1924-1980)— laurea in medicina nel 1949, specializzazione in malattie nervose e mentali a Padova, studi sui classici dell’esistenziali­smo, Sartre, Maurice Merleau-Ponty, Husserl e Heidegger— è autore di decine di articoli scientifici e saggi. Tra questi: Che cos’è la psichiatria?, L’istituzione negata (entrambi Einaudi e poi Baldini Castoldi Dalai), Conferenze brasiliane (Raffaello Cortina) e il volume fotografico Morire di classe

«Da dentro il giardino di San Gio­vanni si poteva leggere il mon­do; con quella lettura qualcosa è cambiato». Così scrive Fran­co Rotelli, attualmente direttore generale della ASS n. 1 a Trieste e a suo tempo successore di Franco Basaglia alla direzione dell’ospedale psi­chiatrico triestino di San Giovanni, in cui è ma­turata l’esperienza che ha cambiato radicalmen­te l’atteggiamento dinanzi alla malattia mentale e all’istituzione manicomiale, realizzando nel 1978 la legge 180 che poneva fine a quest’ultima — la cosiddetta legge Basaglia, dal nome del suo carismatico promotore — e riconoscendo finalmente i malati psichici come persone a pie­no titolo, persone in difficoltà, anche assai gra­vi, ma nella pienezza della dignità umana.
La legge 180 non proclama che i malati men­tali sono guariti o non esistono, bensì semplice­mente che essi sono cittadini da tutelare al pari di tutti gli altri; anche da punire, se compiono reati, come si punisce un malato di cancro se ruba, ma da considerare sempre e comunque uomini. Si tratta di una fondamentale conqui­sta civile, che estende il riconoscimento della di­gnità umana a una categoria di persone cui si tendeva a negarlo: mentre non si è mai conside­rato un uomo sofferente di cuore o di tubercolo­si un mero caso di cardiopatia o di tbc, bensì un uomo, un malato di schizofrenia è stato spesso percepito unicamente come uno schizofrenico, quasi fosse soltanto la mostruosa e astratta in­carnazione di una malattia anziché un indivi­duo colpito da una malattia. Non a caso il lin­guaggio, prima spia della violenza, ha visto usa­re quali ingiurie tanti termini che definiscono dolorose malattie psichiche.
Esposti, perlomeno in alcuni ospedali, anche a condizioni innominabili e a violenze, i malati erano spesso esclusi dalla pietà, dalla considera­zione, quasi non appartenessero alla condizio­ne umana; il manicomio, quale istituzione tota­le e chiusa, sembrava funzionare non tanto per curarli quanto per segregarli dalla società uma­na, di cui ogni uomo, sino alla morte, fa parte. Scattava in tal modo un meccanismo sociale di esclusione pure nei confronti di forme di disa­gio, di emarginazione, di diversità, di comporta­menti bizzarri ancorché inoffensivi ma difformi dalla convenzionale normalità sociale.
Così finivano magari in manicomio asociali stravaganti anche se innocui come quello che pochi giorni fa, in una farmacia, mi ha fatto giu­stamente anche se inopinatamente notare che la mia borsa di finta pelle nera scalcagnata gli dava fastidio. Nell’Unione Sovietica, peraltro, vi finivano molti dissidenti, ben più sani di mente dei loro carcerieri.
Non è stata certo solo la scuola basagliana, co­me alcuni suoi settari esponenti hanno talora presuntuosamente preteso, ad operare per il re­ale bene del malato di mente, ma fondamentale è stata la direzione di Franco Basaglia, dal 1971 al 1979, all’ospedale psichiatrico triestino di San Giovanni, ora diretto da un altro medico del suo gruppo, Peppe Dell’Acqua. Assai rilevante era stata la precedente attività di Basaglia a Gorizia, dal 1963 al 1968, mentre il periodo intermedio da lui passato all’ospedale di Colorno era stato meno fecondo, anche per la scarsa comprensio­ne dell’amministrazione provinciale, allora co­munista.
A Trieste, Basaglia e la sua équipe hanno tro­vato un appassionato e totale sostegno in un’amministrazione democristiana di centrosi­nistra o meglio nel suo presidente, Michele Za­netti, anomalo politico di coraggiosa intrapren­denza, a suo tempo creativo presidente della provincia e poi del porto; vero coprotagonista, più ancora di quanto gli venga riconosciuto, del­la legge 180 e delle battaglie e difficoltà che l’hanno accompagnata e in cui si è impegnato a fondo, pagando il prezzo di una successiva emarginazione dalla vita politica triestina, da lui accolta senza batter ciglio.
A lui, che insieme con Francesco Parmegiani ha scritto di recente una biografia di Basaglia, chiedo cos’abbia significato, per un amministra­tore, l’esperienza basagliana a Trieste; quali ostacoli, quali problemi, quali errori hanno ac­compagnato quest’avventura.
Michele Zanetti — «È stata una costante sfi­da su molti fronti: da quello più propriamente politico (non è stato facile ottenere un consen­so sufficiente) a quello di un’opinione pubblica e di una stampa alle quali si chiedeva un cam­bio di cultura; da quello più strettamente ammi­nistrativo (dove si è imposto un radicale muta­mento di prassi amministrative — non solo sa­nitarie — e di regolamenti) a quello giudiziario (in quanto i malati, a mano a mano che veniva­no riabilitati, venivano consensualmente sottrat­ti al controllo tutorio del competente Ufficio del­la Procura). Sfida pure sul fronte culturale: è gra­zie al rapporto con l’Organizzazione mondiale della sanità e con una cultura internazionale non soltanto sanitaria che si è potuto reggere ai molti attacchi alla riforma. Non dubito ci siano stati errori e non ho condiviso tutte le scelte di Basaglia, ma mai è venuto a mancare l’impegno totale per realizzare gli obiettivi concordati, in una leale amicizia».
Claudio Magris — Oggi esistono in Parla­mento due progetti di revisione della legge 180 e di recente si sono levate voci aspramente criti­che nei suoi confronti, che accusano i basaglia­ni di aver trascurato l’aspetto scientifico e di aver ridotto ideologicamente la malattia menta­le a cause sociali.
Ma Basaglia non ha mai negato — come erroneamente gli si rinfaccia e come hanno occasionalmente fatto alcuni suoi vacui e improvvisati seguaci — la realtà clinica della malattia mentale; ha respinto l’«antipsichiatria» (si veda per esempio pagina 358 del II volume dei suoi scrit­ti editi da Einaudi) e non ha mai ridotto la malat­tia mentale a mero effetto dell’emarginazione sociale. Ha solo sottolineato che, come per un cardiopatico abitare al decimo piano di una ca­sa senz’ascensore è un fattore che incide sulla sua malattia, la situazione esistenziale, sociale, affettiva di un malato mentale incide sulla sua condizione. Il che non significa affatto sottova­lutare la scienza medica.
Tra le dure critiche alla legge 180 c’è il libro di Gilberto Corbellini e Giovanni Jervis, La raziona­lità negata (Bollati Boringhieri). Tuttavia, chie­do al professor Corbellini, in un suo articolo del 2 marzo sul «Sole 24Ore», lei scrive che «la leg­ge 180 era una legge quadro, che lasciava alle Regioni di organizzarne l’applicazione. Ma men­tre alcune Regioni, soprattutto nel Nord del Pae­se, hanno applicato efficacemente i principi ge­nerali, altre li hanno disattesi, scaricando sulle famiglie un carico ulteriore di disagi». Dunque non è la legge 180 in sé da criticare, bensì — come fanno i suoi stessi sostenitori — la sua ca­rente applicazione, che spesso abbandona il ma­lato alla famiglia, la quale non solo non è ade­guata a sostenerlo, ma talora è stata magari, an­che solo parzialmente, all’origine dei suoi disa­gi.
Gilberto Corbellini — «Il libro scritto con Jervis non è tanto una critica alla legge 180, di cui nondimeno analizziamo dettagliatamente, riportando e interpretando tutti i dati epidemio­logici disponibili, l’impatto sanitario. Il nostro scopo era di mostrare che i difetti di quella leg­ge dipendevano dall’influenza culturale, a no­stro parere nefasta, che l’ideo­logia antipsichiatrica aveva avuto durante il decennio pre­cedente nel creare una diffusa percezione della malattia men­tale come un problema non medico ma sociale e politico.
Inoltre abbiamo voluto docu­mentare che gli aspetti positivi della legge non dipendevano da coloro che ne rivendicavano e ne continuano a rivendicare politicamente la paternità. Alcune manifestazioni di pura intolleranza nei riguardi del nostro libro, cioè nessuna critica argomenta­ta ma solo scomuniche e insulti da parte di qual­che sopravvissuto della setta basagliana, confer­mano che le nostre tesi non sono campate in aria. Aggiungo che dal nostro libro il lavoro, la statura intellettuale e le qualità personali di Ba­saglia, storicamente contestualizzate, emergo­no anche in positivo».
Claudio Magris — Dal giardino della follia, come ha scritto così intensamente Rotelli, si leg­ge il mondo, la sua verità e la sua distorsione, la vita nelle sue contraddizioni. Nella vostra bio­grafia di Basaglia, chiedo a Michele Zanetti, non nascondete i momenti critici di quell’esperien­za. Fra questi limiti, credo vi fosse, in alcuni dei suoi seguaci, la presunzione di essere gli unici depositari della verità psichiatrica, tendente a ri­durre il dibattito a una schematica contrapposi­zione tra basagliani e antibasagliani escludendo altre stimolanti e creative posizioni. Ma Basa­glia era l’opposto di tale dogmatismo da assem­blea pulsionale, con la sua generosità calda e fantasiosa, la sua fanciullesca e amabile capaci­tà di ridere anche di se stesso, la sua incredibile disponibilità ad aiutare chiunque. Non a caso, e va ricordato a suo onore, Basaglia è stato quasi malmenato dalle teste calde e vuote di Nuova autonomia, «radicali di sinistra» alcuni dei qua­li sarebbero coerentemente divenuti di lì a poco reazionari, che vedevano in lui il riformatore— e dunque un sostegno — del nostro mondo e non il suo distruttore. Anche la legge 180 — hai detto — è frutto del suo tempo e dunque potrà e dovrà essere corretta e migliorata. In che sen­so?
Michele Zanetti — «Va pregiudizialmente af­fermato che non vanno cambiati i due fonda­menti della legge: il riconoscimento dei diritti di cittadinanza alle persone gravate da disturbo psichico e il rifiuto del manicomio quale 'cura' della malattia mentale. Nei confronti di persone sofferenti non vanno mai ammesse l’esclusione, la segregazione e la violenza, che ogni manico­mio produce di per sé anche se non pratica l’elettrochoc o la lobotomia. Ciò che si è fatto a Trieste è in realtà molto sem­plice, anche se non è stato faci­le: si è dimostrato concretamente — in maniera pragmatica e non ideologica — che con un uso non assolutizzante delle tecniche disponibili (farmacologiche, psicologiche), con interventi di sostegno sociale sul lavoro e sulla comunità di appartenenza dei soggetti deboli e a rischio, con servizi territoriali a costo sostenibile aperti 24 ore su 24, si possono prevenire e comunque ridurre le crisi e si può curare il malato. La leg­ge 180 può e deve essere corretta perché ancora oggi ci sono varie zone, anche nelle regioni giu­dicate tra le più avanzate in materia sanitaria, dove non ci sono servizi accessibili di giorno e di notte, come se la crisi ovvero il disagio psichi­co dovesse rispettare un orario di apertura. C’è il pericolo che si vogliano aprire nuovi servizi segreganti, anche privati, che ridarebbero a qualcuno, come in passato, la possibilità di lu­crare alle spalle delle famiglie, che nella condivi­sione della sofferenza dei loro cari meritano ri­spetto e sostegno, mai però a prezzo della liber­tà e della dignità del malato».

Repubblica 10.5.09
Pio XII e le spie di Hitler
La paura di rompere col Führer
L’odio-amore per la Germania, l’orrore del comunismo, il silenzio sull’Olocausto. Ecco Papa Pacelli raccontato al Führer
di Marco Politi


"È ostile al nazismo ma ama la Germania". "Non tollera sterilizzazione ed eutanasia ma non può inimicarsi il Reich" Dagli archivi britannici ecco i rapporti degli agenti di Berlino su Papa Pacelli. Un uomo che non prese mai posizione perché ossessionato dal suo unico vero nemico: il "pericolo mondiale del bolscevismo"

Pio XII raccontato al Führer. Dalle carte segrete del Reich (trasportate in fotocopia negli archivi britannici dopo la sconfitta della Germania nel 1945) emerge tutta la complessità della figura di papa Pacelli negli anni cruciali della Seconda guerra mondiale. La sua avversione al nazismo, il suo amore per la Germania, il suo «non prendere posizione» tra le parti in conflitto, lo stile accentratore di governo, l´orrore per il comunismo. Fa impressione seguire nella documentazione del Terzo Reich le tracce dell´ostilità di fondo di Pacelli al regime nazista. A Berlino non si fanno illusioni fin dall´elezione di Pio XII il 2 marzo 1939. Data la «nota posizione dell´allora cardinale Pacelli nei confronti della Germania e del movimento nazionalsocialista» il Protocollo suggerisce che Hitler faccia pervenire auguri «corretti, ma non particolarmente calorosi». Un promemoria del 3 marzo, pur rilevando l´atteggiamento filotedesco di Pacelli, sottolinea che quale «fautore di una politica ecclesiastica ortodossa (Pacelli) si è posto ripetutamente in una contrapposizione di principio con il Nazionalsocialismo».
Nel 1940 i nazisti si lamentano che la prima enciclica Summi pontificatus e il discorso di Natale del 1939 contengano «pur nella forma di frasi generiche, chiari attacchi alla Germania». In un lungo rapporto di decine di pagine, redatto dall´ambasciata tedesca presso la Santa Sede a Roma il 29 settembre 1942 e intitolato significativamente Il Vaticano nella guerra, è scritto testualmente che «esistono sufficienti motivi (per affermare) che il Papa rispetto alla Germania nazionalsocialista nutre la stessa diffidenza e quasi la stessa repulsione (che prova) nei confronti del regime sovietico». Nella Curia, prosegue il rapporto, «si manifesta apertamente l´ostilità verso la Germania, mentre non si può negare al Papa comprensione e simpatia nei confronti del popolo tedesco, che egli distingue dal regime nazionalsocialista». I capi d´accusa che vengono rivolti al nazismo nei «circoli vaticani» - continua il rapporto - riguardano specificamente: «1) il trattamento della Polonia, 2) il trattamento degli ebrei, recentemente soprattutto in Francia, 3) la nomina di Alfred Rosenberg come commissario del Reich nelle terre orientali».
Dalla documentazione provvista del timbro Geheime Reichssache (Affari segreti del Reich), che Mario Josè Cereghino è andato pazientemente a ritrovare negli archivi di Kew Gardens, risulta dunque tutt´altro che un «Papa di Hitler» come suggerito dal titolo celebre e fuorviante di un libro pubblicato qualche anno fa. Definire così Pacelli è falso. Ancora sul finire della guerra lo stesso capo dei servizi segreti nazisti, Ernst Kaltenbrunner, giustiziato dopo il processo di Norimberga, informa il ministero degli Esteri che «certi "crimini" dei nazisti, come sterilizzazione ed eutanasia, rendono difficile al Papa un avvicinamento al nazionalsocialismo». Crimini, nel rapporto di Kaltenbrunner, è scritto tra virgolette e tutto il ragionamento è messo in bocca a un informatore non nominato, che riferisce un discorso dell´arcivescovo di Friburgo Groeber. Ma la sostanza è chiara.
Come spiegare allora il divampare delle polemiche nel dopoguerra sul "silenzio" di Pio XII? È un altro aspetto della sua personalità. Sicuramente Pacelli dopo la sua elezione lascia cadere vari progetti messi allo studio durante il pontificato di Pio XI come una condanna globale di razzismo e totalitarismo, elaborata dal Sant´Uffizio, o l´idea di un´enciclica contro l´antisemitismo, commissionata poco prima di morire al gesuita americano John La Farge. Pur nelle sue oscillazioni Pio XI ha capito che lo scontro con il nazismo non è un normale conflitto tra Chiesa e Stato, ma investe in una dimensione fuori dall´ordinario visioni del mondo e dell´uomo inconciliabili e quindi richiede un atteggiamento profetico. Papa Pacelli si ritrae dinanzi a questa prospettiva. Resta aggrappato al duello diplomatico, non capendo o non volendo capire che non basta. Teme soprattutto per la sopravvivenza del concordato in Germania, teme che dopo una denuncia frontale del nazismo possa capitare il «peggio», non vuole far prendere alla Santa Sede posizione per una delle parti in guerra. Così fino alla fine, pur angosciato per la persecuzione antiebraica, non nominerà mai esplicitamente né la vittima, gli ebrei, né il carnefice nazista. Il «silenzio» sta qui. Lui stesso ne è consapevole. In piena guerra chiede al nunzio Roncalli (futuro papa Giovanni XXIII) se «il suo silenzio circa il contegno del nazismo non è giudicato male».
Gli uomini di Hitler registrano accuratamente le differenze fra Pio XI e papa Pacelli. Il promemoria del 3 marzo 1939 precisa che «non si attribuisce a Pacelli un coinvolgimento nella politica di violenza di Pio XI, specialmente nei discorsi particolarmente ostili di questo papa. Al contrario si è sforzato più volte di cercare compromessi e ha espresso alla nostra ambasciata il desiderio di rapporti amichevoli». Politica di violenza nella terminologia nazista sono gli attacchi di Pio XI al regime hitleriano.
Ancora nel 1940 un memorandum (a firma Woermann) preparato per il ministro degli Esteri Ribbentropp sottolinea che il Vaticano sotto Pio XI ha «agito molto per impedire la comprensione dei cattolici tedeschi, specie del clero, nei confronti delle esigenze del nazionalsocialismo». Il 9 gennaio dello stesso anno l´ambasciatore tedesco presso la Santa Sede Bergen scrive a Berlino che «se vivesse ancora il Papa precedente, si sarebbe manifestata nelle condizioni attuali una posizione papale ben diversa: per noi sfavorevole e scomoda. Pio XI senza dubbio avrebbe ceduto agli influssi delle potenze nemiche (gli Alleati, ndr) e specialmente dei polacchi».
Il concordato, prima la sua firma con il Reich, poi la sua difesa come base giuridica per l´attività della Chiesa cattolica tedesca è una delle ossessioni di Pio XII, preoccupatissimo all´idea di «rompere» per primo con Hitler. Il Papa anela alla «pace tra Chiesa e Stato» nella Germania nazista (telegramma a Berlino dell´ambasciatore Bergen del 4 marzo 1939) e «ringrazia sentitamente e profondamente il Führer e Cancelliere del Reich» per i suoi auguri dopo l´elezione papale, esprimendo «i suoi auguri più sinceri per il benessere del popolo tedesco». Anzi all´ambasciatore Bergen Pio XII fa sapere che il Führer è stato il primo capo di Stato a cui ha comunicato la sua elezione (telegramma di Bergen del 18 marzo successivo). Eppure proprio il memorandum Woermann (ad uso interno) rivela senza ombra di dubbio la posizione delle autorità naziste: «Noi consideriamo interiormente superati il concordato con il Vaticano del 1933 e i concordati firmati dal Vaticano con la Baviera (1924), la Prussia (1929) e Baden (1932)».
L´intenzione di mantenersi al di sopra delle parti nel conflitto mondiale tra nazismo e Alleati finirà per diventare l´handicap maggiore di Pio XII. Già la relazione dell´ambasciatore Bergen del 9 gennaio 1940 sottolinea che «come da noi riferito ripetutamente (il Papa), nonostante le esistenti tensioni tedesco-vaticane, è puntigliosamente attento a non prendere in qualche modo posizione contro la Germania. Per lui è importante rimanere al di sopra delle parti». Nel rapporto Il Vaticano nella guerra (1942), che a Berlino giudicano «eccellente», si legge precisamente: «Il motto di Pio XII "Non prendiamo posizione" vale oggi più che mai. Il Papa e la Curia sono consapevoli che attualmente il Vaticano, stante la sua reciproca dipendenza da entrambi i gruppi in guerra, non può prendere nessuna decisione definitiva, se non a prezzo di provocare gravi crisi interne alla Chiesa. Perciò le encicliche e le altre dichiarazioni pubbliche di Pio XII sono di una quasi inarrivabile vaghezza. In realtà il Papa attuale è praticamente predestinato a una prudente politica di equilibrio, dettatagli dalle circostanze». Sul piano personale si attribuisce, peraltro, a Pacelli un «amore-odio» verso la Germania.
A partire dal 1942 cresce in Pio XII la preoccupazione e l´angoscia per il ruolo dell´Urss e l´espansione del «bolscevismo». Fra i documenti riportati da Mario Josè Cereghino è di estremo interesse la comunicazione segreta del capo dei servizi di sicurezza hitleriani Kaltenbrunner al ministro degli Esteri Ribbentropp. Basato sul resoconto di un informatore nazista, che conosce il Papa dagli anni Trenta quando Pacelli era nunzio a Monaco di Baviera e Berlino e che si è fermato con lui a colloquio per un´ora nel novembre del 1943, il documento evoca la paura del pontefice nei confronti del «pericolo mondiale del bolscevismo». Pio XII - afferma l´informatore - «ha lasciato trasparire che attualmente soltanto il nazionalsocialismo rappresenta un baluardo contro il bolscevismo». E tuttavia anche in questa occasione il Papa manifesta diffidenza nei confronti del regime. Quanto all´Urss Pio XII considera «l´insediamento del patriarca (ortodosso) Sergio semplicemente una mossa abile di Stalin». Il Papa, prosegue il documento, «nutre una diffidenza straordinariamente profonda nei confronti della sincerità di Stalin, di cui non crede a nessuna parola».
L´informativa contiene riferimenti importanti alla situazione italiana. «Il Papa respinge decisamente (l´opinione) che lui stesso o la Santa Sede abbiano contribuito attivamente o passivamente alla caduta di Mussolini». Al contrario gli eventi (del 25 luglio) lo hanno «sorpreso». Tuttavia già da tempo aveva l´impressione che «le cose non potessero andare avanti così». Il rifiuto di Vittorio Emanuele III di abdicare gli procura «grandi preoccupazioni per il futuro della dinastia (Savoia)». E in generale - così il Papa - «vediamo con grande preoccupazione che (con l´avvento di Badoglio, ndr) si sta espandendo l´influsso massone nell´Italia meridionale, mentre il comunismo cresce in maniera allarmante in tutta Italia e purtroppo anche a Roma».

Repubblica 10.5.09
"La Shoah un orrore tra i tanti"
di Simonetta Fiori


La figura di Pio XII, la sua politica felpata con il Führer, il protratto silenzio sugli ebrei continuano a suscitare dispute appassionate, non solo tra gli storici ma anche sulla scena pubblica. «Sembra di essere tornati agli anni Sessanta», dice Giovanni Miccoli, insigne medievista oltre che autore di studi fondamentali su papa Pacelli. «Fu allora che, dopo il debutto del Vicario di Rolf Hochhut, un testo sostanzialmente sbagliato e non privo di ambiguità, si scatenò una guerra feroce tra apologeti e detrattori».
«Oggi non è molto diverso. Agli estremismi denigratori dei Cornwell e dei Goldhagen si replica con l´assoluzione e talvolta con una vera esaltazione, entrambe funzionali al processo di beatificazione. Ma le canonizzazioni non hanno mai modificato il giudizio storico, o almeno non dovrebbero farlo. Colpisce che gli incensatori prendano in considerazione solo le tesi denigratorie, non i problemi che la documentazione stessa evidenzia. Problemi, a dire il vero, già emersi durante la guerra».
A quali problemi si riferisce? «Si tende a dimenticarlo, ma già all´indomani della caduta della Francia, il cardinale Tisserant lamentò con l´arcivescovo di Parigi l´assoluta inerzia del pontefice sui metodi di guerra dei nazisti. Ancora più significativa la testimonianza di monsignor Respighi, prefetto delle cerimonie pontificie, che nel maggio del 1943 invocò "una parola forte in difesa dell´umanità", con "le orecchie intronate" dalle richieste che gli arrivavano in questo senso. Anche Pio XII era consapevole delle critiche, tanto da domandare nell´ottobre 1941 ad Angelo Roncalli se "il suo silenzio circa il contegno del nazismo non fosse giudicato male"».
La rottura con la Germania hitleriana fu evitata anche per il timore del bolscevismo: un tema fortemente evidenziato dalle spie naziste.
«Fin dal principio, è molto presente in Pio XII la paura che la Russia sovietica potesse dare all´"Europa cristiana il colpo decisivo" (così il radiomessaggio del Natale 1939). Inquietudine destinata a crescere nell´inverno tra il 1942 e il ´43, quando l´esito della campagna di Russia comincia a profilare la sconfitta della Germania. Ma non fu la sola ragione della cautela».
Cos´altro lo spinse al riserbo?
«Una denuncia aperta dei crimini nazisti avrebbe potuto inasprire la strisciante persecuzione nei confronti del cattolicesimo tedesco: non dimentichiamo che diecimila preti tedeschi "passarono" attraverso la Gestapo; decine furono le esecuzioni capitali. E avrebbe inoltre impedito l´opera di assistenza per soccorrere le popolazioni. Uno degli elementi più forti che condizionarono il Vaticano fin dallo scoppio della guerra fu l´aspirazione del pontefice a esercitare un ruolo di mediazione. Era il "padre di tutti", non poteva schierarsi».
I documenti tedeschi lo ritraggono decisamente ostile alla Germania.
«I rapporti della polizia hitleriana durante tutta la guerra (circa venti volumi di testi) mettono le attività della Chiesa cattolica nella sezione dedicata agli "avversari" (Gegner). E vuole stupirsi che anche Pio XII fosse considerato tale? Ma anche il Terzo Reich non era un monolite e non mancavano coloro che guardavano al Vaticano con interesse. Tra questi figura Ernst von Weizsäcker, dal luglio del 1943 ambasciatore in Vaticano, che nelle sue carte descriveva papa Pacelli così: "Troppo fine, troppo saggio, troppo prudente, troppo diplomatico, un generale di Stato Maggiore della miglior specie che però non è mai stato al fronte..."».
Agli occhi degli uomini del Führer era evidente la differenza tra Pio XII e il suo predecessore. Un promemoria del 1939, a proposito di Pio XI, parla addirittura di «politica di violenza».
«Sì, è un documento molto duro, noto fin dagli anni Settanta. A una divergenza tra Pio XI e il cardinal Pacelli - nella seconda metà degli anni Trenta - fa esplicita menzione Giuseppe Dalla Torre, direttore dell´Osservatore Romano. La storiografia apologetica di Pio XII tende a minimizzare l´importante progetto coltivato da Pio XI prima di morire, ossia la pubblicazione di un´enciclica contro l´antisemitismo e il razzismo. Pio XII l´affossò definitivamente».
Alcuni storici come Andrea Riccardi sottolineano l´operosità dei cattolici a Roma, durante l´occupazione tedesca, in difesa degli ebrei.
«Una mobilitazione significativa, ma bisogna domandarsi che proporzione ci sia tra questo aiuto individuale, coraggioso, talvolta molto rischioso, e l´enormità della tragedia in corso. Pesano inoltre i silenzi e la sostanziale acquiescenza all´antisemitismo che caratterizza tanta parte della Chiesa cattolica negli anni Trenta. È indubbio che nella Shoah la responsabilità primaria debba essere attribuita al nazismo, ma c´è anche una responsabilità intessuta di reticenze e conformismi che richiamano l´antico deposito dell´antisemitismo cristiano».
Qual era il livello di consapevolezza del Papa intorno alla macchina di sterminio?
«La Santa Sede era pienamente informata. Vent´anni fa gli storici cattolici riconoscevano una realtà che ora si cerca di nascondere. È vero che nelle carte vaticane non si parla mai di "soluzione finale", ma è evidente che conoscevano la sostanza delle cose. Non è un caso che, dopo la razzia degli ebrei romani, il 16 ottobre 1943, monsignor Montini abbia scritto: "Questi ebrei non torneranno più nelle loro case". Si può dire con fondamento che la questione degli ebrei non fu per la Santa Sede in cima ai problemi più gravi. Rimase confusa tra i tanti orrori della guerra. Ma questo anche in ragione di una robusta tradizione antiebraica che, pur in una situazione drammatica, continuò a condizionarne alcune scelte».

Corriere della Sera 10.5.09
Il giudice, il senatore del Pdl e il partigiano che gli sparò
«L’omicidio di Gentile? Fu un atto di guerra»
Una sentenza riapre il caso. E gli storici tornano a dividersi
di Dino Messina


L’attentato a Giovanni Gentile fu «un atto di guerra» e quin­di è diffamatorio definire co­me «assassino vigliacco» Bru­no Fanciullacci, il gappista che sparò al fi­losofo il 15 aprile 1944. Così la Corte d’ap­pello di Firenze l’altro ieri ha ribaltato la sentenza di primo grado nella quale il se­natore del Pdl Achille Totaro e il consiglie­re comunale Stefano Alessandri erano sta­ti assolti dall’accusa di diffamazione. Ora dovranno risarcire la famiglia con la som­ma simbolica di un euro.
I fatti, come li ha riferiti un’attenta cro­naca del «Corriere fiorentino», risalgono al gennaio 2000, quando Totaro, all’epoca consigliere comunale di Alleanza naziona­le, durante un’accesa discussione a Palaz­zo Vecchio sull’organizzazione di un con­vegno dedicato al filosofo, si scagliò con­tro la figura di quel partigiano, leader del commando gappista, che si gettò da una finestra di Villa Triste dopo essere stato catturato e torturato dai fascisti. Fanciul­lacci venne onorato con una medaglia d’oro alla memoria. Memoria che sua so­rella Giuseppina ha voluto difendere con un’azione legale.
Questa vicenda giudiziaria, all’apparen­za marginale, e la bagarre che si è svolta in tribunale dove l’esponente del Pdl è stato insultato da avversari di Rifondazione co­munista, riaprono una ferita nella memo­ria nazionale e locale. Non a caso il capo­gruppo dei senatori del Pdl Maurizio Ga­sparri ha citato Il sangue dei vinti di Giam­paolo Pansa e annunciato un’inchiesta per individuare le responsabilità di chi non è stato in grado di garantire il sereno svolgi­mento del processo, i difensori di Totaro hanno detto che presenteranno ricorso in Cassazione e l’Anpi ha invece affermato che «la sentenza ha reso giustizia alla figu­ra e alla memoria dell’eroe Bruno Fanciul­lacci ».
Ma soprattutto è tra i biografi di Giovan­ni Gentile che si discute della definizione di «atto di guerra» per l’assassinio di un filosofo inerme che alle 13,30 del 15 aprile 1944 fu avvicinato da un commando di gio­vani in bicicletta mentre rientrava in auto­mobile nell’abitazione di via Montaldo do­po aver finito il proprio lavoro nella sede dell’Accademia d’Italia. «Non fu un atto di guerra — puntualizza Sergio Romano, au­tore di una biografia uscita nel 1984 e ri­stampata nel 2004 da Rizzoli — ma un at­to di guerra civile. Ed è inevitabile che du­rante le guerre civili tutte le azioni siano di parte. Quando alla prima uscita del libro mi chiesero se i partigiani che avevano uc­ciso Gentile potessero essere paragonati ai terroristi, dissi che il confronto non era proponibile perché Fanciullacci e i suoi compagni erano combattenti con alti idea­li. Definire il partigiano che uccise Gentile un 'assassino vigliacco' è sbagliato, tutta­via politicamente è comprensibile».
Contrario a una visione moralistica, ma favorevole a indagare sul quadro generale e i particolari dell’assassinio di Giovanni Gentile è Luciano Canfora, autore di un saggio inchiesta sulla fine del filosofo edi­to da Sellerio, La sentenza. «Innanzitutto — dice Canfora — il gruppo di fuoco era composto da quattro gappisti affiliati al Pci. L’attentato maturò in ambito comuni­sta e venne condiviso anche da altre com­ponenti del Cln, a parte gli azionisti fioren­tini, molti dei quali erano stati allievi di Gentile. Tant’è che Enzo Enriques Agnolet­ti e Cesare Luporini del PdA il giorno dopo l’attentato andarono a casa di Gentile per presentare le proprie condoglianze alla fa­miglia. Benedetto, uno dei figli di Gentile, ha ipotizzato anche una pista inglese: l’or­dine per uccidere il padre sarebbe venuto da Londra in ottemperanza alla direttiva di Churchill di eliminare il maggior numero possibile di gerarchi».
Perché venne scelto proprio Gentile, che nel discorso del Campidoglio del 24 giugno 1943, aveva invitato alla concordia nazionale, un intellettuale che come sotto­lineano molti studiosi, non contava più molto nel fascismo? Alessandro Campi, au­tore di Morte necessaria di un filosofo, edi­to dalla Asefi di Milano, non condivide tan­to questa visione buonista del grande intel­lettuale fascista: «Gentile morì, e ne era al­tamente consapevole, proprio per la scelta che aveva fatto e per le idee che sosteneva. È vero che dopo il 1929, anno dei Patti late­ranensi, non contava più molto, ma nel­l’autunno 1943 aderì alla Repubblica di Sa­lò e divenne presidente dell’Accademia d’Italia, sostenendo sempre posizioni mo­derate. Per capire i motivi per cui Gentile fu scelto come obiettivo io indicherei il di­scorso del Campidoglio del 24 giugno 1943 in cui Gentile invitava all’unità nazio­nale, la risposta radiofonica di Palmiro To­gliatti che di fatto lo indicava come un obiettivo e l’articolo di Concetto Marchesi rimaneggiato da Girolamo Li Causi in cui si parlava di sentenza di morte per il filoso­fo dell’attualismo».
Gentile, con la difesa dell’alleanza tra la Rsi e il Terzo Reich, era un chiaro obietti­vo dei partigiani, e per le sue posizioni mo­derate era inviso anche agli estremisti re­pubblichini, tanto che si parlò di un infil­trato fascista nel commando gappista che lo uccise. Ipotesi poco credibile. Resta l’in­dignazione dell’opinione pubblica per quella morte. Francesco Perfetti, autore di Assassinio di un filosofo. Anatomia di un omicidio politico (Le Lettere), ricorda «i dubbi che assalirono Indro Montanelli, quando prigioniero dei nazisti a Gallarate, apprendendo la notizia dell’assassinio di Gentile, si chiese se schierandosi con i par­tigiani si era messo dalla parte dei sicari. Anche Montanelli avrebbe meritato un processo per quest’opinione espressa tan­te volte?».

il Riformista 10.5.09
«Sul maestro unico ormai i sindacati dicono sciocchezze»
Intervista al ministro Gelmini. «Adesso ognuno vada per la propria strada: io non mi fermo su quella delle riforme. Sarà difficile trovare tavoli di confronto con loro. Sa che le dico: ognuno vada per la sua strada».
di Alessandro De Angelis


«Basta con i veti dei sindacati, io vado avanti sulle riforme»: il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini risponde alle critiche sul maestro unico. E sull'Abruzzo dice: «L'Università sarà il cuore della ricostruzione: campus e modello Bicocca».
Ministro, i sindacati lombardi dicono che l'operazione maestro unico è fallita.
Negano l'evidenza. Legare il maestro unico alle 24 ore come fanno loro, è fuorviante. La scelta, come dovrebbe essere noto, non è legata a nessun modulo orario. Il maestro unico c'è anche nelle 30 ore. E dire che le famiglie non hanno scelto le 24 ore è una sciocchezza, come è una sciocchezza dire che è stato tolto il tempo pieno.
Cioè i sindacati non ragionano?
Fanno una continua opera di disinformazione. Ma questo non bloccherà il processo di riforma che abbiamo iniziato e su cui abbiamo il mandato dei cittadini.
Significa basta confronto?
Sarà difficile trovare tavoli di confronto con i sindacati. Sa che le dico: ognuno vada per la sua strada. Il governo andrà avanti sulle riforme. Ora basta. Anche il Corriere ha abboccato alla disinformazione. Ormai siamo al falso ideologico.
Non teme un autunno caldo?
Io non lavoro per compiacere qualcuno. Andremo avanti sulla strada del cambiamento. In Parlamento ci sono disegni di legge sul reclutamento e sulla governante scolastica. Non ci fermiamo. Il paese sa che la scuola è in una situazione di degrado e noi a questo vogliamo rispondere. Mentre i sindacati vogliono solo difendere il loro strapotere. Mica parlano degli insegnanti pagati poco. Vedo che anche la Cisl è sulla linea della Cgil me ne rammarico.
Su queste premesse non teme contestazioni?
Non faccio la cartomante e non so se ci saranno. Io la penso come Brunetta: si va avanti per realizzare un progetto. Non sarò l'ennesimo ministro frenato dai veti.
Dall'Onda al sisma. Lei è andata spesso all'Aquila. Sarà l'Università il volano della ricostruzione?
Sì perché è il volano dello sviluppo. All'Aquila, se muore l'Università muore la città. Ora stiamo fronteggiando l'emergenza delle case per gli sfollati. Ma dal punto di vista della prospettiva strategica l'Università sarà la mission della ricostruzione. Per questo abbiamo subito detto: nessuna delocalizzazione dell'Università.
Quale è la strategia per ripartire?
Primo: abbiamo recuperato una sede per l'Università. Non posso ancora ufficializzare quale sarà, visto che la trattativa è in corso, ma voglio ringraziare Telecom per averla trovata con noi. Secondo: abbiamo stanziato 16 milioni di euro per la casa dello studente che, come sa, non dipende dall'Università direttamente ma ci siamo sentiti in dovere di intervenire. Terzo: le 13 mila case per gli sfollati dislocate in 14 siti diventeranno, in futuro, il campus universitario. Nel frattempo stiamo individuando altre soluzioni ponte per non far morire l'università, a partire dall'individuazione degli alloggi per il prossimo anno.
E per le iscrizioni?
Aboliremo le tasse per il prossimo anno. Mercoledì firmeremo il protocollo d'intesa, in cui stanzieremo 14 milioni di euro per coprire noi le spese.
Parliamo del futuro.
Per dirla con uno slogan applicheremo all'Aquila il modello Milano Bicocca. Significa che ricostruiremo con l'intervento dei privati per cercare un circuito virtuoso per l'economia locale. Ripeto: senza dislocare nulla.
Faccia degli esempi.
Scaroni e Berlusconi hanno avuto un'idea meravigliosa. Si chiama: «Il ponte dell'innovazione». Significa che l'Eni paga la progettazione e la costruzione di un centro di ricerca su biotecnologie, ingegneria, insomma le materie di sua competenza con cinquanta laboratori e case alloggio per gli studenti. In cambio ha chiesto la proprietà intellettuale dei risultati della ricerca. Per intenderci, i brevetti restano dell'Eni. Non è una donazione a fondo perduto, ma un investimento, un business.
Questo è il modello Bicocca?
Certo e sono sicura che anche altri privati si muoveranno sulla stessa direzione di marcia. Parliamo di cifre importanti. L'intervento dell'Eni, che è di 20 milioni di euro, prevede anche un progetto di fattibilità di una centrale di teleriscaldamento sul modello San Donato Milanese.
Questo progetto sta trovando consensi o resistenze?
Susciterebbe entusiasmo anche se non ci fosse stato il terremoto.

Repubblica 10.5.09
Rotte dimenticate
Il vello d’oro sfida global
di Siegmund Ginzberg


La leggendaria nave Argo su cui Giasone e compagni percorrono l´Europa da un capo all´altro rappresenta bene la realtà che il grande archeologo Barry Cunliffe racconta nel suo ultimo libro: il nostro continente già diecimila anni fa era innervato da una rete di vie di comunicazione battute da mercanti, avventurieri, eserciti invasori

Sono diecimila anni che l´Europa naviga da una crisi globale all´altra. Con contatti, scambi, movimenti migratori, ripercussioni che si estendono da un estremo all´altro del continente anche quando sembra che le diverse parti non abbiano a che fare con le altre, ne ignorino addirittura l´esistenza, anche quando sembra che tutto ciò che conta davvero, tutta la politica, tutti i conflitti, tutta l´economia, tutti gli avvenimenti, gli sconvolgimenti degni di nota e di attenzione siano solo quelli locali. I ritrovamenti e gli studi archeologici dell´ultimo quarto di secolo rivelano una globalizzazione di estensione e profondità insospettabili, impetuosa quanto sommersa, impercettibile se ci si affida alle sole narrazioni che ci sono state tramandate. Non coincide con i confini e le vicende dei popoli, tanto meno con quelle degli stati. A tratti scompare, anche per molti secoli. Per poi ricomparire altrettanto a sorpresa. I cicli stritolano culture e civiltà, si alternano imperi e frammentazioni, nicchie di autarchia e isolamento, cambiano violentemente le élite. Tutto cambia continuamente. Ma restano fili sotterranei a testimoniare che eravamo già tutti europei da molti millenni prima che avessimo la minima idea di esserlo. Il fatto che questi fili si ritrovano soprattutto lungo le coste e il corso dei fiumi d´Europa giustifica il titolo dell´ultimo libro di uno dei più prestigiosi archeologi del nostro tempo, Sir Barry Cunliffe: Europe Between The Oceans. Themes and Variations: 9000 BC-AD 1000 (Yale University Press, 2008, 518 pagine).
È un libro molto denso, documentato, non semplicemente «divulgativo», di spessore ineccepibile anche da un punto di vista specialistico, corredato di bellissime illustrazioni e, soprattutto di un eccezionale apparato di cartine. L´avevo ordinato perché impegnato in una lettura, che poi mi ha condotto in tutt´altre direzioni, delle Argonautiche di Apollonio Rodio. Vi ho ritrovato orizzonti sterminati, sentieri inesplorati, suggestioni inaspettate.
Euripide, e molto più tardi Catullo e Valerio Flacco, scrivono della leggendaria nave Argo su cui Giasone e compagni intrapresero, una generazione prima della guerra di Troia, la loro avventurosa navigazione alla ricerca del vello d´oro come della «prima nave». Omero dice più sobriamente: «La meglio costruita». Apollonio Rodio, che ha a disposizione la «biblioteca-mondo» di Alessandria nel Terzo secolo avanti Cristo dice, ancor più sobriamente, solo che fu «la più famosa». È una nave magica: persino parla. Trasporta di tutto: uomini, armi, cavalli, pecore, doni preziosi, poi anche il misterioso vello. Naviga lungo le coste, da isola a isola, da porto a porto, lungo i fiumi; supera per incanto (a due riprese, la prima attraversando il Bosforo per entrare nel Mar Nero) rocce alte come grattacieli che cozzano tra di loro; per sfuggire all´inseguimento della flotta colchica si addentra nel Danubio, ne esce nell´Adriatico, si addentra nel Po, ne esce nel Rodano (ma se avessero preso un altro braccio sarebbero usciti nell´Oceano); per un lunghissimo tratto viene trasportata a braccia per attraversare il deserto libico; è praticamente in simbiosi coi suoi marinai, ne è «la madre». Apollonio Rodio ha probabilmente a disposizione tutte le diverse versioni scritte degli antichi miti, scrive in un´epoca in cui i viaggi per mare sono ormai ordinaria amministrazione, ma lavora d´immaginazione, dovrebbe conoscere le rotte ormai battute, ma la sua geografia è fantasiosa quanto, e forse ancora più di quella dei suoi predecessori.
La cosa affascinante è però che la realtà archeologica descritta da Cunliffe appare ancora più sconvolgente, fantastica delle «invenzioni» degli antichi. Che Argo non fosse la «prima nave» lo sapevamo da tempo. In Asia si sono scoperte imbarcazioni risalenti a oltre sei millenni fa. Quanto agli europei è ormai assodato che navigavano da prima ancora dell´introduzione della ruota e dell´addomesticazione dei cavalli. Anche un semplice sguardo alla configurazione del nostro continente spiega perché la cosa non è solo verosimile ma persino ovvia. Se si volta una qualsiasi mappa è evidente che l´Europa non è che una grande penisola che protrude dall´Asia circondata dai mari. Tra coste frastagliate e isole si può stimare che la circumnavigazione si estenda per qualcosa come trentasettemila chilometri, l´eguale della circonferenza dell´intero pianeta. A questo va aggiunto il corso dei fiumi.
Gli itinerari degli argonauti non sono così assurdi come può sembrare a prima vista. Dal Danubio effettivamente si risaliva sin da tempi antichissimi, superando le Porte di ferro, fino al cuore dell´Europa. Questa è la rotta che avrebbero seguito tutte le migrazioni attraverso il corridoio delle steppe asiatiche, dalla Mongolia ai Carpazi, dalla remota preistoria alle invasioni barbariche. Dalla valle del Po, attraverso i passi alpini si arrivava ai bacini del Rodano e del Reno, fino alle isole britanniche. Manufatti provenienti dal Mediterraneo e viceversa avevano preso queste strade in parte fluviali da millenni prima che a fare il percorso fosse l´esercito di Annibale. Attraverso tributari come la Morava passava la "via dell´ambra" dall´estremo Nord. Se non il naviglio, veniva trasbordato a braccia attraverso gli spartiacque montagnosi il suo contenuto. Fonti bizantine confermano che gli avventurieri-mercanti del Nord arrivavano sino a Costantinopoli lungo la Vistola e il Dnestr, o addirittura, dal Golfo di Finlandia, attraverso il lago Ladoga e il Dnepr, superando a piedi una successione di sette rapide. Da qui probabilmente arrivò a Costantinopoli la guardia varanga degli imperatori bizantini, compreso quel Halfdan che a mo´ di vandalico souvenir incise il proprio nome in caratteri runici sulla parete di Santa Sofia.
Gli europei navigano, si conoscono, scambiano prodotti e favole sin dall´età della pietra e dei ghiacci (che sciogliendosi crearono nuovi corsi d´acqua e mari, immensi acquitrini, forse lo stesso diluvio). Scandinavia e Danimarca sono costellate di immagini rupestri di navi a remi che precedono di molto quelle dei vichinghi, somigliano nel profilo alle navi su cui si erano imbarcati gli argonauti e Ulisse. Già attorno al 1700 avanti Cristo questi eroi nordici facevano per ragioni "di prestigio", oltre che presumibilmente di pirateria, spedizioni simili a quelle dei loro colleghi greci. Forse spingendosi sui fiumi sino ai Carpazi. Il relitto di una nave a vela, ritrovato al largo di Uluburun, presso la costa meridionale della Turchia, databile al Quattordicesimo secolo avanti Cristo, quindi non moltissimo dopo l´epoca eroica di cui canta Omero, trasportava lingotti di bronzo, di stagno, vasellame cipriota, anfore e vetri canaaniti, oro, argento, e persino zanne di elefante, denti di ippopotamo. Con un cargo di provenienza così eterogenea, si può solo ipotizzare che facesse una rotta circolare tra Egitto, costa siriana e dell´Asia minore, Cipro e Creta.
I Fenici importavano lo stagno dal porto dell´odierna Cadice, sull´Atlantico e lo distribuivano in tutto il Mediterraneo. Gli Etruschi esportavano dalla Pianura padana sino in Pomerania. Sin dal terzo millennio avanti Cristo arrivavano, probabilmente via acqua, manufatti di ceramica dalla Francia meridionale sino in Scozia. Strabone e Diodoro Siculo riferiscono nei dettagli di intensi traffici fluviali via il Rodano e la Garonna, fino in Britannia, da molto prima che nelle Gallie si affacciasse Giulio Cesare. La rete compare e scompare, trova nuovi percorsi o lascia intere regioni a lungo isolate, interessa ovviamente le élite in cerca di status symbol, non i contadini, ma la globalizzazione è prepotente, spesso indipendentemente da guerre, invasioni e dai grandi sconvolgimenti politici registrati dalla "Storia".
Tra le sorprese successive: il particolare in genere trascurato che via nave sarebbero iniziate anche le invasioni barbariche che avrebbero affondato l´impero romano. Insomma dal mare e lungo i fiumi una stupefacente, caleidoscopica, vertiginosa e globale "storia nella storia", di più lunga durata e profondità di quella cui eravamo abituati.

Repubblica 10.5.09
Lezioni di musica
Conservatorio Italia precari per passione
di Giuseppe Videtti


Nati per accogliere orfani e trovatelli, divenuti fucine di talenti e simbolo dell´eccellenza del nostro Paese, le scuole dove si insegna l´arte più difficile sono in crisi. Tagli in Finanziaria e mancanza di investimenti rischiano di disperdere un patrimonio unico. Viaggio tra i ragazzi che sognano di vivere del loro studio senza essere costretti a emigrare
I panini più richiesti in caffetteria: il Mozart con cotoletta, il Wagner con würstel e crauti, il Beethoven con salmone

La ragazza con l´arpa ondeggia, i capelli sciolti sulle spalle, un abitino di seta nero che le scivola sul corpo magro. Nel salone dell´hotel, fra marmi e tappeti, composizioni floreali e lampadari di cristallo, i clienti brindano, amoreggiano, parlano d´affari, divorano pasticcini col tè delle cinque. Lei dice: «Non scriva il mio nome, sono studentessa al conservatorio, lo faccio per sbarcare il lunario, prima o poi avrò un posto in orchestra». Poi entra nei bagni della hall per riapparire irriconoscibile in jeans, giubbotto e basco, pronta per la lezione serale. Uno dei 38.591 iscritti (1.309 sono stranieri) nei conservatori. In Italia ce ne sono cinquantaquattro più venti istituti musicali, con 7.357 insegnanti e circa 4.500 diplomati all´anno. Ora, con la Finanziaria che prevede tagli delle risorse fino al quaranta per cento, le prestigiose scuole di musica devono affrontare sacrifici e, inevitabilmente, ritoccare le quote d´iscrizione.
Il Conservatorio Verdi di Milano, fresco dei festeggiamenti per il bicentenario (millecinquecento iscritti, il venti per cento stranieri, duecentocinquanta insegnanti), ha solo sei impiegati e un numero insufficiente di bidelli. «È il personale previsto dalla legge del 1930, quando gli allievi erano duecento e i maestri trentacinque», protesta Bruno Zanolini, mezzo secolo trascorso tra queste mura, prima allievo, poi docente, infine direttore. «Si fa un gran parlare dell´arte, ma di fatto i primi tagli colpiscono sempre noi», aggiunge. «Quando arrivai io - ero bambino - eravamo in pochi. Oggi abbiamo ventiquattro classi di pianoforte e uno stuolo di studenti meno motivati, frenati dalla mancanza di opportunità. Non c´è il sacro fuoco di una volta, eppure chi s´iscrive non demorde. Si dice che il conservatorio sia una fabbrica di disoccupati. La verità è che il mondo del lavoro assorbe meno professionalità, ma non siamo allo sbando. Nulla è mai facile quando si ha a che fare col talento, la fortuna e una sfrenata competitività».
Francesco Saverio Borrelli, ex magistrato, è stato nominato nel marzo 2007 presidente del Verdi di Milano su proposta del Consiglio accademico. Nella bacheca fuori dal suo ufficio, un ritaglio di giornale strilla: «Busserò di porta in porta per raccogliere fondi». «Ho una grande passione per la musica, ma di gestione non so nulla», ammette Borrelli, diploma in pianoforte nel 1952 al Cherubini di Firenze, stesso anno della laurea in giurisprudenza. «Io sono qui affinché il prestigio del Verdi rimanga alto», aggiunge. «Quando sono arrivato ho subito precisato che non sono un finanziere e non ho agganci politici, ma mi hanno voluto lo stesso. Ed eccomi qua a fare i conti con i tagli e le magre risorse. Per natura non sono pessimista, ma bisognerebbe intervenire drasticamente. La riforma del 1999 ha lasciato insolute molte questioni. Non è stato chiarito, ad esempio, il valore dei titoli acquisiti nel sistema del tre più due (equiparato al corso di laurea più specializzazione). È impensabile che in Italia esistano settantaquattro istituti musicali che rilasciano titoli universitari».
Tra gli allievi l´idea della raccolta porta a porta ha fomentato incertezza. «La frase di Borrelli ci ha spaventati e la prospettiva che la tassa d´iscrizione di mille euro possa raddoppiare non ci fa certo piacere», dice uno studente di violino fuori sede. «Il mondo della musica non dà garanzie. Sarò fortunato se trovo un posto come insegnante o in orchestra. E perché no? Un impiego in musicoterapia. Musica leggera? Sì, ma a malincuore». Olivier Brunel, vent´anni, di Montpellier, è al Verdi per un Erasmus. Studia da baritono. Dice: «Preferisco il sistema italiano a quello francese. Qui il diploma ha più valore. Occupazione? Con la passione si riesce». Il Conservatorio Verdi, istituito con Regio decreto napoleonico nel 1807 fra le mura di una chiesa barocca, conserva intatto il suo fascino. Nel chiostro di Santa Maria della Passione risuonano le musiche degli allievi impegnati nei vari corsi. Musiche di Bach, Monteverdi, Haydn. Come ai tempi di Catalani, Ponchielli e Puccini, allievi eccellenti. Prima delle lezioni del mattino, i ragazzi s´incontrano alla caffetteria. I sandwich più richiesti: il Mozart con la cotoletta, il Wagner con würstel e crauti, il Beethoven col salmone.
C´è qualcuno che, in tempi difficili come questi, avanza polemicamente l´idea che i conservatori dovrebbero recuperare l´antica missione, quella per cui erano nati nel Quattordicesimo secolo: educare a un mestiere - non solo quello della musica - orfani e trovatelli che venivano «conservati» presso ospizi di pubblica pietà. A Napoli, fino alla fine del Settecento, ce n´erano quattro (più quello femminile dell´Annunziata), ricordati in una lapide all´ingresso del Conservatorio di San Pietro a Majella (novecento iscritti): «Già convento dei padri Celestini anno 1826, per volontà di Francesco I re delle Due Sicilie fu destinato ad accogliere la gloriosa scuola napoletana e a custodire le preziose testimonianze degli antichi e rinomati conservatori Poveri di Gesù Cristo, Santa Maria di Loreto, Sant´Onofrio a Capuana, Pietà dei Turchini». «Settantaquattro conservatori in Italia non sono troppi», dice il neodirettore Patrizio Marrone, «poiché a loro è affidata anche la formazione di base, in assenza di licei musicali e soprattutto di corsi di musica nella scuola dell´obbligo. A Parigi ce ne sono diciotto di quartiere contro i centosei di tutta la Francia, che conta anche su quattro accademie».
Situato nel cuore della città vecchia, il San Pietro a Majella, che ha festeggiato il bicentenario nel 2007, è scuola e museo. «Qui ha insegnato composizione Donizetti», racconta Tiziana Grande, la bibliotecaria che ha in cura quattrocentomila preziosissimi volumi che provengono dalle donazioni delle case reali borbonica e napoleonica, di privati ed editori e del Teatro San Carlo. «Il ministero ci tratta come se fossimo la biblioteca di un comune di mille anime», protesta, mentre subissata da richieste di consultazione da ogni parte del mondo si muove freneticamente tra i magnifici saloni della pinacoteca e il museo, che tra i preziosi strumenti d´epoca conserva anche una rarissima arpetta di Stradivari. «I conservatori hanno attraversato la storia», dice Marrone, indicando la scrivania preziosa e le antiche scansie che ancora adornano la direzione. «Sono anni di cambiamento: abbiamo due classi di jazz - ma se avessimo risorse potremmo farne tre - ci stiamo aprendo alla musica elettronica, che ha parecchi iscritti, e i corsi tradizionali godono di ottima salute».
Chiara Mallozzi, vent´anni, di Napoli, diplomata allo scientifico, studia musica elettronica e composizione con il vecchio ordinamento (cinque anni con la possibilità di frequentare un altro corso universitario). «E privatamente prendo lezioni di violoncello», aggiunge. «Ho fatto corsi in Germania, Austria, paesi dove il musicista è rispettato come un medico o uno scienziato. Da noi questa professione è vista come un handicap. La società non capisce bene chi siamo e cosa facciamo. Quando dico che studio musica, mi rispondono: sì, ma all´università che fai?». Bernardo Maria Sannino, ventiquattro anni, di San Sebastiano al Vesuvio, studiava fagotto già da liceale. Ora prende lezioni di piano privatamente e frequenta il primo livello di composizione. «Vorrei poter vivere di ciò che studio», esordisce. «Quello della disoccupazione è un problema sociale che investe i musicisti come gli ingeneri. Senza presunzione: io e i miei amici ci sentiamo culturalmente vivi. Ci vediamo la sera e suoniamo, invece di andare in discoteca o guardare Il grande fratello».
Il direttore conferma: «Anche i bambini: vanno a scuola, poi vengono qua. Consideri che non c´è strumento che richieda meno di due-tre ore al giorno, e la sera a casa a fare i compiti. Il conservatorio tiene occupati. Qui dentro c´è una percentuale zero di uso di droghe». Un allievo azzarda: «Magari diventerò il nuovo Giovanni Allevi». «Ogni generazione ha il Mozart che si merita», ammonisce Marrone. «Vediamo tra duecento anni se qualcuno si ricorderà di questo signore. Qui studiamo classici e contemporanei. Allevi, non ancora».
«La musica leggera è l´espressione dei nostri tempi. Stimo Allevi. Mi sembra orribile, invece, che l´Italia, il paese dove sono nati i conservatori, non riconosca socialmente la figura del musicista», dice Sergio Zanforlin, ventisei anni, di Palermo, impegnato nel biennio di violino al Conservatorio di musica Santa Cecilia di Roma (1.500 iscritti, 164 docenti), un´istituzione che risale al 1875 e ha diplomato Maderna, Giulini e Morricone. «Qui con una laurea in violino rischiamo di finire a fare i giullari», dice. «Uno investe in anni di studio, fa inenarrabili sacrifici economici e non torna niente. Non ci resta che espatriare».
Ma Edda Silvestri, insegnante di flauto traverso e da due anni direttrice del Santa Cecilia, è una lady di ferro, tutt´altro che disposta ad arrendersi ai tagli. «La situazione va affrontata politicamente, il nostro lavoro è quello di sensibilizzare i politici sull´importanza della cultura. Un popolo colto è comunque un popolo migliore. La fuga dei cervelli è mortificante. Per risolvere il problema occupazionale dobbiamo preparare artisti, ma anche manager, liutai, storici… insomma tutto ciò che serve nell´ambito musicale», dice, seduta nella stanza sontuosa ma austera e poco illuminata che le è stata assegnata.
Claudia Dominici, ventotto anni, di Roma, diplomata in arpa col vecchio ordinamento, è votata alla musica. Se le chiedono di suonare in un albergo, accetta volentieri. «Il lavoro c´è, le arpiste sono poche. Tra matrimoni, ricevimenti, sostituzioni e lezioni private riesco a pagare l´affitto e a vivere. Ma lo so già, finirò all´estero, a fare la professionista in orchestra. In Italia il nostro lavoro viene preso come un hobby». «Sono ragazzi speciali», conclude la Silvestri, «perché fanno il doppio degli altri. Quel che per molti è sacrificio, per loro è gioia. Il mondo di domani non può farne a meno». «La passione compensa tutti i sacrifici», esclama Claudia avviandosi verso l´uscita. Su via dei Greci si ferma a parlare con i compagni di corso. Esaminano uno spartito, si arrovellano su una nota. Nessuno indossa capi firmati, nessuno ha in mano un cellulare, nessuno ha nient´altro da ostentare se non passione e talento. I bidelli incominciano a chiudere i cancelli. Da un´aula lontana arriva il suono di un pianoforte. Lassù qualcuno fa ancora a pugni con Chopin.

Corriere della Sera 10.5.09
Verso il Festival. Il film di Antonioni sarà uno degli eventi della rassegna cinematografica
«L’Avventura va a Cannes Ma quel set fu un incubo»
Lea Massari: maltempo, scioperi e insulti sulla Croisette
di Valerio Cappelli


ROMA — «Il presidente Gilles Jacob mi ha invitato al Festival di Cannes ma non vado, ho problemi personali, e poi quel mondo mi è lontano». Lea Massari, 75 anni, col cinema ha tagliato dagli an­ni ’90. Vive da sola a nord di Roma in una casa con cinque animali dove dimo­ra dal 1969, «quando era tutta campagna, ora bisogna uscire con la lancia». Ma non si è chiusa al prossimo. Prende 1400 euro di pensione al me­se. Ama la musica classica, De­bussy e Ravel. Paladina degli animalisti «e sono stata in contatto con Brigitte Bardot, molto seria e in gamba nelle sue battaglie. La mia vita vera sono stati gli animali, io non volevo fare l’attrice».
Ne L’avventura è la giova­ne donna che dopo segni di insofferen­za scompare nel nulla. Monica Vitti (di spalle) nel film di Michelangelo Anto­nioni del 1960, che aprì la trilogia dell’in­comunicabilità, è ritratta nel manifesto della rassegna: il 20 l’omaggio al regista a cui parteciperanno 25 attrici, tra cui Claudia Cardinale, Valeria Solarino, Gio­vanna Mezzogiorno. Lea non vorrebbe ripescare nei ricordi, che sono duri, im­pietosi. «È stata un’esperienza che mi ha segnato profondamente, i produttori ci lasciarono senza soldi e io, scaduto il contratto di un mese, lavorai per altri tre mesi e mezzo gratis, lo sciopero del­la troupe, il maltempo. Le navi non pote­vano attraccare, bevevamo l’acqua dei pozzi, la poca buona che c’era andava nella casa abitata da Antonioni, Monica, più l’aiuto regista e sua moglie, erano in un castellotto dove non mancava nien­te. Sono stati tre mesi drammatici a Pa­narea, poi a Palermo abbiamo rifatto tre scene terribili, in bikini, era gennaio. Un freddo terribile. E ho preso una spe­cie di colpo apoplettico, poi un blocco intestinale per l’acqua ghiacciata. Fui sal­vata per miracolo da due dottori. Il film bisognava finirlo per forza, non si pote­va fare altro». Il grosso delle riprese pe­rò avvenne d’estate. «La situazione era capovolta. Dovevamo essere tutti palli­di. Antonioni si era reso conto che Moni­ca Vitti si riempiva di efelidi e quindi ve­nimmo ricoperti, braccia comprese, sempre con i cappelli in testa». Però al Festival di Cannes vinse il premio della giuria (la Palma d’oro andò a La dolce vita di Fellini). «Ci premiarono dopo gli insulti del pubblico, ci tirarono i pomo­dori. E sa che cosa ho pensato? Tutto sommato non mi è dispiaciuto, anzi, era ora, dopo quello che abbiamo passato. Non ho mai ricevuto un fiore, un grazie, una telefonata. Io ero una ragazza, ave­vo 20 anni».
Quel film segnò l’inizio della storia d’amore tra Antonioni e la Vitti. «Due persone intelligenti e furbe. Lui era spi­ritoso, si stava bene insieme fino a quan­do non si girava. Io adoro la verità, i cre­tini possono anche mentire, gli intelli­genti non ne hanno bisogno. Antonioni ci prese in giro, sapevamo che il film aveva come protagonista un’attrice fran­cese di cui non ho più ricordato il no­me, c’erano molte 'o', ci avevano detto che era lei la nostra primadonna. Si fece finta che Monica fosse diventata una specie di tappabuchi, invece era previ­sto da sempre. Lui era anche un uomo d’affari. Quando ormai il film era fallito, pronti per trasferirci a Lisca Bianca, nes­suno era stato pagato da settimane e co­minciarono gli scioperi della troupe».
Possibile che lei abbia detto d’aver fat­to una carriera mediocre? «È così, io non sono nata per fare l’attrice, non è un mestiere che ho voluto, non l’ho cer­cato, ho fatto un lavoro che non mi inte­ressava, per questo è stato facile dire ba­sta ».
Ma considera L’avventura un grande film? «È una questione di gusto, ha aperto una pagina nuova nel cinema, fu una rivoluzione, come gli impressionisti nel­le arti figurative: qualcuno non era pron­to a guardare i quadri in un altro mo­do ». L’ha più rivisto? «No. Ne ho una co­pia in casa, da qualche parte».

Corriere della Sera Salute 10.5.09
Psicologia. Quando le normali paure indotte dagli eventi rischiano di diventare patologiche
Ondate di ansia
Influenza A, terremoto, crisi economica: gli allarmi si accumulano. Con quali conseguenze per la psiche?
di Daniela Natali


Troppe paure. Epidemia, terremoto, crisi economica. Sale l’ansia per l’«effetto rimbombo»
«Solo se riusciamo a pensa­re, la paura si scioglie in tecni­ca, in strategia, e ci permette di affrontare uno per uno i ve­ri pericoli».

Le cattive notizie, si sa, non tardano mai ad arrivare e per di più, oggi, qualsiasi evento, dovunque sia accadu­to, rimbalza con estrema velo­cità da un punto all’altro del pianeta e ci raggiunge. Che ef­fetto ha tutto questo? Le no­stre ansie sono moltiplicate da notizie di terremoti, timo­ri di contagio (leggi influenza dei suini), di attentati e una crisi economica tutta reale?
Uno studio dell'Associazio­ne per la ricerca sulla depres­sione di Torino ha indagato sugli effetti della recessione, analizzando le richieste di aiu­to ricevute dall’ottobre scor­so a marzo. Ben il 35% delle persone ha spontaneamente indicato la crisi come causa primaria dello stato depressi­vo- ansioso. «E chi ha chiesto aiuto — sottolinea Salvatore Di Salvo, psichiatra e presi­dente dell’Associazione — so­no soprattutto i giovani, tra i 18 e i 35 anni colpiti nella di­mensione progettuale da una crisi che impedisce di orga­nizzare il futuro». Fanno eco i dati inglesi: su sette milioni di britannici con problemi di ansietà e depressione, tre su due sostengono che colpevo­le è il crollo finanziario. Segui­to, dice la Mental Health Foundation, da «timore degli accoltellamenti, paura dei su­perbatteri e di attacchi terrori­stici ». Se è ovvio che abbia problemi psicologici chi vive un trauma, anche chi si limi­ta a 'guardarli' non è da me­no: dopo l’attacco alle Torri Gemelle le persone in qual­che modo coinvolte soffriva­no di ansia e depressione nel 33% dei casi, ma la percentua­le era di poco inferiore (30%) in chi aveva solo assistito al crollo del Torri in TV.
«L’accavallarsi di eventi tra­gici, anche se non ci riguarda­no direttamente, crea in noi un effetto 'rimbombo', il gua­io è che, anche senza queste cattive notizie, siamo più an­siosi che in passato» com­menta Gianpaolo Perna, psi­chiatra, responsabile del Cen­tro per i disturbi dell’ansia dell’ospedale San Raffaele -Turro di Milano.
«Da sempre esistono perso­ne predisposte all’ansia, ma in passato ritmi di vita lenti permettevano di pianificare il futuro, alleggerendo il carico di timori, oggi il nostro tem­po è accelerato. Il filosofo Zyg­munt Bauman parla di 'mo­dernità liquida'. La nostra è una vita 'liquida', senza cer­tezze, sempre più frenetica, che impone di adeguarsi alle abitudini del ' gruppo'. E’ co­sì che si spiegano i cinque, sei milioni di italiani ansiosi o depressi. L’ansioso del pas­sato, come scrivo nel mio li­bro Ansia (Piemme editore), non aveva fiducia nel futuro, esattamente come quello del presente, aveva però il tempo di prepararsi. Una situazione stressante genera un aumen­to di adrenalina e noradrenali­na, ma poi interviene il corti­solo che limita la produzione di questi ormoni dello stress se però, nella fase di 'disce­sa', interviene un altro ele­mento ansiogeno la discesa viene interrotta. C’è chi rie­sce comunque a gestire un susseguirsi di fattori stressan­ti in modo 'seriale' e chi pati­sce un effetto accumulo. Ov­vio che, al sopraggiungere di eventi tragici, anche solo vi­sti in TV o minacciati, queste persone peggiorano i loro sin­tomi, Che sono anche fisici: dalla tachicardia, all’inson­nia, ai dolori muscolari».
Attenzione, però, non tutta l’ansia vien per nuocere. «C’è anche — puntualizza Perna — un’ansia positiva, quella sensazione di allerta, giustifi­cata dai fatti, che ci permette di 'stare in campana'».
Che far se invece l’ansia è patologica? La National Li­brary of medicine americana, in relazione proprio alla reces­sione, ha dato i suoi suggeri­menti: cercare di capire la ve­ra ragione per cui si è in diffi­coltà, parlarne con qualcuno, magari un terapeuta, tenere un diario, fare un vita regola­ta, non dimenticando l’attivi­tà sportiva. «Sembrano bana­lità ma anch’io consiglio tren­ta minuti di sport almeno tre volte a settimana, alimenta­zione bilanciata, rispetto dei ritmi sonno-veglia e una tec­nica, a libera scelta, di rilassa­mento: dallo yoga alla play station. Ma ci sono anche i farmaci».
Che non funzionano per 30 persone su 10? «Se si fa una diagnosi corretta, se si sce­glie il medicinale giusto, e ce ne sono molti a disposizione diversi tra loro, se si ricorre anche a una terapia psicologi­ca, si hanno risultati nel 90% dei casi» Echi di filosofia, anzi più di echi, nelle parole di Eugenio Borgna, libero docente in cli­nica del malattie nervose mentali all’Università di Mila­no (che discuterà di questi te­mi ad un convegno, organiz­zato dall'Associazione Asilo Bianco, a Miasino, Novara, il 22 e il 23 maggio). «Innanzi­tutto facciamo dei distinguo — precisa Borgna — . Una co­sa è l’ansia, un’altra la paura: la prima si accende e si spe­gne indipendentemente dai fattori esterni, è l’angoscia di Pascal e Kierkegaard, è l’Urlo di Munch. La paura è invece il timore che qualcosa accada e nasce da condizioni obietti­ve. Dietro le tante paure che proviamo c’è però sempre la stessa, quella della morte, del­l’infinito. Le altre sono ma­schere. In comune paura e an­goscia hanno il fatto di portar­ci a vivere più nel futuro che nel passato (come fa la malin­conia) o nel presente (il tem­po della gioia). Ma è un futu­ro che si sta realizzando no­stro malgrado e che sentiamo presente anche se ancora non lo è compiutamente. Lo dico­no anche gli economisti: la crisi economica nasce dalla paura della crisi».
Che fare, allora? «Seguire il misterioso cammino che ci porta verso le nostre emozio­ni. Non fuggiamo dinnanzi al­la paura che abbiamo di noi stessi, diamoci il tempo del si­lenzio. E affidiamoci alla spe­ranza insita in ciascuno di noi. Soprattutto nelle donne, portatrici di vita».
«La via d’uscita — conclu­de la psicoanalista Elisabetta Franciosi, che di questo tema si occuperà in un convegno milanese, organizzato dal Ma­rio Negri per il 22 maggio — è non cadere nella trappola della 'grande' paura, non im­porta sia di un epidemia o di una crisi economica, che co­me una spugna assorbe tutte le nostre piccole paure e fini­sce con l’impedirci di pensa­re come singoli e, cosa anco­ra più grave, come gruppo.

Corriere della Sera Salute 10.5.09
Internet. Rischi e vantaggi di blog e forum dedicati
E molti cercano conforto nei siti anti-panico


Se a soffrire di 'disturbi di an­sia' di vario genere, (dall’inson­nia, al timore di parlare in pubbli­co) è una percentuale di popola­zione che va dall'1 al 5%; in Italia, secondo gli ultimi dati raccolti dal­la Lidap (la Lega italiana contro di­sturbi d’ansia, agorafobia e attac­chi di panico) sono tre milioni so­lo le persone che soffrono di 'at­tacchi di panico'. Una patologia che rientra nel disturbo d’ansia ed è diffusa prevalentemente tra le donne e nella fascia d'età che va dai 14 ai 45 anni.
Specchio della diffusione del fe­nomeno è Internet, in cui si trova­no addirittura centinaia di siti e fo­rum che trattano dall'argomento. Ma, al di là della difficoltà ad orientarsi e a valutare la qualità delle informazioni disponibili in rete (problema che riguarda tutta l'area medico-scientifica), l'incon­tro 'virtuale' tra persone che sof­frono di questo disturbo può rap­presentare un elemento positivo o negativo per affrontare nel mo­do corretto una patologia con co­sì alte implicazioni psicologiche?
«Comunicare ed entrare in rela­zione con altre persone, sia pure virtualmente, è un fatto positivo. — risponde Arrigo Moglia, dell' Istituto neurologico Mondino e Ordinario di Neurologia dell'Uni­versità di Pavia. — C'è però il ri­schio che scambiare informazioni e pareri con persone non compe­tenti possa, piuttosto che tranquil­lizzare, produrre un effetto molti­plicatore dell'ansia. Per cui, sì ai forum legati alla patologia, se con­trollati da esperti, no a quelli libe­ri dove ognuno può dire ciò che vuole senza un opportuno filtro».

Corriere della Sera Salute 10.5.09
Psicoterapie. Mindfulness, una tecnica innovativa che mescola Freud e meditazione indiana
Come disinnescare le emozioni
La ricetta dell’americano Siegel per ritrovare il benessere
di Angelo de’ Micheli


Presto e bene: questo è il mo­do con cui chi si trova alle pre­se con problemi di ansia e de­pressione vorrebbe uscirne. Ma è davvero possibile? La psi­coterapia ha da sempre dovuto fare i conti con le richieste di mercato. Nata per trattare po­chi e ben definiti casi di distur­bi della personalità, ha dovuto rapidamente mettersi a dispo­sizione di molti utenti con pro­blematiche differenti. È così che è nata la psicoterapia di gruppo e tutte le tecniche mira­te a fare della psicoterapia qual­che cosa di 'breve' e di facil­mente abbordabile, che possa servire anche in casi di 'urgen­za' quando si verificano cata­strofi naturali o si deve supera­re lo shock di un attacco terro­ristico. E su questa linea che si muove anche Daniel J. Siegel, condirettore del Mindful Awa­reness Research Center della University of California che ha da poco pubblicato Mindful­ness e cervello (edito da Raffa­ello Cortina), in cui propone la ricerca del benessere psicologi­co e fisico attraverso la 'consa­pevolezza' di se stessi. Il libro, ora tradotto in italiano, ha il merito di mettere in luce le grandi possibilità della tecnica sia per chi la sperimenta in pri­ma persona sia per gli psicote­rapeuti intenzionati ad adottar­la. Il metodo ideato da Siegel prevede incontri di gruppo, or­ganizzati su temi ben precisi, in cui le persone rivivono le lo­ro esperienze, diventando in­sieme 'spettatori e attori' della propria vita, consapevoli degli eventi passati tutti accettati co­me positivi.
Siegel si serve delle più di­sparate esperienze, da quelle più propriamente religiose a quelle di meditazione, propo­ste da diverse scuole, per aiuta­re i suoi 'allievi' a raggiungere una condizione di benessere sintonizzandosi con il proprio presente.
«L’obiettivo di questo meto­do è arrivare a rivedere i mo­menti salienti della propria vi­ta togliendo, per così dire, l'au­dio, eliminando cioè la riso­nanza emotiva — spiega Ghe­rardo Amadei, docente di psi­cologia dinamica all'Università Milano-Bicocca. «L'approccio proposto da Siegel — continua Amadei — fa leva su questo concetto: percepisco i miei sen­timenti e le mie emozioni sen­za essere costretto a reagire. E' un’idea innovativa che potreb­be suonare come un invito alla rassegnazione. Ma non lo è, perché l'indicazione di Siegel è: 'osservate i vostri sentimen­ti senza perdervi in essi'. In so­stanza: 'riconoscete i vostri sentimenti ma non fatevene turbare'. Una tecnica facile e al­la portata di tutti che promette risultati interessanti».
«Ma la mindfulness si rivela utile anche per quanto riguar­da la cosiddetta 'coazione a ri­petere'. Con queste parole — continua Amadei — Freud in­dicava quel processo che si atti­va, in modo automatico ed in­conscio, quando entriamo in rapporto con una persona per noi significativa. Si tratta di una tendenza a ripetere vec­chie ed abituali modalità di re­lazionarsi, che sovrastano le ca­ratteristiche specifiche di chi stiamo realmente incontran­do. In questo risiederebbe l'es­senza dei disagi psichici e delle sofferenze esistenziali: l'incapa­cità a vedere veramente la per­sona di fronte a noi, qui ed ora, mettendole addosso 'panni' non suoi, che di fatto la 'defor­mano' secondo paure o aspet­tative apprese durante l'infan­zia. Ognuno di noi sarebbe, in­somma, contraddistinto da un cliché, cioè da uno stile relazio­nale prevalente, la cui interpre­tazione da parte del terapeuta rappresenta un passaggio ver­so la cura. E' importante capire che Siegel non propone un suo approccio psicoterapico ma in­vita ad inserire pratiche di min­dfulness in modelli preesisten­ti (cognitivo, psicoanalitico) per potenziarne l'efficacia e per arrivare a quell’interpreta­zione del cliché così importan­te per avviarsi verso una solu­zione terapeutica». «La min­dfulness non è una abilità co­gnitiva ma una modalità di es­sere — ricorda ancora Amadei - caratterizzata da un’attenzio­ne piena, ma scevra da giudizi, nei confronti del reale. Cono­sciuta da millenni in diverse tradizioni spirituali, quella buddista, ma anche quella cri­stiana, la mindfulness è una lai­cizzazione della meditazione di consapevolezza, cioè dell’in­diana vipassana (che significa vedere le cose in profondità, come realmente sono). Dagli inizi degli anni '90, pratiche di mindfulness sono presenti in diverse psicoterapie per pro­muovere il benessere del cor­po e della mente. Prove sem­pre più convincenti quanto all' efficacia della mindfulness stanno alla base della sua diffu­sione in contesti clinici dispa­rati, ad esempio per affrontare i traumi dei reduci dalla guerra in Iraq».
«Una volta compreso che Siegel invita ad inserire prati­che di mindfulness in modelli di cura già noti — conclude Amadei - la speranza è che tale invito venga accolto anche in Italia, dove chi parla di min­dfulness sembra ancora impu­tabile di 'connivenza' con la new-age».

l’Unità Firenze 10.1.09
La mostra A Pisa la raffigurazione del cannocchiale dello scienziato datata già 1614
Dal Guercino ad Artemisia Gentileschi, la risposta dell’arte alla rivoluzione galileiana
La prima volta di Galileo Galilei
di Gianni Caverni


Il primo dipinto, dello Spagnoletto, che già nel 1614 raffigura il cannocchiale di Galileo, quadri e strumenti: l’unione tra arte e scienza all’ombra dello scienziato in una poderosa mostra allestita a Pisa.

Si chiama «La vista» e pare proprio si tratti della prima rappresentazione del cannocchiale di Galileo: la tela si deve a Jusepe De Ribera detto Lo Spagnoletto che la dipinse nel 1614 all’indomani della pubblicazione a Roma dell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari (1613). Proveniente dal Museo Franz Mayer di Città del Messico è forse il pezzo più curioso fra i molti capolavori esposti in «Il Cannocchiale e il pennello. Nuova scienza e nuova arte nell’età di Galileo», la mostra, curata da Lucia Tomasi Tongiorgi e Alessandro Tosi, che da ieri al 19 luglio è al Palazzo Blu, in Lungarno Gambacorti 9, a Pisa.
Il pittore spagnolo anticipa i dipinti di Jan Bruegel o le invenzioni di Jacques Callot. Centocinquanta opere, fra quadri, libri, sculture e oggetti, raccontano il percorso umano e intellettuale dello scienziato, evidenziando la fitta trama di relazioni con cui le scienze e le arti si trovarono a rispondere alla «rivoluzione» galileiana: da Caravaggio a Ribera, da Artemisia e Orazio Gentileschi, a Francesco Furini, Filippo Napoletano, Jacopo da Empoli al Guercino, da Arcimboldo al Passignano, e poi strumenti, libri, manoscritti e inediti autografi.
La mostra, promossa dal Comitato nazionale per le celebrazioni galileiane e altri enti, si conclude con il ritratto eseguito da Justus Suttermans.

Terra 9.5.09
Una crociera di carta

tra Nilo, faraoni e piramidi
di Simona Maggiorelli


Dal 14 al 18 maggio va in scena a Torino la XXII edizione della Fiera internazionale
del libro. L’Egitto Paese ospite al Lingotto, in ricordo di un maestro come il Nobel Mahfuz. Sono tantissimi anche gli appuntamenti per l’editoria di casa nostraDopo il successo di Palazzo Yocoubian e Chicago,
‘Ala al-Aswani si riconferma voce coraggiosa e anti regime con un nuovo romanzo: Se non fossi egiziano. Mentre nuovi giovani talenti crescono

Scontro di civiltà fra Occidente e Oriente? Se ne è fatto un gran parlare negli ultimi anni. A mio avviso, senza senso». Parola di ‘Ala al-Aswani, l’autore di Palazzo Yocoubian e di Chicago (entrambi editi da Feltrinelli), lo scrittore egiziano più letto in Medio Oriente, ma anche il più tradotto in Occidente.
«Ho sempre pensato che la civiltà sia uno dei risultati più alti della creatività umana» accenna lo scrittore al telefono, poco prima della sua partenza per Torino. «Lo scontro, quando avviene - precisa al-Aswani - semmai è causato dal fondamentalismo religioso. Nella storia le religioni sono sempre state usate per sostenere guerre e per uccidere. E in questo le confessioni religiose sono tutte uguali, a qualsiasi libro sacro appartengano. Io sono musulmano perché sono nato in un Paese che professa questa fede, ma se fossi nato in un Paese cattolico, probabilmente sarei stato cattolico...».
Sottile e tenace critico della situazione sociale e politico dell’Egitto di oggi, coraggioso nella sfida ai maggiori tabù della tradizione, ‘Ala al-Aswani è uno degli ospiti più attesi della Fiera del libro 2009, in programma al Lingotto dal 14 al 18 maggio. al-Aswani incontrerà il pubblico il 16, in occasione dell’uscita del suo nuovo libro Se non fossi egiziano (Feltrinelli, in libreria dall’9 maggio), in cui lo scrittore egiziano, sullo sfondo delle vie del Cairo, tratteggia una galleria di personaggi di oggi mandando in frantumi ogni oleografia. Così, fra un ricercatore in medicina che non trova come finanziare i suoi progetti, le meschinità di un bottegaio e il moralismo di una studentessa osservante quanto ipocrita, s’incontrano personaggi che nulla hanno di prevedibile e scontato. E proprio questa schiettezza, la sottile ironia, ma anche la calda umanità che “trasuda” dalla scrittura di al-Aswani, ne fanno una voce originalissima nel panorama della letteratura egiziana. Ma anche una delle più criticate dalla fronda più moralistica e religiosa dei lettori. E delle più bersagliate dalla censura.

Realtà e immaginazione
«Al Cairo - racconta al-Aswani - il primo ad aprire un cinema fu un italiano. Si chiamava Delio Astrologo. Trovandosi sempre di fronte un pubblico che si spaventava a morte quando sullo schermo appariva un treno che sembrava correre verso di lui, adottò questa tecnica: ogni sera, accompagnati gli spettatori in sala, prima che si sedessero, spiegava loro, con tanto di prove a misura di polpastrelli, che quello che avevano davanti non era che un pezzo di stoffa».
Un secolo dopo lo scrittore egiziano confessa di trovarsi in una situazione curiosamente simile. «Tra i lettori di narrativa - chiosa al-Aswani - purtroppo, c’è ancora chi fa la stessa identica confusione tra realtà e immaginazione. Dopo l’uscita del romanzo Chicago ho ricevuto dosi settimanali di insulti da lettori fanatici secondo i quali, rappresentando un personaggio di una ragazza velata che rinuncia ai suoi principi, offendevo tutte le musulmane velate e dunque l’islam stesso». Ma questo, certamente, non è bastato a fermare la fantasia dello scrittore e il gusto di uno scrivere senza censure.
«Terminati gli studi di medicina negli Stati Uniti, alla fine degli anni Ottanta sono tornato a vivere in Egitto - racconta - e avrei voluto dedicarmi solo alla scrittura. Ma dovevo fare il dentista per guadagnarmi da vivere. Così ho scisso la mia vita in due: una vita regolare, seria, da persona rispettabile, come medico, e un’altra da scrittore, libera, esente da ogni restrizione sociale e pregiudizio. Tutti i giorni, dopo il lavoro, mi precipitavo alla scoperta della vita nelle sue forme più originali ed eccitanti. Andavo a zonzo nei luoghi più bizzarri, incontravo persone poco convenzionali, spinto da una curiosità impellente e una reale necessità di comprendere la gente e di imparare quel che aveva da insegnarmi».
Una passione per l’umano, in tutti i suoi aspetti, che rende viva e irresistibile la prosa di questo scrittore che qualche critico definisce “il Nagib Mahfuz contemporaneo”. Di fatto il Nobel scomparso nel 2006 è “il nume tutelare” e la personalità forte che aleggia su tutti gli appuntamenti di questa Fiera del libro 2009, che ha scelto l’Egitto come Paese ospite. Ma il 16 maggio la casa editrice Newton Compton gli dedicherà un appuntamento speciale, un reading di pagine scelte dai suoi capolavori, da Rhadopis a Il romanzo dell’Antico Egitto, da La cortigiana del faraone a Il giorno in cui fu ucciso il leader, fino a Karnak cafè. Con una sorpresa per il pubblico italiano: l’uscita, sempre per i tipi di Newton Compton, di Autunno egiziano, un affascinante racconto-affresco del Cairo, a oggi ancora inedito in Italia.

Zigzagando tra gli appuntamenti
Ma zigzagando fra i moltissimi appuntamenti della sezione dedicata all’Egitto - fra i quali segnaliamo in particolare “L’Egitto al femminile” con Radwa Ashur, Salwa Bakr, Ahdaf Soueif e Mira Al Tahawi e la lectio magistralis dell’archeologo Zahi Hawass, autore dell’affascinate Le montagne dei faraoni (Einaudi) - da non perdere di vista, l’incontro con lo scrittore emergente Ahmad al-Aidy, caso letterario in Egitto e in Inghilterra del 2008 proprio per la penetrazione psicologica con cui questo giovane autore egiziano (classe 1974) racconta una generazione «che non ha nulla da perdere». Linguaggio ironico, scheggiato, scrittura sincopata che procede per flash, diversamente dalla prosa più distesa e classica di al-Aswani, quella di al-Aidy nel romanzo Essere Abbas al-Abd (il Saggiatore, dal 7 maggio in libreria) procede per improvvisi scatti, impreviste accelerazioni nel raccontare una porzione di gioventù intrappolata in un mondo di rapporti malati, senza un filo e al tempo stesso scapicollati fra sms, mondi virtuali e McDonald’s. Con un registro completamente diverso, anche qui troviamo il coraggio di uno sguardo “crudele” che va fino in fondo. La voglia di guardare in faccia la realtà senza infingimenti. Con un linguaggio letterario nuovo, creativo, che non si ferma alla cronaca.
«Il successo internazionale di uno scrittore artisticamente maturo come al-Aswani, ma anche l’emergere di voci dichiaratamente controcorrente come al-Aidy sono la riprova di quanto la scena culturale sia cambiata in Egitto, di quanto sia diventata finalmente più libera» commenta Fabio El Ariny, lo scrittore italo egiziano che ha fatto molto parlare di sé con il romanzo d’esordio, Il legame (Besa) nel quale si immagina un nesso fra l’incidente aereo che accadde a Malpensa e l’attentato alle Torri gemelle. Al centro del racconto c’è un giovane immigrato ingiustamente accusato di terrorismo. El Ariny, che come al-Aswani ha una “doppia vita” fra lavoro e scrittura, sarà a Torino il 15 maggio per parlare di letteratura egiziana. In queste settimane è anche al lavoro su un nuovo romanzo «che - ci anticipa - sarà completamente diverso dal precedente, che era stato definito un thriller».

Un Paese democratico?
Nato in Italia, El Ariny è cresciuto e ha studiato in Egitto. «Là vivono i miei genitori e da quando nel 1992 mi sono trasferito in Italia ho continuato a frequentare molto il Paese - racconta - così ho potuto vedere passo dopo passo il cambiamento che l’Egitto ha fatto dalla fine degli anni Ottanta. Allora era impossibile criticare il governo. Non c’erano giornali, se non quelli di regime e in pubblico bisognava stare molto attenti a quel che uno diceva. Oggi, giustamente, c’è chi dice che l’Egitto non sia un Paese democratico ma bisogna ammettere anche che la censura si è un po’ allentata: quando ero piccolo, per esempio, certi libri di Mahfuz si potevano acquistare solo in Libano, che sotto questo riguardo è sempre stato un Paese più libero dell’Egitto. Negli ultimi anni sono nati giornali di opposizione, possono emergere voci libere di scrittori, anche apertamente critiche. Molti di loro saranno ospiti a Torino. E proprio per questo sarebbe assurdo boicottare la Fiera».
«La scena editoriale egiziana è molto cresciuta e si è molto movimentata negli ultimi anni. Accanto alle case editrici più grandi e ufficiali sono nate imprese più piccole e indipendenti, che qualche anno fa sarebbero state impensabili» conferma Barbara Ferri, che per le Edizioni e/o segue il progetto Sharq/Gharb: una costola della casa editrice romana che traduce e pubblica in arabo letteratura italiana contemporanea ma al contempo promuove coedizioni arabe di opere di autori mediorientali. «La Fiera del libro del Cairo è un buon termometro della situazione. E l’ultima edizione è stata quanto mai frequentata e ricca di proposte. Anche dal punto di vista dell’editoria - sottolinea Ferri -. Ovviamente non si può parlare dei Paesi arabi in generale, perché ciascuno ha la sua storia. Ma se, per esempio, in Siria non siamo ancora riusciti a creare rapporti di collaborazione con l’editoria locale, a causa di una forte presenza della censura, in Libano non abbiamo mai avuto problemi. La novità ora riguarda proprio l’Egitto dove per la prima volta sta nascendo un’attenzione viva anche per quel si pubblica nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo».

Quelle star del boicottaggio
Tahar Lamri *

Il direttore della Fiera del libro di Torino, Ernesto Ferrero, ha dichiarato a Libero: «Ci saranno tante star e ne siamo contenti, perché servono a creare movimento e ottengono spazio sui mezzi di informazione». L’evocazione di queste parole (star, movimento e ottenere spazio), in ambito letterario, è già di per sé motivo sufficiente per boicottare una manifestazione. Non per motivi ideologici, ma perché, in un mondo letterario perfetto, il libro è invito alla lentezza e a combattere le forme dello star system e dello sgomitare per avere un posto sui media.
L’appello a boicottare la Fiera, sottoscritto anche da Gianni Vattimo, crea proprio quel movimento che assicura spazio sui mezzi di informazione e fa di Vattimo una star e siccome questo movimento tende a fagocitare il suo nucleo, cioè in questo caso la difesa dei diritti umani, e focalizzare tutta l’attenzione sulla periferia, cioè la polemica-spazzatura che si nutre di vecchie e nuove polemiche, alcuni giornalisti fanno i conti con chi davvero difende i diritti umani e spostano l’asse della discussione su tutto ciò che è marginale: Israele è più democratico dell’Egitto, Tariq Ramadan non dovrebbe essere invitato perché l’anno scorso... ecc.
Sheherazade ci insegna che la letteratura salva la vita, ma è da molto tempo che la letteratura si è dimessa da questa funzione. Dai tempi di Camus, Franz Fanon, Aimée Cesaire, molti scrittori sudamericani torturati, segregati, confinati, proprio per difendere i diritti umani e il diritto alla parola. Poeti Cheyenne che vivono a stenti nelle democrazie consolidate. Boicottare o non boicottare una Fiera del libro è soltanto un esercizio ozioso per creare, appunto, star, movimento e ottenere spazio.

*Scrittore e studioso di intercultura