mercoledì 13 maggio 2009

Adnkronos 12.5.09
Bertinotti: la sinistra è in crisi perché non ha una convincente alternativa di società

Roma, 12 mag. - (Adnkronos) - La sinistra e' in crisi perche' "non ha una convincente alternativa di societa'". Ad affermarlo e' l'ex presidente della Camera Fausto Bertinotti secondo il quale "il tema che va riaffrontato e' quello di un'altra societa' perche' non si puo' considerare il capitalismo l'ultimo capitolo della storia umana. La questione dell'uguaglianza e' un tema della politica, non certo uno sfizio per intellettuali". La sinistra, nel 2008, ha subito una pesante sconfitta "non perche' le siano mancati i muscoli: quel che e' mancata e' stata un'autonomia culturale e politica. L'alleanza di centrosinistra -sottolinea Bertinotti- e' certamente vocata alla modernizzazione della societa': purtroppo ha dimostrato di non avere la vocazione della trasformazione sociale del Paese".

Repubblica.it 13.5.09
Ferrero vs. Bertinotti, divisi sul futuro della sinistra

Alla vigilia delle europee restano lontani i giudizi sul futuro della sinistra in Italia e in Europa tra Fausto Bertinotti, oggi sostenitore di Sinistra e liberta' di Nichi Vendola, e il segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero. L'ex presidente della Camera, a RadioRai, ammette che e' superata la sua analisi sulle due sinistre, quella moderata (il Pd) e quella radicale: "Questa storia e' stata sconfitta, non c'e' verso di recuperarla, avevamo due sinistre e non ne abbiamo nessuna". Per Bertinotti, comunque, "il futuro della sinistra non nascera' dal voto alle europee. Quello che va messo all'ordine del giorno e' davvero un ricominciare. La rinascita di una sinistra attraverso una grande costruzione inedita; una sinistra nuova, che comprenda tutti". Non ci sta Paolo Ferrero: "Da parte di Fausto, c'e' una vera e propria rottura con tutto l'indirizzo di Rifondazione, che era fondato sulle due sinistre. Il problema e' che e' fallita la nostra e non che e' cambiata l'altra, la sinistra moderata e' rimasta tale: il Pd stava con la globalizzazione liberista prima ed e' rimasto oggi su quell'impianto". Quanto alla sinistra di alternativa, osserva Ferrero, "e' stata sconfitta per l'esperienza di governo: ci abbiamo provato, ma poiche' non siamo riusciti a cambiare nulla siamo crollati. Per il futuro il problema non e' quello di metterci assieme a D'Alema, ma di ricostruire una sinistra di alternativa a partire dalla ricostruzione dell'opposizione, in Italia e in Europa". A chi gli domanda se l'unita' dei comunisti, di Prc e Pdci che vanno insieme alle europee, sia un inizio per far ripartire la sinistra di alternativa, Ferrero replica: "L'unita' dei comunisti e' un tema interno al problema della sinistra di alternativa, non e' ne' una partenza ne' un arrivo, perche' anche i comunisti devono discutere sulla linea politica".

l’Unità 13.5.09
Ban Ki-Moon accusa: l’Italia viola le norme Onu
Il segretario generale dell’Onu: «Forte preoccupazione». Maroni: facciano verifiche in Libia
di Andrea Carugati


L’Alto commissariato per i rifugiati scrive al premier: «Riammettete chi cerca protezione internazionale». Il segretario generale del Consiglio d’Europa: le critiche all’Italia di Hammarberg erano «a titolo personale».
Oggi la fiducia L’esame alla Camera sul decreto. Berlusconi: ho deciso io, il Viminale esegue

L’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) scrive al governo italiano esprimendo «grave preoccupazione» per il respingimento in Libia degli immigrati. La richiesta alle autorità italiane, appoggiata esplicitamente dal segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon, è di «riammettere quelle persone rinviate dall’Italia ed identificate dall’Unhcr quali individui che cercano protezione internazionale». «La politica dell’Italia - scrive il portavoce dell’Unhcr Ron Redmond - mina l’accesso all’asilo nell’Unione europea e comporta il rischio di violare il principio fondamentale di non respingimento previsto dalla Convenzione del 1951 sui rifugiati». «Gli Stati sono obbligati a rispettare questo principio ovunque esercitino la loro giurisdizione, anche in alto mare». L’Alto Commissariato ricorda che la Libia non ha firmato la Convenzione del 1951, dunque non vi sono garanzie che i richiedenti asilo possano trovare in quel paese protezione internazionale. Da alcuni colloqui effettuati in Libia dall’Unhcr risulta che alcuni dei rifugiati respinti, provenienti da Somalia ed Eritrea, «potrebbero avere diritto alla protezione». Secondo l’Unhcr nel 2008 oltre il 75% degli immigrati arrivati in Italia via mare ha fatto richiesta di asilo e al 50% di loro (circa 15mila) è stata concessa una forma di protezione. La Ue per ora non si pronuncia, anche se il Commissario Jacques Barrot ricorda che «il diritto di asilo va rispettato ovunque». Intanto il segretario generale del Consiglio d’Europa Terry Davis, dopo le proteste italiane, dice che le critiche all’Italia del commissario ai diritti umani Hammarberg erano «a titolo personale». E Maroni incassa: «Hammarberg dovrebbe dimettersi, l’Onu verifichi in Libia chi ha il diritto all’asilo, poi se ne faccia carico l’Ue».
IL PREMIER INSISTE
Berlusconi risponde indirettamente all’Onu da Sharm-el Sheik: «Gli accordi con la Libia li ho gestiti io con Gheddafi, Maroni esegue». Su quei barconi, dice il premier, non ci sono rifugiati ma gente «reclutata in maniera scientifica dalle organizzazioni criminali», che «paga il biglietto». «Non sono persone spinte da una loro speciale situazione all’interno di paesi dove sarebbero vittime di ingiustizie», rincara il Cavaliere. Nella maggioranza sembrano tutti d’accordo sulla linea Berlusconi- Maroni. «Sui respingimenti l’Italia sta esercitando un proprio diritto», dice il presidente del Senato Schifani. Dal Pd arriva la richiesta di fermarsi e ascoltare le richieste dell’Onu. Dice Franceschini: «Il governo sbaglia a respingere i disperati che fuggono dalla guerra, lo diciamo anche se può far perdere voti».
oggi la fiducia
La tensione sui temi dell’immigrazione e della sicurezza è altissimo. Oggi alla Camera il triplice voto di fiducia sul ddl sicurezza Dure le opposizioni, con il capogruppo Pd Soro che ha contestato l’ammissibilità dei tre maxi-emendamenti, visto che i deputati non potranno votare a scrutinio segreto su diritti fondamentali. Soro ha anche sottolineato che in quelle norme vi sono elementi di incostituzionalità, a partire dall’obbligo di denuncia dei clandestini da parte dei pubblici ufficiali. Fini ha risposto che i maxi-emendamenti sono ammissibili ma che, in effetti, vi sono dubbi sulla costituzionalità di alcune norme. Replica Donatella Ferranti (Pd): «Fini ha di fatto avallato norme razziste e xenofobe». Unica voce fuori dal coro nel Pdl è Beppe Pisanu: «La Lega dice e fa cose pericolose sull’immigrazione. C’è il rischio di alimentare il razzismo».

Corriere della Sera 13.5.09
Clandestini, affondo Onu. Berlusconi va avanti
Ban Ki-moon «preoccupato». Il premier: Maroni esegue gli accordi firmati da me
di Marco Galluzzo


SHARM EL SHEIKH — Se l’Onu continua a criticare l'Italia per l'applicazione di un trattato internazionale, sottoscritto fra Roma e la Libia, che a giudizio delle Nazioni Unite lede il dirit­to di coloro che hanno diritto d'asilo, Silvio Berlusconi riman­da al mittente le critiche. Lo fa a margine del vertice italo-egizia­no, rimarcando che coloro che tentano di arrivare sulle nostre coste «non sono, se non eccezio­nalmente, persone che sfuggo­no da Paesi dove sarebbero vitti­me di ingiustizie. Di solito su questi barconi di gente che ha diritto d'asilo non ce n'è». Piut­tosto sono persone che «paga­no un biglietto al crimine orga­nizzato, per dei passaggi frutto delle organizzazioni criminali».
La disputa a distanza è anche frutto di diverse interpretazioni delle norme internazionali. Per il governo italiano al momento la priorità è dare applicazione all'accordo con Tripoli sui re­spingimenti, che ha cominciato a funzionare in questi giorni. Berlusconi tiene a precisare che «come sempre ci sentiamo in dovere di dare accoglienza a chi fugge da una situazione perico­losa, nessuno può dire che chi ha i requisiti per l'asilo non sia stato accettato dall'Italia». Ma negli stessi istanti l'Alto Com­missariato dell'Onu per i rifugia­ti, da Ginevra, rende noto di aver espresso al nostro governo «grave preoccupazione» per il rinvio in Libia dei migranti e di auspicare che vengano «riam­messe quelle persone rinviate dall'Italia ed identificate quali individui che cercano protezio­ne internazionale», a meno di non voler violare «il principio fondamentale di non respingi­mento previsto dalla Convenzio­ne del 1951». Parole che in sera­ta ricevono anche il pieno «ap­poggio » del Segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon. Polemi­ca la risposta del ministro Maro­ni: «La Libia è nell’Onu e l’Unhcr può fare lì le verifiche sul diritto d’asilo».
Non rende la disputa più faci­le il fatto che in Italia la questio­ne ha acquisito un taglio politi­co prima che amministrativo. Da Sharm il presidente del Con­siglio sottolinea che «gli accor­di con la Libia li ho gestiti io, li ho sottoscritti io e Maroni ese­gue quelli che sono gli accordi presi direttamente dal sotto­scritto con Gheddafi». E non è difficile leggere nell'uso delle parole una rivendicazione in chiave interna, nello schema dell'antagonismo politico sulla sicurezza, rispetto all'alleato le­ghista. Quella Lega che «certa­mente esagera, anche se sono esagerazioni più di facciata che di sostanza, perché poi i leghi­sti sono delle persone perbene, anche nelle amministrazioni lo­cali sono coloro che danno di più per aiutare chi ha bisogno di una mano». C’è poi l’antago­nismo con quella parte del Pdl che proviene da Alleanza nazio­nale, a cominciare dalle critiche espresse dal presidente della Ca­mera sulla necessità di assicura­re l'esercizio del diritto di asilo ai migranti. Sul punto il Cavalie­re minimizza il contrasto: «Non credo che si possa parlare anco­ra di polemiche, An è un partito che non esiste nominalmente perché è confluito nel Pdl», mentre plaude alle parole di due esponenti dell'opposizione come Piero Fassino e Francesco Rutelli, che hanno rimarcato il diritto del governo di respinge­re i migranti: «Mi fa piacere che anche nell'opposizione ci sia qualche persona di buonsenso che non segue fino in fondo l'ideologia».

Repubblica 13.5.09
Il coraggio dimenticato
di Roberto Saviano


Chi racconta che l´arrivo dei migranti sui barconi porta valanghe di criminali, chi racconta che incrementa violenza e degrado, sta dimenticando forse due episodi recentissimi ed estremamente significativi, che sono entrati nella storia della nostra Repubblica. Le due più importanti rivolte spontanee contro le mafie, in Italia, non sono partite da italiani ma da africani. In dieci anni è successo soltanto due volte che vi fossero, sull´onda dello sdegno e della fine della sopportazione, manifestazioni di piazza non organizzate da associazioni, sindacati, senza pullman e partiti. . Manifestazioni spontanee. E sono stati africani a farle.

Castelvolturno, il 19 settembre 2008, dopo la strage a opera della camorra in cui vengono uccisi sei immigrati africani. Le vittime sono tutte giovanissime, il più anziano tra loro ha poco più di trent´anni, sale la rabbia e scoppia una rivolta davanti al luogo del massacro. La rivolta fa arrivare telecamere da ogni parte del mondo e le immagini che vengono trasmesse sono quelle di un intero popolo che ferma tutto per chiedere attenzione e giustizia. Nei sei mesi precedenti, la camorra aveva ucciso un numero impressionante di innocenti italiani. Ma nulla. Nessuna protesta. Nessuna rimostranza. Nessun italiano scende in strada. I pochi indignati, e tutti confinati sul piano locale, si sentono sempre più soli e senza forze. Ma questa solitudine finalmente si rompe quando, la mattina del 19, centinaia e centinaia di donne e uomini africani occupano le strade e gridano in faccia agli italiani la loro indignazione. Succedono incidenti. Il giorno dopo, gli africani, si faranno carico loro stessi di riparare ai danni provocati. L´obiettivo era attirare attenzione e dire: "Non osate mai più". Contro poche persone si può ogni tipo di violenza, ma contro un intera popolazione schierata, no.
E poi a Rosarno. In provincia di Reggio Calabria, uno dei tanti paesini del Sud Italia a economia prevalentemente agricola che sembrano marchiati da un sottosviluppo cronico e le cui cosche, in questo caso le ´ndrine, fatturano cifre paragonabili al Pil del paese. La cosca Pesce-Bellocco di Rosarno aveva deciso di riciclare il danaro della coca nell´edilizia in Belgio, a Bruxelles, dove per la presenza delle attività del Parlamento Europeo le case stavano vertiginosamente aumentando di prezzo. L´egemonia sul territorio è totale, ma il 12 dicembre 2008, due lavoratori ivoriani vengono feriti, uno dei due è in gravissime condizioni. La sera stessa, centinaia di stranieri – anche loro, come i ragazzi feriti, impiegati e sfruttati nei campi – si radunano per protestare. I politici intervengono, fanno promesse, ma da allora poco è cambiato. Inaspettatamente, però, il 14 di dicembre, ovvero a due soli giorni dall´aggressione, il colpevole viene arrestato e il movente risulta essere violenza a scopo estorsivo nei riguardi della comunità degli africani. La popolazione in piazza a Rosarno, contro la presenza della ´ndrangheta che domina come per diritto naturale, non era mai accaduto negli anni precedenti. Eppure, proprio in quel paese, una parte della società, storicamente, aveva sempre avuto il coraggio di resistere. Ne fu esempio Peppe Valarioti, che in piazza disse: «Non ci piegheremo», riferendosi al caso in cui avesse vinto le elezioni comunali. E quando accadde fu ucciso. Dopo di allora il silenzio è calato nelle strade calabresi. Nessuno si ribella. Solo gli africani lo fanno. E facendolo difendono la cittadinanza per tutti i calabresi, per tutti gli italiani.
Per il pubblico internazionale risulta davvero difficile spiegarsi questo generale senso di criminalizzazione verso i migranti. Fatto poi da un paese, l´Italia, che ha esportato mafia in ogni angolo della terra. Che hanno fatto sviluppare il commercio della coca in Sudamerica con i loro investimenti, che hanno messo a punto, con le cinque famiglie mafiose italiane newyorkesi, una sorta di educazione mafiosa all´estero. Oggi, come le indagini dell´Fbi e della Dea dimostrano, chiunque voglia fare attività economico-criminali a New York che siano kosovari o giamaicani, georgiani o indiani devono necessariamente mediare con le famiglie italiane, che hanno perso prestigio ma non rispetto. Le mafie straniere in Italia ci sono e sono fortissime ma sono alleate di quelle italiane. Non esiste loro potere senza il consenso e la speculazione dei gruppi italiani. Basta leggere le inchieste per capire come arrivano i boss stranieri in Italia. Arrivano in aereo da Lagos o da Leopoli. Dalla Nigeria, dall´Ucraina dalla Bielorussia. Le inchieste più importanti come quella denominata Linus e fatta dai pm Giovanni Conzo e Paolo Itri della Procura di Napoli sulla mafia nigeriana dimostrano che i narcos nigeriani non arrivano sui barconi ma per aereo. Persino i disperati che per pagarsi un viaggio e avere liquidità appena atterrano trasportano in pancia ovuli di coca. Anche loro non arrivano sui barconi. Mai.
Quando si generalizza, si fa il favore delle mafie. Loro vivono di questa generalizzazione. Vogliono essere gli unici partner. Se tutti gli immigrati diventano criminali, le bande criminali riusciranno a sentirsi come i loro rappresentanti e non ci sarà documento o arrivo che non sia gestito da loro. La mafia ucraina monopolizza il mercato delle badanti e degli operai edili, i nigeriani della prostituzione e della distribuzione della coca, i bulgari dell´eroina, i furti di auto di romeni e moldavi. Ma questi sono una parte minuscola delle loro comunità e sono allevate dalla criminalità italiana.
Avere un atteggiamento di chiusura e criminalizzazione aiuta le organizzazioni mafiose perché si costringe ogni migrante a relazionarsi alle mafie se da loro soltanto dipendono i documenti, le abitazioni, persino gli annunci sui giornali e l´assistenza legale. E non si tratta di interpretare il ruolo delle "anime belle", come direbbe qualcuno, ma di analizzare come le mafie italiane sfruttino ogni debolezza delle comunità migranti. Meno queste vengono protette dallo Stato, più divengono a loro disposizione. Il paese in cui è bello riconoscersi – insegna Altiero Spinelli padre del pensiero europeo – è quello fatto di comportamenti non di monumenti. Io so che quella parte d´Italia che si è in questi anni comportata capendo e accogliendo, è quella parte che vede nei migranti nuove speranze e nuove forze per cambiare ciò che qui non siamo riusciti a mutare. L´Italia in cui è bello riconoscersi e che porta in sé la memoria delle persecuzioni dei propri migranti e non permetterà che questo riaccada sulla propria terra.
2009 by Roberto Saviano
Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency

il Riformista 13.5.09
RaiCinema riprova a "Vincere" a Cannes
Ma Bellocchio non è lo shock Gomorra
Intervista. Per la D'Amico Garrone colpì «perchè sconosciuto». I francesi sono sciovinisti, «il Lido è pericoloso». L'Archibugi? «Meglio non rinviarla».
di Michele Anselmi


«Beh, mi pare un risultato di buon auspicio». Sorride, Caterina D'Amico, amministratore delegato di Raicinema, scorrendo i dati d'ascolto di Porta a porta. La vivace puntata di lunedì sera, interamente dedicata a Vincere, il film di Bellocchio che ricostruisce il controverso rapporto tra Mussolini e la moglie segreta Ida Dalser, ha registrato il 20 per cento di share, pari a 1 milione e 800 mila spettatori. Battuto ampiamente Matrix, che puntava invece su Angeli e Demoni. Vincere uscirà nelle sale il 20 maggio in oltre 300 copie, subito dopo l'anteprima mondiale a Cannes, dove - unico titolo italiano in concorso - rappresenta i nostri colori.
L'anno scorso, con "Gomorra", altro film targato Raicinema, andò di lusso. Quest'anno che si aspetta?
Uno ci spera nel premio. Trovo il film di Bellocchio bello e d'impatto, orgoglioso e spregiudicato, insomma di grande respiro. Sopporterà facilmente l'impatto. Non abbiamo avuto nessun dubbio nell'accettare la proposta del direttore Frémaux. Cannes è una grande vetrina, un termometro finissimo. Poi certo, Vincere è diverso da Gomorra, per vari motivi.
Ce li dica.
Sono diversi stilisticamente. Vincere ha alle spalle un autore celebre, noto ai francesi, che non può giocare l'effetto sorpresa. Mi spiego. Noi italiani sapevamo benissimo chi è Matteo Garrone, avevamo visto i suoi quattro film precedenti. Ma per i francesi Gomorra è stata una rivelazione. Mi chiedevano: "Accidenti, da dove esce questo Garrone, perché nessuno ce ne ha parlato prima?". Pensavano fosse un debuttante, uno alle prime armi. Bellocchio, invece, è un maestro riconosciuto. Il compito quindi è più arduo. E tuttavia…
Tuttavia cosa?
Ho sempre pensato che Cannes fosse il posto giusto per mostrare Vincere. Ha un forte respiro internazionale, non è una storia a chiave comprensibile solo da noi. È un film di grandi sentimenti e conflitti, parla di un rapporto vivo, palpitante, tra un uomo e una donna, comprensibile sotto ogni cielo. Poi certo, lui è Mussolini.
Il direttore della Quinzaine, sezione autonoma del festival, avrebbe preso volentieri "Questione di cuore" della Archibugi se non fosse già uscito. Voleva l'anteprima mondiale…
Ho l'impressione che ci marcino un po' con questa storia dell'esclusiva. Il film di Francesca meritava di uscire un mese fa, non me la sono sentita di rinviarlo. È bello, toccante, è piaciuto a tutta la critica. Certo, dati i presupposti, speravo andasse meglio al botteghino. Ma perché dobbiamo sempre spiegare tutto? L'obbiettivo è di raggiungere più pubblico possibile. Non sempre succede. Specie di questi tempi. Forse la gente ha meno voglia di andare al cinema. Magari la chiusura di tante sale cittadine, centrali, frequentate da un pubblico più adulto, ha penalizzato alcuni film d'autore. Non so. D'altro canto, ogni tanto c'è un exploit.
Pensa a "Gran Torino" di Clint Eastwood?
Bel film, non ci piove. Ma sulla carta chi poteva immaginare che avrebbe incassato oltre 8 milioni di euro? Certamente non io, che pure mi occupo di queste cose. Qualche giorno fa parlavo con un degli amici americani, cinquantenni, colti. Uno è un professore universitario. Mi spiegava che lui i film non li vede più al cinema. Le sale gli sembrano un postaccio, pieno di ragazzini che mangiano pop-corn e fanno caciara. Sta succedendo anche qui. Dobbiamo riflettere sul rapporto che si crea tra lo spettatore e il luogo, non solo con il contenuto.
Tornando ai festival di cinema. L'anno scorso scongiurò Ozpetek di non mandare "Un giorno perfetto" a Venezia. Non fu ascoltata, con gli esiti che sappiamo.
Era un bel film, ma sapevo che al Lido l'avrebbero infiocinato. Per natura io non sono competitiva, il senso della gara me l'hanno estirpato sin dalla nascita. Nondimeno penso che i festival siamo in generale utili, perché danno visibilità, costringono un certo pubblico specializzato a occuparsi di questi strani oggetti che sono i film d'autore.
Però conferma: Venezia è un palcoscenico pericoloso per gli italiani.
Sì, molto pericoloso, perché storicamente la stampa italiana è schizzinosa con i nostri film, è sempre pronta a beccarli in castagna. Vogliamo chiamarlo carattere nazionale? Vizio nazionale? Non so. Ma succede al Lido, sin dai tempi della Terra trema e dei Soliti ignoti. I francesi, invece, sono chauvinisti. Difficile che non difendano i colori nazionali.
Il suo miglior festival di Cannes?
Non ho dubbi: l'edizione del 1982. Andai per divertirmi e vedere film, senza ruoli istituzionali. Ma ci pensa? Vinsero a pari merito Missing e Yol. C'erano Fitzcarraldo, Moonlighting, Il mondo nuovo. Il festival fu chiuso da ET. E in quell'occasione conobbi pure Billy Wilder.

Repubblica 13.5.09
Veronica e le donne al tempo del Cavaliere
di Natalia Aspesi


Lui un buon uomo addolorato, un marito ferito, un padre che, pur oberato dai suoi impegni internazionali, passa le serate col figlio e spera solo in una riconciliazione, in nome dell´amore e della famiglia: lei una povera donna che è caduta in una trappola mediatica, una moglie che si è fatta plagiare, una persona fragile, incapace di autonomia, forse addirittura disturbata, per non dire matta.
La vera trappola mediatica è invece la "rotocalchizzazione", quella che il potente sbarramento di quotidiani, settimanali, mensili, televisioni, siti al servizio del premier, ogni giorno si spalanca su Veronica Lario, per macchiarla, denigrarla, distruggerla. Per fare di lei non una moglie che non sopportando più le umiliazioni e le stranezze del marito, chiede come è suo diritto la separazione, ma una creatura suggestionabile, instabile, irragionevole, soggetta a incubi, forse addirittura pericolosa a sé e agli altri. É come se all´impero della comunicazione di cui il premier è padrone, fosse stato ordinato non tanto di far rilucere le sante ragioni di un marito sofferente per le folli accuse di una moglie, contemporaneamente sottolineando la sventatezza e i torti di lei: ma piuttosto di rendere questa moglie da subito inaffidabile, incapace di intendere e volere, nel caso decidesse prima o poi di dire la sua: perché nessuno conosce, oltre alle virtù di un marito, i suoi segreti, gli errori, le debolezze, i peccati, gli abissi, più di una compagna di trent´anni di vita.
Ma la signora Lario tace, non reagisce a nessuna provocazione, ha scelto, con grande intelligenza e fermezza, il silenzio, l´ombra, l´invisibilità. E nella volgare ragnatela di pettegolezzi, pareri, offese, diagnosi, barzellette, sondaggi, supposizioni, invettive, sghignazzi, ragazzette e ministre e vecchie foto, che stanno macchiando la sempre più servizievole e provinciale informazione italiana, quel silenzio, quell´ombra, quell´invisibilità, mettono a disagio i lanzichenecchi dell´insulto, li fanno sentire impotenti, nell´incapacità di creare un vero e proprio scontro che consenta loro aggressioni sempre più violente e infamanti.
Il silenzio, per ora, è la lama più affilata che la signora Lario, una moglie come tante, come tante offesa, che ha con sé solo il potere delle sue ragioni e della sua ragione, può opporre non a un marito come tanti, ma a un premier che si crede invincibile e immortale, ricchissimo e certo che tutto sia in vendita, che ha con sé un governo che mai dissente, una maggioranza parlamentare ubbidiente, una moltitudine di avvocati sapienti, una folla di cortigiani disposti a tutto, un muro compatto di giornali e televisioni di massimo cinismo, una parte rilevante degli italiani, uomini e donne, intrappolati da una specie di incantamento che nulla scalfisce. Forse le ultime avventure familiari ed extrafamiliari? Dipende: un sondaggio Swg dice che il 67% degli italiani si schiera con Veronica, mentre dai focus group di parte risulta che stanno con Silvio l´85% delle donne italiane.
Delle donne, italiane! Di sicuro una balla, o una macroesagerazione, ma è vero che le ultime vicende personali di cui è stato protagonista il presidente del consiglio, hanno esasperato una nuova mutazione, un ripiegamento, una perdita di equilibrio del costume italiano, segnando la fine del politicamente corretto di genere, del rispetto verso le donne; di quelle fantomatiche pari opportunità che dopo aver prodotto una deliziosa ministra carica di sue invidiabili opportunità e quindi antifemminista, servono solo a privilegiare ragazze giovani e carine, di cui si decantano le lauree plurime, come se bastassero a sostituire esperienza, passione, sacrificio, competenza.
Le donne sono tornate a essere il bersaglio del maschilismo più fascistoide, con giornali che delle signore che danno fastidio pubblicano subito foto discinte e rastrellamento di ex amanti, perché la donna torna ad essere solo corpo, solo sesso, da disprezzare, irridere, additare al pubblico ludibrio, oppure, se servizievole, da esaltare e promuovere, soprattutto nella freschezza e stupidaggine della minore età. Bastava vedere nell´ormai celebre puntata di Annozero, con che disprezzo virilista l´avvocato Ghedini al servizio del premier e quindi promosso parlamentare, trattava Emma Bonino, la cui fermezza, e intelligenza, e preparazione, e storia, meritano sempre ascolto; ma non per Ghedini, cresciuto alla scuola che se irridi e parli sulle parole dell´altro, quelle parole preziose vengono cancellate. E nella stessa trasmissione si ha avuto la conferma che anche le donne hanno perso la testa: dopo che Noemi Letizia è stata paragonata a Cenerentola, la direttrice di un settimanale rosa, graziosa anche se non minorenne, ha spiegato il suo appoggio al presidente del consiglio in veste di marito perché «è bellissimo» e pure molto galante. Il boato del pubblico l´ha molto stupita, e amareggiata. Tutti i settimanali di gossip, non solo quelli di proprietà berlusconiana, con qualche distinguo, hanno elogiato, in questa occasione di prezioso pettegolezzo, oltre al politico, il tombeur des femmes, dando vita al nuovo Principe Azzurro che fa impazzire le donne: ultrasettantenne, sempre truccato, con cinque figli e due mogli, simpaticamente donnaiolo, e con un patrimonio e un potere immenso che nessun principe azzurro tradizionale si è mai sognato di possedere. Il colpo finale lo ha dato la piccola massima diva del momento, la diciottenne Noemi che con la sua grazia gentile è un clone indistinguibile delle sue coetanee, tutte con capelli biondi e lisci, corpicino stretto, sorriso fisso, pazze per lo shopping, meta Il Grande Fratello, per lei oltre a papi, si capisce.
E´ stata lei, in totale incoscienza, a sfoderare una parola che era uscita dal vocabolario di uomini e donne persino in confessionale, che non era più comparsa tra i problemi, le angustie e le indispensabili virtù femminili: proprio lei ci ha ricordato che «la verginità è un valore importante» e chissà come si dispereranno i suoi cloni, che se ne erano dimenticate e potrebbero da adesso sentirsi fuori moda.

l’Unità 13.5.09
Il bambino spaventato che dorme alle radici del male
«Riprendersi la vita» Esce il nuovo saggio di Alice Miller sull’origine dell’orrore
In ogni terrorista o dittatore, come Hitler, si cela un’infanzia gravemente umiliata
di Alice Miller


Da oggi è in libreria per Bollati Boringhieri un nuovo saggio di Alice Miller, la psicoanalista che ha dedicato la sua vita allo studio delle conseguenze di violenza e anaffettività sui bambini. Ne anticipiamo un brano.

In ogni dittatore, sterminatore o terrorista, per terribile che esso sia, si cela sempre e comunque un bambino che un tempo è stato gravemente umiliato e che è sopravvissuto solo grazie alla totale negazione dei propri sentimenti di assoluta impotenza. Tuttavia questa completa negazione della sofferenza subìta produce uno svuotamento interiore, e assai spesso blocca lo sviluppo della capacità innata di provare compassione per gli altri. Queste persone non hanno difficoltà a distruggere altre vite umane, persino la propria stessa vita vuota di senso. Oggi siamo in grado di vedere sullo schermo del computer le lesioni cerebrali che si producono nei bambini che hanno subìto percosse o che sono stati abbandonati. Ne riferiscono numerosi articoli di ricercatori di neurobiologia, in particolare di Bruce D. Perry, che è anche psichiatra infantile.
Dal mio punto di vista e sulla base delle mie ricerche sull’infanzia dei dittatori più efferati, come Hitler, Stalin, Mao e Ceausescu, vivo il terrorismo e gli ultimi attentati terroristici come la macabra, ma precisa dimostrazione di ciò che accade a milioni e milioni di bambini di tutto il mondo dietro il pretesto dell’educazione, e che purtroppo viene ignorato dalla società. Tutti noi in quanto adulti abbiamo dovuto conoscere ciò che molti bambini vivono nella loro quotidianità. Se ne stanno impotenti, muti e tremanti davanti all’imprevedibile, incomprensibile, brutale e indescrivibile violenza dei loro genitori che vendicano sui figli le sofferenze della propria infanzia, non rielaborate perché negate.
Dobbiamo solo ricordarci dei sentimenti che abbiamo provato l’11 settembre per immaginare la portata di una simile sofferenza: siamo rimasti tutti sopraffatti dall’orrore, dal raccapriccio e dal terrore. E tuttavia i rapporti esistenti tra vicende dell’infanzia e terrorismo continuano a essere minimizzati. È tempo di prendere sul serio il linguaggio dei fatti.
PRIMO, NON PICCHIARE
In base alle statistiche, più del novanta per cento della popolazione mondiale è fermamente convinta che i bambini vadano picchiati per il loro bene. Poiché quasi tutti noi abbiamo sperimentato l’umiliazione derivante da tale mentalità, la sua crudeltà non ci risulta affatto evidente. Ma ora il terrorismo mostra - come in precedenza è accaduto per l’Olocausto e per altre forme di barbarie - quali siano le conseguenze del sistema punitivo in cui siamo cresciuti.
Ciascuno di noi può osservare sullo schermo televisivo gli orrori del terrorismo, mentre quelli in cui crescono i bambini vengono raramente mostrati dai media, poiché noi tutti abbiamo imparato già nella prima infanzia a reprimere il dolore, a far finta di non vedere la verità e a negare l’assoluta impotenza di un bambino umiliato. Noi non veniamo al mondo - come si credeva un tempo - con un cervello già completamente formato; esso si sviluppa solo nei primi anni di vita. Ciò che il bambino ha vissuto in quel periodo lascia spesso dietro di sé tracce sia del bene sia del male che durano tutta la vita. Il nostro cervello conserva infatti la completa memoria fisica ed emotiva, anche se non quella mentale, di ciò che ci è successo.
SECONDO, SOCCORRERE
Senza la presenza di un Testimone soccorrevole il bambino impara a esaltare quello che ha incontrato: crudeltà, brutalità, ipocrisia e ignoranza. Ogni bambino infatti impara solo dall’imitazione e non dalle belle parole che si cerca di propinargli. Se, più tardi, quel bambino cresciuto senza la presenza di un Testimone soccorrevole arriverà a posizioni di potere, potrà essere uno sterminatore, un serial killer, un boss mafioso o un dittatore, e infliggerà allora a molte altre persone, o addirittura a intere popolazioni, lo stesso terrore che ha sperimentato nella propria infanzia sulla propria pelle. Se poi non ha un potere diretto, aiuterà i potenti a esercitare il terrore.
Purtroppo la maggioranza di noi non vuol vedere queste correlazioni. Così rimane ferma alla strategia dell’infanzia, alla negazione. Ma il proliferare della cieca violenza in ogni parte del mondo dimostra che non possiamo proseguire in un simile atteggiamento, che non possiamo più permetterci di essere ciechi. Dobbiamo uscire dal sistema tradizionale che si orientava sulla punizione e la vendetta, che voleva combattere il male presente nell’altro. Ovviamente non dobbiamo trascurare la nostra protezione. Ma non ci resta quasi altra alternativa: occorre andare alla ricerca di altre forme di comunicazione, diverse da quelle apprese nella nostra educazione, e provare a metterle in pratica, forme di comunicazione basate sul rispetto, che non portino a nuove umiliazioni. È ormai tempo di destarsi da un lungo torpore. Da adulti non corriamo più il pericolo di morte che nell’infanzia ha realmente minacciato molti di noi e che ci faceva agghiacciare dalla paura. Solo da bambini eravamo costretti a negare per sopravvivere. Da adulti possiamo imparare a non ignorare più il sapere del nostro corpo. Può infatti rivelarsi pericoloso non cogliere i veri moventi del nostro agire e non riuscire a comprenderli. Intanto la conoscenza della nostra storia ci può liberare dall’impiego di strategie inservibili e dalla cecità rispetto alle nostre emozioni. Oggi abbiamo la possibilità di guardarci intorno, di apprendere dall’esperienza e di cercare nuove soluzioni creative per i conflitti. L’umiliazione dell’altro non produrrà mai una vera e durevole soluzione, ma sia nell’educazione che in politica creerà nuovi focolai di violenza. Anche se da bambini non abbiamo potuto apprendere ad aver fiducia in una comunicazione rispettosa, non è mai troppo tardi per impararla. Questo processo di apprendimento mi pare una significativa e promettente alternativa all’autoinganno fondato sull’esercizio del potere.
(...) Se la Bibbia e il Corano avessero proibito a chiare lettere di picchiare i bambini potremmo guardare al futuro con maggiori speranze. Le autorità spirituali che ci fanno da guida si rifiutano purtroppo pervicacemente di accogliere nella loro coscienza nuove informazioni di vitale importanza sui danni che le percosse possono produrre al cervello infantile. Non pensano minimamente a impegnarsi affinché i bambini vengano trattati con rispetto e a favore di un migliore futuro dell’umanità, perché tutti quanti, come bambini completamente terrorizzati, e come un tempo Martin Lutero, Calvino e anche numerosi filosofi, badano soprattutto a proteggere e a onorare l’immagine immacolata della propria madre.
Si tratta dell’immagine idealizzata della madre, che si vuol credere avesse agito bene, quando castigava senza pietà i propri figli. Mentre si scrivono tante belle parole sull’amore, ci si rifiuta di vedere come la capacità di amare venga distrutta quando si è ancora bambini.

martedì 12 maggio 2009

l’Unità 12.5.09
La condanna
L’Europa accusa: «Gli immigrati fuggono dalle persecuzioni, stop alle deportazioni»
Il Consiglio d’Europa: l’Italia fermi le deportazioni
di Marco Mongiello


Il consiglio d’Europa attacca il governo italiano. «È triste vedere che persone in fuga dalla repressione non vedono tutelati i propri diritti», accusa Thomas Hammarberg, commissario per i diritti umani. Fini accusa.

Piovono le critiche sul Governo italiano per il respingimento indiscriminato in Libia degli immigrati. Dopo il Vaticano ieri è stata la volta di Thomas Hammarberg, il commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, l’organizzazione di Strasburgo con 47 Stati membri da non confondere con l’Ue, che ha definito l’azione del ministro Maroni «un’iniziativa molto triste» che «mina la possibilità per ogni essere umano di fuggire da repressione e violenza ricorrendo al diritti d’asilo». Il commissario svedese ha esortato la comunità internazionale a sostenere le posizioni dell’Onu e del Vaticano e a «fermare l’iniziativa unilaterale dell’Italia».
Ma voci di dissenso contro la svolta leghista pre-elettorale di Berlusconi si sono levate anche dalla stessa maggioranza di Governo. Da Algeri il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha detto che «fermo restando che respingere l’immigrato clandestino non viola il diritto internazionale, va ricordato anche che noi abbiamo come tutti gli altri il dovere di verificare se tra quelli che vengono respinti ci siano persone che hanno il diritto di richiedere asilo».
Quello dell’immigrazione, ha aggiunto Fini, è un tema «cosi delicato da non poter essere affrontato in maniera superficiale o, peggio ancora, propagandista». Il presidente della Camera ha poi criticato direttamente l’uscita di Berlusconi contro la società multietnica. «Non credo che abbia molto senso dire che si voglia o meno una società multietnica: è una questione demografica» - ha detto l’ex leader di An, aggiungendo che «il numero degli stranieri è aumentato, ed è destinato a salire ancora per ragioni demografiche».
Hammarberg, che già in passato ha criticato la politica «xenofoba» del governo italiano, si è detto «totalmente in linea con le posizioni espresse dal Vaticano» e ha auspicato che «l’Italia non vada avanti con questa politica, che non è una buona soluzione». Questa iniziativa, ha spiegato, «mina totalmente il diritto di ogni essere umano di ottenere asilo». Secondo il commissario per i Diritti umani però Maroni agisce in questo modo anche perché a Bruxelles «ha trovato soltanto il silenzio dell’Ue».
Un accusa di immobilismo che lo stesso Maroni aveva rivolto alla Commissione europea in occasione della disputa con Malta sul barcone di immigrati dirottato in Italia. Ma l’esecutivo comunitario guidato da Josè Manuel Barroso, che fra qualche mese dovrà tornare da Berlusconi a chiedere il voto dell’Italia per un secondo mandato, continua a prendere tempo.
«Nessun commento», ha risposto ai giornalisti Michele Cercone, portavoce del commissario Ue alla Giustizia, Jaques Barrot, ribadendo che la Commissione risponderà solo dopo aver appurato meglio i fatti. Secondo la co-presidente dei Verdi europei, Monica Frassoni. quello dell’esecutivo Ue e di Barrot è «un silenzio assordante».

l’Unità 12.5.09
Il rispetto dei diritti
di Conchita De Gregorio


Vorrei mettere in chiaro una cosa semplice. Non siamo «favorevoli all’immigrazione clandestina». Non credo che la destra voglia la sicurezza dei cittadini (italiani) e la sinistra invece desideri metterla a tremendo repentaglio accogliendo chiunque si affacci ai nostri confini, criminali in fuga compresi. Non è questione di essere buoni o cattivi, cattolici compassionevoli o atei cinici (si possono anche invertire gli attributi). Si tratta piuttosto di osservare le regole, i diritti umani e il diritto internazionale, se possibile il senso della storia e quel che ci ha insegnato. Allora quindi, nel caso del diritto di asilo, si tratta di stipulare degli accordi coi paesi di provenienza - è un lavoro politico più faticoso e lungo del semplice esercizio della forza ai confini, è vero, ma è quel che ci si aspetta da un governo. Si tratta di riconoscere le persone: quelle che hanno il diritto d’asilo e quelle che non lo hanno. Di accogliere le prime e respingere le seconde. Si può fare, con l’Albania è stato fatto. Si tratta, prima ancora, di mettersi seduti a scrivere una legge organica sul diritto d’asilo: l’Italia è uno dei pochissimi paesi che non l’abbia. Perché non impieghiamo il tempo e le energie a scriverla? È una proposta formale: lanciamo una sfida all’Europa che ci condanna. L’Italia è una delle porte di accesso al continente: i nostri confini sono i più accessibili dunque sono i confini di tutti. Il nostro problema è il loro problema, risolviamolo insieme. Per farlo in modo credibile però bisogna che rispettiamo il diritto. Segnala Amnesty International, rapporto 2006: «Nonostante sia Stato parte della Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati l’Italia non si è ancora dotata di una legge specifica e completa sul diritto di asilo». Facciamolo, no, ministro Maroni.
Due parole sul perché sia così importante. Thomas Hammarberg, commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, ha detto che l’azione dell’Italia «mina la possibilità per ogni essere umano di fuggire da repressione e violenza ricorrendo al diritto d’asilo». Il diritto d’asilo è previsto dall’articolo 10 della nostra Costituzione. «Lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d’asilo nel territorio della repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge». Perché abbiamo questa norma nella Carta? Perché è stata scritta che erano passati poco più di due anni dalla caduta del fascismo e dalla fine della guerra. Vediamo i nomi di alcuni di quelli che la scrissero. Giorgio Amendola, Giuseppe Di Vittorio, Emilio Lussu, Sandro Pertini, Leo Valiani: tutti costoro, durante il fascismo, trovarono asilo politico in Francia o in Inghilterra. È molto apprezzabile che una serie di personalità della destra, ultimo Alemanno, condannino ora il regime. Le condanne però è meglio esprimerle durante, non 60 anni dopo. Potremmo esercitarci ad immaginare che ogni immigrato che chiede asilo politico sia il Pertini del suo paese. C’è purtroppo quel problema. La Costituzione inattuata. Allora quando siamo censurati dall’Europa anziché replicare come Malta («Siamo piccoli») proviamo a rispondere con l’esercizio del diritto e non della forza. La differenza con Malta è che l’Italia è un paese grande. Potrebbe essere un grande paese.

l’Unità 12.5.09
Strage di clandestini, la Ue ha le immagini
di Claudia Fusani


Rigorosamente coperte dal segreto militare Nato esistono a Bruxelles presso gli archivi della Commissione europea centinaia di immagini che documentano una carneficina. Le hanno catturate i satelliti, testimoni rigorosi ed eloquenti della strage di innocenti in corso da anni, almeno quattro, nelle acque del canale di Sicilia e lungo le piste del deserto che dai paesi subsahariani arrivano in Libia. Le rotte dei disperati in fuga da malattie, carestie e persecuzioni e in cerca di una speranza di vita. Fu Beppe Pisanu, nel 2006 ministro dell’Interno, il primo a denunciare quella documentazione: “Sono immagini agghiaccianti - disse - che tutto il mondo dovrebbe vedere». Vedere per capire. per cominciare a chiamare le cose col proprio nome. E smetterla con le ipocrisie dei respingimenti delle navi e la propaganda del porte chiuse ai clandestini.
Quelle immagini raccontano di decine. centinaia di cadaveri che galleggiano nelle acque del Mediterraneo. E, ancora di più, di cadaveri lungo il deserto. Mesi di marcia, arrivano solo i più forti, gli altri muoiono per strada.
E’ l’ora che quelle immagini diventino pubbliche. L’homo videns potrà così rendersi conto di cosa si parla quando si parla di clandestini in arrivo dalla Libia. Non solo statistiche. Sono anche cadaveri che prima sono stati uomini e donne. Per non dire mai, un giorno: «Non lo sapevo».

l’Unità 12.5.09
Intervista ad Amos Luzzatto
«L’Italia che ha paura di essere invasa non può che generare mostri e razzisti»
«C’è un clima di risorgente xenofobia. Prima di respingere i migranti dovremmo chiederci quali trasformazioni economiche e sociali ci siano in Africa e Asia. E il ruolo dell’Occidente»
di Umberto De Giovannangeli


L’Italia sta dando di sé l’immagine inquietante di un Paese in cui la paura dell’”invasore” domina sui valori della solidarietà e dell’accoglienza». A sostenerlo è una delle figure più rappresentative dell’ebraismo italiano: Amos Luzzatto, già presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei). «Troppi fatti dicono che in Italia c’è un clima di risorgente razzismo”, denuncia Luzzatto.
Il ministro degli Interni, Roberto Maroni, ha ribadito che l’Italia andrà avanti nella politica del respingimento dei migranti. Come valuta questa asserzione?
«Con grande preoccupazione. Prima di adottare un criterio burocratico che consiste nel suddividere gli immigrati in regolari e clandestini, forse accettando i primi ma certamente rifiutando i secondi, bisognerebbe porsi una domanda…».
Quale?
«Bisognerebbe chiedersi che significato storico e politico ha questo fenomeno macroscopico di pressione di masse che con tutti i mezzi cercano di raggiungere l’Europa. Io credo che ci si debba porre seriamente il problema di quali trasformazioni economiche e sociali stanno verificandosi in Africa e in Asia, tali da poter spingere alla fuga quantità così significative di persone che comprendono anche bambini, e quali siano le responsabilità dei Paesi a economia avanzata. Dobbiamo interrogarci su questo, perché non è pensabile che in un mondo globalizzato non si globalizzino anche le responsabilità. Ciò significa che a monte delle disposizioni di legge e di sicurezza, va delineata una vera e propria politica delle migrazioni che tenga conto anche delle difficoltà al limite dell’impossibilità di sopravvivere nei Paesi di origine. A me pare che una analisi completa in questo senso non sia ancora stata fatta. E i guasti sono sotto gli occhi di tutti».
La politica di respingimento può essere una soluzione?
«In coerenza con quanto ho affermato prima, dico che può essere una soluzione a brevissima scadenza, il che vuol dire a scadenza al massimo di mesi, oltre al fatto che questa “soluzione” presenta degli aspetti di crudeltà che non dovrebbero essere concepibili in Paesi che si ritengono civili. Io ricordo – se è ancora permesso ricordare – che una esperienza simile è stata fatta a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta dell’altro secolo da folle di ebrei che avevano visto cancellata la loro cittadinanza in Germania e che non trovarono accoglienza in altri Paesi».
La paura dell’«invasione» può generare mostri?
«Direi proprio di sì. Perché i due ingredienti che alimentano questi mostri sono, per l’appunto, la paura, che per definizione esclude la razionalità, e il termine stesso di “invasione” che possiede sempre una connotazione minacciosa e mai tiene in conto, facendosene in qualche modo carico, della disperazione di coloro che sono ritenuti gli “invasori”. Guai a chiudere gli occhi di fronte ai fatti. E i fatti dicono che in Italia c’è un clima di risorgente razzismo. Che va denunciato e combattuto. Prima di esserne travolti».
Quale immagine l’Italia sta dando di sé al mondo?
«L’immagine di un Paese che non è disponibile per una solidarietà vera con le popolazioni bisognose; un Paese che sembra essere ossessionato da una minaccia esterna e che ha assunto come priorità assoluta di preservare quel tanto di ordine garantito che credono di avere nei propri confini».
Solidarietà, accoglienza…C’è ancora posto per questi valori nell’Italia della paura e della diffidenza?
«Temo di no, perché quando il disvalore dominante è quello della paura, della diffidenza nei confronti del disperato che si immagina pronto a qualunque atto efferato, è difficile riportare il discorso verso i valori della solidarietà che, peraltro, non possono più essere tradotti in elemosina spontanea da parte delle anime belle, che sono sempre troppo poche, e deve invece diventare una politica organizzata».
Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha affermato che l’Italia non sarà mai una società multietnica.
«Ma l’Italia è già una società multietnica. E così lo saranno sempre più tutte le società europee. Ed è sulla multietnicità che andrà ridefinita la stessa identità nazionale. Berlusconi non può credersi così onnipotente da poter fermare il corso della storia».

il Riformista 12.5.09
Il professor Giacomo Marramao, docente di Filosofia Politica all´Università Roma 3. A colloquio con il filosofo calabrese sull'emigrazione
Si dice "Italianizar". Una democrazia piena di incertezze
intervista di Andrea Di Consoli


MARRAMAO. L'espressione coniata dal quotidiano conservatore di Barcellona. Uno sguardo verso un'Italia che «oscilla tra repressione spropositata e lassismo sulle regole». Il rischio di una «Costituzione materiale». I flussi migratori? Una «questione che l'Europa deve risolvere da sola».

Giacomo Marramao, il Governo italiano ha deciso di respingere gli emigrati. Che tipo di conseguenze determinerà questa decisione?
Noi come paese siamo sicuramente in una esposizione evidente. Siamo il porto ideale, la deriva ideale, la sponda ideale per chi voglia raggiungere l'Europa. Purtroppo però ci dobbiamo rendere conto che un po' in tutta Europa - in Francia, in Spagna, in Italia - si sta aprendo un vulnus molto forte che rischia di determinare una sorta di costituzione "materiale" diversa da quella "formale", ovvero una serie di misure di protezione, di argine, di difesa nei confronti dei flussi migratori che contrastano con i diritti che sono sanciti dalla Dichiarazione Universale dei diritti umani, dove è riconosciuta la possibilità per ogni essere umano di circolare liberamente da uno stato all'altro, vedendosi riconosciuti tutti i propri diritti. Tutto ciò è palesemente in contrasto con le costituzioni dei paesi europei, perché non mi risulta che qualche carta costituzionale contempli delle misure restrittive alla possibilità di esser accolto.
Il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha detto che la sua Italia non sarà mai multietnica. Come valuta questa dichiarazione?
Ma come si fa a dire che noi non siamo un paese multietnico! Questo è confutato dalla realtà presente. Noi siamo di fatto un paese multietnico! Abbiamo accolto negli ultimi anni un numero enorme di immigrati dai paesi più diversi, e li abbiamo messi a lavorare esattamente nei luoghi dove la Lega la fa da padrona, cioè nel lombardo-veneto, dove abbiamo tanti di quei lavoratori immigrati senza i quali non andrebbe avanti l'economia, e non andrebbero avanti neanche le famiglie della Padania. Poi l'Italia, per chi conosce l'abc della nostra storia nazionale, è un paese che è determinato dall'incrocio con civiltà diverse, dalla greca all'araba, dalla ebraica alla spagnola, dalla normanna alla mitteleuropea.
Queste dichiarazioni di Berlusconi compromettono la nostra credibilità all'estero?
Io vengo da Barcellona, dove ho presentato un mio libro tradotto in spagnolo. Ieri mi ha intervistato un giornalista de La Vanguardia. In un articolo dei giorni scorsi di questo giornale ho scoperto che in Spagna usano spesso la parola "italianizar", che significa una cosa negativa, ovvero tutto ciò che riguarda posizioni dubbie sui principi e sulla democrazia, e che rimanda al sospetto di una capitolazione dei diritti, al trionfo del cattivo gusto e di atteggiamenti indulgenti nei confronti della corruzione.
Che paese sta diventando, l'Italia?
Spesso noi italiani abbiamo sia l'arroganza dell'eccesso di disinvoltura, e penso alla Lega e a Silvio Berlusconi, sia l'arroganza disinvolta nei confronti delle trasgressioni dei codici morali, civili e penali. Noi italiani siamo diventati in parte ciò che eravamo, e purtroppo anche ciò che stavamo cessando di essere, per una semplice ragione, e cioè perché l'arricchimento enorme che ha avuto l'Italia, il processo di modernizzazione assolutamente accelerato a partire dalla metà degli anni 70 sino a Mani pulite e anche oltre, ha determinato uno scompaginamento dell'antropologia italiana, perché a questo arricchimento rapido e a questa modernizzazione senza regole non ha corrisposto un'adeguata crescita civile e culturale. La prima responsabile di questo disastro è la politica e i partiti politici della sinistra, perché hanno a mio parere colpevolmente trascurato l'intera dimensione della cultura e della formazione, e hanno non solo accettato ma anche promosso un pernicioso processo di deculturalizzazione della politica.
Eppure una parte degli italiani vede con favore una politica restrittiva. I loro discorsi sono: l'immigrazione clandestina crea disordine, lavoro nero, violenza, disagio urbano, zone grigie. Come risponde a queste legittime repliche?
Una comunità inclusiva, che sia in grado di creare una civitas ampia, è in grado non soltanto di individuare le zone di sofferenza, ma è anche in grado di far rispettare con maggiore rigore le regole. Quando vado in una università americana, rimango sempre colpito dalla grande inclusività di quella società, eppure in America ci sono regole così forti che se le violi finanche buttando una carta a terra, immediatamente scatta un meccanismo collettivo di stigmatizzazione. Da noi questo meccanismo non può scattare, proprio perché non abbiamo una comunità inclusiva. Una società inclusiva riesce a creare una linea rigida tra chi rispetta le regole e chi non le rispetta. Tutti gli stranieri che vengono a trovarmi qui a Roma si meravigliano del lassismo delle forze dell'ordine. Siamo purtroppo un paese dove massima è l'oscillazione tra repressione spropositata e lassismo sulle regole. La credibilità di una comunità incomincia dal rispetto delle regole di base.
Gli esponenti del Governo lamentano il fatto che il tema dei flussi migratori non può essere risolto dai singoli paesi. È d'accordo?
È evidente che Francia e Spagna stiano assumendo misure restrittive; specialmente la Spagna, che sta subendo delle vere e proprie invasioni. Il problema, com'è evidente, va affrontato a livello di Unione Europea. Adesso più che mai è necessaria una politica comune dell'Unione. I fenomeni migratori non possano essere fronteggiati da un singolo paese, ma vanno fronteggiati a livello europeo.
È possibile fermare questi flussi migratori? Come si potranno affrontare in futuro le opportunità e i problemi che questi flussi creeranno?
I flussi migratori sono un fatto irreversibile. Non cesseranno neanche quando miglioreranno le condizioni economiche dei paesi di origine, anzi, a quel punto avremo delle migrazioni di segno diverso. Noi viviamo un'epoca di grandi migrazioni, e la nostra è un'epoca che prelude a degli enormi riassetti dell'ordine internazionale, oltre che del sistema economico. Quello dell'emigrazione è un fenomeno che investe tutto il continente europeo, e, ripeto, solo a livello europeo si potrà risolvere. Mi auguro che l'Europa divenga presto un "global player". E penso che sia una componente fondamentale di questo cambiamento il ritorno della grande politica. Si ascoltino finalmente le voci di chi opera nel mondo della cultura, di chi insegna, di chi gira il mondo. È quello che ha fatto Barack Obama, se può interessare a qualcuno.

il Riformista 12.5.09
Spagna. Tra tre mesi si venderà in tutte le farmacie anche alle minorenni
Il giorno dopo, pillola senza ricetta
di Anna Mazzone


Trovare la pillola del giorno dopo a Madrid e in tutta la Spagna non sarà più una «missione impossibile», come scriveva a ottobre del 2007 la 25enne giornalista di El Pais, Raquel Rubio, che dette la caccia per tutto un weekend alla famigerata pillolina per evitare una gravidanza indesiderata. Ieri il ministro della Sanità spagnolo, Trinidad Jiménez, ha annunciato che entro tre mesi la pillola sarà a disposizione delle donne (sia maggiorenni che minorenni) in tutte le farmacie iberiche e che non ci sarà bisogno di una ricetta medica per acquistarla. La pillola del giorno dopo è in commercio in Spagna dal 2001, ma solo in alcuni centri specializzati e previa presentazione di una ricetta medica. L'annuncio è stato dato in tandem con il ministro per le Pari opportunità, Bibiana Aìdo. Entrambe hanno sfoggiato per l'occasione un sorriso soddisfatto.
E sorridono anche le case farmaceutiche che da qui a tre mesi vedranno moltiplicarsi i loro profitti, anche se gli esperti hanno tenuto a precisare che la fornitura della pillola «dovrà essere accompagnata da una adeguata educazione sessuale per gli adolescenti». Il rimedio medico per evitare le gravidanze indesiderate, infatti, non va usato come un metodo abortivo, nè può essere vissuto come un anticoncezionale, per quello esistono già da anni pillole ipersofisticate. Ezequiel Pérez Campos, il presidente della Federazione spagnola per la contraccezione, ha espresso la sua soddisfazione per la decisione del ministro che «ci porta - ha dichiarato - al livello degli altri paesi europei». La vendita libera della pillola del giorno dopo è legale in Francia, Belgio, Gran Bretagna, Danimarca e Lussemburgo, oltre che negli Stati Uniti. L'obiettivo del ministero è quello di ridurre gravidanze e aborti. Nel 2007, in Spagna ci sono state 112.000 interruzioni di gravidanza. Di queste, 10.500 sono state effettuate da minorenni. Un altro dato riguarda i parti di donne con meno di 18 anni, che sempre nel 2007 hanno raggiunto cifra 4000.
Ma quello che sarà un vero «disastro», segnala Santiago Barambio, presidente dell'Associazione delle cliniche accreditate per le interruzioni di gravidanza (la Acai), è che la pillola potrà essere venduta senza ricetta medica. Per questo è fondamentale che «assieme alla distribuzione della pillola, vengano messi in campo dei programmi per l'educazione sessuale dei ragazzi». La paura degli esperti - e non solo - è che i ragazzi, sicuri della facilità di procurarsi la pillola del giorno dopo, accantonino il condom. La beffa, dunque, sarebbe da una parte veder diminuire il numero degli aborti e dall'altra impennarsi quello dei sieropositivi. La questione è indubbiamente delicata. La decisione della Jiménez ha già scatenato la polemica delle associazioni cattoliche e di quelle dei farmacisti, i quali sono scesi sul piede di guerra. Se secondo Trinidad Jiménez in Spagna «abbiamo un problema» e «dobbiamo porvi attenzione», secondo i farmacisti, la vendita libera senza possibilità di una scelta di "coscienza" è inaccettabile e, comunque, non rappresenta una «soluzione al problema».
Il presidente del Consiglio generale dei farmacisti, Pedro Capilla, in un'intervista per il quotidiano El Mundo ha difeso l'obiezione di coscienza nel vendere la pillola del giorno dopo senza ricetta medica. «Il ministro - dice Capilla - non può obbligare alla vendita quei farmacisti che non se la sentono». «Ciò che prima veniva venduto con una ricetta e che oggi sarà venduto senza, deve cambiare la sua etichetta legale» ha concluso Capilla. E sul sito di El Mundo si è infuocato il dibattito. Nel momento in cui queste pagine venivano chiuse, il 69 per cento dei lettori (3.040 persone) si dichiarava contrario alla decisione del Governo. Il 31 per cento, invece, a favore.

Repubblica 22.1.09
La storia.
Fagioli il guru e il Super Io della sinistra
di Luca Villoresi


Le liti con Bertinotti, le pene del partito radiografia di uno psicanalista discusso

"Già dagli anni Settanta sostenevo che le teorie freudiane sono tutte fregnacce"
"Ho interpretato centomila sogni. E nel 99 per cento dei casi ci ho azzeccato"

ROMA. Di Massimo Fagioli se ne dicono molte, di tutti i colori, davanti e di dietro. Ogni tanto, certo, è lui che se la va a cercare, sfrucugliando l'omosessualità di Niki Vendola, o alzando il tiro contro le istituzioni della psicanalisi: «Freud? Un imbecille». E i freudiani? «Criminali». Come criminali? «Come chiamare una società che vuole curare solo chi ha da spendere almeno diecimila euro all'anno? La cura deve essere per tutti, non solo per i ricchi». Ogni tanto, invece, a metterlo in mezzo ci pensano gli altri, accusandolo di essere un plagiatore, il capo di una setta. E poi, ogni tanto, capita che lo infilino in qualche retroscena, senza che lui, così pare, ne sappia niente: «Che stavo per comprare Liberazione l'ho letto sui giornali. Che poi abbia ispirato la scissione di Rifondazione... non scherziamo». Comunque sia, Massimo Fagioli, il fondatore di una scuola di psicanalisi basata sulla lettura dei sogni e il ritorno all'esperienza della nascita, non recede. Nega. E rivendica.
Piove. La seduta comincia alle sei. Manca più di mezz'ora. Ma sotto i cornicioni ci sono già una trentina di persone in attesa. Il cuore pulsante del fagiolismo è alloggiato in uno stanzone di 120 metri quadrati a Trastevere, all'angolo di piazza San Cosimato. Qui, per quattro giorni a settimana, il professore guida una seduta di analisi collettiva che richiama, ogni volta, almeno un centinaio di partecipanti. L'ingresso è libero. Anche se con qualche limitazione. «No, lei non può entrare. Non siamo a un seminario all'università. Siamo nel mio studio privato. La seduta è un atto medico, sacro. Posso decidere chi entra e chi no. La partecipazione, peraltro, è gratuita e solo chi vuole, alla fine, lascia qualcosa, senza che nessuno controlli». Porta chiusa, dunque. La letteratura sulla dinamica delle riunioni, peraltro, è abbastanza vasta.
Dicono che lei usi, a volte, un linguaggio un po' greve. «In quattro ore una battuta che allevia l'atmosfera ci può stare. E poi usare parole più accessibili fa parte dell'arte medica. Alle mie sedute vengono intellettuali, ma anche persone meno preparate ai linguaggi più sofisticati». Un genio che rifonda la psicanalisi? O un ciarlatano assetato di potere? Il dilemma passa per questioni teoriche molto specialistiche: desiderio o bramosia? Inconscio o inconoscibile? Calandosi, per di più, in un'atmosfera molto romana: cene e cenacoli, pettegolezzi e progetti politico-editoriali. I seguaci di Fagioli sono stati popolarmente ribattezzati, da trent'anni a questa parte, i fagiolini. Il nome vi dà fastidio? «Ma no. Ci danno fastidio le calunnie. Ci chiamino come vogliono. Un nome vale l'altro». Odio e amore. I fagiolini pentiti si sfogano sui blog, ma continuano a riferirsi a «Lui», con la maiuscola. I più convinti, invece, vanno a sentire il professore anche quando fa lezione all'università di Chieti. E credono che il maestro abbia una mente leonardesca.
Architetto, musicista, arredatore, sceneggiatore, scultore, editore... L'unica professione che Fagioli non esercita abusivamente, si direbbe, è la psicanalisi. Per questa materia i titoli sono a posto. Non siamo di fronte a un analista selvaggio. Laurea in medicina a pieni voti nel 1956, specializzazione in neuropsichiatria, prima esperienze in quelli che all'epoca si chiamavano (ed erano) i manicomi... poi la guida di una comunità terapeutica in Svizzera, l'ingresso nella Società psicanalitica italiana, l'espulsione dalla Società psicanalitica italiana... La svolta alla metà degli anni Settanta. «Ho cominciato a sostenere che le teorie freudiane sono tutte fregnacce. E a tenere un seminario all'università di Roma: un successo incredibile. Venivano in centinaia. È stato l'inizio di una pratica che ho trasferito, da privato, nel mio studio di Trastevere». Dal successo sono nate anche una rivista, «Il sogno della farfalla», trimestrale di psichiatria e psicoterapia, e una libreria, Amore e psiche, specializzata nella diffusione dei testi di una casa editrice, Nuove edizioni romane, specializzata nella opere di Fagioli, autore di sette libri; l'ottavo è in arrivo.
La prima ribalta mediatica risale alla metà degli anni Ottanta. All'uscita de «Il diavolo in corpo» accusano lo psichiatra di aver plagiato il regista Marco Bellocchio. Cinque anni dopo, sempre con Bellocchio, Fagioli firma la sceneggiatura de «La condanna»: l'accusa, stavolta, è di apologia dello stupro. Nel '98 Fagioli ha poi realizzato un film tutto suo (regista, sceneggiatore, attore, autore delle musiche), «Il cielo della luna», rimasto senza riscontri. Dal cinema all'architettura. Fagioli ha partecipato alla sistemazione della libreria Amore e Psiche, alla realizzazione di una palazzina, al restyling di una piazza capitolina incentrata su una scultura spiazzante. «E ho all'attivo anche una trentina di appartamenti. Diciamo che per me è un hobby». Fagioli, nel contempo, non trascura l'organizzazione. Ispira convegni, con nomi prestigiosi. O si occupa di editoria. Trent'anni fa era una sottoscrizione per Lotta continua. Oggi insinuano che voglia controllare Liberazione. Sempre a sinistra, comunque: «Una persona sana di mente non può non essere di sinistra». Una scelta di campo che comporta una ulteriore, inevitabile lista degli amici (dagli ex sessantottini a Bertinotti) e dei nemici (la comparsa di una rubrica dello psichiatra su Left ha innescato una catena di dimissioni).
Citazione da un'intervista del 1991: «In quindici anni avrò esaminato qualcosa come centomila sogni, dando un'interpretazione corretta non dico nel cento per cento, ma almeno nel 99 per cento dei casi sì». Da allora sono passati altri diciotto anni. Aggiorniamo i dati? «Certo, in meglio. Ho superato pure il 99 per cento. E ottengo questi risultati perché la mia teoria, basata su quello che chiamo negazione e pulsione di annullamento, non è una chiacchiera, ma una teoria scientifica». Sicuro di sé. Anche quando mente, sapendo che gli altri sanno che mente. Professore, perché i fagiolini sono soprattutto fagioline? «Davvero?» Professore, non c'è bisogno di entrare; si vede anche da fuori, basta contare... «Beh, non me ne sono mai accorto». Lei esercita un certo fascino. Quanto contano, per il successo delle sedute, le capacità comunicative del terapeuta? «Praticamente niente. È la teoria che guarisce». Perfino l'Ego del professore, in qualche caso, è disposto a fare un passo indietro: il carisma non conta, viva la teoria. «E mi raccomando la foto, non mettete un'altra volta quella dove punto il dito».

Terra 12.5.09
Alla conquista della terra del rosso pompeiano
Riscoprire la pittura classica con i viaggiatori settecenteschi
di Noemi Ghetti


Dopo dieci anni di restauri, al Museo Archeologico di Napoli riapre la grandiosa collezione dei dipinti sepolti dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.



Grande impressione suscitò il diffondersi, alla metà del Settecento, della notizia dei primi occasionali ritrovamenti delle città sepolte dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Gli scavi presto si intensificarono, e le città della piana partenopea divennero la meta più ambita del “grand tour”, esperienza di formazione considerata indispensabile dagli artisti e letterati che accorrevano in Italia da tutta Europa. Quando nel 1780, sei anni prima di Goethe, il giovane Canova visitò Pompei ed Ercolano, la casa dei Vettii, degli Amorini e la villa dei Misteri erano già state ritrovate, e si potevano ammirare nei siti originali. Molti altri dipinti, ritagliati senza tanti riguardi dalle pareti interamente decorate e incorniciati, erano entrati a far parte della quadreria regale borbonica, costituendo il primo nucleo della ricchissima raccolta del Museo Archeologico di Napoli.
La riapertura, dopo un decennio di chiusura, delle quaranta sale della collezione di pittura pompeiana, completamente ristrutturate, e la mostra dei dipinti restaurati e riportati alla freschezza che avevano quando furono riportati alla luce, offre l’occasione di rivivere le emozioni dei viaggiatori che a partire dal Settecento vennero a Napoli, alla ricerca delle sorgenti mediterranee della cultura europea.
Nel museo borbonico privato di Portici, Canova ebbe la rara opportunità di vedere anche la collezione Farnese, la più grande raccolta di sculture dell’antichità, che dal prossimo settembre sarà anch’essa, dopo un lungo intervallo, nuovamente esposta al Museo Archeologico di Napoli. Ma della scultura classica fin dal Cinquecento si sapeva abbastanza: la vera rivelazione fu la pittura. Il giovane scultore fu grandemente colpito dalla bellezza di quegli affreschi dai colori intatti, di grande espressività, profondità e luminosità, che rivelavano un volto tutto nuovo del mondo antico, molto lontano dall’ideale mascolino di "nobile semplicità e quieta grandezza" teorizzato dal neoclassicismo del Winckelmann. Una visione sublimata e ormai stereotipata dell’arte greco-romana, che risultava completamente smentita dalla fantasiosa grazia, dalla sensuale morbidezza e dal movimento delle immagini femminili ricorrenti con grande frequenza negli affreschi pompeiani. Nelle lussuose dimore di vacanza campane l’aristocrazia romana, lontana dai severi obblighi ufficiali della vita politica e militare della capitale, si lasciava andare alla propria sete di modi di vita più raffinati, che nella Campania felix, la terra feconda che si affaccia sul golfo della sirena Partenope, culla di arte, filosofia e cultura greca, erano di casa da secoli. Mai come in questo caso suonano vere le parole di Orazio: «La Grecia conquistata conquistò il rozzo vincitore».
Ricollocate nel suggestivo contesto di camere e triclini ricostruito per l’occasione, possiamo finalmente vedere nuovamente le scene di amori e di metamorfosi che sedussero i viaggiatori settecenteschi. Ecco gli amori di Piramo e Tisbe, di Nettuno ed Anfitrite, di Zeus ed Io trasformata in giovenca; ecco Polifemo, il feroce gigante monocolo, innamorato di Galatea, il forzuto Eracle intenerito per Onfale, Perseo che libera Andromeda dal mostro, e Narciso che volta le spalle ad Eco specchiandosi nella fonte; ecco il pius Aeneas, il progenitore di Roma devoto agli dei, che tiene tra le braccia Didone. E poi, amorini cacciatori, giocatrici di astragali e ninfe danzanti col corpo di botticelliana grazia appena velato, che Canova negli anni seguenti ricreò a memoria - il regale divieto ai visitatori di trarne schizzi era assoluto - «per solo studio e diletto», in monocromi e in tempere dai colori vivacissimi.
Nel fondo rosso delle pareti, colore dominante divenuto l’emblema della sontuosa pittura pompeiana, l’artista vide lo stupefacente ciclo pittorico della villa dei Misteri, con l’itinerario iniziatico della giovane sposa che scopre l’immagine maschile, il fallo dionisiaco sul vaglio di vimini, velato da un drappo color del vino. Non gli sfuggirono certamente le scene che in altre dimore rappresentavano momenti della favola di Amore e Psiche. La perturbante favola della fanciulla salvata da Amore, oscurata dalla cultura patriarcale e razionale del logos, circolava silenziosamente nel Mediterraneo trasportata dalle immagini della pittura, un secolo prima di essere tradotta in latino, da un’originale greco perduto, dall’africano Apuleio.
Giunto a Pompei, lo scultore poco più che ventenne incontrò non la Gradiva, la misteriosa giovane donna romana col capo velato che oltre un secolo dopo avrebbe attraversato con passo leggero la träumerei di Jensen, ma Psiche, la fanciulla nuda di sconvolgente bellezza vissuta in un tempo lontano, in un paese lontano di cui non si ricordava più il nome. Se ne innamorò, traendo da quell’incontro lo spunto per i suoi due capolavori più celebri.

La mostra: “La pittura pompeiana”, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dal 29 aprile al 31 dicembre 2009. Catalogo Electa.

lunedì 11 maggio 2009

Repubblica 11.5.09
Se la politica dei barbari cancella i diritti di tutti
di Stefano Rodotà


Servono 10, 100, 1000 Rosa Parks all´incontrario per reagire alle proposte segregazioniste nella metropolitana milanese (Rosa Parks era la donna nera che, nel ´55 in Alabama, andò a sedersi nella parte di un autobus riservata ai bianchi, fu arrestata, ma il suo gesto avviò la fine della segregazione).
Si può organizzare una pacifica marcia su Milano di cittadini italiani di pelle bianca e capello liscio che vadano a sedersi in metropolitana accanto agli immigrati, anzi cedano loro il posto? Si può chiedere al sindaco Moratti di usare i suoi colloqui su YouTube con Red Ronnie per una serie di convinti elogi degli immigrati brutti, sporchi e cattivi, e tuttavia indispensabili? Si può andare a Bergamo e esigere che si possa mendicare per più di un´ora? Si può andare nelle città che hanno inaugurato un protezionismo nazional-gastronomico (suppongo a difesa delle schifose pizze surgelate con pomodori cinesi e cascami di formaggio) e ordinare ad alta voce kebab, cibi aztechi e altri piatti etnici? Si può essere d´accordo con Vaticano e Onu nelle critiche alle politiche di "respingimento" selvaggio dei disperati che cercano di approdare sulle nostre coste? Si può chiedere ai mezzi d´informazione decenti di dedicare uno spazio specifico e ben identificato per segnalare gli episodi di strisciante o palese razzismo quotidiano?
E infine (o prima di tutto): si può dire al presidente del Consiglio che il suo «no all´Italia multietnica» da una parte è un´insensatezza, perché basta guardare i volti delle persone per strada e si vede che l´Italia è multietnica senza possibilità di ritorno, e dall´altra che questo modo di parlare è l´ennesimo, pericolosissimo rifiuto di dare al nostro paese strutture e cultura rispettose dei diritti di tutti? Capisco che a Berlusconi la Costituzione non piaccia. Ma è il caso di ricordargli che l´articolo 3 vieta le discriminazioni basate proprio su razza, lingua e religione e che la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea, da lui votata, non solo ribadisce questo principio ma, all´articolo 22 afferma anche la necessità di rispettare "la diversità culturale, religiosa e linguistica". Questi sono appunto i tratti di una società multietnica. Negandola, Berlusconi si pone una volta di più fuori dal quadro costituzionale italiano e europeo.
Si deve essere intransigenti per impedire che si consolidi ancora di più un perverso senso comune che non è eccessivo chiamare razzismo. Certo, si possono accogliere con compiacimento la scomparsa delle norme sui medici-spia e i presidi-spia o le bacchettate di Gianfranco Fini a Matteo Salvini, inventore dei vagoni "riservati" agli immigrati nella metropolitana di Milano. Ma il semplice fatto che queste proposte vengano ormai avanzate a getto continuo, e arrivino fino alla soglia della loro trasformazione in norme di legge, è sconvolgente, è il segno di una regressione civile che rischia di cambiare nel fondo il modo d´essere della società italiana.
Quando parlamentari, presidenti di Regione, sindaci, persone con responsabilità pubbliche fanno schiette dichiarazioni di razzismo, si producono almeno due effetti. Il primo riguarda il fatto che il cosiddetto "cittadino comune" si senta legittimato non solo a pensare nello stesso modo, ma a tenere comportamenti che rispecchiano appunto la linea dettata dai suoi rappresentanti, innescando forme di rifiuto dell´immigrato che arrivano, come tristemente ci ricordano le cronache, fino all´assassinio. La società, in questo modo, conosce la barbarie, alla quale rischia di assuefarsi.
Il secondo effetto riguarda la raccolta del consenso, "lo stare sul territorio", l´essere in sintonia con il "popolo". Non ho dubbi sul fatto che la sinistra, nelle sue varie declinazioni, abbia gravemente indebolito le sue capacità di "leggere" e interpretare trasformazioni e bisogni della società italiana seguendo le chimere del partito leggero, affidando la propria capacità rappresentativa alla presenza nei talk show televisivi, divenendo oligarchica, accettando la logica della pura "democrazia d´investitura" che interrompe proprio il circuito della comunicazione continua con i cittadini. Ed è vero che la Lega si è insediata anche in questo vuoto. Ma, fatta questa constatazione e considerata la necessità di tornare ad altre forme di rapporto con i cittadini, si può poi sottovalutare il modo in cui tutto questo è avvenuto, la sollecitazione continua di pulsioni verso identità aggressive, in una parola la costruzione dell´"altro" come nemico?
Una lunga condiscendenza ha fatto sì che questo atteggiamento si consolidasse. Sono state degradate a folklore le parole pesanti e irriferibili di sindaci e parlamentari della Lega, i maiali trascinati sui terreni destinati alla costruzione di una moschea. Si è pensato che le cene del lunedì ad Arcore tra Berlusconi e Bossi servissero davvero a disinnescare le "bravate" dei capi leghisti. Invece la deriva è continuata, si è trasformata in linea politica sempre più esibita (perché lamentarsi poi delle reazioni dell´Unione europea, che mi auguro sempre più vigili e dure?), ha trovato nelle ultime parole di Berlusconi una sorta di benedizione finale.
Non è mai troppo tardi per reagire, per impegnarsi seriamente nel contrastare questa resistibile ascesa. Bisogna farlo essendo consapevoli di quel che stiamo perdendo. Il rispetto della dignità delle persone, degradate ad oggetto da accettare o respingere come un carico più o meno avariato, a merce da sfruttare da parte di imprenditori rapaci. Il rispetto del principio di eguaglianza, quando l´immigrato è discriminato davanti alla legge per questa sua condizione personale (lo vieta l´articolo 3 della Costituzione). Il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, quando salute, istruzione, possibilità di sposarsi vengono negati o compressi, cancellando così una idea di cittadinanza che consiste in un insieme di diritti che ci appartengono in quanto persone e che ci accompagnano quale che sia il luogo del mondo in cui ci troviamo. Quando si aprono questi varchi, ci si riferisce formalmente agli immigrati, ma in realtà si creano le premesse per mettere in discussione le libertà di tutti. È già avvenuto. Possiamo rassegnarci a vivere in un paese incivile?

Corriere della Sera 11.5.09
A sinistra Il sì di Matteo Colaninno. Cofferati contrario
Il Pd e il caso Fassino Parisi apre, no dalemiano
di Gianna Fregonara


ROMA — «Respingimento» o «rimpatrio» dei clandestini? Fermarli cioè prima che arri­vino alle frontiere (anche via mare) o acco­glierli e, se senza diritto di restare, rimandar­li da dove provengono? Passa attraverso que­sti due termini la discussione dentro il Pd, di fronte alle misure e alle polemiche di questi giorni. E’ Piero Fassino ad accendere le polve­ri. No alla linea pregiudiziale sull’immigrazio­ne, sì a posizioni impopolari ma credibili co­me quella di dire che «respingere i barconi non è uno scandalo», anche se la politica del­l’immigrazione dovrebbe essere un’altra che dia più diritti ai regolari e blocchi i clandesti­ni. Il segretario del partito Dario Franceschi­ni svicola nella propaganda elettorale, duran­te in 1/2ora con Lucia Annunziata. Ma c’è tut­to uno schieramento che passa per i cattolici e arriva fino a Massimo D’Alema che non so­lo non la pensa come Fassino, ma glielo dice a chiare lettere. Anzi, c’è chi considera im­provvida un’uscita così a meno di un mese dal voto.
Spiega Livia Turco: «Quelle che stanno av­venendo sono espulsioni collettive, che viola­no i diritti di asilo, bisognava prima di ripor­tare i clandestini in Libia fare almeno dei rapi­di accertamenti. Si tratta di diritti fondamen­tali, non di dettagli». Lo strappo di Fassino che chiede «alla sinistra di cambiare per evi­tare la guerra tra poveri» piace invece molto a Matteo Colaninno: «Penso che queste idee aiutino il Pd in questo momento. Dobbiamo capire che quella degli immigrati è una situa­zione complessa che va gestita con equilibrio e che chiede severità contro i clandestini ma inclusione per chi vuole integrarsi». E le bar­che respinte? «Se rientra nel diritto interna­zionale, si può fare. Altro è usarle come fa il governo per fare propaganda e annunci sen­za riscontro».
Il più netto nel difendere Fassino è Arturo Parisi: «Guai — dice tranchant l’ex ministro della Difesa — se il rispetto dei diritti umani dovesse essere considerato alternativo al ri­spetto della leggi della Repubblica». Non la pensa così il capolista del Nord Ovest del Pd Sergio Cofferati: «Nelle azioni di questi gior­ni c’è un’evidente violazione dei diritti uma­ni. Mi sembra che si tratti di decisioni prese a freddo dal governo». Insomma «scandalo­se ». Soprattutto, fanno notare nel Pd, nel pie­no della campagna elettorale: «Il tema vero non sono i rimpatri e chi ne ha fatti di più ma la battaglia contro l’immigrazione clandesti­na e la difesa dei diritti umani», chiosa il vice capogruppo dalemiano Nicola Latorre.
«Non fermiamoci alla propaganda sul re­spingimento dei barconi — suggerisce l’ex ministro Linda Lanzillotta —. Dobbiamo fare una riflessione perché il tema degli immigra­ti non va affrontato in modo ideologico né con l’approccio pararazzista della Lega, che vorrebbe il reato di immigrazione clandesti­na che non servirebbe a nulla». Insomma, sì ai diritti agli immigrati e al contrasto severo ma non inumano contro i clandestini. Sareb­be il tempo di riflettere secondo la Lanzillot­ta e il senatore Pietro Ichino pensa che il Pd si debba occupare di preparare nuove propo­ste per la politica dell’immigrazione e di coo­perazione con i Paesi del Mediterraneo per scoraggiare l’arrivo dei barconi e vorrebbe oc­cuparsene sistematicamente.

Corriere della Sera 11.5.09
Ferrero: il Pd perderà ancora e con parecchi gol di scarto


ROMA — «Con quanti gol di scarto il Pd perderà la sfida europea con il Pdl è un problema che interessa solo la panchina di Dario Franceschini, ma non riguarda certamente le sorti del campionato e del paese. Per l’Italia, per l’Europa e per i loro cittadini non sarà lo scarto tra Pdl e Pd a fare la differenza. Anche perché a Strasburgo, quando si tratta di adottare le decisioni fondamentali, giocano tutti dalla stessa parte del campo». Lo afferma Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista. «Le principali direttive comunitarie — prosegue — vengono regolarmente assunte col concorso univoco di popolari, liberali e socialisti europei. Cioè i tre gruppi dove siedono affiancati sia gli eletti del Pdl berlusconiano che quelli del partito democratico. Il 6 e 7 giugno prossimi i soli gol di scarto davvero importanti per i cittadini italiani ed europei saranno quelli realizzati dalla lista comunista che, insieme alle forze del Gue, si oppone all’Europa mercantile in nome dei diritti dei popoli e della persona umana».

Repubblica 11.5.09
I figli di Tienanmen
Ci sono i genitori che piangono i loro ragazzi morti. Ci sono ex ribelli che son diventati ricchi. Sono lo specchio della Cina. Vent’anni dopo
di Federico Rampini


«Pensi che possono mandare l´esercito a ucciderci?» Zhang Xianling non dimenticherà mai quella domanda. Le ultime parole di suo figlio. E non può perdonarsi di avergli risposto: «E´ impossibile, non è mai successo, il partito comunista non lo ha fatto neppure durante le violenze della Rivoluzione culturale. Possono sparare proiettili di gomma o prendervi a manganellate. Proteggiti la testa». Era la sera del 3 giugno 1989, suo figlio Wang Nan aveva 19 anni e ancora poche ore di vita. Nella notte sarebbe morto a Piazza Tienanmen. Era venuto a casa dei genitori che avevano amici a cena. Ma quando dalle finestre si udirono i primi spari Wang era già là fuori. «Da un mese andava ogni giorno a Tienanmen – mi dice la mamma – aveva seguito tutto lo sciopero della fame iniziato il 13 maggio dagli studenti. La sua passione era la foto, da grande voleva fare il fotoreporter. Su e giù per la città in bicicletta, con l´apparecchio a tracolla: mi diceva che stava fissando la storia nelle sue foto». Wang avrebbe potuto lasciare centinaia di immagini, documenti eccezionali: la sua memoria di quel maggio 1989 quando Pechino sognò la democrazia. «Ma la macchina fotografica è scomparsa - racconta la madre – fu la prima cosa che gli strapparono i soldati mentre lui era a terra moribondo. E due giorni dopo i suoi amici bruciarono anche le foto che aveva a casa, erano prove che la polizia poteva usare per arrestarli».
Come quegli scatti di Wang distrutti per sempre, nella coscienza della Cina di oggi c´è un grande vuoto, il tabù di una pagina di storia cancellata d´imperio. La signora Zhang mi guida nei luoghi della tragedia, in uno straziante pellegrinaggio che lei ha ripetuto troppe volte in questi vent´anni. All´angolo della via Nanchang, l´ingresso occidentale di Piazza Tienanmen di fronte all´Assemblea del Popolo, ora scorrono fiumi di automobili, e una massa di passanti frettolosi e indifferenti. Lì mi indica il marciapiede dove il figlio è caduto.
Una madre che piange il figlio Un professore, oggi dissidente, che lottò con i suoi studenti. Un ex ragazzo ribelle diventato imprenditore di successo. Li accomuna il dolore, e il ricordo di una speranza. Quella nata nel maggio, e uccisa nel giugno, di vent´anni fa. Quando in Piazza Tienanmen l´"esercito del popolo" sparò su una generazione in cerca di libertà. Nei loro racconti la Cina di oggi si guarda allo specchio
"Come celebreremo questo ventennale? Probabilmente agli arresti domiciliari"
Oggi molti credono alla storia riscritta dal partito: quei ragazzi volevano la guerra civile

«La pallottola è entrata dalla tempia e uscita dietro la nuca. Ma non è morto subito! C´era tanta gente attorno a lui, ho rintracciato i testimoni, ho ritrovato il medico Hu che cercava di soccorrere i feriti e fu bloccato dai soldati. Ho parlato con il tassista Liu, ricorda un´anziana donna in ginocchio che supplicava i militari, perché lasciassero portar via mio figlio che sanguinava alla testa. Una crudeltà mostruosa. Neppure in guerra si impedisce di curare i feriti». Camminiamo per poche decine di metri ed ecco sul fianco della Piazza la scuola media statale numero 28: la madre punta il dito, lì c´è l´aiuola dove il corpo di Wang Nan fu ritrovato a dieci giorni dal massacro. Almeno il suo cadavere si è salvato, l´ho potuto identificare. Sa perché? A scuola lui era arrivato primo in un´esercitazione, il premio era una cintura dell´esercito che lui metteva sempre. Nella confusione dopo la strage, quando i poliziotti sono venuti a portar via i morti, per la cintura qualcuno l´ha scambiato per un soldato e lo hanno sepolto lì. La maggior parte delle vittime invece le cremavano per far sparire le prove. Altre madri di Tienanmen hanno avuto una sorte perfino peggiore della mia, la morte dei loro figli è stata negata, censurata per sempre». Rientriamo a casa sua. La signora Zhang tira fuori da un armadio un vecchio casco rosso da motociclista. Fu l´unica precauzione che il figlio prese quella sera uscendo di casa, confortato dalle parole della madre: «Non spareranno per uccidere, non è possibile». Dietro, il casco è deformato da un gonfiore osceno, il grosso foro della pallottola.
Li ricorda bene quei ragazzi dell´89, il professor Xu Youyu. «Erano ingenui rivoluzionari, volevano cambiare la Cina ma molti di loro credevano ancora negli ideali che il comunismo gli aveva insegnato a scuola. L´esercito è del popolo, mi dicevano, starà dalla nostra parte». Xu viene a trovarmi a casa, sperando di eludere la sorveglianza della polizia. Lui è rimasto fedele agli ideali di quella primavera democratica. E´ un noto dissidente, nel dicembre scorso ha sfidato il regime firmando l´appello Carta 08 per i diritti umani. All´epoca della rivolta Xu aveva quarant´anni, insegnava all´Accademia delle Scienze Sociali e il maggio dell´89 lo visse con i suoi studenti fino all´ultimo. «Sono rimasto al centro di Piazza Tienanmen per tutta la notte, fra il 3 e il 4 giugno, mentre si stringeva la morsa dei carriarmati. Non potevo andarmene finché l´ultimo dei miei ragazzi non riusciva a scappare. Sono rientrato a casa all´alba, camminando come un automa in mezzo a quel paesaggio di morte. Sembrava un´allucinazione. Ricordo di aver sfiorato tre giovani distesi su un marciapiede, così calmi e immobili che ho pensato: perché dormono qui per terra, adesso? Erano crivellati di colpi».
Zhang Boshu oggi è un altro leader del nuovo dissenso cinese. L´89 cambiò la sua vita: «Aprii gli occhi sulla degenerazione del partito comunista, il baratro in cui è capace di precipitarci l´autoritarismo». Lui vent´anni fa fu salvato da un´istintiva paura della moglie. «La sera del 3 giugno - ricorda - ero tornato a riposare qualche ora a casa, in periferia, e lei fece sparire la mia bicicletta per impedirmi di tornare a passare quella notte con gli studenti». Anche lui è tra i firmatari di Carta 08. Oggi vive destreggiandosi tra le angherie del regime, la sorveglianza poliziesca sui suoi spostamenti, i castighi che gli infliggono le autorità accademiche. Ha l´aspetto di un giovane Pietro Nenni cinese, gli occhiali da ultramiope con le lenti spesse, la capigliatura scarmigliata, la foga nel parlare. Si esalta quando rivive l´atmosfera di quel maggio, ricostruisce giorno per giorno l´escalation degli eventi: «Per un mese e mezzo Pechino fu al centro dell´attenzione mondiale, ci sentivamo a un passo dalla conquista della libertà, fino a quella notte di terrore che uccise ogni illusione».
Tutto comincia il 22 aprile 1989 al funerale di Hu Yaobang, l´ex leader riformista del partito, quando il corteo funebre all´improvviso si trasforma in una gigantesca manifestazione di protesta. Il 4 maggio una marea studentesca invade Piazza Tienanmen, in ricordo di un´altra ribellione giovanile che sconvolse la capitale esattamente 70 anni prima. Proprio com´era accaduto all´inizio del Novecento, i giovani istruiti della capitale diventano l´avanguardia che dà voce a un´esasperazione diffusa in tutti gli strati sociali. Le riforme di mercato volute dall´erede moderato di Mao, Deng Xiaoping, stentano a diffondere il benessere e hanno portato l´inflazione alle stelle. Nel partito dilaga la corruzione. L´élite delle università assaggia i primi frutti dell´apertura verso il resto del mondo, divora le notizie dall´estero, si sente parte dello storico sommovimento in atto in Unione sovietica e nell´Europa centrale, discute di diritti umani, di democrazia. Il 13 maggio parte lo sciopero della fame tra i giovani accampati sulla Piazza Tienanmen: il centro simbolico del potere politico dai tempi degli imperatori. «Quella data fu scelta con cura - ricorda Zhang Boshu - perché il 15 era prevista la visita ufficiale del leader sovietico Michail Gorbaciov. In quel momento il regime cinese era spaccato. Deng vedeva un complotto destabilizzante, quei giovani in piazza gli evocavano ricordi di un altro caos, il decennio della Rivoluzione culturale. Sul fronte opposto c´era il segretario del partito, Zhao Ziyang, favorevole alle riforme politiche e disposto a dialogare con noi. In quella impasse speravamo che la visita di Gorbaciov potesse aiutarci. Urss e Cina erano ancora le due Chiese del comunismo mondiale, con Gorbaciov c´era un nuovo flusso di idee, la sensazione che tutto poteva cambiare». La visita del leader sovietico offriva anche una visibilità senza precedenti, per l´arrivo di tanti reporter occidentali al suo seguito. Gli studenti di Pechino fecero le mosse giuste per colpire l´opinione pubblica mondiale. L´immagine potente della Statua della Libertà in polistirolo eretta davanti alla gigantografia di Mao, all´ingresso della Città Proibita, era perfetta per le riprese della Cnn. Ma lo "spiraglio Gorbaciov" si richiuse in fretta. «Il 17 maggio la partita era compromessa - dice Zhang Boshu - Ai vertici la resa dei conti si era conclusa con la vittoria di Deng. Il 18 maggio Zhao Ziyang fece un gesto disperato, uscì dai palazzi del potere per venire a parlare con noi in Piazza Tienanmen. Era l´atto finale di un perdente, prima dell´uscita di scena. Zhao era ancora formalmente il capo del partito, in realtà il potere gli scivolava via dalle mani. Venne a scongiurarci di interrompere lo sciopero della fame. Piangeva e continuava a ripetere: è troppo tardi ormai. Quarantotto ore dopo, la sera del 19 maggio, scattava la legge marziale. Quando io andai a portare una lettera di protesta alla redazione del Quotidiano del Popolo, un vicedirettore mi rispose: "Ormai qui dentro pubblichiamo solo quello che comanda l´esercito"». Il massacro si poteva ancora evitare? «Noi ci illudevamo - ricorda Zhang Boshu - perché ci fu uno stallo di due settimane. Per due volte l´esercito tentò di entrare in città e fu respinto dalla popolazione civile, che era dalla nostra parte. Ma più il regime stentava a riprendere il controllo di Tienanmen, più Deng si allarmava, si convinceva che era in gioco la sopravvivenza del partito. E cresceva la sua determinazione».
La ferocia finale la ricorda anche Shen Shiyun, un ex-ragazzo dell´89 che oggi è rientrato nei ranghi, come la maggioranza dei suoi coetanei. Da piccolo imprenditore, proprietario di una rete di negozi di telefonini, nella Cina del 2009 Shen gode i tanti benefici dello sviluppo economico. Non ha lo spirito del reduce, non ha contatti con gli ambienti del dissenso. Nel suo mondo privato però custodisce la memoria di vent´anni fa, quel maggio che anche lui passò con i compagni a occupare Piazza Tienanmen. La sua vita ha voltato pagina; non per questo è disposto a perdonare il massacro: «Cominciarono a sparare dieci chilometri prima del centro. Aprirsi un varco nella folla che resisteva era così difficile che si facevano strada uccidendo. Tra la gente di Pechino nessuno poteva credere che sarebbero stati capaci di tanto. Quando si capì che avevano l´ordine di fare una strage la gente urlava con orrore: "è peggio dell´invasione giapponese!". La controreazione fu spontanea: tank assaliti, incendiati, soldati aggrediti. Ma contro l´esercito non avevamo chances. A me hanno ammazzato l´amico più caro, un giovane ricercatore dell´università, morto in ospedale dopo venti giorni di agonia. In seguito per anni la polizia si è accanita sulla sua vedova. Ogni 5 aprile alla festa dei morti, ogni 4 giugno, lei riceveva minacce e avvertimenti pesanti: proibito unirsi agli altri parenti delle vittime. Un giorno è sparita, ha fatto perdere le tracce, ha tagliato tutti i rapporti anche con me, forse non sopportava più il peso di quel ricordo». L´imprenditore Shen è la prova vivente che il regime non ha usato solo la repressione. Vent´anni di boom hanno costruito una base di consenso reale, il progresso nelle condizioni di vita è stato stupefacente. Eppure anche lui conserva uno spirito critico: «Dopo Tienanmen - dice - il partito ha anestetizzato le nuove generazioni con l´ideologia del denaro. Questi giovani apolitici non si pongono più domande».
Il revisionismo di regime è riuscito a riscrivere la storia. Molti cinesi hanno finito per accettare l´unica versione di quegli eventi, quella di Deng: secondo lui gli studenti di Tenanmen stavano per trascinare il paese in una nuova guerra civile, come nel primo Novecento o nella Rivoluzione culturale. «E la maggior parte degli intellettuali da allora sono stati letteralmente comprati - osserva il professor Xu - Mai nella storia della Cina c´erano state tante opportunità di carriera e di arricchimento. Promozioni, denaro, successo, abbondano per chi accetta di stare al gioco».
Due generazioni di leader si sono succedute al potere dopo Deng. Neppure l´attuale classe dirigente, tecnocratica e modernizzatrice, trova il coraggio di un gesto pacificatore. Il numero delle vittime dell´89 rimane coperto dal segreto di Stato. «E´ la logica del regime, perché discutere liberamente quella tragedia è un passo pericoloso per loro. Il dogma dell´infallibilità del partito non si può rimettere in gioco. Si aprirebbe la strada al pluralismo, i cinesi chiederebbero di più». I dissidenti Xu e Zhang, la mamma del fotografo Wang, non sanno ancora come passeranno questo 4 giugno. Si avverte il desiderio di un gesto, una testimonianza, anche privata, perché il ventennale non passi sotto silenzio. «Probabilmente finiremo agli arresti domiciliari molto prima», commenta amaro il professor Xu.

Repubblica 11.5.09
La natura vibrante di Utagawa Hiroshige
Il paesaggio e le diversità tra Oriente e Occidente nella rassegna sul pittore giapponese
di Cesare De Seta


Quando ci si accosta alle civiltà artistiche asiatiche, i concetti formali ed estetici dell´Occidente sono scarsamente utili per provare a capire. Per l´estetica giapponese la comprensione è intuitiva e percettiva. Lo spiega in modo esemplare Donald Richie in Sull´estetica giapponese, edito ora da Lindau, che ho letto con profitto prima di visitare alla Fondazione Roma la bella mostra Hiroshige, a cura di Gian Carlo Calza (catalogo Skira, fino al 7 giugno). Le nostre convenzioni formali sono ancora differenti se ci si accosta al tema del paesaggio che in Occidente è codificato dalla prospettiva, introdotta in Giappone per la prima volta con le vedute di Edo, oggi Tokyo, di Utagawa Hiroshige (1797-1858). Ma la veduta a volo d´uccello, così tipica del vedutismo occidentale, si trasforma nelle vedute radenti, come quella di Okawabata, di questo pittore tra i più grandi del suo tempo, non impari a un maestro come Hokusai. Questi lo precede di una generazione, essendo nato nel 1960, e le sue vedute del monte Fuji furono una rivoluzione nel modo di concepire il paesaggio.
La mostra romana presenta una ricca selezione di stampe di Hiroshige, parte della strepitosa collezione di oltre 3000 fogli della Honolulu Academy of Arts raccolti da James Michener, autore del romanzo Sayonara. Hiroshige era nato in una famiglia di samurai di basso rango e tredicenne aveva iniziato la sua lenta formazione di artista alla scuola di Toyohiro. La cosa più difficile per un pittore giapponese era quella di trovare un editore che stampasse i suoi disegni: un processo molto lento e minuzioso che viene illustrato in mostra in modo efficace. Tra il 1830 e il 1831 Hiroshige pubblica Luoghi celebri della capitale orientale ancora influenzati da Hokusai. Liberatosi dal ruolo di funzionario dello shogun il pittore trova una sua originale strada. Le informazioni biografiche su di lui sono assai poche, scrive Calza, ma è certo che le Cinquantatre stazioni di posta del Tokaido 1933-1934 ebbero un grande successo, furono stampate in due volumi e molte vedute tirate in fogli sciolti.
Ora conviene lasciarsi andare a questi fogli policromi che sono scanditi in sezioni tematiche: molto spesso nelle stampe figurano testi poetici che sono consustanziali alla pittura giapponese. La scrittura è essa stessa un modo di dipingere. Fiori, uccelli, pesci, alberi, le onde del mare, lo scrosciare di una cascata, il ripido pendio di una rupe, l´apparire della luna sono il mondo vibrante della natura che viene rappresentato con rara sensibilità e libertà immaginativa. Dai dettagli si passa con estrema lentezza a vedute panoramiche dalla focale sempre più ampia e articolata: paesaggi in senso proprio. Nella serie tarda delle Cento vedute di luoghi celebri o in quelle di Edo, assai più tarde, Hiroshige compie miracoli di virtuosismo e dipinge persino il fitto cadere della pioggia. Solo a Kyoto ho riconosciuto lembi di questi paesaggi, del tutto scomparsi a Tokyo, che vive solo nelle vedute di Edo. Compaiono in questo variegato universo dipinto su fogli di carta di riso architetture e ponti, paesaggi marini e montani, ma anche personaggi e folle, dame e cavalieri, pescatori e manovali con tagli e inquadrature che ci fanno capire quanto importante sia stata questa secolare tradizione figurativa e quanto essa abbia influenzato il grande cinema giapponese.

Repubblica 11.5.09
Un nuovo museo inaugurato da Balla e Kandinsky
di P. V.


Anche Lucca ha il suo centro per l´arte contemporanea. Si chiama Lu. C. C. A., acronimo di Lucca Center of Contemporary Art. È stato aperto due giorni fa con la mostra Un mondo visivo nuovo. "Origine", Balla, Kandinsky e le astrazioni degli anni ´50 (a cura di Francesca Romana Morelli e Maurizio Vanni). Il Lu. C. C. A. è allestito all´interno di Palazzo Boccella, un antico edificio nel centro storico di Lucca, a pochi passi dalla celebre Piazza Anfiteatro. Un nuovo spazio dedicato all´arte contemporanea, concepito secondo principi innovativi di intendere e fruire lo spazio museale. L´intenzione è quella di creare dei veri viaggi all´interno dell´arte contemporanea.
Il tema della mostra affronta attraverso cinquanta opere tra dipinti e sculture il dibattito scaturito all´interno del gruppo "Origine", formato nel 1951 da Ettore Colla, Giuseppe Capogrossi, Alberto Burri e Mario Ballocco e trasformato nel 1952 in Fondazione Origine, centro di riferimento internazionale per l´approfondimento delle problematiche e la divulgazione dell´arte astratta. Presieduta da un comitato operativo che vide come motori propulsori Colla e il critico Emilio Villa, ma anche i più giovani Piero Dorazio e Achille Perilli, provenienti da Forma 1 e dall´Age d´Or, e personalità come Enrico Prampolini e Sebastian Matta, la Fondazione operò sino al 1958, con il coinvolgimento di un ampio numero di artisti: Emilio Vedova, Atanasio Soldati, Afro, Antonio Sanfilippo, Carla Accardi, Pietro Consagra, Toti Scialoja, Giulio Turcato, Edgardo Mannucci, Mimmo Rotella.
La necessità di trovare un codice atto a esprimere le avventure della coscienza dell´uomo durante la ricostruzione di un mondo distrutto dal conflitto mondiale porta gli artisti di "Origine" a cercare i propri "padri" in determinati protagonisti delle avanguardie: Kandinsky, Mondrian, Sonia Delaunay, Arp e Balla. Come avevano già fatto la Bauhaus e De Stijl, l´utopia di creare un "mondo visivo nuovo" si intreccia con l´urbanistica e l´architettura. L´arte astratta appare il linguaggio più adeguato a scandagliare e a interpretare la natura del proprio tempo e ad andare alle radici della coscienza del fare arte.

Repubblica 11.5.09
Enzo Cucchi. Quanta luce nella caverna di Nietzsche
di Achille Bonito Oliva


Da Helsinki alla Triennale di Milano omaggio all’artista tra pittura, disegni e sculture

È di nuovo sulla scena Enzo Cucchi. Oggi alla Triennale di Milano vernissage dell´atelier Bovisa con una mostra a lui dedicata (fino al 14 giugno), il 29 giugno è a Capodimonte, a Napoli, mentre Helsinki ospita, ancora per una settimana, novanta opere nell´EMMA-Espoo Museum of Modern Art. È uno straordinario excursus della sua opera: pittura, disegni e sculture, dal 1980 ad oggi.
Impressiona la progressione figurabile dell´opus di Cucchi che accetta la forte inerzia del dipingere, mette le colline, gli alberi, le case, i teschi, i cavalli, gli asini, le pecore, le torri, i gatti, gli uccelli, le nuvole al riparo, sotto il segno della guardata curva dove nulla precipita o va a picco, perché non esiste peso ma sempre una corsa ancorata a un interiore rallentamento, che poi significa la saggezza della distanza ravvicinata, che trova la sua origine nel pensiero religioso della pittura medievale in cui le figure sono emanazione del sentimento, lo spazio emanazione delle figure. Qui confluiscono tutte le istanze, nell´ordine del quadro si addensano anche le forze del disordine che accetta di inscriversi dentro il movimento parabolico del paesaggio, dentro la sostanza inclinata della natura: Quadro al buio sul mare (‘80), Succede ai pianoforti di fiamme nere (‘83). L´artista fonda un´architettura della natura, costruisce la casa o la collina secondo un progetto di fuga che non riguarda soltanto lo sguardo, ma anche la casa stessa e la collina. L´orizzonte è immobile e grave insieme.
Le distanze scivolano veloci e attente a non produrre catastrofi. Anche il vuoto non si fissa in un disagio metafisico, ma si inclina, anch´esso veloce, tra i vari volumi, perché il paesaggio è dipinto per correggere l´aria, per renderla più profumata e luminosa: Tavoli per pensare (‘96), Il muro dello sguardo (‘96). Un´epifania dell´istante trattiene le cose dentro la soglia di un presente duraturo e persistente. Le cose si innalzano ad un´altezza che non porta ebbrezza ma senso pacato di una sospensione che nasce dalla naturale forza delle cose stesse, per grazia ricevuta.
Cucchi libera la natura da ogni superbia, depura figure e oggetto da ogni tensione che non sia quella sana della loro forte densità interiore. Egli sottrae le cose alla loro necessità e gravitazionalità, in modo che l´immagine possa accedere ad un nuovo ordine terrestre, abitato da un modo circolare ma non meccanico. L´immagine vola rasoterra alla superficie del quadro, ben ancorata alla materia della pittura. Eppure esegue una sua navigazione incessante mediante una parabola che corre lungo varie orbite che non si incontrano mai: Breve volo (2001), Kamikaze (2001).
Cucchi lascia l´immagine aperta a tutte le sue peripezie, aperta verso molte direzioni. L´immagine attraversa l´aria e vi staziona, valica gli ingombri della casa e gli intrighi delle foreste, mette in contatto il cielo e le aureole, fino ad imboccare i sentieri sensibili dell´eterna illuminazione, da cui è possibile scorgere l´arte santa: Corpum cristi (2004).
I paesaggi di Cucchi hanno sempre una luce precaria, come uno sguardo che porta chiarezza spostandosi in maniera nomade da un punto all´altro, con la consapevolezza di questa precarietà che dipende dalla vista appuntita dell´artista, il quale corre velocemente, con le sue abbreviazioni stilistiche, a realizzare i suoi territori magmatici. Un attraversamento di spazio e di tempo, da architetture vicine fino alla lontananza delle colonne del Partenone: Casa dell´altro Mondo (2006), Pena capitale (2006).
La condizione visionaria dell´opera di Cucchi, in tutto il panorama internazionale della Transavanguardia, garantisce un´immagine che non si accontenta di sfiorare la pelle della pittura o la superficie della scultura. «Dietro ogni caverna ve n´è un´altra più profonda, deve essercene un´altra più profonda, un mondo più vasto, più estraneo, più ricco sotto la superficie, un abisso al di sotto di ogni fondo, al di là di ogni fondazione» (Nietzsche). Come si può desumere anche dai grandi disegni esposti alla Triennale di Milano, di cui mi sono occupato personalmente, Cucchi cerca di dare senso alle sue immagini, profondità alla caverna del suo immaginario. Anche quando diventano architettura, come Costume interiore per il Museo di Capodimonte (dal 29 giugno a cura di "Incontri Internazionali d´Arte"), che compete con la Torre di Babele e con l´omaggio di Tatlin alla Terza Internazionale, ingombrando con la sua altezza il cortile della Reggia.
L´opera è un deposito, reso esemplare nella forma cilindrica dal metallo, di energie che suscitano immagini, soffi di materia ed estensioni galleggianti nell´aria. Un tessuto visivo di una iconografia tridimensionale, sicuramente proveniente da un territorio di immagini tutto italiano che affonda le proprie ascendenze in un presente Medioevo, dal quale l´artista marchigiano ha estratto la precaria spiritualità delle sue immagini, ridando all´arte il suo altrove e rendendola abitabile.

Repubblica 11.5.09
Il ritorno di Napoleone. Il gesso di Canova a Brera restaurato
Pinacoteca di Brera. Fino al 31 dicembre.


Proseguono le celebrazioni del bicentenario del museo. Da vedere il calco del monumentale Napoleone come Marte pacificatore eseguito da Antonio Canova, restaurato da Daniele Angellotto con la direzione di Matteo Ceriana. Il colosso, uno dei cinque calchi realizzati dal formatore Vincenzo Malpieri nel 1808, viene acquistato da Eugenio di Beauharnais nel 1809 per l'Accademia di Belle Arti di Brera e collocato nelle Gallerie, in occasione dell'apertura della Pinacoteca il 15 agosto, genetliaco dell'imperatore.

l’Unità 11.5.09
Cinque domande a Dario Vergassola
di Susanna Turco


1 Apicella
Solidarietà ad Apicella, per cominciare. Dice che è discriminato, speriamo che con le nuove nomine in Rai si trovi meglio. Che il prossimo direttore, quale che sia lo salutiamo, rimetta in piedi il festival Napoli contro tutti, e che gli dia più spazio di Sanremo, così che finalmente Apicella trionfi. Nel caso, gli farò da accordatore.
2 Maroni (e l’omeopatia)
Si vanta di aver respinto 1500 immigrati in 5 giorni: difficile combattere i cambiamenti del mondo con l’omeopatia, ma contento lui. Avranno venti secondi in più di supremazia della razza padana.
3 Italia in metrò
Se Berlusconi prendesse la metropolitana, vedrebbe che la società è già multirazziale, multicolore, multirompiscatole anche. E capirebbe che è difficile dar contro a Darwin.
4 Moniti (a Berlusconi)
A Berlusca dico: occhio, perché la Cei si è accorta di quel che ha detto. E rimandare la gente a morire nel proprio Paese non è una cosa furba in campagna elettorale.
5 Smentire
Tanto il Cav mente sapendo di poter smentire. All’ultimo dirà che è stato un complotto, inviterà tutti alla partita Milan contro Vaticano e, indicando da quale Paese proviene ciascuno dei suoi calciatori, dimostrerà che lui sì è multietnico davvero. L’arbitro sarà Apicella.

l’Unità 11.5.09
Intervista a Benjamin Barber
«L’Occidente è già multietnico, Berlusconi guarda al passato»
Il politologo americano, oggi ospite di Reset a Milano, definisce «falsi» gli argomenti xenofobi
Nelle città spazi comuni per culture diverse
di Gabriel Bertinetto


Le città per natura favoriscono l’integrazione multietnica. Ad ostacolarla intervengono scelte politiche che sfruttano le paure irrazionali della gente, soprattutto in tempi di crisi. Così dice all’Unità il politologo Benjamin Barber, relatore oggi al convegno organizzato da «Reset» a Milano in piazza Belgioioso 1: «La città, uno spazio comune, molte culture».
Professor Barber, suscita clamore in Italia il no del premier Berlusconi alla multietnicità. Ma una società monoetnica è un’opzione praticabile nel mondo moderno?
«Assolutamente no. Berlusconi non respinge un potenziale sviluppo del futuro, ma una realtà già in atto. L’Italia è parte di un mondo multietnico e culturalmente interdipendente. Tanto che nel mio Paese, gli Stati Uniti, per la prima volta abbiamo un capo di Stato genuina espressione di questa molteplicità. Il vostro presidente del Consiglio dice no al presente, e sì al passato. Vuole irrealisticamente retrocedere a qualcosa che non esiste più».
Considerazioni morali a parte, rifiutare la multietnicità conviene?
«È un danno, perché la logica dell’immigrazione è economica. Coloro che legalmente o clandestinamente lasciano la Libia per l’Italia, il Marocco per la Spagna, il Messico per gli Usa, il Guatemala per il Messico, lo fanno spinti da motivazioni prettamente economiche. Chi da fuori viene in Italia, non lo fa per trasformarla in una società multietnica, ma per trovare un’occupazione. L’economia globale richiede una forza lavoro mobile. Quando Berlusconi parla contro l’immigrazione, rifiuta la logica della globalizzazione. Come proprietario di un’azienda mediatica di dimensioni internazionali, dovrebbe essere il primo a saperlo».
Gli argomenti sovente usati dagli xenofobi sono: ci rubano il lavoro e rendono le nostre città insicure. Che fondamento hanno?
«Le statistiche non confortano l’ipotesi che gli immigrati siano tendenzialmente più dediti ad attività criminali che non i locali. La delinquenza è universalmente ripartita. Non è vero poi che portino via il posto ai già residenti. Vengono a svolgere i lavori offerti dal mercato. Gli argomenti degli xenofobi sono falsi ma servono a personaggi ccome Berlusconi da voi, o Cheney da noi, per cavalcare le paure dei concittadini e trarne vantaggi politici».
Ci sono modelli di sviluppo architettonico e urbano che possono meglio aiutare l’integrazione etnica?
«In realtà le città per loro natura sono organismi multiculturali. Negli ultimi 40 anni in alcune metropoli la popolazione è cresciuta di 30 o 40 volte. E questo non per germinazione interna ma grazie ad afflussi massicci dall’esterno. Sono individui mossi dal bisogno di un lavoro, dal desiderio di cambiare vita, dalla necessità di sottrarsi ad ambienti ostili. La città è per se stessa fondata sull’anonimato e sulla contiguità di comunità diverse. È vicinanza, comunicazione. Non esiste il problema di disegnare gli spazi urbani in maniera da favorire una multiculturalità che è già ad essi intrinseca».
Può esserci però scontro anzichè integrazione. Come evitare l’uno e favorire l’altra?
«In un agglomerato urbano si manifestano due tendenze. La stessa persona all’interno del suo quartiere vive le condizioni dell’identità culturale originaria, ma nel rapporto con le istituzioni, attraverso la sua attività lavorativa, facendo uso dei mezzi di trasporto, sperimenta un costante processo di integrazione. La compresenza di comunità etniche diverse nella medesima città alimenta questa doppia esposizione culturale di ogni singolo individuo. Un nigeriano, che faccia il taxista a Londra o Parigi, ed abiti in un quartiere popolato da suoi connazionali, si trova ad essere simultaneamente un africano all’estero ed un cittadino cosmopolita. Se una città non esprime le sue potenzialità naturali di integrazione e armonica interdipendenza è a causa di scelte politiche».
L’Italia è una terra di ex-emigranti. La religione cristiana predica la fratellanza. Eppure nè l’esperienza storica, né le radici culturali sembrano averci vaccinato a sufficienza contro il morbo del razzismo. Perché?
«Il miglior vaccino può essere inefficace se il virus è potente. La crisi economica in corso è uno di quei virus che spianano il terreno a chi propugna la politica della paura e ostacola il cammino ai fautori della politica della speranza. Ecco perché è facile oggi per Berlusconi martellare la gente con messaggi pericolosamente reazionari».