lunedì 18 maggio 2009

l'Unità 18.5.09
Trovata in Germania. Scolpita nell’avorio, è alta solo 60 millimetri
Simboli. L’organo sessuale estremamente grande esalta la fertilità
La statua più antica. Una donna dai seni enormi
di Pietro Greco


La statua più antica del mondo è stata trovata l’anno scorso in Germania: scolpita nell’avorio di un mammut, è alta 60 millimetri e raffigura una donna con seni prominenti e una vulva enorme.

È alta appena 60 millimetri. Ha una testa piccolissima, le braccia e le gambe accorciate, ma in compenso ha seni prominenti e una vulva enorme. È scolpita nell’avorio, prelevato dalla zanna di un mammut. È stata trovata nei mesi scorsi, in una cava della Hohle Fels, nella parte sudoccidentale della Germania. E da la più antica rappresentazione di un corpo umano mai rinvenuta. È stata scolpita 37.000 anni fa (misurati con estrema precisione con le nuove tecniche al radiocarbonio) dai primi sapiens giunti in quelle regioni d’Europa. Ed è stata ritrovata il 9 settembre 2008. Ne dà notizia su Nature Nicholas Conard, un archeologo dell’università di Tubinga.
La statua è la più antica mai ritrovata e anticipa di alcune migliaia di anni la capacità, provata di Homo sapiens, di esprimersi mediante sofisticate capacità artistiche.
La statua è quella di una donna. Anzi, di una donna-simbolo. Anche se non sappiamo esattamente cosa simboleggino quelle forme così enfatizzate dei caratteri sessuali. Da questo punto di vista la statuetta di Hohle Fels non rappresenta un’eccezione. Ma, anzi, una costante. Altri ritrovamenti risalenti al medesimo periodo (circa 35.000 anni fa), effettuati in altre parti d’Europa (per esempio a Le Ferrassie, in Francia) mostrano che non appena l’uomo ha inventato l’arte figurativa e con essa la capacità di raffigurare se stesso, ha puntato molto sulla rappresentazione dei caratteri sessuali. Soprattutto femminili. Ma non solo: in Francia è stato trovato per esempio un fallo in avorio di poco più recente, risalente a 36.000 anni fa.
Una scelta ossessiva
Perché questa scelta, quasi ossessiva del sesso? Cosa vogliono rappresentare quelle figure simboliche che agli occhi di un osservatore oggi appaiono quasi pornografiche? Non lo sappiamo. Le ipotesi principali sono tre. La prima è che esaltando i caratteri sessuali umani e animali i nostri progenitori volessero esaltare la fertilità e la vita stessa. La seconda è che quelle statuine volessero rappresentare l’opposizione dei sessi. La terza è che fossero utilizzate in riti e celebrazioni.
Sia come sia, un fatto è certo: questa «corrente artistica» è stata egemone a lungo in Europa, per almeno 25.000 anni. E sì, perché quel modo di raffigurare la donna si è conservato. Celeberrima, per esempio, è la Venere di Willendorf: che ha «solo» 28.000 anni, ma ha una raffinatezza artistica stupefacente.
Tuttavia la statua in avorio di Hohle Fels ci dice qualcosa in più. Essa è stata scolpita dai primi Homo sapiens giunti in quella regione d’Europa, dove abitavano i Neandertal: la specie che ci ha preceduti nel Vecchio Continente. Anche i Neandertal conoscevano l’arte. E anche i Neandertal possedevano un pensiero simbolico. Ma la loro arte si esprimeva attraverso figure astratte. I sapiens hanno inventato l’arte figurativa. Segno, probabilmente, che possedevano non solo una diversa cultura, ma più estese capacità cognitive.

l'Unità 18.5.09
Superiori, la riforma sarà un elenco di tagli
Quaranta esperti non riescono a scrivere il testo. L’unico criterio è quello di Tremonti. Hanno tempo fino alla fine del mese, in autunno il confronto
di Fabio Luppino


Quaranta professionisti dell’istruzione da settimane si riuniscono quasi quotidianamente per tirare fuori qualcosa che si possa chiamare «Grande riforma» della scuola. Chi li ha visti al lavoro li ha trovati angosciati e avviliti. Sarà come dice il ministro il primo fatto epocale dopo quella Gentile, ma - come è pacifico - ognuno può dare alle cose il nome che vuole: il nomen, però non fa la res.
Il problema della dotta commissione sta proprio nella filosofia. Un curriculum di tutto rispetto non si può immiserire nella semplice operazione di, toglimi un po’ di matematica, aumenta le scienze, meno latino più inglese. Roba da chirurgia estetica, anche se la Gelmini rivendica un po’ questo criterio. «Pur mantenendo l’impostazione tradizionale - spiega sul Messaggero di ieri - anche nei licei verrà potenziato l’insegnamento della matematica». Il presupposto teorico è res nullius. E per professoroni di didattica e pedagogia, in alcuni casi, è un po’ poco.
I quaranta sono incartati. Sanno che devono completare qualcosa che possa essere chiamata «Riforma della scuola superiore» entro la fine del mese, ma non ne vengono a capo. L’unico presupposto-bibbia resta la Finanziaria di un anno fa di Giulio Tremonti: ridurre le ore, ridurre i professori, ridurre il personale Ata. E di qui accorpare: classi, bambini, portatori di handicap, materie. La più parte delle cose di cui parla il ministro è già uscito ampiamente in bozze, qualche mese fa, ma viale Trastevere ha sempre smentito. Emergeva un ridimensionamento del tutto immotivato del liceo classico, una finta attenzione per gli istituti tecnici - in cui vengono ridotte le ore di laboratorio per cui non è chiaro quale sia il vantaggio - e il liceo musicale-coreutico («legato al canto e alla danza», come ha spiegato il ministro al Messaggero) e quello delle scienze umane. Signori, la riforma delle superiori. «Potenzieremo l’inglese - ha rassicurato la Gelmini -. Alla scuola media le famiglie potranno decidere se avvalersi delle ore dedicate alla seconda lingua per permettere ai loro figlioli di seguire soltanto corsi di Inglese. E al liceo classico ci sarà l’obbligatorietà della lingua inglese per tutti e cinque gli anni di corso». Va ricordato al ministro che sulla progressiva abolizione della seconda lingua alle medie c’è una sentenza del Tar a spiegare che non si può fare. In più, andrebbe contro la direttiva comunitaria che impone lo studio della seconda lingua: le ambasciate e i centri culturali di Francia, Germania e Spagna presenti in Italia da mesi mugugnano davanti a questa prospettiva. Inoltre c’è una domanda semplice semplice da girare al ministro: perché è meglio lo studio di una lingua piuttosto che due? Lo stato primitivo delle conoscenze nostrane lo scontiamo ogni volta che ci rechiamo all’estero, dove ragazzi di sedici anni parlano correntemente tre lingue straniere.
È questo, di grazia, uno svantaggio? Oppure si vuole tagliare per favorire la privatizzazione dell’istruzione a cominciare dalle lingue straniere?

Corriere della Sera 18.5.09
Gli atenei preparano i piani per accedere agli incentivi anti-sprechi della Gelmini
Tagliato un corso di laurea su cinque
La Sapienza ne elimina 46, Siena 34. La mappa da Firenze a Messina
di Giulio Benedetti


ROMA — Venti per cento di corsi in meno, in cifre 1.000-1.100 tra lauree triennali e specialistiche. È l’effetto del­la cura dimagrante per l’univer­sità avviata dalla Moratti e por­tata avanti da Mussi. Termine ultimo per perdere peso il 15 giugno. Dopo quella data, se l’offerta formativa sarà ridon­dante, ovvero conterrà troppi corsi privi dei necessari requi­siti, a partire dal numero dei prof delle materie di base, ver­rà ridimensionata a colpi di for­bici dal ministro Gelmini. Nel senso che l’offerta fuori norma non verrà riconosciuta, non avrà valore legale.
Negli ultimi due mesi i Sena­ti accademici hanno tagliato decine e decine di corsi di lau­rea, in qualche caso anche fa­coltà. «La Sapienza» di Roma ha cancellato più di tutti. Il me­ga ateneo, il più grande d’Italia e uno dei maggiori in Europa, è stato quello che ha tagliato più in profondità: 46 corsi. A Siena ce ne sono 34 in meno. Firenze e Genova hanno previ­sto un taglio dell’offerta rispet­tivamente del 20 e 15 per cen­to. La Federico II di Napoli, lo scorso anno, ha cancellato 9 corsi di laurea e ora si appresta a tagliare 100 insegnamenti. Roma Tre, Bologna, Ferrara e Bergamo elimineranno da uno a due corsi. Il Politecnico di Mi­lano un corso nella sede distac­cata di Cremona. Ancona ha soppresso 10 corsi e 100 inse­gnamenti. Messina si è privata di una facoltà, quella di Statisti­ca, e di 15 corsi di laurea. L’Orientale di Napoli perderà circa la metà dei corsi di lau­rea.
In tutti gli atenei del Paese i Senati accademici stanno fa­cendo i conti. E alla fine, tran­ne poche eccezioni, l’offerta di­dattica per il nuovo anno è a se­gno meno. Sono spariti gli in­segnamenti creati più per ra­gioni accademiche che per sod­disfare una reale domanda de­gli studenti. Sorti come fun­ghi, spesso non sono riusciti ad attrarre iscritti. Ed hanno confuso le idee a tanti giovani con offerte stravaganti quanto prive di utilità: uno, tra i tanti, s’intitolava «Benessere del ca­ne e del gatto». Gli atenei han­no accorpato insegnamenti si­mili col risultato di utilizzare in modo più razionale i docen­ti. «Per i prossimi tre anni il go­verno punta alla perdita di un 20 per cento di docenza — spiega il professor Nino Lucia­ni dell’ateneo di Bologna —. Mettiamo che un ateneo abbia 30 corsi di laurea con delle ma­terie comuni nel primo anno. Non servono 30 professori. Si accorpano gli insegnamenti e un docente insegna a più stu­denti ». Aggiunge il rettore del­l’Università di Ancona, Marco Pacetti: «Spariranno i corsi e gli insegnamenti che sono nati per dare visibilità al docente. Ci sono professori che insegna­no in quattro-cinque corsi si­mili con pochi studenti. Tutto ciò non è possibile».
A Messina è saltata addirittu­ra una facoltà, quella di Statisti­ca, l’unica in tutta la Sicilia. «Gli studenti iscritti ai due cor­si della facoltà si erano ridotti a trenta — afferma il rettore Francesco Tomasello —. Con la crisi che c’è bisogna avere coraggio, bisogna dimostrare di saper gestire le istituzioni. Nel prossimo anno accademi­co al sistema universitario mancheranno circa 500 milio­ni di euro. E col Pil in caduta non è ragionevole aspettarsi un miracolo da parte del gover­no».

l'Unità 18.5.09
Rushdie: la Firenze dei Medici?
Proprio come l’India dei Mogol
di Roberto Carnero


«Un libro che mette insieme le mie due matrici culturali: Oriente e Occidente, India ed Europa». Così Salman Rushdie - nato a Bombay nel 1947 - parla del suo ultimo romanzo, L’incantatrice di Firenze (Mondadori, pp. 374, euro 20,00), la cui presentazione, ieri pomeriggio, è stato uno degli eventi più attesi della Fiera del Libro. Non avevamo mai visto una simile ressa di fotografi e reporter non appena lo scrittore si è affacciato alla «sala dei 500», dove ha parlato di fronte a un foltissimo pubblico. E ha spiegato come le origini remote di questo libro risalgono a quando, giovane studente senza un soldo («dovevo scegliere, ogni giorno, tra la pizza e il gelato, perché non avevo i soldi per entrambe le cose»), trascorse un’estate a Firenze.
La fascinazione per la cultura rinascimentale l’avrebbe spinto molti anni dopo a inventare la vicenda di questo romanzo. Che parte dalla storia di Qara Koz, principessa indiana della casa Mogol che nel ’500 finisce nelle mani di una fazione avversa, giungendo, attraverso mille peripezie, proprio a Firenze, dove con la sua rara bellezza sconvolge la corte medicea (tra i personaggi compare anche Machiavelli). Da qui, mezzo secolo dopo, si muove alla volta dell’India un misterioso giovane dai capelli biondi, che si presenta alla corte dell’imperatore Akbar il Grande, sostenendo di essere suo nipote, figlio, cioè, della principessa Koz. Non è chiaro se il ragazzo dica la verità o se menta. E proprio in questa ambiguità risiede il fascino di una narrazione che dipana molti fili.
Integralismi e condanne
«Il mio modello è stato in parte l’Orlando Furioso - spiega Rushdie -. Ariosto ha ambientato il suo poema alcuni secoli prima, ai tempi di Carlo Magno, ma l’ha scritto proprio nell’epoca in cui si situano le vicende che racconto in questo romanzo. Amo gli scrittori che intrecciano diverse storie: Ariosto, Shakespeare, Cervantes. E mi piace mescolare storia e invenzione. Del resto la letteratura è una menzogna che racconta la verità». Rushdie ricorda come l’epoca in cui è ambientato il suo libro fosse un periodo di grande apertura culturale, di grande modernità, ma anche di profondi integralismi: «In questo non siamo lontani da quanto vediamo oggi nel mondo che ci circonda». E parla della relazione tra «purezza» e «piacere»: «È la stessa relazione che esiste tra fanatismo e libertà. Ma anche qui ci sono corsi e ricorsi storici: Savonarola condannava il piacere in sé e faceva i roghi delle vanità, poi i fiorentini a un certo punto si sono stancati di Savonarola e hanno fatto un rogo del povero frate». E oggi? «Anche oggi i gruppi di estremisti religiosi tendono ad attaccare tutte le forme di piacere: non solo il sesso, ma spesso anche la musica, l’arte, il cinema, il teatro, la letteratura. Evidentemente temono che qualcuno da qualche parte possa essere felice».
Di condanne da parte dei fondamentalisti religiosi Rushdie ne sa qualcosa: 20 anni fa la fatwa da parte dell’ayatollah Khomeini per i suoi Versetti satanici. Una condanna che per molto tempo l’ha costretto a vivere blindato, come di recente è accaduto al nostro Roberto Saviano, che la camorra avrebbe deciso di uccidere in seguito alle denunce contenute nel suo romanzo Gomorra. Da questa sorte comune di scrittori «condannati» per i loro libri è nata l’amicizia tra Rushdie e Saviano. «Quando l’ho incontrato per la prima volta a New York - racconta l’autore indiano - l’ho messo in guardia sul fatto che in molti avrebbero cercato di screditarlo, come era accaduto a me vent’anni fa. La gente purtroppo spesso tende a biasimare la vittima, più che ad accusare il carnefice. Basta suggerire alcune domande: perché l’hai fatto? hai forse voluto diventrare ricco e famoso? in fondo te la sei cercata...».
Narrare le vite
È importante, però, che gli scrittori continuino a far sentire la loro voce: «È necessario raccontare e raccontarsi. Raccontare è il primo passo per capire. Quello del racconto è un atto che dà identità e libertà. Se non ci è concesso di dire la nostra storia, la nostra vita perde di significato». Per Rushdie nel mondo non mancano scrittori coraggiosi, che accettano anche il rischio delle conseguenze di ciò che le loro parole potrebbero produrre: «Anche nel mondo islamico, in quei Paesi dove il fondamentalismo è forte, ci sono autori che non si rassegnano a essere imbavagliati, anche se in molti provano a censurarli o a limitarli. La mia impressione è che oggi a essere più più spaventate siano spesso le case editrici occidentali».
Rushdie non si sottrae a un commento sui risultati delle elezioni in India e dice di essere felice per quello che è successo: «Avrei votato anch’io per il Partito del Congresso di Sonia Gandhi. Il dato che emerge è un netto arretramento delle ali estreme, sia destra sia sinistra, a vantaggio del partito moderato che, in passato, è stato protagonista della lotta per l’indipendenza e che ha visto leader come Gandhi e Nehru. C’è la speranza che si apra una nuova stagione per la politica indiana, dopo un ventennio di governi di coalizione, spesso inefficaci».

Repubblica 18.5.09
Bertinotti: la sinistra non riesce più a isolare chi lavora per la rottura
"Dobbiamo tornare a intercettare i bisogni degli operai"
di Paolo Griseri


Abbiamo vissuto con due sinistre per molti anni e non ci è servito a vincere. Difficile trovare il consenso sui temi sociali ed economici
L´aggressione a Rinaldini è rivelatrice di una nostra debolezza, di una difficoltà a reagire. Ma la soluzione non è il populismo

TORINO - Un fiume carsico, quello che non vedi e spunta improvviso, tanto più sorprendente perché non l´hai previsto, è arrivato fin sul tuo palco sindacale «prima ancor che tu riuscissi a organizzare una risposta, un anticorpo». Fausto Bertinotti non vuole parlare di attualità. Se lo è imposto da tempo dopo la sua uscita dalla segreteria di Rifondazione. Eppure nella Sala dei 500 del Lingotto, a pochi passi da luogo dove solo 24 ore prima lo Slai Cobas ha assaltato un comizio sindacale, è difficile trattenere i pensieri.
Come si spiega l´assalto di sabato?
«Quel che mi colpisce è questa distanza che si misura tra il movimento dei lavoratori e chi tra i lavoratori ti individua come nemico. È evidente che chi ha compiuto quell´assalto non lo ha fatto perché in quel momento parlava Rinaldini ma nonostante il fatto che parlasse il segretario della Fiom. Come se la spinta a rompere una solidarietà naturale tra lavoratori fosse più forte dei motivi oggettivi che dovrebbero fondarla. Indagare sulle ragioni di quella spinta alla rottura dovrebbe essere uno dei compiti della sinistra, e questo al di là della specifica vicenda dell´assalto di Torino. Vicenda che è molto grave in sé ed è comunque rivelatrice di una nostra debolezza, di una difficoltà a reagire, a isolare chi lavora per la rottura».
C´è una difficoltà della sinistra a leggere i segni dei tempi?
«Non dobbiamo sottovalutare i segnali di questi mesi. Se il 43 per cento degli operai dichiara di votare per il centrodestra, non significa che siano diventati tutti matti. Ma che la sinistra, cioè tutti noi con le nostre diverse culture e storie, non siamo stati in grado di intercettare i bisogni di quelle persone».
Chi riempie quel vuoto?
«Il rischio è che lo riempia il populismo come dimostrano anche i dibattiti di questa Fiera. Mentre quando parlavamo di combattere il conflitto di interessi tutta la sala applaudiva convinta, quando io introducevo i temi sociali ed economici applaudiva solo una parte non maggioritaria della platea Forse anche questo è il sintomo delle difficoltà di oggi. Per uscirne bisogna abbandonare la nostra visione provinciale. Abbiamo vissuto con due sinistre per molti anni. E non ci è servito a vincere. Oggi dovremmo piuttosto pensare a un´unica sinistra europea».
Per tornare a contare, per evitare di «dividersi in frange e frangette», come dice provocatoriamente Di Pietro, chiamato con Bertinotti a discutere, insieme a Luigi la Spina e a Mirella Serri, su «La notte della sinistra».
Il leader dell´Italia dei valori ieri ha girato il coltello nella piaga: «Che ci azzecco io con la sinistra? La sinistra oggi non parla, lasciate che sia io a fare da tampone». Perché, in fondo, il nodo delle difficoltà, anche di quelle sindacali, è proprio in questa debolezza. Bertinotti ricorda nel suo libro («Devi augurarti che la strada sia lunga», Ponte alle Grazie) quante volte nella sua esperienza di sindacalista la contestazione della piazza è stata sul punto di travolgere i palchi dei comizi. Parla con ammirazione di Emilio Pugno, storico dirigente della Fiom alla Fiat e suo predecessore alla guida della Cgil piemontese: «Aveva doti del tutto particolari: forza, determinazione e coraggio. L´ho visto una volta, durante un comizio in piazza San Carlo dove veniva contestato un dirigente storico della Cgil come Rinaldo Scheda, protendersi in prima fila, afferrare il microfono e zittire d´un colpo i contestatori: "Nessuno, dico nessuno, può permettersi di impedir di parlare a un dirigente nazionale della Cgil". La piazza gli ha obbedito senza colpo ferire. Così come una volta gli ubbidirono 20 mila persone che rumoreggiavano impetuosamente di fronte all´allora ministro Donat-Cattin». Una lezione che sembra lontana anni luce dalle cronache di questi giorni.

Repubblica 18.5.09
Una rassegna di opere grafiche del maestro olandese a Mamiano di Traversetolo
Rembrandt, Lo sguardo in bianco e nero
di Barbara Briganti


Anni fa lo storico inglese Simon Shama pubblicò un libro enciclopedico, torrenziale e travolgente intitolato Gli occhi di Rembrandt. Un titolo che, nel visitare la recente mostra allestita alla fondazione Magnani Rocca, è impossibile non ricordare ("Rembrandt dal Petit Palais di Parigi", fino al 28 giugno, Fondazione Magnani Rocca di Mamiano di Traversetolo, catalogo e mostra a cura di Sophie Renouard de Bussierre).
Da un lato c´è il mondo visto dagli occhi di Rembrandt, più frequente nell´opera grafica che in quella pittorica, uno spazio geograficamente e socialmente limitato. È un mondo pragmatico e severo, improntato da luterano rigore, abitato da mercanti ed esattori delle tasse, contadini e mendicanti. Personaggi visti con realismo quasi spietato da un uomo che viveva solo attraverso i propri occhi e che all´universo visibile non aggiungeva né filtri né grazie. Un mondo naturale piatto e sterminato, solcato da canali e acquitrini, al quale rari alberi danno profondità, dove l´orizzonte è talmente lontano da essere appena percepibile e il cielo lattiginoso è solcato da nuvole sfilacciate. Vi si ritrovano dettagli appena accennati nella caligine o nella nebbia, minuscoli campanili e mulini dalle ali scomposte, grandi come capocchie di spillo. Un mondo in bianco e nero fatto di luci violente che bisogna sapere guardare con pazienza, sforzando i nostri occhi, organi quanto mai difettosi e carenti, per scoprire cosa succede nelle ombre profonde e vellutate. Un mondo in cui la materia: nuvole e foglie, pellicce e velluti, carni grasse e burrose, è raffigurata con tale minuzia che si finisce col chiedersi come funzionavano gli occhi di Rembrandt, quale microscopica qualità possedevano per controllare la punta che scalfiva la vernice sulla lastra metallica. Solo ingrandimenti macroscopici ci permettono di apprezzare la regolarità del tratto, la precisione dei limiti che circondano i particolari.
Ma noi conosciamo gli occhi di Rembrandt, anzi possiamo vederli. Nessun pittore si è rappresentato con tanta frequenza, e quegli occhi che sappiamo essere stati chiari, di un pallido grigioverde e lievemente asimmetrici, ci rincorrono nei tanti ritratti che vanno dalla gioventù alla maturità. Occhi intelligenti, talvolta spiritati e talvolta pensosi, occhi che non si dimenticano facilmente, aperture sull´anima e sul dramma contingente.
E gli occhi di Rembrandt sono anche lo sguardo dei personaggi raffigurati, uomini paludati di scuro che ci scrutano con aria sorniona o mite ed espressione stupita o attenta, sono lo sguardo complice di Hendrikije al bagno e quello miracolosamente sensuale, abbandonato e felice della donna del Letto Francese ottenuto, in tutta la sua sconvolgente complessità, solo con una piccola scalfittura di punta secca.
Ma la mostra di Traversetolo offre un´ultima e rara coincidenza, la visita alla stanza dove Luigi Magnani aveva raccolto le incisioni di Morandi. Come ogni grande incisore Morandi venerava Rembrandt, di cui possedeva alcune opere. Il confronto, ovviamente meditato, tra il lavoro dell´uno e dell´altro rappresenta uno di quei momenti magici che raramente una mostra può regalare.

Repubblica 18.5.09
Il tempo infinito delle ninfee
A Palazzo Reale le "serie" dipinte a Giverny, nel suo giardino d´acqua giapponese
di Fabrizio D'Amico


MILANO. Quando Monet, tra la fine di agosto e l´inizio di settembre del 1890, iniziò a dipingere una serie di quadri raffiguranti i grandi covoni di frumento che spiccavano alti e maestosi a poca distanza dalla sua casa di Giverny, egli imponeva una svolta non solo alla sua personale vicenda, ma alla storia della pittura occidentale. Non era la prima volta che Monet ritraeva quel soggetto, già caro d´altronde alla tradizione realista francese. Né era la prima volta che ripeteva, con poche varianti iconografiche, lo stesso tema in più di un dipinto: era accaduto già negli anni Settanta, in alcune opere che ritraevano la stazione ferroviaria di Saint-Lazare, e poi episodicamente nel decennio successivo, soprattutto in piccoli cicli di dipinti raffiguranti le scogliere di Belle-Ile e i dirupi della valle della Creuse. Il filo dell´idea che sostiene, nel 1890, la prima "serie" di Monet si distende dunque assai indietro nel tempo; eppure, i giorni di quella tarda estate a Giverny, tutto cambia.
Adesso la "serie", da momento saltuario e poco più che casuale, sale d´improvviso a metro assoluto di pensiero e di forma. Il soggetto scolora, di per sé: e vale, ora, soltanto per la sua ripetizione ossessiva, libera da ogni residua curiosità "impressionista". Le "serie", che occuperanno larga parte degli anni Novanta, segnano dunque un nuovo, prodigioso balzo di Monet: concentrata com´è sulla variazione minima della luce, la pittura vi si distacca definitivamente dalla dipendenza dal soggetto. Non è per caso che Kandinsky, padre dell´astrattismo del nuovo secolo, guardando proprio uno dei Covoni esposto in una mostra di impressionisti che si teneva a Mosca, confessò la «confusa sensazione che in questo quadro mancasse il soggetto».
Infinitamente reiterato, il tema perde infatti ogni sua flagranza, ogni sua autonoma capacità di voce. I covoni di fieno valgono solo come misure diversamente capaci di intercettare la luce, come rapporti diseguali di pieno rispetto al vuoto che li circonda, come pause nel flusso unito di luce e colore. Gli anni Novanta si concludono con l´altra serie dei Mattini sulla Senna, nei quali Monet - annidato col suo cavalletto in un barca ancorata in un´ansa del fiume - raffigura la bruma che si alza leggera dall´acqua, e stende un velo azzurro sugli alberi, sulla verzura che circondano la riva. Subito appresso vengono quei "soggetti" - nulla più, ormai, che pretesti rubati alla natura - che occuperanno quasi per intero l´intensa operosità di Monet tardo ed estremo, accompagnandolo fino alla morte, nel 1926.
Dipinti, questi, che, se non hanno più il rigore assoluto delle "serie" (concepite in un lasso ristretto di tempo, su supporti prevalentemente della stessa dimensione) risentono comunque delle premesse formali istituite dal modo degli anni Novanta. Sono le ninfee, cresciute nel piccolo lago artificiale che, dopo molte battaglie ingaggiate con l´amministrazione comunale di Giverny, Monet ha avuto finalmente il permesso di creare, deviando brevemente il corso di un piccolo affluente della Senna, nel giardino che circonda la sua casa; e assieme a esse i roseti, il grande salice, e il ponte giapponese - un piccolo ponte in legno che sormonta lo stagno delle ninfee. In mezzo a questa natura, una natura dunque che s´era immaginato e costruito quasi metro per metro, Monet dipingerà per oltre vent´anni. Pochissimi saranno, da allora in avanti, i suoi viaggi, e sempre più brevi le "campagne di pittura" in cui aveva trasformato ogni viaggio fatto in gioventù. Spesso, come avvenne per le vedute di Venezia dove si era recato brevemente nel 1908, i quadri saranno lungamente rielaborati a studio, al suo rientro a Giverny. Nel cui giardino d´acqua nacquero invece infiniti capolavori: oggi venti dipinti di questi anni, tutti di grande dimensione e tutti provenienti dal Musée Marmottan di Parigi, sono riuniti in mostra a Palazzo Reale a Milano ("Monet. Il tempo delle ninfee", a cura di Claudia Beltramo Ceppi, catalogo Giunti con molti utili contributi), in una selezione che muove dalla splendida Barca del 1887 e giunge a un ultimo Roseto, del 1925-´26.
A essi s´affiancano in mostra (provenienti dal Musée Guimet di Parigi) una vasta scelta di incisioni, prevalentemente di Hokusai e Hiroshige, due fra i più celebri incisori giapponesi della stagione aurea dell´ukiyo-e. A tutta la cultura del "mondo fluttuante", e in ispecie all´incisione, posero ascolto, fin dagli anni Sessanta del XIX secolo, molti artisti francesi, in particolare - ma non solo - i maestri della nouvelle peinture.
Monet fu, fra essi, uno dei primi (accreditò l´ipotesi che i suoi primi acquisti di stampe giapponesi datassero al tempo trascorso in Olanda nel 1871), tanto da divenire nel tempo uno dei più forti collezionisti di quest´arte. È assai probabile che gli anni più tardi, quelli del secolo nuovo oggi rappresentati dalla mostra, non fossero toccati da pensieri connessi all´incisione giapponese, divenuta nel frattempo una moda che era guardata con fastidio e ironia da coloro che se ne ritenevano i pionieri. Ma non c´è dubbio invece che il mondo giapponese, e l´attenzione posta da quella cultura all´arte dell´arredamento del giardino, influenzasse Monet, intento a "costruire", a Giverny, la sua natura.

Repubblica Torino 16.5.09
Sussurri di vendita e grida di smentita sulla Bollati
È in vendita o no la Bollati Boringhieri? Non si sa. Forse, ma non subito. Chissà. Vedremo. La sola certezza, per ora, è la netta smentita di Stefano Mauri, del gruppo editoriale Mauri-Spagnol. Il Corriere della Sera ha ipotizzato che il passaggio di proprietà da Romilda Bollati ai milanesi sarebbe imminente. Ma Mauri è categorico: «L´hanno scritto nella prima pagina della cultura. Molto bene: così posso smentire».
Vecchia cara Dc. Strette di mano, sorrisi, ricordi, magari nostalgie fra il regista Ermanno Olmi e Rolando Picchioni. Si conoscono da tanto tempo, del resto. «Eravamo insieme nella Democrazia cristiana» spiega il timoniere di Librolandia. «Io nella commissione cultura, lui in quella del cinema». Sono rimasti la cultura e il cinema. Manca la Dc (però non è detta l´ultima parola).
Historia Magistra. È la nuova rivista di storia critica diretta da Angelo d´Orsi e pubblicata da FrancoAngeli. Una buona notizia per chi crede che la storia non sia quella che raccontano le fiction televisive.
L´edicola che non c´è. Al Lingotto Fiere continua a latitare un´edicola. Impossibile comprare i giornali, ieri se ne lamentava anche il direttore di un grande quotidiano. Eppure in via Nizza non ne vogliono sapere di colmare la paradossale lacuna.
Forse non tutti sanno che. «Tra me Massimo Fagioli c´è da tempo una certa consuetudine a confrontare i rispettivi punti di vista». Affermazione del filosofo Giacomo Marramao. Non quello della canzonetta d´antan.
Don´t cry for me Argentina. La giornalista Carola Vai ha scritto un libro su Evita Peron, vista come «regina della comunicazione». Con un contributo di Guido Andreotti, che in quanto a comunicazione non si fa battere da nessuno. Non piangere Argentina, in ogni caso.

domenica 17 maggio 2009

Repubblica 17.5.09
La guerra dichiarata al nemico migrante
di Eugenio Scalfari


IL TEMA dei migranti domina su tutti gli altri l´attenzione degli italiani e delle istituzioni che li rappresentano. Se ne occupa il Parlamento, ne legifera il governo con decreti e voti di fiducia, ne discutono le forze politiche e i "media". La Chiesa si è mobilitata in forze e il presidente della Repubblica è anche lui intervenuto per condannare tentazioni di xenofobia e una retorica che si fa un vanto di chiudere la porta in faccia ad un popolo di disperati che dall´Africa e dall´Oriente tenta di raggiungere l´Europa, il continente del benessere e della gioia (così lo vedono), dei lustrini e della vita facile. Insomma Bengodi.
Questo tema infiamma la campagna elettorale in corso ancor più (ed è tutto dire) del conflitto che oppone Berlusconi a sua moglie e che al di là degli aspetti privati mette in causa la credibilità del presidente del Consiglio e la sua reticenza di fronte a questioni delicatissime e tuttora rimaste senza risposta.
La discussione sui barconi affollati di poveretti «senza arte né parte» secondo la definizione elegante del presidente del Consiglio, investe i problemi della sicurezza, del lavoro, della guerra tra poveri, della criminalità organizzata, ma anche l´etica, la solidarietà, la lotta contro le discriminazioni. Insomma un viluppo di problemi che non è semplice districare ma che incide direttamente sulla sensibilità e sulle legittime paure degli italiani, una volta tanto definibili come indigeni di fronte all´ondata di stranieri che si riversa sui nostri confini marittimi e terrestri.
In questo clima, il governo risponde brutalmente alle critiche dell´Onu, e il ministro La Russa arriva a definire l´Unhcr un´organizzazione "disumana e criminale". D´altronde la Lega e la destra hanno fatto di questo tema il cavallo di battaglia della campagna elettorale di un anno fa, hanno scommesso sulla paura e l´hanno enfatizzata come più potevano. Dovevano dunque pagare il debito contratto con i loro elettori alla vigilia di un altro appuntamento con le urne. Di qui il "respingimento" dei barconi in alto mare, che ha tutte le caratteristiche di uno spot pubblicitario accolto con soddisfazione da una vasta platea di italiani intimoriti e incattiviti dall´arrivo dei barbari, invasori delle nostre terre e della nostra tranquillità.
C´è un punto di equilibrio tra queste due opposte rappresentazioni della realtà? C´è una soluzione che salvaguardi valori e interessi che sembrano inconciliabili?
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Se trionfasse la ragionevolezza sull´emotività non sarebbe difficile trovare quel punto di equilibrio, ma sono molti gli ostacoli che vi si frappongono.
Il primo ostacolo sta nell´interesse politico della Lega e del partito che si è dato il nome (quanto mai incongruo) di Popolo della libertà. Questo interesse mira a mantenere alto il livello di emotività di un´ampia parte del paese e se possibile ad alzarlo sempre di più. Bisogna distrarre l´opinione pubblica da altri temi incombenti e non favorevoli al governo: la crisi economica, la distruzione crescente di posti di lavoro, la perdita di competitività del sistema-Italia, il terremoto d´Abruzzo e i disagi che ne derivano e che sono ancora lontani dall´essere soddisfatti, la cicatrice tutt´altro che rimarginata della credibilità pubblico-privata del premier.
Bisogna trovare un nemico esterno sul quale concentrare la rabbia della gente ed eccolo pronto, quel nemico: è il popolo dei barconi. Le guerre servono a indicare un bersaglio infiammando l´opinione pubblica patriottarda e questa è una guerra. A questo serve il "respingimento", a questo servono le ronde, a questo serve aver istituito il nuovo reato di immigrazione clandestina.
In realtà il 90 per cento del popolo dei migranti entra in Italia e in Europa dai confini dell´Est europeo, l´immigrazione dal mare non supera un decimo dei flussi d´ingresso, ma respingere i barconi con la marina da guerra è molto più teatrale, fa scena, slega gli istinti xenofobi di chi assiste allo spettacolo dal proprio tinello guardando la televisione.
Si dice: quella gente «senza arte né parte» è ingaggiata dalla mafia, trasportata dalla mafia, e da essa controllata; viene da noi per delinquere, ricondurli da dove sono partiti è dunque un nostro diritto, anzi un dovere verso noi stessi e verso la Comunità europea. Ma manca la prova che i migranti dei barconi siano collusi con la mafia. Vengono dai luoghi più disparati, dal Sudan, dall´Eritrea, dall´Etiopia, dalla Nigeria, dal Maghreb, dall´Africa equatoriale. Hanno attraversato boscaglie, foreste, deserti. Inseguono un sogno e affrontano la morte e le sevizie per mesi e mesi. Collusi con la mafia? Trasportati dalla mafia degli scafisti, questo sì. E poi carne da macello di tutte le violenze. E per finire anche con la nostra.
Non è respingendo i barconi che la nostra sicurezza migliorerà. Non è con le ronde. Non è con la vessazione e con le denuncie.
Bossi ha detto: io parlo con la gente e la gente vuole questo. è vero, Bossi parla con la gente e trova consensi. Ma si vorrebbe sapere qual è la gente con la quale parla il leader della Lega.
Certo, l´emotività contro il nemico migrante si estende. è un buon segno? Non direi. è un «trend» verso il peggio. I leader politici che avessero il senso della responsabilità dovrebbero scoraggiarlo. Se invece ne godono, se si fregano le mani e alzano le dita a V come simbolo di vittoria e come fa il nostro ministro dell´Interno compiono un pessimo servizio verso l´interesse nazionale. Giorgio Napolitano, quando manifesta preoccupazione per la retorica sull´immigrazione parla proprio di questa irresponsabilità. Sarà un caso, ma il Capo dello Stato riscuote fra l´80 e il 90 per cento di consenso nazionale. Con chi parlano Bossi, Maroni, Calderoli?
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Quel "trend" irresponsabile e così irresponsabilmente alimentato lambisce anche persone insospettabili. Mi hanno molto stupito e preoccupato alcune recenti dichiarazioni del sindaco di Torino, uno dei leader del Partito democratico. Ha detto che respingere i barconi non viola il diritto internazionale ed ha ragione. Ha aggiunto che il "respingimento" è autorizzato dall´Unione europea e fu adottato nel 1997 da Prodi e D´Alema per bloccare il flusso migratorio dall´Albania. Ha ragione anche su questo punto ma con una piccola differenza: in Albania c´erano anche la polizia e i militari italiani, i centri di raccolta erano sotto il nostro costante controllo e non sono paragonabili con quanto accade nell´inferno dei centri di raccolta libici.
Ma c´è un punto che più mi incuriosisce nelle parole di Chiamparino. Il sindaco di Torino propone di concentrare gli sbarchi verso due porti da indicare dell´Italia meridionale. Sbarchi settimanali, autorizzati a trasportare i migranti regolari o regolarizzabili. Che cosa significa regolari o regolarizzabili? Vuole dire quelli chiamati da un datore di lavoro italiano? Quelli non hanno bisogno di imbarcarsi sui barconi degli scafisti, possono prendere navi di linea e arrivare dove vogliono. Di chi sta parando Chiamparino? Qualche spiegazione sarebbe necessaria. Chi è chiamato non è clandestino. Chi è clandestino non è regolarizzabile e viene respinto in alto mare. Esiste una terza categoria «chiampariniana»? Ed anche «maroniana» e persino «berlusconiana» che noi non conosciamo? è una nostra lacuna informativa. Allora per favore colmatela.
Ho letto che Maroni sta per riproporre il tema delle badanti. Pare ci siano molte badanti clandestine. La polizia le scoverà e saranno rapidamente rimpatriate.
Chiamparino è d´accordo? Spiegatevi perché le vostre parole e le vostre proposte sono molto confuse.
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Da qualche giorno i giornali fanno anche il nome di Piero Fassino tra coloro che dissentirebbero dal segretario del Pd sul tema dell´immigrazione. Fassino è persona che dice sì oppure no con grande chiarezza; non ha in mente altro che l´interesse pubblico e non quelli di partito e di bassa politica. Perciò gli ho chiesto direttamente quale sia la sua posizione in proposito.
Mi ha detto: 1) il "respingimento" è consentito dall´Unione europea. 2) Fu sperimentato con successo per stroncare il traffico di persone in provenienza dall´Albania. 3) L´Albania era sotto controllo della Nato e in particolare dell´Italia. 4) La situazione con la Libia è completamente diversa. 5) I centri di raccolta libici dovrebbero esser messi sotto controllo internazionale; riportare il popolo dei barconi in quei centri significa riconsegnarli ad un sistema di vessazioni crudeli. 6) Il governo italiano dovrebbe chiedere a quello libico un diritto di ispezione dei centri e condizionare a quel diritto l´erogazione delle risorse finanziarie che l´Italia ha promesso alla Libia.
Infine Fassino ha aperto un altro capitolo che a me pare di grande importanza: qual è la politica del governo italiano verso gli immigrati regolari che da anni vivono e lavorano nel nostro paese? è una politica di accoglienza e di integrazione o invece è il suo contrario?
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Quella politica in realtà è un altro ostacolo enorme che si frappone al raggiungimento d´un equilibrio sull´intera questione dell´immigrazione e della sicurezza.
Gli immigrati regolari sono oggi 4 milioni di persone ai quali vanno aggiunti i cittadini europei provenienti dall´Est (romeni, polacchi, ungheresi eccetera).
Le previsioni sui flussi e sulla demografia ci dicono che tra dieci anni gli immigrati «regolari» saranno il 10 per cento dei residenti in Italia. Nel 2020 saranno il 15. Più o meno in tutta Europa sarà quello (e anche più) il livello degli immigrati e figli di immigrati. L´Italia, come già la Francia e la Gran Bretagna, sarà un paese multietnico, multiculturale, multireligioso. Non è un´opinione, è un fatto ed esiste già ora.
Ha ragione Fassino di porre il problema: qual è la nostra politica per gestire questo fenomeno? Del resto anche Fini la pensa allo stesso modo e pone le stesse domande.
Il premier ha già risposto: l´Italia non è un paese multietnico, il governo non vuole che lo diventi e non lo diventerà. Infatti le leggi in corso di approvazione ed il modo con le quali sono già preventivamente fin da ora gestite va nella direzione voluta da Berlusconi, Maroni e naturalmente Bossi.
Il risultato sarà questo: l´estensione della cittadinanza sarà sempre più lenta e contrastata; l´accoglienza istituzionale incerta e insoddisfacente; i rapporti tra le comunità di immigrati e i cittadini italiani saranno di diffidenza e non di integrazione, specie nelle zone di più intensa presenza cioè nel centro nord, la parte più ricca e produttiva del paese.
Questa situazione è quanto di peggio ci si prepara.
Non serve a nulla inseguire su questo terreno leghisti e berluscones. A questa deriva bisogna opporsi, tutelando la sicurezza, non soffiando sulla paura, denunciando il mancato rispetto dei diritti civili nei paesi di provenienza a cominciare dalla Libia. Infine coinvolgendo l´Unione europea in una politica europea dell´immigrazione. Si può fare, però sembra un sogno ad occhi aperti.

l'Unità 17.5.09
Il prossimo giorno della memoria
Tra vent’anni si ricorderà la caccia ai migranti
Gli studenti delle scuole sapranno di Bossi Maroni, Cota e dei complici della maggioranza
di Furio Colombo


Si conclude oggi una settimana in Parlamento di dibattiti, scontri verbali, accuse, polemiche, incroci di dichiarazioni sarcastiche e ostili. È la settimana in cui un impenetrabile, misterioso, opaco voto di fiducia ha coperto un impenetrabile, misterioso, opaco “pacchetto sicurezza”, che significa soprattutto persecuzione dei più poveri, dei più deboli, degli scampati al terrore politico e al rischio di morire nel deserto o nel mare.
Alcuni di noi, in Parlamento, hanno definito il cosiddetto “pacchetto sicurezza” un delitto. Ha come mandante la lugubre coppia Bossi-Maroni, come esecutore il ricattato presidente del Consiglio. Braccio armato della legge-sentenza contro gli immigrati sarà la polizia libica di un governo dispotico che - allo scopo - è stato dichiarato alleato militare di questa Italia. In questo modo ci siamo abbassati al livello del vendicativo dittatore nord africano Gheddafi.
Invano si è mobilitato contro questo delitto il Pd, insieme con le altre opposizioni (Italia dei Valori e Udc). Invano, nonostante il discorso di sdegno e condanna di Franceschini, invano nonostante la denuncia della xenofobia italiana da parte del Presidente della Repubblica. Invano non solo per la sproporzione di forze alle Camere. Invano non solo perché il vagone piombato del voto di fiducia impedisce possibili spaccature a destra.
Invano, purtroppo, a causa di inspiegabili errori commessi dal Pd proprio in Parlamento, proprio nei confronti della Lega: votare a favore del trattato militare con la Libia, un accordo che costa all’Italia miliardi di dollari. E che costerà la vita di molti migranti, a mano a mano che i disgraziati verranno riconsegnati (si dice “respingimento in mare”) alla Libia. È un trattato firmato e sottoscritto da Berlusconi (come lui stesso rivendica) e approvato da tutto il Parlamento, con l’inspiegabile approvazione del Pd, che ha offerto un grande aiuto alla Lega. È stato il primo pezzo di un brutto gioco. Il secondo errore è stato partecipare al “miglioramento” della legge sul federalismo fiscale.
Perché dare una mano alla cucitura di quel bandierone leghista? Purtroppo il Pd ha collaborato alla legge. E con il voto finale di mite astensione il Pd si è messo in un limbo di ridotto peso politico. Ma i due errori non si faranno dimenticare. La Libia ritorna nelle notizie con la sua faccia inumana. Il federalismo leghista si rivelerà inattuabile e iniquo.
Si potrebbe fare ancora una volta un elenco della deliberata e barbara crudeltà che segna questo maledetto “pacchetto sicurezza” che infierisce con puntigliosità razzista contro donne e uomini, mandati allo stupro sistematico e alla schiavitù senza via di riscatto in Libia. Lo stupro sistematico, ci ha detto il giornalista Viviano (Linea Notte, Tg3, 11 maggio) in Libia è una orrenda pratica di potere assoluto. Coinvolge senza pietà e senza controlli bambine e bambini.
Il “respingimento in mare” è un gesto identico, nel suo orrore, al respingimento delle navi di ebrei europei in fuga che nessun porto del mondo voleva accettare. Ci sarà un “giorno della memoria” fra dieci o vent’anni, il giorno in cui si ricorderà la spietata caccia ai migranti. Gli studenti delle scuole sapranno tutto di Bossi, Maroni, Cota, dei loro complici zitti di tutta la maggioranza, dell’incredibile tolleranza dei partiti di opposizione, che pur votando contro, hanno voluto confermare la loro disciplinata accettazione dei fatti, come se le ronde non fossero un colpo di Stato, come se il “reato di clandestinità” non fosse un’invenzione feroce per perseguitare donne e bambini, come se il “respingimento in mare” non fosse un atto contro la civiltà che ha invano provocato l’indignazione della Chiesa e la protesta del Segretario generale dell’Onu. Ma in Italia adesso il compito è perseguitare gli immigrati negando loro ogni diritto, usando persino la marina da guerra italiana per il delitto di “respingimento” che vuol dire riconsegnare al torturatore libico coloro che erano appena fuggiti. Purtroppo un Paese spaventato privo di una forte opposizione, sta al gioco. E tutto ciò nonostante la Chiesa, la Caritas, la comunità di Sant’Eigidio, il Cardinale Tettamanzi, apertamente deriso, l’opposizione accanita dei Radicali di Pannella-Bonino. Un giorno si dovrà dire nelle scuole, che molti italiani hanno accettato di diventare i volonterosi carnefici di Bossi e Maroni. Nelle scuole si leggerà la testimonianza di un ex ministro dell’Interno italiano, Beppe Pisanu: «Esistono presso la Commissione Europea e la Nato immagini che documentano la carneficina nel mare. Quelle immagini raccontano di migliaia di cadaveri che galleggiano nelle acque del Mediterraneo. E, ancora di più, di cadaveri lungo il deserto». Nessuno potrà dire, in quel “giorno della memoria”: io non sapevo.

Repubblica 17.5.09
La democrazia del privato
di Ilvo Diamanti


È comprensibile lo sconcerto pubblico suscitato dalle vicende personali del premier. Al di là del "merito" (si fa per dire), hanno indotto a riflettere sul significato stesso della politica e della democrazia.
Al proposito, Barbara Spinelli, sulla Stampa, ha denunciato l´intreccio perverso che lega i fatti personali e la politica. Sottolineando che «non si vorrebbe saper nulla dell´uomo politico se non quel che riguarda il bene comune». Le ha fatto eco Eugenio Scalfari, osservando, opportunamente, che la «tenda divisoria» tra pubblico e privato in democrazia può sussistere: sottile. Ma, ha aggiunto, scompare nei regimi autoritari. In realtà, è scomparsa anche nei regimi democratici. Da tempo. Anche dove il conflitto di interessi non si presenta esplicito come in Italia. Che costituisce, semmai, un laboratorio, come si è soliti dire. Dove i processi avvengono più violenti che altrove. Ma non un´anomalia. Perché - ormai da tempo - in molti paesi occidentali la politica si è personalizzata, insieme ai partiti. I quali hanno rimpiazzato l´ideologia con la fiducia nella personalità del leader; l´organizzazione e la partecipazione con il marketing e la comunicazione. Bernard Manin ha parlato, a questo proposito, di «democrazia del pubblico». Dove il «pubblico» non si riferisce a «ciò che è di interesse comune». Né allo spazio del dibattito sui temi (appunto) pubblici creato e occupato dagli intellettuali. Il «pubblico» evoca, invece, il cittadino-spettatore di fronte alla «messa in scena della politica» (per parafrasare Balandier, quando definisce i rituali del potere nelle società pre-moderne). Interpretata dai leader. Massimo Gramellini, commentando la performance televisiva di Berlusconi nel salotto di Bruno Vespa, ha parlato (anch´egli sulla Stampa) del «primo statista pop che abbia mai calcato il Palcoscenico della Storia». Osservazione spiritosa e acuminata. Ma anch´essa imperfetta.
Berlusconi, infatti, non è il «primo» ad aver scelto la strada della «politica pop» (titolo di un interessante saggio di Gianpietro Mazzoleni e Anna Sfardini, in corso di pubblicazione per «il Mulino»). Intanto, perché, non solo in Italia, la politica si è da tempo travasata dal territorio e dalla società sui media. E, proprio per questo, si è rapidamente integrata nei moduli e nei linguaggi pop della televisione.
Delineando format e generi sempre più ibridi: «infotainment», «politainment». Miscela di informazione, intrattenimento e politica. Dove i fatti privati degli uomini pubblici fanno spettacolo e audience. Con le parole di Edmondo Berselli: «Nei talk show politici a metà programma accanto a D´Alema, Amato, Rutelli e Berlusconi possono entrare in studio Anna Falchi, Valeria Marini, Alba Parietti, Sabrina Ferilli (.); una conferma spettacolare che la televisione è fungibilità assoluta. L´importante è esserci».
Dunque, non è solo la politica ad aver appreso e imitato il linguaggio e il format dei media. è vero anche l´inverso. I media hanno adeguato i loro format e i loro linguaggi alla politica. La satira è entrata dovunque. Anzi: ambisce a fare «informazione vera». Mentre i programmi di informazione politica hanno accolto i comici, gli attori, gli esperti di vario genere e tipo. Peraltro, l´ingresso in politica di personaggi dello spettacolo e dei media (attori, giornalisti, ecc.) è frequente. (E non nuovo). Tuttavia, si assiste anche al passaggio inverso. Dalla politica allo spettacolo. Irene Pivetti: da presidente della Camera ai reality choc, alle danze sotto le stelle. Vladimir Luxuria. Dallo spettacolo alla Camera di nuovo allo spettacolo. L´Isola dei famosi. Reality di successo, che, peraltro, ha vinto.
Da questo ragionamento possiamo trarre alcune considerazioni sul cambiamento dei sistemi democratici. Le abbozziamo in ordine sparso.
1. Se il rapporto fra politica e media è così stretto (soprattutto in Italia) i media (e la televisione) diventano luoghi di lotta politica. E la televisione (si pensi alle nomine) un campo di battaglia permanente.
2. La distanza fra cittadino e spettatore si sta assottigliando sempre più. L´opinione pubblica è sovrana. Identificata dall´intreccio fra media e sondaggi. Principio di legittimazione politica e istituzionale sempre più importante. Anche perché agisce in tempo reale. La democrazia (parafrasando Renan sulla nazione) diventa, così, un plebiscito, o meglio: un sondaggio di ogni giorno. Anzi: ogni ora. Pubblicizzato dai media, testimoniato dai giornalisti, legittimato dagli esperti. Ispirato da chi li fa, commissiona, pubblica, commenta, ecc.
3. Se nella scena pubblica i ruoli sono fungibili, se il politico canta e cucina oppure discute di etica e della finanziaria con la velina, il cuoco e il cantante, perché scandalizzarsi se il cuoco, il cantante e perfino la velina ambiscono a calcare la scena politica? Ad andare in Parlamento?
4. Per la stessa ragione, la pretesa di ridurre le vicende personali e familiari dei leader politici a «fatti privati» e dunque privi di interesse pubblico, per questo, è insostenibile. Tanto più nel caso del premier, che ha fatto della «politica pop» (e del populismo mediatico) la base del suo successo: negli affari e in politica.
5. D´altronde, la «democrazia del pubblico» si sta traducendo in «democrazia del privato». Dove i fatti personali e familiari diventano di pubblico interesse. Non perché siano di interesse pubblico ma perché interessano al pubblico.
6. Questa tracimazione del privato nel pubblico, secondo alcuni studiosi (Crouch e Mastropaolo, fra gli altri), evoca l´avvento di una «post-democrazia». Una democrazia minima. Ridotta al voto. Dove il cittadino esercita il suo potere (?) una volta ogni cinque anni. Per trenta secondi. Poi si siede davanti alla Tv. E guarda. Al più: risponde a un sondaggio.
Noi ci limitiamo a osservare la singolarità del caso italiano anche nell´era della «democrazia del privato». Dove il governo, il partito e i media sono tutti e tre personalizzati. Tutti e tre riassunti in una sola persona. La stessa.

Repubblica 17.5.09
"Faccia per Noemi ciò che non ha fatto per me"
La madre parla al Times. "Speriamo che il premier possa aiutarla"
Il quotidiano torna sulla vicenda, riprendendo l'inchiesta di Repubblica
di Enrico Franceschini


LONDRA - Nello spazio di una settimana, gli inviati del "Times" di Londra riescono a intervistare non una ma ben due volte Noemi Letizia e la sua famiglia. Nella prima puntata, Noemi aveva detto a una cronista del quotidiano londinese che Silvio Berlusconi non è suo padre: «Assolutamente no», aveva risposto lei a una domanda in merito. Nella seconda puntata, apparsa ieri, al centro dell´articolo di Richard Owen, corrispondente da Roma dell´autorevole giornale, ci sono i genitori della ragazza, il padre Elio e la madre Anna. Ed è una dichiarazione di quest´ultima, citata da Owen, che è subito rimbalzata su tutte le agenzie di stampa italiane: «Spero che Berlusconi possa fare per mia figlia quello che non ha potuto fare per me». Ovvero, lascia capire il giornalista, che le faccia fare la carriera che non ha fatto lei, dopo un´apparizione, a 19 anni, quando era già sposata con Elio, in uno show di una stazione televisiva locale.
Il reporter del "Times" afferma di avere fatto qualche indagine su come e quando l´attuale presidente del Consiglio conobbe la madre di Noemi. Dal certificato di nascita, evidentemente verificato nel suo comune di residenza, risulta che Noemi è figlia di Benedetto (detto Elio) Letizia ed è nata nell´aprile 1991. La madre Anna, scrive Owen, sostiene di averla concepita nell´agosto 1990. E in quel periodo, osserva il giornalista, Berlusconi era spesso a Roma, per assicurarsi che il parlamento «approvasse la legge che avrebbe permesso la creazione del suo impero mediatico». Le circostanze precise del primo incontro con Berlusconi, nota il corrispondente del "Times", Anna Palumbo in Letizia però non le rivela.
Al signor Letizia, Owen pone una domanda molto diretta. Lei è stato l´autista di Craxi? «No», risponde il padre di Noemi. E allora perché Berlusconi ha detto che vi siete conosciuti quando lei era l´autista di Craxi? «A Berlusconi vengono attribuite tante cose che non ha detto», risponde Elio Letizia. Owen gli fa notare che la frase in questione è stata detta dal premier, secondo l´agenzia Ansa, alle 16 e 34 del 29 aprile. Per tutta risposta ottiene da Elio Letizia un´alzata di spalle, una stretta di mano, un sorriso. Può darsi, conclude il reporter, che ci siano semplici risposte per tutte le domande, «ma il primo ministro si è finora rifiutato di darle». Perché, si domanda per esempio Owen, Noemi ha detto al collega Angelo Agrippa del "Corriere del Mezzogiorno" che Berlusconi l´ha "tirata su", che le dava costosi regali e che lei lo ha visitato spesso a Roma, a Milano, in Sardegna? «Silvio deve ancora spiegare un po´ di cose», dichiara al "Times" Giulio Di Donato, un veterano della politica napoletana che fu strettamente legato a Craxi.
Il quotidiano londinese, che venerdì aveva ripubblicato le dieci domande di "Repubblica" a Berlusconi, ieri ha dedicato due pagine alla vicenda, pubblicando tra l´altro un estratto dell´editoriale scritto venerdì del direttore di "Repubblica", Ezio Mauro, in risposta a Palazzo Chigi. Privatamente, i colleghi del Times ci dicono di essere rimasti sorpresi dalla facilità con cui un giornale inglese come il loro ha fatto uno scoop in Italia, intervistando la famiglia Letizia, e di essere stupiti dall´assenza di giornalisti italiani attorno all´abitazione di Noemi. «Se una ragazza di 18 anni fosse sospettata di essere l´amante o la figlia segreta di Gordon Brown, ci sarebbe una carovana di fotografi, cameramen e cronisti attorno a lei e alla sua famiglia dovunque andassero», confida un caporedattore del quotidiano londinese. «Strano che in Italia non succeda».

Repubblica 17.5.09
E oggi la campagna degli atei trasloca dagli autobus ai giornali
Spazi sui quotidiani dopo la censura a Genova. "Libertà di parola per tutti"
di Alessandra Retico


ROMA - C´era una volta l´ateobus. Ma è stato fermato, revisionato e infine rottamato. Adesso c´è una pagina di pubblicità comprata sui giornali. Anche su questo quotidiano, proprio oggi. Dice: «Per farlo circolare, abbiamo dovuto metterlo sulla pagina che state leggendo». Lo spazio è stato acquistato dall´Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (Uaar), quelli che a Genova nel gennaio scorso hanno scatenato un inferno. Avevano concordato con l´azienda dei trasporti pubblici Amt di far circolare alcuni mezzi con su lo slogan "La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona, è che non ne hai bisogno". Parole forse spiazzanti in un Paese come il nostro, ma altrove sono scivolate facili: l´idea nasce in Gran Bretagna dalla British Humanist Association, poi viene ripresa negli Stati Uniti, Canada, Australia, Brasile, Finlandia, Germania, Svizzera, Croazia e nella cattolicissima Spagna.
Ma a Genova no, in Italia no. Quella frase va contromano, «offende», dunque va raddrizzata. La città di Bagnasco insorge e si divide fino a che la Igp Decaux, agenzia concessionaria di pubblicità dei trasporti pubblici, blocca tutto. Commenta il cardinale e arcivescovo, presidente della Cei: «Ferita alla sensibilità religiosa. La decisione di cancellarla è un atto di buon senso». Il sindaco Marta Vincenzi invece chiede spiegazioni: «È censura». Alla fine lo slogan viene stemperato, altra strada non c´è, diventa: "La buona notizia è che in Italia ci sono milioni di atei. Quella ottima, è che credono nella libertà di espressione", solo così il bus numero 36 può partire, gironzolare per la città. Per un po´. Un mesetto. Intanto la Uaar non si arrende. Vuole provare a convincere altre città a mettere sui bus la scritta originale, ma niente. Tutti rifiutano. La Igp Decaux ha un quasi monopolio come concessionaria di pubblicità per i mezzi pubblici. I legali dell´Uaar stanno esaminando come difendere il diritto dei non credenti alla libertà di espressione.
Gli atei riescono nel frattempo ad affiggere manifesti con il medesimo slogan bocciato a Genova: a Pescara (con polemiche), poi nella stessa Genova, a Cernusco sul Naviglio (Milano), Venezia-Mestre, Modena. Raccolgono oltre 31 mila euro con le sottoscrizioni, e vanno avanti perché il loro messaggio, spiegano, «vuole invitare a riflettere, con l´aggiunta di un pizzico di fiducia e ottimismo in chiave umanista». La Chiesa ha e deve continuare ad avere libertà di parola, dicono, «purché vi sia adeguato spazio anche per chi cattolico non è». Questo spazio, in qualche modo, qui c´è.

Corriere della Sera 17.5.09
L’intervista. «Gli scioperi? Abbiamo anche firmato 5 mila accordi»
Epifani: un atto sgangherato ma il malessere sociale c’è
Il leader Cgil: subito un tavolo su Fiat, il governo non stia alla finestra
intervista di Antonella Baccaro


Il Lingotto sta diventando una società transnazionale. La crisi peggiora, Tremonti minimizza

ROMA — «L’aggressione di un gruppo ben circoscritto», «l’ennesima prova di quanto sia sgangherato un certo modo di fare estremismo». Il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, vorrebbe parlare d’altro: della crisi, della Fiat e del governo «che fa tutto da solo». Ma nella giornata in cui il leader dei metalmeccani­ci del suo sindacato è stato tirato giù dal piccolo palco su cui parlava, l’argomento c’è tutto.
Che idea si è fatto dell’episodio di Tori­no, segretario?
«Una quarantina di persone, un gruppo circoscritto, ha fischiato Rinaldini e gli ha tolto il microfono, che poi ha ripreso».
Si trattava di Cobas, con cui spesso la Fiom ha manifestato.
«Con i Cobas nel passato abbiamo avu­to discussioni e confronti. Fiom ha una li­nea precisa e netta, però è sempre nel sin­dacato confederale. L’estremismo sta dal­­l’altra parte».
Teme una deriva violenta della conflit­tualità sociale?
«La situazione è delicata e si può aggra­vare, soprattutto se non si fa nulla».
Non vede in questi episodi un proble­ma di rappresentatività del sindacato?
«Il sindacato in questi giorni in Europa è stato presente con grandi manifestazio­ni, che puntano proprio a rimettere la per­sona al primo posto».
Il tafferuglio di Torino avrà conse­guenze?
«Il risultato di simili azioni è che l’ac­cento poi va a finire su altre cose rispetto a quelle di cui si dovrebbe parlare. Tipo la crisi del settore auto».
Il ministro Tremonti ha detto al «Cor­riere » che il crollo si sta fermando.
«Ha parlato di un rallentamento della caduta, che è fisiologico, ma vuol dire pur sempre che la caduta continua. È inutile far finta di non vedere».
Silvio Berlusconi dice che «compito del governo è infondere fiducia».
«Eh no! Si è bloccata l’apocalisse, e va bene, ma c’è una significativa caduta della domanda mondiale che, per Paesi esporta­tori come l’Italia e la Germania, è molto grave. Senza alcun sostegno agli investi­menti e ai consumi, visto che lo stesso Tre­monti giudica marginale l’effetto della so­cial card, rischiamo la stagnazione».
La crisi rallenta. Con quali effetti sul­l’occupazione?
«Gli effetti della crisi sull’occupazione non si sono neppure prodotti tutti: penso a quello che può succedere alla petrolchi­mica, alla chimica, al made in Italy. Penso all’allarme dei costruttori dell’Ance... E poi sento Berlusconi dire che a drammatiz­zare sono solo l’opposizione e i giornali. Cioè che non farà nulla».
E lei che farebbe al suo posto?
«Tre cose ma importanti. Rendere più flessibile il patto di stabilità dei Comuni per far ripartire gli investimenti; raddop­piare la durata della cassa integrazione or­dinaria per evitare il conflitto sociale e au­mentare un po’ i redditi, perché la social card è troppo poco».
E sul piano fiscale?
«Auspico una maggior lotta all’evasio­ne e all’elusione perché ho l’impressione che i controlli si siano allentati».
Lei dice che il governo non fa nulla ma intanto il gradimento resta alto. Co­me lo spiega?
«Questo è un fatto tutto italiano. Forse dipende dall’abilità mediatica del presi­dente. Forse dalla disillusione che il cen­trosinistra ha seminato in questi anni».
E il sindacato non ha niente da rim­proverarsi?
«Noi abbiamo fatto 5 mila accordi con imprese e decine con le amministrazioni. Il Paese corre a due velocità: c’è quello do­ve i tavoli si aprono e quello dove si dice che la crisi è finita».
Ci sono pure tavoli da cui vi siete alza­ti e scioperi generali. È dialogo?
«Gli scioperi si fanno proprio quando manca il dialogo. Tremonti ha un bel dire che l’utilità marginale sta nel discutere per portare a casa qualcosa. Il problema è che il governo non discute né con noi né con altri. Perché non si fa un tavolo sul ter­remoto?».
Su cosa?
«La gestione emergenziale va bene, ma adesso stanno sorgendo problemi. Che succede se le case non arrivano entro l’in­verno? E perché la gestione sul posto è an­cora in mano alla Protezione civile e non agli enti locali?» Il tavolo sulla Fiat invece Marchionne vuole farlo dopo l’accordo con Opel, con­divide?
«Non è accettabile. Capisco la cautela di Marchionne perché la faccenda Opel mi pare più complessa di quella Chrysler, ma noi non discuteremo solo delle ricadute di quegli accordi sui nostri stabilimenti. E poi c’è un problema importante».
Quale?
«Che società ha in mente Fiat? Qui si sta facendo il primo gruppo automobilisti­co transnazionale: chi ne avrà il controllo? Siamo sicuri che sarà italiano? E il gover­no perché sta alla finestra?».
Si parla di snellimenti e chiusure di stabilimenti, tra cui quello di Pomiglia­no.
«In Italia si produce già poco, è inam­missibile ridurre ancora».
E’ vero che la Fiat, come ha ricordato Tremonti, ha fornito impegni sull’occu­pazione quando ha ottenuto gli incentivi dal governo?
«Avremmo voluto un accordo più espli­cito, ma l’impegno morale c’è. Anche per­ché è proprio grazie agli incentivi se Fiat sta facendo meglio degli altri».

il Riformista 17.5.09
Intervista. parla il leader della sinistra Cgil: «a Epifani dico: serve più conflitto sociale»
Cremaschi: «Sono teppisti»
di Gianmaria Pica


Serve una rappresentanza sindacale forte, «un sindacalismo di lotta e di conflitto sociale che si contrappone alla scelta non adeguata della segreteria Epifani». Con queste parole Giorgio Cremaschi - membro della segreteria nazionale della Fiom e leader dell'area programmatica della Cgil, Rete 28 aprile - chiede ai lavoratori la costruzione di una posizione alternativa all'interno del primo sindacato italiano. Ma ieri, alla manifestazione nazionale dei dipendenti Fiat a Torino, si è aperto anche un fronte tra confederali e autonomi: alcuni rappresentanti Cobas sono saliti sul palco spintonando e togliendo la parola al segretario generale Fiom Gianni Rinaldini.
Cremaschi, chi sono i contestatori?
Una quarantina di teppisti di un piccolo gruppo - Slai Cobas - che non è rappresentativo di alcun lavoratore in Fiat. Volevano prendere la parola e sono venuti sotto al palco con fare minaccioso. Fanno sempre così, sono pochi e lo fanno per farsi notare. Credo che sia giunto il momento di prendere qualche iniziativa per isolarli. Comunque Rinaldini non è stato buttato giù dal palco come ha scritto qualcuno. È un'invenzione giornalistica: è stato semplicemente spintonato.
È un problema tra sindacati di base e confederali?
Non credo. Non c'è tensione tra la Cgil e le altre organizzazioni autonome: alla manifestazione hanno partecipato anche Rsu e Sdl, con loro non c'è stato alcun problema. La tensione invece c'è tra i dipendenti Fiat e l'azienda, ora si è trasformata in preoccupazione e rabbia.
Cosa chiedete concretamente al Governo?
Chiediamo che si faccia semplicemente sentire. Oggi è l'unico paradossale assente. Con il suo fare l'esecutivo sta danneggiando i lavoratori della Fiat. Chiediamo all'esecutivo la convocazione di un tavolo per avere immediate garanzie di occupazione. Abbiamo deciso di bloccare tutti gli straordinari negli stabilimenti Fiat. La cosa scandalosa è che oggi la metà dei lavoratori è in cassa integrazione e all'altra metà si chiede di fare gli straordinari.
Quali richieste a Sergio Marchionne?
Marchionne sta discutendo con tutti i Governi del mondo tranne che con quello italiano. Diamo la presidenza del Consiglio a Marchionne, così Berlusconi avrà tempo di occuparsi delle cose che gli piacciono di più. In Italia è in atto una totale privatizzazione della politica con un bassissimo profilo nel dibattito politico. In Germania, per esempio, la campagna elettorale si fa sulla questione Opel. Purtroppo la politica del nostro Paese è su un altro pianeta: non quello del lavoro, ma quello delle veline.
Che dovrebbe fare il sindacato?
Ieri (venerdì, ndr) abbiamo avuto l'assemblea di Rete 28 aprile. Abbiamo lanciato l'idea di costruire una posizione alternativa: un sindacalismo di lotta e di conflitto sociale che si contrappone a quella che secondo noi è la scelta non adeguata e non sufficiente della segreteria Epifani. Da un lato è stato giusto bocciare l'accordo sul sistema contrattuale. Però, quel no secondo noi è costituente, non è una semplice parentesi: dovrà servire a lanciare un sindacato che metta al centro i salari e le condizioni di lavoro.

Corriere della Sera Salute 17.5.09
Fecondazione assistita. Dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha ribaltato la legge
La fine dell’esodo
Non sarà più necessario farsi curare all’estero per tentare di avere un figlio sano
di Franca Porciani


Infertilità. Ora la cura è libera
La Consulta ha ribaltato la legge 40: quali regole per fecondazione assistita e diagnosi preimpianto?

Basta con gli «emigranti per un figlio», i «paradisi del­la provetta» e quant’altro il linguaggio giornalistico si è inventato in questi cinque anni per descrivere il disa­gio delle coppie infertili in cerca del bebè altrove. Una recentissima sentenza della Corte costituzionale ha ribal­tato gran parte dei divieti della legge 40 sulla feconda­zione assistita (no alla crea­zione di più di tre embrioni, no al congelamento, no alle indagini genetiche sull’em­brione), riallineando l’Italia alla maggior parte degli pae­si europei.
I punti chiave del cambia­mento sono la possibilità di fecondare tutti gli embrioni che si ritiene necessario, di trasferirne in utero quanti sembra utile per ottenere la gravidanza e di congelare gli altri per eventuali successivi tentativi. Ma si apre anche la strada alla diagnosi preim­pianto (per farlo sono neces­sari diversi embrioni) in ca­so di malattie genetiche, messa all’indice dalla legisla­zione varata cinque anni fa.
Uno scenario nuovo che dovrebbe arrestare la fuga al­l’estero delle coppie con pro­blemi di fertilità e permette­re ai centri che operano nel­l’ambito della fecondazione assistita di lavorare con una certa tranquillità. Ma non era di tranquillità l’atteggia­mento prevalente fra gli spe­cialisti riuniti a Roma pochi giorni fa; sembravano, piut­tosto, preoccupati di capire meglio che cosa diventa leci­to e cosa è ragionevole aspet­tarsi nel prossimo futuro.
Lo hanno fatto con giuri­sti esperti in materia in un convegno organizzato dalla Società italiana di fertilità e sterilità a Palazzo Marini. La libertà ritrovata fa paura — ha detto qualcuno —, cosa comprensibile visto il ribal­tamento che la sentenza del­la Corte costituzionale ha de­terminato in questa com­plessa materia. Evidentemente basandosi su principi «forti», ma quali esattamente? «Il principio cardine cui si è ispirata la Corte è cha la tutela dell’em­brione anziché assoluta (co­me previsto dalla legge 40, ndr), deve essere limitata dalla necessità di trovare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze di pro­creazione — ha spiegato Ma­rilisa D’Amico, ordinario di diritto costituzionale all’uni­versità Statale di Milano —. In sostanza si 'affievolisce' la tutela dell’embrione per assicurare possibilità concre­te di gravidanza. La Corte ha quindi stabilito che una cop­pia ha diritto al trattamento più adatto nel suo singolo caso, concordato con il me­dico che si assume piena­mente la responsabilità del­la strategia scelta. Va comun­que precisato che la decisio­ne della Corte è una senten­za 'manipolativa' che riscri­ve la legge per renderla com­patibile con la Costituzione; ha, perciò, un valore incon­futabile. Non troveranno spazio perciò ipotesi come quelle ventilate dal Movi­mento per la Vita, che alla sentenza vuole contrappor­re la 'tutela giuridica del­l’embrione' ».
«Il legislatore di fatto ave­va considerato la donna co­me mero strumento di pro­creazione e aveva annullato completamente la figura del medico e la sostanza dell’at­to terapeutico: ora gli ridà autonomia e libertà di offri­re alla coppia il trattamento che ritiene più idoneo — pre­cisa l’avvocato fiorentino Maria Paola Costantini — . Che cosa succederà adesso? Il ministero dovrà stilare nuove linee guida che armo­nizzino il testo della legge 40 con la presa di posizione del­la Corte costituzionale».
E la diagnosi preimpian­to? Già una serie di pronun­ciamenti del Tribunale di Ca­gliari e del Tar del Lazio, in seguito a richieste di diagno­si genetiche pre-impianto per gravi malattie eredita­rie, aveva aperto la strada al­la sua fattibilità in Italia. «Ora, con questa sentenza, la Corte ha dichiarato illegit­time le limitazioni al nume­ro di di embrioni producibi­li e alla crioconservazione, rendendola finalmente pra­ticabile ». precisa Marilisa D’Amico.
In sostanza non ci sono più limiti agli esami per co­noscere lo stato di salute dell’embrione e, una volta effettuata la diagnosi geneti­ca prima dell’impianto, è possibile congelare gli em­brioni malati trasferendo in utero soltanto quelli sani o, al massimo, portatori sani della malattia (per lo più si tratta di talassemia e di fi­brosi cistica). Si tratta in conclusione di una piccola rivoluzione che riporta sulla scena il medico come figura «forte» delle scelte di cura e enfatizza il patto terapeutico fra lui e le pazienti. «Paradossalmente, da domani per noi medici il lavoro diventa più difficile; utilizzare tre ovociti e trasfe­rire gli embrioni formati è si­curamente più semplice che capire le reali necessità caso per caso — afferma Andrea Borini, direttore scientifico del centro Tecnobios di Bolo­gna — . Non è possibile ipo­tizzare il numero 'giusto' di embrioni che bisogna crea­re. Si dovrà tornare ad utiliz­zare una serie di parametri, quale l’età della donna e i tentativi infruttuosi prece­denti. Spero, però, che non si arrivi al paradosso oppo­sto, che le coppie infertili considerino più attraenti i centri che utilizzeranno mol­ti ovociti».
Come dire: dopo i danni della carestia, il rischio è che si punti un po’ troppo sul­l’abbondanza.
Vedremo..

Corriere della Sera Salute 17.5.09
I limiti della politica
di Riccardo Renzi


La fecondazione, quella Assistita Ma Non Troppo, è stata bocciata, alfine, dalla Consulta. Dimostrando la necessità della cautela con la quale la politica, soprattutto se venata da forti connotazioni ideologiche, si debba accostare alla scienza in generale e in particolare alla medicina.
La politica, sia chiaro, ha il diritto (e anche il dovere) di intervenire, di affrontare i temi etici che le nuove tecnologie pongono, di porre limiti e regole alla scienza.
Ma deve farlo coerentemente con le regole della scienza. Non può muoversi con le stesse modalità di compromesso che ben si applicano in altri campi. Si può mediare su una legge elettorale o su una Finanziaria, ben più difficile è 'trovare una via di mezzo' su una procedura medica. Nel momento in cui una nuova cura, come la fecondazione assistita, viene accettata, è poi sbagliato porre degli ostacoli tali da mettere a rischio la salute stessa del paziente e il suo diritto a essere curato nel modo migliore. Il che è esattamente quanto è avvenuto, portando inevitabilmente la Corte costituzionale a «correggere» alcuni articoli della legge 40. È come se si stabilisse che si può trapiantare un cuore, ma che per prelevarlo fosse obbligatorio aspettare tre giorni per essere certi della morte del donatore.
È come se si accettasse la sperimentazione con le cellule staminali, per trovare nuove cure, ma poi si vietasse di utilizzare quelle più promettenti, cioè quelle embrionali.
Il che è esattamente quello che avviene.

Corriere della Sera Salute 17.5.09
Lutto. In un saggio due psichiatri e psicanalisti discutono il problema dell’elaborazione delle perdite subite
Come si può «dimenticare ricordando»
Riuscire ad esprimere le emozioni permette di tornare a guardare avanti
di Angelo de’ Micheli


Un grande silenzio avvol­ge, nella nostra società, i temi della morte e del lutto. Sono argomenti tabù, oggetto di una grande rimozione colletti­va, se ne parla solo quando non se ne può fare a meno: davanti a tragedie come terre­moti, alluvioni, guerre o epi­sodi di terrorismo, oppure se si discute di testamento biolo­gico o eutanasia.
Eppure tutti facciamo l’esperienza del lutto e cer­chiamo di uscirne, presi tra mille dubbi e domande. Due psichiatri e psicoanalisti, l’ita­liano Michele Sforza e lo spa­gnolo Jorge Tizon, hanno cer­cato di darci qualche risposta nel loro Giorni di dolore (edi­tore Mondadori).
Tra tante domande possibi­li, la prima può essere: quan­do il 'normale' dolore per la perdita di una persona diven­ta patologia?
«Il dolore di un lutto scon­volge il nostro modo di senti­re e di essere, modifica le no­stre reazioni emotive e perfi­no le nostre reazioni fisiche: immunologiche, endocrinolo­giche, metaboliche — rispon­de Sforza — e questo è anco­ra 'normale', ma lutti ripetu­ti o, come diciamo noi psi­chiatri, 'non elaborati' posso­no portare a veri e propri di­sturbi fisici o psichici».
Con lutto 'non elaborato' che cosa si intende? Quello non espresso, non manife­stato ... «Un antico proverbio spa­gnolo dice che 'un lutto di cui non si parla è un lutto che non guarisce'. Poter esprime­re le emozioni, gestendole adeguatamente, rappresenta un aiuto perché permette di attenuare il dolore, e, allo stesso tempo, di rendersi con­to di ciò che si prova, e della realtà di quanto è accaduto».
Allora, dobbiamo impara­re a non mettere un freno al­le nostre emozioni?
«C’è chi ha più facilità nel­l’esprimerle e chi meno, mol­to dipende dalla cultura della famiglia e del gruppo sociale in cui si vive. In generale, pos­siamo però dire che soffocare le emozioni non è salutare perché ostacola la consapevo­lezza.
Senza dimenticare che le emozioni taciute spesso 'ri­tornano' sotto altre forme e a volte in modo patologico. Un lutto deve essere elaborato passando attraverso diverse fasi: l'accettazione della perdi­ta, l'elaborazione della turbo­lenza emotiva, il riadattamen­to alla nuova realtà ed, infine, la capacità di trovare un po­sto, nella propria interiorità, per la persona perduta.
Questo 'percorso' è ugua­le per ognuno di noi?
«Fatte salve tutte le diffe­renze individuali, il percorso elaborativo è una strada ob­bligata che intraprendiamo spontaneamente al termine della quale si trovano nuovi equilibri per riprendere a vi­vere in modo più sereno».
C’è chi dice che davanti a un lutto si è sempre soli, che lo si può superare solo facendosi forza da sè, è d’ac­cordo?
«Anche in questo caso c'è grande variabilità. Ma non c'è dubbio che la famiglia, in primo luogo, e tutte le altre nostre 'reti' sociali , siano in­vece un aiuto, un sostegno per superare più facilmente, e con esiti migliori, il proces­so dell'elaborazione.
Alcune persone reagisco­no al lutto mettendo la per­sona scomparsa al centro dei loro pensieri, rendendo­la quasi più presente di quanto non lo fosse in vi­ta...
«Per alcuni il dolore dell’as­senza si trasforma in una ri­cerca ossessiva di contatto, a volte così intensa ed esaspera­ta da impedire la ripresa della vita. E' una reazione molto frequente nelle prime fasi del lutto, ma in seguito, gradual­mente, compaiono meccani­smi più sani che consentono di tenere 'dentro' di sé la per­sona perduta attraverso quel meccanismo che abbiamo de­finito il 'dimenticare ricor­dando'».
E possibile far sì che tutto il percorso del lutto avvenga in tempi più veloci, non per favorire l’oblio, ma per ri­durre la sofferenza?
«Ogni percorso elaborati­vo ha tempi e modalità stret­tamente legate alla persona, alla cultura della sua famiglia e della società in cui vive. È comprensibile che si desideri accorciare l’ora della sofferen­za, ma è bene ricordare che bi­sogna rispettare i propri tem­pi e seguire il proprio cammi­no per fare un cammino ela­borativo sano, evitando peri­colose scorciatoie che posso­no portare a problemi più gra­vi in seguito».
Ci sono coppie in cui chi resta che non sa rassegnarsi alla perdita del compagno? È una forma di fedeltà estre­ma o è la paura di affrontare da soli la vita che amplifica il lutto?
«Non è facile rassegnarsi ad una perdita quando il lega­me affettivo è forte. Molti co­niugi si privano perfino di piccole soddisfazioni per ti­more che questo significhi tradire la memoria del pro­prio caro perduto finendo co­sì per vivere in un mondo ari­do e 'congelato'. Altre volte aggrapparsi ossessivamente al ricordo della persona per­duta può essere l'espressione del timore di non essere in grado di affrontare la vita da soli. L'incertezza e le paure ag­giungono ulteriore sofferen­za a quella della perdita».
Come affrontare il terribi­le lutto per un figlio?
«La perdita di un figlio vie­ne vissuta come incolmabile perché dietro il dolore del lut­to c'è l'ombra del fallimento della propria esistenza che ap­pare improvvisamente priva­ta di ogni prospettiva. In un figlio i genitori ripongono, ol­tre che il proprio amore, mol­te aspettative che, con la sua scomparsa, vengono irrime­diabilmente perdute. È un lut­to che comporta l'insieme di più perdite contemporanea­mente ».

Corriere della Sera 17.5.09
L’anniversario. Nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989 la repressione della rivolta di studenti e lavoratori
Tienanmen, un mistero lungo 20 anni
di M.D.C.


Il ricordo. Le nuove generazioni cinesi non sanno niente di quello che successe in quei giorni. E sono pochissimi gli adulti che ancora ne parlano
Mai svelato il numero dei morti. Trenta persone ancora in carcere. I silenzi delle autorità di Pechino e le memorie di Zhao Zhiyang
La rivolta. Jean-Philippe Béja: «Centinaia di città furono coinvolte. Si deve indagare su ciò che accadde davvero»

PECHINO — I carri armati non fanno più rumore. Sono passati, so­no lontani. La Tienanmen è silenzio­sa. Il caos insanguinato di vent’anni fa non si sente più. Sparito dall’oriz­zonte della Cina: le nuove generazio­ni non sanno o quasi, solo pochissi­mi coltivano apertamente la memo­ria ed è più facile farlo all’estero. «Di allora — ha ricordato sui giorna­li Wuer Kaixi, uno dei leader studen­teschi — mi addolora la sorte delle vittime. Noi capi siamo sopravvissu­ti, loro no. Ma la colpa è solo del re­gime ».
Ciascuno dei superstiti ha vissuto una Tienanmen diversa. Durante le proteste emersero divergenze fra le anime della piazza, poi ci sono state liti tra reduci. Ma «le differenze di opinione su come andarono le cose non dovrebbero intaccare la grande nobiltà di quant’è successo» ha com­mentato Ma Jian, che l’anno scorso ha condensato il suo ’89 in un ro­manzo visionario, Beijing Coma, presto in uscita in Italia (Feltrinelli). Anche allora ci furono tante Tie­nanmen. La protesta prese corpo tra il 15 e il 22 aprile, morte e funerale dell’ex segretario riformista del Par­tito comunista Hu Yaobang. Le in­quietudini per le disuguaglianze tra beneficiari ed esclusi delle aperture economiche, le richieste di democra­zia, l’insofferenza per la corruzione, l’inflazione agitavano la società cine­se da almeno tre anni ed è anche per questo che nell’87 Hu Yaobang era stato rimosso da Deng Xiaoping. «Fu la prima volta — spiega da Hong Kong il sinologo Jean-Philip­pe Béja — che un movimento così coinvolse centinaia di città. Proprio su quanto accadde nelle province, sulla lotta nel Partito, sui rapporti fra i segretari regionali e Pechino si deve ancora indagare».
Molte cose accaddero dal 15 apri­le fino alla notte fra il 3 e il 4 giugno. Il bilancio è ancora controverso, cen­tinaia di morti (secondo alcuni an­che migliaia), più la repressione suc­cessiva. Tentativi di dialogo, la mo­bilitazione della popolazione (non solo studenti, ma anche intellettua­li, operai, comuni cittadini), lo scio­pero della fame, la legge marziale. E, nelle stanze del potere, la divarica­zione fra i falchi, come il premier Li Peng che ottenne l’appoggio di Deng, e i fautori della linea morbi­da, come il segretario del Pcc, Zhao Ziyang, che venne esautorato e poi messo ai domiciliari fino alla morte (2005).
Molte cose accaddero, appunto. E la Tienanmen non fu uguale per tut­ti, anche dopo. Shao Jiang, più volte incarcerato, ha ammesso: «Come molti studenti, non fui picchiato con la ferocia riservata ai lavoratori. Loro soffrirono il peggio». Trascorsi 14 anni di carcere e 5 di libertà con­dizionata, Zhang Yansheng, uno di loro, ha potuto parlare: «Gli studen­ti non hanno patito gravi conse­guenze, tornarono nelle aule, li rie­ducarono lì. Noi operai fummo puni­ti duramente, come monito per lo­ro ».
È la voce di un’emarginazione in­nominabile. Secondo la Fondazione Dui Hua nelle carceri cinesi riman­gono una trentina di persone con­dannate per i fatti dell’89, un anno fa il Dipartimento di Stato america­no diceva tra 50 e 200: chi ne è usci­to porta con sé un corpo devastato e un passato di cui non si può parlare. Quando negli anni Novanta l’ex stu­dentessa Diane Wei Liang, diventata docente negli Usa, venne invitata in Cina per un corso di business admi­nistration, provò a parlare della Tie­nanmen ai suoi allievi: «Non era nei libri. Chi ne sapeva qualcosa cono­sceva solo la versione del regime. Agli altri non importava. Pensavano solo a far soldi».
Bollati come controrivoluzionari, studenti e lavoratori del movimen­to proclamavano invece che «il pa­triottismo non è un crimine» e can­tavano l’Internazionale.
Il mutismo delle autorità di Pechi­no sembra destinato a non incrinar­si neppure con la pubblicazione, in questi giorni, delle memorie di Zhao Zhiyang, un atto d’accusa ai vertici, una vendetta postuma. Un si­lenzio non privo di imbarazzi, come in una lettera al giornale di Hong Kong Ming Bao ha sottolineato Wang Dan, forse il più carismatico dei leader studenteschi, ora a Oxford: coloro che sostengono che la repressione militare fu la «giusta decisione» tacciono, anzi «non solo non è permesso criticarla, ma è an­che vietato elogiare il governo. Ra­gionate: se i leader pensano sul se­rio di aver ragione, perché evitano di affrontare l’argomento? Solo gli insicuri scansano i problemi...».
Molte carriere politiche sono den­se di omissis. Il premier Wen Jiabao, uno dei più riformisti di oggi, com­parve accanto a Zhao che implorava gli studenti di lasciare la piazza. Un’espressione impietrita, quasi a dire: che ci faccio qui? «È stato mol­to abile a far dimenticare quella fo­to, Wen» dice Béja. Guidava lo staff del segretario generale del Partito, cioè Zhao, ed era lì in quel ruolo. Un funzionario, leale all’incarico più che alla persona del capo: «Non fece parte del gruppo che decise la legge marziale ma Wen per ricomparire avrà dovuto fare autocritica e si sarà difeso dicendo che aveva eseguito gli ordini. Non ha convinzioni politi­che forti e infatti non ha incarnato alcun new deal ».
Vent’anni dopo si lambisce il para­dosso di constatare che certe riven­dicazioni della piazza sembrano sod­disfatte. «Non la richiesta di demo­crazia, però. Anzi, il sistema e la ri­flessione sulle riforme sono più che mai bloccati» avverte Béja. Wang Xiaodong, ricercatore presso un cen­tro di pedagogia che dipende dalla Lega della gioventù comunista, ha curato il recente bestseller «naziona­lista » La Cina è infelice e non può essere sospettato di avversione al si­stema: «Sì, il governo non ama che le gente parli dell’89. Ma in questi anni — dice al Corriere — la vita è migliorata, la libertà politica aumen­tata. Una parte delle richieste fatte dagli studenti di 20 anni fa sono sta­te realizzate, anche se certamente ci sono anche quelle non realizzate. Quindi forse i giovani non sentono l’importanza di quell’evento. Che il governo ne parli o no, non dipende dalla sua forza. Se ne discuterà se la società cinese sarà migliore, più tranquilla e parlare del 4 giugno non provocherà turbolenze. Franca­mente neanche adesso causerebbe disordini parlarne. Ma forse il gover­no ha altro a cui pensare».

l'Unità 17.5.09
Il nuovo realismo egiziano
L’ultimo libro di ’Al-Aswani, l’autore di «Palazzo Yacoubian»: una raccolta di storie sulla libertà che non c’è
di Roberto Carnero


Presentato ieri a Torino il nuovo libro di ’Ala Al-Aswani, la raccolta di racconti Se non fossi egiziano. L’autore ha raggiunto la notorietà mondiale con Palazzo Yacoubian, romanzo basato sull’incrocio delle storie degli abitanti di un condominio del Cairo (ne è stato tratto anche un film). Un vero caso letterario nel mondo arabo, dove quel libro ha venduto un numero di copie considerevole, tanto che, negli ultimi anni, è stato secondo solo al Corano. L’autore, 52 anni, egiziano del Cairo, di professione dentista, ha scritto ora un volume composto di 17 racconti, che mettono a fuoco, con un realismo dai tratti a volte surreali, una varia umanità molto variopinta: un misantropo ossessionato dalla sua ‘allergia’ per gli altri; fanatici religiosi però molto ipocriti; il lutto di un figlio la morte del padre; una giovane insegnante che cerca di ottenere un posto di istitutrice in una ricca famiglia, ma alla fine ci rinuncia perché si sente inadeguata; un ragazzino obeso vittima di bullismo da parte dei compagni di scuola, soprattutto quando il professore di educazione fisica lo obbliga a indossare canottiera e pantaloncini, una tenuta di cui lui si vergogna perché espone al ludibrio degli altri tutto il suo sovrappeso.
Il primo testo, quello più lungo, ha per protagonista un giovane di talento, che però rifiuta il conformismo della società egiziana e finisce per alienarsi in una follia che alla fine lo travolgerà. «Una storia», ci spiega l’autore, «per mettere in luce come quando un Paese non garantisce a tutti le stesse opportunità, e soprattutto non consente di esprimere le proprie doti, significa che c’è una mancanza di democrazia. Perché la democrazia non riguarda soltanto i meccanismi politici, ma anche la possibilità di vivere e di operare liberamente per tutti i suoi cittadini».
Al-Aswani non manca di criticare esplicitamente il governo di Mubarak, anche se afferma che gli piacerebbe che la politica rimanesse fuori dal discorso letterario: «Capisco le contestazioni delle organizzazioni filo-palestinesi alla presenza dell’Egitto alla Fiera del Libro di Torino, perché c’è una delegazione ufficiale del governo del Cairo. La stessa cosa è avvenuta lo scorso anno per la presenza a Torino della delegazione israeliana. Penso che sarebbe meglio non coinvolgere i governi in appuntamenti come questo».
IDEALI E REALTÀ
Nell’introduzione al suo nuovo libro Al-Aswani racconta la sua odissea presso l’Ente egiziano del libro (una sorta di casa editrice di stato) a cui inizialmente si era rivolto per la pubblicazione. In Egitto in molti non lo amano perché ritengono che con la sua rappresentazione realistica della vita del Paese, compresi vizi e difetti di molti personaggi, egli finisca con il dare un’immagine negativa dell’Egitto. «Ma a questi signori», afferma, «non mi stancherò mai di dire che la letteratura non è la realtà. Un pensiero di questo tipo è davvero ingenuo e infantile».
Certo è che Al-Aswani alla realtà si ispira: ci confida di continuare a fare il dentista proprio per non isolarsi in un mondo artificiale, staccato dalla concretezza della vita quotidiana: «Sono interessato alla gente, alle storie di chi mi sta intorno. Gli amici mi sfottono perché quando vado in un museo sono molto più interessato a osservare i visitatori che a guardare le opere esposte». E per concludere ci dà un distillato della sua poetica: «La letteratura deve lavorare nella distanza che esiste tra come il mondo dovrebbe essere idealmente e come invece è di fatto. Quanto più questa distanza è ampia, tanto più è fecondo il lavoro dello scrittore».

l'Unità 17.5.09
Massimo D'Alema
«L’Italia non è la fiction del capo, il Pd trovi valori e un progetto condivisi»
di Massimo D'Alema


La crisi del capitalismo globale selvaggio, o come altri preferiscono dire, del “mercatismo” è una crisi politica e culturale prima che economica fa cui, sono convinto, uscirà un mondo profondamente cambiato. Quale sarà il posto dell’Europa, dell’Italia nel nuovo mondo? Sembra di essere di fronte a un paradosso: c’è un bisogno forte di politica dopo anni in cui il dominio dell’economia si è accompagnato all’antipolitica, al disprezzo verso le istituzioni internazionale considerate un’inutile superfetazione burocratica, alla dottrina del declino degli Stati nazionali. Torna oggi invece sulla scena l’idea kantiana di un ordine giuridico internazionale: una grande idea “europea” che è in fondo alla base della stessa costruzione dell’Europa. Ma l’Europa sembra impacciata, di fronte a questa sfida. Mentre la spinta all’innovazione viene dal Paese che è stato il promotore del dominio neoliberista e l’epicentro della crisi: gli Stati Uniti d’America.
(...) È aperta una grande sfida, decisiva per i democratici e per i riformisti. Quale deve essere la nostra risposta alla crisi? Come far avanzare un nuovo progetto? La mia convinzione è che una grande prospettiva di cambiamento debba muovere intorno a tre idee forza fondamentali: la democrazia, l’eguaglianza, l’innovazione.
(...) La crisi può e deve essere l’occasione di un grande cambiamento. L’occasione per riforme coraggiose tanto più necessarie in un Paese come il nostro, da troppi anni bloccato, incapace di crescere al livello degli altri Paesi europei, di sprigionare pienamente e liberare le sue potenzialità e le sue energie.
Per la destra italiana e per Silvio Berlusconi la crisi è invece sostanzialmente una occasione per consolidare il potere. L’Italia è, tra le nazioni più sviluppate, quella che sta impiegando meno risorse per rispondere all’emergenza economica, per aprire una nuova fase di crescita contando sulla possibilità che la ripresa mondiale ci trascini a rimorchio. È il Paese che nulla sta facendo per riequilibrare la distribuzione iniqua della ricchezza fra le diverse fasce sociali. È il Paese che meno innova e che anzi riduce le risorse per la formazione e la ricerca, e in cui non a caso più pesante si presenta la caduta dell’economia, l’aggravamento strutturale della finanza pubblica, la crescita del disagio sociale e della povertà. Si rafforza invece il potere politico. Una economia indebolita riduce l’autonomia dei gruppi finanziari e industriali che devono appoggiarsi ai poteri pubblici. Si rafforzano così l’influenza sulla società e il controllo sull’informazione, rendendo ancora più acuta l’anomala concentrazione di potere che caratterizza il caso italiano nel quadro delle democrazie moderne.
Così, mentre crescono l’insicurezza, i sentimenti di paura e di chiusura, le spinte anti-immigranti o le velleità protezionistiche, una parte grande degli italiani sembra stringersi intorno ad una leadership protettiva. Anche se si tratta più del simbolo di una decadenza dell’Italia che non di una speranza di rinascita.
Ma sarebbe un errore considerare l’Italia un Paese «berlusconizzato». La società lo è molto meno dei giornali e dei telegiornali. E non solo perché all’apice della sua glorificazione il centrodestra italiano arriva forse alla metà dei voti validi espressi, mentre un’altra metà del paese resta diffidente e ostile. Ma anche perché l’Italia non si riassume nella quotidiana fiction del capo del governo o nelle cupe o sgangherate ronde contro gli immigrati. C’è una vitalità di una parte del mondo della ricerca, della cultura, del lavoro e dell’impresa che sfida senza timori e con successo le prove della globalizzazione. C’è una società che in parte, purtroppo guarda con sfiducia, distacco e insofferenza alla politica e non si sente più rappresentata. Un’Italia che non si riconosce nella leadership attuale, ma che non vede in campo un’alternativa credibile e forte per il governo del Paese. Qui pesano certo gli errori del centrosinistra, ma anche l’opera irresponsabile di autodemolizione, l’aspettativa di improbabili palingenesi generazionali, l’attesa messianica di nuovi «ragazzi» della provvidenza. Occorre invece più semplicemente, con maggiore umiltà, ma con l’orgoglio della nostra storia ripartire dalle forze in campo. Anche una nuova classe dirigente non nascerà senza un partito funzionante e radicato nella società in grado di selezionarla, di formarla e di metterla alla prova.
Da questa consapevolezza deve muovere il suo non facile cammino il Partito Democratico. D’altro canto non è stato agevole l’avvio di una esperienza segnata dalla sconfitta elettorale e dalla faticosa ricerca di una strada nella stretta fra il preponderante populismo berlusconiano e il minoritarismo giustizialista alla maniera di Di Pietro e del suo partito personale. Ciò che è risultato incerto in questo primo anno di vita è il fondamento del nuovo partito: l’insieme dei valori e dei principi che ne costituiscono l’identità condivisa. Ed è proprio questa incertezza che ha reso più difficile la convivenza all’interno del Pd di diverse anime che hanno teso più ad irrigidire ciascuno la propria identità nel timore di una prevaricazione, che non a ricercare una sintesi capace di guardare in avanti.
Ma il progetto del Pd resta essenziale per aprire una prospettiva nuova per l’Italia. Questo libro vuole anche essere un contributo al Partito Democratico. Un contributo in termini di cultura politica, in particolare per ciò che riguarda la visione del ruolo dell’Europa e dell’Italia nel mondo, ma anche un invito ad una riflessione più profonda sui caratteri e sui limiti del bipolarismo italiano; sulla necessità di una visione della evoluzione democratica del Paese che sia effettivamente alternativa al plebiscitarismo e alla semplificazione personalistica del confronto politico. Un nuovo centrosinistra deve lasciarsi alle spalle la precarietà e la confusione dell’Unione, così come ogni pretesa di autosufficienza del Partito Democratico. Un nuovo centrosinistra deve essere capace di unire progressisti e moderati (come è stato scritto) perché la società italiana è più complessa e le linee di confronto sono più articolate e non si riducono alla frattura destra-sinistra. Ma questo non significa che i partiti debbano essere la nomenclatura delle diverse propensioni presenti nella società o degli interessi frantumati di una realtà così complessa. Può certamente esistere un grande partito come il Pd che abbia l’ambizione di unire nel suo seno - se pure senza alcuna pretesa di esclusività - progressisti e moderati intorno ad un coraggioso progetto di riforma per l’Italia.
Di questo progetto è parte integrante quell’idea dell’Italia impegnata per la difesa dei diritti umani nei Balcani, anche con la sofferenza di scelte difficili; un’Italia in prima fila con l’Onu per affermare e proteggere la pace fra Israele e Libano e sostenere nuove speranze in Medio Oriente; un’Italia protagonista nell’Assemblea delle Nazioni Unite nella battaglia di civiltà contro la pena di morte. Questa è stata ed è l’Italia dell’Ulivo e del centrosinistra, di cui dovrebbero rivendicare, forse, con maggiore consapevolezza i risultati e il ruolo. È l’Italia che, non solo nel passato lontano, ma anche in questi anni con Prodi, Ciampi e Napolitano è stata portatrice della visione ambiziosa di un’Europa unita, federale e democratica che non si riduca alla ricerca di un equilibrio e di una mediazione fra i governi. L’Europa di cui ci sarebbe oggi più che mai bisogno di fronte allo sconvolgimento politico ed economico del mondo globale.
Spero che da queste riflessioni venga una spinta affinché il centrosinistra riprenda coscienza delle sue ragioni e torni ad esercitare pienamente la sua funzione per il futuro dell’Italia.