venerdì 22 maggio 2009

Repubblica 22.5.09
La mia Irlanda complice dei preti pedofili
di Joseph O’Connor


L´Irlanda in questi giorni sta vivendo un trauma inverosimile e terribile. Dopo aver trascorso il decennio scorso a crogiolarci in una cappa di autocompiacimento per i nostri successi economici, ci troviamo di fronte a una realtà completamente diversa, dalla quale risulta che quel boom è stato illusorio. Politici corrotti, avidi banchieri, speculatori immobiliari hanno quasi mandato a rotoli il nostro Paese e, come se non bastasse, la notizia ufficiale di questi giorni dei maltrattamenti e delle sevizie dei preti sui bambini a loro affidati conferma ciò che sapevamo da tempo nel fondo dei nostri cuori.
In altri Paesi i pedofili si nascondono: in Irlanda si nascondono in piena vista. Nella maggioranza dei casi, i bambini vittime di soprusi e violenza non sono stati creduti. Nessuno ha dato loro retta, nemmeno le loro famiglie. Poiché le rivelazioni delle sistematiche violenze e sopraffazioni sui bambini irlandesi arrivano in questa fase della nostra storia è inevitabile che scatenino rabbia e collera profonde. In parte questa reazione è dovuta ai racconti, così strazianti, così pieni di episodi crudeli da far venire le lacrime agli occhi di chi li legge. In parte, però, è dovuta anche al fatto che è ormai palese che per decenni l´organizzazione più potente e ricca di Irlanda, la Chiesa Cattolica nelle sue molteplici denominazioni, ha fatto tutto ciò che le era possibile per mettere a tacere le sue vittime. Le scuse - se mai ci sono state - sono state equivoche e ambigue. Sono state assunte frotte di avvocati, incaricati di contestare le accuse. Quando, per le pressioni delle associazioni dei violentati e di un´opinione pubblica sempre più inferocita, si è riusciti a ottenere dalla Chiesa un programma di risarcimenti di natura finanziaria, le sue condizioni si sono rivelate talmente generose nei confronti dei colpevoli che molti hanno giudicato il comportamento del governo a dir poco inadeguato.
Dal mio punto di vista, però, esiste un contesto più ampio in grado di spiegare l´ira del popolo irlandese. Sappiamo che la responsabilità è di molti: le colpe non sono solo della Chiesa Cattolica, né solo di una sfilza di ingiustificabili governi irlandesi, ma della società stessa, di ogni suo elemento. È proprio questo a far sentire così profondamente a disagio l´Irlanda. Quasi tutti erano a conoscenza dei preti pedofili e violenti. Non sto esagerando: una delle organizzazioni di sopravvissuti a questi abominevoli reati si chiama "One in Four" ("Uno su quattro") perché è stato statisticamente provato che circa un quarto dei bambini irlandesi ha subito un maltrattamento fisico o una violenza sessuale, a casa propria, a scuola, ovunque avrebbe dovuto sentirsi invece protetto. C´è chi ha distolto gli occhi guardando, chi si è tappato le orecchie. I bambini sono stati trattati con un´irrilevanza sovrumana in Irlanda, una società che per difendere un prete sarebbe disposta a mettersi a testa in giù in una contorsione morale, ma che per un bambino vittima di stupro non muoverebbe un dito.
Mio padre, cresciuto in un quartiere della classe operaia nella parte antica di Dublino, ricevette l´unica istruzione dai Christian Brothers: malgrado non abbia subito maltrattamenti, né sia mai stato molestato sessualmente, e benché parli con rispetto di quegli istitutori che si occupano dei bambini più poveri, a scuola visse sempre nella paura. Certo, mi riferisco agli anni Quaranta, quando forse i metodi di insegnamento erano ovunque autoritari e brutali. Ma un amico mio coetaneo, che ha frequentato la stessa scuola negli anni Ottanta, mi ha parlato del suo terrore sui banchi di scuola, giorno dopo giorno. Il panico lo assaliva non appena varcava i cancelli della scuola e si dileguava soltanto quando rientrava a casa. Ancora oggi, non è mai tornato a visitare la sua scuola, si tiene alla larga addirittura dalla strada dove si trova, proprio come un vicino di casa che ha riferito a mia moglie di non poter vedere nemmeno da lontano l´edificio nel quale ha studiato, quello stesso istituto gestito dai Christian Brothers. È inevitabile a questo punto chiedersi: dove erano gli ispettori del governo? Dove erano i funzionari? E i burocrati? Come si è potuto permettere che tutto ciò accadesse?
Devo sottolineare che il contributo dato dalla giornalista irlandese Mary Raftery sul canale televisivo nazionale Rte è stato determinante per porre fine all´omertà. La leadership audace e coraggiosa di cui ha dato prova il giornalista Colm O´Gorman - egli stesso vittima di violenze sessuali e maltrattamenti dai preti - è stata fondamentale per costringere le autorità a guardare in faccia la verità. Persone come loro si sono rifiutate di essere messe a tacere, pur avendo incontrato nella loro ricerca di giustizia un numero davvero irrisorio di alleati. Ora penso di sapere perché. Il comportamento di alcuni preti e di alcune suore è stato sicuramente delinquenziale, nella piena accezione del termine. Ma niente è mai stato fatto per fermarli. L´Irlanda, già afflitta dal senso di colpa per gli insuccessi finanziari, ora lo è anche per questi casi di maltrattamento e violenza su minori. Siamo entrati in un vortice di recriminazione, una spirale nella quale gli innocenti sono puniti con i colpevoli. È comprensibile. Alcuni esponenti del clero meritano sicuramente di essere oggetto di stigma, ma il mio ammonimento è che questa è un´altra forma di equivoco morale. Per evitare le accuse si deve essere scioccati, o quanto meno fingere di esserlo. Solo così si riesce a frapporre della distanza tra sé e simili avvenimenti osceni. C´è tuttavia un dato, nudo e crudo, di cui non si può non tener conto: non possiamo dimenticare quanto poco lo Stato abbia fatto per proteggere i poveri irlandesi, e in che misura i bambini irlandesi poveri, più vulnerabili e deboli, affidati a istituzioni di crudeltà dickensiana, siano stati letteralmente abbandonati nella santità dei bassifondi morali. Si tratta di una vecchia storia, una storia terribile. Quando puntate un dito per accusare, siate sempre consapevoli che tre delle dita della vostra stessa mano puntano contro di voi.
Traduzione di Anna Bissanti. Il romanzo "La moglie del generale" di Joseph O´Connor è pubblicato in Italia da Ugo Guanda Editore

Repubblica 22.5.09
I casi di pedofilia in Irlanda sono l´ultima fermata della via crucis. E in Italia? Cronaca dall´ultima frontiera della Chiesa
Pedofilia, il lato oscuro della Chiesa
di Maria Novella De Luca


Per don Luigi Ciotti "serve trasparenza, bisogna ripensare la formazione dentro i seminari"
"Quei resoconti sono terribili. La crisi è profonda, senza ritorno" dice don Antonio Mazzi
Spesso i bambini devono diventare adulti per riuscire a descrivere ciò che hanno subito. Così è accaduto a fine 2008 in un collegio veronese per sordi

Raccontano di stanze buie, di violenze nelle camerate, di molestie nel confessionale. Ricordano nel dettaglio botte, sevizie, ricatti, attenzioni morbose, paura e vergogna. Anche se sono passati venti, trenta, quarant´anni. Loro, gli ex bambini, non dimenticano. Erano piccoli, adolescenti, disabili, orfani. La Chiesa apre il suo archivio più sconvolgente, per la prima volta in tutto il mondo le vittime parlano e vengono ascoltate, e si scopre che i casi di pedofilia sono migliaia e migliaia. La Chiesa americana, quella australiana, e ieri, dopo nove anni di inchiesta, la chiesa irlandese: negli enti per minori gestiti da religiosi generazioni di bambini hanno subito stupri e soprusi. Per colpa di "preti traditori", così li aveva chiamati un anno fa papa Ratzinger a Sydney, affermando che chi si macchia di queste colpe «è una vergogna per la Chiesa» e deve essere processato. Il risultato è che le storie vengono alla luce, è di pochi mesi fa la denuncia degli ex allievi dell´Istituto "Antonio Provolo" di Verona, bambine e bambini sordomuti oggi adulti di mezza età, che in sessanta hanno raccontato di essere stati «violentati e bastonati per anni», dai religiosi che li avrebbero dovuti accudire e proteggere, e che oggi nonostante le accuse sono ancora lì, in quello stesso istituto. Dal 2000 ad oggi sono almeno 60 i casi di preti condannati o in attesa di giudizio perché colpevoli di abusi sessuali. Una presa d´atto durissima per chi nella Chiesa lavora e alla dedizione agli altri ha consacrato la propria vita. Come don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele di Torino, presidente di Libera, che dice: «Ci vuole trasparenza, quanti silenzi complici ci sono stati, bisogna ripensare la formazione nei seminari, il cammino verso il sacerdozio».
Con un dolore tremendo però. «Come si fa a non sentirsi sconvolti leggendo che cosa è successo in Irlanda, è giusto cercare la verità, punire chi ha coperto gli abusi. Ma ci vuole attenzione, questa è una pagina oscura che non deve infangare la parte sana della Chiesa, anche se è necessario fermarsi, riflettere. Difendendo le vittime, ma accogliendo anche chi ha sbagliato». E don Ciotti racconta di aver seguito più di un prete accusato di pedofilia, e di averlo "accompagnato" verso il processo. Cercando di guardare quel lato oscuro, malato, che poi diventa crimine.
La Chiesa si apre e svela il lato buio. A scorrere le cronache giudiziarie i casi italiani sono decine e decine. Alcuni più noti, e a lungo coperti dalle gerarchie ecclesiastiche, come quello di don Lelio Cantini, sacerdote fiorentino ritenuto colpevole di «abusi sessuali pluriaggravati e continuati su minori», ma restato al suo posto di parroco fino al 2005, quando ormai ottantenne è stato "punito" dal Papa con la riduzione allo stato laicale. Per 10 anni, dal 1975 al 1985 aveva imposto rituali sessuali di ogni tipo a ragazzi e ragazze adolescenti che soltanto anni dopo avrebbero trovato il coraggio di denunciare.
Perché spesso accade così. Gli ex bambini devono diventare adulti per riuscire a descrivere ciò che hanno subito. A volte perché l´orrore è tale che si cerca di dimenticare, più spesso però perché non vengono creduti. C´è da osservare infatti il contesto in cui questi fatti accadono, collegi, comunità, scuole, oratori. Contesti fragili, di storie difficili. Come la Comunità Incontro di don Pierino Gelmini ad Amelia, famosa e iper-sponsonsorizzata comunità di recupero per tossicodipendenti. Nell´agosto del 2007 due ex pazienti della comunità accusano don Gelmini di averli ripetutamente molestati e abusati trai il 1999 e il 2004, quando erano ancora minorenni. «Ci portava nella stanza del camino e ci faceva quelle carezze». Gli inquirenti ritengono le accuse fondate, decine di politici si mobilitano in difesa del sacerdote, che viene però rinviato a giudizio.
La Chiesa svela il suo lato oscuro. Don Antonio Mazzi, fondatore della Comunità Exodus, parla con il dolore nella voce e con veemenza. «Leggendo il resoconto delle sevizie fatte sui bambini negli istituti gestiti da religiosi ho capito che la crisi è totale, senza ritorno, che questa Chiesa pensa soltanto ad esibire ricchezza e potere, dimenticando le scritture, profezia. Non sono pochi casi, è un orrore che va dall´America all´Australia, dall´Irlanda all´Italia: noi dobbiamo guardarci dentro, ci vuole un nuovo concilio - incalza don Mazzi - com´è possibile che centinaia di preti abbiano distrutto le vite di bambini innocenti, approfittando dei più fragili, gli organi, i disabili, che avrebbero invece dovuto proteggere. Come a Verona, nell´istituto per piccoli sordomuti...Davvero è accaduto tutto questo? E il Vaticano che fa, dov´è?». La malattia è estesa, aggredisce più lati, avanza. Ma la Chiesa ne parla, apre gli archivi, condanna. Proprio sull´Avvenire, il quotidiano della Cei, lo psichiatra Vittorino Andreoli, in una serie di riflessioni dedicate alla vita del prete, spezza il tabù, e parla dei sacerdoti pedofili. «Il sacerdote, che è uomo della sacralità, si rivolge ai bambini ma come oggetto di piacere sessuale. Il che produce l´immagine peggiore che possa venire da un prete e dà il senso proprio della degenerazione...Per questo credo che nel caso dei preti pedofili sia fondamentale poter intervenire presto, se ciò è dato; e che in ogni caso la pena sia applicata con severità. E, assieme gli sia accordata la cura...».
Certo, la reticenza c´è, ed è ancora forte, soprattutto ad uscire dalle pieghe delle istituzioni vaticane, dei propri tribunali e consegnare i preti pedofili ai tribunali dello Stato. E di questo cupo castello ancora presente di omertà e resistenze, dà conto un piccolo ma dettagliato libro dal titolo provocatorio «Lasciate che i pargoli vengano a me. Storie di preti pedofili in Italia» di Paolo Pedote. Un viaggio attraverso quindici casi di religiosi condannati per violenza sessuali. Nomi a volte poco noti, o dimenticati, se non ci fossero le vittime, piccole, spesso inascoltate, a volte addirittura messe al bando, a ricordare il lato oscuro della Chiesa. Ecco allora don Marco Gamba, giovane parroco di Chiusa San Michele (Torino), condannato a 4 anni (con un notevole sconto) per il possesso di materiale pedopornografico e per violenza sessuale aggravata su due giovani chierichetti. O don Giorgio Mazzoccato, parroco della borgata di Arpinova, a due passi da Foggia, condannato a sei anni di reclusione per aver molestato e abusato di 10 bambine e bambini dai 7 ai 12 anni, attirandoli in casa sua, dentro il confessionale, durante le gite della parrocchia. E poi don Giuseppe Rassello, don Luciano Michelotti, don Giorgio Carli, don Bruno Puleo, don Romano Dany, don Mauro Stefanoni, don Paolo Pellegrini, don Marco Cerullo. Centinai di preti, centinaia di piccole vittime. Un catalogo lungo, dettagliato, triste.

l’Unità 22.5.09
Berlusconi-Letizia, nessuna verità ma tanti passi falsi
di Enrico Fierro


Il primo ministro e tutti i componenti della famiglia di Portici forniscono versioni discordanti
L’ultima è quella che la minorenne non fosse mai stata con il premier senza la sua famiglia

Solo il papà di Noemi è passato dall’essere un amico di vecchia data, l’autista di Craxi e un militante di Forza Italia che nessuno a Napoli ha mai visto né sentito. Ma sono molti i lati oscuri di questa vicenda.

Bugie. Verità inconfessabili. E l’affannoso lavorìo di tanti (troppi) soggetti che «maneggiano» la notizia, la plasmano fino a farle prendere la forma desiderata. Così il caso Noemi-Berlusconi si è già trasformato nel mistero italiano degli anni Duemila. La tonalità dominante del colore è il torbido. Alimentato dalle troppe bugie del premier e dalle interessate reticenze della famiglia Letizia.
I CASALESI
Cognome poco diffuso a Napoli. In Campania concentrato nel Casertano. Zona dominata dal clan dei «casalesi». Un dato di fatto normalissimo che martedì scorso ha generato un singolare cortocircuito mediatico. Nella notte tra lunedì e martedì viene arrestato un pericoloso latitante di camorra. Franco Letizia. Dalle 7,22 di martedì (ora del primo «lancio» di agenzia) fino alle 12,18 nessun sito internet, nessuna radio locale stabilisce un qualsiasi collegamento, e meno che mai l’esistenza di rapporti di parentela, tra l’arrestato e il papà della Noemi. Eppure alle 12,18 i terminali battono una agenzia Ansa che «chiarisce» che il Letizia boss «non ha alcun legame di parentela con Benedetto Letizia». Si tratta di semplice omonimia. Che però nessuno aveva sollevato. Smentita di una notizia che nessuno aveva pubblicato.
La camorra, soggetto da maneggiare con cura in questa storia. Anche se i tanti set di questo reality non aiutano a tenerla a debita distanza. Secondigliano (il quartiere monstre dove i Letizia hanno alcune loro attività); Portici, la città-quartiere dove vivono Noemi e sua madre, e Casoria, il paesone della festa. In ognuno di questi luoghi i clan hanno un controllo ferreo del territorio. Sanno tutto. Di tutti. Chiarire fino in fondo i misteri di questa vicenda e non aggiungerne altri può aiutare. Ma l’epicentro dei misteri è nei rapporti tra Silvio Berlusconi e i Letizia. Quando si sono conosciuti, perché, qual è il legame che tiene avvinghiato Silvio Berlusconi a questa famiglia colta da improvvisa notorietà?
LE DOMANDE SENZA RISPOSTA
Domande ancora orfane di risposte credibili. Elio Letizia non è mai stato autista di Craxi. La madre di tutte le «balle» che avrebbe dovuto supportare il rapporto tra il Cavaliere e il messo comunale è stata sgonfiata da poderose smentite. Berlusconi il 7 maggio alla tv France2: «Il papà di Noemi fa parte del mio partito». Falso: tutti i maggiorenti di Forza Italia a Napoli hanno pubblicamente detto di non ricordare alcuna militanza, neppure ai livelli più bassi, di Elio. «L’amicizia di Silvio riguarda me. Tutto si poggia su quello», dice il 5 maggio a «La Repubblica» il signor Letizia. Noemi nella varie interviste che rilascia «non ricorda» i particolari dell’amicizia tra la sua famiglia e il Cavaliere. Mamma Anna Palumbo, invece, invoca la privacy: «Non chiedetemi più come ho conosciuto il Presidente».
Perché la loro è una amicizia di vecchia, anzi vecchissima data. Un legame stretto del quale però non vi è traccia negli anni passati, quando Noemi era poco più che una bambina. Nel 2001 la famiglia viene funestata da un lutto gravissimo, la morte del figlio Yuri, 20 anni. All’epoca l’amico di vecchia data Silvio non si fa vivo. Neppure un telegramma. Infine, il rapporto con Noemi prima della festa dei 18 anni. Berlusconi ne parla a France2. «La ragazza non ha mai avuto modo di frequentarmi da solo. È venuta a trovarmi sempre con sua madre, o suo padre...». L’articolo firmato ieri da Massimo Giannini su «La Repubblica» si incarica di ricordare almeno una circostanza nella quale Noemi era col Cavaliere da sola e senza mammà. 19 novembre 2008, Villa Madama, cena con vip e imprenditori. Noemi c’è. Per lei viene addirittura rivoluzionata la disposizione dei posti a tavola. «Alla fine della cena, secondo il ricordo dei presenti, Noemi sarebbe stata vista allontanarsi su un’auto blu, al seguito dell’Audi nera del premier», si legge. All’epoca Noemi non aveva ancora compiuto 18 anni. Era minorenne. Brutti tempi per il Cavaliere. Che spera nella «verità». «Quando tutti conosceranno la realtà - dice a Porta a Porta il 5 maggio - non potranno che prendere atto che c’è stato un gesto di amicizia che non aveva nulla di scandaloso». La realtà tante «mani» la stanno plasmando ad uso e consumo del premier. E dei suoi voti.

Repubblica 22.5.09
Frottole e calunnie
di Giuseppe D’Avanzo


Silvio Berlusconi, pur in questo momento difficile della sua avventura politica, dovrebbe trovare un maggior controllo per riconciliarsi con una realtà che, nei suoi monologanti flussi verbali, diventa ogni ora di più leggenda, fiaba, sceneggiatura da scrivere e riscrivere secondo l´urgenza del momento. Il premier deve fare questa fatica, se ne è in grado, nel rispetto soprattutto di chi lo ascolta (e anche di se stesso).
Da giorni, il premier urla a gola piena e in qualsiasi occasione propizia contro Nicoletta Gandus, presidente del collegio che ha condannato David Mills testimone corrotto dal premier. Berlusconi con ostinazione ne vuole screditare la credibilità, la reputazione, l´imparzialità e umiliandola, senza un contraddittorio, pensa di salvare la faccia dinanzi al mondo; di cancellare con la sola forza della sua voce onnipotente e delle sue frottole indiscutibili (e mai discusse dai media) l´illegalità che il processo Mills ha ricostruito e la serena indipendenza che ha ispirato il giudizio. Il premier, da anni e da tre giorni tutti i giorni, dipinge quel giudice come «un nemico politico», come «un avversario in tutti i campi», come «un´estremista». I suoi avvocati sono giunti a rimproverare a Nicoletta Gandus «attacchi e insulti contro il premier». Quali? L´aver firmato un appello di «condanna della politica di repressione violenta e di blocco economico messa in atto dal governo israeliano nei confronti della popolazione palestinese» senza dire che la Gandus è ebrea e quell´appello era firmato da ebrei e «in nome del popolo ebreo». Il capo del governo sostiene che quel giudice «ha dimostrato avversione nei suoi confronti». La prova? La Gandus ha firmato un appello contro la legge sulla fecondazione assistita o, con centinaia di giuristi e accademici, un appello alla politica – a tutta la politica – per riequilibrare leggi che avrebbero distrutto «il sistema giudiziario e compromesso il principio della ragionevole durata dei processi», come poi è stato. Da quell´appello vengono maliziosamente estratte, a proposito della legge berlusconiana che modifica i tempi della prescrizione (la "Cirielli"), due sole parole, «obbrobrio devastante». Le due parole sono gettate sul viso della Gandus come se fossero state dette o scritte da lei e non dal presidente della Corte di Cassazione, Nicola Marvulli. Nel corso del tempo, Berlusconi si è spinto fino alla calunnia. Al devoto Augusto Minzolini, neodirettore del Tg1, riferisce di avere un asso nella manica per dimostrare la faziosità di quel giudice. «Ho un testimone che ha ascoltato una conversazione tra il presidente del Tribunale Nicoletta Gandus, e un altro magistrato. La Gandus ha detto questa frase al suo interlocutore. "A questo str… di Berlusconi gli facciamo un c… così. Gli diamo sei anni e poi lo voglio vedere fare il presidente del Consiglio"» (la Stampa, 18.06.08). Dov´è finito questo testimone? Perché non ha mai raccontato in pubblico e a un altro giudice la volontà pregiudiziale della Gandus? Di questo testimone non si è avuta più notizia né nelle carte della ricusazione presentata dai legali del capo del governo né, dopo un anno, ora che Berlusconi è ripartito lancia in resta contro la magistratura.
Quel testimone non è mai esistito, quella conversazione non c´è mai stata. Berlusconi ha inventato l´una e l´altra di sana pianta calunniando il giudice milanese, mentendo a tutti coloro che lo hanno ascoltato e magari lo hanno preso sul serio.
La Gandus accoglie da anni in silenzio gli insulti del capo del governo, ascolta imperturbabile le frottole che sparge sul suo conto. Fa bene a tacere. Berlusconi chiede soltanto la rissa per superare le curve che lo stanno screditando (o rivelando). Il premier ci va a nozze nel discorso pubblico che si fa nebbia e rissa. Ne ricava la radicalizzazione del suo consenso, e questo è l´unica cosa che gli serve e vuole. E tuttavia, anche per Berlusconi, ci deve essere un limite alla manipolazione della realtà e proporgli quel limite, la necessaria coerenza delle sue parole alle cose, ai fatti, alla storia delle persone, deve essere fatica quotidiana di chi lo ascolta. Può continuare, il premier, a ripetere senza che alcuno lo interrompa di non aver mai conosciuto David Mills nonostante l´avvocato inglese abbia detto e scritto di averlo incontrato, per lo meno, in due occasioni? Quando Berlusconi verrà a spiegarci che la seconda guerra mondiale è scoppiata perché un dissennato Belgio ha invaso il distratto Terzo Reich? O che il Sole gira intorno alla Terra immobile? Può credere il premier di essere sempre nella poltrona bianca di Porta a Porta?

Corriere della Sera 22.5.09
La carica delle leggi travolge i medici
Dagli immigrati agli statali: obblighi giuridici in aumento Il contrasto con la deontologia. «La formazione non esiste»
di Adriana Bazzi


Il consenso Prima di qualsiasi trattamento il medico deve avere dal paziente «l’autorizzazione a procedere» Il rifiuto
C’è chi si informa su Internet e poi chiede farmaci o analisi: il medico può rifiutare
I protagonisti. Sono soprattutto i medici di famiglia a dover far fronte ai nuovi impegni dettati dalle norme
Le segnalazioni. Un tempo c’erano soltanto quelle relative alle malattie infettive, oggi le denunce sono tante, a partire dai maltrattamenti

Gli ultimi obblighi riguarda­no gli immigrati clandestini e gli statali con poca voglia di lavorare. Dal decreto sicurezza è sparita, è vero, la norma che impo­neva ai medici di segnalare l’immi­grato irregolare che si presentava in ambulatorio per farsi curare, ma l’in­troduzione del reato di clandestini­tà obbliga, di fatto, i medici, almeno quelli delle strutture pubbliche, a de­nunciare alla questura o ai carabinie­ri il paziente senza permesso di sog­giorno.
Nel decreto Brunetta, invece, è en­trata la sanzione (pecuniaria, ma an­che penale) per i medici di famiglia che firmano certificati di malattia a dipendenti pubblici che invece poi risultano sani.
Si tratta soltanto degli ultimi due di una serie impressionante di obbli­ghi giuridici (con relativa pena per mancato adempimento) che assal­gono (e qualche volta travolgono) soprattutto i medici di base, e che contrastano sia con quel Giuramen­to di Ippocrate, appena rivisto in chiave moderna, che si pronuncia subito dopo la laurea, sia con il codi­ce deontologico che impone al medi­co di curare chi ha bisogno, senza di­stinzione di razza, di religione, di sesso (e di cittadinanza).
«Non a caso la deontologia è na­ta, a partire dal Seicento, quando la legge ha cominciato a diventare troppo invadente — commenta Amedeo Santosuosso, giudice del Tribunale di Milano e fra i fondatori della Consulta di bioetica — e si è rafforzata nel secondo dopoguerra, dopo i processi contro i medici nazi­sti ».
La questione del rapporto fra ob­blighi previsti dalla legge e regole dettate dalla deontologia non è, dun­que, nuova, ma si sta complicando. Gli ambulatori dei medici di fami­glia sono ormai un «territorio di confine» dove i professionisti della sanità sono costretti a barcamenarsi fra norme vecchie e nuove, spesso nebulose, non solo in conflitto con la coscienza, ma a volte in contrasto anche fra loro.
Una giungla che cresce e si infitti­sce attorno a un nucleo originario, quello degli obblighi di legge «clas­sici »: la denuncia obbligatoria di cer­te malattie infettive che rappresenta­no un pericolo per la sanità pubbli­ca (come il colera) e per le infezioni veneree (la sifilide o la gonorrea, co­me da legge del 1956) oppure l’ob­bligo della visita prima di produrre un certificato di malattia. Ma la visi­ta, dicono i medici rispondendo al ministro Brunetta, non basta a deci­dere se, ad esempio, l’emicrania o un altro sintomo dichiarato dal pa­ziente è vero o falso.
«I medici — dice Claudio Cricelli — sono obbligati alla visita, ma pos­sono anche certificare, specificando­lo, sintomi lamentati dal paziente». Cricelli, medico e presidente del­la Simg, la Società italiana di medici­na generale, ricorda un’altra situa­zione molto delicata in cui il medi­co, nella sua pratica quotidiana, si deve confrontare con la legge: i casi di lesioni gravi che fanno sospettare un reato. Succede sempre più spes­so, ad esempio, che il medico di fa­miglia noti sul corpo delle sue pa­zienti lividi che fanno pensare a mal­trattamenti. E capita che la stessa ipotesi il pediatra possa arrivare a farla davanti ai lividi sul corpo di un bambino.
«Il nostro obbligo — spiega Cricel­li — è quello di riferire all’autorità competente, che approfondirà le in­dagini ». Il medico lo «deve» fare, ma deve anche agire con cautela per non sbagliare e creare danni peggiori. La cronaca racconta casi come quello di Valentina, cinque mesi, morta, secon­do le prime ipotesi, perché la mam­ma l’aveva scossa troppo e le aveva procurato danni al cervello (è la co­siddetta shaken baby syndrome, la sindrome del bambino scosso). Alla fine l’autopsia ha svelato che, in real­tà, si trattava di una gravissima pol­monite emorragica e così tutti, medi­ci, investigatori, inquirenti hanno do­vuto chiedere scusa.
Dal medico di famiglia, poi, si pre­senta la donna che vuole abortire, che bisogna aiutare nel percorso le­gale che deve fare per arrivare all’in­terruzione di gravidanza; c’è la ra­gazzina che ha lo stesso problema e non vuole dirlo ai genitori. E così via, in un elenco interminabile.
C’è poi il capitolo delle cure, go­vernato, oggi, dalla legge sul consen­so informato. Il medico, prima di qualsiasi trattamento o indagine dia­gnostica, deve acquisire il consen­so, cioè deve avere «l’autorizzazio­ne a procedere» dal paziente al qua­le devono essere spiegati i benefici e i possibili rischi ai quali può andare incontro.
E non si possono attuare tratta­menti sanitari obbligatori «tranne — precisa Santosuosso — in alcuni casi, come quello di certe vaccinazio­ni perché prevale il bene della comu­nità rispetto a quello del singolo op­pure quando una persona diventa pericolosa per sé e per gli altri e allo­ra il medico richiede il ricovero coat­to al sindaco».
Il medico, dunque, non può co­stringere una persona a curarsi, ma può rifiutarsi di curarla. Il caso Di Bella ha fatto storia: all’epoca sono dovuti intervenire i magistrati per imporre un trattamento anticancro che, secondo la maggior parte dei medici, non aveva alcuna efficacia. Oggi un numero sempre maggiore di persone arriva dal medico dopo aver acquisito informazioni via In­ternet e pretende prescrizione di esa­mi diagnostici o di farmaci.
«Il medico — dice Santosuosso— deve sempre fare delle scelte nell’in­teresse del paziente, ma ha anche la libertà professionale di rifiutare la prescrizione se non la ritiene oppor­tuna ». Ci sono poi prescrizioni «op­portune » secondo la letteratura scientifica, come quelle di farmaci oppiacei contro il dolore, che rischia­no di essere limitate dall’eccesso di regole (e l’Italia è l’ultima in Europa nell’uso di questi medicinali).
I medici, in particolare i più giova­ni, hanno poca dimestichezza con leggi e codicilli sui quali non esiste una vera e propria preparazione uni­versitaria. Per tutti, poi, sono trop­po poche le occasioni di formazione per gli opportuni aggiornamenti.
Tutta questa voglia di legge lascia però perplessa una parte dei medi­ci, e forse anche dei pazienti, che vorrebbero un ritorno a una medici­na più tradizionale e meno tecnolo­gica.
«Bisogna ritornare a essere medi­ci come una volta, a guardare il ma­lato come una volta — suggerisce Pasquale Spinelli della Federazione italiana della società medico-scienti­fiche (Fism).— Si deve ricreare un rapporto vero con il paziente. Ma og­gi il sistema non lascia spazio per far questo. E nemmeno l’università lo insegna. Qualche volta le leggi servono soltanto a deresponsabiliz­zare il medico».

l’Unità 22.5.09
Toni Morrison: «il mio viaggio alle radici del razzismo»
di Maria Serena Palieri


L’incontro L’America «prima degli Stati Uniti». Lo schiavismo prima
del razzismo. Una madre che regala la figlia per evitarle le catene
La scrittrice premio Nobel nel ’93 racconta il suo ultimo libro, «Il dono»

Il dono, il nuovo romanzo di Toni Morrison in libreria per Frassinelli, è un libro che ci spalanca le porte su un mondo storicamente esistito, fino a tre secoli fa, ma, ai più di noi lettori, incredibilmente ignoto: il Nord America prima che nascessero gli Stati Uniti.
Ambientato nel Seicento, tra le torride Barbados, l’enclave cattolica del Maryland e le terre ghiacciate del Nord, ci racconta la vicenda di una bambina, Florens, figlia di una schiava giunta dall’Africa, del suo nuovo padrone, l’anglo-olandese Jacob, e delle altre donne che, con lui, vivono in una fattoria del Settentrione: sono la moglie Rebekka, sfuggita all’Inghilterra delle persecuzioni religiose e di una pre-dickensiana povertà metropolitana, l’indiana, «nativa» Lina, e Sorrow, una ragazzina arrivata lì dal mare dopo un naufragio, come un miracolo o una sciagura. Alle loro si intreccia la vicenda di Scully e Willard, due europa, insomma due bianchi che, da braccianti, vivono anch’essi in condizioni di schiavitù. È un’America dove passeggiano ancora indiani a cavallo né selvaggi come nei film né - com’è nelle riserve - abbrutiti dall’alcool, mentre i fondamentalisti di uno sciame di sette cristiane si rinserrano nei villaggi esorcizzando il Maligno che sarebbe responsabile dell’epidemia di vaiolo in corso. Florens è stata «donata» a Jacob, uomo dallo sguardo buono, da sua madre che ha voluto salvarla così dalla brutalità dei suoi stessi padroni. Ma Florens impiegherà le 177 pagine del libro a guarire dal suo male, la fame che le deriva da questo gesto d’amore che ha vissuto come un tradimento. L’amore, sostanza del vivere che, come l’acqua, s’insinua dappertutto, è uno dei grandi temi di Toni Morrison. E Florens è stata letta come antenata di un’altra figlia, la Amatissima del romanzo del 1987 che alle soglie della Guerra Civile la madre, schiava, Sethe uccide perché in lei non si rinnovi il suo destino.
Ora Toni Morrison, dolorante alla schiena, passo malcerto, ma sempre maestosamente bella, a 78 anni fa l’esperienza di un’altra America: sceglie il tailleur di Armani che vuole regalare alla moglie del figlio Ford, invitata dagli Obama alla Casa Bianca. Sbracciato? No, troppo a imitazione della first lady: «Con Michelle “le braccia sono le nuove gambe”, si dice oggi» ride.
Il Nuovo Mondo che racconta è il contrario di un paradiso. I vizi capitali ci sono già tutti: avidità, brutalità, ipocrisia e perfino la pedofilia ecclesiastica. Il suo bersaglio era la presunzione d’innocenza degli americani?
«Ho voluto raccontare come queste persone cercassero un paradiso, senza accorgersi che anche lì erano in agguato vizi di sempre: l’autoillusione, la debolezza, il dubbio, la paura. Ma anche come combattessero con coraggio enorme per sopravvivere o cercare di vivere bene in un mondo selvaggio e pericoloso».
«Il dono» descrive un mercato degli schiavi che - lì in quel secolo - riguarda tutti: neri, nativi, meticci, europei. La nostra sorpresa, nel leggere, è stata giustificata?
«Credo che questa parte della storia sia ignota anche negli Stati Uniti. La nostra storia, per come viene narrata, comincia con il 1776 della dichiarazione d’indipendenza, il prima è stato cancellato e nascosto. Mi sono consultata con storici e antropologi per un biennio e ho studiato materiale sulle traversate atlantiche: chi erano i fuggiaschi a bordo di quelle navi? Fuggivano dalle persecuzioni religiose, ma erano anche mercanti e criminali. Diventare tali era facile: bastava istigare una rissa, oppure prostituirsi o essere una madre nubile. La scelta che veniva proposta era: il carcere, oppure vai nel Nuovo Mondo. Il contratto che legava servi e padroni poteva durare una vita e, se il servo moriva prima di adempierlo, passava ai suoi figli. Schiavi bianchi e neri vivevano e lavoravano insieme nelle piantagioni. Ora, tutto il mondo ha conosciuto la schiavitù, l’antico Egitto, i Greci, Roma, l’Europa della servitù della gleba. Ma la novità da noi è stata l’istituzionalizzazione del razzismo: gli schiavi bianchi da un certo momento in poi sono saliti di un gradino, sono stati separati dai neri e hanno ottenuto il diritto, perfino, di ucciderli».
È l’evoluzione della schiavitù in razzismo - male ancora attuale - che ha voluto mettere a fuoco?
«Volevo essere sicura che gli americani capissero che il razzismo non è né naturale né inevitabile. È nato solo per permettere ai proprietari terrieri di mantenere indisturbato il proprio potere, creando gerarchie tra schiavi».
Campeggia nel romanzo la figura di un nero che non ha mai conosciuto la schiavitù. È storicamente plausibile, oppure è una licenza narrativa?
«Ce n’erano. Avventurieri, marinai, capi arrivati dall’Africa. Ci sono neri negli Usa oggi che non hanno schiavi nel proprio albero genealogico. Pochi, ma ci sono. Il “Fabbro” è colui che trasmette amore, amicizia, forza, paura. Perché è nero. È libero. È competente. È, del mio libro, il cuore che batte. Ma è anche colui che intimorisce».
Florens se ne innamora. Ma, respinta, lo aggredisce forse a morte. È un finale dolce o amaro?
«Allarmante, ma promettente. Il libro comincia con Florens che dice la parola “paura”, e finisce con Florens che dice la parola “libera”. In lei c’è rabbia, c’è vendetta. Cosa farà dopo? La strada è lunga».
Nel 1993 è stata la prima scrittrice afroamericana a ricevere il Nobel. Un anticipo di ciò che il novembre 2008 ha riservato al suo paese?
«Sono cinica. Ho ricevuto troppe delusioni. Non ho mai pensato che Barack Obama potesse vincere. Ma ecco le coincidenze: ho scritto questo romanzo sugli anni in cui il razzismo ancora non era stato inventato. E ora posso sperare che ce l’abbiamo alle spalle».
I primi 150 giorni di presidenza l’hanno delusa?
«Obama non è un re. È un presidente e deve vedersela con Congresso e Senato. Coi cattivi… Le aspettative sono astronomiche. E gli americani sono come bambini, vogliono tutto e subito».

BIG MAMA. Vita e opere da Nobel
1931. Chloe Anthony Wofford, in arte Toni Morrison, nasce a Lorain, Ohio, il 18 febbraio 1931 da una famiglia nera della classe operaia.
1970. Debutta come romanziere con «L’occhio più azzurro». Seguiranno i romanzi «Sula», «Il canto di Salomone» e «L’isola delle illusioni».
1987. Esce il suo capolavoro, «Amatissima», con il quale vince il Booker Prize. Nel ’92 pubblica «Jazz»
1993. Riceve il Nobel per la Letteratura. Pubblica poi «Paradiso», «Amore» e quest’ultimo «Dono». Tutti i suoi libri sono tradotti in Italia da Frassinelli.

Corriere della Sera 22.5.09
Arie e Ensembles nel bicentenario
Haydn, genio oltre la forma
di Paolo Isotta


Se volessimo fare l’elenco dei sette più grandi operisti sette­centeschi in lingua italiana, dovremmo così proporlo: Händel, Leo, Has­se, Traetta, Haydn, Paisiello (che va considerato con Gluck anche il più grande della lingua francese), Mo­zart. Ossia tre apulo-napole­tani e quattro tedeschi. Tra­etta non è mai entrato in re­pertorio e alcune menti infe­lici lo considerano addirittu­ra un tardo-barocco; e per vedere la differenza tra una mente infelice e un sommo storico, basta considerare che il Dent intitola la sua pionieristica e tuttora indi­spensabile opera su Alessan­dro Scarlatti The father of classical music, mentre un altro mammasantissima co­me Friedrich Blume, al qua­le si deve addirittura la sco­perta d’una piccola ma qua­litativamente importantissi­ma fase della Storia da lui definita «Manierismo Musi­cale » (Gesualdo corrispon­dente al più tardo Michelan­giolo), dimostra che tanto Bach quanto Händel non possono essere schierati né tra i compositori genuina­mente barocchi né tra quel­li dello Stile Classico.
Il caso di Haydn, per giu­dicare il quale deve conside­rarsi una serie di fattori estrinseci che determinano e circoscrivono il giudizio, è il più difficoltoso. A differen­za degli altri, salvo Alessan­dro Scarlatti che voleva scri­vere per Gian Gastone de’ Medici capolavori mentre il monarca preferiva il garba­to peso-piuma Pistocchi, Haydn non era il composito­re italiano viaggiatore e, per dir così, sul libero mercato, bensì un dipendente della principesca (non nel senso di famiglia regnante, secon­do quanto scrive Machiavel­li) famiglia degli Esterhazy la quale, in fatto, nei suoi sterminati possedimenti un­gheresi raggiungeva uno sta­tus presso che regio. Nella Versailles che la megaloma­nia della famiglia aveva co­struita per lande e lande, esi­stevano anche un teatrino e una piccola orchestra, per la quale Haydn scrisse la gran parte delle sue Sinfonie e delle Opere teatrali. Un inci­so è qui indispensabile per ribadire che nel numero cen­tenario delle Sinfonie di Jo­seph osserviamo una conti­nua evoluzione stilistica e procedimenti tecnici tra i più varî, ma non un'evoluzio­ne di valore: a partire dalla trilogia Le Matin, Le Midi, Le Soir si tratta di cento ca­polavori assoluti.
I libretti erano comici o eroicomici (tranne l’Armi­da e l’ Orfeo), mai inventati o stesi per Haydn ma adot­tati o riadattati da opere precedenti di altri musici­sti, senza o quasi cori e con possibilità orchestrali limi­tate: e nondimeno La vera costanza e La fedeltà pre­miata, sebbene di dramma­turgia meno sintetica, non la cedono un ette ai capola­vori di Mozart. In altre il pensiero musicale si svilup­pa come condizionato e ri­stretto dalla forma e dal ge­nere delle Opere. L’unico ente che si sia ricordato del bicentenario di Haydn an­che operista è stato la Socie­tà del Quartetto di Milano. La scelta del titolo, come di­co, avrebbe potuto essere più felice; l’appellativo dato­gli dal librettista Coltellini, «burletta», indica qualcosa in sé di ristretto, quasi da «farsa» ma che farsa non vuol essere e nello stesso tempo del cosiddetto mez­zo- carattere che allora era invenzione recentissima di Piccinni. E nondimeno le Arie sono di una bellezza e fantasia grandi, quando non siano troppo costrette a ricorrere alla melodia sil­labata propria della farsa: gli Ensembles sono squisiti. L’esecuzione, affidata al­l’Haydn Ensemble Berlin di­retta da un grande oboista, Hansjörg Schellenberger, è stata onesta nella parte stru­mentale con un manipolo esiguo assai di esecutori, e buona nella parte vocale: penso in particolare a uno squisito tenore «di grazia», Leif Aruhn-Solén.
Voglio ricordare che L’in­fedeltà delusa è un’Opera «a numeri»: ossia singole Arie o Ensembles divisi da Recitativo secco. Dopo ogni singola Aria o Ensemble si deve applaudire se l’esecu­zione sia soddisfacente, ma gli abbonati sconoscevano il particolare. In tutta la sala un solo ascoltatore applau­diva e a poco a poco è stato considerato un pubblico di­sturbatore. Nell’intervallo, al bar una splendida ragaz­za, dai capelli color oro vec­chio come le Madonne fio­rentine del Quattrocento, al­l’entrata del disturbatore ha detto ad alta voce: «Ecco il pazzo che applaude!». Il paz­zo ero io.

Il Giornale 22.5.09
Prima visione. Vincere


Vincere di Marco Bellocchio condensa le angosce del regista in un film che si poteva ridurre di mezz’ora, con notevole giovamento, se alle spalle di Bellocchio ci fosse stato un produttore di polso. Infatti Vincere è fardellato di brani documentari, noti da chi li capisce, molesti per gli altri. E poi, insistendo che la vicenda di Ida Dalser (Giovanna Mezzogiorno) è strettamente connessa con Benito Mussolini (Filippo Timi), padre di suo figlio, Benito Albino (ancora Timi), non come privato, ma come politico, Bellocchio vuol far assurgere il caso personale a caso politico.
Invece, così, Vincere induce lo spettatore meno maturo a credere che l’orrore manicomiale patito dalla Dalser sia qualcosa d’epoca e solo d’epoca, di italiano e solo di italiano, di arretrato e solo arretrato, cattolico e solo cattolico, di fascista e solo di fascista. Ma Changeling di Clint Eastwood aveva raccontato un caso analogo: ricovero in manicomio di una giovane donna trasgressiva nella democratica, protestante e ricca California del 1928, e sempre per via di un bambino, che non era nemmeno figlio del presidente americano.
Bellocchio accenna solo la personalità della Dalser, notevolissima per l’epoca, lasciando lo spettatore quasi ignaro che questa trentaquattrenne trentina del 1914 era suddita austroungarica, quindi viveva in una società più avanzata che quella del Regno d’Italia; e che aveva studiato a Parigi, maturando idee precise in cultura e in politica. Fu però una personalità insolita (lo sarebbe anche oggi) che affascinò Mussolini: anche lui, meno confortevolmente, aveva vagato per l’Europa.
A Bellocchio non interessa l’amore fra loro, ma le sue conseguenze: il bambino e l’abbandono. Ma senza sapere che «cavalla matta», ma anche donna più interessante delle altre, fosse la Dalser, non si capisce il seguito. Che pare solo una congiura dove la meschinità di Mussolini si sommò alla ragion di Stato, che sopravvenne, specie dopo il Concordato con la Santa Sede. Comunque Vincere rompe il silenzio cinematografico su un’atroce ingiustizia; ricorda che il fascismo nacque dal socialismo alla prova della prima guerra mondiale e dimostra la tenacia di Bellocchio nell'inveire - coi suoi motivi - contro le istituzioni totali, come collegi e manicomi.

giovedì 21 maggio 2009

Liberazione 20.5.09
L'unico italiano in concorso "rischia" di ammaliare la giuria di Cannes
Con "Vincere" Bellocchio squarcia (di nuovo) la storia d'Italia
di Roberta Ronconi


Cannes. Marco Bellocchio continua a battere sui nervi tesi della storia italiana, e lo fa con coraggio e senza sconti (nemmeno a se stesso), con una generosità che gli riconoscono più i critici stranieri che non gli italiani.
A Cannes il maestro italiano arriva con Vincere, film che sta sollevando un polverone in Italia, e questa volta polverone storicamente giustificato. La vicenda del figlio segreto del duce e della sua presunta prima moglie (scomparsi tutti i documenti ufficiali) è ferita ancora così infetta da provocare negazioni isteriche. Dopo quelle esagitate di Alessandra Mussolini dalle solite poltroncine di Vespa, è ancora di questi giorni la pubblicazione sul settimanale Oggi di documenti sulla "follia" di Ida Dalser, malattia mentale i cui segni erano, secondo la pubblicazione, evidenti ben prima della nascita del piccolo Benito Albino. Smentiscono, qui da Cannes, con forza Fabrizio Laurenti e Gianfranco Norelli, autori del documentario Il segreto di Mussolini a cui Bellocchio si è in gran parte ispirato. Così come da oltre mezzo secolo tentano di gridare la loro contro-verità le genti delle zone del Trentino dove Ida era cresciuta e amata. Furono loro, i conterranei di Ida e della sua famiglia, tra i pochi a difenderla, anche contro la giustizia fascista. Soprattutto le donne che videro in lei una madre-martire, gettata a marcire in un manicomio come suo figlio, dove entrambi morirono senza essersi mai potuti rincontrare.
Una storia nascosta sotto il tappeto dell'ipocrisia italiana, scomparsi e distrutti tutti i documenti. Salve solo poche lettere, da cui trapela una donna disperata ma lucida, che dopo la passione travolgente per Mussolini e il suo abbandono è determinata solo a tener viva la verità. Sua e di suo figlio. A costo della libertà, della giovinezza, della vita. A costo di tutto, pur di risultare nelle pagine della Storia come la prima moglie, madre del primogenito del duce. Una avanguardista, futurista, rivoluzionaria, donna a cavallo tra un femminismo ante-litteram e l'adorante donna del capo.
Tra Antigone e Aida, «la nostra è una storia piena di eroi, soprattutto uomini, antifascisti - spiega Bellocchio -. Avevo voglia invece di raccontare la storia originale di una donna che si oppose a Mussolini fino allo stremo, dopo aver condiviso con lui le prime idee rivoluzionarie e averlo amato con passione».
Interpretato con impressionante professionalità da Giovanna Mezzogiorno e da Filippo Timi (più facile, per lui, entrare nei panni del giovane esaltato Mussolini), per il racconto cinematografico Bellocchio sceglie la strada del melodramma, privilegiando così nell'intento la follia amorosa a quella storica. Questa seconda la lascia raccontare per intero ai documenti dell'Istituto Luce che da metà film in poi sostituiscono completamente la parte del duce-finzione con quello reale. Nell'opera si crea una frattura tra la potenza dell'invenzione e la freddezza del documento. Frattura che non si sana e che - a nostro avviso - impedisce la nascita del capolavoro.
Ma poco importa, la densità di Vincere rimane in gran parte intatta. Rafforzata proprio dal soggetto, dal disvelamento storico, dall'intenzione - peccato, poi tradita - di vedere la grande tragica storia di un paese attraverso gli occhi di una piccola, fragile, potentissima, innamorata, tragica donna che alla fine delle sue pene è capace di scrivere al suo Benito: «Va' là Duce che sei solo un pover'uomo».
Di collegamenti con il presente e con il caso Berlusconi-Lario, Bellocchio è costretto a parlare sotto sollecitazione dei giornalisti italiani: «Sono restio a fare paragoni tra Mussolini e Berlusconi, anche se le analogie sono ovvie. Il fatto è che la sinistra si è rotta i denti nello scontro frontale contro il Berlusconi brutto e cattivo. Dimenticandosi in questo accanimento del suo ruolo politico». In realtà, nella mania tutta italiana di fare una lettura politicizzata del cinema, più che all'anti-berlusconismo, in Bellocchio pesa il profondo, inossidabile anti-clericalismo. Quello che con forza gli fa rivendicare la sua «laicità di fronte a una chiesa cattolica che ha le chiese vuote ma che ci riempie i giorni con le notizie su Ratzinger». Sanguigno come di rado, il regista si scaglia contro quei Patti lateranensi che nel '29 vede allearsi «un'ideologia cattolica criminale - si scalda nell'intervento - con il cinico calcolo di Mussolini. Un'alleanza vergognosa che porterà il Papa a definire Mussolini come "l'uomo della provvidenza"».
Vincere esce oggi nelle sale italiane, distribuito da 01. Già venduto in Francia e osannato come pochi dalla rivista-bibbia del cinema Variety , il film scritto da Bellocchio assieme a Daniela Ceselli ha dalla sua anche l'avvolgente fotografia di Daniele Ciprì. Vederlo è il minimo, amarlo soggettivo.

Repubblica 21.5.09
La Chiesa irlandese nella bufera "Abusi sessuali su migliaia di bimbi"
Rapporto shock: per 40 anni violenze "endemiche" negli istituti religiosi
Scoperti 2500 casi avvenuti tra il 1940 e il 1980. Il primate Brady: "Dispiaciuto profondamente"
di Enrico Franceschini


LONDRA - È una delle pagine più nere della storia d´Irlanda, e della storia della Chiesa cattolica: l´abuso sessuale sistematico e ampiamente diffuso ai danni di bambini e adolescenti di entrambi i sessi, in scuole, orfanotrofi, riformatori e altri istituti gestiti da ordini religiosi cattolici irlandesi. Una macchia vergognosa, di cui finora si conosceva l´esistenza attraverso documentari televisivi, film di denuncia come il pluripremiato "Magdalene" di qualche anno fa, inchieste dei giornali e indagini preliminari. Ma adesso la Child Abuse Commission, la commissione istituita dall´allora primo ministro irlandese Bertie Ahern, per fare luce su questo indegno scandalo, ha concluso i suoi lavoro dopo nove anni di inchieste e presentato un rapporto che fotografa con esattezza le dimensioni e i dettagli di quanto è avvenuto.
Il risultato suscita orrore: un dossier con le testimonianze di 2500 vittime di violenze, avvenute tra gli anni ‘40 e gli anni ‘80, negli istituti gestiti da preti e suore in Irlanda. Racconti atroci, di uomini e donne oggi adulti che ricordano di essere stati picchiati in ogni parte del corpo con le mani e con ogni tipo di oggetti, seviziati, stuprati, talvolta da più persone contemporaneamente.
E´ la cronaca di una discesa agli inferi, tenuta nascosto per decenni, poi trapelata qui e là, ma solo ora svelata in tutta la sua mostruosa realtà. Che questo sia avvenuto nel paese più cattolico d´Europa, dove la Chiesa ha per lungo tempo sovrastato con la sua influenza ogni aspetto della società civile, è ancora più grave e raccapricciante, commenta la stampa irlandese. Il rapporto non è una lettura facile. «Credevo che mi avrebbero rivoltato le budella», dichiara un testimone. Altri parlano di «predatori sessuali che colpivano sistematicamente e abusavano sessualmente i bambini più vulnerabili». Le vittime erano spesso giovani "difficili", orfani, disabili, abbandonati, che speravano di ricevere dalla Chiesa il conforto che non avevano mai conosciuto e si ritrovavano invece inghiottiti in un feroce cuore di tenebra. La pedofilia e l´abuso sessuale nei confronti dei bambini erano un fatto «endemico», conclude il documento.
Il fatto che questo orrore sia venuto pienamente alla luce, per iniziativa del governo, è un segno di quanto sia cambiata l´Irlanda negli ultimi vent´anni: oggi è colpita come tanti dalla crisi economica, ma è un paese irriconoscibile, trasformato dalla globalizzazione, moderno e aperto. La Chiesa cattolica irlandese piega la testa: il cardinale Sean Brady dice di essere «profondamente dispiaciuto» per gli abusi sessuali. «Mi vergogno che dei bambini abbiano sofferto in un modo così orribile in queste istituzioni», afferma in un comunicato l´arcivescovo di Armagh e Primate di tutta Irlanda.
Tra gli ordini religiosi investigati dalla commissione ci sono anche le Sisters of Our Lady of Charity Refuge, le suore che gestivano la Magdalene Laundry di Dublino, il soggetto dell´omonimo film del 2002. Ma le resistenze di associazioni religiose e del ministero dell´Istruzione hanno prolungato l´inchiesta, cosicché molti dei carnefici sono già morti; e in base a restrizioni legali la commissione non ha potuto nominarli, tranne nei rari casi in cui un prete o una suora abbia già subito una condanna giudiziaria.

Repubblica 21.5.09
Botte, umiliazioni e violenze sessuali nei racconti degli ex bambini
Sadie, Thomas e gli altri "Eravamo i loro schiavi"
di e. f.


"Il Rapporto non basta Quello che oggi chiediamo è che quegli istituti vengano perseguiti dalla giustizia"

LONDRA - Sadie O´Meara aveva 15 anni quando gli ispettori dell´assistenza sociale la strapparono alla madre, che non era sposata - una colpa imperdonabile nell´Irlanda bigotta e clericale del primo dopoguerra - e la consegnarono alle Sisters of Our Lady of Charuty of Refuge, le Magdalene Sisters, le famigerate suore protagoniste del film che tanto scalpore ha suscitato quando è apparso nelle sale di tutto il mondo nel 2002. «Mi misero a lavorare in una delle "Magdalene Laundries", le lavanderie dove ragazze orfane o private della famiglia venivano sfruttate come schiave», racconta. «Ci facevano alzare alle sei del mattino, marciare in un cortile, assistere alla messa, senza mangiare un boccone e neanche bere un bicchiere d´acqua. Ogni mattina c´erano ragazze che svenivano in chiesa per la debolezza». Sadie è una dei testimoni che hanno parlato con la commissione governativa d´inchiesta, per la compilazione del rapporto di 2500 pagine pubblicato ieri a Dublino. «Dormivo in una cella simile a quella di una prigione. La notte mi chiudevano dentro a chiave. C´era un letto di ferro e un secchio d´acqua come unica forma d´igiene. C´erano sbarre alla finestra, da cui si vedeva solo un grigio cortile. Il cibo era immangiabile. E poi la cosa peggiore erano le botte, le umiliazioni costanti, le violenze sessuali. Mia madre morì mentre ero dentro, non me lo dissero nemmeno».
Una sua compagna di sofferenze, che preferisce non rendere pubblico il proprio nome, testimonia gli abusi sessuali a cui era sottoposta dalle suore del medesimo istituto. «Scrissi una lettera per rivelare cosa stava accadendo lì dentro e riuscii a darla a un uomo che ci portava il pane. Ma lui la restituì alla madre superiora, che mi convocò nel suo studio e mi fece picchiare così selvaggiamente da aprirmi delle ferite nella carne viva delle gambe». Thomas Wall, un orfano di Limerick, fu affidato all´orfanatrofio dei Christian Brothers all´età di tre anni. «Da quando ne avevo otto, fui abusato sessualmente e violentato dai sacerdoti dell´istituto», racconta. «Se piacevi a qualcuno, era finita, non avevi scampo. Non c´era modo di nascondersi o difendersi, avevano accesso a te 24 ore su 24. Mi sono rimaste le cicatrici delle percosse che ho subito». Tom Hayes, anche lui orfano, finì nel medesimo orfanotrofio, ma oltre alle violenze dei preti gli toccarono quelle dei ragazzi più grandi: «Era la norma essere svegliato nel mezzo della notte e stuprato dai tuoi compagni. Da adulto non sono più riuscito ad avere rapporti normali». Dice John Kelly, un´altra vittima di abusi sessuali: «Il Rapporto non basta. Vogliamo che quegli istituti siano perseguiti e puniti dalla giustizia».

Corriere della Sera 21.5.09
Un rapporto di 2575 pagine. «Intervenga il Pontefice»
Abusi sui minori irlandesi L’inchiesta del governo accusa gli istituti cattolici
«Migliaia di casi». Il cardinale Brady: provo vergogna
di Fabio Cavalera


LONDRA — Thomas Wall è oggi un signore di sessant’anni e porta dentro di sé l’incubo di quelle giornate trascorse nella scuola-riformatorio gestita dal­la congregazione dei «Fratrum Christianorum», i Brother Chri­stians di Glin, la città irlandese sul fiume Shan­non. Lì dentro la vita quotidiana era segnata dagli orrori. «Ero un bambino e ogni giorno un presu­le abusava di me. No, non c’era modo di evitarlo, era così per tutti, ventiquattro ore su ventiquattro, la tua intimità ve­niva violata». E i piccoli dove­vano piegarsi alle perversioni degli uomini di Chiesa o dei compagni più grandi che ave­vano la «supervisione» nottur­na sulle camerate.

Accadeva pure negli altri isti­tuti della contea di Limerick, sempre sotto l’insegna dei «Fra­trum Chritianorum» il cui mot­to è «Facere e docere», fare e in­segnare. Ma ciò che facevano e insegnavano era qualcosa di or­ribile, di disgustoso. Come an­che in altri collegi dell’Irlanda: ad esempio governati dalle «So­relle della Pietà» le quali scam­biavano le opere di bene per un diritto assoluto di appro­priazione dei minori che impri­gionavano. Sadie O’Meara era un’adolescente: «Mi rinchiude­vano a chiave la sera, il cibo era fetente, alle finestre c’erano le sbarre, mi maltrattavano, non mi dissero neppure che mia madre era morta». Era questa la regola: scuole lager, orfano­trofi lager.

Un rapporto choc di 2575 pa­gine e si alza il sipario su un tea­tro raccapricciante nel quale «stupri, molestie e abusi erano endemici». È durata nove anni l’inchiesta della commissione presieduta dal giudice dell’alta corte, Sean Ryan, e alla fine i ri­sultati rivelano che le «indu­strial schools» irlandesi per 35 mila bambini e ragazzi abban­donati o in difficoltà, devianti o senza più i genitori, un network di 250 istituti organiz­zati dagli ordini religiosi cattoli­ci per oltre mezzo secolo, fino alla chiusura decisa negli Anni Novanta, sono stati il palcosce­nico segreto di crudeltà «che avevano lo scopo di provocare dolore e umiliazione».

Centinaia di testimonianze descrivono il clima di schiavitù e di terrore. In una scuola della contea di Galway, remota, fon­data nel 1885, per decenni tre presuli si sono accaniti contro i giovani. In un’altra la «San Giu­seppe » per i sordi, a Cabra, i su­periori hanno coperto, persino davanti agli ispettori, le scorri­bande punitive sugli ospiti. Sei riformatori hanno accolto mi­ster John Brander, un educato­re. Solamente di facciata. Era un «serial sexual and physical abuser», un maniaco violento. Fino a che ha concluso la «car­riera » in prigione. E al riforma­torio di San Patrizio tenevano addirittura un registro con il diario delle punizioni corporali inflitte dallo «staff religioso». Nella istituzione controllata dalle «Sorelle della Pietà», nel­la contea di Waterford, i ragaz­zi e le ragazze erano malnutriti, in compenso riempiti di alcol.

Uno scandalo che sconquas­sa la Chiesa cattolica nel Regno Unito. Quasi tutti i responsabili degli abusi e delle violenze so­no garantiti da «immunità pe­nale » perché nel 2004 la magi­stratura, su appello delle Con­gregazioni, assicurò l’anonima­to degli aguzzini. Ora i vertici ecclesiali invocano il perdono, promettono il repulisti. Il Pri­mate della Chiesa irlandese, Se­an Brady, è esplicito: «Provo vergogna». Il comitato che tute­la le vittime delle violenze sco­perte dalla commisione si ribel­la. «Tocca al Papa convocare un concistoro speciale per inve­stigare le attività della Chiesa cattolica in Irlanda».

Repubblica 21.5.09
Nuova legge in arrivo. E i vescovi non si oppongono
Testamento biologico la Svizzera batte tutti
di Valerio Gualerzi


Il clero elvetico: "Prendiamo atto, è il frutto della società nella quale viviamo"

BERNA - In un celebre film Orson Welles sentenziava che secoli di pace avevano fatto degli svizzeri un popolo incapace di andare oltre l´invenzione dell´orologio a cucù. Non è vero. «Anni e anni di guerre di religione ci hanno fatto capire che il dialogo è un valore fondamentale», spiega Alberto Bondolfi, docente di Teologia a Losanna. L´ultimo esempio arriva dalla approvazione della riforma del codice civile in materia di diritti del malato con l´introduzione dell´obbligo per tutti i Cantoni di garantire le «direttive anticipate», quello che in Italia chiamiamo testamento biologico.
Se il contenuto delle modifiche ci può essere da esempio, il metodo con cui ci si è arrivati è una vera lezione. «La nuova norma - spiega Olivier Guillod, docente di diritto privato all´Università di Neuchatel - prevede la possibilità di lasciare indicazioni sulle cure mediche alle quali si vuole o non si vuole essere sottoposti in caso di perdita della capacità di intendere e di volere», compresa l´alimentazione e idratazione artificiale. «Si tratta di indicazioni vincolanti - precisa - alle quali il medico deve attenersi». «La norma - ricorda invece Bondolfi - prevede la possibilità di indicare un "rappresentante terapeutico" delle ultime volontà al quale si può dare carta bianca». Ma ciò che visto da Roma appare straordinario è la serena concertazione con la quale si è arrivati a riformulare la legge. Gli svizzeri sono chiamati ad esprimersi via referendum su qualsiasi dettaglio della vita, ma a nessuno è venuto in mente di convocarne uno per fermare la riforma. «La Chiesa cattolica - spiega il professor Andrés-Marie Jerumanis, membro della Commissione bioetica dell´episcopato svizzero - non è voluta entrare nel merito, prendiamo atto che le "direttive anticipate" sono il frutto della società nella quale viviamo: faremo sentire la voce profetica della Chiesa per evitare che questo primo passo ci possa portare alla deriva». Il tanto deriso orologio a cucù degli svizzeri segna un´ora che in Italia non è ancora arrivata.

Corriere della Sera 21.5.09
Un libro di Hans van Wees sullo spirito bellicoso dalla Grecia al fondamentalismo d’oggi: se l’esercito coincide con il popolo
Guerra, madre di tutte le cose (compresa la letteratura)
La lezione da Tucidide a Tacito: senza conflitto non c’è racconto
di Luciano Canfora


Il fenomeno della guerra è talmente cen­trale nelle società antiche, sin dall’epoca greca arcaica, che ogni aspetto della real­tà ruota intorno a essa: dalla inclusione nella cittadinanza dei soli maschi in quanto guerrieri al linguaggio amoroso che si esprime per l’appunto in termini di guerra e conquista. Il riflesso più evidente è nella storiografia: quando non c’è guerra non c’è racconto. Lo di­chiarano con diversa profondità Diodoro di Si­cilia (XII, 26) in epoca cesariana e Cornelio Taci­to, che scrive all’inizio dell’epoca antoniniana ( Annales, IV, 32) e quasi esprime una qualche invidia per gli storici del passato — pensando soprattutto a Tito Livio — che hanno avuto ben altra materia, «guerre gigantesche e terri­bili conflitti civili», e non invece quella «pace immobile e appena appena increspata di con­flitti » che è per l’appunto la sua materia. E in­fatti archetipo di ogni successivo libro di storia fu l’Iliade, nella quale non soltanto la materia privilegiata è la guerra ma non manca nemme­no il «conflitto civile», che lì si presenta come scontro tra i capi, magari per il possesso di una schiava. Per Tucidide, che, secondo Luciano di Samosata, «dettò le norme dello scrivere sto­ria », scrivere storia è innanzitutto scrivere del­la guerra e di quanto le è connesso, a comincia­re dalla guerra civile. E il rapporto col passato per intendere la grandezza del presente lo si misura, secondo lo storico ateniese, comparan­do questa, «grandissima», con le altre guerre.

È stato calcolato (Yvon Garlan) che la città greca di cui conosciamo meglio la storia, Ate­ne, fu mediamente in guerra ogni due o tre an­ni tra il 490 e il 336, cioè nel periodo che per noi è meglio documentato. Ma se allarghiamo lo sguardo ad altri aspetti del reale, non trovia­mo che conferme di questa impostazione men­tale da cui non si può prescindere se si vuol comprendere il fulminante aforisma di Eracli­to secondo cui il Polemos (la guerra) è «padre di tutte le cose». Così la «virtù» ( areté) è, nella poesia greca, innanzitutto «virtù guerresca», e «morire combattendo nelle prime file» è, per Tirteo, la «bella» morte.

«Quando Roma sottomise l’Italia», scrisse il maggior interprete tardo ottocentesco delle ci­viltà antiche, Ulrich von Wilamowitz-Moellen­dorff, «chi vinceva e poi comandava era il po­pulus Romanus, cioè l’esercito romano: poi­ché questo è il significato vero e proprio di po­pulus.

L’esercito coincide con il popolo. Que­sto populus sceglie i suoi magistrati nei comizi centuriati, vale a dire si raduna per compagnie, e ogni centuria o compagnia ha un voto». E de­scrive la «cerimonia» del voto (la cui scarsa cor­rispondenza alla nozione di suffragio «ugua­le » è ben nota) con dettagli determinanti: «I cittadini eleggono i magistrati nel luogo del­l’adunanza e delle esercitazioni militari davan­ti alle porte della città, sul campo di Marte (…). Chi vota porta l’abito di pace, dunque la città è indifesa e perciò vengono collocati corpi di guardia per proteggerli da un improvviso attac­co dei vicini. Questa istituzione è molto antica: implica che un tale pericolo è sempre presen­te ».

Il Wilamowitz spiegava, in linguaggio sem­plice e accattivante, questa realtà di compene­trazione totale tra esercito e popolo agli ufficia­li tedeschi nel Belgio occupato, nel giorno di Pasqua del 1918, in una conferenza, poi pubbli­cata, dal titolo Esercito e popolo negli Stati del­l’antichità.

Le sue parole, che rendono, con ef­ficacia e piena aderenza ai fatti, la situazione antica, avevano, e volevano avere, implicazioni più attuali. Le quali appaiono a noi non poco inquietanti. Larvatamente, e neanche tanto, lo studioso suggeriva, offrendo quella ricostruzio­ne storica, un modello alla Germania in guerra (in quel momento vincente), un modello posi­tivo, volto a squalificare il primato della politi­ca e dei politici professionali sull’esercito in ar­mi. Era, se si vuole, un appoggio a quella che alcuni storici hanno chiamato la «dittatura del generale Ludendorff».

Incrinare questa immagine della realtà anti­ca non è facile. Certo, ci sono state correnti di pensiero volte ad auspicare la «pace comune», soprattutto quando fu chiaro che nessuna ege­monia era più possibile; e certo le occasioni pa­nelleniche (feste di tutti i Greci a Olimpia e al­trove) imponevano una sospensione dei con­flitti, anche se, in tali occasioni, le rivalità laten­ti prendevano non di rado altre forme. Ma non va dimenticato che la più importante cerimo­nia civica annuale in Atene, occasione per un impegnativo intervento autocelebrativo affida­to al politico più in vista, era la sepoltura di co­loro che, nell’anno, erano morti in guerra. Ed è notevole come nei superstiti discorsi legati a tali cerimonie una parte rilevante venga riserva­ta a descrivere come si fa la guerra, e come in­vece la fanno, e vi si preparano, i «nemici».

Come nota Hans van Wees nel suo impegna­tivo e sistematico volume La guerra dei Greci, ora tradotto in italiano dalla Libreria editrice Goriziana (pp. 432, e 30), ogni straniero ( xe­nos)

era potenzialmente una figura percepita come ostile; «nella cultura, nella società, nella politica e nell’economia dei Greci c’era molto che spingeva le comunità a ricorrere alla vio­lenza ». Il pregio di questo libro, molto scrupo­losamente documentato, consiste nel non per­dere mai di vista i dati essenziali (riepilogati in un capitolo intitolato «I Greci contro il mon­do »), ma, al contempo, nel dare rilievo a tutte le sfumature e le distinzioni, indispensabili perché il quadro non risulti unilaterale. Perciò parla anche di «miti» da sfatare: ma il grande pregio non è nei presupposti ideali, è nella rac­colta empirica dei dati.

In effetti il «modello greco» di guerra ine­sausta, di autostima nei confronti del «barba­ro » e di preventiva ostilità e senso di superiori­tà verso di esso, suggestiona da tempo i moder­ni: non solo il solitario Nietzsche, che in epoca di classicismo accomodante e un po’ oleografi­co mise l’accento sulla durezza del Pericle tuci­dideo, esaltatore sia del bene che del male che gli Ateniesi hanno fatto agli altri, ma anche, al tempo nostro, la produzione storiografico-pub­blicistica di un curioso personaggio di succes­so come Victor Davis Hanson ( Massacri e cul­tura. Il volto brutale della guerra). Hanson apri­va

Massacri e cultura (Garzanti) con il capitolo programmatico intitolato «Perché l’Occidente ha vinto», che prende le mosse dalla battaglia di Cunassa e dall’Anabasi senofontea assunta come simbolo del destino di vittoria e della su­periorità dell’Occidente. Hanson compiva, cioè, con il modello Cunassa (dove i Greci vin­cono comunque, anche all’interno di uno schieramento che nel suo complesso perde), la stessa operazione ideologica che avevano fatto i Greci quando avevano stabilito che la vittorio­sa guerra contro Troia era l’antecedente remo­to delle altrettanto vittoriose guerre contro i Persiani. Sembra passata invano la lezione del Mondo e l’Occidente di Arnold Toynbee (Selle­rio), del libro cioè che è stato, alla metà del No­vecento, il migliore antidoto contro il «fonda­mentalismo » occidentalistico (e nessuno so­spetterà che Toynbee fosse un agente del Kgb!). Ben venga dunque un saggio, come quel­lo di van Wees, che, pure con argomenti non sempre persuasivi, delinea la realtà greca della guerra dando alle sfumature tutto lo spazio che meritano.

Repubblica 21.5.09
Oliver Sacks
Mio padre medico si vergognava dei miei libri
di Douwe Draaisma


Sul "Times" era uscita una recensione positiva del mio primo lavoro. Lui mi disse con area funerea: "Sei sul giornale!"

Pubblichiamo parte dell´intervista a Oliver Sacks contenuta nel libro di Douwe Draaisma Le età della memoria (Bruno Mondadori, pagg. 144, euro 15) in uscita in questi giorni. L´autore, psicologo all´università di Groninga, affronta in particolare il fenomeno delle "reminiscenze", cioè quel flusso di ricordi lontani che affiora in tarda età, proprio quando la memoria comincia a funzionare con più difficoltà.

Chi inizia a scrivere la sua autobiografia si mette al lavoro con i suoi ricordi, ma la motivazione che lo spinge a scrivere un´autobiografia sembra spesso la conseguenza di una situazione inversa: sono i ricordi che si mettono al lavoro con lo scrittore.
«Nel 1993, mentre mi avvicinavo al mio sessantesimo compleanno», scrive Oliver Sacks ripensando alla stesura della sua autobiografia Zio Tungsteno, «cominciai a sperimentare un fenomeno curioso, l´emergere spontaneo e non richiesto di ricordi precoci, ricordi rimasti assopiti per più di cinquant´anni. E non solo ricordi, ma veri e propri stati d´animo, idee, atmosfere, e le relative passioni, ricordi soprattutto della mia infanzia».
Quando Oliver Sacks, nell´ottobre del 2005, è venuto a Groninga per una conferenza, ha accettato di rilasciare un´intervista su ciò che il tempo fa ai ricordi e su ciò che i ricordi fanno al tempo. La conversazione, inaspettatamente, ha preso una piega malinconica. Sacks stava male e questo sembrava rafforzare la sua propensione a riflettere sul rapporto con i suoi genitori, sul corso preso dalla propria vita e sulla vecchiaia.
Quarant´anni di America non sono passati invano per Sacks, che si presenta con un berrettino arancione e scarpette da ginnastica cool. Ma senza berretto e con le scarpe sotto il tavolo, seduto davanti a me, c´è di nuovo innegabilmente l´inglese che lui è per nascita. Non vi è traccia di accento americano. Sacks parla con fare timido, con dolcezza e precisione.
«Quando avevo cinquant´anni non avevo ancora mai preso in considerazione la possibilità di scrivere la mia autobiografia. Ma verso il mio sessantesimo compleanno ho notato che cominciavano ad affiorare spontaneamente dei ricordi di avvenimenti, persone, oggetti ai quali non avevo più ripensato dai tempi della mia fanciullezza. In quello stesso periodo mi hanno chiesto di scrivere un pezzo sui musei scientifici di Londra. Quei musei, per la mia formazione, sono stati più importanti di qualsiasi altro corso di studi. Una volta iniziato a scrivere sui musei e anche su mio zio Tungsteno era come, be´, come urinare: non potevo più fer-marmi».
Lei scrive che non riesce ad ascoltare Nachtgesang di Schubert senza dover pensare, "con nitidezza quasi insopportabile", a sua madre che cantava in piedi vicino al pianoforte. Perché "insopportabile"?
«Perché mi rendo conto che lei non c´è più, che questo è il passato, che non puoi tornare al passato, che lei è morta, che quel tempo è morto, ma anche perché c´è un´insopportabile penosità nella musica di Schubert. Dopo la sua morte per un po´ l´unica musica che riuscivo a sopportare era quella di Schubert».
La scrittura dell´autobiografia ha cambiato il suo modo di pensare riguardo alla memoria?
«Già non credevo, per cominciare, che i ricordi si fondassero sulla semplice riattivazione delle tracce cerebrali. I ricordi sono delle ricostruzioni, e il modo in cui si ricostruiscono dipende tra l´altro dall´età. Avevo messo in conto che avrei dimenticato parecchio. Ma la presenza di ricordi, ricordi molto vividi, rivelatisi non tanto ricostruiti quanto completamente fabbricati, mi ha davvero sorpreso.»
Ripensa talvolta al corso preso, professionalmente, dalla sua vita?
«Sì, e pure di recente, nel treno verso Groninga. La vita di un dottore è diversa da quella di un ricercatore. Io dipendo da persone che bussano alla porta, mi telefonano, mi scrivono. C´è di certo meno coerenza nella mia vita. La mia forza creativa risiede, credo, nelle digressioni inventive verso soggetti esotici. Per la mia carriera non avevo in mente un tragitto chiaro. Ma più libri scrivo, più vedo i miei temi in prospettiva. Vedo con maggior chiarezza quale sia il mio orientamento intellettuale, quale sia il mio valore. Adesso posso commuovermi quando dei giovani mi raccontano di aver deciso di diventare dottori dopo aver letto i miei libri alla scuola media. Tuttavia, ora che sono entrato nella mia ottava decade, spero di avvicinare un po´ di più i miei temi tra loro, di cercare una sintesi. I colleghi qualche volta mi chiedono: "Sacks, dov´è la tua teoria?". Ma io non sono portato per le teorie generali, io fornisco i casi e gli esempi che devono formare il materiale per una simile teoria».
E adesso che è stato insignito di tutta una serie di dottorati di ricerca, appartenenze onorarie, premi letterari e scientifici?
«Credo di essere stato un buon dottore per i miei pazienti. Un paio di giorni fa ho visto la signora Herbst. Ho ascoltato con attenzione, suggerito alcune cose, io conosco la mia disciplina come neurologo. Entrambi i miei genitori erano bravi dottori e loro avrebbero visto che anche io sono un buon dottore, pur avendo sensazioni contrastanti su molte cose che facevo. Nel 1970, dopo la pubblicazione di Emicrania, un giorno entrò nella mia stanza mio padre, cinereo, tremante, con il Times in mano: "Sei sul giornale!". Era sconvolto. C´era un pezzo sul mio libro, definito equilibrato e brillante, ma mio padre riteneva che un medico non dovesse finire sul giornale. Vigeva allora un´etica medica rigorosa, con le A proibite: adultery, alcohol, addiction e anche advertisement. Mio padre trovava doloroso il fatto che avessi reso pubblico in tal modo il nostro nome».
Suo padre visse fino al 1990, cambiò mai opinione sulla sua opera?
«In seguito divenne più benevolo, più mite. Forse perché facevo qualcosa che piaceva fare anche a lui, era bravo a scrivere lettere e a raccontare storie. Forse era orgoglioso di me, anche io ero orgoglioso di lui. Era un tipo modesto, troppo modesto. In Inghilterra, nella medicina, c´erano due livelli, i medici di famiglia, che erano gli operai, e gli specialisti, che si sentivano socialmente e intellettualmente al di sopra dei dottori comuni. Ma mio padre nel fare diagnosi era straordinario, vedeva cose che agli specialisti erano sfuggite. Quando raggiunse l´età di novant´anni gli dissero: smetti adesso di fare visite a domicilio. Ma lui replicò: io smetto col resto e continuo con le visite a domicilio. Sfiorò i 95. Dedicò settant´anni di esperienza e dedizione a quelle visite a domicilio. Lasciai l´Inghilterra per andarmene dai miei genitori e da quella rigida gerarchia medica. Volevo spazio, provavo una sorta di risentimento nei loro confronti. Si può leggere quella rabbia "tra le righe" di Zio Tungsteno. Però man mano che invecchi cominci a vedere le cose diversamente. Nutro grande simpatia per le persone che fanno bene il loro lavoro e mio padre lo faceva. Non erano tempi facili e nemmeno io ero un figlio facile. In un certo senso li avevo sorpassati. Ciò mi impauriva e deve aver impaurito anche loro».
Quindi partendo è stato un bravo figlio?
«That´s a way to put it».

l’Unità 21.5.09
Elaine, Neal e gli altri
Un miracolo di storie: l’universo dell’autismo in forma di musical
di Rossella Battisti


C’è il coraggio di una donna dietro al Miracle Project, il «progetto miracoloso» ovvero un musical che ha portato in scena alcuni ragazzi autistici e, in molti modi, ne ha cambiato la vita e le prospettive. La donna è Elaine Hall, scrittrice, attrice, una carriera tra cinema e tv. E un istinto materno fortissimo. Anni fa decise con il marito di adottare un bimbo e in un orfanatrofio russo le finì tra le braccia Neal, biondissimo cucciolo di nemmeno due anni. «Li volevo tutti - ricorda Elaine - ma Neal mi è volato incontro, ci siamo rotolati sul tappeto felici e non ci siamo lasciati più». L’idillio con Neal non si è incrinato neanche pochi mesi dopo, quando il bimbo ha cominciato a mostrare i primi segni della «stranezza». Agitato, nervoso, passava le notti in bianco e con lui la mamma adottiva. Aveva paura di tutto, anche di fare un semplice bagno. La diagnosi arriva alla fine, impietosa e irreversibile: autismo. Sembra che non ci sia niente che lo possa raggiungere in quel suo mondo a parte. Il marito di Elaine cede e divorzia quando Neal ha otto anni. Elaine tiene duro e rilancia. Ha letto che per cercare un contatto con un bambino autistico bisogna seguirlo in quello che fa e allora pensa al teatro e agli attori che non hanno paura di stare dietro ai giochi lunari di Neal. L’esperimento sembra funzionare, Elaine pensa più in grande: estende il progetto, chiama altre famiglie che hanno bambini con lo stesso «mondo segreto» di Neal e prova a coinvolgerli in un musical.
La storia è tutta in un documentario, Autismo: il musical, che è andato in onda ieri sera su Cult (canale 131 di Sky) in prima visione assoluta. Sono frammenti di vita ricostruiti, attraverso filmini di famiglia - quando ancora non era affiorato «il» problema -, testimonianze dal vivo e foto di coppie sorridenti. Come Hilary e Joe, ritratti il giorno delle nozze, lei luminosa con i fiori in mano, lui in bici e una faccia da luna ridente. Poi è arrivata Lexi e dopo mesi di comportamenti anomali, consultazioni pediatriche, dubbi e affanni, quella diagnosi temuta. Ma non è tutto uguale il mondo dei bambini autistici. Il documentario - distribuito dal canale americano Hbo - lo dimostra con grande delicatezza, frugando tra le pieghe delle storie, ricostruendo un tassello alla volta il variegato mosaico dell’autismo. «Il mondo appare triste e spaventoso per i bambini affetti da autismo - spiega Elaine -, provocando in loro un sovraccarico sensoriale che li sgomenta, ecco perché si rifugiano in un mondo tutto loro». C’è chi resta muto, come Neal e chi è loquace come Wyatt. Alcuni sviluppano straordinarie doti in certi ambiti. Altri hanno difficoltà a controllare i loro impulsi. Tutti stentano a comunicare con il mondo nostro, con i ritmi convulsi che non sanno rispettare la delicatezza di creature diverse, con l’omologazione che impone standard rigidi di comportamento e di reazione. Il teatro, con la sua libertà di fantasia e di azione, si è trasformato in un ponte magico per traghettare pensieri ed emozioni. Da figli a genitori. Dagli attori ai bambini. Fra i ragazzi stessi. Lexi, che ora ha 14 anni, ha tirato fuori una voce da usignolo, canta Miracle e fa sapere a Jakob che si è accorta di piacergli e che anche a lei piace un po’... A Wyatt piacerebbe avere amici con cui parlare, quelli che «ti fanno sentire felice dentro», come Henry che però poi si ritrova nel suo paradiso personale fatto dei dinosauri e dei rettili di cui conosce ogni segreto. Rifugiarsi in un mondo proprio è un modo per rifiutare quello che c’è, prepotente, ostile come «quando a scuola i prepotenti che ti fanno le boccacce e ti prendono in giro», ma stare nel proprio mondo, sottolinea Henry, è «come non parlare con nessuno».
La macchina da presa sosta sui volti, sugli sguardi distolti dei ragazzi, sulle rughe d’espressione che segnano le facce delle mamme. Sono loro in prima fila, presenze costanti, lo sguardo come un tic che scruta di continuo impercettibili tracce di comunicazione con i loro figli. La via segreta per arrivare dove non ci sono le parole per dirlo. Sono loro, le donne - per sempre madri, spesso ex mogli - a restare accanto, a sperare di aprire un giorno quella porta. I padri, a volte, rimangono a distanza, da mariti se ne vanno il più delle volte. «Le mamme dei bambini autistici sono monomaniacali, osssessionate dai loro figli», commenta con sincerità disarmante Richard, papà di Adam, un ragazzino irrequieto con l’istinto per la musica (a due anni suonava l’armonica e a sette si è innamorato del violoncello). Richard non ha lasciato Roxane, però si è preso una «pausa» esterna con un’altra donna. «Non c’entra con l’autismo di mio figlio» dice lui. Lei, Roxane, è meno convinta. Quando l’ha saputo gli ha tirato dietro un tavolo di 180 chili. Di certo, Richard non è cambiato tanto da quando si sono sposati, mentre lei che era una strepitosa modella che lavorava anche nelle fiction tv tipo i Jefferson, oggi quasi non la riconosci con quegli occhiali da maestrina stanca, i capelli tirati indietro alla come viene viene. E solo il lampo di un sorriso un po’ amaro, gli occhi felini ricordano la pantera che fu e che si concentra adesso per far uscire fuori dal nido il suo cucciolo timido.
Il «Miracle Project» forse non ha fatto miracoli, ma un raggio di sole lo porta, per una sera e forse più, su quel palco dove Lexi canta, Adam suona il violoncello, Wyatt parla di sé ed Henry dei suoi amati lucertoloni. Tutti insieme, in coro e non più da soli. Dopo il musical, qualcosa è cambiato. I piccoli eroi hanno mosso qualche passo verso il mondo. Anche Neal comunica adesso con mamma Elaine attraverso una macchina parlante e le dice: «ascoltami di più». Mamma Elaine sorride e accanto a lei sorride anche Jeff, il nuovo compagno che l’ha stretta a sé nel 2007. Tutto compreso. Anche Neal.

l’Unità 21.5.09
I pregiudizi e la scienza
Colpito un bimbo su 150


Fino al 1980 l’autismo era un disturbo relativamente raro, diagnosticato negli Stati Uniti su un bambino ogni 10mila. Secondo dati più recenti del Centers for Diseas Control, colpisce un bambino ogni 150. Oggi questa disabilità colpisce lo 0,6 per cento della popolazione. L’Europa (compresi gli stati membri del Consiglio d’Europa) conta circa 5 milioni di persone con autismo. Alla luce dell’aumentare della diffusione l’associazione Autism-Europe ha chiesto che la Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità sia ratificata non solo da pochi, ma da tutti gli Stati membri dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa. L’autismo è un disturbo pervasivo e permanente che altera lo sviluppo cerebrale e si manifesta nella prima infanzia. I sintomi sono diversi: menomazioni dell’interazione sociale, menomazioni della comunicazione, interessi ristretti e comportamenti ripetitivi. Oggi l’evidenza scientifica indica che molti divesi fattori di natura genetica, medica e neurologica sono coinvolti nel determinare l’autismo. L’antico pregiudizio che attribuiva la responsabilità dell’autismo a mancanze genitoriali è stato smentito.

www.AUTISMOPERCHE.IT
L’autismo e i suoi problemi visti dalla parte dei genitori dei soggetti autistici: sul sito internet dell’associazione ufficiale tutti gli studi, i convegni e tutte le news per essere aggiornati sulla sindrome dell’autismo.

Repubblica 21.5.09
La democrazia stressata
di Aldo Schiavone


Una democrazia stressata. Ancora forte e ben in piedi, per fortuna, ma stressata. Credo che questa sia la rappresentazione più corretta del difficile momento istituzionale e politico che stiamo attraversando non da ora, e di cui le cronache degli ultimi giorni stanno rivelando con sin troppa evidenza l´avvio di una nuova fase.
L´Italia incupita e sofferta del tardo berlusconismo ci restituisce l´immagine di una democrazia sottoposta da tempo a una pressione ostinata e potente, che tende deliberatamente a comprimere alcuni suoi caratteri storici fondamentali, fissati peraltro nella Costituzione, e a ridurla a un solo elemento: la persistente vibrazione di consenso (l´espressione è di Ezio Mauro) che continua a legare il popolo al suo leader. Se essa c´è, e se dura, il resto non conta. Anche se si tratta di un resto enorme, che comprende di tutto: dalle sentenze dei giudici ai comportamenti personali, dai giudizi sulla crisi economica («È finita, è finita; tutto è tornato come prima, meglio di prima» sembra abbia detto - e si stenta a crederlo - il nostro premier a Mosca) alle ingiurie a quella stampa, colpevole di fare solo il proprio dovere.
Il pericolo sta nel fatto che questa idea impoverita fino all´estremo della democrazia - un´idea, per così dire, "usa e getta": aderisci e dimentica - se ha modo di diffondersi e di radicarsi, può alla fine diventare senso comune (il senso comune non è sempre buon senso) di un Paese provato e distratto. Di un´Italia disposta a soddisfare il bisogno di un riferimento sicuro - l´esigenza fisiologica di leadership - con l´abbaglio tranquillizzante di aver trovato una guida che non impone la fatica di una valutazione quotidiana, ma che si può accettare, grazie alla forza carismatica del suo successo, una volta per tutte, senza più discuterne. Se questo accadesse - se un tale atteggiamento si consolidasse davvero - ci troveremmo di fronte a qualcosa di simile a un autentico sfondamento culturale del nostro sentire democratico, all´apertura di una falla rischiosa nel tessuto politico della Nazione, dalle conseguenze difficilmente calcolabili.
La battaglia cui siamo chiamati deve essere dunque in questa circostanza anzitutto una battaglia di idee, in difesa di un paradigma di democrazia faticosamente costruito, dal quale non possiamo e non dobbiamo scostarci. Nessuno scandalismo moralistico, e nessun facile giustizialismo: è possibile che i comportamenti del premier risultino alla fine irreprensibili, ed è altrettanto possibile che egli si sia solo imbattuto in giudici che hanno sbagliato, per errore grave o per prevenzione ideologica: può accadere ai comuni cittadini come al presidente del Consiglio. Il problema però non è questo, ma riguarda i princìpi, e dunque tocca indistintamente tutti noi.
Il punto cruciale - depurato da ogni personalismo - attiene al rapporto fra legge e consenso: e dunque, se si vuole, al nesso fra legalità e democrazia. È una questione che tormenta da millenni il pensiero politico, e gli equilibri costituzionali contemporanei rispecchiano, nella loro delicatezza, questo lungo lavorio di esperienze e di elaborazioni. Essi ci dicono che la democrazia non è fatta solo di consenso, anche se non può assolutamente prescinderne, ma altresì di un insieme di regole, senza le quali il consenso non solo non basta, ma può trasformarsi in dispotismo e in sovversione. È accaduto molte volte nella storia. Ed è per questo che persino la sovranità popolare - che pure è il fondamento supremo e ultimo di ogni modello democratico - si può esercitare solo «nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione» (come dispone l´articolo 1 della nostra Carta).
Il consenso perciò - per quanto vasto - non può essere usato come una purificazione, né come scudo rispetto alle leggi, e nemmeno per sfuggire alla critica che anche una minoranza minima ha il pieno diritto di sollevare. L´appello al popolo - cui si è fatto adirato ricorso anche in questi giorni - è dunque quanto meno improprio, e rivela una deriva che può solo gettarci in un mare in tempesta. Democrazia, significa anche primato della legge - "nomos Basileus", la legge come (unico) sovrano. E significa divisione dei poteri, e soprattutto, nel messaggio delle origini, trasparenza del potere: il popolo riunito nelle piazze delle città inondate dal sole della Ionia o dell´Attica, con i governanti al centro, visibili da tutti e non più chiusi negli antichi palazzi persiani o micenei. È su queste idee fondative di divisione e di trasparenza che bisogna oggi insistere, in una grande campagna di responsabilità e di fermezza. Non c´è domanda a cui il potere non debba rispondere, se non nei casi in cui è la legge stessa che lo obbliga a tacere. E quando il passato imprenditoriale - non meno della felicità privata - diventa il contenuto principale della costruzione del proprio carisma politico, è di ogni cosa che si è chiamati a render conto. E bisogna saperlo fare con umiltà e senza vergogna. Fino a dimostrazione contraria, siamo tutti innocenti. Ma bisogna esibirlo nel contraddittorio e non nella fuga; difendendosi - se occorre - "nel" processo, e non "dal" processo.
Nelle società fluide - attraversate da continue e incontrollabili onde mediatiche - il consenso carismatico, fondato sul prevalere di elementi prepolitici piuttosto che sulle articolazioni di una democrazia partecipata, è sempre assai labile. Il tardo berlusconismo ha oscura ma netta consapevolezza di questa friabilità, ed è perciò che comunica un senso di solitudine e di nervosismo, quanto più sembra arrivato al culmine della parabola. Non capisce la crisi, che tenta di esorcizzare con ottimismi gridati al vento, per la stessa ragione per cui non tollera di essere contraddetto: perché ormai è disposto ad accettare solo una realtà addomesticata, che corrisponda ai suoi desideri. Ma fuori c´è il mondo - o almeno, tutto il mondo che non ha comprato, dove è facile che l´ascendente del principe si rovesci di colpo nel suo contrario. Machiavelli vi ha scritto sopra pagine memorabili.

Repubblica 21.5.09
Il Cavaliere, Noemi e la cena a Villa Madama
di Massimo Giannini


Noemi e quella cena a Villa Madama con il Cavaliere e le griffe della moda
Le testimonianze degli invitati ad una serata ufficiale organizzata dalla presidenza del Consiglio

Il presidente del Consiglio continua a non fornire risposte alle dieci domande che Giuseppe D´Avanzo gli ha rivolto su "Repubblica", una settimana fa. Berlusconi continua a opporre l´invettiva, o il silenzio. Negando, o fingendo di non vedere, i palesi risvolti pubblici (e quindi politici) di una vicenda solo all’apparenza privata.
Così, nell´indifferenza costante dei media italiani ma nell´attenzione crescente di quelli stranieri, continuano a risultare inevase le cruciali questioni sollevate dalla moglie del presidente Veronica Lario nel colloquio con Dario Cresto-Dina, le numerose contraddizioni nelle quali è incappato con la vicenda delle candidature alle europee e con il caso della giovane Noemi e della sua partecipazione alla festa di Casoria, raccontata su questo giornale da Conchita Sannino.
La storia si condisce ora di un nuovo capitolo, che ripropone e rafforza le ricostruzioni dissonanti fornite da Berlusconi fino ad oggi. Dopo approfondite verifiche condotte da "Repubblica" presso diverse fonti dirette, risulta quanto segue. La sera del 19 novembre 2008 il presidente del Consiglio, nella splendida cornice romana di Villa Madama, ha ricevuto i più bei nomi dell´imprenditoria del Paese, per una cena ufficiale tra il governo e le grandi firme del Made in Italy. Almeno una sessantina gli invitati, che il premier ha intrattenuto insieme a diversi ministri, da Letta a Tremonti, da Bondi a Fitto. Al suo tavolo da otto, al centro del salone, insieme a stilisti di spicco come Santo Versace e la moglie, Leonardo Ferragamo e la sorella Giovanna, Paolo Zegna e Laudomia Pucci, il Cavaliere ospitava «una splendida ragazza», secondo il racconto di chi c´era. Capelli castano chiari, vestito in lamè. Molto giovane, molto avvenente, sconosciuta a tutti. Berlusconi, secondo la testimonianza di un industriale che ha partecipato all´evento, l´ha presentata ai commensali come «Noemi Letizia, figlia di carissimi amici di Napoli. Sta facendo uno stage - ha aggiunto il premier - ed è qui per conoscere i grandi protagonisti del mondo della moda».
La ragazza ha parlato poco, e ascoltato molto. A un certo punto, secondo la ricostruzione di almeno tre fonti diverse invitate alla cena, ha fatto un rapido giro del salone, mentre l´orchestra suonava musiche americane e francesi. E non è passata inosservata. Uno dei commensali, seduto ad un altro tavolo a fianco all´allora segretario generale della presidenza del Consiglio Mauro Masi, ha chiesto lumi. «Chi è quella ragazza?». La risposta è stata la seguente: «È una cara amica napoletana del presidente. Non era previsto che venisse, ma lui l´ha voluta a tutti i costi, e per questo è stato addirittura necessario rivedere il "placement" del tavolo uno...». Cioè la distribuzione dei posti al tavolo nel quale era seduto il premier. A fine cena, secondo il ricordo dei presenti, sarebbe stata vista allontanarsi su un´auto blu, al seguito dell´Audi A8 nera del premier.
Berlusconi, come ha affermato in diverse interviste, ha dichiarato di non aver mai conosciuto personalmente la ragazza di Casoria, e di averla incontrata un paio di volte, sempre al seguito dei suoi familiari. «Ho avuto occasione di conoscerla tramite i suoi genitori. Questo è tutto», ha detto ai microfoni di "France 2" il 6 maggio. «Sono amico del padre. Punto e basta», ha aggiunto nell´intervista a "La Stampa" il 4 maggio. Con tutta evidenza, la ricostruzione di quanto accaduto quella sera di novembre sembra quindi aprire un´altra faglia nella linea difensiva costruita dal Cavaliere intorno all´intera vicenda. Come Repubblica ha accertato, il premier ha incontrato Noemi - sua ospite a tavola senza genitori - almeno in una circostanza.
Alla luce di tutto questo, ci permettiamo di rilanciare al presidente del Consiglio due delle dieci domande che D´Avanzo gli ha già rivolto. E cioè: «Quando ha avuto modo di conoscere Noemi Letizia?». E «quante volte ha avuto modo di incontrare Noemi Letizia e dove?». E dopo la scoperta che Noemi l´ha accompagnato da sola quel 19 novembre a Villa Madama, mentre a "France 2" il Cavaliere aveva detto di non averla mai vista da sola, potremmo aggiungere anche un altro interrogativo: perché ha mentito agli italiani (e stavolta persino ai francesi)?
m.gianninirepubblica.it

Repubblica 21.5.09
Il Pdl stacca il Pd, crescono Bossi e Di Pietro
Sondaggio Demos: il centrodestra sfiora il 50%. Le due liste di sinistra in ripresa
di Roberto Biorcio e Fabio Bordignon


La campagna elettorale per il 6-7 giugno (europee e amministrative) procede sottotono, senza produrre (per ora) grandi cambiamenti nelle preferenze di voto degli italiani. I risultati dell´ultimo Atlante Politico, realizzato da Demos per Repubblica, confermano l´ampio vantaggio del centro-destra. Ma se lo scarto Pd-Pdl rimane sostanzialmente invariato, rispetto alle stime di marzo, spostamenti più rilevanti sembrano investire i loro alleati e le "terze forze".
Dopo le politiche 2008, il Pd ha subìto una forte emorragia di consensi. A marzo era stimato al 26%. L´adozione di una strategia più "aggressiva" ha permesso di frenare questa tendenza al declino, senza però invertirla. Il sondaggio - realizzato prima che le motivazioni della sentenza Mills - individua, tuttavia, un´area non trascurabile di elettori che, pur avendo scelto il Pd nel 2008, non hanno ancora deciso se riconfermare il voto passato oppure orientarsi su altre forze (o sull´astensione).
A beneficiare dei flussi "in uscita" dal Pd è stato, in una prima fase, soprattutto l´Idv (a marzo sopra l´8%), la cui progressione sembra essersi però arrestata. Riprende quota, invece, la sinistra comunista, che, sebbene divisa, punta a raddoppiare il (magro) bottino di un anno fa. Entrambe le formazioni dell´area rimangono, per ora, poco sotto la soglia di sbarramento del 4%: Prc-Pdci si attesta al 3.7%, Sinistra e libertà al 3.1%. Sotto il 3 per cento sono invece i radicali che corrono da soli. L´Udc, grazie al ruolo "equidistante" assunto dopo il 2008, conferma la crescita registrata a marzo (7%).
Sul fronte di centro-destra, prosegue la marcia di avvicinamento alla soglia simbolica del 50%, soprattutto grazie alla crescita della Lega, che sembra poter sfondare il tetto del 10%. La coalizione berlusconiana si attesta intorno al 49%. Senza contare l´Mpa, il cui patto con la Destra di Storace non pare corrispondere, per ora, alla "somma" dei due partiti (e delle altre forze confluite nel cartello elettorale). Il Pdl conferma il suo largo seguito elettorale (38.8%), mentre cresce la concorrenza interna nella maggioranza, in particolare nelle regioni del Nord.

Corriere della Sera 21.5.09
Le stime Solo il 36% degli italiani «interessato» alla campagna elettorale. Democratici favoriti a Firenze e Bologna
L’ultimo sondaggio Pdl vicino al 40% il Pd tra il 25 e il 27
Europee, avanzano Lega e Di Pietro
di Renato Mannheimer


Le prossime elezioni europee e am­ministrative (che coinvolgono co­muni e provincie di grandi im­portanza) hanno acquisito, col passare del tempo un significato politico sem­pre più ampio e di rilievo. Per molti ver­si, si tratta di una vera e propria mid-term election, una sorta di verifica — finalmente non basata solo su dati di sondaggio — degli attuali rapporti di forza tra i partiti e della loro popolarità nell'elettorato. È del tutto evidente che gli esiti delle consultazioni che si terran­no tra poco più di due settimane condi­zioneranno nettamente — in un modo o nell'altro — lo scenario politico dei prossimi mesi. In particolare, sono de­stinati ad essere verificati il consenso at­tuale per il presidente del Consiglio e il suo partito (messi fortemente in discus­sione, proprio in questi giorni, dai casi Letizia e Mills che, tuttavia, non sembra­no avere incrinato granché la popolari­tà di Berlusconi) e, dall'altro verso, la «tenuta» del Pd, minato da molteplici fratture e discussioni interne.

Nonostante il loro rilievo, si registra sin qui un interesse relativamente mo­desto per la prossima scadenza elettora­le, specie quella europea (le ammini­­strative interessano e coinvolgono in­fatti localmente gran parte della popola­zione). Solo il 36% degli italiani (vale a dire poco più di un cittadino su tre) di­chiara di essere «molto o abbastanza» interessato alla campagna elettorale. Si tratta peraltro grossomodo del livello di interesse riscontrato in occasione del­le passate elezioni europee (era pari al 34%), molto meno della partecipazione alla campagna che ha caratterizzato le consultazioni politiche dell'anno scor­so (si dichiarava interessato il 56%). Ap­paiono più coinvolti nella campagna i possessori di titoli di studio più elevati, le persone di età dai 55 ai 65 anni (la generazione del '68, tradizionalmente più partecipe politicamente), i residen­ti al Nord-Est. Sul piano politico, l'inte­resse per le elezioni risulta molto mag­giore tra gli elettori del centrodestra, un altro segno, forse dello smarrimen­to e della disaffezione presenti nella fila del centrosinistra.

L'incognita, a questo punto, sta nella partecipazione al voto. Malgrado l'85% degli intervistati dichiari di volere anda­re a votare (ma, tra costoro, il 17% con­fessa di non essere proprio certo e dice che lo farà «probabilmente»), è possibi­le che una certa quota, all'ultimo mo­mento, rinunci a recarsi alle urne. Va da sé che l'affluenza potrà avere una rile­vanza fondamentale nel formare gli equilibri di forza tra i diversi partiti.

Per questo, occorre leggere con caute­la i dati degli ultimi sondaggi. Infatti, questi strumenti di analisi non sempre riescono a tenere conto appieno degli effetti del livello di partecipazione. In ogni caso, le stime pubblicate più di re­cente tendono a confermare il successo del Pdl (vicino al 40% anche se, proprio negli ultimi giorni, sembra aver subito un calo relativo di consensi), quello del­la Lega (stimata attorno al 9%) e del­­l’Idv (8-9%). Dall'altro verso, pare «tene­re » anche il Pd, per il quale le ultime ri­levazioni ipotizzano un risultato tra il 25 e il 27%.

Per ciò che concerne le amministra­tive, appaiono sintomatiche le ultime ricerche pubblicate (rispettivamente su Il Resto del Carlino e su La Nazio­ne)

riguardo alle consultazioni comu­nali a Bologna e a Firenze. In entram­bi i casi, il candidato principale del centrosinistra (Delbono e Renzi) vie­ne dato per favorito. Ma, sia a Bolo­gna sia a Firenze, il livello dell'indeci­sione dichiarata non permette sino ad oggi di stabilire definitivamente se si andrà o meno al ballottaggio. Il conno­tato delle «regioni rosse» è finito da tempo.

Il quadro non appare dunque ancora del tutto privo di incertezze. Peraltro, l'alto livello di indecisione traspare an­che dalle stesse risposte degli intervista­ti nei sondaggi. Solo il 55% sostiene, per ciò che riguarda le europee, di vole­re, in questa occasione, scegliere nuova­mente «il partito che voto di solito». Ap­paiono da questo punto di vista più cer­ti i maschi, la solita generazione dai 55 ai 65 anni, gli elettori residenti al cen­tro e, quel che è forse più significativo, i votanti per il Pdl e la Lega. A questo gruppo si contrappone quel 42% che si dichiara oggi indeciso tra diversi partiti o, addirittura, «in alto mare» riguardo alla scelta di voto. Si tratta perlopiù di giovanissimi (ove si riscontra addirittu­ra più del 60% di indecisi) e di casalin­ghe.

Una così diffusa incertezza indica che, come sempre accade — ma questa volta il fenomeno sembra ancora più ac­centuato — gli ultimi quindici giorni di campagna elettorale sono davvero de­terminanti nel definire il risultato.

Repubblica 21.5.09
Le minoranze ribelli che parlano all’Italia in cerca di sicurezza
Due italiani su tre approvano i "respingimenti" dei migranti in mare
Il sondaggio è stato condotto prima che le motivazioni della sentenza Mills investissero Berlusconi
di Ilvo Diamanti


L’Atlante Politico di Demos registra e conferma tendenze già osservate negli ultimi mesi, fra gli elettori. Poco allegre per il centrosinistra e soprattutto per il Pd.
Al di là delle specifiche stime di voto, il clima d´opinione sembra premiare tutte le principali scelte del governo e tutte le azioni del premier. Anche le più discusse e discutibili. Dai respingimenti delle imbarcazioni cariche di immigrati, approvate da oltre 2 italiani su 3 (da 4 su 10 fra gli elettori del Pd e dell´Idv), alle vicende personali e familiari di Berlusconi. Quasi 8 italiani su 10 pensano che il divorzio annunciato e le amicizie femminili del premier siano fatti suoi e di sua moglie.
Va detto che il sondaggio è stato condotto prima della sentenza sul caso Mills, che accusa il premier di corruzione. Anche se dubitiamo che possa scuotere un elettorato largamente immune dal vizio dell´indignazione.
L´emergenza-terremoto, invece, ha esercitato effetti positivi sulla popolarità del governo. Da ciò l´impressione che l´esito delle prossime elezioni europee sia già scritto. Una replica - dai toni più forti - del risultato di un anno fa. Le elezioni europee, tuttavia, non sono mai davvero prevedibili. Perché hanno effetti politici nazionali, ma le loro conseguenze istituzionali riguardano, appunto, il contesto europeo. Per questo sono caratterizzate da un tasso di astensione più elevato del consueto (il 30%, cinque anni fa). Per questo molti elettori usano criteri di scelta diversi. Votano (oppure non votano) in modo più "libero" che in altre consultazioni. Meno attenti alla logica del voto utile e maggiormente disposti, invece, a esprimere un voto a elevato valore simbolico. Che suoni come minaccia, avvertimento oppure auspicio. Per questo, in particolare, conviene guardare anche "dentro" alle coalizioni, dove si gioca una partita altrettanto importante di quella "fra" le coalizioni. In particolare, occorre fare attenzione alla sfida lanciata da Antonio Di Pietro al Pd ma anche a quella, altrettanto esplicita, della Lega contro il Pdl. Di Pietro alle elezioni di un anno fa aveva raggiunto il 4,4%. Oggi, secondo Demos, è quasi raddoppiato. Mentre il Pd è sceso di 7 punti percentuali. Insieme, Pd e Idv raggiungono a fatica il dato ottenuto un anno fa dal Pd da solo. Ma oggi l´Idv costituisce un quarto dei voti di quest´area politica. Circa un terzo rispetto alla base elettorale del Pd. Non un settimo (e anche meno) come un anno fa.
Diverso è il caso della coalizione che sostiene il governo. Il cui partito di riferimento, il Pdl, non sembra aver perduto consensi. Anzi, li sta allargando. Ma la Lega, rispetto a un anno fa, è cresciuta maggiormente. Secondo le stime di Demos, avrebbe superato il 10%, come solo nel 1996 le era capitato. Quando si era presentata da sola contro tutti, agitando la bandiera della secessione. Una minaccia che, in seguito, però, l´avrebbe sospinta ai margini del sistema politico e dell´elettorato. Oggi invece agisce da alleata inquieta, ma fedele, del Pdl. Sta al governo e al tempo stesso assume atteggiamenti da opposizione. E sembra trarne un doppio beneficio. Lega e Idv, quindi, corrono per rafforzare il loro ruolo nella politica del paese ma anzitutto nelle due coalizioni. Mirano a diventare i veri punti di riferimento della maggioranza e dell´opposizione. Soggetti che dettano l´agenda e impongono il linguaggio della politica nazionale. La Lega, d´altronde, oggi è divenuta portabandiera del tema della sicurezza; in modo aggressivo. Rivendica l´autodifesa personale e delle comunità locali. Oggi le ronde. Domani, magari, la liberalizzazione della vendita delle armi. Seguendo il modello americano. Ha, inoltre, assunto il ruolo di guida della lotta contro l´immigrazione clandestina. Anzi, diciamo pure: contro l´immigrazione tout-court. Intanto, ha conquistato il federalismo fiscale. Il suo marchio di fabbrica. Ma oggi sembra maggiormente interessata ad apparire garante della sicurezza e della paura. Perché non c´è domanda di sicurezza senza paura. E viceversa. In questo modo, conta di scavalcare il confine "naturale" del Nord padano. Il Po, appunto. Perché la paura non ha confini.
L´Idv di Di Pietro assorbe e intercetta almeno una parte di questo sentimento. La domanda di sicurezza. Perché, a differenza del Pd, non ha remore a esprimere un linguaggio securitario contro la criminalità comune e l´immigrazione clandestina. Inoltre, pratica la linea della fermezza antiberlusconiana. Senza se e senza ma. Fa l´Opposizione inflessibile. Sempre pronta a manifestare apertamente e rumorosamente la protesta contro il governo. In modo da sottolineare la timidezza degli alleati e da coprire la voce del leader democratico Dario Franceschini. Così, sullo spazio politico, i due partiti sono scivolati via dal centro. Oggi il 50% degli elettori leghisti si colloca a destra. Nel Pdl, invece, un terzo. Per cui la Lega è più a destra del Pdl (dove sono confluiti gli elettori di An). L´Idv, anch´essa, tempo fa, vicina al centro, se ne è allontanata. Il 33% dei suoi elettori oggi si dicono di sinistra, il 34% di centrosinistra. Solo l´8% di centro. Fa concorrenza alla Lega, per linguaggio e inflessibilità (non per i riferimenti di valore). Ma anche alla sinistra radicale.
Lega e Idv, per questo, giocano una partita importante: per sé, per la propria area, per il sistema politico italiano. Di cui ambiscono ad assumere la leadership. Minoranze dominanti di un paese "contro".

il Riformista 21.5.09
Perché fa ancora scandalo il Duce seduttore?
Benito Mussolini aveva carisma. È ora di accettarlo
di Lucetta Scaraffia


Le critiche di Natalia Aspesi al film di Bellocchio derivano dall'impossibilità di ammettere la capacità di seduzione del Duce. Basta con la favola degli italiani stupidi e accecati, ieri con lui e oggi con Berlusconi

In Italia, quando si parla di Mussolini, tutti si agitano ancora, e molto. Come sta avvenendo per il film di Bellocchio presentato a Cannes Vincere, che, come ormai ben si sa, riprende una storia d'amore della sua gioventù con Ida Dansen, dalla quale nacque un figlio, Benito. Il giorno dopo l'anteprima, Natalia Aspesi sgridava il regista su Repubblica, dicendo che era sbagliata la rappresentazione di Benito Mussolini, secondo lei macchiettistico. Peccato però avesse detto, appena qualche riga prima, che nei cinegiornali dell'epoca, che inframezzano la finzione cinematografica, il dittatore vero appariva macchiettistico. Forse la Aspesi non possiede una collezione di fotografie di famiglia, in cui gli uomini di quell'epoca si mostrano con colletti duri e facce feroci in mezzo a donne e bambini, in una rappresentazione esasperata e guerriera della mascolinità che certo poco si addiceva magari a tranquilli borghesi ma che era tipica e ampiamente diffusa. Il mio nonno, che aveva fatto il bersagliere nella prima guerra mondiale, e che era l'uomo più buono che io ricordi di avere conosciuto, nelle foto ha una faccia da cattivo che avrebbe dovuto terrorizzare noi nipoti, che invece lo adoravamo.
Anche l'idea di fascino maschile è molto cambiata: ai nostri occhi appare buffo il grande seduttore Rodolfo Valentino, per cui si sono addirittura suicidate delle donne, mentre troviamo affascinante l'eleganza spiegazzata di un Jeremy Irons e l'autoironia di Sean Connery, tanto per citare solo due seduttori di lungo corso.
Quindi è chiaro questo primo punto: macchiettistico è un comportamento, un modo di proporsi di altri tempi, che oggi ci infastidisce perché non corrisponde per nulla alla nostra concezione della vita, ma che può essere perfettamente autorizzato in un film storico, o meglio addirittura richiesto dal soggetto. Ma quello che disturba la Aspesi, mi viene il dubbio, non è questo, ma piuttosto il fatto che Mussolini viene rappresentato come affascinante sciupafemmine di sinistra invece che il dittatore rigido e imbolsito quale ormai siamo abituati a vedere. Certo, è un mascalzone, ma come ben si sa i mascalzoni sono sempre piaciuti, come ben prova il fatto - verità storica - che la povera Ida Dalsen, se pure non richiesta, vende il suo istituto di bellezza e tutti i suoi averi per fornirgli i soldi necessari a iniziare la pubblicazione del nuovo giornale nazionalista, Il Popolo d'Italia.
Mussolini, quindi, è un seduttore dei primi decenni del 900, con una vita sentimentale complicata e confusa, in cui si barcamena a fatica: l'unica cosa ben chiara è che il suo interesse principale non sono le donne - che pure gli piacciono molto - ma il suo destino futuro, la sua ambizione smisurata di figlio del popolo che vuole disperatamente arrivare in alto, il più alto possibile. In questo senso agli sceneggiatori del film si può imputare un'assenza importante, quella di Margherita Sarfatti, in quegli stessi anni certo la donna più influente nella vita di Mussolini, non tanto per amore, ma perché estremamente utile alla sua scalata sociale. A differenza di Ida e di Rachele, Margherita era una donna colta e ricca, di alta classe sociale, moglie di un avvocato socialista che era stato parlamentare, e soprattutto molto intelligente: non solo è lei che insegna a Mussolini a vestirsi e a mangiare in modo decente, dirozzandolo dal punto di vista sociale, ma è anche una utilissima ed esperta consigliera culturale. È lei che lo mette in contatto con i futuristi - che compaiono nel film - e con vari intellettuali, che gli suggerisce di utilizzare il mito di Roma imperiale e che scrive la biografia Dux, tradotta in molte lingue, che contribuirà in modo decisivo a creare consenso e approvazione intorno al dittatore non solo in Italia. E fu Margherita a suggerirgli di sposare Rachele, e non Ida, perché pensava che una povera contadina le avrebbe dato meno ombra: si sbagliava, però, e le leggi razziali avrebbero dato il colpo definitivo ad una influenza già declinata.
Invece nel film è molto ben ricostruita la figura di Ida, certo vittima di una situazione sbagliata e di un uomo di potere senza cuore, ma anche artefice essa stessa, con la sua fissazione amorosa, della sua fine tragica.
Mussolini non fa certo bella figura, ma neppure risulta un mostro di cattiveria: è un uomo ambivalente ed egoista, e anche un po' vigliacco con le donne, come spesso i seduttori, ma si capisce, almeno, quale fascino abbia potuto esercitare sulle donne, e in generale sugli italiani. Perché non si può continuare a dire che gli italiani che hanno favorito e accettato l'ascesa di Mussolini erano solo stupidi e accecati, esattamente come oggi si dice di chi vota Berlusconi: nella vita politica moderna il fascino carismatico occupa un posto importante, e bisogna farsene una ragione.

il Riformista 21.5.09
Il silenzio su Pannella

Caro direttore, martedì scorso, durante il Tg1 della sera, sono incappato nel viso provato e segnato di Marco Pannella. Era un'immagine silenziosa, di pochissimi secondi, ma dava il senso di una lotta interminabile e inesausta. Pannella è in sciopero totale della fame e della sete per denunciare, appunto, un silenzio: quello dei maggiori media sulla candidatura dei Radicali alle prossime elezioni europee. Un silenzio rappresentato benissimo dal primo tg della Rai: dei pochissimi secondi dedicati alla notizia, più della metà era senza audio! Saltato, soppresso, annullato. Ancora silenzio, nel chiasso dei poteri dominanti.
Paolo Izzo, radical-socialista

Al menù di questa giornata sulla Croisette, la presentazione dell’unico film italiano in competizione quest’anno: Vincere di Marco Bellocchio. E’ un po’ il suo “coming out” di due vittime quasi sconosciute della dittatura, un’amante e figlio ---- nascosto e perseguitato- del Duce…

Ci viene da pensare che l’Italia è ossessionata dalla sua storia!
- Cannes 2008: 3 film sono presentati al pubblico, tutti i tre rivisitano la politica o i problemi sociali italiani di questi ultimi 60 anni. (Gomorra, ispirato dall’inchiesta di Roberto Saviano, sulla Mafia, Il Divo di Paolo Sarrentino, ritratto di un uomo politico, presunto mafioso, emblematico del dopo-guerra italiano et Sanguepazzo, evocazione di un caso poco glorioso – un crimine – della Liberazione.)
- Cannes 2009: l’unico film italiano va ancora dare alla giuria di Cannes l’occasione di ascoltare una lezione di storia contemporanea. Questa volta, ritratto di due vittime del dittatore italiano. Ma non proprio politici, intimi …

Il Mussolini nascosto: amante di un’estetista e militante socialista
Si chiamava Ida Dalser e gestiva un centro estetico a Milano. Suo figlio si chiamava Benito (come Mussolini). Inizialmente sorvegliati dalla polizia, sarebbero stati in seguito rinchiusi, ancora giovani, in ospedali psichiatrici fino alla loro morte. Un mezzo per Mussolini per far sparire questi due scocciatori, perché dicevano – e sembra che lo fossero*- l’una la sua ex amante, l’altro suo figlio nascosto. Il Duce avrebbe quindi avuto una vera doppia vita: così nel 1915, se celebrava il suo matrimonio con Rachele, la sua moglie ufficiale, è anche, in questo stesso anno, che nasce questo Benito, il figlio della sua amante estetista. Qualche rivelazione e inchiesta su questa “famiglia nascosta” del dittatore sono già uscite *, ma niente di meglio di una presentazione sulla Croisette perché il presunto figlio di Mussolini sia finalmente (ri)conosciuto!
Storia di una tragedia – tra tante altre – dell’epoca mussoliniana. Tuttavia, il film non si limita a questo caso privato, si assiste anche alla genesi di Mussolini, giovane socialista prima di diventare un dittatore.
Infine, da notare che il regista è un uomo del cinema italiano dei più impegnati politicamente. Di quasi 70 anni, nato all’inizio della guerra, Marco Bellocchio non ha mai nascosto il suo militanza (di sinistra) e ha anche tentato di farsi eleggere al Parlamento italiano tre anni fa.
Bisognerò aspettare questa sera per conoscere i pareri dei commentatori presenti a Cannes , e domenica prossima per sapere se “Vincere” avrà vinto … contro i suoi 19 altri concorrenti!
Gersende DELCROIX _Martedì 19 maggio 2009

*Nelle sue memorie, la sposa di Benito Mussolini, Rachele Mussolini evoca Ida Irene Dalser come una delle compagne di suo marito; anche su questo argomento, un’inchiesta del giornalista Marco Zeni…
traduzione di Corinne Lebrun

Terra 21.5.09
Vincere nel privato
di Luca Bonaccorsi

È uscito solo ieri nelle sale e ha già scatenato un fiume di inchiostro. Il nuovo film di Marco Bellocchio, Vincere, come tutti i capolavori, però, continuerà a far parlare di sé perché irrompe nell’attuale dibattito politico e culturale come il taglio nella tela di Fontana. Come una tragedia greca non parla né degli anni in cui è ambientato, né di quelli che viviamo. Non parla di comunismo, di ’68 o di socialismo, di destra e di sinistra. Non parla di femminismo né di religione. Eppure parla di tutte queste cose insieme. Lo fa perché va dritto al cuore della questione delle questioni: la donna. E il rapporto tra uomini e donne. Vincere è un film quintessenzialmente laico e femminista. Intelligente, potente e profondo al punto da far apparire meschini e volgari i paralleli con l’attualità dei Berlusconi, delle Veroniche e delle Noemi. Eppure. Il sociologo Ilvo Diamanti, su Repubblica, pochi giorni fa si lamentava di questa irruzione del privato nella sfera pubblica. Bellocchio risponde raccontando il senso del fascismo, ridefinendolo come dimensione personale di distruzione della donna e riduzione di questa a fattrice di pargoli per la gloria della nazione. Ribelle emarginata e schiacciata o moglie stupida e mediocre. Solo due le strade che la storia, scritta dagli uomini, ha lasciato alle donne secondo Bellocchio. Ce n’è da riflettere per tanti di noi: di destra e di sinistra. Laici e cattolici. Precipitato nella dimensione personale, Mussolini diventa ogni uomo incapace di vivere una storia d’amore senza interessi o calcoli. Ogni uomo non in grado di riconoscere alle donne identità e libertà. Ogni uomo incapace di sostenere la dialettica, anche feroce, con la donna. Il nesso tra la dimensione personale e quella politica, tra il mondo degli affetti e le idee, persino tra il sesso e la guerra, esce dalla ricerca personale di Bellocchio per finire nel dibattito italiano. In un contesto in cui il discorso razionale si sfilaccia e la comunicazione domina, in cui la maschera falsa di un premier antico, che dietro moderno cerone e miracoli tricologici, ripropone la cultura che speravamo di aver sconfitto, e miete consensi. In questo contesto, la sinistra non può non approfittarne per cercare, anche nel privato, i motivi di una sconfitta. Perché Berlusconi e Bondi, Gasparri e Cicchitto, ma anche la Veronica e la Carfagna quella bataglia l’hanno persa, nonostante la conquista del potere. Ma la sinistra non l’ha vinta. Personale e politico, rivoluzione e affetti, prassi e teoria. Bellocchio rilancia. Chi saprà raccogliere?