sabato 23 maggio 2009

l’Unità 23.5.09
L’offensiva reazionaria è sempre iniziata così
di Pietro Ingrao


Non sono sorpreso dall’affondo di Berlusconi contro il Parlamento. Ieri e oggi l’attacco alle assemblee è stato e resta un punto qualificante di ogni offensiva reazionaria. Basti pensare alla polemica di fascismo e nazismo contro la democrazia rappresentativa. L’antiparlamentarismo rappresenta un terreno chiave per le ideologie e le correnti autoritarie. Da sempre infatti il Parlamento incarna la difesa delle garanzie e del libero confronto politico. Il che disturba profondamente i conservatori. Non voglio dire che Berlusconi sia fascista, ma certe sue uscite vanno in una direzione allarmante e ben nota. Tutto ciò non significa che non siano necessarie delle modifiche all’ordinamento parlamentare. Un Parlamento di mille rappresentanti, che fanno tutti la stessa cosa, è pletorico. Ma ridurlo a cento persone, come vuole Berlusconi, sarebbe un annichilimento e uno svuotamento. Per fortuna però, su questo emergono allarmi anche a destra. E le parole di Fini a riguardo mi sono parse molto equilibrate. Da cittadino mi rivolgo perciò al Presidente della Repubblica e ai Presidenti delle Camere perché intervengano con decisione a salvaguardia delle istituzioni.

Apcom 22.5.09
Europee/ Ingrao divorzia da Bertinotti
200 firme pro-Prc. Ma per l'ex segretario "la sinistra non c'è"


Roma, 22 mag. (Apcom) - Fausto Bertinotti ha fatto appello a votare per Sinistra e Libertà e per un suo fedelissimo, Roberto Musacchio, anche se ha ammonito a non fermarsi al risultato elettorale perché la sinistra ha bisogno di essere ricostruita dalle fondamenta. Pietro Ingrao invece, dopo anni di percorso comune con l'ex leader del Prc, stavolta si distacca da Bertinotti e firma un appello al voto per la 'lista comunista e anticapitalista', che mette insieme Rifondazione, Comunisti italiani, Socialismo 2000 e Consumatori uniti. Nell'appello sottoscritto da Ingrao, storico leader della sinistra comunista tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta, ci sono circa duecento firme: tra gli altri, il fisico Carlo Bernanrdini, lo psichiatra Luigi Cancrini, lo scrittore Massimo Carlotto, i preti don Franzoni e don Gallo, il costituzionalista Gianni Ferrara, il cantante e attore Massimo Ranieri, il poeta Edoardo Sanguineti, il vignettista Vauro. 'Se sei di sinistra, dillo forte' è il titolo del documento, nel quale si legge tra le motivazioni: "Sosteniamo la lista anticapitalista e comunista per mantenere aperta la strada dell'alternativa, in Italia e in Europa. Un voto utile per proporre un'uscita da sinistra dalla crisi, per rafforzare un'ipotesi di ricostruzione della sinistra basata sulla connessione fra diversi soggetti del conflitto e culture critiche, fra vertenze territoriali e movimenti globali, fra ambiente e lavoro, fra uguaglianza e libertà: una sinistra che non abbia rinunciato ad elaborare un pensiero forte dalla parte dei deboli, alla sfida per l'egemonia e la costruzione di un nuovo senso comune". Bertinotti è schierato con Sl, ma continua a guardare al di là dell'appuntamento elettorale e ha affermato recentemente che "stavolta non ci verrà dal voto la soluzione al problema della costituzione della sinistra". "Il berlusconismo - afferma oggi in una intervista a Ecotv - ha devastato la politica classica e ha portato alla scomparsa della sinistra", della quale l'aggressione al leader della Fiom Gianni Rinaldini, consumatasi qualche giorno fa sul palco della manifestazione sindacale del gruppo Fiat a Torino, è un sintomo: "E' dovuta - spiega - alla solitudine degli operai perché c'è la crisi, ci sono i conflitti ma non c'è la sinistra, bisognerebbe riformare la cassetta degli attrezzi della sinistra". E' la prima volta dal 2005 che si manifesta in modo così significativo un dissenso fra Ingrao e Bertinotti. L'anziano leader, oggi ultranovantenne, iscrivendosi al Prc in occasione del Congresso di Venezia, aveva offerto un prestigioso appoggio alla linea bertinottiana, poi confermato più volte in occasione di appuntamenti elettorali e manifestazioni di piazza. Da quel momento in poi, in più d'una occasione pubblica Ingrao ha manifestato il suo appoggio a Bertinotti. Appoggio che oggi viene meno, dopo la sofferta scelta dell'ex segretario e di una parte dei bertinottiani di lasciare il partito (Nichi Vendola ha poi fondato il Movimento per la Sinistra e dato vita all'alleanza di Sinistra e Libertà).

l’Unità 23.5.09
«Ho visto l’Italia diventare un deserto privo di legalità»
intervista a Marco Pannella di Marco Bucciantini


Pannella beve qualche sorso, ma non assume cibi solidi. Ricorda decenni di battaglie
e non nasconde il dolore per la «strage» dei diritti e delle libertà. «Voglio un’oncia di democrazia»

Il signor Hood è ancora un galantuomo. È pronto a dare la vita per amore. Per la cosa più cara che ha: «La democrazia». Marco Pannella ha ricominciato ad alimentarsi, a sorsi, ancora niente di solido. Dopo sei giorni di digiuno assoluto, un succo di frutta scende giù come gli spinaci per Popeye. Altre volte si è sostentato con il piscio. La camicia bianca abbottonata male e tenuta a pendere fuori dai calzoni sembra una resa. Non è così. Parla come Fidel, per otto ore.
Il sognor Hood è una bella canzone di 30 anni fa che Francesco De Gregori dedicò a Pannella, «un galantuomo sempre ispirato dal sole/ con due pistole caricate a salve/ e un canestro pieno di parole». Parole nuove, aggiungeva nel refrain. «Un politico deve concepire il nuovo, non possiamo raschiare il barile». Lo dice un quasi ottantenne che si ripropone spesso nello stesso immaginario, e che trova penosamente nuovo doversi battere con il corpo, a mani nude e disarmate, con gli occhi azzurri e sgranati e il naso sempre più evidente sul viso scavato.
La scrivania disordinata offre indizi discordanti: c’è il pacchetto di Marlboro rosse, «mai meno di trenta al giorno», c’è il misuratore di pressione fai-da-te, per vedere se il cuore tiene. Ci sono i sigari alla vaniglia che - dice lui - i medici gli hanno consigliato per riattivare la salivazione e che soffiano nell’aria zaffate candide e ne annunciano la presenza. «Sente l’odore? Marco è di là». Le stanze sono raffazzonate ma c’è un calore vero, condiviso. C’è la riunione, Emma Bonino è in collegamento da Milano, Marco Cappato è l’altro uomo del tavolo principale. A ferro di cavallo, davanti, c’è il partito radicale. Si analizza la prestazione di Pannella ad Anno Zero, si programmano le apparizioni future, «quella trasmissione lì quanti la vedono? Sessantamila? Ci andiamo lo stesso?». I radicali hanno dovuto chiedere in carta bollata che fossero blindati i loro spazi negati. Devono recuperare tutto in pochi giorni. In questa normale richiesta di democrazia, Pannella si è esposto al pubblico, giovedì da Santoro, come fosse il compianto di un popolo intero.
Perchè si tortura?
«Dove c’è strage di legalità, c’è strage di popolo. Questo Paese è un deserto. Io lotto, ma sembra il 1938».
Vuole morire? Ha fatto una bella vita, è stato ed è felice, e adesso accetta anche di crepare, magari martire, quasi con gustoso menefreghismo...
«Un cazzo. Sto meglio di quarant’anni fa. I dottori mi trovano più robusto. Non fossi così forte, come potrei stare sei giorni senza bere? (e ride, si è sfidato e ha vinto ancora, Ndr)».
Si è pure operato: lei scherza col fuoco.
«Faccio politica, per strappare un’oncia di democrazia dal regime e riportarla nelle mani della gente».
Ma è felice?
«Sono fortunato, ho passato la vita in mezzo ai compagni radicali, in questo mistero cominciato con Capitini e nutrito negli ultimi anni da incontri importanti, con il buddismo, per esempio. Mi capita di sentire la comunità fra viventi e morti».
È un frasario da bilancio. E sui giornali hanno fatto i “coccodrilli”: il ricordo dell’indefesso difensore dei diritti.
«Sono quarant’anni che politici e giornalisti suonano le mie campane. Per ora, ho sempre accompagnato il campanaro al proprio funerale, al proprio riposo dalla vita pubblica».
Scriva il suo epitaffio.
«Negli anni cinquanta il verboso Pannella componeva poesie di appena 18 parole. Mi ricordo questa, avevo 27 anni: come posso dirvi che vado, senza aver prima deposto un po’ di quello che avete accumulato in me».
Ha reso?
«C’ho provato. Ho amato. Ho fondato questo partito. A quei tempi leggevo Paul Claudel, la sua Connaissance (la conoscenza) e anche la con-naissance: nascere insieme».
50 anni dopo Di Pietro si è preso il vostro voto, quello consapevole, degli scontenti del centro sinistra.
«No, lui è un’altra cosa. Il regime si sceglie gli avversari. Così hanno fatto per anni con Bertinotti, l’ospite più gradito dei talk show di politica. Adesso hanno selezionato Di Pietro, con il suo dito puntato contro il nemico, buono per aggregare i nemici di Berlusconi. E perfetto per compattare i suoi amici, per consentirgli di conservare i voti per comandare».
E le vostre pistole a salve dove scaricano?
«Sugli obiettivi. Mostriamo un corpo indifeso e debole perché non vogliamo vedere i muscoli degli altri. C’interessa trasferire ai cittadini il potere democratico. Abbiamo portato alla Cassazione 100 milioni di firme. La corte ha ammesso 149 referendum».
Ha fatto più referendum o scioperi della fame?
«Boh, siamo lì».
L’hanno accusata di aver sequestrato il referendum, e averlo svilito per abuso.
«Cittadini e potere: le consultazioni popolari avvicinano l’uni all’altro. Questo fluire è lo scorrere della democrazia. Abbiamo parlato dei diritti degli omosessuali, e ci chiamavano “froci”. Adesso vedo che si ascoltano le ragioni degli omofobi».
Il Paese è peggiorato?
«Sì. Ed è il dolore che scava assieme alla felicità. La partitocrazia ha creato un deserto. La prima Repubblica ha inaridito la terra. Berlusconi ha occupato questo vuoto con la sua forza, il potere mediatico, economico. Non è un genio del male. A dire il vero non è neanche un genio. Ma non è fronteggiato da oppositori autoritari. Si sceglie lui con chi duellare».

Repubblica 23.5.09
Istituzioni umiliate
di Nadia Urbinati


Per Berlusconi le assemblee larghe sono dannose. Ma parlamenti troppo esigui non sono una cosa buona per la democrazia
L´Italia si trova vicinissima a una svolta anti-democratica perché si vuole attaccare la divisione dei poteri

Cento deputati piacciono più di seicento al nostro presidente del Consiglio. Non c´è da stupirsi, perché corromperli o assoldarli o semplicemente metterli d´accordo con i suoi propri interessi sarebbe certamente meno costoso e più semplice. La relazione tra assemblee numerose e sicurezza della libertà l´avevano ben capita gli ateniesi di 2.500 anni fa, i quali proprio per evitare le scorciatoie nel nome della celerità di decisione istituirono giurie popolari numerosissime. Il loro intento principale era quello di impedire che nessun cittadino potente potesse condizionare le decisioni a suo piacimento.
Se pensavano che nessuno disponesse di tanti soldi quanti ne sarebbero stati necessari per corrompere seicento giudici (tanti erano i giudici che siedevano nelle loro giurie). E qui siamo di nuovo: il capo dell´esecutivo, abituato a comandare sottoposti e stipendiati, non ama né tollera assemblee larghe di rappresentanti che sono chiamati a rendere conto a nessun individuo o gruppo di individui ma solo alla nazione, la quale non è un padrone ma la fonte della loro autorità. Ma per il capo dell´esecutivo le assemblee larghe sono pletoriche e poi dannose agli interessi di chi decide – ovvero del suo esecutivo.
La logica del capo della maggioranza non è democratica ma è esattamente opposta a quella dei saggi democratici. Le assemblee deliberative devono essere non troppo piccole né troppo grandi, pensavano i Padri fondatori della democrazia americana. Se troppo piccole non possono più svolgere la loro funzione rappresentativa degli interessi più numerosi e diversi e inoltre possono facilmente dar luogo a unanimismi pericolosi o a "cabale" di fazioni. Se troppo grandi non possono svolgere efficacemente la funzione deliberativa, allungando i tempi di decisione e impedendo maggioranze stabili. Ma in nessun caso una manciata di rappresentanti è una cosa buona per la democrazia. La politica non va per nulla d´accordo con la semplificazione, una qualità degli apparati burocratici e di chi è chiamato a eseguire ordini e applicare pedissequamente regole che non fa; non è una qualità dei rappresentanti e dei cittadini che contribuiscono a determinare le scelte politiche con la loro diversa e complessa partecipazione. Semplificazione è una qualità per la "governance" ma non per il "government" – la prima è organizzazione di funzioni che mirano a risolvere problemi specifici; ma il secondo è azione politica che solleva problemi, crea agende di discussione e di proposte, mobilita idee e interessi, e infine decide facendo leggi che tutti, non solo chi siede in Parlamento e non solo chi è parte della maggioranza, deve ubbidire.
L´Italia si trova vicinissima a una svolta anti-democratica. L´attacco al Parlamento è un attacco alla divisione dei poteri e per affermare la centralità, anzi, il dominio di un potere sopra tutti: quello dell´esecutivo, che non ama eseguire o dover rendere conto e vuole fare quel che vuol fare senza impedimenti; che vuole fare tutto, legiferare e eseguire e, magari, anche determinare la giustizia. Semplificazione è l´equivalente di potere incontrastato.
Nel 1924, Gaetano Mosca, un conservatore di tutto rispetto, tenne un discorso memorabile nel Parlamento del Regno. Lui, che aveva sviluppato la teoria forse più corrosiva della democrazia sostenendo, con il soccorso della storia, che quale che sia la forma di governo, tutti i governi hanno come scopo evidente quello di formare e selezionare la classe politica. Che siano le guerre o le elezioni dipende dal tipo di organizzazione sociale, dalle forme di espansione e arricchimento, forme che possono essere violente e dirette oppure pacifiche e per vie di commercio. Nella moderna società di mercato, sosteneva Mosca, l´elezione e l´opinione sono forme più funzionali alla selezione della classe dirigente. Ebbene, questo critico dell´ideologia democratica e parlamentaristica, alla vigilia della fine delle libertà politiche e del parlamentarismo liberale, si schierò in Parlamento in difesa di quella istituzione, di quella forma democratica di selezione della classe politica e di governo. Non luogo in cui si perdeva tempo a chiacchierare o un "bivacco" come Benito Mussolini lo chiamava, ma istituzione di controllo e di monitoraggio senza la quale nessun cittadino poteva più sentirsi sicuro. Tra i conservatori di oggi, tra i moderati (se ancora ce ne sono) chi avrà la stessa saggezza o lo stesso coraggio del conservatore liberale Mosca? La difesa del sistema parlamentare non è una questione che interessa o deve interessare solo l´opposizione. Tutti, tutti indistintamente dovrebbero comprendere il rischio che una società corre quando chi è stato eletto per governare con il sostegno del Parlamento cerca di governare con la connivenza di una assemblea amica.

Repubblica 23.5.09
Iran. La rivoluzione colorata delle donne col velo
di Bernardo Valli


"C´è anche chi dalla stravaganza del velo misura il clima politico del paese"
"Si avverte una fierezza tutta femminile, un mix di emotività e di orgoglio"
"È tempo di elezioni, si vota il 12 giugno, il potere si mostra di manica un po´ più larga"
"Il candidato riformista, Moussavi, è il preferito dalle ragazze"
In molte zone di Teheran l´hijab imposto dalla sharia ora è a fiori, a righe o con le paillettes. E sta diventando una sfida

TEHERAN Una sera, guardando il passeggio in un quartiere a nord della città, un quartiere alto borghese, trovo una somiglianza tra l´Iran sciita e la Polonia cattolica. Non tanto perché in entrambi i paesi la religione è integrata nell´identità nazionale. La mia idea è dettata da considerazioni epidermiche, ma non per questo frivole. Avverto qui, come sentivo a Varsavia nei momenti di tensione davanti alla fierezza femminile, una miscela di emotività e di orgoglio, carica di sensualità. A creare questa sensazione è lo spettacolo delle donne che esibiscono i veli islamici, hijab, imposti dal regime clericale, con una disinvoltura equivalente a una sfida.
Una sfida tutta femminile, intelligente ed elegante, al punto da trasformare un simbolo oscurantista in un copricapo alla moda. E al tempo stesso in un´arma polemica. Con l´andatura sofisticata di modelle impegnate in una sfilata sulla passerella le ragazze esibiscono hijab a tinta unita, di colori vivaci, dal turchese al rosa , dal bianco al rosso vivo, persino il nero lucido diventa una provocazione. Ci sono anche hijab a righe, a paillettes, in armonia con i capelli biondi o corvini. E sono annodati in vario modo: il nodo può essere nascosto o esibito, sulla nuca o sotto il mento. Il velo può anche ricadere sciolto sulle spalle. E lasciare più o meno visibile la capigliatura. Alcune giovani mostrano una frangia che copre la fronte.
C´è chi trova «molto sexy» questa esibizione di hijab. Nuovi conoscenti iraniani vi leggono tanti richiami. Anche politici. Dalla loro varietà, dalla loro stravaganza, di rado sfacciata, mai insolente, a volte ironica, misurano il clima politico del paese. Se gli addetti alla morale si aggirano sfaccendati tra la folla è il segno di un atteggiamento meno bigotto del regime. Quella sera, nel Nord di Teheran, i guardiani del buon costume erano presenti ma ignorati come comparse. Naturalmente parlo di quel che accade nei quartieri borghesi (in quelli popolari prevale il chador) e fuori dagli uffici pubblici, dove la legge impone hijab castigati. E´ tempo di elezioni, si vota il 12 giugno, e quindi, mi dicono, le autorità religiose hanno la manica larga. Poi si vedrà. La libertà, sia pur relativa, nell´uso dell´hijab è fiorita (fiorita è l´espressione esatta), insieme a tante altre più concrete liberalizzazioni, durante gli anni della presidenza "riformista" di Mohammed Khatami, ed è poi stata tollerata, con sbalzi d´umore, anche sotto la presidenza del suo rivale e successore, il "conservatore" Mahmud Ahmadinejad. Quella libertà è un simbolo, una conquista, non trascurabile, della tenace resistenza delle donne. Un simbolo che la brutale svolta del 2005 non ha osato cancellare, temendo di urtare la società in preda a una modernizzazione che non si poteva soffocare del tutto con il controllo clericale.
Il movimento femminile è diventato più combattivo negli ultimi anni ‘80, alla fine della guerra con l´Iraq, durante la quale Khomeini aveva chiesto alle donne di prodigarsi al massimo nel far figli, per compensare la strage dei combattenti. E questo spiega, oggi, l´eccezionale giovinezza della popolazione. Dopo quella guerra, che ha falciato generazioni e ne ha creata una superaffolata di under 25enni, la lotta per l´emancipazione femminile ha ottenuto notevoli successi. Durante gli anni di Khatami (´97- ´05) ha poi contribuito a un risveglio dell´intera società. Ma se da un lato alcune leggi, come quella autorizzante il divorzio per iniziativa della moglie, hanno aumentato i diritti delle donne (maggioranza nelle università) dall´altro la sharia, la legge islamica, resta il riferimento giuridico; una ragazza di 12 anni può andare in prigione ma non può avere il passaporto; e una di 9 anni è passibile di sanzioni penali, mentre un maschio lo è solo a 15.
Come è accaduto in altri campi, anche l´emancipazione femminile è avanzata e arretrata, mi spiegano, con brusche manovre, simili a quelle di un convoglio ferroviario all´incerta ricerca delle rotaie dirette nella giusta direzione. La sconfitta del "riformismo", alle elezioni del 2005, ha segnato l´arresto. Un arresto brutale, avvenuto con il successo del semisconosciuto Ahmadinejad, allora sindaco di Teheran e candidato dell´estrema destra. Il quale ha raccolto il 63% dei voti, contro il 33 di Rafsanjani, candidato della destra pragmatica. Adesso la figura di Khatami riemerge, non come candidato ma come sostenitore ufficiale di Mir-Hossein Moussavi. E Moussavi (67 anni) è senz´altro il preferito di gran parte delle ragazze che passeggiano con i loro variopinti hijab nei quartieri benestanti. Ed anche di molti studenti. Senza contare una buona parte della popolazione urbana. Ma si può contare seriamente su una resurrezione politica di Khatami, vale a dire del suo "riformismo", attraverso Moussavi? Entrambi non sono nel cuore di Ali Khamenei, la Guida suprema, che è il grande elettore. Non pochi sono coscienti del relativo valore del loro voto e per questo pensano di rifugiarsi nel vasto partito dell´astensione. Tanto, dicono, nulla cambierà.
Javad Shamaqdari è sicuro della riconferma di Ahmadinejad alla presidenza della Repubblica. Lo conosce bene, non solo perché è stato suo compagno d´università, alla facoltà di ingegneria, ma perché ha contribuito al suo successo nel 2005. E´ stato il suo art director, vale a dire ha curato la sua campagna elettorale. E´ lui, Shamaqdari, un cinquantenne avanzato, corpulento e barbuto (come lo descrive il New Yorker), che ha costruito il candidato, presentandolo come un amico dei poveri, ansioso di riversare sulle loro miserabili mense una consistente parte del reddito del petrolio, vistoso patrimonio del Paese, riservato fino ad allora alle classi privilegiate. Shamaqdari ha enfatizzato la semplicità di Ahmadinejad, il suo disprezzo per il lusso, il rifiuto di abitare nei palazzi del potere, la scelta di abitare nonostante la carica in una casa qualsiasi, la decisione di donare ai musei (come ha poi fatto) i preziosi tappeti della dimora presidenziale. Al linguaggio populista Ahmadinejad ha affiancato un coerente comportamento popolare, ed altresì l´atteggiamento esemplare di un devoto musulmano, il quale non dimentica mai di cominciare i discorsi con qualche versetto del Corano e si rade la barba solo ogni quattro o cinque giorni. Shamaqdari è certo che gli iraniani non gli rifiuteranno il voto, anche se dopo quattro anni di presidenza il bilancio non è esaltante. L´economia va male, i rapporti internazionali sono pessimi, la corruzione è cresciuta. Ma al tempo stesso le masse tradizionaliste del Paese apprezzano il suo modo di affrontare, di petto, il resto del mondo. Le sue provocazioni non dispiacciono al profondo Iran, nazionalista, orgoglioso e religioso.
Il termine "conservatore", per indicare Ahmadinejad, è relativo. Nel campo conservatore coesistono o si scontrano diverse destre. Un iranologo (Thierry Coville) elenca le tre principali correnti: l´estrema destra, quella tradizionale e quella pragmatica. Il presidente uscente appartiene di pieno diritto all´estrema destra, di cui fanno parte movimenti e organizzazioni che hanno come obiettivo imporre una società basata sulla sharia, e sul velayat-e faqih (il primato del teologo, del giurista religioso, principio fondante della Repubblica islamica), e con una guida considerata come designata da Dio. I suoi militanti sono violentemente anti-occidentali e sono per una jihad interna contro i nemici dell´Islam, definiti "liberali". Vogliono inoltre esportare la rivoluzione. Nella costellazione dell´estrema destra islamica si distingue l´Hezbollah, il Partito di Dio, il quale fa proseliti nelle classi sociali più diseredate. L´estrema destra è presente nei servizi segreti, nella magistratura, nei comandi dei pasdaran, i guardiani della rivoluzione, nelle fondazioni dotate di finanze solide e spesso dedite anche a opere di carità, e negli organismi religiosi che sovrastano lo Stato, come il Consiglio dei guardiani, il cui compito è di verificare, tra l´altro, la compatibilità delle leggi con la sharia. L´estrema destra non ha esitato nel passato a usare la violenza per ridurre alla ragione i "liberali". Pur avendo sempre esercitato una notevole influenza, essa è arrivata al potere per la prima volta con Mahmud Ahmedinejad ( che oggi ha 53 anni).
La destra tradizionale, in cui si possono includere tanti movimenti, non è molto distante dall´estrema destra, rifiuta l´occidentalizzazione della società, difende l´ordine morale islamico, ma è favorevole alla libera impresa e non si oppone ai rapporti con il resto del mondo. Ali Khamenei, la Guida suprema, ne è un´espressione. Della destra pragmatica fanno parte uomini d´affari e tecnocrati, che pur nel rispetto dei principi islamici, vorrebbero un controllo delle autorità dello Stato sui religiosi. L´ex presidente Rafsandjani, sconfitto da Ahmadinejad nel 2005, spesso accusato di eccessivo "affarismo", è esponente di questa destra pragmatica.
Altrettanto relativa è la definizione di "riformisti". Anzitutto, dovendo agire nell´ambito della Repubblica islamica, senza mettere in discussione le sue fondamenta, non si vede come si possa riformare il sistema. Khatami ha deluso i suoi sostenitori per non avere osato riformare neppure le istituzioni politiche. Con il termine di "riformisti" si indicano comunque gli appartenenti alle varie tendenze della sinistra islamica. Alle cui origini c´è il sociologo e filosofo Shariati che cercò di conciliare Islam e marxismo. Morto prima della rivoluzione, Shariati dominava con i suoi giganteschi ritratti le manifestazioni contro lo shah che vedevo sfilare per le strade di Teheran nell´estate e autunno 1978. La sua immagine comparve prima di quella di Khomeini. Dopo aver sostenuto con rigore i principi della Repubblica islamica, il dovere di esportare la rivoluzione, e un´economia redistributrice basata su forti interventi dello Stato, la sinistra ha compiuto una svolta negli anni ‘90 quando ha chiesto la democratizzazione del sistema politico. Domanda che ha attirato l´adesione delle classi medie urbane, e di larga parte degli studenti il cui numero si è moltiplicato nei trent´anni della rivoluzione, Ma i "riformisti" hanno perduto molti sostegni all´inizio degli anni Duemila, per la loro incapacità di attuare riforme concrete nelle istituzioni politiche. Adesso, dopo quattro di anni di governo dell´estrema destra, la sinistra tenta una difficile rivincita con l´ex primo ministro Mir-Hossein Moussavi, un intellettuale, come il suo sostenitore Khatami.
(3 - fine. Le precedenti puntate sono state pubblicate il 13 e il 18 maggio)

Repubblica 23.5.09
Se la storia diventa un museo
il novecento e la memoria. Un saggio di Tony Judt


Nelle ricostruzioni del secolo prevale l´aspetto commemorativo Un modo per liquidare le lezioni che se ne possono trarre
Un racconto fatto con leggerezza Sperando solo che si possa aprire un´era migliore
Un atteggiamento nostalgico e celebrativo che allontana dalla vera comprensione

Non abbiamo fatto in tempo a lasciarci alle spalle il ventesimo secolo, che i suoi dissidi e i suoi dogmi, i suoi ideali e le sue paure stanno già scivolando nelle tenebre dell´oblio. Invocate continuamente come «lezioni», in realtà queste vengono ignorate e non insegnate. La cosa non dovrebbe sorprenderci più di tanto. Il passato recente è il più difficile da conoscere e comprendere. Va detto, inoltre, che dopo il 1989 il mondo ha subìto notevoli trasformazioni, e i cambiamenti provocano sempre un senso di distanza e di distacco in coloro che ricordano com´erano prima le cose.
Nei decenni successivi alla Rivoluzione francese, i commentatori più anziani sentivano una gran nostalgia della douceur de vivre del defunto ancien régime. Un secolo dopo, le commemorazioni e i ricordi dell´Europa precedente alla Prima guerra mondiale celebravano (e ancora celebrano) una civiltà perduta, un mondo le cui illusioni erano state letteralmente spazzate via: «Never such innocence again».
Ma c´è una differenza. I contemporanei potevano anche rimpiangere il mondo così com´era prima della Rivoluzione francese, o lo scomparso clima culturale e politico dell´Europa prima dell´agosto 1914, ma non li avevano dimenticati. Tutt´altro: per buona parte del diciannovesimo secolo, gli europei furono ossessionati dalle cause e dal significato delle trasformazioni rivoluzionarie francesi. I dibattiti filosofici e politici dell´Illuminismo non si consumarono durante i fuochi della rivoluzione. Al contrario, la Rivoluzione francese e le sue conseguenze furono largamente attribuite all´Illuminismo che dunque era riconosciuto, tanto dai sostenitori quanto dai detrattori, come l´origine dei dogmi politici e dei programmi sociali del secolo successivo.
Allo stesso modo, mentre tutti concordavano che dopo il 1918 le cose non sarebbero state mai più le stesse, la forma concreta che il mondo postbellico avrebbe dovuto prendere era unanimemente concepita e criticata all´ombra del pensiero e dell´esperienza del diciannovesimo secolo. L´economia neoclassica, il liberalismo, il marxismo (e il suo figliastro, il comunismo), la «rivoluzione», la borghesia e il proletariato, l´imperialismo e l´«industrialismo» – in breve, i fondamenti del mondo politico del ventesimo secolo – erano creazioni del diciannovesimo secolo. Anche chi, come Virginia Woolf, credeva che «intorno al dicembre del 1910 mutò la condizione umana», che la confusione culturale dell´Europa fin de siècle avesse modificato radicalmente i termini dello scambio intellettuale, dedicava una sorprendente quantità di energia a lottare con i fantasmi dei loro predecessori. Il passato incombeva minacciosamente sul presente.
Oggi, al contrario, prendiamo il secolo scorso con leggerezza. Certo, lo commemoriamo in ogni modo: musei, santuari, iscrizioni, «patrimoni dell´umanità», persino parchi tematici storici sono promemoria pubblici del «Passato». Ma c´è una qualità straordinariamente selettiva del ventesimo secolo che abbiamo scelto di ricordare. La grande maggioranza dei luoghi della memoria del ventesimo secolo sono dichiaratamente di carattere nostalgico-trionfalista – esaltano uomini illustri e celebrano famose vittorie – o, il più delle volte, sono opportunità per riconoscere e ricordare una sofferenza selettiva. In quest´ultimo caso, sono l´occasione per insegnare un certo tipo di lezione politica: su quel che è stato fatto e non dovrebbe mai essere dimenticato, su errori che sono stati commessi e non dovrebbero essere ripetuti.
Il ventesimo secolo è quindi sulla buona strada per diventare un palazzo della memoria morale: una Camera degli Orrori Storici di valore pedagogico le cui stazioni sono «Monaco», «Pearl Harbor», «Auschwitz», «Gulag», «Armenia», «Bosnia», «Ruanda»; con l´«11 settembre» come una specie di coda superflua, un poscritto sanguinoso per chi avrà dimenticato le lezioni del secolo passato o per coloro che non le avranno apprese a dovere. Il problema con questa rappresentazione lapidaria del secolo appena trascorso come un periodo eccezionalmente nefasto dal quale, fortunatamente, siamo usciti non è la sua descrizione – il ventesimo secolo è stato sotto diversi aspetti un´epoca realmente orribile, un´età di brutalità e di sofferenze di massa che forse non ha precedenti negli annali degli storici. Il problema è nel messaggio: che ormai ci siamo lasciati tutto alle spalle, che il suo significato è chiaro e che adesso dobbiamo entrare – liberi dal peso degli errori del passato – in un´epoca nuova e migliore.
Ma queste commemorazioni ufficiali, per quanto animate da buone intenzioni, non migliorano la comprensione e la consapevolezza del passato. Sono surrogati. Invece di insegnare ai bambini la storia recente, li accompagniamo nei musei e a visitare i monumenti. Peggio ancora, incoraggiamo i cittadini e gli studenti a vedere il passato – e i suoi insegnamenti – attraverso il particolare vettore delle loro sofferenze personali (o dei loro antenati). Oggi, l´interpretazione «comune» del passato recente è dunque composta da tanti frammenti di passati distinti, ognuno dei quali (ebreo, polacco, serbo, armeno, tedesco, asiatico-americano, palestinese, irlandese, omosessuale...) è caratterizzato da una condizione assertiva e distintiva di vittima.
Il mosaico conseguente non ci lega a un passato comune, ce ne allontana. Qualunque fossero le carenze dei vecchi racconti [narratives] nazionali che in passato venivano insegnati nelle scuole, per quanto selettiva fosse la loro centralità e strumentale il loro messaggio, almeno avevano il vantaggio di fornire alla nazione i riferimenti del passato per vivere nel presente. La storia tradizionale, così come è stata insegnata a generazioni di alunni e studenti, dava un significato al presente riallacciandosi al passato: i nomi, i luoghi, le iscrizioni, le idee e le illusioni di oggi potrebbero essere inseriti in un racconto memorizzato dello ieri. Ai giorni nostri, tuttavia, questo processo si è invertito. Il passato non ha una forma narrativa propria. Assume un significato solo in riferimento alle numerose e spesso contrastanti inquietudini del presente.
Senza dubbio, questo sconcertante carattere atipico del passato - al punto che, prima di poterlo avvicinare, dobbiamo addomesticarlo con qualche significato o lezione del nostro tempo - è in parte il risultato della velocità dei cambiamenti contemporanei. La "globalizzazione", un termine che comprende qualsiasi cosa, da internet alla scala senza precedenti degli scambi economici transnazionali, ha scombussolato la vita della gente in modi che i nostri genitori o nonni stenterebbero a immaginare. Molto di quello che per decenni, secoli persino, è sembrato familiare e permanente, adesso si sta rapidamente dirigendo verso l´oblio.

Corriere della Sera 23.5.09
Un articolo del Premio Nobel: lo studio del genoma sta cambiando il mondo
Ho messo in rete il mio Dna Solo così saremo in grado di capire le nostre differenze
Watson: no a imposizioni, la genetica resti libera
di James D. Watson


Il Premio Nobel James D. Watson ha ricevuto il Pre­mio Capo d’Orlando asse­gnato a Vico Equense (Na) da un comitato scientifico guidato dal Nobel Riccardo Giacconi. Pubblichiamo il testo scritto per l’occasione

Proprio come Barack Obama, io stesso sono un prodotto di Chica­go- sud, essendo cresciuto in due ca­mere e cucina del quartiere di Sou­th Shore, dove i libri, gli uccelli e Franklin Delano Roosevelt ci per­mettevano di guardare con fiducia al futuro. Da mio padre e da mia ma­dre ereditai i quattro valori familia­ri di base: la ricerca della conoscen­za, l'onestà, la lealtà verso il prossi­mo e la responsabilità civile nei ri­guardi dei meno fortunati.

Solo venti minuti di macchina mi separavano dalla grande univer­sità di Chicago. Lì, fra il 1943 e il 1947, mi immersi nei Grandi Libri del suo carismatico Rettore, Robert Maynard Hutchins, e divenni schia­vo dell'incessante bisogno di risol­vere dispute usando la ragione e sfruttando le conoscenze del passa­to e del presente, giungendo così ad affrontare i problemi di oggigior­no. Nei miei primi anni di universi­tà la mia giovanile passione per la storia naturale mi portò a specializ­zarmi in zoologia, incontrando così le leggi di Mendel sull'ereditarietà. Grazie a queste, mi resi conto di non essere soltanto il risultato dell' educazione datami dai miei genito­ri, né dell'eccellenza dei miei inse­gnanti e dei libri. Forse ero solo il prodotto della natura: il complesso di geni trasmessi da mia madre e mio padre.

A metà degli Anni 80, il dilemma ambiente/genetica mi investì con maggior forza, quando scoprimmo che il nostro altrimenti intelligentis­simo figlio Rufus non era in grado di scrivere saggi sufficientemente coerenti quand'era all'università di Exeter. Forse che mia moglie Liz ed io avevamo posto su di lui una pres­sione eccessiva affinché eccellesse all'università? O aveva piuttosto ere­ditato un gene difettoso da uno dei due, o ancora era diventato vittima di nuovi eventi mutazionali?

Avevo quindi abbondantemente ragione di diventare un pioniere del Progetto Genoma Umano, in quel periodo appena proposto. I progressi delle tecnologie di se­quenzializzazione del Dna in quel momento lasciavano sperare di po­ter ordinare esattamente i tre miliar­di di lettere del messaggio genetico umano, in soli 15 anni e con fondi per tre miliardi di dollari. A partire dall'autunno del 1988, per quattro anni, oltre al mio lavoro a Cold Spring Harbor, sono stato a Washin­gton a collaborare per il lancio del progetto. Per la gioia di tutti, il pro­getto fu completato nel 2003. Oggi, grazie ai sempre più rapidi progres­si delle tecnologie del Dna, la nuova era dei genomi personali ci fornirà solide argomentazioni per risolvere razionalmente la controversia natu­ra/ ambiente.

Il mio genoma personale fu il pri­mo ad essere studiato, avendolo messo a disposizione di tutti su In­ternet nel 2007. Quando Jonathan Rothberg, il fondatore del 454 Life Sciences di New Haven, venne nel mio ufficio per chiedermi se avessi permesso di sequenziare il mio Dna, acconsentii immediatamente. Essere sequenziato non era una que­stione di vanità personale, ma era una necessità molto personale. Mi resi conto che fra i suoi tre miliardi di informazioni genetiche ci sareb­bero potuti essere gli indizi che un giorno avrebbero permesso a Rufus di condurre un'esistenza più indi­pendente o all'altro mio meraviglio­so figlio Duncan di affrontare il fu­turo con maggiore sicurezza. Da so­lo o anche con l'aiuto di molti ami­ci, non sarei stato capace di inter­pretare i dettagli straordinariamen­te complessi del mio genoma perso­nale. Meglio metterlo sul web e rice­vere l'aiuto di tutti i ricercatori del mondo per capire com'era fatto. Il mio genoma personale è costato un milione di dollari. Oggi, grazie a tec­nologie sempre più moderne, non si spendono più di 100.000 dollari. In meno di dieci anni, con 100 dolla­ri ciascuno potrà acquistare il pro­prio genoma.

Le uniche sequenze genetiche che non volevo che qualcuno (me compreso) potesse conoscere era­no quelle dei miei due geni Apo E, le cui varianti specifiche predispon­gono fortemente al morbo di Alzhei­mer. Proprio dopo che fu scoperta la Doppia Elica, mia nonna Nana morì a novant'anni con questa brut­ta malattia che distrugge il cervello. Se dietro ai suoi ultimi difficili anni di vita c'è stata una variante del ge­ne Apo E, c'è una probabilità su quattro che io vi sia predisposto.

Più determinante per il mio be­nessere immediato fu l'apprendere dal mio genoma che avevo due co­pie della variante 10 (allele) dell'im­portante gene citocromo farma­co- metabolizzante (CYP2D6), che si incontra molto più facilmente nelle popolazioni asiatiche che in quelle caucasiche, dove predomina l'allele 1. Gli individui che possiedono gli alleli 10 metabolizzano più lenta­mente molti importanti farmaci me­dicinali rispetto alle persone che hanno la variante 1. Meglio tardi che mai, ho imparato che i betabloc­canti, che prendevo per abbassare la pressione arteriosa, mi facevano venire sonno, quindi li ho abbando­nati.

La società trarrà enormi benefici se altri individui, oltre a Craig Ven­ter e me stesso, renderanno pubbli­co il loro genoma. Solo quando cen­tinaia di migliaia di genomi saran­no studiati approfonditamente, po­tremo cominciare a comprendere il significato di molte, molte differen­ze sequenziali che distinguono un essere umano dall'altro. Spero tan­to che la decisione di sequenziare il nostro genoma o quello di bambini affetti da particolari patologie resti una decisione personale, non un'im­posizione dettata dall'alto di autori­tà regolamentari. Che la genetica re­sti libera, così che ci possa aiutare a costruire un mondo migliore.

Rabbrividisco al pensiero di un futuro in cui comitati di «saggi» mi dicano quello che è bene per me e la mia famiglia. Mentre il governo può essere sicuramente l'ente più appropriato per costruire le nostre autostrade o gestire le nostre prigio­ni, non può certo essere quello che ci dice che cosa fare delle nostre co­noscenze genetiche. Il modo in cui risponderemo ai tanti dilemmi im­pegnativi che il futuro ci porrà in questo campo, dovrebbe dipendere dai nostri valori personali. Per il fu­turo prevedibile, gli Stati Uniti po­trebbero saggiamente seguire il vec­chio suggerimento del pioniere del genoma, Maynard Olson, che ha chiuso la recente conferenza sul Ge­noma Personale al Cold Spring Har­bor Laboratory incitando tutti a «Democratizzare, Decentrare e Darwinizzare» approcci futuri per la gestione delle informazioni gene­tiche.

Corriere della Sera 23.5.09
Perché i teologi non capirono Galileo
Dibattiti Il teorico delle particelle, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, giudica gli errori che portarono al processo
Alla Chiesa del Seicento mancò un pensatore illuminato come Tommaso d’Aquino
di Nicola Cabibbo


Quando nel 1610 si spostò da Padova a Firenze presso la corte dei Medici, Galilei insistè per ricevere il titolo di Filosofo e Matematico primario del Gran duca. Non solo Matematico, come Ke­plero presso la corte imperiale di Praga, ma anche e anzitutto Filosofo. Questa richiesta è fondamentale per capire la vastità del pro­getto galileiano: una scienza che non si ac­contenta di esplorare e descrivere fenomeni ma aspira a una comprensione totalizzante della natura. Un tale programma diviene ne­cessariamente una filosofia; alla sua base il famoso passo de Il saggiatore (Feltrinelli) in cui Galilei afferma che il grande libro della natura è scritto in caratteri matematici. È dal­la matematica che bisogna ripartire per capi­re il mondo.

Gli sviluppi della scienza e delle tecniche, rappresentati da scienziati come Nicola Co­pernico o William Gilbert, o dai grandi scien­ziati- artisti-ingegneri del Rinascimento ita­liano, da Leonardo a Guidobaldo del Monte, non potevano essere inquadrati nella filoso­fia allora dominante, quella di Aristotele. In Aristotele la natura era descritta in termini di «forma» e «sostanza», concetti che non permettono di andare oltre una discussione puramente qualitativa dei fenomeni natura­li. Il passaggio dal qualitativo al quantitativo richiedeva una filosofia diversa, quella di Pi­tagora, secondo cui tutto è numero.

Ancora oggi l’innegabile successo della de­scrizione matematica della natura è fonte di meraviglia. Quando nel 1960 Eugene Wigner, uno dei padri della meccanica quan­tistica, scrisse un saggio, ormai divenuto un classico, sulla Irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali dovette conchiudere che «we do not know why our theories work so well», non sappiamo per­ché la matematica funzioni così bene.

La nuova filosofia della natura si scontra­va quindi con quella dominante, ma anche con il pensiero teologico che, tramite la sco­lastica, proprio nella filosofia di Aristotele aveva trovato le sue fondamenta razionali.

Essere contro Aristotele nel Seicento era estremamente rischioso. Come sappiamo, lo scontro portò alla messa all’indice delle opere di Copernico nel 1616 e al processo contro Galilei del 1633. Lo sviluppo delle co­noscenze scientifiche che si trasformava ne­cessariamente in filosofia della natura aveva gettato un forte sospetto di eresia su Galileo e i suoi seguaci. Alla Chiesa mancò all’inizio del Seicento una personalità del calibro in­tellettuale di un Tommaso d’Aquino, che sa­pesse valutare correttamente l’impatto filo­sofico della nuova scienza, a cominciare dal­le scoperte astronomiche di Galilei del 1609. Fondamento del metodo di Galilei è un’immagine del funzionamento della natu­ra in cui inquadrare i fenomeni particolari. Galilei è atomista convinto, vede tutta la materia come composta da particelle che si muovono nel vuoto, e questa immagine del mondo guida la sua ricerca. L’atomi­smo fa da sfondo agli studi sul galleggiamento, è centrale ne Il saggiatore, e ispira la discussio­ne della resistenza dei materia­li nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuo­ve scienze del 1637. Non soltan­to il pitagorismo, anche l’atomi­smo si scontra con Aristotele.

Come ha dimostrato Pietro Redondi, nel suo Galileo ereti­co (Einaudi), l’atomismo di Ga­lilei giocò un ruolo non indiffe­rente dietro le quinte del pro­cesso del 1633. Galilei era con­vinto che tutta la materia, sia sulla terra che nei corpi celesti, obbedisce alle stesse leggi. E questa convinzione, conferma­ta dalle sue scoperte astronomi­che, lo aveva portato al sistema copernicano, secondo cui la ter­ra gira intorno al sole e ruota su se stessa.

Un elemento essenziale del metodo di Galilei consiste nel semplificare al massimo i feno­meni che si desidera studiare, sfrondandoli per quanto possi­bile da effetti secondari che oscurano il risultato cercato.

Per studiare la legge che regola il moto dei corpi conviene concentrarsi su oggetti pesanti, meno influenzati dalla resi­stenza dell’aria. E poi conviene rallentare la velocità della caduta, studiando il rotola­mento su un piano inclinato. L’ultimo passo consiste nello studiare il moto di un pendo­lo, che elimina l’attrito.

Affrontando lo stesso problema da più punti di vista, in condizioni sperimentali di­verse — il moto di un proiettile, il rotola­mento su un piano inclinato, il pendolo — Galilei arriva a isolare il cuore del fenome­no, a determinare le leggi del moto. I Discor­si e dimostrazioni matemati­che intorno a due nuove scien­ze contengono alcuni bellissi­mi esempi di esperimenti men­tali. Si tratta di uno strumento del tutto originale, che è forse il massimo contributo di Gali­lei allo sviluppo delle scienze: immaginare un esperimento, anche se non facilmente realiz­zabile, il cui risultato è tuttavia evidente. Un esempio tra tanti: se un oggetto si muove verso il basso, il suo moto è accelerato, se si muove verso l’alto il moto è ritardato, quindi Galileo può affermare che su un piano oriz­zontale l’oggetto non sarebbe né accelerato né ritardato, ma si muoverebbe a velocità co­stante. Tanto evidente è questa conclusione che non è necessa­rio eseguire l’esperimento. An­zi l’esperimento non riuscireb­be perché non è possibile elimi­nare del tutto l’attrito, ma la conclusione resta.

Esperimenti mentali di que­sto tipo sono alla base della sco­perta della gravitazione univer­sale di Newton — la Luna cade come una mela? — o della teo­ria della gravità di Einstein — che cosa succede in un ascenso­re in caduta libera?

La fertilità del lavoro di Gali­leo per lo sviluppo delle scien­ze è impressionante, e si svilup­pa già nei decenni successivi al­la sua scomparsa. Nelle ricerche di Galilei troviamo i semi della scoperta del barome­tro di Torricelli, o della legge della gravita­zione universale di Newton.

Intorno al 1675 Giovanni Cassini e il dane­se Ole Rømer, che studiavano un metodo proposto da Galilei per la determinazione della longitudine, osservarono delle irregola­rità nel periodo di rotazione dei satelliti di Giove. Ottennero così la prima misura della velocità della luce, rispondendo a una preci­sa domanda posta da Galilei nei Discorsi. È conoscendo la velocità della luce che James Bradley, studiando l’aberrazione stellare, un piccolo spostamento della posizione appa­rente delle stelle, potè trovare nel 1729 una dimostrazione del moto della terra intorno al sole, quella dimostrazione che Galilei ave­va inutilmente cercato cent’anni prima.


l’Unità 23.5.09
Partita doppia per Beato Angelico
di Renato Barilli


A 500 anni dalla morte di Fra’ Giovanni da Fiesole una mostra a Roma
con opere che arrivano da lontano

550 anni dalla morte di un personaggio illustre sono una ricorrenza alquanto artificiosa, se oltretutto viene realizzata ancora qualche anno dopo, come è nel caso di Fra’ Giovanni da Fiesole, universalmente noto sotto lo pseudonimo del Beato Angelico (1395-1455), ma il pretesto è opportuno in quanto consente di rifare i conti con una figura d’artista un po’ trascurata dalla critica, e di rendergli omaggio a Roma, tappa ultima del percorso di questo pittore. Il quale fu oppresso dal peso della santità che compariva fin nel soprannome assegnatogli. E dunque, siamo in presenza di un artista più che altro intento a compiti devozionali, a illustrare visioni di angeli, di beati o di reprobi, in luoghi magici alquanto lontani dalla nostra ribalta mondana? In parte è stato così, ma secondo un destino che non appartenne in esclusiva al nostro Beato, bensì venne condiviso dai suoi compagni di generazione, nati sul finire del Trecento e nei primi anni del Quattrocento, una generazione capeggiata da Masaccio ma nel cui ambito trovano posto altre figure di grande valore, Filippo Lippi, Paolo Uccello, Domenico Veneziano, e si aggiunga che proprio sul filo di quegli arditi ed avanzati esperimenti fu possibile a Leon Battista Alberti impostare la sua prospettiva, la celebre piramide rovesciata, con un vertice aguzzo, il punto di fuga, in cui andavano a convergere le linee che nella realtà scorrevano tra loro in parallelo. Una camicia di forza, in cui l’intero Occidente, al seguito della pattuglia degli sperimentatori fiorentini, in sintonia con i lontani colleghi delle Fiandre, andò a cacciarsi con supremo stoicismo, intuendo però che così, attraverso quel rigorismo matematico, ci si muniva di un perfetto strumento per inoltrarsi nelle lontananze geografiche, per stabilire le vie maestre dei traffici, dell’espansione mercantile. Fu insomma, quella del Beato Angelico, una generazione che patì su di sé un trauma, una scissione crudele. Col cuore, con l’apparato dei sensi, erano ancora i figli dell’età gotica, impacciata nel trattare la natura, monti aguzzi, rocce affilate come coltelli, schiere di angeli o demoni ordinate in lunghe file come su un pallottoliere. E questo versante era senza dubbio in carattere con una visione di paradisi o di inferni che non sono di questa terra. Ma per altro verso questi artisti ragionavano già in perfetta intesa con uno spirito mercantile e protoborghese, che intendeva apprestare lucide vie comunicative per conquistare le distanze, e che voleva fare ordine anche nel libro dei conti, magari imponendovi la logica stringente della partita doppia.
DUE DESTINI
La mostra romana ha il merito di non aver saccheggiato quel museo naturale dell’opera dell’Angelico che è, a Firenze, il Convento di San Marco. Le opere qui esposte vengono da sedi disperse ai quattro angoli del pianeta, ma ribadiscono questo doppio destino del Santo, perduto nel cuore dietro visioni celestiali, ben fermo nella mente a fare i conti con la realtà.
Beato Angelico a cura di A. Zuccari, G. Morelli, G. de Simone Roma Musei Capitolini Fino al 5 luglio Catalogo: Skira


il Riformista 23.5.09
Soru minaccia di chiudere l'Unità tre giorni prima delle elezioni
Ultimatum. Senza nuovi capitali Mr. Tiscali porterà i libri in tribunale il 3 giugno
di Tommaso Labate


Che Renato Soru voglia "disimpegnarsi" dall'Unità è cosa nota ormai da mesi. La sua volontà di liberarsi della testata rilevata esattamente un anno fa, ventilata già alla fine del 2008, è diventata ufficiale dopo la sconfitta di mister Tiscali alle regionali sarde.
La novità maturata nelle ultime quarantott'ore riguarda lo sfogo che Soru ha affidato a più d'un amico. «Per me la misura è colma. O arrivano nuovi capitali - è stato il ragionamento dell'ex governatore - oppure porterò i libri tribunale». Soru ha fissato una data, il 3 giugno prossimo. Tre giorni prima delle elezioni.
L' «avvertimento» ha trasformato l'ennesimo sos di mister Tiscali in un vero e proprio ultimatum. Indirizzato al Pd. Stavolta non si tratta di voci di corridoio né di messaggi in bottiglia. La dead line del 3 giugno, posta come data ultima prima di dare il via libera alla procedura di fallimento, Renato Soru l'ha fatta mettere nero su bianco nel corso dell'ultimo consiglio d'amministrazione del giornale. Nell'ultimatum affidato a suocera (i membri del board del quotidiano fondato da Gramsci) affinché nuora (Franceschini) intendesse, Mister Tiscali e i suoi uomini hanno chiarito il senso della loro richiesta. Della serie, «servono almeno quattro milioni di euro per mettere in sicurezza il giornale e noi non possiamo più mettere mano al portafoglio». Per cui è necessario «individuare entro pochi giorni la cordata disposta a impegnarsi per la ricapitalizzazione». Altrimenti, è il sottotesto, il Pd rischia di rimanere impelagato nella matassa Unità a soli tre giorni dall'apertura delle urne. Un rischio tutt'altro che calcolato, finora, ai piani alti del fortino democrat. Una grana decisamente più problematica della sfida fratricida in corso per il controllo di Rai Tre, che ieri Franceschini ha negato (ai microfoni di Repubblica tv) derubricandola a «cretinata».
Messa così, la vicenda Unità assomiglia a una bomba con il timer già azionato. Con un'aggravante: il progetto di ristrutturazione del quotidiano - approvato recentemente anche dall'assemblea dei redattori - è «tarato» su un'asticella di vendite fissata a cinquantamila copie. Di conseguenza il «piano Soru» - che si basa su molti tagli alle spese e la cassa integrazione a rotazione tra i giornalisti - andrebbe rivisto nel caso in cui le vendite scendessero dalla soglia fissata. Da qui la domanda: cosa potrebbe succedere quando l'Unità sarà costretta a rinunciare alle firme che sono pronte ad trasferire armi e bagagli nella redazione del Fatto, diretto da Antonio Padellaro, che esordirà a settembre? Detto altrimenti: quanti lettori perderebbe l'Unità se il quotidiano fondato da Gramsci dovesse fare a meno - tanto per fare un esempio - della firma di Marco Travaglio? Domande a cui è difficile dare una risposta, almeno per ora. Come è difficile stabilire se - come sostengono più fonti autorevoli - il direttore Concita de Gregorio ha già in mano il biglietto di ritorno verso la sua scrivania di Repubblica.
A differenza dei mesi scorsi, stavolta il «caso Unità» ha fatto scattare l'allarme rosso anche nella stretta cerchia di Franceschini. È Piero Fassino l'uomo a cui il leader del Pd ha affidato il compito (che conosce, tra l'altro molto bene) di sbrogliare l'intricata matassa. Una pista sui possibili nuovi soci porta a Marialina Marcucci, l'ex azionista di maggioranza, che sarebbe disposta a reinvestire sul quodiano di Gramsci i crediti ancora vanta da Renato Soru. Poi c'è una seconda pista, che lascia intravedere nell'ombra anche la manina di Walter Veltroni: quella che parte dal senatore democrat Raffaele Ranucci. Per anni punto d'incontro tra rutellismo d'antan e veltronismo, l'imprenditore romano starebbe lavorando ventre a terra per cercare imprenditori disposti a investire per salvare l'Unità.
Dietro l'attivismo di Ranucci, più d'uno intravede la scommessa che - per dirla con un autorevole fonte del Pd - «il tridente Franceschini-Veltroni-Fassino è disposto a giocare sul quotidiano in vista della battaglia congressuale d'autunno». Scommessa editoriale o base di un progetto politico? Chissà. Una cosa è certa: come garanzia di fronte alle banche, l'Unità ha bisogno del contributo pubblico del Pd. Lo stesso contributo cui Soru disse che avrebbe rinunciato, esattamente un anno fa, prensentandosi come il Salvatore.


il Riformista 23.5.09
Il Bellocchio che può Vincere


Magari Bellocchio poteva risparmiarsi quello scatto di nervi: «Siamo stati pugnalati alla schiena dalla stampa italiana». Pugnalati perché, nelle prime recensioni scritte a caldo, non si parlava del suo film come di un capolavoro? Poi, sull'onda degli entusiastici commenti stranieri, il giudizio è un po' cambiato, e vedremo che succederà domani sera a Cannes. Di sicuro "Vincere" è un film spiazzante, volutamente démodé nel suo andamento da "melodramma futurista", molto meditato sul piano della ricerca stilistica e visiva. Ridurlo a una cosuccia su Berlusconi e le donne è una sciocchezza, e farebbe bene il regista a non alimentare il cortocircuito con sornioni riferimenti. All'inizio amata appassionatamente e presto disconosciuta e vessata, Ida Dalser, incarnata da Giovanna Mezzogiorno con pose da film muto, finirà in manicomio, dove muore nel 1937. Testarda e rompiscatole fino all'ultimo, decisa a ribadire la "sua" verità. Cinque anni dopo tocca al figlio Benito Albino. Intanto, baffuto e non ancora pelato, vediamo il giovane Mussolini di Filippo Timi urlare a una riunione di socialisti: «Questa guerra è rivoluzionaria. Darà, col sangue, alla ruota della storia il movimento». Citazioni a effetto da "Christus" e "Maciste alpino", le parole d'ordine di Marinetti, i cinegiornali Luce a evocare la faccia pubblica di un Duce ormai distante e inavvicinabile, l'anticlericalismo bellocchiano che si stempera nel ritratto di suore gentili e complici, Ida come "un'eroina" antipatica, squilibrata, a suo modo purissima.


Repubblica Torino 23.5.09
Bellocchio da Cannes al Po "Qui è nato l´ultimo film"
La cosa più difficile è stata riuscire a evitare i riferimenti al presente e le sovrapposizioni tra Benito e Silvio
di Clara Caroli


La Film Commission ci ha molto agevolati, a Roma non avremmo trovato le location e le facce giuste

«In fondo è lei a vincere. Questa piccola donna italiana che nessun potere riesce a piegare», dice Marco Bellocchio di Ida Dalser, la prima moglie di Mussolini, della quale parla con passione e ammirazione. Appena tornato da Cannes, il regista dei Pugni in tasca, che ha fatto del coraggio e della battaglia contro l´ignavia il suo manifesto intellettuale, arriva questa sera sotto la Mole ad accompagnare Vincere, il film sulla moglie e il figlio segreto del Duce, in concorso sulla Croisette, girato lo scorso anno a Torino e in Piemonte col sostegno di Film Commission e da ieri nelle sale. Unica data promozionale in omaggio alla città che ha ospitato il set. Proiezione alle 20.30 nella sala uno del Massimo, dove prosegue la retrospettiva "La rabbia e l´amore". In sala anche i protagonisti: il tenebroso Filippo Timi - che rende di Mussolini una versione quanto mai sanguigna e tempestosa - e la lunare Giovanna Mezzogiorno che interpreta la Dalser, eroina di profilo pucciniano, dunque dal destino massimamente infausto (amata da Mussolini, poi ripudiata e infine rinchiusa in manicomio dove muore sola e abbandonata).
Sul filo tra grande storia e melodramma, una «tragedia omessa dalla storiografia ufficiale». Ma soprattutto il ritratto di una madre coraggio, di una piccola donna indomita, ribelle, estranea ad ogni tipo di mediocrità e compromesso, che non accetta un destino che non sia d´amore e combatte fino alla fine per difendere la verità dell´esistenza di sé e di suo figlio, diventati per il regime uno scandalo prima da nascondere e poi da annientare.
Bellocchio, si è innamorato anche lei, come il Duce, di Ida Dalser?
«Il Duce se ne innamorò per un tempo brevissimo, in un momento di fragilità. Io di questa donna ho amato il coraggio, la volontà ostinata, al limite della follia, di non arrendersi all´ingiustizia».
Riconosce in lei, oltre al coraggio, la passione, la ribellione, elementi presenti nelle sue biografie di regista?
«Riconosco la coerenza, il credere nelle strade meno facili, il rifiutare la soddisfazione che nasce dal semplice successo. Ma io, che pure non sono pavido né vigliacco, sono molto meno coraggioso di lei».
Quanto è stato difficile mantenere il film in equilibrio tra grande storia e melodramma?
«È stato più difficile evitare le semplificazioni e i riferimenti al presente, le sovrapposizioni tra Mussolini e Berlusconi, che avrebbero certo creato molte chiacchiere attorno al film. Un elemento pubblicitario al quale ho scelto di rinunciare».
A proposito. Anche Veronica Lario è una vittima del potere?
«Domanda classica. No, è una signora borghese che con l´aiuto di buoni avvocati sta divorziando dall´uomo più potente d´Italia. Ida Dalser era sola, con tutto il fascino di un´eroina sola contro tutti, con la statura di un´Antigone, di una Medea».
Perché ha scelto di girare a Torino?
«La Film Commission ci ha molto agevolati. Ho trovato le location adatte. Strade, paesi, monumenti, che fortemente modificati sono risultati perfetti. Le ragazze del casting sono state bravissime a trovare le facce giuste, i corpi gusti. A Roma non sarebbe successo, girano sempre i soliti».
Che rapporto ha con la città?
«Non la conosco molto bene, ma durante le riprese mi ci sono affezionato».
Al Museo del Cinema è in corso la sua personale. C´è un titolo al quale è particolarmente legato? O li ama tutti allo stesso modo come figli?
«Ogni tipo di risposta è ad alto rischio di retorica. Forse quello che amo di più è l´ultimo, forse bisognerebbe amarli e rivederli tutti. E più di una volta. La mia storia di artista è fatta di film apprezzati sempre con un po´ di ritardo. Ma, come si dice, il tempo è galantuomo».
E alla fine Ida Dalser che cosa vince?
«Niente, peggio di così non le può andare. Ma l´altro cade nella polvere e lei s´innalza nella grandezza».

Liberazione 22.5.09
Prove di regime
di Imma Barbarossa


Sono tra quante/i non pensano che dai guai giudiziari del potente di turno si possa uscire a sinistra, o per lo meno con una indignazione di massa diffusa che chieda moralizzazione della società e che da tale richiesta sia in grado di impostare un progetto politico alternativo. Sono, cioè, convinta che dalla fogna della arrogante immoralità non ci si solleva incontaminati e pronti ad una vera svolta. Il fango sporca, contamina, corrompe, offusca i possibili punti di riferimento alternativi, copre le vere responsabilità, fa di tutt'erba un fascio, mescola corrotti e corruttori, sparge qualunquismi ed egoismi corporativi; il fango è la base melmosa dell'antipolitica, in varie forme, le rivolte corporative, l'invidia nei confronti del potente, l'ammiccamento nei confronti di chi ci sa fare (ricordate l'epoca del craxismo?), la rassegnazione del cattivo realismo. E il fango ai giorni nostri è quello in cui ci hanno immersi Berlusconi e il berlusconismo: l'amplificazione da parte dei media delle sue spudorate menzogne, personali, economiche, finanziarie, politiche, con il conseguente staff di avvocati e portavoce prezzolati, coinvolge gran parte della società italiana, contribuisce a diffondere quel senso reazionario di massa, quel furbesco opportunismo che in forme inedite porta alle estreme conseguenze la passivizzazione persino dei potenziali soggetti della trasformazione. Certo, l'offuscamento non è generalizzato; anche ieri in una intervista al manifesto Piero Ottone ha abbozzato una analisi impietosa dello stato dei media in Italia, sorvolando pudicamente, ma esplicitamente, sul Corriere della Sera e - aggiungo io - sul suo aristocratico ed enigmatico direttore. Il corpo del tiranno avanza dappertutto, circondato dalla sua foltissima e maschia guardia del corpo, portavoce e body guard teste rasate con occhiali neri che si guardano intorno in cerca di qualche malcapitato che protesta, per allontanarlo e schiacciarlo.

Terra 23.5.09
Il caso Galileo. Storia di una conciliazione impossibile
di Noemi Ghetti


Dal 26 al 30 maggio, per la prima volta dopo 400 anni istituzioni religiose e scientifiche a confronto a Firenze in un convegno internazionale organizzato dalla Fondazione Stensen

Tra le numerose iniziative promosse nell’Anno Internazionale dell’Astronomia, proclamato dall’ONU per celebrare i quattrocento anni della reinvenzione astronomica del cannocchiale da parte di Galileo, il convegno internazionale di studi “Il caso Galileo” che si tiene a Firenze dal 26 al 30 maggio presenta una fisionomia piuttosto sorprendente. Organizzato dai gesuiti della Fondazione Stensen con lo scopo dichiarato di pervenire alla «fine di una secolare incomprensione», vede raccolti sotto lo stesso egida l’Accademia dei Lincei e l’Accademia pontificia delle scienze, università statali e cattoliche ed importanti enti di ricerca, come il CNR, l’Osservatorio di Arcetri e l’Istituto e museo di Storia della scienza di Firenze. Quattro giornate di lavori, a partire dall’inaugurazione alla presenza del Presidente della Repubblica nella basilica di Santa Croce, dove è sepolto lo scienziato, per arrivare alla villa “il Gioiello” di Arcetri, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Allo stesso tavolo si avvicenderanno e si confronteranno i più qualificati specialisti mondiali della cultura scientifica e religiosa, dopo secoli di uno scontro ininterrotto, che ha visto momenti molto aspri.
Galileo è stato occasione di accese polemiche anche in tempi assai recenti, quando alla fine del 2007 l’invito a papa Benedetto XVI a tenere una “lectio magistralis” all’università statale La Sapienza scatenò la protesta nell’ambito del mondo accademico e studentesco. In quell’occasione venne ricordato infatti come nel 1990 l’allora cardinale Ratzinger, utilizzando una frase del filosofo della scienza Paul Feyerabend, avesse dichiarato: «All'epoca di Galileo la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. Il processo contro Galileo fu ragionevole e giusto». E come, citando Carl Friedrich von Weizsäcker, Ratzinger si fosse spinto addirittura a proporre un collegamento diretto tra Galileo e la bomba atomica. Due anni dopo, nel 1992, Giovanni Paolo II tentò di porre fine a quasi quattro incresciosi secoli di «tragica reciproca incomprensione» con una tardiva “riabilitazione” di Galileo. Ma le argomentazioni addotte dal papa, di fatto tese ad addossare le maggiori responsabilità a Galileo e a circoscrivere quelle della Chiesa, suscitarono non poche critiche tra gli studiosi, e lasciarono il caso aperto a successive revisioni da parte cattolica.
Tra quelle attualmente in voga in ambito cattolico, forse la più paradossale è quella che pretende che Galileo sia stato miglior teologo che scienziato. Il suo errore non sarebbe stato, come sostiene Paolo Rossi, quello di essersi incautamente avventurato nel terreno minato dell’esegesi biblica. Al contrario, Galileo sarebbe stato un buon interprete delle Sacre scritture, rilevandone per primo il carattere di documento legato alla mentalità del tempo storico in cui furono redatte, successivamente accettato anche dalla Chiesa. Ma fu un cattivo scienziato, per aver sostenuto che il sistema copernicano era una verità fisica, e non semplicemente un’ipotesi matematica, venendo meno al carattere congetturale che deve caratterizzare la ricerca scientifica. Da questo punto di vista il cardinale Bellarmino invece sarebbe stato parimenti ottimo teologo e ottimo scienziato.
Ma, obietta Paolo Galluzzi (il Sole 24 Ore, 10.5.09): «si dimentica che il contrasto tra Chiesa e nuova scienza e quello tra Galileo e Bellarmino non si sviluppò affatto sul terreno dell’epistemologia; esso fu molto più semplicemente la conseguenza della ferma volontà delle autorità ecclesiastiche di negare a Galileo, così come a chiunque altro, la libertà di sostenere dottrine diverse da quelle insegnate da Santa romana chiesa».
Il caso Galileo si è prestato ad essere nei secoli un banco di prova della laicità molto frequentato, più di quello dell’eretico irriducibile Bruno, sul quale evidentemente non esiste alcuna possibilità di mediazione e riabilitazione. I due «martiri del libero pensiero» saranno messi a confronto al convegno da Michele Ciliberto, mentre Adriano Prosperi porterà il proprio contributo di storico dell’inquisizione e dei movimenti ereticali, e di esperto dei rapporti tra Chiesa e moderna scienza.
Galileo processato abiurò ed ebbe salva la vita. Memore del rogo di Giordano Bruno, che era stato condannato per avere aperto la strada alla possibilità di pensare l’origine della realtà umana dalla materia infinita e sensibile, Galileo escluse dal campo della sua ricerca l’uomo, indirizzandola più prudentemente al mondo fisico. Questo non bastò a metterlo al riparo dall’occhiuta Inquisizione.
La nostalgia per una ricerca abbandonata, quasi un senso di colpa risuona in un passo del Dialogo dei massimi sistemi del mondo, che gli era costato il processo, e che fino al 1835 rimase nell’Indice dei libri proibiti. La corruttibilità della materia, afferma Sagredo, spregiata dal pensiero aristotelico-cristiano, è dinamismo, vita. La vantata incorruttibilità dei corpi celesti, è morte. Non c’è principe, afferma poeticamente il nobile veneziano, che non darebbe tutti i suoi gioielli e i suoi ori per avere due carrate di terra, e «piantare in un picciol vaso un gelsomino o seminarvi un arancino della Cina, per vederlo nascere e produrre sì belle frondi, fiori così odorosi e sì gentili frutti». Ma il tono vibra di indignazione quando conclude: «E questi che esaltano tanto l'incorruttibilità, l'inalterabilità, etc., credo che si riduchino a dir queste cose per il desiderio grande di campare assai e per il terrore che hanno della morte; e non considerano che quando gli uomini fussero immortali, a loro non toccava a venire al mondo. Questi meriterebbero d'incontrarsi in un capo di Medusa, che gli trasmutasse in istatue di diaspro o di diamante, per diventar piú perfetti che non sono».
Bellarmino era un ottimo scienziato, sapeva cogliere molto acutamente le implicazioni nascoste in queste righe. Ci auguriamo che anche questa volta nessuna cristiana e hegeliana conciliazione riesca a cancellare l’irriducibile opposizione che separa religione e libera ricerca.


Terra 23.5.09









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venerdì 22 maggio 2009

Repubblica 22.5.09
La mia Irlanda complice dei preti pedofili
di Joseph O’Connor


L´Irlanda in questi giorni sta vivendo un trauma inverosimile e terribile. Dopo aver trascorso il decennio scorso a crogiolarci in una cappa di autocompiacimento per i nostri successi economici, ci troviamo di fronte a una realtà completamente diversa, dalla quale risulta che quel boom è stato illusorio. Politici corrotti, avidi banchieri, speculatori immobiliari hanno quasi mandato a rotoli il nostro Paese e, come se non bastasse, la notizia ufficiale di questi giorni dei maltrattamenti e delle sevizie dei preti sui bambini a loro affidati conferma ciò che sapevamo da tempo nel fondo dei nostri cuori.
In altri Paesi i pedofili si nascondono: in Irlanda si nascondono in piena vista. Nella maggioranza dei casi, i bambini vittime di soprusi e violenza non sono stati creduti. Nessuno ha dato loro retta, nemmeno le loro famiglie. Poiché le rivelazioni delle sistematiche violenze e sopraffazioni sui bambini irlandesi arrivano in questa fase della nostra storia è inevitabile che scatenino rabbia e collera profonde. In parte questa reazione è dovuta ai racconti, così strazianti, così pieni di episodi crudeli da far venire le lacrime agli occhi di chi li legge. In parte, però, è dovuta anche al fatto che è ormai palese che per decenni l´organizzazione più potente e ricca di Irlanda, la Chiesa Cattolica nelle sue molteplici denominazioni, ha fatto tutto ciò che le era possibile per mettere a tacere le sue vittime. Le scuse - se mai ci sono state - sono state equivoche e ambigue. Sono state assunte frotte di avvocati, incaricati di contestare le accuse. Quando, per le pressioni delle associazioni dei violentati e di un´opinione pubblica sempre più inferocita, si è riusciti a ottenere dalla Chiesa un programma di risarcimenti di natura finanziaria, le sue condizioni si sono rivelate talmente generose nei confronti dei colpevoli che molti hanno giudicato il comportamento del governo a dir poco inadeguato.
Dal mio punto di vista, però, esiste un contesto più ampio in grado di spiegare l´ira del popolo irlandese. Sappiamo che la responsabilità è di molti: le colpe non sono solo della Chiesa Cattolica, né solo di una sfilza di ingiustificabili governi irlandesi, ma della società stessa, di ogni suo elemento. È proprio questo a far sentire così profondamente a disagio l´Irlanda. Quasi tutti erano a conoscenza dei preti pedofili e violenti. Non sto esagerando: una delle organizzazioni di sopravvissuti a questi abominevoli reati si chiama "One in Four" ("Uno su quattro") perché è stato statisticamente provato che circa un quarto dei bambini irlandesi ha subito un maltrattamento fisico o una violenza sessuale, a casa propria, a scuola, ovunque avrebbe dovuto sentirsi invece protetto. C´è chi ha distolto gli occhi guardando, chi si è tappato le orecchie. I bambini sono stati trattati con un´irrilevanza sovrumana in Irlanda, una società che per difendere un prete sarebbe disposta a mettersi a testa in giù in una contorsione morale, ma che per un bambino vittima di stupro non muoverebbe un dito.
Mio padre, cresciuto in un quartiere della classe operaia nella parte antica di Dublino, ricevette l´unica istruzione dai Christian Brothers: malgrado non abbia subito maltrattamenti, né sia mai stato molestato sessualmente, e benché parli con rispetto di quegli istitutori che si occupano dei bambini più poveri, a scuola visse sempre nella paura. Certo, mi riferisco agli anni Quaranta, quando forse i metodi di insegnamento erano ovunque autoritari e brutali. Ma un amico mio coetaneo, che ha frequentato la stessa scuola negli anni Ottanta, mi ha parlato del suo terrore sui banchi di scuola, giorno dopo giorno. Il panico lo assaliva non appena varcava i cancelli della scuola e si dileguava soltanto quando rientrava a casa. Ancora oggi, non è mai tornato a visitare la sua scuola, si tiene alla larga addirittura dalla strada dove si trova, proprio come un vicino di casa che ha riferito a mia moglie di non poter vedere nemmeno da lontano l´edificio nel quale ha studiato, quello stesso istituto gestito dai Christian Brothers. È inevitabile a questo punto chiedersi: dove erano gli ispettori del governo? Dove erano i funzionari? E i burocrati? Come si è potuto permettere che tutto ciò accadesse?
Devo sottolineare che il contributo dato dalla giornalista irlandese Mary Raftery sul canale televisivo nazionale Rte è stato determinante per porre fine all´omertà. La leadership audace e coraggiosa di cui ha dato prova il giornalista Colm O´Gorman - egli stesso vittima di violenze sessuali e maltrattamenti dai preti - è stata fondamentale per costringere le autorità a guardare in faccia la verità. Persone come loro si sono rifiutate di essere messe a tacere, pur avendo incontrato nella loro ricerca di giustizia un numero davvero irrisorio di alleati. Ora penso di sapere perché. Il comportamento di alcuni preti e di alcune suore è stato sicuramente delinquenziale, nella piena accezione del termine. Ma niente è mai stato fatto per fermarli. L´Irlanda, già afflitta dal senso di colpa per gli insuccessi finanziari, ora lo è anche per questi casi di maltrattamento e violenza su minori. Siamo entrati in un vortice di recriminazione, una spirale nella quale gli innocenti sono puniti con i colpevoli. È comprensibile. Alcuni esponenti del clero meritano sicuramente di essere oggetto di stigma, ma il mio ammonimento è che questa è un´altra forma di equivoco morale. Per evitare le accuse si deve essere scioccati, o quanto meno fingere di esserlo. Solo così si riesce a frapporre della distanza tra sé e simili avvenimenti osceni. C´è tuttavia un dato, nudo e crudo, di cui non si può non tener conto: non possiamo dimenticare quanto poco lo Stato abbia fatto per proteggere i poveri irlandesi, e in che misura i bambini irlandesi poveri, più vulnerabili e deboli, affidati a istituzioni di crudeltà dickensiana, siano stati letteralmente abbandonati nella santità dei bassifondi morali. Si tratta di una vecchia storia, una storia terribile. Quando puntate un dito per accusare, siate sempre consapevoli che tre delle dita della vostra stessa mano puntano contro di voi.
Traduzione di Anna Bissanti. Il romanzo "La moglie del generale" di Joseph O´Connor è pubblicato in Italia da Ugo Guanda Editore

Repubblica 22.5.09
I casi di pedofilia in Irlanda sono l´ultima fermata della via crucis. E in Italia? Cronaca dall´ultima frontiera della Chiesa
Pedofilia, il lato oscuro della Chiesa
di Maria Novella De Luca


Per don Luigi Ciotti "serve trasparenza, bisogna ripensare la formazione dentro i seminari"
"Quei resoconti sono terribili. La crisi è profonda, senza ritorno" dice don Antonio Mazzi
Spesso i bambini devono diventare adulti per riuscire a descrivere ciò che hanno subito. Così è accaduto a fine 2008 in un collegio veronese per sordi

Raccontano di stanze buie, di violenze nelle camerate, di molestie nel confessionale. Ricordano nel dettaglio botte, sevizie, ricatti, attenzioni morbose, paura e vergogna. Anche se sono passati venti, trenta, quarant´anni. Loro, gli ex bambini, non dimenticano. Erano piccoli, adolescenti, disabili, orfani. La Chiesa apre il suo archivio più sconvolgente, per la prima volta in tutto il mondo le vittime parlano e vengono ascoltate, e si scopre che i casi di pedofilia sono migliaia e migliaia. La Chiesa americana, quella australiana, e ieri, dopo nove anni di inchiesta, la chiesa irlandese: negli enti per minori gestiti da religiosi generazioni di bambini hanno subito stupri e soprusi. Per colpa di "preti traditori", così li aveva chiamati un anno fa papa Ratzinger a Sydney, affermando che chi si macchia di queste colpe «è una vergogna per la Chiesa» e deve essere processato. Il risultato è che le storie vengono alla luce, è di pochi mesi fa la denuncia degli ex allievi dell´Istituto "Antonio Provolo" di Verona, bambine e bambini sordomuti oggi adulti di mezza età, che in sessanta hanno raccontato di essere stati «violentati e bastonati per anni», dai religiosi che li avrebbero dovuti accudire e proteggere, e che oggi nonostante le accuse sono ancora lì, in quello stesso istituto. Dal 2000 ad oggi sono almeno 60 i casi di preti condannati o in attesa di giudizio perché colpevoli di abusi sessuali. Una presa d´atto durissima per chi nella Chiesa lavora e alla dedizione agli altri ha consacrato la propria vita. Come don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele di Torino, presidente di Libera, che dice: «Ci vuole trasparenza, quanti silenzi complici ci sono stati, bisogna ripensare la formazione nei seminari, il cammino verso il sacerdozio».
Con un dolore tremendo però. «Come si fa a non sentirsi sconvolti leggendo che cosa è successo in Irlanda, è giusto cercare la verità, punire chi ha coperto gli abusi. Ma ci vuole attenzione, questa è una pagina oscura che non deve infangare la parte sana della Chiesa, anche se è necessario fermarsi, riflettere. Difendendo le vittime, ma accogliendo anche chi ha sbagliato». E don Ciotti racconta di aver seguito più di un prete accusato di pedofilia, e di averlo "accompagnato" verso il processo. Cercando di guardare quel lato oscuro, malato, che poi diventa crimine.
La Chiesa si apre e svela il lato buio. A scorrere le cronache giudiziarie i casi italiani sono decine e decine. Alcuni più noti, e a lungo coperti dalle gerarchie ecclesiastiche, come quello di don Lelio Cantini, sacerdote fiorentino ritenuto colpevole di «abusi sessuali pluriaggravati e continuati su minori», ma restato al suo posto di parroco fino al 2005, quando ormai ottantenne è stato "punito" dal Papa con la riduzione allo stato laicale. Per 10 anni, dal 1975 al 1985 aveva imposto rituali sessuali di ogni tipo a ragazzi e ragazze adolescenti che soltanto anni dopo avrebbero trovato il coraggio di denunciare.
Perché spesso accade così. Gli ex bambini devono diventare adulti per riuscire a descrivere ciò che hanno subito. A volte perché l´orrore è tale che si cerca di dimenticare, più spesso però perché non vengono creduti. C´è da osservare infatti il contesto in cui questi fatti accadono, collegi, comunità, scuole, oratori. Contesti fragili, di storie difficili. Come la Comunità Incontro di don Pierino Gelmini ad Amelia, famosa e iper-sponsonsorizzata comunità di recupero per tossicodipendenti. Nell´agosto del 2007 due ex pazienti della comunità accusano don Gelmini di averli ripetutamente molestati e abusati trai il 1999 e il 2004, quando erano ancora minorenni. «Ci portava nella stanza del camino e ci faceva quelle carezze». Gli inquirenti ritengono le accuse fondate, decine di politici si mobilitano in difesa del sacerdote, che viene però rinviato a giudizio.
La Chiesa svela il suo lato oscuro. Don Antonio Mazzi, fondatore della Comunità Exodus, parla con il dolore nella voce e con veemenza. «Leggendo il resoconto delle sevizie fatte sui bambini negli istituti gestiti da religiosi ho capito che la crisi è totale, senza ritorno, che questa Chiesa pensa soltanto ad esibire ricchezza e potere, dimenticando le scritture, profezia. Non sono pochi casi, è un orrore che va dall´America all´Australia, dall´Irlanda all´Italia: noi dobbiamo guardarci dentro, ci vuole un nuovo concilio - incalza don Mazzi - com´è possibile che centinaia di preti abbiano distrutto le vite di bambini innocenti, approfittando dei più fragili, gli organi, i disabili, che avrebbero invece dovuto proteggere. Come a Verona, nell´istituto per piccoli sordomuti...Davvero è accaduto tutto questo? E il Vaticano che fa, dov´è?». La malattia è estesa, aggredisce più lati, avanza. Ma la Chiesa ne parla, apre gli archivi, condanna. Proprio sull´Avvenire, il quotidiano della Cei, lo psichiatra Vittorino Andreoli, in una serie di riflessioni dedicate alla vita del prete, spezza il tabù, e parla dei sacerdoti pedofili. «Il sacerdote, che è uomo della sacralità, si rivolge ai bambini ma come oggetto di piacere sessuale. Il che produce l´immagine peggiore che possa venire da un prete e dà il senso proprio della degenerazione...Per questo credo che nel caso dei preti pedofili sia fondamentale poter intervenire presto, se ciò è dato; e che in ogni caso la pena sia applicata con severità. E, assieme gli sia accordata la cura...».
Certo, la reticenza c´è, ed è ancora forte, soprattutto ad uscire dalle pieghe delle istituzioni vaticane, dei propri tribunali e consegnare i preti pedofili ai tribunali dello Stato. E di questo cupo castello ancora presente di omertà e resistenze, dà conto un piccolo ma dettagliato libro dal titolo provocatorio «Lasciate che i pargoli vengano a me. Storie di preti pedofili in Italia» di Paolo Pedote. Un viaggio attraverso quindici casi di religiosi condannati per violenza sessuali. Nomi a volte poco noti, o dimenticati, se non ci fossero le vittime, piccole, spesso inascoltate, a volte addirittura messe al bando, a ricordare il lato oscuro della Chiesa. Ecco allora don Marco Gamba, giovane parroco di Chiusa San Michele (Torino), condannato a 4 anni (con un notevole sconto) per il possesso di materiale pedopornografico e per violenza sessuale aggravata su due giovani chierichetti. O don Giorgio Mazzoccato, parroco della borgata di Arpinova, a due passi da Foggia, condannato a sei anni di reclusione per aver molestato e abusato di 10 bambine e bambini dai 7 ai 12 anni, attirandoli in casa sua, dentro il confessionale, durante le gite della parrocchia. E poi don Giuseppe Rassello, don Luciano Michelotti, don Giorgio Carli, don Bruno Puleo, don Romano Dany, don Mauro Stefanoni, don Paolo Pellegrini, don Marco Cerullo. Centinai di preti, centinaia di piccole vittime. Un catalogo lungo, dettagliato, triste.

l’Unità 22.5.09
Berlusconi-Letizia, nessuna verità ma tanti passi falsi
di Enrico Fierro


Il primo ministro e tutti i componenti della famiglia di Portici forniscono versioni discordanti
L’ultima è quella che la minorenne non fosse mai stata con il premier senza la sua famiglia

Solo il papà di Noemi è passato dall’essere un amico di vecchia data, l’autista di Craxi e un militante di Forza Italia che nessuno a Napoli ha mai visto né sentito. Ma sono molti i lati oscuri di questa vicenda.

Bugie. Verità inconfessabili. E l’affannoso lavorìo di tanti (troppi) soggetti che «maneggiano» la notizia, la plasmano fino a farle prendere la forma desiderata. Così il caso Noemi-Berlusconi si è già trasformato nel mistero italiano degli anni Duemila. La tonalità dominante del colore è il torbido. Alimentato dalle troppe bugie del premier e dalle interessate reticenze della famiglia Letizia.
I CASALESI
Cognome poco diffuso a Napoli. In Campania concentrato nel Casertano. Zona dominata dal clan dei «casalesi». Un dato di fatto normalissimo che martedì scorso ha generato un singolare cortocircuito mediatico. Nella notte tra lunedì e martedì viene arrestato un pericoloso latitante di camorra. Franco Letizia. Dalle 7,22 di martedì (ora del primo «lancio» di agenzia) fino alle 12,18 nessun sito internet, nessuna radio locale stabilisce un qualsiasi collegamento, e meno che mai l’esistenza di rapporti di parentela, tra l’arrestato e il papà della Noemi. Eppure alle 12,18 i terminali battono una agenzia Ansa che «chiarisce» che il Letizia boss «non ha alcun legame di parentela con Benedetto Letizia». Si tratta di semplice omonimia. Che però nessuno aveva sollevato. Smentita di una notizia che nessuno aveva pubblicato.
La camorra, soggetto da maneggiare con cura in questa storia. Anche se i tanti set di questo reality non aiutano a tenerla a debita distanza. Secondigliano (il quartiere monstre dove i Letizia hanno alcune loro attività); Portici, la città-quartiere dove vivono Noemi e sua madre, e Casoria, il paesone della festa. In ognuno di questi luoghi i clan hanno un controllo ferreo del territorio. Sanno tutto. Di tutti. Chiarire fino in fondo i misteri di questa vicenda e non aggiungerne altri può aiutare. Ma l’epicentro dei misteri è nei rapporti tra Silvio Berlusconi e i Letizia. Quando si sono conosciuti, perché, qual è il legame che tiene avvinghiato Silvio Berlusconi a questa famiglia colta da improvvisa notorietà?
LE DOMANDE SENZA RISPOSTA
Domande ancora orfane di risposte credibili. Elio Letizia non è mai stato autista di Craxi. La madre di tutte le «balle» che avrebbe dovuto supportare il rapporto tra il Cavaliere e il messo comunale è stata sgonfiata da poderose smentite. Berlusconi il 7 maggio alla tv France2: «Il papà di Noemi fa parte del mio partito». Falso: tutti i maggiorenti di Forza Italia a Napoli hanno pubblicamente detto di non ricordare alcuna militanza, neppure ai livelli più bassi, di Elio. «L’amicizia di Silvio riguarda me. Tutto si poggia su quello», dice il 5 maggio a «La Repubblica» il signor Letizia. Noemi nella varie interviste che rilascia «non ricorda» i particolari dell’amicizia tra la sua famiglia e il Cavaliere. Mamma Anna Palumbo, invece, invoca la privacy: «Non chiedetemi più come ho conosciuto il Presidente».
Perché la loro è una amicizia di vecchia, anzi vecchissima data. Un legame stretto del quale però non vi è traccia negli anni passati, quando Noemi era poco più che una bambina. Nel 2001 la famiglia viene funestata da un lutto gravissimo, la morte del figlio Yuri, 20 anni. All’epoca l’amico di vecchia data Silvio non si fa vivo. Neppure un telegramma. Infine, il rapporto con Noemi prima della festa dei 18 anni. Berlusconi ne parla a France2. «La ragazza non ha mai avuto modo di frequentarmi da solo. È venuta a trovarmi sempre con sua madre, o suo padre...». L’articolo firmato ieri da Massimo Giannini su «La Repubblica» si incarica di ricordare almeno una circostanza nella quale Noemi era col Cavaliere da sola e senza mammà. 19 novembre 2008, Villa Madama, cena con vip e imprenditori. Noemi c’è. Per lei viene addirittura rivoluzionata la disposizione dei posti a tavola. «Alla fine della cena, secondo il ricordo dei presenti, Noemi sarebbe stata vista allontanarsi su un’auto blu, al seguito dell’Audi nera del premier», si legge. All’epoca Noemi non aveva ancora compiuto 18 anni. Era minorenne. Brutti tempi per il Cavaliere. Che spera nella «verità». «Quando tutti conosceranno la realtà - dice a Porta a Porta il 5 maggio - non potranno che prendere atto che c’è stato un gesto di amicizia che non aveva nulla di scandaloso». La realtà tante «mani» la stanno plasmando ad uso e consumo del premier. E dei suoi voti.

Repubblica 22.5.09
Frottole e calunnie
di Giuseppe D’Avanzo


Silvio Berlusconi, pur in questo momento difficile della sua avventura politica, dovrebbe trovare un maggior controllo per riconciliarsi con una realtà che, nei suoi monologanti flussi verbali, diventa ogni ora di più leggenda, fiaba, sceneggiatura da scrivere e riscrivere secondo l´urgenza del momento. Il premier deve fare questa fatica, se ne è in grado, nel rispetto soprattutto di chi lo ascolta (e anche di se stesso).
Da giorni, il premier urla a gola piena e in qualsiasi occasione propizia contro Nicoletta Gandus, presidente del collegio che ha condannato David Mills testimone corrotto dal premier. Berlusconi con ostinazione ne vuole screditare la credibilità, la reputazione, l´imparzialità e umiliandola, senza un contraddittorio, pensa di salvare la faccia dinanzi al mondo; di cancellare con la sola forza della sua voce onnipotente e delle sue frottole indiscutibili (e mai discusse dai media) l´illegalità che il processo Mills ha ricostruito e la serena indipendenza che ha ispirato il giudizio. Il premier, da anni e da tre giorni tutti i giorni, dipinge quel giudice come «un nemico politico», come «un avversario in tutti i campi», come «un´estremista». I suoi avvocati sono giunti a rimproverare a Nicoletta Gandus «attacchi e insulti contro il premier». Quali? L´aver firmato un appello di «condanna della politica di repressione violenta e di blocco economico messa in atto dal governo israeliano nei confronti della popolazione palestinese» senza dire che la Gandus è ebrea e quell´appello era firmato da ebrei e «in nome del popolo ebreo». Il capo del governo sostiene che quel giudice «ha dimostrato avversione nei suoi confronti». La prova? La Gandus ha firmato un appello contro la legge sulla fecondazione assistita o, con centinaia di giuristi e accademici, un appello alla politica – a tutta la politica – per riequilibrare leggi che avrebbero distrutto «il sistema giudiziario e compromesso il principio della ragionevole durata dei processi», come poi è stato. Da quell´appello vengono maliziosamente estratte, a proposito della legge berlusconiana che modifica i tempi della prescrizione (la "Cirielli"), due sole parole, «obbrobrio devastante». Le due parole sono gettate sul viso della Gandus come se fossero state dette o scritte da lei e non dal presidente della Corte di Cassazione, Nicola Marvulli. Nel corso del tempo, Berlusconi si è spinto fino alla calunnia. Al devoto Augusto Minzolini, neodirettore del Tg1, riferisce di avere un asso nella manica per dimostrare la faziosità di quel giudice. «Ho un testimone che ha ascoltato una conversazione tra il presidente del Tribunale Nicoletta Gandus, e un altro magistrato. La Gandus ha detto questa frase al suo interlocutore. "A questo str… di Berlusconi gli facciamo un c… così. Gli diamo sei anni e poi lo voglio vedere fare il presidente del Consiglio"» (la Stampa, 18.06.08). Dov´è finito questo testimone? Perché non ha mai raccontato in pubblico e a un altro giudice la volontà pregiudiziale della Gandus? Di questo testimone non si è avuta più notizia né nelle carte della ricusazione presentata dai legali del capo del governo né, dopo un anno, ora che Berlusconi è ripartito lancia in resta contro la magistratura.
Quel testimone non è mai esistito, quella conversazione non c´è mai stata. Berlusconi ha inventato l´una e l´altra di sana pianta calunniando il giudice milanese, mentendo a tutti coloro che lo hanno ascoltato e magari lo hanno preso sul serio.
La Gandus accoglie da anni in silenzio gli insulti del capo del governo, ascolta imperturbabile le frottole che sparge sul suo conto. Fa bene a tacere. Berlusconi chiede soltanto la rissa per superare le curve che lo stanno screditando (o rivelando). Il premier ci va a nozze nel discorso pubblico che si fa nebbia e rissa. Ne ricava la radicalizzazione del suo consenso, e questo è l´unica cosa che gli serve e vuole. E tuttavia, anche per Berlusconi, ci deve essere un limite alla manipolazione della realtà e proporgli quel limite, la necessaria coerenza delle sue parole alle cose, ai fatti, alla storia delle persone, deve essere fatica quotidiana di chi lo ascolta. Può continuare, il premier, a ripetere senza che alcuno lo interrompa di non aver mai conosciuto David Mills nonostante l´avvocato inglese abbia detto e scritto di averlo incontrato, per lo meno, in due occasioni? Quando Berlusconi verrà a spiegarci che la seconda guerra mondiale è scoppiata perché un dissennato Belgio ha invaso il distratto Terzo Reich? O che il Sole gira intorno alla Terra immobile? Può credere il premier di essere sempre nella poltrona bianca di Porta a Porta?

Corriere della Sera 22.5.09
La carica delle leggi travolge i medici
Dagli immigrati agli statali: obblighi giuridici in aumento Il contrasto con la deontologia. «La formazione non esiste»
di Adriana Bazzi


Il consenso Prima di qualsiasi trattamento il medico deve avere dal paziente «l’autorizzazione a procedere» Il rifiuto
C’è chi si informa su Internet e poi chiede farmaci o analisi: il medico può rifiutare
I protagonisti. Sono soprattutto i medici di famiglia a dover far fronte ai nuovi impegni dettati dalle norme
Le segnalazioni. Un tempo c’erano soltanto quelle relative alle malattie infettive, oggi le denunce sono tante, a partire dai maltrattamenti

Gli ultimi obblighi riguarda­no gli immigrati clandestini e gli statali con poca voglia di lavorare. Dal decreto sicurezza è sparita, è vero, la norma che impo­neva ai medici di segnalare l’immi­grato irregolare che si presentava in ambulatorio per farsi curare, ma l’in­troduzione del reato di clandestini­tà obbliga, di fatto, i medici, almeno quelli delle strutture pubbliche, a de­nunciare alla questura o ai carabinie­ri il paziente senza permesso di sog­giorno.
Nel decreto Brunetta, invece, è en­trata la sanzione (pecuniaria, ma an­che penale) per i medici di famiglia che firmano certificati di malattia a dipendenti pubblici che invece poi risultano sani.
Si tratta soltanto degli ultimi due di una serie impressionante di obbli­ghi giuridici (con relativa pena per mancato adempimento) che assal­gono (e qualche volta travolgono) soprattutto i medici di base, e che contrastano sia con quel Giuramen­to di Ippocrate, appena rivisto in chiave moderna, che si pronuncia subito dopo la laurea, sia con il codi­ce deontologico che impone al medi­co di curare chi ha bisogno, senza di­stinzione di razza, di religione, di sesso (e di cittadinanza).
«Non a caso la deontologia è na­ta, a partire dal Seicento, quando la legge ha cominciato a diventare troppo invadente — commenta Amedeo Santosuosso, giudice del Tribunale di Milano e fra i fondatori della Consulta di bioetica — e si è rafforzata nel secondo dopoguerra, dopo i processi contro i medici nazi­sti ».
La questione del rapporto fra ob­blighi previsti dalla legge e regole dettate dalla deontologia non è, dun­que, nuova, ma si sta complicando. Gli ambulatori dei medici di fami­glia sono ormai un «territorio di confine» dove i professionisti della sanità sono costretti a barcamenarsi fra norme vecchie e nuove, spesso nebulose, non solo in conflitto con la coscienza, ma a volte in contrasto anche fra loro.
Una giungla che cresce e si infitti­sce attorno a un nucleo originario, quello degli obblighi di legge «clas­sici »: la denuncia obbligatoria di cer­te malattie infettive che rappresenta­no un pericolo per la sanità pubbli­ca (come il colera) e per le infezioni veneree (la sifilide o la gonorrea, co­me da legge del 1956) oppure l’ob­bligo della visita prima di produrre un certificato di malattia. Ma la visi­ta, dicono i medici rispondendo al ministro Brunetta, non basta a deci­dere se, ad esempio, l’emicrania o un altro sintomo dichiarato dal pa­ziente è vero o falso.
«I medici — dice Claudio Cricelli — sono obbligati alla visita, ma pos­sono anche certificare, specificando­lo, sintomi lamentati dal paziente». Cricelli, medico e presidente del­la Simg, la Società italiana di medici­na generale, ricorda un’altra situa­zione molto delicata in cui il medi­co, nella sua pratica quotidiana, si deve confrontare con la legge: i casi di lesioni gravi che fanno sospettare un reato. Succede sempre più spes­so, ad esempio, che il medico di fa­miglia noti sul corpo delle sue pa­zienti lividi che fanno pensare a mal­trattamenti. E capita che la stessa ipotesi il pediatra possa arrivare a farla davanti ai lividi sul corpo di un bambino.
«Il nostro obbligo — spiega Cricel­li — è quello di riferire all’autorità competente, che approfondirà le in­dagini ». Il medico lo «deve» fare, ma deve anche agire con cautela per non sbagliare e creare danni peggiori. La cronaca racconta casi come quello di Valentina, cinque mesi, morta, secon­do le prime ipotesi, perché la mam­ma l’aveva scossa troppo e le aveva procurato danni al cervello (è la co­siddetta shaken baby syndrome, la sindrome del bambino scosso). Alla fine l’autopsia ha svelato che, in real­tà, si trattava di una gravissima pol­monite emorragica e così tutti, medi­ci, investigatori, inquirenti hanno do­vuto chiedere scusa.
Dal medico di famiglia, poi, si pre­senta la donna che vuole abortire, che bisogna aiutare nel percorso le­gale che deve fare per arrivare all’in­terruzione di gravidanza; c’è la ra­gazzina che ha lo stesso problema e non vuole dirlo ai genitori. E così via, in un elenco interminabile.
C’è poi il capitolo delle cure, go­vernato, oggi, dalla legge sul consen­so informato. Il medico, prima di qualsiasi trattamento o indagine dia­gnostica, deve acquisire il consen­so, cioè deve avere «l’autorizzazio­ne a procedere» dal paziente al qua­le devono essere spiegati i benefici e i possibili rischi ai quali può andare incontro.
E non si possono attuare tratta­menti sanitari obbligatori «tranne — precisa Santosuosso — in alcuni casi, come quello di certe vaccinazio­ni perché prevale il bene della comu­nità rispetto a quello del singolo op­pure quando una persona diventa pericolosa per sé e per gli altri e allo­ra il medico richiede il ricovero coat­to al sindaco».
Il medico, dunque, non può co­stringere una persona a curarsi, ma può rifiutarsi di curarla. Il caso Di Bella ha fatto storia: all’epoca sono dovuti intervenire i magistrati per imporre un trattamento anticancro che, secondo la maggior parte dei medici, non aveva alcuna efficacia. Oggi un numero sempre maggiore di persone arriva dal medico dopo aver acquisito informazioni via In­ternet e pretende prescrizione di esa­mi diagnostici o di farmaci.
«Il medico — dice Santosuosso— deve sempre fare delle scelte nell’in­teresse del paziente, ma ha anche la libertà professionale di rifiutare la prescrizione se non la ritiene oppor­tuna ». Ci sono poi prescrizioni «op­portune » secondo la letteratura scientifica, come quelle di farmaci oppiacei contro il dolore, che rischia­no di essere limitate dall’eccesso di regole (e l’Italia è l’ultima in Europa nell’uso di questi medicinali).
I medici, in particolare i più giova­ni, hanno poca dimestichezza con leggi e codicilli sui quali non esiste una vera e propria preparazione uni­versitaria. Per tutti, poi, sono trop­po poche le occasioni di formazione per gli opportuni aggiornamenti.
Tutta questa voglia di legge lascia però perplessa una parte dei medi­ci, e forse anche dei pazienti, che vorrebbero un ritorno a una medici­na più tradizionale e meno tecnolo­gica.
«Bisogna ritornare a essere medi­ci come una volta, a guardare il ma­lato come una volta — suggerisce Pasquale Spinelli della Federazione italiana della società medico-scienti­fiche (Fism).— Si deve ricreare un rapporto vero con il paziente. Ma og­gi il sistema non lascia spazio per far questo. E nemmeno l’università lo insegna. Qualche volta le leggi servono soltanto a deresponsabiliz­zare il medico».

l’Unità 22.5.09
Toni Morrison: «il mio viaggio alle radici del razzismo»
di Maria Serena Palieri


L’incontro L’America «prima degli Stati Uniti». Lo schiavismo prima
del razzismo. Una madre che regala la figlia per evitarle le catene
La scrittrice premio Nobel nel ’93 racconta il suo ultimo libro, «Il dono»

Il dono, il nuovo romanzo di Toni Morrison in libreria per Frassinelli, è un libro che ci spalanca le porte su un mondo storicamente esistito, fino a tre secoli fa, ma, ai più di noi lettori, incredibilmente ignoto: il Nord America prima che nascessero gli Stati Uniti.
Ambientato nel Seicento, tra le torride Barbados, l’enclave cattolica del Maryland e le terre ghiacciate del Nord, ci racconta la vicenda di una bambina, Florens, figlia di una schiava giunta dall’Africa, del suo nuovo padrone, l’anglo-olandese Jacob, e delle altre donne che, con lui, vivono in una fattoria del Settentrione: sono la moglie Rebekka, sfuggita all’Inghilterra delle persecuzioni religiose e di una pre-dickensiana povertà metropolitana, l’indiana, «nativa» Lina, e Sorrow, una ragazzina arrivata lì dal mare dopo un naufragio, come un miracolo o una sciagura. Alle loro si intreccia la vicenda di Scully e Willard, due europa, insomma due bianchi che, da braccianti, vivono anch’essi in condizioni di schiavitù. È un’America dove passeggiano ancora indiani a cavallo né selvaggi come nei film né - com’è nelle riserve - abbrutiti dall’alcool, mentre i fondamentalisti di uno sciame di sette cristiane si rinserrano nei villaggi esorcizzando il Maligno che sarebbe responsabile dell’epidemia di vaiolo in corso. Florens è stata «donata» a Jacob, uomo dallo sguardo buono, da sua madre che ha voluto salvarla così dalla brutalità dei suoi stessi padroni. Ma Florens impiegherà le 177 pagine del libro a guarire dal suo male, la fame che le deriva da questo gesto d’amore che ha vissuto come un tradimento. L’amore, sostanza del vivere che, come l’acqua, s’insinua dappertutto, è uno dei grandi temi di Toni Morrison. E Florens è stata letta come antenata di un’altra figlia, la Amatissima del romanzo del 1987 che alle soglie della Guerra Civile la madre, schiava, Sethe uccide perché in lei non si rinnovi il suo destino.
Ora Toni Morrison, dolorante alla schiena, passo malcerto, ma sempre maestosamente bella, a 78 anni fa l’esperienza di un’altra America: sceglie il tailleur di Armani che vuole regalare alla moglie del figlio Ford, invitata dagli Obama alla Casa Bianca. Sbracciato? No, troppo a imitazione della first lady: «Con Michelle “le braccia sono le nuove gambe”, si dice oggi» ride.
Il Nuovo Mondo che racconta è il contrario di un paradiso. I vizi capitali ci sono già tutti: avidità, brutalità, ipocrisia e perfino la pedofilia ecclesiastica. Il suo bersaglio era la presunzione d’innocenza degli americani?
«Ho voluto raccontare come queste persone cercassero un paradiso, senza accorgersi che anche lì erano in agguato vizi di sempre: l’autoillusione, la debolezza, il dubbio, la paura. Ma anche come combattessero con coraggio enorme per sopravvivere o cercare di vivere bene in un mondo selvaggio e pericoloso».
«Il dono» descrive un mercato degli schiavi che - lì in quel secolo - riguarda tutti: neri, nativi, meticci, europei. La nostra sorpresa, nel leggere, è stata giustificata?
«Credo che questa parte della storia sia ignota anche negli Stati Uniti. La nostra storia, per come viene narrata, comincia con il 1776 della dichiarazione d’indipendenza, il prima è stato cancellato e nascosto. Mi sono consultata con storici e antropologi per un biennio e ho studiato materiale sulle traversate atlantiche: chi erano i fuggiaschi a bordo di quelle navi? Fuggivano dalle persecuzioni religiose, ma erano anche mercanti e criminali. Diventare tali era facile: bastava istigare una rissa, oppure prostituirsi o essere una madre nubile. La scelta che veniva proposta era: il carcere, oppure vai nel Nuovo Mondo. Il contratto che legava servi e padroni poteva durare una vita e, se il servo moriva prima di adempierlo, passava ai suoi figli. Schiavi bianchi e neri vivevano e lavoravano insieme nelle piantagioni. Ora, tutto il mondo ha conosciuto la schiavitù, l’antico Egitto, i Greci, Roma, l’Europa della servitù della gleba. Ma la novità da noi è stata l’istituzionalizzazione del razzismo: gli schiavi bianchi da un certo momento in poi sono saliti di un gradino, sono stati separati dai neri e hanno ottenuto il diritto, perfino, di ucciderli».
È l’evoluzione della schiavitù in razzismo - male ancora attuale - che ha voluto mettere a fuoco?
«Volevo essere sicura che gli americani capissero che il razzismo non è né naturale né inevitabile. È nato solo per permettere ai proprietari terrieri di mantenere indisturbato il proprio potere, creando gerarchie tra schiavi».
Campeggia nel romanzo la figura di un nero che non ha mai conosciuto la schiavitù. È storicamente plausibile, oppure è una licenza narrativa?
«Ce n’erano. Avventurieri, marinai, capi arrivati dall’Africa. Ci sono neri negli Usa oggi che non hanno schiavi nel proprio albero genealogico. Pochi, ma ci sono. Il “Fabbro” è colui che trasmette amore, amicizia, forza, paura. Perché è nero. È libero. È competente. È, del mio libro, il cuore che batte. Ma è anche colui che intimorisce».
Florens se ne innamora. Ma, respinta, lo aggredisce forse a morte. È un finale dolce o amaro?
«Allarmante, ma promettente. Il libro comincia con Florens che dice la parola “paura”, e finisce con Florens che dice la parola “libera”. In lei c’è rabbia, c’è vendetta. Cosa farà dopo? La strada è lunga».
Nel 1993 è stata la prima scrittrice afroamericana a ricevere il Nobel. Un anticipo di ciò che il novembre 2008 ha riservato al suo paese?
«Sono cinica. Ho ricevuto troppe delusioni. Non ho mai pensato che Barack Obama potesse vincere. Ma ecco le coincidenze: ho scritto questo romanzo sugli anni in cui il razzismo ancora non era stato inventato. E ora posso sperare che ce l’abbiamo alle spalle».
I primi 150 giorni di presidenza l’hanno delusa?
«Obama non è un re. È un presidente e deve vedersela con Congresso e Senato. Coi cattivi… Le aspettative sono astronomiche. E gli americani sono come bambini, vogliono tutto e subito».

BIG MAMA. Vita e opere da Nobel
1931. Chloe Anthony Wofford, in arte Toni Morrison, nasce a Lorain, Ohio, il 18 febbraio 1931 da una famiglia nera della classe operaia.
1970. Debutta come romanziere con «L’occhio più azzurro». Seguiranno i romanzi «Sula», «Il canto di Salomone» e «L’isola delle illusioni».
1987. Esce il suo capolavoro, «Amatissima», con il quale vince il Booker Prize. Nel ’92 pubblica «Jazz»
1993. Riceve il Nobel per la Letteratura. Pubblica poi «Paradiso», «Amore» e quest’ultimo «Dono». Tutti i suoi libri sono tradotti in Italia da Frassinelli.

Corriere della Sera 22.5.09
Arie e Ensembles nel bicentenario
Haydn, genio oltre la forma
di Paolo Isotta


Se volessimo fare l’elenco dei sette più grandi operisti sette­centeschi in lingua italiana, dovremmo così proporlo: Händel, Leo, Has­se, Traetta, Haydn, Paisiello (che va considerato con Gluck anche il più grande della lingua francese), Mo­zart. Ossia tre apulo-napole­tani e quattro tedeschi. Tra­etta non è mai entrato in re­pertorio e alcune menti infe­lici lo considerano addirittu­ra un tardo-barocco; e per vedere la differenza tra una mente infelice e un sommo storico, basta considerare che il Dent intitola la sua pionieristica e tuttora indi­spensabile opera su Alessan­dro Scarlatti The father of classical music, mentre un altro mammasantissima co­me Friedrich Blume, al qua­le si deve addirittura la sco­perta d’una piccola ma qua­litativamente importantissi­ma fase della Storia da lui definita «Manierismo Musi­cale » (Gesualdo corrispon­dente al più tardo Michelan­giolo), dimostra che tanto Bach quanto Händel non possono essere schierati né tra i compositori genuina­mente barocchi né tra quel­li dello Stile Classico.
Il caso di Haydn, per giu­dicare il quale deve conside­rarsi una serie di fattori estrinseci che determinano e circoscrivono il giudizio, è il più difficoltoso. A differen­za degli altri, salvo Alessan­dro Scarlatti che voleva scri­vere per Gian Gastone de’ Medici capolavori mentre il monarca preferiva il garba­to peso-piuma Pistocchi, Haydn non era il composito­re italiano viaggiatore e, per dir così, sul libero mercato, bensì un dipendente della principesca (non nel senso di famiglia regnante, secon­do quanto scrive Machiavel­li) famiglia degli Esterhazy la quale, in fatto, nei suoi sterminati possedimenti un­gheresi raggiungeva uno sta­tus presso che regio. Nella Versailles che la megaloma­nia della famiglia aveva co­struita per lande e lande, esi­stevano anche un teatrino e una piccola orchestra, per la quale Haydn scrisse la gran parte delle sue Sinfonie e delle Opere teatrali. Un inci­so è qui indispensabile per ribadire che nel numero cen­tenario delle Sinfonie di Jo­seph osserviamo una conti­nua evoluzione stilistica e procedimenti tecnici tra i più varî, ma non un'evoluzio­ne di valore: a partire dalla trilogia Le Matin, Le Midi, Le Soir si tratta di cento ca­polavori assoluti.
I libretti erano comici o eroicomici (tranne l’Armi­da e l’ Orfeo), mai inventati o stesi per Haydn ma adot­tati o riadattati da opere precedenti di altri musici­sti, senza o quasi cori e con possibilità orchestrali limi­tate: e nondimeno La vera costanza e La fedeltà pre­miata, sebbene di dramma­turgia meno sintetica, non la cedono un ette ai capola­vori di Mozart. In altre il pensiero musicale si svilup­pa come condizionato e ri­stretto dalla forma e dal ge­nere delle Opere. L’unico ente che si sia ricordato del bicentenario di Haydn an­che operista è stato la Socie­tà del Quartetto di Milano. La scelta del titolo, come di­co, avrebbe potuto essere più felice; l’appellativo dato­gli dal librettista Coltellini, «burletta», indica qualcosa in sé di ristretto, quasi da «farsa» ma che farsa non vuol essere e nello stesso tempo del cosiddetto mez­zo- carattere che allora era invenzione recentissima di Piccinni. E nondimeno le Arie sono di una bellezza e fantasia grandi, quando non siano troppo costrette a ricorrere alla melodia sil­labata propria della farsa: gli Ensembles sono squisiti. L’esecuzione, affidata al­l’Haydn Ensemble Berlin di­retta da un grande oboista, Hansjörg Schellenberger, è stata onesta nella parte stru­mentale con un manipolo esiguo assai di esecutori, e buona nella parte vocale: penso in particolare a uno squisito tenore «di grazia», Leif Aruhn-Solén.
Voglio ricordare che L’in­fedeltà delusa è un’Opera «a numeri»: ossia singole Arie o Ensembles divisi da Recitativo secco. Dopo ogni singola Aria o Ensemble si deve applaudire se l’esecu­zione sia soddisfacente, ma gli abbonati sconoscevano il particolare. In tutta la sala un solo ascoltatore applau­diva e a poco a poco è stato considerato un pubblico di­sturbatore. Nell’intervallo, al bar una splendida ragaz­za, dai capelli color oro vec­chio come le Madonne fio­rentine del Quattrocento, al­l’entrata del disturbatore ha detto ad alta voce: «Ecco il pazzo che applaude!». Il paz­zo ero io.

Il Giornale 22.5.09
Prima visione. Vincere


Vincere di Marco Bellocchio condensa le angosce del regista in un film che si poteva ridurre di mezz’ora, con notevole giovamento, se alle spalle di Bellocchio ci fosse stato un produttore di polso. Infatti Vincere è fardellato di brani documentari, noti da chi li capisce, molesti per gli altri. E poi, insistendo che la vicenda di Ida Dalser (Giovanna Mezzogiorno) è strettamente connessa con Benito Mussolini (Filippo Timi), padre di suo figlio, Benito Albino (ancora Timi), non come privato, ma come politico, Bellocchio vuol far assurgere il caso personale a caso politico.
Invece, così, Vincere induce lo spettatore meno maturo a credere che l’orrore manicomiale patito dalla Dalser sia qualcosa d’epoca e solo d’epoca, di italiano e solo di italiano, di arretrato e solo arretrato, cattolico e solo cattolico, di fascista e solo di fascista. Ma Changeling di Clint Eastwood aveva raccontato un caso analogo: ricovero in manicomio di una giovane donna trasgressiva nella democratica, protestante e ricca California del 1928, e sempre per via di un bambino, che non era nemmeno figlio del presidente americano.
Bellocchio accenna solo la personalità della Dalser, notevolissima per l’epoca, lasciando lo spettatore quasi ignaro che questa trentaquattrenne trentina del 1914 era suddita austroungarica, quindi viveva in una società più avanzata che quella del Regno d’Italia; e che aveva studiato a Parigi, maturando idee precise in cultura e in politica. Fu però una personalità insolita (lo sarebbe anche oggi) che affascinò Mussolini: anche lui, meno confortevolmente, aveva vagato per l’Europa.
A Bellocchio non interessa l’amore fra loro, ma le sue conseguenze: il bambino e l’abbandono. Ma senza sapere che «cavalla matta», ma anche donna più interessante delle altre, fosse la Dalser, non si capisce il seguito. Che pare solo una congiura dove la meschinità di Mussolini si sommò alla ragion di Stato, che sopravvenne, specie dopo il Concordato con la Santa Sede. Comunque Vincere rompe il silenzio cinematografico su un’atroce ingiustizia; ricorda che il fascismo nacque dal socialismo alla prova della prima guerra mondiale e dimostra la tenacia di Bellocchio nell'inveire - coi suoi motivi - contro le istituzioni totali, come collegi e manicomi.