domenica 24 maggio 2009

l’Unità 24.5.09
Il Cavaliere Ddl popolare per ridurre a 300 i parlamentari, l’opposizione non mi serve
Il Paese del premier corruttore
Questa volta c’è poco da riferire in Aula:
il mistero di Letizia va spiegato al Paese
l’accusa di corruzione affrontata in tribunale
di Furio Colombo


Silvio Berlusconi è un corruttore. Ha corrotto un teste per evitare una condanna. Non è una ipotesi, è una sentenza. Non è definitiva, ma questo è un fatto della procedura giudiziaria che prima di colpire un individuo con la punizione prevista dalla legge, gli dà la garanzia dell’appello.
Tutto ciò vale per il ladro di biciclette o per l’uxoricida. Ma per il capo di un governo che rappresenta tutto un Paese, nei suoi confini e nel mondo?
La domanda è ragionevole e fondata. Lo dimostrano i due interventi di accanito e appassionato sostegno che, nel pomeriggio del 19 maggio, sono stati fatti alla Camera in difesa del primo ministro italiano.
Avevano appena parlato il capogruppo Pd Soro, il capogruppo Italia dei Valori Donadi e, per l’Udc, Bruno Tabacci. Avevano espresso indignazione e scandalo.
I due difensori, che hanno dato l’impressione di un intervento inaspettato e improvvisato, sono di professione avvocati.
L’avvocato-deputato Consolo ha avuto questo da dire: «Se voi vi credete sventolando queste accuse, di allontanarci dal nostro capo vi sbagliate. Il popolo lo voterà ancora di più. E noi gli vogliamo ancora più bene».
L’avvocato-deputato Brigandì ha accusato i magistrati milanesi di essere cattivi giudici. Ma il suo argomento forte è stato: «Non illudetevi. Tra poco tutto andrà in prescrizione».
All’unico primo ministro al mondo definito, in modo esplicito in una sentenza, «corruttore» di un teste che ha mentito in una rilevante vicenda giudiziaria, non deve essere sfuggito né l’evidente imbarazzo dei suoi «difensori» nell’aula della Camera dei Deputati, né la scarsità di applausi di tutta la sua parte. Niente boati, niente «ola», niente manifestazioni da stadio di cui il nostro uomo ha tante volte goduto. Certo, gli avrà dato un po’ di conforto leggere o ascoltare, dalla parte del centrosinistra, la solita, misteriosa, mai spiegata consegna: non ripetete le accuse a Berlusconi, altrimenti il premier si rafforza.
Questa strana «cura Di Bella» (ricordate il presunto scienziato celebrato dalla destra italiana come taumaturgo dei peggiori mali?) ovvero un cauto, rispettoso, collaborativo silenzio, non ha intaccato l’immagine del presidente-padrone. Se l’opposizione tace e si riserva di offrire una cortese collaborazione (come nel caso del federalismo fiscale così indispensabile per la campagna elettorale della Lega) che cosa dovrebbero fare i cittadini da soli?
Dunque è vero, nelle imminenti elezioni Berlusconi segnerà dei punti. Ma è impossibile non notare il fatto nuovo, in questo nodo di eventi poco onorevoli: è la dimensione internazionale. Questa volta persino Berlusconi parla di «danno all’immagine dell’Italia nel mondo». Lo fa partendo dalla premessa sbagliata che chi attacca lui attacca l’Italia (presumibilmente anche Veronica Lario ha passato il segno perché osa divorziare dall’Italia). Però è vero che il danno recato all’Italia da Berlusconi è grande. La sua è un’Italia brutta, sporca e cattiva, dalla «frequentazione delle minorenni» (citazione di Veronica Lario) al «respingimento in mare» dei migranti (violazione dei diritti umani e di asilo, secondo Vaticano e Onu) fino al reato di «corruzione» (motivazione di sentenza del Tribunale di Milano, 19 maggio).
Sembra chiaro che l’antica formula che non ha mai funzionato (non attaccatelo, diventa più forte; basta con l’anti berlusconismo) diventa ridicola mentre tutto il mondo si è accorto della farsa e tragedia rappresentata dal Silvio Berlusconi, nell’evidente imbarazzo dei suoi.
Questa volta, diciamo la verità, c’è poco da venire a riferire in aula. In aula si dovrebbe parlare delle vane promesse fatte ai terremotati e impossibili da mantenere. In aula si dovrebbe spiegare la nuova politica estera che ci lega alla Libia e alla Russia e ci allontana dagli Stati Uniti. E forse Berlusconi ha ragione a dichiarare in modo mussoliniano il suo disprezzo per il Parlamento. Sa che in quelle aule non lo attendono ovazioni. Certo non ovazioni spontanee, neppure da una parte imbarazzata e confusa della sua parte. Eppure gli restano cose importantissime da dire per tentare di salvare la faccia.
Il mistero di Elio Letizia (chi è, perché ha potere) va spiegato al Paese. L’accusa di corruzione va affrontata in tribunale. E la vera domanda di tutto il mondo democratico è semplice e netta: può un uomo così governare? Quale maleficio rende l’Italia succube di un potere estraneo alle regole democratiche, che evoca alcune tragiche situazioni africane?

l’Unità 24.5.09
Viareggio, vietata la Festa de L’Unità
«Le bandiere rosse disturbano»
di Valeria Giglioli


Quando si dice “vedere rosso”. E in questo caso alla vicenda, che ha il sapore di una moderna puntata della saga Peppone-Don Camillo (ma con molto acume in meno), fa da sfondo Viareggio, cuore pulsante della Versilia dove l’amministrazione di centrodestra s’è insediata nel 2008 dopo anni di governo del centrosinistra.
Nella capitale della riviera toscana la festa de l’Unità si svolge da anni alla Torre Matilde, piccola pineta all’ingresso del centro. Dove per questa estate aveva chiesto di poter tornare con la sua kermesse anche Rifondazione. Ma la nuova amministrazione, capitanata dal forzista Luca Lunardini, ha comunicato pochi giorni fa ai rappresentanti dell’opposizione l’intenzione di non autorizzare feste di partito in quell’area. Problemi di traffico, è stata la motivazione ufficiale. Non fosse che l’assessore azzurro all’urbanistica, Roberto Bucciarelli, ha spiegato senza mezzi termini che «i nostri elettori sono stufi di vedere, tutte le estati, le bandiere rosse all’ingresso della città». Parole esplicite, che difficilmente possono non far tornare in mente i tempi andati in cui si agitava lo “spauracchio comunista” con tutti gli annessi e connessi simbolici. E che puntano il dito su un appuntamento che in città significa non solo politica ma anche buon cibo a prezzi per tutte le tasche (sono famosi i tortelli e il fritto di pesce), e un’occasione d’incontro nelle calde sere estive per chi non vuol farsi travolgere dalla movida versiliese.
L’opposizione non è però rimasta con le mani in mano. E i consiglieri di Pd e Prc si sono presentati all’ultima seduta del consiglio comunale vestiti con magliette rosse e drappi in tinta da avvolgere intorno ai microfoni. E domani porteranno in Comune la richiesta ufficiale di poter tenere le feste nel loro luogo di sempre.

il Riformista 24.5.09
Intese Fini-D'Alema
A braccetto a Bagnaia sulla libertà di stampa


Massimo D'Alema e Gianfranco Fini cinguettano sul tema della libertà di stampa. L'occasione, il convegno dedicato all'editoria "Crescere tra le righe" che si è tenuto ieri a Borgo La Bagnaia, in provincia di Siena. D'Alema ha sostenuto che nell'informazione italiana «c'è un problema serio di equilibrio». E questo perché «non c'è dubbio che c'è un enorme potere nelle mani di una persona», ovvero il premier Berlusconi. Poi l'ex ministro degli Esteri è stato protagonista di un siparietto con il presidente della Camera. «Condivido quello che dice D'Alema sulla stampa e l'informazione - ha commentato Fini - . Così qualcuno dirà che sono sempre più di sinistra. Ma magari qualcuno si deve chiedere se D'Alema non sia di destra». Quindi Fini ha aggiunto: «In Italia oggettivamente non vedo un problema di libertà di stampa. Il problema è che tra le tante anomalie della nostra società, con pochissime eccezioni, non c'è l'editore puro, e quindi ci possono essere dei condizionamenti, che è tutt'altro che un bavaglio alla libertà o censura». Per Fini «il problema è la proprietà dei giornali e gli assetti che quelle proprietà vogliono dare, a partire dalle direzioni dei giornali». D'Alema poi ha aggiunto che per quanto lo riguarda ha deciso da un po' di tempo di mettere da parte il proverbiale sarcasmo nei confronti dei giornalisti che lo ha accompagnato negli anni: «La situazione è talmente preoccupante che non ce lo possiamo permettere di polemizzare con loro, ho smesso da un po' di tempo». Il presidente della fondazione Italianieuropei ha anche commentato gli attacchi provenuti dal governo: nel comunicato ufficiale di Palazzo Chigi è stato usato il termine di "stalinisti" nei confronti suoi e del capogruppo del Pd al Senato Anna Finocchiaro, che avevano attaccato il premier per le sue parole sull'inutilità del Parlamento. «Quando si usa addirittura Palazzo Chigi - ha osservato - per insultare l'opposizione anziché per risolvere i problemi del paese, solo perché abbiamo commentato le notizie che c'erano sui giornali, si tratta di un comportamento arrogante e antidemocratico».

Corriere della Sera 24.5.09
«Indulto, il 73% non fa più reati»


MILANO — «L’indulto funziona, ma nessuno ci crede». Parola di Giovanni Torrente, sociologo del diritto all’Università di Torino e Aosta che ieri a un convegno nel carcere «Due Palazzi» di Padova, organizzato da Ristretti Orizzonti, ha presentato i dati di una sua ricerca: il tasso di recidiva dei detenuti che sono ricaduti nei reati è sceso al 27 per cento contro il 68 per cento dell’epoca pre-indulto. Il gruppo di lavoro di Torrente ha studiato sui dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che costituiscono il maggior campionamento disponibile sulla sorte dei 44.944 detenuti che hanno beneficiato della misura. Tra i «rientri» dei detenuti che provenivano dal carcere (27.607) il tasso medio di recidiva è stato di circa il 27 per cento. Tra coloro che invece venivano da misure alternative come semilibertà o l’affidamento ai servizi sociali, la recidiva crolla attorno al 18 %. Per coloro che non avevano mai avuto esperienze carcerarie l’indulto ha fatto calare il tasso di recidiva a nemmeno il 12%. In pratica, nove su dieci che non erano mai andati in carcere prima, dopo l’indulto non sono più rientrati. .
Rispetto alla media del 27 per cento, gli stranieri hanno mostrato un tasso di recidiva minore, del 19.80 per cento anche se, ammette il sociologo, la rivelazione degli stranieri è più complicata e il dato va ricontrollato.

Repubblica Firenze 24.5.09
Intervista. Sostenuto da Rifondazione
Spini: prima di tutto serve il piano strutturale
di m. v.


Le tesi dell’outsider della sinistra che vorrebbe la Regione in piazza Puccini
"Vedrete che la terza corsia A1 non basterà a smaltire il traffico Roma-Milano

Spini, se domani fosse il sindaco cosa farebbe a Castello?
«La prima cosa da fare è il Piano strutturale perché è in rapporto al Piano che si decidono le funzioni».
Vuole ricominciare a discutere sul Piano? Non sa che deve essere approvato entro luglio 2010?
«Farei così: verificare cosa c´è da accettare, cosa no e cosa da modificare. Non si deve ricominciare, il blocco va evitato».
E Castello dunque?
«Ogni decisione deve partire dal parco e dai vincoli dell´aeroporto. Lo stadio? Se ce lo mettiamo dobbiamo togliere qualcos´altro, magari le scuole superiori come Sassetti e Iti. Semmai si può pensare al Museo di scienze naturali».
Intende ricontrattare il progetto con Ligresti?
«Si tratta di verificare lo stato dell´arte».
E cosa farebbe alla ex Manifattura Tabacchi?
«Non sarei contrario a prevedere lì la sede della Regione, non si può stipare tutto a Castello».
C´è da risolvere la questione dell´ex Panificio militare.
«L´errore è non avere esercitato la prelazione da parte del Comune quando era in vendita l´area».
E dove avrebbe trovato i soldi per l´acquisto?
«Sono stati trovati per tante cose. Va progettato il verde e va prevista una piazza. Lì anche la nuova sede del Quartiere 5, che oggi paga un affitto esoso. Per prima cosa farei un referendum preventivo. Ma sia chiaro, se in questi anni si è ritenuto di monetizzare gli standard, facendo pagare i privati per l´azzeramento di verde pubblico, d´ora in poi non deve essere più consentito».
La Fortezza è ancora del demanio.
«Si devono sveltire le procedure. La Fortezza è ormai un binomio con Pitti e questo binomio va difeso, Firenze non deve perdere le mostre. Manca un polo congressuale ma non ci sono le condizioni per un appesantimento della Fortezza».
Terza corsia autostradale.
«Temo che si vedrà presto che la terza corsia non sarà sufficiente, si deve togliere il traffico Roma-Milano».
Rifondazione dice no alla bretella Barberino-Incisa.
«Lo dico a titolo personale, vediamo se la terza corsia è sufficiente: il problema non è tra fare e non-fare ma il fare bene».
Che farebbe col Multiplex?
«Sono per il mantenimento dei cinema».
E con la riconfigurazione dell´aeroporto?
«La Regione sta vagliando 5 ipotesi di piste. Non facciamo battaglie ideologiche. Servono efficienza e tutela ambientale».

Repubblica 24.5.09
Nostalgia dell’altra Germania
di Andrea Tarquini


Mentre si preparano le celebrazioni per il ventennale della caduta del Muro, una mostra per ragazzi a Berlino, un romanzo e un´antologia di poesie ricordano l´arte e la vita quotidiana dell´Est che fu comunista. Per i tedeschi è una "operazione memoria" animata soprattutto da chi visse nello "Stato-in-cui-non-tutto-era-male"

BERLINO. L´ultima idea provocatoria riguarda l´inno nazionale. Nel Deutschlandlied che fu composto da Haydn, sarà forse inserita la prima strofa dell´inno della defunta Ddr: «Risorta dalle rovine, rivolta verso il futuro, lasciaci servirti, patria tedesca unita». Patria tedesca unita: parole allora sovversive, oltre il Muro della Guerra fredda. Quando, dopo anni di ritardo sclerotico, la censura "rossa" se ne accorse, il regime di Berlino Est divenne l´unico al mondo a imporre di cantare l´inno del suo Stato senza le parole. Eppure, vent´anni dopo, quello Stato caduto nel 1989 con il Muro, e nel 1990 con la riunificazione, negli animi non è morto.
Un´antologia di cento poesie scritte nei quarant´anni di vita della "Repubblica democratica tedesca" fa parlare di sé. Al Fez, il grande, postmoderno e interattivo parco della gioventù dell´ex Berlino Est, la mostra cui tutti i media tedeschi danno risalto è un´esposizione per spiegare ai bambini cos´era la Ddr. Il più importante romanzo tedesco del momento è Der Turm (La torre), di Uwe Tellkamp, una sorta di Buddenbrook dell´Est che narra dello sforzo di sopravvivere della borghesia di Dresda aggrappandosi ad affetti e tradizioni. Vent´anni dopo, non è solo nostalgia: il passato che non passa, tipico di tutto l´Est ex comunista, qui è un´emozione e un confronto che la moderna, democratica, multiculturale Germania riunificata vive bipartisan nel suo quotidiano, proprio in quest´anno dell´anniversario della svolta.
La memoria divide e insieme unisce. La maggior parte dei tedeschi dell´Ovest, cresciuti tranquilli in democrazia da due generazioni, sa e vuole sapere poco o nulla degli ex fratelli poveri dell´Est ora parte della Bundesrepublik. Nelle scuole superiori di Monaco o Francoforte, se credi alle interviste live della tv pubblica, ci sono studenti convinti che il Muro di Berlino lo abbiano eretto Hitler, oppure i russi o gli americani. Eppure il dibattito è quotidiano, appassiona e divide. «La Ddr era uno Stato repressivo, una dittatura brutale», dice la cancelliera Angela Merkel. Ma, al contrario dei conservatori nostrani, si guarda bene dal paragonare al Terzo Reich quel comunismo che i tedeschi hanno sofferto più di altri. Altri politici, a sinistra ma non solo, dissentono. «Era una dittatura, eppure questo non vuol dire che ognuno là era ogni giorno infelice», ribatte il vicecancelliere e leader socialdemocratico Frank Walter Steinmeier.
Basta sfogliare il libro edito da Christoph Buchwald e Klaus Wagenbach, Cento poesie dalla Ddr, per capire meglio. Non è solo questione di nostalgia, avvertono i due. La Germania orientale e i suoi ex cittadini non vogliono sentirsi tedeschi di serie B, si ribellano alla sensazione che una vita vissuta dietro il Muro sia gettata alle ortiche dal senso di superiorità dell´Ovest vincitore vent´anni fa. «Che ci piaccia o no, anche la lirica e la cultura della Ddr appartengono al patrimonio tedesco», scrivono nel saggio che accompagna il libro. Non è un´antologia qualunque: è un viaggio affascinante in quei quarant´anni, un itinerarium mentis nella vita di intellettuali che all´inizio sperarono nel regime come "Stato antinazista", o come "Società dei lettori colti". E poi soffrì l´involuzione repressiva dell´era brezneviana, il declino finale, il trauma della riunificazione.
«La Ddr all´inizio appariva agli intellettuali come lo Stato in cui ogni villaggio aveva un teatro, una casa della cultura o una biblioteca», scrivono Buchwald e Wagenbach. Le prime poesie dell´antologia sono piene di sensi di colpa per il passato e di voglia di riscatto. «Noi siamo la generazione perduta», scrive Inge Müller negli anni Cinquanta. E Stephan Hermlin, che poi nell´era Breznev sarebbe divenuto dissidente, ricordava allora Le ceneri di Birkenau. L´illusione di costruire una Germania migliore durò a lungo. Almeno fino alla costruzione del Muro: lo scrittore Uwe Johnson, ricorda l´antologia scuotendo la memoria del presente, diceva di aver «traslocato» da Est a Ovest, non si sentiva fuggiasco. Sfogliare il libro appassiona i lettori tedeschi di vent´anni dopo la fine dello "Stato che non è morto". Ecco Sarah Kirsch narrare semplicemente i piccoli momenti intimi in cui si macina insieme il raro caffè razionato, o Wolf Biermann invitare senza censure a «non aspettare tempi migliori».
Nello Stato finito ma non morto, come nella Mosca di ieri, poesia e letteratura erano un rifugio dell´intellighenzia. La Ddr aveva i suoi Evtusenko, i suoi Pasternak, i suoi Vysotskij. Ecco ancora Hermlin narrare l´avventura degli uccelli migratori, «tesi a scoprire altre terre»: elogio del viaggio vietato. Hermlin, che oggi i tedeschi riunificati riscoprono, fu punito, dimesso a forza dal regime da numero uno dell´Accademia delle arti. Venne il tempo della resa alla censura, era concessa solo l´ironia. Come quella di Thomas Brasch sul burocrate che anno dopo anno appende a casa prima il ritratto di Stalin, poi quello del primo dittatore Ulbricht, poi quello di sua moglie, e alla fine disperato non si sente mai lasciato solo in pace. Vengono confessioni d´addio, come Adieu Land di Gabriele Eckart, addio a un Paese dove non ce la fai più a vivere, eppure nel cuore resta la tua patria. E, negli anni del crollo del regime, la lirica dà voce alla realtà: ne Il Muro Reiner Kunze confessa che «quando lo costruimmo, non immaginavamo quanto sarebbe stato alto». «Noi» lo costruimmo: un´idea di identità nazionale oggi scomparsa ma non morta.
Che cosa bisogna dunque narrare ai giovani e ai bambini, nati dopo l´89, di questo Stato finito ma ancora vivo nell´immaginario collettivo? Un esperimento straordinario è in corso al Fez di Berlino est, l´ex parco-centro culturale della gioventù dove il regime indottrinava ma tollerava anche i pedagoghi creativi. La mostra Dimmi, cos´era la Ddr? prova a spiegarlo ai bambini. Narra delle realtà idilliache, dai Kindergarten alle colonie estive, ma anche del Muro. Racconta del minimo garantito per tutti come delle merci razionate o delle code, espone i credo convinti degli attivisti della Fdj, la gioventù comunista tedesco-orientale, ma ricorda anche la storia dei giovani ribelli, condannati all´emarginazione: come Annette, punk di Berlino est, che scrisse nei suoi diari: «In questo Stato solo il lavoro ci affranca dal grigiore del tempo libero». Per quella frase scontò sette mesi in una cella della polizia politica.
Nessun momento del privato dei cittadini sfuggiva allo es-war-nicht-alles-schlecht-Staat, lo "Stato in cui non tutto era male", eppure nel ricordo di quella realtà spietata non mancano i rimpianti. Rimpianti personali, ricordi di chi dovette vivere oltre il Muro e non vuole sentirsi oggi svalutato per questo. Der Turm, il romanzo di Uwe Tellkamp, nato all´Est e divenuto letterato famoso nell´Ovest del dopo-riunificazione, riabilita chi dovette vivere lì e visse resistendo nell´intimo, senza ribellarsi in piazza ma anche senza una capitolazione morale. È la storia di alcune famiglie borghesi che vivono nell´elegante quartiere delle colline oltre l´Elba, a Dresda. Accademici, scienziati, registi e attori, lassù sulla collina cercano di sentirsi lontani, nelle loro villette erose dal tempo, dal quotidiano della «dittatura proletaria». Sopravvivono tramandandosi la cultura borghese di prima di Hitler e della guerra, si stringono tra loro nelle tradizioni, nelle amicizie e negli affetti. La vicenda si svolge negli ultimi sette anni del regime, alla fine l´idillio si spezza. Anche in questo splendido romanzo così culturalmente ostile a quell´ancien régime, cogli il senso melanconico della fine d´un mondo.

Corriere della Sera 24.5.09
Nei confini si trovano le identità del futuro
di Zygmunt Bauman


I confini sono campi di battaglia. Ma anche «workshop creativi» in cui germogliano i semi di forme future di umanità. Il sociologo Zygmunt Bauman, inventore di fortunate formule sulla «società liquida», ridefinisce i concetti di confine e di frontiera. Le barriere e i muri sono i laboratori dove si modellano le nuove società, ma i muri sono per principio valicabili. Nelle società contemporanee si moltiplicano le demarcazioni: il futuro dipenderà dal dialogo che si creerà lungo questi confini.

Valencia. Una rassegna in Spagna ospita artisti che hanno esplorato le frontiere, culturali e geografiche
Lezioni. Dalle idee di Lévi-Strauss alle grandi migrazioni: l’analisi del creatore della «società liquida»
Oltre i muri. Barriere spontanee, recinti, divieti legislativi: i laboratori in cui si modella l’evoluzione umana
Sono pochi i muri privi di cancelli e di porte. I muri sono, per principio, valicabili e sono anche interfacce tra i luoghi che separano
Distinguere un luogo dal resto dello spazio vuol dire modificare le probabilità, rendere certi eventi possibili e altri impossibili

Il grande antropologo Claude Lévi-Strauss, nelle Strutture ele­mentari della parentela (1949), il primo dei suoi libri, sostiene che la proibizione dell’incesto (o, più precisamente, la creazione del­l’idea di «incesto», cioè di un rap­porto possibile ma da non pratica­re, proibito tra umani) segna l’atto di nascita della cultura. La cultura, e quindi il (particolare) modo uma­no di essere, inizia tracciando un confine che prima non esisteva. Le donne (tutte, dal punto di vista bio­logico, potenziali partner in un rapporto sessuale) vengono divise tra quelle con cui è proibito unirsi sessualmente, e le altre, con cui in­vece è permesso. Alle somiglianze e differenze naturali viene aggiun­ta una distinzione artificiale, crea­ta e imposta dagli uomini; più pre­cisamente, a certi tratti naturali (in questo caso biografici) viene attri­buito un significato ulteriore, asso­ciandoli a specifiche regole di per­cezione, valutazione e alla scelta di un modello di comportamento. La cultura, dagli inizi e per tutta la sua lunga storia, ha continuato a seguire lo stesso modello: usa dei segni che trova o costruisce per di­videre, distinguere, differenziare, classificare e separare gli oggetti della percezione e della valutazio­ne, e i modi preferiti/raccomanda­ti/ imposti di rispondere a quegli oggetti. La cultura consiste da sem­pre nella gestione delle scelte uma­ne.

1. I confini sono tracciati per cre­are differenze, per distinguere un luogo dal resto dello spazio, un pe­riodo dal resto del tempo, una cate­goria di creature umane dal resto dell’umanità... Creare delle diffe­renze significa modificare le proba­bilità: rendere certi eventi più pro­babili e altri meno, se non addirit­tura impossibili. Quando questo si verifica in determinati luoghi, peri­odi, o categorie di persone, il mon­do si semplifica, diventa più com­prensibile, si trasforma in un am­biente in cui è più facile agire in modo ragionevole (efficace, inten­zionale). Il confine protegge (o al­meno così si spera o si crede) dal­l’inatteso e dall’imprevedibile: dal­le situazioni che ci spaventerebbe­ro, ci paralizzerebbero e ci rende­rebbero incapaci di agire. Più i con­fini sono visibili e i segni di demar­cazione sono chiari, più sono «or­dinati » lo spazio e il tempo all’in­terno dei quali ci muoviamo. I con­fini danno sicurezza. Ci permetto­no di sapere come, dove e quando muoverci. Ci consentono di agire con fiducia.

2. Per avere questo ruolo, per im­porre ordine al caos, rendere il mondo comprensibile e vivibile, i confini devono essere concreta­mente tracciati. Intorno alle case troviamo steccati o siepi. Sulle por­te e sui cancelli ci sono nomi che mostrano la distinzione tra chi sta dentro e chi fuori, tra i residenti e gli ospiti. Ignorare questi segni, di­sobbedire alle regole che ci indica­no, è una trasgressione che com­porta conseguenze che vorremmo evitare: eventi temibili, imprevedi­bili e incontrollabili. D’altro canto, conformarsi alle istruzioni, esplici­te o implicite, e modificare il pro­prio modello di comportamento quando si attraversa il confine crea (ricrea, rafforza, manifesta) l’ordine che il confine deve instau­rare, servire e mantenere. Ordine vuol dire la cosa giusta al posto giu­sto e al momento giusto. Sono i confini a determinare quali sono le cose, i luoghi e i momenti giu­sti. Gli oggetti del bagno devono essere tenuti separati da quelli del­la cucina, quelli della camera da letto da quelli del soggiorno, quel­li destinati all’esterno da quelli per l’interno. Le cose fuori posto sono sporcizia e devono essere spazzate via, rimosse, distrutte o trasferite altrove, al luogo a cui «appartengo­no » — se esiste (non sempre esi­ste, come potrebbero testimoniare i rifugiati apolidi o i vagabondi sen­zatetto).

Chiamiamo «pulizia» la ri­mozione di ciò che è indesiderabi­le, il ristabilimento dell’ordine. «Pulizia» significa ordine.

3. I confini sono tracciati per cre­are e mantenere un ordine spazia­le: per raccogliere in certi luoghi al­cune persone e cose lasciandone fuori altre. Negli edifici pubblici gli avvisi di «divieto di accesso» so­no sempre posti su un solo lato della porta, per separare chi viene da quella parte (clienti, pazienti—esterni) da chi sta dall’altro lato (impiegati, sorveglianti, manager — interni). Le guardie all’entrata dei centri commerciali, ristoranti, edifici amministrativi, quartieri esclusivi, teatri o territori statali permettono a qualcuno di entrare e ad altri no, controllando bigliet­ti, lasciapassare, passaporti e simi­li documenti, o cercando di capire le intenzioni di chi vuole entrare o predire la sua capacità di attenersi alle regole stabilite. Ogni modello di ordine spaziale divide gli esseri umani in «desiderabili» e «indesi­derabili ». Ogni confine ha lo sco­po di evitare che le due categorie si mescolino nello stesso spazio.

4. I confini dividono lo spazio; ma non sono pure e semplici bar­riere. Sono anche interfacce tra i luoghi che separano. In quanto ta­li, sono soggetti a pressioni con­trapposte e sono perciò fonti po­tenziali di conflitti e tensioni. So­no pochi (se pure ci sono) i muri privi di cancelli o porte. I muri so­no, per principio, valicabili — an­che se le guardie da entrambi i lati hanno scopi opposti e cercano di rendere l’osmosi (la permeabilità e penetrabilità dei confini) asimme­trica. L’asimmetria è completa, o quasi, nel caso delle prigioni, dei campi di detenzione e dei ghetti, o delle «aree ghettizzate» (Gaza e la Cisgiordania sono oggi gli esempi più vistosi di questo tipo), dove le guardie sono solo da un lato; ma le zone delle città che notoriamente è bene evitare tendono ad assomi­gliare a questo modello estremo, affiancando al rifiuto di entrare di chi è fuori la condizione di non po­ter uscire di chi è dentro.

5. Tracciare e proteggere i confi­ni sono attività prioritarie, volte a ottenere e mantenere la sicurezza; il prezzo da pagare è la perdita del­la libertà di movimento. Questa li­bertà diventa ben presto il fattore discriminante tra i diversi gradi so­ciali e il criterio secondo cui un in­dividuo o una categoria vengono misurati all’interno della gerarchia sociale; il diritto di passaggio (o meglio il diritto di ignorare il confi­ne) diventa quindi una delle que­stioni più contestate, di carattere strettamente classista; mentre la capacità di sfidare il divieto di vali­care un confine diviene una delle principali armi di dissenso e di re­sistenza contro la gerarchia di po­tere esistente. Queste pressioni sfo­ciano in un evidente paradosso: nel nostro pianeta che si sta rapida­mente globalizzando, la diminuzio­ne dell’efficacia dei confini (la loro crescente porosità, associata al fat­to che la distanza spaziale ha sem­pre minor valore difensivo) si ac­compagna alla rapida crescita di si­gnificato che si tende ad attribuire loro.

6. Lontani dall’attenzione e dalle pesanti interferenze dei governi, in una sorta di penombra mediati­ca, si moltiplicano confini di tipo differente, spontanei, senza de­marcazioni. Sono la conseguenza della crescente urbanizzazione (due anni fa gli abitanti delle aree urbane hanno superato il 50 per cento della popolazione mondia­le). I «confini spontanei», costitui­ti dal rifiuto di una commistione, anziché da cemento e filo spinato, svolgono una doppia funzione: ol­tre ad avere lo scopo di separare, hanno anche il ruolo/destino di es­sere delle interfacce, di promuove­re quindi incontri, interazioni e scambi, e in definitiva una fusione di orizzonti cognitivi e pratiche quotidiane. È a questo livello «mi­cro sociale» che tradizioni, credi, culture e stili di vita differenti (che i confini amministrati dai governi a livello «macro sociale» cercano con alterne fortune di tenere sepa­rati) si incontrano e inevitabilmen­te ingaggiano un dialogo — pacifi­co o antagonistico, ma che porta sempre a stimolare la conoscenza e la familiarità reciproca, e poten­zialmente la comprensione, il ri­spetto e la solidarietà.

7. Il difficile compito di creare le condizioni per una coabitazione, pacifica e vantaggiosa per tutti, di forme differenti di vita, viene scari­cato su realtà locali (soprattutto ur­bane), che si trasformano, volenti o nolenti, in laboratori in cui si spe­rimentano, e alla fine si apprendo­no, i modi e i mezzi della coabita­zione umana in un pianeta globa­lizzato. Le frontiere, materiali o mentali, di calce e mattoni o sim­boliche, sono a volte dei campi di battaglia, ma sono anche dei workshop creativi dell’arte del vive­re insieme, dei terreni in cui vengo­no gettati e germogliano (consape­volmente o meno) i semi di forme future di umanità.

Nella storia nulla è predetermi­nato; la storia è una traccia lasciata nel tempo da scelte umane molte­plici e di diversa origine, quasi mai coordinate. È troppo presto per prevedere quale delle due funzioni — tra loro interconnesse — dei confini prevarrà. Di una cosa però possiamo essere certi: noi (e i no­stri figli) dormiremo nel letto che ci saremo collettivamente prepara­ti: tracciando confini e trattando sulle norme che regolano il funzio­namento delle frontiere. Che av­venga di proposito o casualmen­te... che ne siamo coscienti o no.
(Traduzione di Maria Sepa)

Corriere della Sera 24.5.09
Il rilancio del continente
Le due donne che chiedono all’Africa di prendere il destino nelle sue mani
di Francis Fukuyama


La premio Nobel Wangari Maathai spera nella nascita di leader che sappiano unire più lingue ed etnie
L’economista Dambisa Moyo boccia gli aiuti internazionali: sono causa del malgoverno

Tra il 2002 e il 2008 l’Africa sub-sahariana ha conosciuto una nuova stagione di crescita trainata dal boom globale delle materie prime e dagli investimenti cinesi.

Si è chiuso così uno dei periodi più tormentati nella storia recente del Continente: una fase lunga tutta una generazione durante la quale la maggior parte dei Paesi della regione ha registrato un crollo del reddito pro capite, talvolta a livelli mai conosciuti sin dalla fine del colonialismo.

Quest’inversione di tendenza segna l’apertura di nuove opportunità per gli africani; eppure, il clamoroso crollo dei prezzi delle materie prime registrato lo scorso anno per effetto della recessione globale indica quanto sia fragile il trend di ripresa. Né vi sono evidenti segnali di una svolta politica. Gli anni segnati da questa fase di crescita, infatti, hanno visto lo scoppio di una drammatica guerra nella Repubblica democratica del Congo che ha provocato oltre 5 milioni di vittime, un altro conflitto di minore entità ma altrettanto devastante nel Nord dell’Uganda, una catastrofe umanitaria in Darfur e la permanente tragedia dello Zimbabwe di Robert Mugabe.

In Occidente, le cause e i rimedi al mancato sviluppo dell’Africa sono stati dibattuti principalmente da osservatori maschi e di pelle bianca come Jeffrey Sachs e William Easterly, che si sono espressi rispettivamente a favore e contro una massiccia assistenza dall’estero. E il primo ha incassato il sostegno di celebrità come Bob Geldof, Bono e Angelina Jolie. È dunque utile e interessante scoprire le originali analisi di due donne africane: Wangari Maathai, del Kenya, e Dambisa Moyo, dello Zambia.

Le due autrici vengono da percorsi molto diversi. Wangari Maathai, che è stata parlamentare prima di perdere il seggio alle elezioni del 2007, ha ricevuto nel 2004 il premio Nobel per la Pace per l’attività di opposizione al regime dell’ex presidente keniano Daniel arap Moi, e per l’impegno a difesa dell’ambiente culminato con la fondazione del movimento di base «Green Belt» (cintura verde). È una donna chiaramente coraggiosa. Pur essendo di origini kikuyu, ha invocato a gran voce il riconteggio dei voti quando Mwai Kibaki, appartenente alla stessa etnia, ha tentato di accaparrarsi la vittoria alle presidenziali del 2007, innescando una sanguinosa escalation di violenza etnica. Dambisa Moyo, invece, ha lasciato lo Zambia per frequentare l’università negli Stati Uniti e, dopo essersi laureata a Oxford e ad Harvard, ha lavorato alla Banca mondiale e alla Goldman Sachs.

Si direbbe che anche i loro libri abbiano ben poco in comune. In The Challenge for Africa, Maathai traccia una lunga serie di conclusioni. L’autrice sostiene che non esista un compromesso naturale tra crescita economica e difesa dell’ambiente, e che i governi africani dovrebbero perseguire entrambe. Punta l’indice contro il colonialismo occidentale, colpevole di aver disprezzato l’identità e la cultura africana, ma rimprovera anche agli africani il pernicioso attaccamento a frammentarie «micro-nazioni». Critica la dipendenza dagli aiuti, ma non solleva forti obiezioni al programma Sachs-Bono per un significativo incremento dell’assistenza allo sviluppo da parte dell’Occidente. È convinta che il cambiamento dovrà scaturire dall’attivismo di base, e che gli africani debbano stringersi attorno alle proprie tradizioni.

Il libro di Moyo, Dead Aid, contiene al contrario un messaggio molto semplice: l’assistenza esterna allo sviluppo è alla radice del sottosviluppo dell’Africa e va rapidamente e completamente interrotta, se si vuole che il Continente progredisca. L’autrice si dice a favore dello sviluppo del settore privato, anche se di provenienza cinese, e inveisce contro il protezionismo agricolo nel Nord del mondo, che impedisce all’attività commerciale di diventare un motore di crescita. Non sorprende, dunque, che il suo libro si rivolga a un pubblico molto diverso da quello che ha premiato Maathai con il Nobel per la Pace. Si direbbe, anzi, che Maathai e Moyo siano votate a uno scontro polarizzato, simile a quello tra Sachs e Easterly, circa il giusto approccio allo sviluppo. In realtà, questi due libri hanno molti più elementi in comune di quanto le autrici siano disposte a riconoscere.

Entrambe ritengono che il problema di fondo dell’Africa sub-sahariana sia il malgoverno.

Non esiste il concetto di bene pubblico; la politica è degenerata in una lotta per tenere in pugno lo Stato e qualsiasi bene esso controlli.

Tutti i problemi della regione derivano da questa dinamica distruttiva. Le risorse naturali, si tratti di diamanti, petrolio o legname, si sono presto trasformate in una maledizione, perché esasperano la violenza della lotta politica. Etnicità e tribù, costrutti sociali di spesso dubbia origine storica, sono stati sfruttati dai leader politici nella loro rincorsa al potere. L’avvento della democrazia non ha modificato le mire della politica, ma semplicemente alterato il metodo di lotta.

Solo così si può spiegare un fenomeno come la Nigeria, che ha incassato qualcosa come 300 miliardi di dollari in proventi petroliferi nell’arco di una generazione e tuttavia, durante lo stesso periodo, ha subìto un crollo del reddito pro capite.

Il punto, dunque, è: se la cattiva politica è alla radice dei problemi di sviluppo dell’Africa, come si è arrivati a questa situazione? E in che modo la regione potrebbe evolvere in un’altra direzione? Su questo punto, ovviamente, le differenze tra le due autrici sono marcate. Dambisa Moyo non lesina prove a sostegno della sua articolata denuncia degli aiuti stranieri come causa del malgoverno. Fa notare che durante la Guerra Fredda si è prestato incondizionatamente aiuto a personaggi come Mobutu Sese Seko nello Zaire, che accompagnò la figlia alle nozze volando su un Concorde proprio mentre i donatori occidentali acconsentivano a rinegoziare un prestito. Non fosse stato per la continua disponibilità di prestiti agevolati, sostiene l’autrice, i Paesi africani sarebbero stati costretti a rimboccarsi le maniche e adeguarsi agli standard di governance internazionali per poter accedere ai mercati obbligazionari globali.

È una tesi ricca di verità. In passato, l’assistenza dall’estero non ha fatto altro che alimentare la macchina clientelare e contribuito alla permanenza al potere di leader corrotti in Paesi come la Somalia e la Guinea Equatoriale. I governi africani, molti dei quali ricavano oltre il 50 per cento del loro bilancio nazionale dai donatori internazionali, sono tenuti a rendere conto non alle rispettive popolazioni, bensì a schiere di nazioni sovrapposte e contraddittorie.

Ma la tesi — propugnata dalla stessa Moyo — per cui se non fosse per l’afflusso di aiuti internazionali, l’Africa vanterebbe un buon governo, è assai difficile da accettare, anche perché non opera alcun distinguo tra l’assistenza militare prestata allo Zaire durante la Guerra Fredda e i trattamenti anti-retrovirali distribuiti dal Fondo globale o dal Pepfar ( President’s emergency plan for Aids relief), il piano di emergenza contro l’Aids avviato dall’amministrazione Bush, cui non si fa praticamente cenno nel libro. In realtà, il business degli aiuti ha messo a frutto qualche lezione, soprattutto dopo la fine della Guerra fredda. Si firmano meno assegni in bianco ai dittatori, e si concentra l’attività di soccorso in settori come la sanità pubblica, ricavandone apprezzabili risultati.

Se, come suggerisce l’autrice, gli aiuti venissero bloccati, un’intera fetta di popolazione africana morirebbe prematuramente. Altri programmi, come il Millennium Challenge Account (Mca, Fondo per la sfida del millennio), creato dall’amministrazione Bush nel 2004, mirano alla lotta contro la corruzione. Potrebbero non essere sufficienti, ma non aggravano certo il problema di fondo.

Se il blocco degli aiuti stranieri non può essere una cura per l’Africa, il libro di Maathai, Challenge for Africa, propone un’alternativa migliore? L’attivismo di base può stimolare soluzioni locali ed esercitare pressioni sui governi affinché migliorino le loro performance. Ma la società civile funge in definitiva da complemento di istituzioni forti, non da loro surrogato. Verso la conclusione del libro, Maathai allude alla necessità di una leadership visionaria e di un nation-building dal centro, come fece Julius Nyerere quando riunì i numerosi gruppi etnici e linguistici della Tanzania grazie all’uso del Kiswahili come lingua nazionale.

Nel corso della Storia, tuttavia, i progetti di nation-building hanno spesso richiesto una medicina molto più forte di quella che la nostra autrice o la gran parte degli africani di oggigiorno sono disposti a prendere in esame, tra cui la variazione dei confini e l’inclusione, anche forzata, di «micro-nazioni» in un’unica e più grande entità. Se nessuno di questi libri propone soluzioni pienamente soddisfacenti, entrambi mettono almeno a fuoco il vero nocciolo del problema, ossia il livello di sviluppo politico della regione. In quest’ambito, le soluzioni dovranno nascere in seno alla regione stessa. Spostare il dibattito dai doveri del mondo verso l’Africa a quelli degli africani verso loro stessi è un buon primo passo.

© New York Times Syndicate traduzione di Enrico Del Sero

Corriere della Sera 24.5.09
Islam diviso. Anche le sette pacifiste si ribellano ai soprusi dei fondamentalisti che terrorizzano Mogadiscio
Somalia, i mistici sufi corrono alle armi contro gli estremisti
di Massimo A. Alberizzi


Pacifici Il sufismo è una corrente mistica islamica tradizionalmente pacifica che ricerca l’esperienza diretta di Dio Il nome «Suf» in arabo significa lana: i sufi dei primi secoli erano asceti che vivevano nei deserti vestiti di una lunga tunica di lana, loro unica proprietà. I suoi seguaci sono chiamati anche «dervishi», poveri

NAIROBI – Abdullhai Farah era il leader spirituale della moschea Al Qadria, a Nord di Mogadiscio. È dovuto scappa­re per le minacce di morte ri­cevute tre o quattro anni fa, quando poco lontano, nella moschea Al Idayha, si sono in­stallati i fondamentalisti. In quel tempio pregava anche Fazul Abdullah Mohammed, meglio conosciuto come Fazul Harun, l’uomo che nel 1998 ha organizzato gli atten­tati contro le ambasciate Usa a Nairobi e Dar es Salaam (231 morti in totale). Al Qa­dria è una setta sufi, pacifica, secondo cui la vita è sacra e il Corano non si diffonde con la spada ma predicando amore e solidarietà.

Abdullahi Farah ora si è ri­fugiato in Somaliland e al tele­fono sembra aver abbandona­to la consueta tranquillità. «Gli shebab vogliono trasfor­mare la Somalia in un campo di concentramento, travisan­do la legge coranica applican­dola per la loro convenienza politica. I miei ragazzi a Moga­discio per la prima volta da quando è scoppiata la guerra civile (nel 1991, ndr) hanno imbracciato i fucili». Nella ca­pitale somala da due settima­ne infuria una battaglia furi­bonda.

Il tutta la Somalia le sette sufi si stanno ribellando agli integralisti e al loro braccio ar­mato, gli shebab (gioventù in arabo), dopo che questi han­no devastato le loro moschee e profanato le tombe dei loro santoni.

In aprile uno dei leader ra­dicali, Shek Hassan Daher Aweis, è rientrato in Somalia dopo sei anni di esilio in Eri­trea e ha raggruppato attorno alla sua figura carismatica i fondamentalisti. E la guerra contro il governo federale di transizione guidato dall’isla­mico moderato Shek Sherif Shek Ahmed è ricominciata più violenta di prima. L’ulti­ma battaglia per la conquista di Mogadiscio ha causato ol­tre 150 morti e un migliaio di feriti (tutti civili). Cinquanta­mila persone sono in fuga.

A nulla è valsa la scelta del­l’amministrazione di varare la sharia come legge costituzio­nale. I fondamentalisti non hanno accettato dimostrando ormai come dietro l’islami­smo di facciata si celi una lot­ta per il potere che nella Soma­lia devastata da una lunghissi­ma guerra civile si può eserci­tare solo con il terrore. Non a caso dietro di loro si cela la presenza del governo eritreo, la dittatura più dura di tutta l’Africa che fornisce armi e ad­destramento ai miliziani.

Stanchi di soffrire e di subi­re violenze, i tradizionalisti or­todossi e pacifisti della Soma­lia hanno imbracciato le armi. E non solo i seguaci laici di Ahlu Sunnah Waljama. Perfi­no i miti e potenti «santoni ca­pelloni » del Wadada Timo Weynta sono scesi sul piede di guerra.

Corriere della Sera Salute 24.5.09
Disturbi alimentari Indagine dell’università di Torino con 28 scuole di ballo
Anoressia, una minaccia che si muove a passo di danza
Colpisce le ballerine da 3 a 6 volte più delle altre ragazze
di Ruggiero Corcella


«La danza — sospirava Mar­tha Graham, 'madre' del ballet­to moderno — è una canzone del corpo di gioia e di dolore». Talvolta questo dolore diventa una malattia dai nomi terribili: anoressia, bulimia. Sul palco delle attività sportive capaci di generare disturbi del comporta­mento alimentare, la danza si è guada­gnata un posto di prima fila con 50 studi scientifici pub­blicati a livello inter­nazionale.

«Tra le danzatrici — dice Se­condo Fassino, diretto­re del Centro per i di­sturbi del comporta­mento alimentare al­l’ospedale Le Molinette di Torino — il rischio di svilup­pare anoressia aumenta di 3­6 volte rispetto alla popolazione generale, mentre la bulimia si riscontra più frequentemente in un range che varia dal 2 al 12 per cento circa. Inoltre, es­sersi dedicate alla danza nell'in­fanzia e nell'adolescenza au­menta il rischio di andare in­contro a bulimia anche dopo la fine dell'attività».

Per cercare di intercettare in tempo questi disturbi, gli spe­cialisti del Centro hanno stret­to un’alleanza con 28 scuole piemontesi di danza aderenti all’Unione italiana sport per tut­ti (Uisp) e con l'associazione Prevenzione anoressia Torino (Pr.a.To). Il progetto, già parti­to, coinvolge una cinquantina di insegnanti e un migliaio di allieve che sono state intervista­te per capire se esistono proble­matiche alimentari e disagio psicologico. Sulla base dei risul­tati dei questionari, tutti in for­ma anonima, si discuterà poi con gli insegnanti su come in­tervenire a livello formativo.

Per le ballerine, la percezio­ne e l’immagine del corpo sono molto importanti; per questo sono tra i soggetti più a ri­schio. «Nella danza, le caratteri­stiche di leggerezza sono fonda­mentali — spiega Anastasia Sardo, docente di psicologia ap­plicata alla danza all’Università di Siena —; e la danzatrice, so­prattutto nel balletto classico, deve conformarsi ad un ideale di corpo con canoni precisi se vuole superare certe difficoltà imposte dalla tecnica. Altro mo­tivo è che il balletto non fa cala­re di peso. I ballerini classici de­vono essere naturalmente ma­gri e il loro peso ideale è stima­to intorno al 75 per cento del peso corporeo dato come nor­male per quella fascia d’età e quell’altezza».

Quando suona il campanello d’allarme? Per le giovani balleri­ne, il segno oggettivo di un di­sturbo alimentare in agguato è l’assenza del ciclo mestruale per tre mesi. Esistono fattori di rischio psicologico individuali, ma molti addetti ai lavori pun­tano il dito contro l’ambiente delle scuole di danza. Anche quelle di alto livello. «Le inse­gnanti dicono di tutto — rac­conta Claudia Ravaldi, psichia­tra dell’università di Firenze —. Spesso il messaggio di non mangiare non è verbale, ma passa comunque. In alcuni ca­si, poi, si chiede espressamen­te alle ballerine di prendere diu­retici prima degli spettacoli».

Della stessa opinione Fabio­la De Clerq, fondatrice dell’as­sociazione Aba, al cui numero verde (800-165616) arrivano ogni giorno 800 richieste di aiu­to per anoressia, bulimia e di­sturbi alimentari. «Dobbiamo contrastare questa cultura del­l’istigazione alla morte». Re­spinge le accuse Frederic Oli­vieri, direttore dell’Accademia di danza della Scala di Milano: «Le nostre 200 allieve e allievi dagli 11 ai 18 anni devono man­giare di tutto un po’; su questo insisto molto. Abbiamo un oc­chio di riguardo anche al loro supporto psicologico: una paro­la sbagliata può fare da detona­tore di disturbi che comunque non ritengo legati allo sport». Invita alla prudenza e non gene­ralizzare, Carlo Bagutti, medico sportivo che da dieci anni sot­topone a screening i giovani danzatori non professionisti che partecipano al «Prix de Lau­sanne », un concorso interna­zionale molto rinomato. «Il bal­lerino anoressico è un po’ un cliché — sottolinea —. I balleri­ni e le ballerine verificano rego­larmente il loro peso corporeo e imparano a sottoporsi a un controllo alimentare».

Corriere della Sera Salute 24.5.09
Il parere e l’esperienza di una grande étoile
Savignano: «Quel che conta è il talento, non la taglia»
di R.Cor.


L’étoile internazionale Lucia­na Savignano, icona della dan­za italiana e «musa» del coreo­grafo Maurice Béjart, confessa: mangia dolci da sempre.

Un peccato mortale, nel suo mestiere...

«Sono abbastanza disordina­ta nell’alimentazione e sono go­losa. Il mio metabolismo però mi ha consentito di restare tra i 49 e i 50 chili indipendentemen­te dal cibo. Il mio non è un me­rito, sono così di costituzione. L’unico momento nell’arco del mio percorso in cui ho lottato con la bilancia è stato a 20 anni. Ho preso 2 o 3 chili, ma a quel­­l’età è normale perché il fisico si sta formando. Però poi ho tro­vato subito il mio equilibrio».

Mai ripresa sul cibo?

«No, ma ho sentito rimprove­rare altre colleghe. Certo, fare appunti è sacrosanto: bisogna però saper usare i guanti di vel­luto. Soprattutto con gli allie­vi ».

La danza classica può crea­re disturbi alimentari?

«In un certo senso sì, perché adesso i maestri sono ossessio­nati dalla magrezza. Ma in sce­na non è così: la grande Maja Plitsetzkaja non è mai stata ma­grissima, eppure le sue gam­be e le sue braccia sono passa­te alla storia».

Non crede che su questi temi ci sia un po’ di omer­tà tra le scarpette rosa?

«Secondo me il problema esi­ste, ma nel mondo del balletto non è così eclatante. Nella dan­za occorre anche molta forza fi­sica e dunque se uno è anoressi­co dopo un po’ non ce la fa. Un ballerino non può correre il ri­schio di scivolare in una malat­tia così grave».

Eppure succede: gli inse­gnanti non sono preparati?

«Non saprei. Posso dire cosa farei io, se fossi un’insegnante: valuterei soprattutto il talento di chi ho di fronte, senza gli schemi fissi dei 50 o dei 52 chi­li. Io guardo di più al lato artisti­co del ballerino. Il fisico è im­portante, ma al primo posto per me viene la sensibilità, il modo di essere e di interpreta­re la danza».

In televisione, lei è uno dei tre giudici di Academy: sul pe­so di una ballerina è scoppia­to il putiferio...

« In realtà, non sono riuscita a dire ciò che volevo. Ecco, adesso attraverso di lei posso: ho accettato di fare il program­ma perché con la mia professio­nalità e con la mia vita di arti­sta voglio insegnare ai ragazzi come diventare ballerini. Ma soprattutto che cosa si deve riu­scire a trasmettere, quando si danza. Tutto quello che ruota intorno, è un mondo che non mi appartiene. Lo lascio a chi è più bravo di me».

Da giudice: se l’istigazione all’anoressia o alla bulimia di­ventasse un reato, come è sta­to proposto?

«Mi sembra un po’ esagera­to. Ripeto: bisogna stare molto attenti ai ragazzi. Ma così si pas­serebbe da un estremo all’al­tro ».

Il Sole 24 Ore Domenica 24.5.09
L’arsura del potere
Il film di Marco Bellocchio Vincere racconta, più che il presunto matrimonio religioso del duce, la buia ascesa di un uomo che approfittò della Grande guerra per smania di dominio
Il critico: La prole di Napoleone, di Roberto Escobar
Lo storico: Impreciso ma efficace, di Emilio Gentile


Il critico: La prole di Napoleone
di Roberto Escobar

Dal buio emergono indistinte figure "in marcia". Intanto, rivolto a Ida DaIser (Giovanna Mezzogiorno), Benito Mussolini (Filippo Timi) fantastica sul proprio futuro, sicuro di una grandezza che oscurerà Napoleone. C'è fanatico amore di sé, nei suoi occhi. E c'è rapimento affascinato in quelli della sua amante (più tardi diventata sua moglie). Poi la macchina da presa torna sulle figure in marcia: sono ciechi guidati da ciechi.
Bastano queste immagini a dirci quel che non è, Vincere (Italia e Francia, 2009,128'). Non è una storia d'amore, come qualche distratto suppone. Certo, Marco Bellocchio racconta l'amore e il desiderio fra il capo del fascismo e la sarta di Trento. E racconta come la loro relazione, con il figlio che ne venne, fu nascosta dalla complicità vile di ministri, prefetti, medici, religiose. Ma è la marcia nel buio che Bellocchio davvero racconta, e che davvero fa riemergere dalle ombre del passato. E da ombre Vincere è di continuo percorso. Ombre sono i ciechi che si affidano a ciechi Ombre è il bianco e nero di cinegiornali e film che passa sgranato sulle immagini a colori, spaesante come un fantasma che la coscienza non abbia voluto dissolvere. E ombra è la memoria sbiadita di quegli anni.
Della memoria, alla fine, racconta il film: di una memoria perduta in immagini che nel tempo si son fatte mute. Chi è il giovane verboso che approfitta della Grande guerra per la sua sete di dominio? Chi è l'uomo che esibisce una virilità di cui oggi (forse) si ride? Chi è l'oratore che torce la bocca in slogan di morte? Tutto è troppo visto e insieme troppo dimenticato, per non passarci davanti senza lasciar traccia. Ogni crimine è ormai fantasma. Ma nel film, nel suo racconto di due vite distrutte, il fantasma riprende corpo. Le carni e il sangue di Ida e del figlio diventano il luogo - molto materiale, molto "evidente" - in cui la Storia torna a parlarci, obbligandoci a prender posizione. Ida non è antifascista, e non lo è il figlio. Anzi, sull'una e sull'altro il capo del fascismo esercita un fascino almeno pari a quello che esercita sulla gran maggioranza degli italiani Ed è questo che li condanna: da lui vogliono un amore impossibile, e per loro dunque mortale.
«Questo è il tempo del silenzio, il tempo degli attori», consiglia a Ida un medico. il Paese è muto e sordo, compatto nell'annullamento d'ogni libertà e pietà. Conviene, aspettare. Conviene nascondersi. Ma come può nascondersi chi voglia esser riconosciuto e insieme voglia servire? A lui tocca una sorte di morte, come a Ida e a suo figlio. E agli altri? Agli altri tocca la sorte dei ciechi che s'affidano a un cieco. Lo testimoniano le immagini che chiudono Vincere: una città nera del buio della notte e accesa dal bagliore delle bombe.

Lo storico: Impreciso ma efficace
di Emilio Gentile

Benito Mussolini non era a Trento nel 1907, ma vi fu per quasi un anno nel 1909. Ma non fu a Trento, bensì a Losanna nel 1904, che egli avrebbe sfidato Dio a colpirlo entro dieci minuti per provare la sua esistenza. La smargiassata, con la quale inizia Vincere, non è di sicura fonte mussoliniana, ma gli è stata attribuita dalla sua ex amante e maestra di marxismo Angelica Balabanoff. Un fìlm ambientato storicamente non è un compito di storia, perciò non implica una critica alla sua qualità artistica il segnalare qualche imprecisione, inesattezza e anacronismo. Come, per esempio, un gagliardetto degli Arditi, nella sede del «Il Popolo d'Italia» prima dell'intervento italiano nella Grande Guerra, perché il corpo degli arditi fu costituito nel 1917. Oppure il tentato incontro fra la Dalser e il ministro Fedele, avvenuto nel 1926, ambientato nel mausoleo a Cesare Battisti inaugurato nel 1935. O il riferimento alla Guardia Regia, sciolta nel 1922, fatto dall'umanissimo psichiatra del manicomio di Venezia in un colloquio con Ida negli anni Trenta.
Uno storico non può evitare di verificare i riferimenti storici che un film contiene, ma può apprezzare egualmente quanto il regista propone per interpretare una vicenda storica. Può apprezzare, per esempio, la rappresentazione del presunto matrimonio religioso di Mussolini con la Dalser, che sarebbe avvenuto in una chiesa del Trentino nel settembre 1914, come una sorta di appagamento onirico della donna sedotta e abbandonata. Un matrimonio religioso nell'Austria in guerra, fra una cittadina austriaca e uno dei massimi dirigenti nazionali del partito socialista, direttore dell'organo ufficiale del partito, molto noto nel Trentino come virulento mangiapreti e spregiatore di Dio, avrebbe forse lasciato tracce più clamorose, anche in mancanza di una trascrizione nel registro parrocchiale, mai rintracciata.
E altrettanto efficace appare storicamente, l'interpretazione della ostentata ostinazione con quale Ida pretendeva di essere accanto al duce al potere, padre del suo unico figlio che portava il suo nome. lda non voleva rassegnarsi a esser cancellata come non fosse mai esistita, e neppure accettare nell'ombra una vita normale, mentre il preteso marito era all'apoteosi in Italia e nel mondo. Voleva per sé e per il figlio la gloria del duce. Vittima della sua stessa spasmodica ambizione, finì schiacciata dal cinico potere mussoliniano. Storicamente efficace appare, infine, l'evocazione dell'ambiente di un regime totalitario, nel contrasto fra folle adoranti il duce, cortei di alti prelati congiunti ad alti gerarchi, madri dalle grandi poppe allattanti la nuova prole italica e la spietata reclusione manicomiale, fino alla morte, di Ida e di Benito Albino. Nelle ultime scene, il figlio sembra annunziare, con l'imitazione del padre a Berlino, il destino tragico di un Mussolini hitlerizzato. Che alla fine riappare, giovane, nell'atto di sfidare Dio, sotto lo sguardo affascinato di Ida, per finire schiacciato in effige dalla disfatta della storia. Qualcuno potrebbe pensare che, alla fine, trentasei anni dopo, Dio avesse accettato la sfida.

sabato 23 maggio 2009

l’Unità 23.5.09
L’offensiva reazionaria è sempre iniziata così
di Pietro Ingrao


Non sono sorpreso dall’affondo di Berlusconi contro il Parlamento. Ieri e oggi l’attacco alle assemblee è stato e resta un punto qualificante di ogni offensiva reazionaria. Basti pensare alla polemica di fascismo e nazismo contro la democrazia rappresentativa. L’antiparlamentarismo rappresenta un terreno chiave per le ideologie e le correnti autoritarie. Da sempre infatti il Parlamento incarna la difesa delle garanzie e del libero confronto politico. Il che disturba profondamente i conservatori. Non voglio dire che Berlusconi sia fascista, ma certe sue uscite vanno in una direzione allarmante e ben nota. Tutto ciò non significa che non siano necessarie delle modifiche all’ordinamento parlamentare. Un Parlamento di mille rappresentanti, che fanno tutti la stessa cosa, è pletorico. Ma ridurlo a cento persone, come vuole Berlusconi, sarebbe un annichilimento e uno svuotamento. Per fortuna però, su questo emergono allarmi anche a destra. E le parole di Fini a riguardo mi sono parse molto equilibrate. Da cittadino mi rivolgo perciò al Presidente della Repubblica e ai Presidenti delle Camere perché intervengano con decisione a salvaguardia delle istituzioni.

Apcom 22.5.09
Europee/ Ingrao divorzia da Bertinotti
200 firme pro-Prc. Ma per l'ex segretario "la sinistra non c'è"


Roma, 22 mag. (Apcom) - Fausto Bertinotti ha fatto appello a votare per Sinistra e Libertà e per un suo fedelissimo, Roberto Musacchio, anche se ha ammonito a non fermarsi al risultato elettorale perché la sinistra ha bisogno di essere ricostruita dalle fondamenta. Pietro Ingrao invece, dopo anni di percorso comune con l'ex leader del Prc, stavolta si distacca da Bertinotti e firma un appello al voto per la 'lista comunista e anticapitalista', che mette insieme Rifondazione, Comunisti italiani, Socialismo 2000 e Consumatori uniti. Nell'appello sottoscritto da Ingrao, storico leader della sinistra comunista tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta, ci sono circa duecento firme: tra gli altri, il fisico Carlo Bernanrdini, lo psichiatra Luigi Cancrini, lo scrittore Massimo Carlotto, i preti don Franzoni e don Gallo, il costituzionalista Gianni Ferrara, il cantante e attore Massimo Ranieri, il poeta Edoardo Sanguineti, il vignettista Vauro. 'Se sei di sinistra, dillo forte' è il titolo del documento, nel quale si legge tra le motivazioni: "Sosteniamo la lista anticapitalista e comunista per mantenere aperta la strada dell'alternativa, in Italia e in Europa. Un voto utile per proporre un'uscita da sinistra dalla crisi, per rafforzare un'ipotesi di ricostruzione della sinistra basata sulla connessione fra diversi soggetti del conflitto e culture critiche, fra vertenze territoriali e movimenti globali, fra ambiente e lavoro, fra uguaglianza e libertà: una sinistra che non abbia rinunciato ad elaborare un pensiero forte dalla parte dei deboli, alla sfida per l'egemonia e la costruzione di un nuovo senso comune". Bertinotti è schierato con Sl, ma continua a guardare al di là dell'appuntamento elettorale e ha affermato recentemente che "stavolta non ci verrà dal voto la soluzione al problema della costituzione della sinistra". "Il berlusconismo - afferma oggi in una intervista a Ecotv - ha devastato la politica classica e ha portato alla scomparsa della sinistra", della quale l'aggressione al leader della Fiom Gianni Rinaldini, consumatasi qualche giorno fa sul palco della manifestazione sindacale del gruppo Fiat a Torino, è un sintomo: "E' dovuta - spiega - alla solitudine degli operai perché c'è la crisi, ci sono i conflitti ma non c'è la sinistra, bisognerebbe riformare la cassetta degli attrezzi della sinistra". E' la prima volta dal 2005 che si manifesta in modo così significativo un dissenso fra Ingrao e Bertinotti. L'anziano leader, oggi ultranovantenne, iscrivendosi al Prc in occasione del Congresso di Venezia, aveva offerto un prestigioso appoggio alla linea bertinottiana, poi confermato più volte in occasione di appuntamenti elettorali e manifestazioni di piazza. Da quel momento in poi, in più d'una occasione pubblica Ingrao ha manifestato il suo appoggio a Bertinotti. Appoggio che oggi viene meno, dopo la sofferta scelta dell'ex segretario e di una parte dei bertinottiani di lasciare il partito (Nichi Vendola ha poi fondato il Movimento per la Sinistra e dato vita all'alleanza di Sinistra e Libertà).

l’Unità 23.5.09
«Ho visto l’Italia diventare un deserto privo di legalità»
intervista a Marco Pannella di Marco Bucciantini


Pannella beve qualche sorso, ma non assume cibi solidi. Ricorda decenni di battaglie
e non nasconde il dolore per la «strage» dei diritti e delle libertà. «Voglio un’oncia di democrazia»

Il signor Hood è ancora un galantuomo. È pronto a dare la vita per amore. Per la cosa più cara che ha: «La democrazia». Marco Pannella ha ricominciato ad alimentarsi, a sorsi, ancora niente di solido. Dopo sei giorni di digiuno assoluto, un succo di frutta scende giù come gli spinaci per Popeye. Altre volte si è sostentato con il piscio. La camicia bianca abbottonata male e tenuta a pendere fuori dai calzoni sembra una resa. Non è così. Parla come Fidel, per otto ore.
Il sognor Hood è una bella canzone di 30 anni fa che Francesco De Gregori dedicò a Pannella, «un galantuomo sempre ispirato dal sole/ con due pistole caricate a salve/ e un canestro pieno di parole». Parole nuove, aggiungeva nel refrain. «Un politico deve concepire il nuovo, non possiamo raschiare il barile». Lo dice un quasi ottantenne che si ripropone spesso nello stesso immaginario, e che trova penosamente nuovo doversi battere con il corpo, a mani nude e disarmate, con gli occhi azzurri e sgranati e il naso sempre più evidente sul viso scavato.
La scrivania disordinata offre indizi discordanti: c’è il pacchetto di Marlboro rosse, «mai meno di trenta al giorno», c’è il misuratore di pressione fai-da-te, per vedere se il cuore tiene. Ci sono i sigari alla vaniglia che - dice lui - i medici gli hanno consigliato per riattivare la salivazione e che soffiano nell’aria zaffate candide e ne annunciano la presenza. «Sente l’odore? Marco è di là». Le stanze sono raffazzonate ma c’è un calore vero, condiviso. C’è la riunione, Emma Bonino è in collegamento da Milano, Marco Cappato è l’altro uomo del tavolo principale. A ferro di cavallo, davanti, c’è il partito radicale. Si analizza la prestazione di Pannella ad Anno Zero, si programmano le apparizioni future, «quella trasmissione lì quanti la vedono? Sessantamila? Ci andiamo lo stesso?». I radicali hanno dovuto chiedere in carta bollata che fossero blindati i loro spazi negati. Devono recuperare tutto in pochi giorni. In questa normale richiesta di democrazia, Pannella si è esposto al pubblico, giovedì da Santoro, come fosse il compianto di un popolo intero.
Perchè si tortura?
«Dove c’è strage di legalità, c’è strage di popolo. Questo Paese è un deserto. Io lotto, ma sembra il 1938».
Vuole morire? Ha fatto una bella vita, è stato ed è felice, e adesso accetta anche di crepare, magari martire, quasi con gustoso menefreghismo...
«Un cazzo. Sto meglio di quarant’anni fa. I dottori mi trovano più robusto. Non fossi così forte, come potrei stare sei giorni senza bere? (e ride, si è sfidato e ha vinto ancora, Ndr)».
Si è pure operato: lei scherza col fuoco.
«Faccio politica, per strappare un’oncia di democrazia dal regime e riportarla nelle mani della gente».
Ma è felice?
«Sono fortunato, ho passato la vita in mezzo ai compagni radicali, in questo mistero cominciato con Capitini e nutrito negli ultimi anni da incontri importanti, con il buddismo, per esempio. Mi capita di sentire la comunità fra viventi e morti».
È un frasario da bilancio. E sui giornali hanno fatto i “coccodrilli”: il ricordo dell’indefesso difensore dei diritti.
«Sono quarant’anni che politici e giornalisti suonano le mie campane. Per ora, ho sempre accompagnato il campanaro al proprio funerale, al proprio riposo dalla vita pubblica».
Scriva il suo epitaffio.
«Negli anni cinquanta il verboso Pannella componeva poesie di appena 18 parole. Mi ricordo questa, avevo 27 anni: come posso dirvi che vado, senza aver prima deposto un po’ di quello che avete accumulato in me».
Ha reso?
«C’ho provato. Ho amato. Ho fondato questo partito. A quei tempi leggevo Paul Claudel, la sua Connaissance (la conoscenza) e anche la con-naissance: nascere insieme».
50 anni dopo Di Pietro si è preso il vostro voto, quello consapevole, degli scontenti del centro sinistra.
«No, lui è un’altra cosa. Il regime si sceglie gli avversari. Così hanno fatto per anni con Bertinotti, l’ospite più gradito dei talk show di politica. Adesso hanno selezionato Di Pietro, con il suo dito puntato contro il nemico, buono per aggregare i nemici di Berlusconi. E perfetto per compattare i suoi amici, per consentirgli di conservare i voti per comandare».
E le vostre pistole a salve dove scaricano?
«Sugli obiettivi. Mostriamo un corpo indifeso e debole perché non vogliamo vedere i muscoli degli altri. C’interessa trasferire ai cittadini il potere democratico. Abbiamo portato alla Cassazione 100 milioni di firme. La corte ha ammesso 149 referendum».
Ha fatto più referendum o scioperi della fame?
«Boh, siamo lì».
L’hanno accusata di aver sequestrato il referendum, e averlo svilito per abuso.
«Cittadini e potere: le consultazioni popolari avvicinano l’uni all’altro. Questo fluire è lo scorrere della democrazia. Abbiamo parlato dei diritti degli omosessuali, e ci chiamavano “froci”. Adesso vedo che si ascoltano le ragioni degli omofobi».
Il Paese è peggiorato?
«Sì. Ed è il dolore che scava assieme alla felicità. La partitocrazia ha creato un deserto. La prima Repubblica ha inaridito la terra. Berlusconi ha occupato questo vuoto con la sua forza, il potere mediatico, economico. Non è un genio del male. A dire il vero non è neanche un genio. Ma non è fronteggiato da oppositori autoritari. Si sceglie lui con chi duellare».

Repubblica 23.5.09
Istituzioni umiliate
di Nadia Urbinati


Per Berlusconi le assemblee larghe sono dannose. Ma parlamenti troppo esigui non sono una cosa buona per la democrazia
L´Italia si trova vicinissima a una svolta anti-democratica perché si vuole attaccare la divisione dei poteri

Cento deputati piacciono più di seicento al nostro presidente del Consiglio. Non c´è da stupirsi, perché corromperli o assoldarli o semplicemente metterli d´accordo con i suoi propri interessi sarebbe certamente meno costoso e più semplice. La relazione tra assemblee numerose e sicurezza della libertà l´avevano ben capita gli ateniesi di 2.500 anni fa, i quali proprio per evitare le scorciatoie nel nome della celerità di decisione istituirono giurie popolari numerosissime. Il loro intento principale era quello di impedire che nessun cittadino potente potesse condizionare le decisioni a suo piacimento.
Se pensavano che nessuno disponesse di tanti soldi quanti ne sarebbero stati necessari per corrompere seicento giudici (tanti erano i giudici che siedevano nelle loro giurie). E qui siamo di nuovo: il capo dell´esecutivo, abituato a comandare sottoposti e stipendiati, non ama né tollera assemblee larghe di rappresentanti che sono chiamati a rendere conto a nessun individuo o gruppo di individui ma solo alla nazione, la quale non è un padrone ma la fonte della loro autorità. Ma per il capo dell´esecutivo le assemblee larghe sono pletoriche e poi dannose agli interessi di chi decide – ovvero del suo esecutivo.
La logica del capo della maggioranza non è democratica ma è esattamente opposta a quella dei saggi democratici. Le assemblee deliberative devono essere non troppo piccole né troppo grandi, pensavano i Padri fondatori della democrazia americana. Se troppo piccole non possono più svolgere la loro funzione rappresentativa degli interessi più numerosi e diversi e inoltre possono facilmente dar luogo a unanimismi pericolosi o a "cabale" di fazioni. Se troppo grandi non possono svolgere efficacemente la funzione deliberativa, allungando i tempi di decisione e impedendo maggioranze stabili. Ma in nessun caso una manciata di rappresentanti è una cosa buona per la democrazia. La politica non va per nulla d´accordo con la semplificazione, una qualità degli apparati burocratici e di chi è chiamato a eseguire ordini e applicare pedissequamente regole che non fa; non è una qualità dei rappresentanti e dei cittadini che contribuiscono a determinare le scelte politiche con la loro diversa e complessa partecipazione. Semplificazione è una qualità per la "governance" ma non per il "government" – la prima è organizzazione di funzioni che mirano a risolvere problemi specifici; ma il secondo è azione politica che solleva problemi, crea agende di discussione e di proposte, mobilita idee e interessi, e infine decide facendo leggi che tutti, non solo chi siede in Parlamento e non solo chi è parte della maggioranza, deve ubbidire.
L´Italia si trova vicinissima a una svolta anti-democratica. L´attacco al Parlamento è un attacco alla divisione dei poteri e per affermare la centralità, anzi, il dominio di un potere sopra tutti: quello dell´esecutivo, che non ama eseguire o dover rendere conto e vuole fare quel che vuol fare senza impedimenti; che vuole fare tutto, legiferare e eseguire e, magari, anche determinare la giustizia. Semplificazione è l´equivalente di potere incontrastato.
Nel 1924, Gaetano Mosca, un conservatore di tutto rispetto, tenne un discorso memorabile nel Parlamento del Regno. Lui, che aveva sviluppato la teoria forse più corrosiva della democrazia sostenendo, con il soccorso della storia, che quale che sia la forma di governo, tutti i governi hanno come scopo evidente quello di formare e selezionare la classe politica. Che siano le guerre o le elezioni dipende dal tipo di organizzazione sociale, dalle forme di espansione e arricchimento, forme che possono essere violente e dirette oppure pacifiche e per vie di commercio. Nella moderna società di mercato, sosteneva Mosca, l´elezione e l´opinione sono forme più funzionali alla selezione della classe dirigente. Ebbene, questo critico dell´ideologia democratica e parlamentaristica, alla vigilia della fine delle libertà politiche e del parlamentarismo liberale, si schierò in Parlamento in difesa di quella istituzione, di quella forma democratica di selezione della classe politica e di governo. Non luogo in cui si perdeva tempo a chiacchierare o un "bivacco" come Benito Mussolini lo chiamava, ma istituzione di controllo e di monitoraggio senza la quale nessun cittadino poteva più sentirsi sicuro. Tra i conservatori di oggi, tra i moderati (se ancora ce ne sono) chi avrà la stessa saggezza o lo stesso coraggio del conservatore liberale Mosca? La difesa del sistema parlamentare non è una questione che interessa o deve interessare solo l´opposizione. Tutti, tutti indistintamente dovrebbero comprendere il rischio che una società corre quando chi è stato eletto per governare con il sostegno del Parlamento cerca di governare con la connivenza di una assemblea amica.

Repubblica 23.5.09
Iran. La rivoluzione colorata delle donne col velo
di Bernardo Valli


"C´è anche chi dalla stravaganza del velo misura il clima politico del paese"
"Si avverte una fierezza tutta femminile, un mix di emotività e di orgoglio"
"È tempo di elezioni, si vota il 12 giugno, il potere si mostra di manica un po´ più larga"
"Il candidato riformista, Moussavi, è il preferito dalle ragazze"
In molte zone di Teheran l´hijab imposto dalla sharia ora è a fiori, a righe o con le paillettes. E sta diventando una sfida

TEHERAN Una sera, guardando il passeggio in un quartiere a nord della città, un quartiere alto borghese, trovo una somiglianza tra l´Iran sciita e la Polonia cattolica. Non tanto perché in entrambi i paesi la religione è integrata nell´identità nazionale. La mia idea è dettata da considerazioni epidermiche, ma non per questo frivole. Avverto qui, come sentivo a Varsavia nei momenti di tensione davanti alla fierezza femminile, una miscela di emotività e di orgoglio, carica di sensualità. A creare questa sensazione è lo spettacolo delle donne che esibiscono i veli islamici, hijab, imposti dal regime clericale, con una disinvoltura equivalente a una sfida.
Una sfida tutta femminile, intelligente ed elegante, al punto da trasformare un simbolo oscurantista in un copricapo alla moda. E al tempo stesso in un´arma polemica. Con l´andatura sofisticata di modelle impegnate in una sfilata sulla passerella le ragazze esibiscono hijab a tinta unita, di colori vivaci, dal turchese al rosa , dal bianco al rosso vivo, persino il nero lucido diventa una provocazione. Ci sono anche hijab a righe, a paillettes, in armonia con i capelli biondi o corvini. E sono annodati in vario modo: il nodo può essere nascosto o esibito, sulla nuca o sotto il mento. Il velo può anche ricadere sciolto sulle spalle. E lasciare più o meno visibile la capigliatura. Alcune giovani mostrano una frangia che copre la fronte.
C´è chi trova «molto sexy» questa esibizione di hijab. Nuovi conoscenti iraniani vi leggono tanti richiami. Anche politici. Dalla loro varietà, dalla loro stravaganza, di rado sfacciata, mai insolente, a volte ironica, misurano il clima politico del paese. Se gli addetti alla morale si aggirano sfaccendati tra la folla è il segno di un atteggiamento meno bigotto del regime. Quella sera, nel Nord di Teheran, i guardiani del buon costume erano presenti ma ignorati come comparse. Naturalmente parlo di quel che accade nei quartieri borghesi (in quelli popolari prevale il chador) e fuori dagli uffici pubblici, dove la legge impone hijab castigati. E´ tempo di elezioni, si vota il 12 giugno, e quindi, mi dicono, le autorità religiose hanno la manica larga. Poi si vedrà. La libertà, sia pur relativa, nell´uso dell´hijab è fiorita (fiorita è l´espressione esatta), insieme a tante altre più concrete liberalizzazioni, durante gli anni della presidenza "riformista" di Mohammed Khatami, ed è poi stata tollerata, con sbalzi d´umore, anche sotto la presidenza del suo rivale e successore, il "conservatore" Mahmud Ahmadinejad. Quella libertà è un simbolo, una conquista, non trascurabile, della tenace resistenza delle donne. Un simbolo che la brutale svolta del 2005 non ha osato cancellare, temendo di urtare la società in preda a una modernizzazione che non si poteva soffocare del tutto con il controllo clericale.
Il movimento femminile è diventato più combattivo negli ultimi anni ‘80, alla fine della guerra con l´Iraq, durante la quale Khomeini aveva chiesto alle donne di prodigarsi al massimo nel far figli, per compensare la strage dei combattenti. E questo spiega, oggi, l´eccezionale giovinezza della popolazione. Dopo quella guerra, che ha falciato generazioni e ne ha creata una superaffolata di under 25enni, la lotta per l´emancipazione femminile ha ottenuto notevoli successi. Durante gli anni di Khatami (´97- ´05) ha poi contribuito a un risveglio dell´intera società. Ma se da un lato alcune leggi, come quella autorizzante il divorzio per iniziativa della moglie, hanno aumentato i diritti delle donne (maggioranza nelle università) dall´altro la sharia, la legge islamica, resta il riferimento giuridico; una ragazza di 12 anni può andare in prigione ma non può avere il passaporto; e una di 9 anni è passibile di sanzioni penali, mentre un maschio lo è solo a 15.
Come è accaduto in altri campi, anche l´emancipazione femminile è avanzata e arretrata, mi spiegano, con brusche manovre, simili a quelle di un convoglio ferroviario all´incerta ricerca delle rotaie dirette nella giusta direzione. La sconfitta del "riformismo", alle elezioni del 2005, ha segnato l´arresto. Un arresto brutale, avvenuto con il successo del semisconosciuto Ahmadinejad, allora sindaco di Teheran e candidato dell´estrema destra. Il quale ha raccolto il 63% dei voti, contro il 33 di Rafsanjani, candidato della destra pragmatica. Adesso la figura di Khatami riemerge, non come candidato ma come sostenitore ufficiale di Mir-Hossein Moussavi. E Moussavi (67 anni) è senz´altro il preferito di gran parte delle ragazze che passeggiano con i loro variopinti hijab nei quartieri benestanti. Ed anche di molti studenti. Senza contare una buona parte della popolazione urbana. Ma si può contare seriamente su una resurrezione politica di Khatami, vale a dire del suo "riformismo", attraverso Moussavi? Entrambi non sono nel cuore di Ali Khamenei, la Guida suprema, che è il grande elettore. Non pochi sono coscienti del relativo valore del loro voto e per questo pensano di rifugiarsi nel vasto partito dell´astensione. Tanto, dicono, nulla cambierà.
Javad Shamaqdari è sicuro della riconferma di Ahmadinejad alla presidenza della Repubblica. Lo conosce bene, non solo perché è stato suo compagno d´università, alla facoltà di ingegneria, ma perché ha contribuito al suo successo nel 2005. E´ stato il suo art director, vale a dire ha curato la sua campagna elettorale. E´ lui, Shamaqdari, un cinquantenne avanzato, corpulento e barbuto (come lo descrive il New Yorker), che ha costruito il candidato, presentandolo come un amico dei poveri, ansioso di riversare sulle loro miserabili mense una consistente parte del reddito del petrolio, vistoso patrimonio del Paese, riservato fino ad allora alle classi privilegiate. Shamaqdari ha enfatizzato la semplicità di Ahmadinejad, il suo disprezzo per il lusso, il rifiuto di abitare nei palazzi del potere, la scelta di abitare nonostante la carica in una casa qualsiasi, la decisione di donare ai musei (come ha poi fatto) i preziosi tappeti della dimora presidenziale. Al linguaggio populista Ahmadinejad ha affiancato un coerente comportamento popolare, ed altresì l´atteggiamento esemplare di un devoto musulmano, il quale non dimentica mai di cominciare i discorsi con qualche versetto del Corano e si rade la barba solo ogni quattro o cinque giorni. Shamaqdari è certo che gli iraniani non gli rifiuteranno il voto, anche se dopo quattro anni di presidenza il bilancio non è esaltante. L´economia va male, i rapporti internazionali sono pessimi, la corruzione è cresciuta. Ma al tempo stesso le masse tradizionaliste del Paese apprezzano il suo modo di affrontare, di petto, il resto del mondo. Le sue provocazioni non dispiacciono al profondo Iran, nazionalista, orgoglioso e religioso.
Il termine "conservatore", per indicare Ahmadinejad, è relativo. Nel campo conservatore coesistono o si scontrano diverse destre. Un iranologo (Thierry Coville) elenca le tre principali correnti: l´estrema destra, quella tradizionale e quella pragmatica. Il presidente uscente appartiene di pieno diritto all´estrema destra, di cui fanno parte movimenti e organizzazioni che hanno come obiettivo imporre una società basata sulla sharia, e sul velayat-e faqih (il primato del teologo, del giurista religioso, principio fondante della Repubblica islamica), e con una guida considerata come designata da Dio. I suoi militanti sono violentemente anti-occidentali e sono per una jihad interna contro i nemici dell´Islam, definiti "liberali". Vogliono inoltre esportare la rivoluzione. Nella costellazione dell´estrema destra islamica si distingue l´Hezbollah, il Partito di Dio, il quale fa proseliti nelle classi sociali più diseredate. L´estrema destra è presente nei servizi segreti, nella magistratura, nei comandi dei pasdaran, i guardiani della rivoluzione, nelle fondazioni dotate di finanze solide e spesso dedite anche a opere di carità, e negli organismi religiosi che sovrastano lo Stato, come il Consiglio dei guardiani, il cui compito è di verificare, tra l´altro, la compatibilità delle leggi con la sharia. L´estrema destra non ha esitato nel passato a usare la violenza per ridurre alla ragione i "liberali". Pur avendo sempre esercitato una notevole influenza, essa è arrivata al potere per la prima volta con Mahmud Ahmedinejad ( che oggi ha 53 anni).
La destra tradizionale, in cui si possono includere tanti movimenti, non è molto distante dall´estrema destra, rifiuta l´occidentalizzazione della società, difende l´ordine morale islamico, ma è favorevole alla libera impresa e non si oppone ai rapporti con il resto del mondo. Ali Khamenei, la Guida suprema, ne è un´espressione. Della destra pragmatica fanno parte uomini d´affari e tecnocrati, che pur nel rispetto dei principi islamici, vorrebbero un controllo delle autorità dello Stato sui religiosi. L´ex presidente Rafsandjani, sconfitto da Ahmadinejad nel 2005, spesso accusato di eccessivo "affarismo", è esponente di questa destra pragmatica.
Altrettanto relativa è la definizione di "riformisti". Anzitutto, dovendo agire nell´ambito della Repubblica islamica, senza mettere in discussione le sue fondamenta, non si vede come si possa riformare il sistema. Khatami ha deluso i suoi sostenitori per non avere osato riformare neppure le istituzioni politiche. Con il termine di "riformisti" si indicano comunque gli appartenenti alle varie tendenze della sinistra islamica. Alle cui origini c´è il sociologo e filosofo Shariati che cercò di conciliare Islam e marxismo. Morto prima della rivoluzione, Shariati dominava con i suoi giganteschi ritratti le manifestazioni contro lo shah che vedevo sfilare per le strade di Teheran nell´estate e autunno 1978. La sua immagine comparve prima di quella di Khomeini. Dopo aver sostenuto con rigore i principi della Repubblica islamica, il dovere di esportare la rivoluzione, e un´economia redistributrice basata su forti interventi dello Stato, la sinistra ha compiuto una svolta negli anni ‘90 quando ha chiesto la democratizzazione del sistema politico. Domanda che ha attirato l´adesione delle classi medie urbane, e di larga parte degli studenti il cui numero si è moltiplicato nei trent´anni della rivoluzione, Ma i "riformisti" hanno perduto molti sostegni all´inizio degli anni Duemila, per la loro incapacità di attuare riforme concrete nelle istituzioni politiche. Adesso, dopo quattro di anni di governo dell´estrema destra, la sinistra tenta una difficile rivincita con l´ex primo ministro Mir-Hossein Moussavi, un intellettuale, come il suo sostenitore Khatami.
(3 - fine. Le precedenti puntate sono state pubblicate il 13 e il 18 maggio)

Repubblica 23.5.09
Se la storia diventa un museo
il novecento e la memoria. Un saggio di Tony Judt


Nelle ricostruzioni del secolo prevale l´aspetto commemorativo Un modo per liquidare le lezioni che se ne possono trarre
Un racconto fatto con leggerezza Sperando solo che si possa aprire un´era migliore
Un atteggiamento nostalgico e celebrativo che allontana dalla vera comprensione

Non abbiamo fatto in tempo a lasciarci alle spalle il ventesimo secolo, che i suoi dissidi e i suoi dogmi, i suoi ideali e le sue paure stanno già scivolando nelle tenebre dell´oblio. Invocate continuamente come «lezioni», in realtà queste vengono ignorate e non insegnate. La cosa non dovrebbe sorprenderci più di tanto. Il passato recente è il più difficile da conoscere e comprendere. Va detto, inoltre, che dopo il 1989 il mondo ha subìto notevoli trasformazioni, e i cambiamenti provocano sempre un senso di distanza e di distacco in coloro che ricordano com´erano prima le cose.
Nei decenni successivi alla Rivoluzione francese, i commentatori più anziani sentivano una gran nostalgia della douceur de vivre del defunto ancien régime. Un secolo dopo, le commemorazioni e i ricordi dell´Europa precedente alla Prima guerra mondiale celebravano (e ancora celebrano) una civiltà perduta, un mondo le cui illusioni erano state letteralmente spazzate via: «Never such innocence again».
Ma c´è una differenza. I contemporanei potevano anche rimpiangere il mondo così com´era prima della Rivoluzione francese, o lo scomparso clima culturale e politico dell´Europa prima dell´agosto 1914, ma non li avevano dimenticati. Tutt´altro: per buona parte del diciannovesimo secolo, gli europei furono ossessionati dalle cause e dal significato delle trasformazioni rivoluzionarie francesi. I dibattiti filosofici e politici dell´Illuminismo non si consumarono durante i fuochi della rivoluzione. Al contrario, la Rivoluzione francese e le sue conseguenze furono largamente attribuite all´Illuminismo che dunque era riconosciuto, tanto dai sostenitori quanto dai detrattori, come l´origine dei dogmi politici e dei programmi sociali del secolo successivo.
Allo stesso modo, mentre tutti concordavano che dopo il 1918 le cose non sarebbero state mai più le stesse, la forma concreta che il mondo postbellico avrebbe dovuto prendere era unanimemente concepita e criticata all´ombra del pensiero e dell´esperienza del diciannovesimo secolo. L´economia neoclassica, il liberalismo, il marxismo (e il suo figliastro, il comunismo), la «rivoluzione», la borghesia e il proletariato, l´imperialismo e l´«industrialismo» – in breve, i fondamenti del mondo politico del ventesimo secolo – erano creazioni del diciannovesimo secolo. Anche chi, come Virginia Woolf, credeva che «intorno al dicembre del 1910 mutò la condizione umana», che la confusione culturale dell´Europa fin de siècle avesse modificato radicalmente i termini dello scambio intellettuale, dedicava una sorprendente quantità di energia a lottare con i fantasmi dei loro predecessori. Il passato incombeva minacciosamente sul presente.
Oggi, al contrario, prendiamo il secolo scorso con leggerezza. Certo, lo commemoriamo in ogni modo: musei, santuari, iscrizioni, «patrimoni dell´umanità», persino parchi tematici storici sono promemoria pubblici del «Passato». Ma c´è una qualità straordinariamente selettiva del ventesimo secolo che abbiamo scelto di ricordare. La grande maggioranza dei luoghi della memoria del ventesimo secolo sono dichiaratamente di carattere nostalgico-trionfalista – esaltano uomini illustri e celebrano famose vittorie – o, il più delle volte, sono opportunità per riconoscere e ricordare una sofferenza selettiva. In quest´ultimo caso, sono l´occasione per insegnare un certo tipo di lezione politica: su quel che è stato fatto e non dovrebbe mai essere dimenticato, su errori che sono stati commessi e non dovrebbero essere ripetuti.
Il ventesimo secolo è quindi sulla buona strada per diventare un palazzo della memoria morale: una Camera degli Orrori Storici di valore pedagogico le cui stazioni sono «Monaco», «Pearl Harbor», «Auschwitz», «Gulag», «Armenia», «Bosnia», «Ruanda»; con l´«11 settembre» come una specie di coda superflua, un poscritto sanguinoso per chi avrà dimenticato le lezioni del secolo passato o per coloro che non le avranno apprese a dovere. Il problema con questa rappresentazione lapidaria del secolo appena trascorso come un periodo eccezionalmente nefasto dal quale, fortunatamente, siamo usciti non è la sua descrizione – il ventesimo secolo è stato sotto diversi aspetti un´epoca realmente orribile, un´età di brutalità e di sofferenze di massa che forse non ha precedenti negli annali degli storici. Il problema è nel messaggio: che ormai ci siamo lasciati tutto alle spalle, che il suo significato è chiaro e che adesso dobbiamo entrare – liberi dal peso degli errori del passato – in un´epoca nuova e migliore.
Ma queste commemorazioni ufficiali, per quanto animate da buone intenzioni, non migliorano la comprensione e la consapevolezza del passato. Sono surrogati. Invece di insegnare ai bambini la storia recente, li accompagniamo nei musei e a visitare i monumenti. Peggio ancora, incoraggiamo i cittadini e gli studenti a vedere il passato – e i suoi insegnamenti – attraverso il particolare vettore delle loro sofferenze personali (o dei loro antenati). Oggi, l´interpretazione «comune» del passato recente è dunque composta da tanti frammenti di passati distinti, ognuno dei quali (ebreo, polacco, serbo, armeno, tedesco, asiatico-americano, palestinese, irlandese, omosessuale...) è caratterizzato da una condizione assertiva e distintiva di vittima.
Il mosaico conseguente non ci lega a un passato comune, ce ne allontana. Qualunque fossero le carenze dei vecchi racconti [narratives] nazionali che in passato venivano insegnati nelle scuole, per quanto selettiva fosse la loro centralità e strumentale il loro messaggio, almeno avevano il vantaggio di fornire alla nazione i riferimenti del passato per vivere nel presente. La storia tradizionale, così come è stata insegnata a generazioni di alunni e studenti, dava un significato al presente riallacciandosi al passato: i nomi, i luoghi, le iscrizioni, le idee e le illusioni di oggi potrebbero essere inseriti in un racconto memorizzato dello ieri. Ai giorni nostri, tuttavia, questo processo si è invertito. Il passato non ha una forma narrativa propria. Assume un significato solo in riferimento alle numerose e spesso contrastanti inquietudini del presente.
Senza dubbio, questo sconcertante carattere atipico del passato - al punto che, prima di poterlo avvicinare, dobbiamo addomesticarlo con qualche significato o lezione del nostro tempo - è in parte il risultato della velocità dei cambiamenti contemporanei. La "globalizzazione", un termine che comprende qualsiasi cosa, da internet alla scala senza precedenti degli scambi economici transnazionali, ha scombussolato la vita della gente in modi che i nostri genitori o nonni stenterebbero a immaginare. Molto di quello che per decenni, secoli persino, è sembrato familiare e permanente, adesso si sta rapidamente dirigendo verso l´oblio.

Corriere della Sera 23.5.09
Un articolo del Premio Nobel: lo studio del genoma sta cambiando il mondo
Ho messo in rete il mio Dna Solo così saremo in grado di capire le nostre differenze
Watson: no a imposizioni, la genetica resti libera
di James D. Watson


Il Premio Nobel James D. Watson ha ricevuto il Pre­mio Capo d’Orlando asse­gnato a Vico Equense (Na) da un comitato scientifico guidato dal Nobel Riccardo Giacconi. Pubblichiamo il testo scritto per l’occasione

Proprio come Barack Obama, io stesso sono un prodotto di Chica­go- sud, essendo cresciuto in due ca­mere e cucina del quartiere di Sou­th Shore, dove i libri, gli uccelli e Franklin Delano Roosevelt ci per­mettevano di guardare con fiducia al futuro. Da mio padre e da mia ma­dre ereditai i quattro valori familia­ri di base: la ricerca della conoscen­za, l'onestà, la lealtà verso il prossi­mo e la responsabilità civile nei ri­guardi dei meno fortunati.

Solo venti minuti di macchina mi separavano dalla grande univer­sità di Chicago. Lì, fra il 1943 e il 1947, mi immersi nei Grandi Libri del suo carismatico Rettore, Robert Maynard Hutchins, e divenni schia­vo dell'incessante bisogno di risol­vere dispute usando la ragione e sfruttando le conoscenze del passa­to e del presente, giungendo così ad affrontare i problemi di oggigior­no. Nei miei primi anni di universi­tà la mia giovanile passione per la storia naturale mi portò a specializ­zarmi in zoologia, incontrando così le leggi di Mendel sull'ereditarietà. Grazie a queste, mi resi conto di non essere soltanto il risultato dell' educazione datami dai miei genito­ri, né dell'eccellenza dei miei inse­gnanti e dei libri. Forse ero solo il prodotto della natura: il complesso di geni trasmessi da mia madre e mio padre.

A metà degli Anni 80, il dilemma ambiente/genetica mi investì con maggior forza, quando scoprimmo che il nostro altrimenti intelligentis­simo figlio Rufus non era in grado di scrivere saggi sufficientemente coerenti quand'era all'università di Exeter. Forse che mia moglie Liz ed io avevamo posto su di lui una pres­sione eccessiva affinché eccellesse all'università? O aveva piuttosto ere­ditato un gene difettoso da uno dei due, o ancora era diventato vittima di nuovi eventi mutazionali?

Avevo quindi abbondantemente ragione di diventare un pioniere del Progetto Genoma Umano, in quel periodo appena proposto. I progressi delle tecnologie di se­quenzializzazione del Dna in quel momento lasciavano sperare di po­ter ordinare esattamente i tre miliar­di di lettere del messaggio genetico umano, in soli 15 anni e con fondi per tre miliardi di dollari. A partire dall'autunno del 1988, per quattro anni, oltre al mio lavoro a Cold Spring Harbor, sono stato a Washin­gton a collaborare per il lancio del progetto. Per la gioia di tutti, il pro­getto fu completato nel 2003. Oggi, grazie ai sempre più rapidi progres­si delle tecnologie del Dna, la nuova era dei genomi personali ci fornirà solide argomentazioni per risolvere razionalmente la controversia natu­ra/ ambiente.

Il mio genoma personale fu il pri­mo ad essere studiato, avendolo messo a disposizione di tutti su In­ternet nel 2007. Quando Jonathan Rothberg, il fondatore del 454 Life Sciences di New Haven, venne nel mio ufficio per chiedermi se avessi permesso di sequenziare il mio Dna, acconsentii immediatamente. Essere sequenziato non era una que­stione di vanità personale, ma era una necessità molto personale. Mi resi conto che fra i suoi tre miliardi di informazioni genetiche ci sareb­bero potuti essere gli indizi che un giorno avrebbero permesso a Rufus di condurre un'esistenza più indi­pendente o all'altro mio meraviglio­so figlio Duncan di affrontare il fu­turo con maggiore sicurezza. Da so­lo o anche con l'aiuto di molti ami­ci, non sarei stato capace di inter­pretare i dettagli straordinariamen­te complessi del mio genoma perso­nale. Meglio metterlo sul web e rice­vere l'aiuto di tutti i ricercatori del mondo per capire com'era fatto. Il mio genoma personale è costato un milione di dollari. Oggi, grazie a tec­nologie sempre più moderne, non si spendono più di 100.000 dollari. In meno di dieci anni, con 100 dolla­ri ciascuno potrà acquistare il pro­prio genoma.

Le uniche sequenze genetiche che non volevo che qualcuno (me compreso) potesse conoscere era­no quelle dei miei due geni Apo E, le cui varianti specifiche predispon­gono fortemente al morbo di Alzhei­mer. Proprio dopo che fu scoperta la Doppia Elica, mia nonna Nana morì a novant'anni con questa brut­ta malattia che distrugge il cervello. Se dietro ai suoi ultimi difficili anni di vita c'è stata una variante del ge­ne Apo E, c'è una probabilità su quattro che io vi sia predisposto.

Più determinante per il mio be­nessere immediato fu l'apprendere dal mio genoma che avevo due co­pie della variante 10 (allele) dell'im­portante gene citocromo farma­co- metabolizzante (CYP2D6), che si incontra molto più facilmente nelle popolazioni asiatiche che in quelle caucasiche, dove predomina l'allele 1. Gli individui che possiedono gli alleli 10 metabolizzano più lenta­mente molti importanti farmaci me­dicinali rispetto alle persone che hanno la variante 1. Meglio tardi che mai, ho imparato che i betabloc­canti, che prendevo per abbassare la pressione arteriosa, mi facevano venire sonno, quindi li ho abbando­nati.

La società trarrà enormi benefici se altri individui, oltre a Craig Ven­ter e me stesso, renderanno pubbli­co il loro genoma. Solo quando cen­tinaia di migliaia di genomi saran­no studiati approfonditamente, po­tremo cominciare a comprendere il significato di molte, molte differen­ze sequenziali che distinguono un essere umano dall'altro. Spero tan­to che la decisione di sequenziare il nostro genoma o quello di bambini affetti da particolari patologie resti una decisione personale, non un'im­posizione dettata dall'alto di autori­tà regolamentari. Che la genetica re­sti libera, così che ci possa aiutare a costruire un mondo migliore.

Rabbrividisco al pensiero di un futuro in cui comitati di «saggi» mi dicano quello che è bene per me e la mia famiglia. Mentre il governo può essere sicuramente l'ente più appropriato per costruire le nostre autostrade o gestire le nostre prigio­ni, non può certo essere quello che ci dice che cosa fare delle nostre co­noscenze genetiche. Il modo in cui risponderemo ai tanti dilemmi im­pegnativi che il futuro ci porrà in questo campo, dovrebbe dipendere dai nostri valori personali. Per il fu­turo prevedibile, gli Stati Uniti po­trebbero saggiamente seguire il vec­chio suggerimento del pioniere del genoma, Maynard Olson, che ha chiuso la recente conferenza sul Ge­noma Personale al Cold Spring Har­bor Laboratory incitando tutti a «Democratizzare, Decentrare e Darwinizzare» approcci futuri per la gestione delle informazioni gene­tiche.

Corriere della Sera 23.5.09
Perché i teologi non capirono Galileo
Dibattiti Il teorico delle particelle, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, giudica gli errori che portarono al processo
Alla Chiesa del Seicento mancò un pensatore illuminato come Tommaso d’Aquino
di Nicola Cabibbo


Quando nel 1610 si spostò da Padova a Firenze presso la corte dei Medici, Galilei insistè per ricevere il titolo di Filosofo e Matematico primario del Gran duca. Non solo Matematico, come Ke­plero presso la corte imperiale di Praga, ma anche e anzitutto Filosofo. Questa richiesta è fondamentale per capire la vastità del pro­getto galileiano: una scienza che non si ac­contenta di esplorare e descrivere fenomeni ma aspira a una comprensione totalizzante della natura. Un tale programma diviene ne­cessariamente una filosofia; alla sua base il famoso passo de Il saggiatore (Feltrinelli) in cui Galilei afferma che il grande libro della natura è scritto in caratteri matematici. È dal­la matematica che bisogna ripartire per capi­re il mondo.

Gli sviluppi della scienza e delle tecniche, rappresentati da scienziati come Nicola Co­pernico o William Gilbert, o dai grandi scien­ziati- artisti-ingegneri del Rinascimento ita­liano, da Leonardo a Guidobaldo del Monte, non potevano essere inquadrati nella filoso­fia allora dominante, quella di Aristotele. In Aristotele la natura era descritta in termini di «forma» e «sostanza», concetti che non permettono di andare oltre una discussione puramente qualitativa dei fenomeni natura­li. Il passaggio dal qualitativo al quantitativo richiedeva una filosofia diversa, quella di Pi­tagora, secondo cui tutto è numero.

Ancora oggi l’innegabile successo della de­scrizione matematica della natura è fonte di meraviglia. Quando nel 1960 Eugene Wigner, uno dei padri della meccanica quan­tistica, scrisse un saggio, ormai divenuto un classico, sulla Irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali dovette conchiudere che «we do not know why our theories work so well», non sappiamo per­ché la matematica funzioni così bene.

La nuova filosofia della natura si scontra­va quindi con quella dominante, ma anche con il pensiero teologico che, tramite la sco­lastica, proprio nella filosofia di Aristotele aveva trovato le sue fondamenta razionali.

Essere contro Aristotele nel Seicento era estremamente rischioso. Come sappiamo, lo scontro portò alla messa all’indice delle opere di Copernico nel 1616 e al processo contro Galilei del 1633. Lo sviluppo delle co­noscenze scientifiche che si trasformava ne­cessariamente in filosofia della natura aveva gettato un forte sospetto di eresia su Galileo e i suoi seguaci. Alla Chiesa mancò all’inizio del Seicento una personalità del calibro in­tellettuale di un Tommaso d’Aquino, che sa­pesse valutare correttamente l’impatto filo­sofico della nuova scienza, a cominciare dal­le scoperte astronomiche di Galilei del 1609. Fondamento del metodo di Galilei è un’immagine del funzionamento della natu­ra in cui inquadrare i fenomeni particolari. Galilei è atomista convinto, vede tutta la materia come composta da particelle che si muovono nel vuoto, e questa immagine del mondo guida la sua ricerca. L’atomi­smo fa da sfondo agli studi sul galleggiamento, è centrale ne Il saggiatore, e ispira la discussio­ne della resistenza dei materia­li nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuo­ve scienze del 1637. Non soltan­to il pitagorismo, anche l’atomi­smo si scontra con Aristotele.

Come ha dimostrato Pietro Redondi, nel suo Galileo ereti­co (Einaudi), l’atomismo di Ga­lilei giocò un ruolo non indiffe­rente dietro le quinte del pro­cesso del 1633. Galilei era con­vinto che tutta la materia, sia sulla terra che nei corpi celesti, obbedisce alle stesse leggi. E questa convinzione, conferma­ta dalle sue scoperte astronomi­che, lo aveva portato al sistema copernicano, secondo cui la ter­ra gira intorno al sole e ruota su se stessa.

Un elemento essenziale del metodo di Galilei consiste nel semplificare al massimo i feno­meni che si desidera studiare, sfrondandoli per quanto possi­bile da effetti secondari che oscurano il risultato cercato.

Per studiare la legge che regola il moto dei corpi conviene concentrarsi su oggetti pesanti, meno influenzati dalla resi­stenza dell’aria. E poi conviene rallentare la velocità della caduta, studiando il rotola­mento su un piano inclinato. L’ultimo passo consiste nello studiare il moto di un pendo­lo, che elimina l’attrito.

Affrontando lo stesso problema da più punti di vista, in condizioni sperimentali di­verse — il moto di un proiettile, il rotola­mento su un piano inclinato, il pendolo — Galilei arriva a isolare il cuore del fenome­no, a determinare le leggi del moto. I Discor­si e dimostrazioni matemati­che intorno a due nuove scien­ze contengono alcuni bellissi­mi esempi di esperimenti men­tali. Si tratta di uno strumento del tutto originale, che è forse il massimo contributo di Gali­lei allo sviluppo delle scienze: immaginare un esperimento, anche se non facilmente realiz­zabile, il cui risultato è tuttavia evidente. Un esempio tra tanti: se un oggetto si muove verso il basso, il suo moto è accelerato, se si muove verso l’alto il moto è ritardato, quindi Galileo può affermare che su un piano oriz­zontale l’oggetto non sarebbe né accelerato né ritardato, ma si muoverebbe a velocità co­stante. Tanto evidente è questa conclusione che non è necessa­rio eseguire l’esperimento. An­zi l’esperimento non riuscireb­be perché non è possibile elimi­nare del tutto l’attrito, ma la conclusione resta.

Esperimenti mentali di que­sto tipo sono alla base della sco­perta della gravitazione univer­sale di Newton — la Luna cade come una mela? — o della teo­ria della gravità di Einstein — che cosa succede in un ascenso­re in caduta libera?

La fertilità del lavoro di Gali­leo per lo sviluppo delle scien­ze è impressionante, e si svilup­pa già nei decenni successivi al­la sua scomparsa. Nelle ricerche di Galilei troviamo i semi della scoperta del barome­tro di Torricelli, o della legge della gravita­zione universale di Newton.

Intorno al 1675 Giovanni Cassini e il dane­se Ole Rømer, che studiavano un metodo proposto da Galilei per la determinazione della longitudine, osservarono delle irregola­rità nel periodo di rotazione dei satelliti di Giove. Ottennero così la prima misura della velocità della luce, rispondendo a una preci­sa domanda posta da Galilei nei Discorsi. È conoscendo la velocità della luce che James Bradley, studiando l’aberrazione stellare, un piccolo spostamento della posizione appa­rente delle stelle, potè trovare nel 1729 una dimostrazione del moto della terra intorno al sole, quella dimostrazione che Galilei ave­va inutilmente cercato cent’anni prima.


l’Unità 23.5.09
Partita doppia per Beato Angelico
di Renato Barilli


A 500 anni dalla morte di Fra’ Giovanni da Fiesole una mostra a Roma
con opere che arrivano da lontano

550 anni dalla morte di un personaggio illustre sono una ricorrenza alquanto artificiosa, se oltretutto viene realizzata ancora qualche anno dopo, come è nel caso di Fra’ Giovanni da Fiesole, universalmente noto sotto lo pseudonimo del Beato Angelico (1395-1455), ma il pretesto è opportuno in quanto consente di rifare i conti con una figura d’artista un po’ trascurata dalla critica, e di rendergli omaggio a Roma, tappa ultima del percorso di questo pittore. Il quale fu oppresso dal peso della santità che compariva fin nel soprannome assegnatogli. E dunque, siamo in presenza di un artista più che altro intento a compiti devozionali, a illustrare visioni di angeli, di beati o di reprobi, in luoghi magici alquanto lontani dalla nostra ribalta mondana? In parte è stato così, ma secondo un destino che non appartenne in esclusiva al nostro Beato, bensì venne condiviso dai suoi compagni di generazione, nati sul finire del Trecento e nei primi anni del Quattrocento, una generazione capeggiata da Masaccio ma nel cui ambito trovano posto altre figure di grande valore, Filippo Lippi, Paolo Uccello, Domenico Veneziano, e si aggiunga che proprio sul filo di quegli arditi ed avanzati esperimenti fu possibile a Leon Battista Alberti impostare la sua prospettiva, la celebre piramide rovesciata, con un vertice aguzzo, il punto di fuga, in cui andavano a convergere le linee che nella realtà scorrevano tra loro in parallelo. Una camicia di forza, in cui l’intero Occidente, al seguito della pattuglia degli sperimentatori fiorentini, in sintonia con i lontani colleghi delle Fiandre, andò a cacciarsi con supremo stoicismo, intuendo però che così, attraverso quel rigorismo matematico, ci si muniva di un perfetto strumento per inoltrarsi nelle lontananze geografiche, per stabilire le vie maestre dei traffici, dell’espansione mercantile. Fu insomma, quella del Beato Angelico, una generazione che patì su di sé un trauma, una scissione crudele. Col cuore, con l’apparato dei sensi, erano ancora i figli dell’età gotica, impacciata nel trattare la natura, monti aguzzi, rocce affilate come coltelli, schiere di angeli o demoni ordinate in lunghe file come su un pallottoliere. E questo versante era senza dubbio in carattere con una visione di paradisi o di inferni che non sono di questa terra. Ma per altro verso questi artisti ragionavano già in perfetta intesa con uno spirito mercantile e protoborghese, che intendeva apprestare lucide vie comunicative per conquistare le distanze, e che voleva fare ordine anche nel libro dei conti, magari imponendovi la logica stringente della partita doppia.
DUE DESTINI
La mostra romana ha il merito di non aver saccheggiato quel museo naturale dell’opera dell’Angelico che è, a Firenze, il Convento di San Marco. Le opere qui esposte vengono da sedi disperse ai quattro angoli del pianeta, ma ribadiscono questo doppio destino del Santo, perduto nel cuore dietro visioni celestiali, ben fermo nella mente a fare i conti con la realtà.
Beato Angelico a cura di A. Zuccari, G. Morelli, G. de Simone Roma Musei Capitolini Fino al 5 luglio Catalogo: Skira


il Riformista 23.5.09
Soru minaccia di chiudere l'Unità tre giorni prima delle elezioni
Ultimatum. Senza nuovi capitali Mr. Tiscali porterà i libri in tribunale il 3 giugno
di Tommaso Labate


Che Renato Soru voglia "disimpegnarsi" dall'Unità è cosa nota ormai da mesi. La sua volontà di liberarsi della testata rilevata esattamente un anno fa, ventilata già alla fine del 2008, è diventata ufficiale dopo la sconfitta di mister Tiscali alle regionali sarde.
La novità maturata nelle ultime quarantott'ore riguarda lo sfogo che Soru ha affidato a più d'un amico. «Per me la misura è colma. O arrivano nuovi capitali - è stato il ragionamento dell'ex governatore - oppure porterò i libri tribunale». Soru ha fissato una data, il 3 giugno prossimo. Tre giorni prima delle elezioni.
L' «avvertimento» ha trasformato l'ennesimo sos di mister Tiscali in un vero e proprio ultimatum. Indirizzato al Pd. Stavolta non si tratta di voci di corridoio né di messaggi in bottiglia. La dead line del 3 giugno, posta come data ultima prima di dare il via libera alla procedura di fallimento, Renato Soru l'ha fatta mettere nero su bianco nel corso dell'ultimo consiglio d'amministrazione del giornale. Nell'ultimatum affidato a suocera (i membri del board del quotidiano fondato da Gramsci) affinché nuora (Franceschini) intendesse, Mister Tiscali e i suoi uomini hanno chiarito il senso della loro richiesta. Della serie, «servono almeno quattro milioni di euro per mettere in sicurezza il giornale e noi non possiamo più mettere mano al portafoglio». Per cui è necessario «individuare entro pochi giorni la cordata disposta a impegnarsi per la ricapitalizzazione». Altrimenti, è il sottotesto, il Pd rischia di rimanere impelagato nella matassa Unità a soli tre giorni dall'apertura delle urne. Un rischio tutt'altro che calcolato, finora, ai piani alti del fortino democrat. Una grana decisamente più problematica della sfida fratricida in corso per il controllo di Rai Tre, che ieri Franceschini ha negato (ai microfoni di Repubblica tv) derubricandola a «cretinata».
Messa così, la vicenda Unità assomiglia a una bomba con il timer già azionato. Con un'aggravante: il progetto di ristrutturazione del quotidiano - approvato recentemente anche dall'assemblea dei redattori - è «tarato» su un'asticella di vendite fissata a cinquantamila copie. Di conseguenza il «piano Soru» - che si basa su molti tagli alle spese e la cassa integrazione a rotazione tra i giornalisti - andrebbe rivisto nel caso in cui le vendite scendessero dalla soglia fissata. Da qui la domanda: cosa potrebbe succedere quando l'Unità sarà costretta a rinunciare alle firme che sono pronte ad trasferire armi e bagagli nella redazione del Fatto, diretto da Antonio Padellaro, che esordirà a settembre? Detto altrimenti: quanti lettori perderebbe l'Unità se il quotidiano fondato da Gramsci dovesse fare a meno - tanto per fare un esempio - della firma di Marco Travaglio? Domande a cui è difficile dare una risposta, almeno per ora. Come è difficile stabilire se - come sostengono più fonti autorevoli - il direttore Concita de Gregorio ha già in mano il biglietto di ritorno verso la sua scrivania di Repubblica.
A differenza dei mesi scorsi, stavolta il «caso Unità» ha fatto scattare l'allarme rosso anche nella stretta cerchia di Franceschini. È Piero Fassino l'uomo a cui il leader del Pd ha affidato il compito (che conosce, tra l'altro molto bene) di sbrogliare l'intricata matassa. Una pista sui possibili nuovi soci porta a Marialina Marcucci, l'ex azionista di maggioranza, che sarebbe disposta a reinvestire sul quodiano di Gramsci i crediti ancora vanta da Renato Soru. Poi c'è una seconda pista, che lascia intravedere nell'ombra anche la manina di Walter Veltroni: quella che parte dal senatore democrat Raffaele Ranucci. Per anni punto d'incontro tra rutellismo d'antan e veltronismo, l'imprenditore romano starebbe lavorando ventre a terra per cercare imprenditori disposti a investire per salvare l'Unità.
Dietro l'attivismo di Ranucci, più d'uno intravede la scommessa che - per dirla con un autorevole fonte del Pd - «il tridente Franceschini-Veltroni-Fassino è disposto a giocare sul quotidiano in vista della battaglia congressuale d'autunno». Scommessa editoriale o base di un progetto politico? Chissà. Una cosa è certa: come garanzia di fronte alle banche, l'Unità ha bisogno del contributo pubblico del Pd. Lo stesso contributo cui Soru disse che avrebbe rinunciato, esattamente un anno fa, prensentandosi come il Salvatore.


il Riformista 23.5.09
Il Bellocchio che può Vincere


Magari Bellocchio poteva risparmiarsi quello scatto di nervi: «Siamo stati pugnalati alla schiena dalla stampa italiana». Pugnalati perché, nelle prime recensioni scritte a caldo, non si parlava del suo film come di un capolavoro? Poi, sull'onda degli entusiastici commenti stranieri, il giudizio è un po' cambiato, e vedremo che succederà domani sera a Cannes. Di sicuro "Vincere" è un film spiazzante, volutamente démodé nel suo andamento da "melodramma futurista", molto meditato sul piano della ricerca stilistica e visiva. Ridurlo a una cosuccia su Berlusconi e le donne è una sciocchezza, e farebbe bene il regista a non alimentare il cortocircuito con sornioni riferimenti. All'inizio amata appassionatamente e presto disconosciuta e vessata, Ida Dalser, incarnata da Giovanna Mezzogiorno con pose da film muto, finirà in manicomio, dove muore nel 1937. Testarda e rompiscatole fino all'ultimo, decisa a ribadire la "sua" verità. Cinque anni dopo tocca al figlio Benito Albino. Intanto, baffuto e non ancora pelato, vediamo il giovane Mussolini di Filippo Timi urlare a una riunione di socialisti: «Questa guerra è rivoluzionaria. Darà, col sangue, alla ruota della storia il movimento». Citazioni a effetto da "Christus" e "Maciste alpino", le parole d'ordine di Marinetti, i cinegiornali Luce a evocare la faccia pubblica di un Duce ormai distante e inavvicinabile, l'anticlericalismo bellocchiano che si stempera nel ritratto di suore gentili e complici, Ida come "un'eroina" antipatica, squilibrata, a suo modo purissima.


Repubblica Torino 23.5.09
Bellocchio da Cannes al Po "Qui è nato l´ultimo film"
La cosa più difficile è stata riuscire a evitare i riferimenti al presente e le sovrapposizioni tra Benito e Silvio
di Clara Caroli


La Film Commission ci ha molto agevolati, a Roma non avremmo trovato le location e le facce giuste

«In fondo è lei a vincere. Questa piccola donna italiana che nessun potere riesce a piegare», dice Marco Bellocchio di Ida Dalser, la prima moglie di Mussolini, della quale parla con passione e ammirazione. Appena tornato da Cannes, il regista dei Pugni in tasca, che ha fatto del coraggio e della battaglia contro l´ignavia il suo manifesto intellettuale, arriva questa sera sotto la Mole ad accompagnare Vincere, il film sulla moglie e il figlio segreto del Duce, in concorso sulla Croisette, girato lo scorso anno a Torino e in Piemonte col sostegno di Film Commission e da ieri nelle sale. Unica data promozionale in omaggio alla città che ha ospitato il set. Proiezione alle 20.30 nella sala uno del Massimo, dove prosegue la retrospettiva "La rabbia e l´amore". In sala anche i protagonisti: il tenebroso Filippo Timi - che rende di Mussolini una versione quanto mai sanguigna e tempestosa - e la lunare Giovanna Mezzogiorno che interpreta la Dalser, eroina di profilo pucciniano, dunque dal destino massimamente infausto (amata da Mussolini, poi ripudiata e infine rinchiusa in manicomio dove muore sola e abbandonata).
Sul filo tra grande storia e melodramma, una «tragedia omessa dalla storiografia ufficiale». Ma soprattutto il ritratto di una madre coraggio, di una piccola donna indomita, ribelle, estranea ad ogni tipo di mediocrità e compromesso, che non accetta un destino che non sia d´amore e combatte fino alla fine per difendere la verità dell´esistenza di sé e di suo figlio, diventati per il regime uno scandalo prima da nascondere e poi da annientare.
Bellocchio, si è innamorato anche lei, come il Duce, di Ida Dalser?
«Il Duce se ne innamorò per un tempo brevissimo, in un momento di fragilità. Io di questa donna ho amato il coraggio, la volontà ostinata, al limite della follia, di non arrendersi all´ingiustizia».
Riconosce in lei, oltre al coraggio, la passione, la ribellione, elementi presenti nelle sue biografie di regista?
«Riconosco la coerenza, il credere nelle strade meno facili, il rifiutare la soddisfazione che nasce dal semplice successo. Ma io, che pure non sono pavido né vigliacco, sono molto meno coraggioso di lei».
Quanto è stato difficile mantenere il film in equilibrio tra grande storia e melodramma?
«È stato più difficile evitare le semplificazioni e i riferimenti al presente, le sovrapposizioni tra Mussolini e Berlusconi, che avrebbero certo creato molte chiacchiere attorno al film. Un elemento pubblicitario al quale ho scelto di rinunciare».
A proposito. Anche Veronica Lario è una vittima del potere?
«Domanda classica. No, è una signora borghese che con l´aiuto di buoni avvocati sta divorziando dall´uomo più potente d´Italia. Ida Dalser era sola, con tutto il fascino di un´eroina sola contro tutti, con la statura di un´Antigone, di una Medea».
Perché ha scelto di girare a Torino?
«La Film Commission ci ha molto agevolati. Ho trovato le location adatte. Strade, paesi, monumenti, che fortemente modificati sono risultati perfetti. Le ragazze del casting sono state bravissime a trovare le facce giuste, i corpi gusti. A Roma non sarebbe successo, girano sempre i soliti».
Che rapporto ha con la città?
«Non la conosco molto bene, ma durante le riprese mi ci sono affezionato».
Al Museo del Cinema è in corso la sua personale. C´è un titolo al quale è particolarmente legato? O li ama tutti allo stesso modo come figli?
«Ogni tipo di risposta è ad alto rischio di retorica. Forse quello che amo di più è l´ultimo, forse bisognerebbe amarli e rivederli tutti. E più di una volta. La mia storia di artista è fatta di film apprezzati sempre con un po´ di ritardo. Ma, come si dice, il tempo è galantuomo».
E alla fine Ida Dalser che cosa vince?
«Niente, peggio di così non le può andare. Ma l´altro cade nella polvere e lei s´innalza nella grandezza».

Liberazione 22.5.09
Prove di regime
di Imma Barbarossa


Sono tra quante/i non pensano che dai guai giudiziari del potente di turno si possa uscire a sinistra, o per lo meno con una indignazione di massa diffusa che chieda moralizzazione della società e che da tale richiesta sia in grado di impostare un progetto politico alternativo. Sono, cioè, convinta che dalla fogna della arrogante immoralità non ci si solleva incontaminati e pronti ad una vera svolta. Il fango sporca, contamina, corrompe, offusca i possibili punti di riferimento alternativi, copre le vere responsabilità, fa di tutt'erba un fascio, mescola corrotti e corruttori, sparge qualunquismi ed egoismi corporativi; il fango è la base melmosa dell'antipolitica, in varie forme, le rivolte corporative, l'invidia nei confronti del potente, l'ammiccamento nei confronti di chi ci sa fare (ricordate l'epoca del craxismo?), la rassegnazione del cattivo realismo. E il fango ai giorni nostri è quello in cui ci hanno immersi Berlusconi e il berlusconismo: l'amplificazione da parte dei media delle sue spudorate menzogne, personali, economiche, finanziarie, politiche, con il conseguente staff di avvocati e portavoce prezzolati, coinvolge gran parte della società italiana, contribuisce a diffondere quel senso reazionario di massa, quel furbesco opportunismo che in forme inedite porta alle estreme conseguenze la passivizzazione persino dei potenziali soggetti della trasformazione. Certo, l'offuscamento non è generalizzato; anche ieri in una intervista al manifesto Piero Ottone ha abbozzato una analisi impietosa dello stato dei media in Italia, sorvolando pudicamente, ma esplicitamente, sul Corriere della Sera e - aggiungo io - sul suo aristocratico ed enigmatico direttore. Il corpo del tiranno avanza dappertutto, circondato dalla sua foltissima e maschia guardia del corpo, portavoce e body guard teste rasate con occhiali neri che si guardano intorno in cerca di qualche malcapitato che protesta, per allontanarlo e schiacciarlo.

Terra 23.5.09
Il caso Galileo. Storia di una conciliazione impossibile
di Noemi Ghetti


Dal 26 al 30 maggio, per la prima volta dopo 400 anni istituzioni religiose e scientifiche a confronto a Firenze in un convegno internazionale organizzato dalla Fondazione Stensen

Tra le numerose iniziative promosse nell’Anno Internazionale dell’Astronomia, proclamato dall’ONU per celebrare i quattrocento anni della reinvenzione astronomica del cannocchiale da parte di Galileo, il convegno internazionale di studi “Il caso Galileo” che si tiene a Firenze dal 26 al 30 maggio presenta una fisionomia piuttosto sorprendente. Organizzato dai gesuiti della Fondazione Stensen con lo scopo dichiarato di pervenire alla «fine di una secolare incomprensione», vede raccolti sotto lo stesso egida l’Accademia dei Lincei e l’Accademia pontificia delle scienze, università statali e cattoliche ed importanti enti di ricerca, come il CNR, l’Osservatorio di Arcetri e l’Istituto e museo di Storia della scienza di Firenze. Quattro giornate di lavori, a partire dall’inaugurazione alla presenza del Presidente della Repubblica nella basilica di Santa Croce, dove è sepolto lo scienziato, per arrivare alla villa “il Gioiello” di Arcetri, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Allo stesso tavolo si avvicenderanno e si confronteranno i più qualificati specialisti mondiali della cultura scientifica e religiosa, dopo secoli di uno scontro ininterrotto, che ha visto momenti molto aspri.
Galileo è stato occasione di accese polemiche anche in tempi assai recenti, quando alla fine del 2007 l’invito a papa Benedetto XVI a tenere una “lectio magistralis” all’università statale La Sapienza scatenò la protesta nell’ambito del mondo accademico e studentesco. In quell’occasione venne ricordato infatti come nel 1990 l’allora cardinale Ratzinger, utilizzando una frase del filosofo della scienza Paul Feyerabend, avesse dichiarato: «All'epoca di Galileo la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. Il processo contro Galileo fu ragionevole e giusto». E come, citando Carl Friedrich von Weizsäcker, Ratzinger si fosse spinto addirittura a proporre un collegamento diretto tra Galileo e la bomba atomica. Due anni dopo, nel 1992, Giovanni Paolo II tentò di porre fine a quasi quattro incresciosi secoli di «tragica reciproca incomprensione» con una tardiva “riabilitazione” di Galileo. Ma le argomentazioni addotte dal papa, di fatto tese ad addossare le maggiori responsabilità a Galileo e a circoscrivere quelle della Chiesa, suscitarono non poche critiche tra gli studiosi, e lasciarono il caso aperto a successive revisioni da parte cattolica.
Tra quelle attualmente in voga in ambito cattolico, forse la più paradossale è quella che pretende che Galileo sia stato miglior teologo che scienziato. Il suo errore non sarebbe stato, come sostiene Paolo Rossi, quello di essersi incautamente avventurato nel terreno minato dell’esegesi biblica. Al contrario, Galileo sarebbe stato un buon interprete delle Sacre scritture, rilevandone per primo il carattere di documento legato alla mentalità del tempo storico in cui furono redatte, successivamente accettato anche dalla Chiesa. Ma fu un cattivo scienziato, per aver sostenuto che il sistema copernicano era una verità fisica, e non semplicemente un’ipotesi matematica, venendo meno al carattere congetturale che deve caratterizzare la ricerca scientifica. Da questo punto di vista il cardinale Bellarmino invece sarebbe stato parimenti ottimo teologo e ottimo scienziato.
Ma, obietta Paolo Galluzzi (il Sole 24 Ore, 10.5.09): «si dimentica che il contrasto tra Chiesa e nuova scienza e quello tra Galileo e Bellarmino non si sviluppò affatto sul terreno dell’epistemologia; esso fu molto più semplicemente la conseguenza della ferma volontà delle autorità ecclesiastiche di negare a Galileo, così come a chiunque altro, la libertà di sostenere dottrine diverse da quelle insegnate da Santa romana chiesa».
Il caso Galileo si è prestato ad essere nei secoli un banco di prova della laicità molto frequentato, più di quello dell’eretico irriducibile Bruno, sul quale evidentemente non esiste alcuna possibilità di mediazione e riabilitazione. I due «martiri del libero pensiero» saranno messi a confronto al convegno da Michele Ciliberto, mentre Adriano Prosperi porterà il proprio contributo di storico dell’inquisizione e dei movimenti ereticali, e di esperto dei rapporti tra Chiesa e moderna scienza.
Galileo processato abiurò ed ebbe salva la vita. Memore del rogo di Giordano Bruno, che era stato condannato per avere aperto la strada alla possibilità di pensare l’origine della realtà umana dalla materia infinita e sensibile, Galileo escluse dal campo della sua ricerca l’uomo, indirizzandola più prudentemente al mondo fisico. Questo non bastò a metterlo al riparo dall’occhiuta Inquisizione.
La nostalgia per una ricerca abbandonata, quasi un senso di colpa risuona in un passo del Dialogo dei massimi sistemi del mondo, che gli era costato il processo, e che fino al 1835 rimase nell’Indice dei libri proibiti. La corruttibilità della materia, afferma Sagredo, spregiata dal pensiero aristotelico-cristiano, è dinamismo, vita. La vantata incorruttibilità dei corpi celesti, è morte. Non c’è principe, afferma poeticamente il nobile veneziano, che non darebbe tutti i suoi gioielli e i suoi ori per avere due carrate di terra, e «piantare in un picciol vaso un gelsomino o seminarvi un arancino della Cina, per vederlo nascere e produrre sì belle frondi, fiori così odorosi e sì gentili frutti». Ma il tono vibra di indignazione quando conclude: «E questi che esaltano tanto l'incorruttibilità, l'inalterabilità, etc., credo che si riduchino a dir queste cose per il desiderio grande di campare assai e per il terrore che hanno della morte; e non considerano che quando gli uomini fussero immortali, a loro non toccava a venire al mondo. Questi meriterebbero d'incontrarsi in un capo di Medusa, che gli trasmutasse in istatue di diaspro o di diamante, per diventar piú perfetti che non sono».
Bellarmino era un ottimo scienziato, sapeva cogliere molto acutamente le implicazioni nascoste in queste righe. Ci auguriamo che anche questa volta nessuna cristiana e hegeliana conciliazione riesca a cancellare l’irriducibile opposizione che separa religione e libera ricerca.


Terra 23.5.09









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