lunedì 25 maggio 2009

Repubblica 25.5.09
Come previsto l'oro va a "Il nastro bianco" coprodotto dall´Italia, a secco con Bellocchio
Vince Haneke, ma volano fischi alla giuria
Contestazioni ad alcuni premi nati anche da feroci divisioni fra i giurati
Lunga e commossa standing ovation di tutto il teatro per l´anziano Alain Resnais
di Maria Pia Fusco


Cannes. La Palma d´oro va a Il nastro bianco: mai una previsione diffusa da tempo, da quando fu presentato il programma con il film di Michael Haneke in concorso e una giuria presieduta da Isabelle Huppert, era stata così rispettata. Ed erano anni che un verdetto non divideva così vivacemente il pubblico e la stampa di Cannes. «Sono felice di aver premiato il film migliore e di poter dimostrare il mio amore non solo per un amico ma anche per un regista di grande umanità e di profonda etica, che non lancia messaggi, ma racconta storie con un suo personalissimo stile e lascia a ciascuno la sua riflessione», commenta la presidente al termine della cerimonie. E su fischi e contestazioni di una parte dei presenti, taglia corto: «Haneke è un regista che si ama o si detesta. Un grande artista è così». Haneke è «contento. Non fiero, perché potrei esserlo di un film perfetto, e per fortuna i giurati non hanno visto le imperfezioni. Sono contento, anzi, finalmente posso rispondere sì a mia moglie che ogni tanto mi pone la domanda tutta femminile "Sei felice?"».
Che i premi di Cannes quest´anno fossero targati Huppert si è intuito fin dai primi annunci: la regia a Brillante Mendoza per un film amato da pochissimi come Kinatay, l´ex aequo a Fish tank, forse l´unico accolto senza proteste, e al film di Park Chan-wook Thirst, soprattutto la sceneggiatura di Spring fever, una storia di rapporti sessuali intrecciati sui quali ancora si discute su chi faceva sesso con chi, mentre c´erano film scritti in stato di grazia come Looking for Eric di Ken Loach. Charlotte Gainsbourg, migliore attrice, è stata applaudita per nazionalismo francese e ogni voce polemica è stata soffocata dai suoi ringraziamenti alla madre e al padre «con la speranza che sia sempre fiero di me», ed è subito commozione.
Gli unici premi accolti con favore generale sono stati quelli a Un profeta di Jacques Audiard e all´attore tedesco Christof Waltz, il nazista di Inglourious basterds che ringrazia Tarantino «incontro unico nella mia vita, perché mi ha restituito la vocazione», spiegando poi che «faccio questo lavoro da troppi anni. Era arrivato al momento del dubbio e del buio».
Il momento più intenso ed emozionante della serata, condotta con humour da Edouard Baer - divertente il numero con Terry Gilliam, in lacrime per il finto equivoco di premiato e non premiante - si deve al premio speciale ad Alain Resnais, 87 anni, un riconoscimento dovuto ad un maestro che, dice, «dopo tanti anni ho ancora la capacità di provare gratitudine per il cinema e per tutti quelli che lo fanno. E posso ancora commuovermi». Si commuovono in tanti, piange in platea Sabine Azema, mentre un lungo applauso e una standing ovation salutano Resnais.
È stata una premiazione in cui neanche uno dei riconoscimenti è stato dato all´unanimità. E, così come era parso eccessivo, malgrado la grandezza dell´attrice, il discorsetto di Isabelle Huppert sulla grande amicizia che si era stabilita tra i giurati e sul rimpianto della fine dell´incontro - per fortuna smontato da Baer che consiglia scambio di numeri di telefoni - in pochi hanno creduto alle dichiarazioni di amicizia e di democrazia di ciascuno. Anzi, le voci di risse furibonde hanno trovato una conferma. L´unica a farne cenno è Robin Wright Penn. «So che si è parlato di grandi litigi e di risse al coltello. Abbiamo discusso, è vero, ma comunque ciascuno di noi ha avuto modo di esprimere la sua opinione».

Repubblica 25.5.09
Trionfa il cinema in nero non è tempo di glamour
Sangue e violenze nelle opere premiate
Vince il "Nastro bianco" una Palma annunciata
di Natalia Aspesi


Forma e riflessione convivono nel film vincitore: un´idea di cinema alto che Cannes trasmette
Pochi divi ma molti attori giovani e bravi quest´anno E nessuno ne ha sofferto

VINCE la Palma d´oro il film più inquietante di una mostra segnata da storie di sangue e violenza: Il nastro bianco del maestro della crudeltà umana, l´austriaco Michael Haneke, racconta in un meraviglioso bianco e nero, senza immagini cruente, come nascono le radici del male.
E come la sottomissione al potere autoritario della famiglia e della religione possano generare società mostruose e totalitarie. L´abbraccio tra il regista, 67 anni, e la presidente della giuria Isabelle Huppert, è stato lungo e commosso: nel 2001 lei era stata l´efferata masochista del suo film La pianista qui presentato e qui premiato, e ha dovuto superare i suoi dubbi etici (non ci sarà un conflitto di interesse?) per convincersi che Il nastro bianco (prodotto anche dall´italiana Lucky Red) coronava con la sua perfezione formale e la sua capacità di trasmettere riflessioni e angosce, l´idea di cinema alto che il Festival vuole giustamente sostenere. Non c´è stato posto, nelle decisioni di una giuria molto agguerrita e litigiosa, per l´unico film italiano in concorso, Vincere di Bellocchio, che pure era molto piaciuto a pubblico e critica ed era stato sino all´ultimo tra i possibili candidati. Ma i film belli erano tanti, e i premi pochi, quindi hanno prevalso i gusti di Huppert, Argento, Ceylan, Kureishi, Wright Penn, Shu Qi, Gray, Tagore III e Chang Dong, portati vistosamente al cinema della brutalità se non del raccapriccio, forse ritenuto più adatta di quello sereno a rappresentare il nero presente.
Quindi, ferocia carceraria in Un profeta del francese Jacques Audiard, che sino all´ultimo ha conteso la Palma ad Haneke e a cui poi è andato il gran premio della giuria; truculenza criminale tra giovani sbandati in grado di torturare una prostituta e poi di tagliarla a pezzi gettandoli ad uno ad uno dall´automobile, nel film Kinatay del filippino Brillante Mendoza, premio della regia; horror ematico con prete vampiro belloccio che vampirizza l´attrice più bella di tutto il festival, in Thirst (Sete) del coreano Park Chan-wook, premio della giuria ex aequo con Fish Tank della bionda signora inglese Andrea Arnold, che trattando solo di una adolescente di famiglia dissestata in periferia sordida, violentata dal compagno della mamma, può definirsi, dato il trend della mostra, film romantico.
Quanto al premio per i migliori attori, si va dall´efferatezza nazista in sublime chiave comica del geniale attore tedesco Christoph Waltz del film dell´americano Tarantino, Inglourious Basterds, alla stregoneria malvagia con autolesionismo barbaro della delicata Charlotte Gainsbourg dell´Antichrist del danese Lars von Trier. Giustamente, la Huppert ha voluto creare un premio speciale del festival per Alain Resnais, 87 anni fragili, che è salito sul palco accompagnato dalla più lunga ovazione della serata: abito nero, camicia rossa, cravatta nera, scarpe bianche da ginnastica: l´autore di film che hanno segnato la storia del cinema come Notte e nebbia e L´anno scorso a Marienbad, ha portato in concorso il film più lieve, più intelligente, più umano di tutta la rassegna, Les Herbes folles, in cui alla fine anche la morte appare come un gioco, un incidente trascurabile, una simpatica conclusione.
L´Asia stravince quest´anno, se si aggiunge al film coreano, e a quello filippino, anche quello cinese che ha ottenuto il premio per la miglior sceneggiatura: Febbre di primavera di Lou Ye, cui è stato proibito di filmare nel suo paese, è stato girato di nascosto e pericolosamente nelle strade di Nanchino, per raccontare promiscui amori omosessuali, essendo l´omosessualità uno dei temi più ricorrenti nei film delle varie sezioni. Stravincono in tutti i film gli attori molto bravi ma quasi mai glamour, spesso giovani, spesso qualsiasi, facce nuove quasi sempre sconosciute di un nuovo cinema che non ha bisogno di costosi divi per essere appassionante, che anzi i divi banalizzerebbero. Per le grandi star c´è il tappeto rosso, ci sono gli abiti e i gioielli da indossare, ci sono le fotografie e le video riprese, ci sono i privè alle feste dove tutti si divertono tranne loro, c´è la folla che li vuole vedere e li applaude. Quest´anno ce ne erano pochissime, nei film e sul red carpet, e quasi nessuno se ne è accorto.

Repubblica 25.5.09
La giurata
Asia Argento: "Bellocchio? Ne abbiamo parlato solo una volta"
di m. p. f.


CANNES - C´è stato un film che avrebbe voluto vedere tra i premiati e invece non è stato discusso? La domanda è alla giurata Asia Argento e il riferimento implicito naturalmente riguarda "Vincere" di Marco Bellocchio, unico italiano in concorso. La risposta è secca, nervosa: «Avete visto i film che sono stati premiati? Possiamo parlare solo di quelli, dei nove che hanno avuto riconoscimenti. E parliamone con accenti positivi. Comunque di Bellocchio abbiamo parlato una volta sola. E bene». È evidente che qualcosa da dire l´avrebbe, ma bisogna attenersi al regolamento di quest´anno, contiene l´invito ai giurati di non raccontare quello che è successo durante le riunioni della giuria. «Non si può spiare dietro le porte, non è il caso di raccontare in giro le nostre discussioni». E, come tutti gli altri giurati, parla di un clima democratico, ciascuno di noi ha avuto la possibilità di esprimere le proprie idee e ha ascoltato quelle degli altri. Ho ascoltato gli altri e ho imparato anche a cambiare idea». Il termine democrazia torna nei commenti di tutti i giurati come una parola d´ordine, anche con il sarcasmo di Kureishi, il quale, dopo aver detto di aver «visto nei film di questo festival cose che non avevo mai visto nella vita», a proposito di "Kinatay", premiato per la regia di Brillante Mendoza, uno dei più contestati, sottolinea che «non è detto che il pubblico debba per forza vederlo. Per me so che non ci sarà una seconda volta».

Gazzetta del Sud 25.5.09
Una doccia fredda sul regista e gli attori di "Vincere"
Delusione di Bellocchio


CANNES. Nessun premio per Marco Bellocchio ed il suo film "Vincere" al festival di Cannes. A poche ore dalla cerimonia di chiusura del festival è forte la delusione non solo del regista ma anche degli attori che hanno recitato nel film. La pellicola, che racconta la storia, per certi versi ancora poco nota, della relazione tra Benito Mussolini e Ida Dalser, dalla quale nacque nel 1915, Benito Albino Mussolini, cui il duce diede la paternità, è stata, a quanto si è appreso, in predicato fino all'ultimo per entrare nella rosa del palmares.
Marco Bellocchio era pronto a tornare a Cannes da Torino, dove sabato ha presenziato alla prima del film interpretato da Giovanna Mezzogiorno e Filippo Timi. A fine mattinata, quando le indiscrezioni sul verdetto della giuria sono cominciate a trapelare, la doccia fredda per il film italiano coprodotto da Rai Cinema.

l’Unità 25.5.09
Il verdetto Palmarés ultra-annunciato, accolto da applausi e fischi. Huppert: «Sono felice»
Commozione per il premio speciale al vecchio Resnais. In giuria nessuno ha difeso «Vincere»
La Palma d’oro ai bimbi nazi
Haneke vince, Bellocchio a casa
di AL.C.


Isabelle Adjani consegna la Caméra d’or, che è un premio bellissimo e va a un esordiente che se lo merita, l’australiano Warwick Thornton emozionato come un bimbo. Doveva consegnare la Palma d’oro, la Adjani, ma il cerimoniale cambia in corsa e si mormora che l’altra grande Isabelle – la Huppert, presidente della giuria – abbia imposto la retrocessione della rivale. Mezz’ora più tardi Isabelle Huppert assegna la Palma d’oro del 62esimo festival di Cannes «con una certa emozione». Sono le sue parole prima di chiamare sul palco Michael Haneke, vincitore con Il nastro bianco. È un trionfo annunciato. Le scommesse su Haneke si erano moltiplicate non appena si era saputo che la Huppert, sua vecchia compagna di lavoro (insieme sfiorarono la Palma a Cannes con La pianista), avrebbe diretto la giuria di Cannes 2009. Chiamiamolo conflitto d’interessi, noi italiani ne vediamo di peggiori tutti i giorni. Quando Isabelle si presenta in conferenza stampa con gli altri giurati, la prima domanda non può che essere quella, e la risposta, prevedibile, avremmo potuto scriverla un mese fa: «Sono felice di aver premiato Haneke perché è un grande regista, è per questo che in passato ho voluto lavorare con lui. Stimo il suo lavoro, è un autore di grande umanità che prende strane vie, e quindi è affascinante, va al fondo dell’anima umana. Credo che Il nastro bianco sia un film importante, filosofico, etico».
Dopo anni di corteggiamento, Haneke vince finalmente quella Palma che sembrava dover diventare una chimera. La vince per un film in bianco e nero, sull’incubazione del nazismo nella Germaniadegli anni ‘10, diverso dai suoi più famosi, non eccezionale. Il verdetto è accolto, in sala stampa, da applausi e fischi. Il film divide. E non mancano fischi anche per altri: al filippino Brillante Mendoza per la miglior regia, a Charlotte Gainsbourg che ringrazia con un filo di voce (sembra sua madre quando sussurrava «Je t’aime moi non plus») e alla fine saluta proprio come mamma Jane Birkin, e ricorda papà Serge augurandosi «che sia orgoglioso di me». L’unico momento che unisce tutti è il «prix exceptionnel», assegnato ad Alain Resnais per Les herbes folles. Ed è bello che la Huppert lo annunci definendo Resnais «il regista di Notte e nebbia, di Hiroshima mon amour, di L’anno scorso a Marienbad…»: per un attimo il profumo di capolavoro, il respiro antico del grande cinema aleggia in una sala che fino a quel momento ha premiato quasi esclusivamente film disgustosi. Vedere Resnais salire sul palco, con quei bei capelli bianchi e gli occhiali neri per proteggere gli occhi dai flash, e ringraziare commosso per un premio che non gli rende giustizia è l’unica immagine bella che ci portiamo via da questa premiazione.
La parola ai giurati
In conferenza stampa si tenta di sapere dalla giurata italiana, Asia Argento, se Vincere di Marco Bellocchio ha avuto qualche chance. La risposta è sprezzante: «Avete visto il palmarès, e chi ha vinto, parliamo di chi ha vinto». È evidente che Bellocchio non ha avuto difensori in giuria, ma fa parte del gioco. Su eventuali discussioni fra giurati, Asia la spara grossa: «Wittgenstein diceva: su ciò di cui non si può parlare, è meglio tacere». Citazione un tantino fuori contesto. Così come appare fuori luogo l’ultima frase di Christoph Waltz, vincitore per Inglorious Basterds, che dopo aver parlato correntemente in 3 lingue come il suo personaggio chiosa: «Vorrei ringraziare il tenente colonnello Landa e il suo inimitabile creatore, Quentin Tarantino». Va bene per il creatore, ma la creatura è un tenente delle SS ed è la prima volta che un nazista cacciatore di ebrei, per quanto immaginario, viene ringraziato al Palais di Cannes. Una serata da dimenticare.

Corriere della Sera 25.5.09
La giuria Asia Argento: non ho il dovere di spiegare. Isabelle: felicissima di restituire a Michael quel che mi ha dato in passato
«Bellocchio bocciato? Ne abbiamo parlato bene una volta»
di Giovanna Grassi


CANNES — Domanda: «Marco Bellocchio e il suo film sono stati presi in consi­derazione oppure no?». Asia Argento risponde: «Abbiamo parlato tra noi membri della giuria una volta di Vincere e ne abbiamo parlato bene. Per il resto, non mi sento in dove­re di spiegare che cosa è acca­duto dietro la porta delle no­stre riunioni. I premi esprimo­no le nostre scelte».
Con questa risposta, Asia ha zittito tutti. Gli spagnoli, ar­rabbiatissimi perché il pre­mio della giuria, fischiato in sala stampa, è andato a Bril­lante Mendoza per Kinatay e non ad Almodòvar. Gli an­glo- americani, seccati per l’as­senza anche solo di un pre­mio per Bright star della Cam­pion e per Inglourious Baster­ds (anche se Christoph Waltz, interprete del film di Taranti­no, è stato scelto come mi­glior attore), che hanno com­mentato: «Questi premi sono anti-pubblico. Vedremo i ri­sultati degli incassi e della di­stribuzione internazionale dei film votati».
Madame Cinema, alias Ma­dame la Presidente, ossia l’in­tegerrima Isabelle Huppert, può essere contenta. Il verdet­to, esattamente quello che vo­leva, le ha dato massima sod­disfazione premiando il suo regista. Decisa, dichiara: «So­no felicissima di restituirgli tutto ciò che mi ha dato in passato. Il suo film è molto importante per me e non solo stilisticamente. Amo sempre il lavoro di questo grande regi­sta, la sua umanità, il suo stile totalmente etico e il suo mo­do sottile e profondo di ana­lizzare gli animi umani e la so­cietà in parallelo».
Parole nette, ma nessuno dei giurati parla di «unanimi­tà ». Anzi, dicono tutti, in pri­mis Robin Wright Penn e il re­gista americano James Gray: «Abbiamo molto e democrati­camente discusso, abbiamo trovato accordi e cambiato quando era necessario le no­stre idee, con amicizia e con un dialogo che ci ha arricchiti tutti». Ironico lo scrittore Ha­nif Kureishi, che ha aggiunto: «Tutto vero, ma posso anche dire di aver visto nei film pre­sentati cose che mai nella vita aveva visto e anche che molti film (ha aggiunto con aria spossata, ndr.) erano davvero molto, molto lunghi».
Asia Argento, e questo era prevedibile sia per lei sia per Isabelle Huppert, due attrici esperte in ruoli «estremi», si dimostra loquace solo quan­do parla del premio a Charlot­te Gainsbourg per il film di Lars von Trier Antichrist: «La considero una sorella france­se per la sua carriera, il suo co­raggio, la sua capacità di ade­rire totalmente a ogni sua in­terpretazione ».
Ribadisce Robin Wright Penn: «Certo, nel dialogo ab­biamo cambiato idee, le ab­biamo plasmate su quelle de­gli altri e ora siamo tutti fieri del risultato».

l’Unità 25.5.09
La macchia della vergogna
di Conchita De Gregorio


Vedete? Non è il processo Mills che spiega quanto e come abbia corrotto col denaro, non sono i toni mussoliniani di quando dice il Parlamento è inutile e dannoso quel che macchia sfregiandola - agli occhi degli italiani - la cappa bianca dell'imperatore. È la sua malattia senile, è quella folle corsa all'eterna giovinezza che lo porta da anni ad assumere farmaci che ne potenzino il vigore, dunque la virilità, che lo costringe a trapiantarsi pezzi di cute a intossicarsi il sangue e poi a lavarlo con le macchine. Le donne attorno a decine. Cinquanta al tavolo, ci raccontava giorni fa Riccardo De Gennaro. Una quarantina a Capodanno in Sardegna, alloggiate come al campeggio mariano in bungalow da quattro. In principio erano attrici, soubrettes portate dalla corte compiacente. Aspiranti, sempre più giovani. Ragazzine, infine minorenni. Porta un'amica, ha detto a Noemi Letizia che aveva allora 17 anni. Noemi ha portato nella villa sarda Roberta, 17 anni anche lei. Dormivano con altre «due gemelline». Non posso vivere accanto a un uomo che «frequenta minorenni», ho pregato in ogni modo chi gli sta vicino di accudirlo «come si fa con una persona che non sta bene» ha detto sua moglie Veronica. Però poi lui è andato a Porta a Porta dall'amico Vespa e ha raccontato una serie impressionante di menzogne. Senza che nessuno lo contraddicesse: nella nostra - nella sua - tv non si usa. Che era un vecchio amico di famiglia, che lui è un uomo del popolo e perciò frequenta le feste da debuttanti delle adolescenti di Portici. No, non è per questo. È perché a volte si appassiona delle ragazze da catalogo di cui Emilio Fede e altri complici «dimenticano» sul suo tavolo. Alle bambine, poi, ci si appassiona con facilità.
Ieri a San Siro glielo hanno rimproverato i tifosi del suo Milan. Lo so, è terribilmente desolante ma il termometro del consenso politico è questo: lo stadio. San Siro, scrive Rinaldo Gianola, è il luogo dove la curva «dava del tu a Papi ben prima di Noemi». «Quante Champions League avete vinto?» il suo argomento contro l’opposizione. Gli striscioni che gli rimproverano di spendere soldi per «comprare le veline» sono un insulto e un pericolo. Striscioni comunisti, ispirati da un giornalista suggeritore? Difficile. Persino Enrico Letta, uomo sobrio non incline ad occuparsi di letteronze, dice che «Berlusconi è in preda al nervosismo perché la vicenda di Noemi gli sta sfuggendo di mano», «spara all'impazzata: dobbiamo inchiodarlo alle sue responsabilità». Morali, prima di tutto. L'ex fidanzato della ragazza dice: io non potevo farci niente. «Sarebbe come se un salumiere si fidanzasse con Jennifer Lopez. Cosa avevo da darle in cambio, io?». Si fidanzasse, è questo il verbo che usa. Non esiste il lodo Alfano della morale. Il direttore di Famiglia Cristiana Don Sciortino lo scrive oggi nel suo editoriale e lo dice a Roberto Monteforte: «Il premier deve chiarire, l'immunità morale non esiste». Famiglia Cristiana. Se il Papi della Patria deve fare i conti con la curva di San Siro e coi parroci comincia ad essere un problema. Certo, in un Paese normale sarebbero state sufficienti a chiamarlo a rispondere la voce dell'opposizione e dei giornali liberi. Ma siamo in Italia, che volete: il vero pericolo sono la moglie, i tifosi e il prete dal pulpito.

l’Unità 25.5.09
Quando tutto sarà finito
di Silvia Ballestra


Non riesco nemmeno a immaginarla la grandezza del risarcimento che ci spetterà quando tutto questo sarà finito. A cosa avremo diritto per aver assistito sgomenti ai collier da seimila euro in dono alle signore, alle canzoncine con Apicella, ai cucù da dietro le colonne, ai dischi di make-up nascosti nei fazzoletti tergisudore, alle dentiere per le anziane terremotate, alle barzellette infelici e volgari, alle mani morte, ai “posso palpare?” che girano in mondovisione, e si potrebbe andare avanti per ore, per giorni… Cosa mai ci potrà ricompensare per l’inusitato sprezzo del ridicolo, per l’umiliazione? Quando tutto questo sarà finito, avremo almeno una nostra movida come si deve, un rinascimento, un rifiorire delle arti e delle culture, del bello, del saggio, del creativo? Del presentabile? Del decente? Dopo anni e anni di signorine Noemi, di “venite in Italia a investire che ci sono belle segretarie”, di softporno pecoreccio, solo l’idea di un enorme – ma che dico – di un gigantesco risarcimento ci aiuta ad andare avanti. Con la stampa internazionale preoccupata per noi. Con gli amici europei che ci chiamano per sentire l’ultima su papi e farsi due risate. Due magistrali pagine su Le Monde, settimana scorsa, riportavano un puntuale ritratto del nostro premier che neanche il Garcia Marquez dei libri più visionari e sudamerici sarebbe riuscito a concepire. Cherie Blair rivela che il marito Tony era molto preoccupato dall’eventualità di esser fotografato accanto a Silvio in bandana. E il Guardian, e il Times, e poi ancora i tedeschi, gli spagnoli, i norvegesi. E finalmente si comincia a capire cosa vuol dire quell’antico “una risata vi seppellirà”, solo che ‘sta risata mondiale sta seppellendo noi. Noi senza bandana, senza eserciti di signorine, noi senza potere. Noi con la vergogna che dovrebbe provare lui.

Repubblica 25.5.09
Rotto l’incantesimo del nuovo Don Rodrigo
di Gad Lerner


Forse ora la smetterà d´insistere sulla propria esuberanza sessuale, sulle belle signore da palpare anche tra le macerie del terremoto e sulle veline che purtroppo non sempre può portarsi dietro.
A quasi 73 anni d´età, Silvio Berlusconi si trova per la prima volta in vita sua a fare davvero i conti con l´universo femminile così come lui l´ha fantasticato, fino a permearne la cultura popolare di massa di questo paese. Lui, per definizione il più amato dalle donne, sente che qualcosa sta incrinandosi nel suo antiquato rapporto con loro.
Le telefonate notturne a una ragazzina, irrompendo con la sproporzione del suo potere - come un don Rodrigo del Duemila - dentro quella vita che ne uscirà sconvolta. E poi il jet privato che le trasporta a gruppi in Sardegna per fare da ornamento alle feste del signore e dei suoi bravi. Ricompensate con monili ma soprattutto con aspettative di carriera, di sistemazione. L´immaginario cui lo stesso Berlusconi ha sempre alluso nei suoi discorsi pubblici è in fondo quello di un´Italietta anni Cinquanta, la stagione della sua gioventù: vitelloni e case d´appuntamento; conquista e sottomissione; il corpo femminile come meta ossessiva; la complicità maschile nell´avventura come primo distintivo di potere. Nel mezzo secolo che intercorre fra le "quindicine" nei casini e l´uso improprio dei "book" fotografici di Emilio Fede, riconosciamo una generazione di italiani poco evoluta, grossolana nell´esercizio del potere.
Di recente Lorella Zanardo e Marco Maldi Chindemi hanno riunito in un documentario di 25 minuti le modalità ordinarie con cui il corpo femminile viene presentato ogni giorno e a ogni ora dalle nostre televisioni, con una ripetitiva estetica da strip club che le differenzia dalle altre televisioni occidentali non perché altrove manchino esempi simili, ma perché da nessuna parte si tratta come da noi dell´unico modello femminile proposto in tv. La visione di questa sequenza di immagini e dialoghi è davvero impressionante (consiglio di scaricarla da www.ilcorpodelledonne.com). Viene da pensare che nell´Italia clericale del "si fa ma non si dice" l´unico passo avanti compiuto nella rappresentazione della donna sia stato di tipo tecnologico: plastificazione dei corpi, annullamento dei volti e con essi delle personalità, fino a esasperare il ruolo subalterno, spesso umiliante, destinato nella vetrina popolare quotidiana alla figura femminile senza cervello. Cosce da marchiare come prosciutti negli spettacoli di prima serata, con risate di sottofondo e senza rivolta alcuna delle professioniste, neppure quando uno dopo l´altro si sono susseguiti gli scandali tipicamente italiani denominati Vallettopoli.
In tale contesto ha prosperato il mito del leader sciupafemmine, invidiabile anche per questo. Fiducioso di godere della complicità maschile, ma anche della rassegnata subalternità di coloro fra le donne che non possano aspirare a farsi desiderare come veline.
Tale è stata finora l´assuefazione a un modello unico femminile - parossistico e come tale improponibile negli Stati Uniti, in Francia, nel Regno Unito, in Germania, in Spagna - da far sembrare audacissima la denuncia del "velinismo politico" quando l´ha proposta su "FareFuturo" la professoressa Sofia Ventura. Come se la rappresentazione degradante della donna nella cultura di massa non avesse niente a che fare con la cronica limitazione italiana nell´accesso di personalità femminili a incarichi di vertice. Una strozzatura che paghiamo perfino in termini di crescita economica, oltre che civile.
Così le ormai numerose indiscrezioni sugli "spettacolini" imbanditi nelle residenze private di Berlusconi in stile harem - mai smentite, sempre censurate dalle tv di regime - confermano la gravità della denuncia di Veronica Lario: «Figure di vergini che si offrono al drago per rincorrere il successo, la notorietà e la crescita economica». Una sistematica offesa alla dignità della donna italiana resa possibile dal fatto che «per una strana alchimia il paese tutto concede e tutto giustifica al suo imperatore».
Logica vorrebbe che dopo le ripetute menzogne sulla vicenda di Noemi Letizia tale indulgenza venga meno. La cultura misogina di cui è intriso il padrone d´Italia - ma insieme a lui vasti settori della società - risulta anacronistica e quindi destinata a andare in crisi. Si rivela inadeguata al governo di una nazione moderna.
Convinto di poter dominare dall´alto, con l´aiuto dei suoi bravi mediatici, anche una realtà divenuta plateale, l´anziano don Rodrigo del Duemila per la prima volta rischia di inciampare sul terreno che gli è più congeniale: l´onnipotenza seduttiva, la cavalcata del desiderio. L´incantesimo si è rotto, non a caso, per opera di una donna.

Repubblica 25.5.09
"Fermiamo una cultura che nuoce al Paese"
Dario Fo: "Dopo il caso Mills un'altra storia che ci fa vergognare"
Storia nefanda
intervista di Anna Bandettini


Pensavamo che il peggio fosse stato raggiunto, ora c´è questa nefanda storia
Se possiamo digerire questa storia? Abbiamo digerito la sentenza del caso Mills...

ROMA - «Pensavamo che il peggio fosse già stato raggiunto. E invece ora questa nuova, nefanda, storia. Mi viene amaramente da dire: noi italiani abbiamo quello che ci meritiamo». Lo dice con rabbia, più che con rassegnazione, il premio Nobel Dario Fo leggendo dell´ultima, clamorosa puntata della storia che riguarda Noemi Letizia, la giovane ragazza napoletana, e Silvio Berlusconi.
Fo, in che senso ce lo meritiamo noi italiani?
«Lei crede che con queste nuove dichiarazioni del fidanzato della ragazza, che contraddicono tutto quello che Berlusconi ha detto finora, succederà qualcosa? La gente in giro plaude. Se la ride. Signore che di solito si scandalizzano per un seno nudo, ora sono pronte a giustificare quest´uomo dicendo "ma vabbè che male c´è, lo fanno tutti gli uomini". Il premier va in giro con le ragazze, si dice minorenni? Che sarà mai! La gente anche davanti a questo lo ama. Viene fuori che si fa in week end in villa con trenta ragazze? Bravo! Che bella vita. Ecco cosa dicono gli italiani. E´ all´estero che ci guardano come poveri deficienti, ma in Italia si applaude. E questo perché Berlusconi ha tirato fuori il peggio di questo Paese».
Molta gente dice che si tratta di faccende private, che non c´entrano con la politica
«In parte sono d´accordo, ma per altre ragioni. Considero un errore fare il conto della spesa dei comportamenti di Berlusconi. Perché quello che fa paura non sono le cose belle o brutte che fa, ma la volgarità , la cultura, il senso della vita che esse esprimono. Berlusconi va battuto non per quello che fa ma per quello che produce, e che ha già contagiato tutto il paese. Parlo di quella cultura della pacca sul sedere, della barzelletta inutilmente triviale sempre e dovunque tu ti trovi, come quando liquidò Obama dicendo che era bello e abbronzato. La cultura delle promesse a questa o quella ragazza di darle un posto in tv o in parlamento, che per lui sono la stessa cosa. La cultura dell´uomo che va in giro con la valigia piena di gioielli per elargire regali. E´ la cultura di chi si presenta nelle vesti dell´imbonitore"
Lei dice che ormai tutto questo noi lo digeriamo.
«Se abbiamo digerito la sentenza Mills…»
Ma perché digeriamo tutto questo?
«Perché Berlusconi è il sogno dell´italiano medio, incarna l´anima profonda del Paese e l´ha allevata rendendola più triviale, più meschina e kitsch. Ecco perché dico che il problema non è lui, sono gli italiani. Non tutti per carità. Sono un 50 per cento. Ma è quel 50 per cento che lo applaude e che lo tiene lì sulla poltrona del potere».

Corriere della Sera 25.5.09
Referendum. Quell’imbarazzante somiglianza con la Legge Acerbo
di Giovanni Belardelli


Fino a oggi nessuno o quasi ha accostato la legge elettorale che uscirebbe da una vittoria dei sì al re­ferendum alla legge Acerbo approvata dal fascismo nel 1923, che ebbe la prima e ultima applicazione l’anno seguente. Eppure le somiglianze tra le due leggi sembrano piuttosto evidenti. La legge fa­scista assegnava i due terzi dei seggi alla Camera (il Senato era all’epoca di nomi­na regia) al partito che avesse ottenuto almeno il 25 per cento dei voti. Analogamente, una vit­toria del referendum Se­gni- Guzzetta farebbe attri­buire la maggioranza asso­luta dei seggi non più (co­me ora) alla singola lista bensì al singolo partito che ha avuto più voti. E questo senza la necessità di supera­re alcun quorum, com’era invece il caso della legge Acerbo che almeno imponeva di rag­giungere un quarto dei suffragi perché il premio previsto potesse scattare.
Avvicinandosi ormai la data della con­sultazione referendaria, nelle file del­l’opposizione sono aumentati i dubbi sull’opportunità di votare sì. Eppure, l’obiezione di quanti, dopo aver sostenu­to il referendum, sono passati ad avver­sarlo sembra basarsi soprattutto su con­siderazioni pratiche, utilitaristiche: oggi come oggi la nuova legge elettorale pro­dotta da una vittoria del fronte referen­dario non solo darebbe la maggioranza assoluta al PdL ma (grazie alla sua alle­anza con la Lega in Parlamento) forni­rebbe all’attuale presidente del Consi­glio i numeri per riformare la Costituzio­ne senza dover poi sottostare all’alea di un eventuale referendum popolare (che già una volta bocciò una riforma costitu­zionale del centrode­stra).
Nessuno sembra inve­ce intenzionato ad utiliz­zare l’argomento polemi­co della effettiva somi­glianza tra la eventuale nuova legge elettorale e quella preparata a suo tempo dal fascista Acer­bo. E se ne può intuire la ragione. Fino ad oggi è capitato più volte che esponenti dell’op­posizione accostassero il governo attua­le al Ventennio, Berlusconi a Mussolini. Ma sarebbe un po’ imbarazzante dichia­rare che una vittoria dei sì darebbe forse a quel paragone un fondamento obietti­vo, del quale però Berlusconi stesso — referendario dell’ultima ora — non po­trebbe in alcun modo essere incolpato.

Corriere della Sera 25.5.09
Per far crescere la scienza bisogna abbattere gli idoli
Un volume e due convegni celebrano Eugenio Colorni
di Giulio Giorello


«Alla base di ogni grande scoperta, di ogni rivoluzio­ne nel campo della scienza, c’è una conquista morale: l’ab­battimento di un idolo salda­mente insediato e abbarbica­to fra le pieghe della nostra anima», amava ripetere Euge­nio Colorni.
Ben strano tipo di filosofo nel panorama italiano della prima metà del Novecento, Colorni aveva preso le mosse dall’estetica di Croce, si era poi confrontato con quel mira­bile inventore di metodi e arti­sta di sistemi che era stato Lei­bniz: dalla matematica al dirit­to, dalla logica alla tecnologia. Era stato, però, il contatto con Umberto Saba, «il poeta libra­io di Trieste che parla il gergo della psicanalisi», ad affranca­re Eugenio da quel tipo di «malattia» che prende il filo­sofo quando rende i «bisogni che sorgono in modo oscuro dalle profondità della sua co­scienza » veri e propri feticci cui sacrificare chiarezza e con­cretezza. Tale «liberazione», che ha reso Colorni autentico filosofo della scienza, è oggi ri­costruita nel volume che rac­coglie i suoi scritti filosofici e autobiografici e che reca il ti­tolo La malattia della metafi­sica, a cura di Geri Cerchiai (Einaudi, pp. XLVIII-382, e 24).
Si tratta, come nota il cura­tore, della parabola di «un’in­telligenza sempre pronta a ri­mettersi in discussione». Quel che più mi colpisce è quella che Colorni stesso defi­niva «acredine iconoclasta», cioè la capacità di attaccare qualunque «idolo» blocchi la crescita intellettuale del singo­lo e il miglioramento della so­cietà.
Il risvolto politico di tale iconoclastia aveva già risve­gliato l’interesse di Norberto Bobbio (che aveva scritto un’introduzione per una sele­zione di Scritti di Colorni pub­blicata del 1975 dalla Nuova Italia). Ma la lotta politica non risparmia nemmeno l’impre­sa scientifica: idoli nel senso di Colorni sono stati il geocen­trismo dell’astronomia prima di Copernico, il mondo chiu­so prima di Bruno o di Gali­leo, l’idea di un piano della na­tura prima di Darwin; e lo era­no pure lo spazio e il tempo assoluti di Newton prima del­la relatività di Einstein, o la no­zione di un rigido nesso causa­le tra gli eventi prima della meccanica quantistica… Lo scienziato, per Colorni, deve dar prova di un occhio chiaro degno di Spinoza: analizzan­do gli stessi dogmi della ricer­ca scientifica e sbloccando le categorie in cui pretende di in­casellare l’esperienza, riesce a superare quel «cieco amore per se stessi», che altrimenti impedirebbe ogni innovazio­ne sia nella scienza sia nella vi­ta civile.
Nell’immergersi nella scien­za Colorni, però, non dimenti­cava la dimensione tragica del­l’esistenza. Tutta la civiltà e tutta la cultura gli apparivano frutto delle nostre inquietudi­ni: «È il fatto che dobbiamo morire che dà un senso con­creto e finito alla nostra attivi­tà, che ci permette di misura­re il tempo e di spenderlo co­me un tesoro non illimitato». Nato da famiglia ebraica (Mila­no, 22 aprile 1909), educato in ambiente liberale, militante antifascista vicino alla pro­spettiva del Socialismo, getta­to in carcere e al confino, Co­lorni ha saputo far fruttare il «tesoro» che la vita gli aveva concesso. Evaso e passato alla lotta clandestina, doveva veni­re ferito gravemente da una pattuglia della Banda Koch il 28 maggio 1944, per spirare due giorni dopo.
Vorrei terminare con una constatazione strettamente personale, essendo nato nel maggio dell’anno successivo, quando la lotta di Liberazione si era appena conclusa: è an­che grazie a uomini come Eu­genio Colorni che la mia gene­razione ha potuto crescere e studiare in un clima di (diffici­le) libertà.

Repubblica 25.5.09
Virus Spa
La nuova influenza ha rilanciato il mercato dei vaccini
Ecco come la paura può trasformare la pandemia in un affare miliardario
di Ettore Livini


La recessione non abita qui. Nell´era del bio-terrorismo, delle pandemie, della rinascita di Ebola e della Tbc, la Virus Spa - arrivata sull´orlo della bancarotta solo dieci anni fa - scoppia (anche se suona paradossale) di salute. L´influenza suina, ribattezzata in chiave più politically correct H1N1, è solo l´ultimo tassello di una resurrezione annunciata: le vendite di vaccini - crollate alla fine del secondo millennio - hanno ripreso a crescere a tassi del 10-15% l´anno, arrivando già oggi a un giro d´affari vicino ai 20 miliardi l´anno. I governi, colti in contropiede dalla rinascita di questi nemici invisibili, sono tornati a incentivare la costruzione di nuovi siti produttivi (George Bush ha stanziato un miliardo di incentivi). E tutto l´indotto - dalle mascherine protettive, alla candeggina, fino ai macchinari per la disinfezione di casa - gira a mille.
La spiegazione del boom, più che nei testi scientifici, va cercata nei manuali di economia: la domanda supera l´offerta. «La globalizzazione non è stata solo un volano per l´industria e i servizi - spiega Giovanni Rezza, epidemiologo dell´Istituto superiore della Sanità - . Anche i virus hanno imparato a cavalcarla alla grande». Salgono in aereo con le persone infette, viaggiano con le ondate di nuova immigrazione, mettono su casa nella carne di polli che girano mezzo mondo prima di finire sul piatto di portata. Senza bisogno di passaporti, troppo piccoli (100 volte meno di una cellula) per essere respinti alle frontiere. E prosperano. La Sars (8.400 persone infettate, 800 morti) è stato il primo campanello d´allarme nel 2002. Quattro anni dopo è arrivata l´aviaria (421 casi di contagio, 257 vittime tra gli umani, 300 milioni tra i volatili). Ma oggi l´esplosione della H1N1 fotografa una certezza: il ritorno del rischio-pandemia. «Il mondo microbiologico è in gran fermento - dice Margaret Chan, numero uno dell´Organizzazione mondiale della Sanità - . E Hiv, Sars e Aviaria non saranno le sue ultime cattive sorprese». Il problema? «Che oggi non siamo in grado di produrre vaccini per tutti», ammette candidamente Marie Paul Kiney, uno dei membri del Shoc (Strategic Health operation center), la task force di superesperti asserragliata da tre settimane nei sotterranei dell´Oms a Ginevra per gestire le strategie anti-suina a livello mondiale.
La Virus Spa - un´azienda totalmente privata - si frega le mani. Barak Obama ha chiesto al congresso 1,5 miliardi per comprare preventivamente nuove scorte di Relenza e Tamiflu, i due anti-influenzali di Glaxo e Roche che paiono aver effetti di contenimento sulla H1N1. Le stesse due società (schizzate in Borsa) hanno ricevuto in pochi giorni ordini per un miliardo dai governi inglese, francese, belga e finlandese. E tra Wall Street, la City e il listino elvetico, hanno messo il turbo le azioni delle 20 società farmaceutiche in grado, secondo gli analisti, di sviluppare in tempi brevi un vero e proprio vaccino contro l´influenza suina. Un affare - in caso di pandemia - da decine di miliardi.
La guerra a queste microscopiche e sfuggenti entità biologiche è diventata in pochi anni una miniera d´oro. «Me l´avessero detto dieci anni fa, non ci avrei mai creduto», ammette Rino Rappuoli, direttore del centro Novartis di Siena, in America in questi giorni proprio per la messa a punto del vaccino contro la suina insieme al Center for disease control. Negli anni ‘90 i virus e il loro indotto industriale sembravano sulla via d´estinzione. Il mondo occidentale aveva estirpato a colpi di vaccinazioni quasi tutte le malattie più pericolose. I paesi poveri, quelli dove i morbi prosperavano (e prosperano) ancora, non avevano i soldi per pagare i farmaci. E i big della farmaceutica avevano deciso di cercar fortuna in altri campi più redditizi: i produttori di vaccini sono crollati da 26 a 7 dal 1970 al 2004. In America sono scesi da 5 a 2. E quando sono arrivati l´antrace, le Torri Gemelle con il rischio di bio-terrorismo e le nuove pandemie, i virus si sono ritrovati a combattere con truppe nemiche ridotte all´osso.
George Bush è stato così costretto ad avviare in fretta e furia un piano per ripristinare la capacità produttiva domestica, destinata a cavalcare pure la domanda di filantropi come Bill Gates impegnati in campagne di vaccinazione miliardarie nel terzo mondo. E lo stesso stanno facendo altri paesi, convinti che in caso d´emergenza - secondo l´Oms la prossima pandemia seria potrebbe uccidere fino a 7,4 milioni di persone - è meglio aver scorte di medicinali in casa propria.
L´incrocio pericoloso tra la salute pubblica mondiale e gli interessi del business legati ai virus, in effetti, ha ricadute geopolitiche importanti: i paesi più poveri sono per tradizione quelli più esposti al rischio contagio ma anche quelli con meno soldi per combatterlo. Il portafoglio ordini dei vaccini, non a caso, è già quasi tutto opzionato dai grandi paesi occidentali. E l´Oms - cui Glaxo ha "regalato" 50 milioni di dosi dei suoi medicinali - sta tentando una mediazione difficilissima per trovare un punto d´equilibrio e non dividere il mondo in due, metà a prova di virus e l´altra metà preda delle scorribande microbiologiche. L´Indonesia, ad esempio, è stata tra i primi a ricostruire la sequenza genetica dell´H1N1, passaggio-chiave per la preparazione del vaccino. Ma si è rifiutata di girarla a Ginevra e alle case farmaceutiche senza garanzie di aver poi accesso al prodotti finito.
L´altra faccia della Virus Spa, farmaci a parte, è l´indotto da psicosi, un´altra azienda fiorentissima. L´americana Clorox ha visto decuplicare in Messico e quasi raddoppiare negli Usa le vendite della sua candeggina, usata come disinfettante. Aziende come le americane 3M e Kimberley lavorano a pieno ritmo ma non riescono a soddisfare la richiesta di mascherine per la respirazione: solo il governo inglese ne ha ordinate 32 milioni per i suoi medici, temendo più avanti una carenza. Tirano anche i sistemi di teleconferenza di Cisco e altri big dopo che molte aziende in giro per il mondo - già scottate dalla recessione - hanno ridotto al minimo i viaggi dei dipendenti. L´italianissima Polti, invece che pubblicizzare il suo storico pulitore Vaporetto, paga intere pagine di giornale per promuovere il Sanisystem, sanificatore anti-virus per bonificare le case degli italiani. Spese che valgono la candela se è vero, come stima Moody´s, che una pandemia da 1,4 milioni di morti (l´influenza tradizionale fa ogni anno 500mila vittime) potrebbe costare all´economia mondiale 330 miliardi di dollari.
Lo scoppio di un´epidemia seria, naturalmente, avrebbe conseguenze ad oggi inimmaginabili sulla Virus Spa. Nessuno in effetti è riuscito a creare modelli matematici attendibili per anticipare le reazioni emotive della gente. Per assurdo l´unico campione attendibile, - come certifica la rivista Lancet, arriva dal mondo virtuale del videogame "The world of warcraft". Un gioco interattivo dove l´infezione ("corrupted blood") attaccata dal serpente Haggar è sfuggita completamente al controllo dei softwaristi della Blizzard Entertainment, il produttore. L´azienda ha "teletrasportato" - «come succede con gli aerei nella realtà», dice Ran Balicer della Ben Gurion University - i giocatori infetti lontani da Haggar. Ma il virus online non si è fermato. In pochi giorni sono morti - per fortuna solo in questa specie di Matrix - 4 milioni di partecipanti. E la Blizzard ha dovuto resettare il sistema per debellare il morbo. Regalando però agli scienziati un campione prezioso per studiare le reazioni dei partecipanti e capire chi e perché era sopravvissuto (soprattutto i giocatori che non si sono fatti prendere dal panico e si sono "auto-quarantenati" fuori dai grandi centri telematici).
Il panico, in effetti, è stato sempre cattivo consigliere - anche in termini economici - per il mondo dorato del business del virus. La madre di tutte le influenze suine, quella scoppiata nel 1976 a Fort Dix nel New Jersey, è paradigmatica: ha contagiato 13 militari, uccidendone uno. Washington, con l´incubo della pandemia, ha vaccinato 40 milioni di americani, spendendo centinaia di milioni di dollari. Il morbo non si è mosso da Fort Dix e non ha più ucciso nessuno. Gli effetti collaterali del vaccino (la sindrome Guillain-Barre, sintomi la paralisi) sono costati però a Casa Bianca e produttori 93 milioni per le cause legali.

Repubblica 25.5.09
Quei virus allevati dall'uomo
Quando le pandemie sono figlie del business
di José Saramago


Non conosco niente sull´argomento e l´esperienza diretta di aver convissuto durante l´infanzia con i maiali non mi serve a niente. Quella era più che altro una famiglia ibrida di umani e animali. Ma leggo con attenzione i giornali, ascolto e vedo i reportage della radio e della televisione, e alcune provvidenziali letture mi hanno aiutato a capire meglio i particolari delle cause all´origine dell´annunciata pandemia, forse potrei trascrivere qui alcuni dati che aiutino a loro volta il lettore. Già da parecchio tempo gli specialisti in virologia sono convinti che il sistema di agricoltura intensiva della Cina meridionale sia stato il principale vettore della mutazione influenzale: sia della sua "deriva" stagionale sia dell´episodica "trasformazione" del genoma virale. Ormai già sei anni fa, la rivista Science ha pubblicato un importante articolo in cui mostrava che, dopo anni di stabilità, il virus della febbre suina dell´America del Nord aveva intrapreso un salto evolutivo vertiginoso. L´industrializzazione degli allevamenti, da parte di grandi imprese, ha rotto quello che fino ad allora era stato il monopolio naturale della Cina sull´evoluzione dell´influenza.
Negli ultimi decenni, il settore degli allevamenti si è trasformato in qualcosa che assomiglia più a quello petrolchimico che all´idea bucolica della fattoria a conduzione familiare che nei libri di scuola descrivono con compiacenza…
Nel 1966, per esempio, negli Stati Uniti c´erano 53 milioni di suini distribuiti in un milione di fattorie. Attualmente, 65 milioni di maiali sono concentrati in 65.000 strutture. Questo significa passare dagli antichi porcili ai ciclopici inferni fecali di oggi, nei quali, tra lo sterco e sotto un calore soffocante, pronti a scambiarsi agenti patogeni alla velocità della luce, si ammassano decine di milioni di animali con sistemi immunitari molto più che deboli. Sicuramente non sarà l´unica causa ma non potrà essere ignorata. L´anno scorso, una commissione convocata dal Pew Research Center ha pubblicato una informativa sulla "produzione animale in allevamenti industriali, in cui si poneva in risalto il grave pericolo che il circolare continuo di virus, caratteristico delle greggi o mandrie enormi, aumentasse la possibilità di apparizione di nuovi virus in seguito a processi di mutazione o di ricombinazione che avrebbero potuto generare virus più efficaci nella trasmissione tra umani". La commissione metteva anche in guardia sull´uso indiscriminato di antibiotici negli allevamenti suini - più economico che in ambienti umani - che stava favorendo l´aumento di infezioni da stafilococco, allo stesso tempo in cui gli scarichi liquidi residuali generavano episodi di escherichia coli e di pfiesteria (il protozoo che ha ucciso migliaia di pesci negli estuari della Carolina del Nord e che ha contagiato decine di pescatori).
Qualsiasi miglioria nell´ecologia di questo nuovo agente patogeno dovrebbe far fronte al mostruoso potere delle grandi corporazioni aviarie e d´allevamento, come Smithfield Farms (suino e manzo) e Tyson (pollame). La commissione ha riferito di un ostruzionismo sistematico messo in atto dalle grandi imprese, comprensivo di aperte minacce di bloccare i finanziamenti ai ricercatori che collaborassero con la commissione. Si tratta di un´industria molto globalizzata e con influenze politiche. Così come il colosso della carne di pollo di Bangkok, Charoen Pokphand, fu capace di mettere a tacere le indagini sul suo ruolo nella diffusione dell´influenza aviaria nel sudest asiatico, è probabile che l´epidemiologia forense del focolaio di influenza suina sbatta la testa contro il muro di gomma dell´industria della carne di maiale. Questo non significa che non si riuscirà mai a puntare il dito contro qualcuno: sulla stampa messicana si mormora già di un epicentro nei pressi di un´enorme filiale della Smithfield nello stato di Veracruz. Ma ciò che conta è il bosco, non i singoli alberi: il fallimento della strategia pandemica dell´Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), l´ulteriore declino della sanità pubblica mondiale, la morsa applicata dalle grandi multinazionali farmaceutiche sui medicinali salvavita e la catastrofe planetaria rappresentata dalla produzione di allevamenti industriali ecologicamente irresponsabili.
Ne risulta che i contagi sono molto più complicati rispetto all´entrata di un virus presumibilmente mortale nei polmoni di un cittadino incastrato nella tela degli interessi materiali e della mancanza di scrupoli delle grandi imprese. Tutto contagia tutto. La prima morte, tanto tempo fa, è stata quella dell´onestà. Ma si potrà mai chiedere, veramente, onestà a una multinazionale? Chi ci cura?
Questo testo è tratto dal blog "O Caderno de Saramago"
(http://caderno.josesaramago.org)

Repubblica 25.5.09
Se le scrittrici sfidano i mullah
Dalla Nafisi alla Djavann, le donne raccontano soprusi e violenze
Iran, quei romanzi contro il silenzio
di Vanna Vannuccini


Il fenomeno è cominciato con "Leggere Lolita a Teheran" Ora esce "La muta": l´autrice è esule in Francia
Il passaggio dalla poesia alla prosa è il segno di una emancipazione
Il libro è il diario di una quindicenne vittima di una società chiusa e repressiva

«Tra pochi minuti m´impiccano, aiutatemi!». E´ difficile non ricordare le ultime parole di Delara Darabi leggendo il libro di Chahrdortt Djavann, La muta, il diario della quindicenne Fatemeh, condannata a morte per essersi ribellata agli infiniti soprusi di un vecchio mullah e avergli infilato un coltello un gola mentre lui le infilava il suo sesso nella vagina. Una storia di brutalità, disperazione e solitudine quella di Fatemeh e di una sua giovane zia muta, in un povero villaggio dove il mullah è onnipotente. Una impiccagione reale è invece quella di Delara Darabi, 23 anni, mandata a morte dal tribunale di Rasht dopo cinque anni di carcere per un omicidio di cui si era sempre proclamata innocente, e in spregio della norma internazionale che vieta la condanna a morte per delitti commessi da minorenni.
Notizie di questo tipo, censurate dai giornali nazionali, emergono qua e là nei giornali locali iraniani e vengono rilanciate dai blog. Donne che uccidono a sangue freddo un marito dopo aver subito abusi senza fine da lui e dalla suocera. Donne che mutilano il parente che sta per stuprarle, oppure che vengono condannate per adulterio dopo essere state stuprate. La legge è contro di loro. Da sempre, ma soprattutto da quando con la rivoluzione islamica la Legge per la Protezione della famiglia fu abolita e si tornò alla sharia, che riduceva l´età per il matrimonio a nove anni, limitava il diritto al divorzio per le donne, toglieva loro la custodia dei figli e imponeva a tutte il velo.
Ma l´Iran è un paese di paradossi e uno di questi è stata l´esplosione di donne scrittrici dopo la rivoluzione islamica. Ad essa le donne parteciparono, lottando per la giustizia e la libertà senza neanche immaginare che il paese sarebbe precipitato poco dopo nel bigottismo e nella teocrazia, e questa lotta dette loro fiducia in se stesse. Dice Mehrangiz Kar, con Shirin Ebadi una delle più importanti giuriste iraniane: «Con tutti i sacrifici che avevano fatto durante la rivoluzione, ormai sapevano quanto i governanti fossero in debito verso di loro, e sapevano che la parità dei diritti era tra ciò che era loro dovuto. La richiesta di parità non viene più da un piccolo gruppo ma da tutte le donne, e il regime islamico sa di non poterla eludere senza rischiare una brutale separazione tra Stato e religione».
«Per sopravvivere dobbiamo distruggere il silenzio» scrive Simin Behbahani, la più famosa delle scrittrici iraniane (A cup of sin: selected poems Syracuse University Press). Anche questo apparentemente un paradosso: nei regimi repressivi sopravvive di solito chi nasconde il proprio pensiero. Prima della rivoluzione, sposata a un uomo non amato, Simin Behbahani aveva scritto soprattutto poesie d´amore nella forma classica, anche se modernizzata, del ghazal. Ma dopo, come molte altre poetesse, scelse la prosa, per parlare delle esperienze traumatiche della storia recente.
Il passaggio dalla lirica alla prosa è anche la storia di una emancipazione. La poesia era stata per secoli il genere letterario privilegiato perché con le sue metafore, i suoi simboli era stata anche un vero e proprio codice di resistenza contro i potenti, Lessan al Gheib, il lessico del segreto come dicono gli iraniani. Ma ora le donne decidevano di uscire allo scoperto. Di scrivere sulla guerra, gli arresti, le partenze di coloro che erano stati spinti all´esilio, mentre gli uomini spesso non avevano altrettanto coraggio di affrontare la realtà. La sessualità è ancora una linea rossa che non può essere superata, ma anche qui molte scrittrici hanno provato a uscire dal labirinto obbligato della purezza.
Lo ha fatto soprattutto chi vive in esilio come Chahdortt Djavann o Azar Nafisi, autrice del bestseller Leggere Lolita a Teheran (Adelphi). Le scrittrici rimaste in Iran - Simin Daneshvar (i cui lavori più noti sono un romanzo, Siavushun, su una famiglia iraniana travolta dalla storia e Il tramonto di Jalal in ricordo del marito, noto critico letterario), Shahrnush Parsipur, Forugh Farrokhzad (che provocò uno scandalo per aver lasciato figlio e marito per un grande amore, di cui parla nella bellissima raccolta di poesie Prigioniera), e Fereshteh Sari, restano un modello di coscienza di sé per le più giovani: «Adesso sono/in posizione da poter/ spaccare il sole come fosse un melograno/e con il succo farne inchiostro per la mia penna...», (Fereshteh Sari, L´attimo, citato da Figlie di Shahrazad di Anna Vanzan, Bruno Mondadori, pagg. 216, euro 18). In un blog ho letto di recente: «I miei guardiani sono uomini, sorvegliano le loro sostanze, i loro beni, il loro onore. Chi sono io? Sono l´onore di mio fratello, mio padre, marito, zio, perfino del figlio dei vicini. Nemmeno dopo morta mi onoreranno, al posto della mia fotografia metteranno una rosa, perché la vista di una donna può turbare un uomo...».

l’Unità 25.5.09
Una scimmietta di 47 milioni di anni scatena gli scienziati
di Pietro Greco


Ida ha conosciuto le luci della ribalta, la settimana scorsa al Museo Americano di Storia Naturale di New York, a 47 milioni di anni di distanza dalla sua morte: e si è subito accesso il dibattito scientifico.
Tra telecamere e scariche di flash, a New York qualcuno ha indicato in quell’animaletto battezzato Ida, dalla lunga coda e grande come un gatto, l’«anello mancante» tra l’uomo e gli altri animali e nella sua scoperta una delle più importanti nella ricostruzione della storia dell’evoluzione biologica. Non è così. Ida non è Eva e neppure l’anello mancante: resta però un fossile di grande interesse. Scoperta nella cava di Messel, vicino a Francoforte, oltre 25 anni fa da un collezionista dilettante, era eccezionalmente integra, nello scheletro e nelle parti molli. Il collezionista pensò bene, tuttavia, di tagliarla a metà e di venderne una parte, parzialmente ritoccata, a un museo del Wyoming. Solo dopo un certo tempo l’altra parte è stata recuperata dal Museo di storia naturale dell’Università di Oslo e attentamente studiata da un’equipe internazionale di paleontologi guidata da Jørn Hurum. I risultati sono riportati in un articolo pubblicato su PLoSONE, una rivista scientifica in rete, e presentati, appunto, in grande spolvero a New York.
I ricercatori sostengono che Ida è, appunto, un mammifero di sesso femminile, morta entro il primo anno di vita ben 47 milioni di anni fa. Appartiene a una specie finora sconosciuta, battezzata Darwinius masillae in onore di Darwin: è il primate più antico mai rinvenuto. Il che non significa, necessariamente, che sia il progenitore di tutti i primati. Tuttavia gli autori dello studio sono convinti che Ida abbia molto da dirci sulle origine degli Anthropoidea, ovvero dell’insieme delle specie cui appartengono i primati. Alcuni sostengono che i primati da cui si è poi evoluto l’uomo (secondo una filogenesi che va dalle proscimmie, alle scimmie, alle antropomorfe e gli ominini) discendano dai Tarsioidea (cui appartengono gli odierni tarsi), altri invece che le scimmie discendano dagli Adapoidea (quelli degli attuali lemuri).
La mamma di tutte le scimmie?
Sulla base di molti caratteri – dal pollice opponibile fino alla posizione degli incisivi – l’equipe di Jørn Hurum sostiene che Ida appartiene agli Adapidi e che è dagli Adapidi si è poi sviluppata la linea evolutiva che ha portato alla scimmie, alle antropomorfe e all’uomo. Nessuno può dire che Ida appartenga a una specie nostra progenitrice. È certo però che Ida appartiene alla nostra famiglia. O, almeno, così assicurano Jørn Hurum e i suoi collaboratori. Ma non tutti se ne dicono convinti. In fondo, le scimmie sono apparse molto dopo al termine di una linea filogenetica che potrebbe aver avuto una convergenza evolutiva con Ida e i suoi discendenti. Insomma, la discussione tra gli esperti resta accesa: apparteniamo alla linea dei tarsi o dei lemuri? E, rimbalzando sui media magari in maniera distorta, il dibattito scientifico sull’evoluzione mostra che, anche quando si occupa dell’origine dell’uomo, è tutt’altro che chiuso, ma al contrario è aperto e saldamente agganciato ai fatti.

Repubblica 25.5.09
Aix en Provence. Picasso-Cézanne
Musée Granet. Dal 25 maggio.


A tre anni dalla mostra dedicata a Cézanne, il museo torna sull'argomento per approfondire l'influenza da lui esercitata sul maestro spagnolo. La questione è nota, ma non è mai stata presa in considerazione in una mostra di respiro internazionale. La relazione tra Picasso e Cézanne era improntata all'ammirazione e al rispetto. Basti pensare alla decisione dell'inventore del cubismo di stabilirsi nel 1959 nel castello di Vauvenargues, ai piedi del massiccio Sainte-Victoire. L'esposizione raccoglie opere esemplari, dipinti, sculture, disegni e incisioni, che approfondiscono in dettaglio l'argomento. Si comincia con Picasso che guarda Cézanne, con riferimento a un periodo compreso tra l'arrivo dello spagnolo a Parigi nel 1900 e la fine dell'avventura cubista: il giovane artista era attratto dai problemi della forma sintetizzata e del ribaltamento di piani e superfici, risolti in modo affatto originale dal maestro di Aix, era interessato alla sua riflessione sull'oggetto-ambiente. La visita prosegue con Picasso in veste di collezionista. Altre sale documentano la ripresa di temi cari all'artista, con i ritratti di Jacqueline e le nature morte.

domenica 24 maggio 2009

l’Unità 24.5.09
Il Cavaliere Ddl popolare per ridurre a 300 i parlamentari, l’opposizione non mi serve
Il Paese del premier corruttore
Questa volta c’è poco da riferire in Aula:
il mistero di Letizia va spiegato al Paese
l’accusa di corruzione affrontata in tribunale
di Furio Colombo


Silvio Berlusconi è un corruttore. Ha corrotto un teste per evitare una condanna. Non è una ipotesi, è una sentenza. Non è definitiva, ma questo è un fatto della procedura giudiziaria che prima di colpire un individuo con la punizione prevista dalla legge, gli dà la garanzia dell’appello.
Tutto ciò vale per il ladro di biciclette o per l’uxoricida. Ma per il capo di un governo che rappresenta tutto un Paese, nei suoi confini e nel mondo?
La domanda è ragionevole e fondata. Lo dimostrano i due interventi di accanito e appassionato sostegno che, nel pomeriggio del 19 maggio, sono stati fatti alla Camera in difesa del primo ministro italiano.
Avevano appena parlato il capogruppo Pd Soro, il capogruppo Italia dei Valori Donadi e, per l’Udc, Bruno Tabacci. Avevano espresso indignazione e scandalo.
I due difensori, che hanno dato l’impressione di un intervento inaspettato e improvvisato, sono di professione avvocati.
L’avvocato-deputato Consolo ha avuto questo da dire: «Se voi vi credete sventolando queste accuse, di allontanarci dal nostro capo vi sbagliate. Il popolo lo voterà ancora di più. E noi gli vogliamo ancora più bene».
L’avvocato-deputato Brigandì ha accusato i magistrati milanesi di essere cattivi giudici. Ma il suo argomento forte è stato: «Non illudetevi. Tra poco tutto andrà in prescrizione».
All’unico primo ministro al mondo definito, in modo esplicito in una sentenza, «corruttore» di un teste che ha mentito in una rilevante vicenda giudiziaria, non deve essere sfuggito né l’evidente imbarazzo dei suoi «difensori» nell’aula della Camera dei Deputati, né la scarsità di applausi di tutta la sua parte. Niente boati, niente «ola», niente manifestazioni da stadio di cui il nostro uomo ha tante volte goduto. Certo, gli avrà dato un po’ di conforto leggere o ascoltare, dalla parte del centrosinistra, la solita, misteriosa, mai spiegata consegna: non ripetete le accuse a Berlusconi, altrimenti il premier si rafforza.
Questa strana «cura Di Bella» (ricordate il presunto scienziato celebrato dalla destra italiana come taumaturgo dei peggiori mali?) ovvero un cauto, rispettoso, collaborativo silenzio, non ha intaccato l’immagine del presidente-padrone. Se l’opposizione tace e si riserva di offrire una cortese collaborazione (come nel caso del federalismo fiscale così indispensabile per la campagna elettorale della Lega) che cosa dovrebbero fare i cittadini da soli?
Dunque è vero, nelle imminenti elezioni Berlusconi segnerà dei punti. Ma è impossibile non notare il fatto nuovo, in questo nodo di eventi poco onorevoli: è la dimensione internazionale. Questa volta persino Berlusconi parla di «danno all’immagine dell’Italia nel mondo». Lo fa partendo dalla premessa sbagliata che chi attacca lui attacca l’Italia (presumibilmente anche Veronica Lario ha passato il segno perché osa divorziare dall’Italia). Però è vero che il danno recato all’Italia da Berlusconi è grande. La sua è un’Italia brutta, sporca e cattiva, dalla «frequentazione delle minorenni» (citazione di Veronica Lario) al «respingimento in mare» dei migranti (violazione dei diritti umani e di asilo, secondo Vaticano e Onu) fino al reato di «corruzione» (motivazione di sentenza del Tribunale di Milano, 19 maggio).
Sembra chiaro che l’antica formula che non ha mai funzionato (non attaccatelo, diventa più forte; basta con l’anti berlusconismo) diventa ridicola mentre tutto il mondo si è accorto della farsa e tragedia rappresentata dal Silvio Berlusconi, nell’evidente imbarazzo dei suoi.
Questa volta, diciamo la verità, c’è poco da venire a riferire in aula. In aula si dovrebbe parlare delle vane promesse fatte ai terremotati e impossibili da mantenere. In aula si dovrebbe spiegare la nuova politica estera che ci lega alla Libia e alla Russia e ci allontana dagli Stati Uniti. E forse Berlusconi ha ragione a dichiarare in modo mussoliniano il suo disprezzo per il Parlamento. Sa che in quelle aule non lo attendono ovazioni. Certo non ovazioni spontanee, neppure da una parte imbarazzata e confusa della sua parte. Eppure gli restano cose importantissime da dire per tentare di salvare la faccia.
Il mistero di Elio Letizia (chi è, perché ha potere) va spiegato al Paese. L’accusa di corruzione va affrontata in tribunale. E la vera domanda di tutto il mondo democratico è semplice e netta: può un uomo così governare? Quale maleficio rende l’Italia succube di un potere estraneo alle regole democratiche, che evoca alcune tragiche situazioni africane?

l’Unità 24.5.09
Viareggio, vietata la Festa de L’Unità
«Le bandiere rosse disturbano»
di Valeria Giglioli


Quando si dice “vedere rosso”. E in questo caso alla vicenda, che ha il sapore di una moderna puntata della saga Peppone-Don Camillo (ma con molto acume in meno), fa da sfondo Viareggio, cuore pulsante della Versilia dove l’amministrazione di centrodestra s’è insediata nel 2008 dopo anni di governo del centrosinistra.
Nella capitale della riviera toscana la festa de l’Unità si svolge da anni alla Torre Matilde, piccola pineta all’ingresso del centro. Dove per questa estate aveva chiesto di poter tornare con la sua kermesse anche Rifondazione. Ma la nuova amministrazione, capitanata dal forzista Luca Lunardini, ha comunicato pochi giorni fa ai rappresentanti dell’opposizione l’intenzione di non autorizzare feste di partito in quell’area. Problemi di traffico, è stata la motivazione ufficiale. Non fosse che l’assessore azzurro all’urbanistica, Roberto Bucciarelli, ha spiegato senza mezzi termini che «i nostri elettori sono stufi di vedere, tutte le estati, le bandiere rosse all’ingresso della città». Parole esplicite, che difficilmente possono non far tornare in mente i tempi andati in cui si agitava lo “spauracchio comunista” con tutti gli annessi e connessi simbolici. E che puntano il dito su un appuntamento che in città significa non solo politica ma anche buon cibo a prezzi per tutte le tasche (sono famosi i tortelli e il fritto di pesce), e un’occasione d’incontro nelle calde sere estive per chi non vuol farsi travolgere dalla movida versiliese.
L’opposizione non è però rimasta con le mani in mano. E i consiglieri di Pd e Prc si sono presentati all’ultima seduta del consiglio comunale vestiti con magliette rosse e drappi in tinta da avvolgere intorno ai microfoni. E domani porteranno in Comune la richiesta ufficiale di poter tenere le feste nel loro luogo di sempre.

il Riformista 24.5.09
Intese Fini-D'Alema
A braccetto a Bagnaia sulla libertà di stampa


Massimo D'Alema e Gianfranco Fini cinguettano sul tema della libertà di stampa. L'occasione, il convegno dedicato all'editoria "Crescere tra le righe" che si è tenuto ieri a Borgo La Bagnaia, in provincia di Siena. D'Alema ha sostenuto che nell'informazione italiana «c'è un problema serio di equilibrio». E questo perché «non c'è dubbio che c'è un enorme potere nelle mani di una persona», ovvero il premier Berlusconi. Poi l'ex ministro degli Esteri è stato protagonista di un siparietto con il presidente della Camera. «Condivido quello che dice D'Alema sulla stampa e l'informazione - ha commentato Fini - . Così qualcuno dirà che sono sempre più di sinistra. Ma magari qualcuno si deve chiedere se D'Alema non sia di destra». Quindi Fini ha aggiunto: «In Italia oggettivamente non vedo un problema di libertà di stampa. Il problema è che tra le tante anomalie della nostra società, con pochissime eccezioni, non c'è l'editore puro, e quindi ci possono essere dei condizionamenti, che è tutt'altro che un bavaglio alla libertà o censura». Per Fini «il problema è la proprietà dei giornali e gli assetti che quelle proprietà vogliono dare, a partire dalle direzioni dei giornali». D'Alema poi ha aggiunto che per quanto lo riguarda ha deciso da un po' di tempo di mettere da parte il proverbiale sarcasmo nei confronti dei giornalisti che lo ha accompagnato negli anni: «La situazione è talmente preoccupante che non ce lo possiamo permettere di polemizzare con loro, ho smesso da un po' di tempo». Il presidente della fondazione Italianieuropei ha anche commentato gli attacchi provenuti dal governo: nel comunicato ufficiale di Palazzo Chigi è stato usato il termine di "stalinisti" nei confronti suoi e del capogruppo del Pd al Senato Anna Finocchiaro, che avevano attaccato il premier per le sue parole sull'inutilità del Parlamento. «Quando si usa addirittura Palazzo Chigi - ha osservato - per insultare l'opposizione anziché per risolvere i problemi del paese, solo perché abbiamo commentato le notizie che c'erano sui giornali, si tratta di un comportamento arrogante e antidemocratico».

Corriere della Sera 24.5.09
«Indulto, il 73% non fa più reati»


MILANO — «L’indulto funziona, ma nessuno ci crede». Parola di Giovanni Torrente, sociologo del diritto all’Università di Torino e Aosta che ieri a un convegno nel carcere «Due Palazzi» di Padova, organizzato da Ristretti Orizzonti, ha presentato i dati di una sua ricerca: il tasso di recidiva dei detenuti che sono ricaduti nei reati è sceso al 27 per cento contro il 68 per cento dell’epoca pre-indulto. Il gruppo di lavoro di Torrente ha studiato sui dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che costituiscono il maggior campionamento disponibile sulla sorte dei 44.944 detenuti che hanno beneficiato della misura. Tra i «rientri» dei detenuti che provenivano dal carcere (27.607) il tasso medio di recidiva è stato di circa il 27 per cento. Tra coloro che invece venivano da misure alternative come semilibertà o l’affidamento ai servizi sociali, la recidiva crolla attorno al 18 %. Per coloro che non avevano mai avuto esperienze carcerarie l’indulto ha fatto calare il tasso di recidiva a nemmeno il 12%. In pratica, nove su dieci che non erano mai andati in carcere prima, dopo l’indulto non sono più rientrati. .
Rispetto alla media del 27 per cento, gli stranieri hanno mostrato un tasso di recidiva minore, del 19.80 per cento anche se, ammette il sociologo, la rivelazione degli stranieri è più complicata e il dato va ricontrollato.

Repubblica Firenze 24.5.09
Intervista. Sostenuto da Rifondazione
Spini: prima di tutto serve il piano strutturale
di m. v.


Le tesi dell’outsider della sinistra che vorrebbe la Regione in piazza Puccini
"Vedrete che la terza corsia A1 non basterà a smaltire il traffico Roma-Milano

Spini, se domani fosse il sindaco cosa farebbe a Castello?
«La prima cosa da fare è il Piano strutturale perché è in rapporto al Piano che si decidono le funzioni».
Vuole ricominciare a discutere sul Piano? Non sa che deve essere approvato entro luglio 2010?
«Farei così: verificare cosa c´è da accettare, cosa no e cosa da modificare. Non si deve ricominciare, il blocco va evitato».
E Castello dunque?
«Ogni decisione deve partire dal parco e dai vincoli dell´aeroporto. Lo stadio? Se ce lo mettiamo dobbiamo togliere qualcos´altro, magari le scuole superiori come Sassetti e Iti. Semmai si può pensare al Museo di scienze naturali».
Intende ricontrattare il progetto con Ligresti?
«Si tratta di verificare lo stato dell´arte».
E cosa farebbe alla ex Manifattura Tabacchi?
«Non sarei contrario a prevedere lì la sede della Regione, non si può stipare tutto a Castello».
C´è da risolvere la questione dell´ex Panificio militare.
«L´errore è non avere esercitato la prelazione da parte del Comune quando era in vendita l´area».
E dove avrebbe trovato i soldi per l´acquisto?
«Sono stati trovati per tante cose. Va progettato il verde e va prevista una piazza. Lì anche la nuova sede del Quartiere 5, che oggi paga un affitto esoso. Per prima cosa farei un referendum preventivo. Ma sia chiaro, se in questi anni si è ritenuto di monetizzare gli standard, facendo pagare i privati per l´azzeramento di verde pubblico, d´ora in poi non deve essere più consentito».
La Fortezza è ancora del demanio.
«Si devono sveltire le procedure. La Fortezza è ormai un binomio con Pitti e questo binomio va difeso, Firenze non deve perdere le mostre. Manca un polo congressuale ma non ci sono le condizioni per un appesantimento della Fortezza».
Terza corsia autostradale.
«Temo che si vedrà presto che la terza corsia non sarà sufficiente, si deve togliere il traffico Roma-Milano».
Rifondazione dice no alla bretella Barberino-Incisa.
«Lo dico a titolo personale, vediamo se la terza corsia è sufficiente: il problema non è tra fare e non-fare ma il fare bene».
Che farebbe col Multiplex?
«Sono per il mantenimento dei cinema».
E con la riconfigurazione dell´aeroporto?
«La Regione sta vagliando 5 ipotesi di piste. Non facciamo battaglie ideologiche. Servono efficienza e tutela ambientale».

Repubblica 24.5.09
Nostalgia dell’altra Germania
di Andrea Tarquini


Mentre si preparano le celebrazioni per il ventennale della caduta del Muro, una mostra per ragazzi a Berlino, un romanzo e un´antologia di poesie ricordano l´arte e la vita quotidiana dell´Est che fu comunista. Per i tedeschi è una "operazione memoria" animata soprattutto da chi visse nello "Stato-in-cui-non-tutto-era-male"

BERLINO. L´ultima idea provocatoria riguarda l´inno nazionale. Nel Deutschlandlied che fu composto da Haydn, sarà forse inserita la prima strofa dell´inno della defunta Ddr: «Risorta dalle rovine, rivolta verso il futuro, lasciaci servirti, patria tedesca unita». Patria tedesca unita: parole allora sovversive, oltre il Muro della Guerra fredda. Quando, dopo anni di ritardo sclerotico, la censura "rossa" se ne accorse, il regime di Berlino Est divenne l´unico al mondo a imporre di cantare l´inno del suo Stato senza le parole. Eppure, vent´anni dopo, quello Stato caduto nel 1989 con il Muro, e nel 1990 con la riunificazione, negli animi non è morto.
Un´antologia di cento poesie scritte nei quarant´anni di vita della "Repubblica democratica tedesca" fa parlare di sé. Al Fez, il grande, postmoderno e interattivo parco della gioventù dell´ex Berlino Est, la mostra cui tutti i media tedeschi danno risalto è un´esposizione per spiegare ai bambini cos´era la Ddr. Il più importante romanzo tedesco del momento è Der Turm (La torre), di Uwe Tellkamp, una sorta di Buddenbrook dell´Est che narra dello sforzo di sopravvivere della borghesia di Dresda aggrappandosi ad affetti e tradizioni. Vent´anni dopo, non è solo nostalgia: il passato che non passa, tipico di tutto l´Est ex comunista, qui è un´emozione e un confronto che la moderna, democratica, multiculturale Germania riunificata vive bipartisan nel suo quotidiano, proprio in quest´anno dell´anniversario della svolta.
La memoria divide e insieme unisce. La maggior parte dei tedeschi dell´Ovest, cresciuti tranquilli in democrazia da due generazioni, sa e vuole sapere poco o nulla degli ex fratelli poveri dell´Est ora parte della Bundesrepublik. Nelle scuole superiori di Monaco o Francoforte, se credi alle interviste live della tv pubblica, ci sono studenti convinti che il Muro di Berlino lo abbiano eretto Hitler, oppure i russi o gli americani. Eppure il dibattito è quotidiano, appassiona e divide. «La Ddr era uno Stato repressivo, una dittatura brutale», dice la cancelliera Angela Merkel. Ma, al contrario dei conservatori nostrani, si guarda bene dal paragonare al Terzo Reich quel comunismo che i tedeschi hanno sofferto più di altri. Altri politici, a sinistra ma non solo, dissentono. «Era una dittatura, eppure questo non vuol dire che ognuno là era ogni giorno infelice», ribatte il vicecancelliere e leader socialdemocratico Frank Walter Steinmeier.
Basta sfogliare il libro edito da Christoph Buchwald e Klaus Wagenbach, Cento poesie dalla Ddr, per capire meglio. Non è solo questione di nostalgia, avvertono i due. La Germania orientale e i suoi ex cittadini non vogliono sentirsi tedeschi di serie B, si ribellano alla sensazione che una vita vissuta dietro il Muro sia gettata alle ortiche dal senso di superiorità dell´Ovest vincitore vent´anni fa. «Che ci piaccia o no, anche la lirica e la cultura della Ddr appartengono al patrimonio tedesco», scrivono nel saggio che accompagna il libro. Non è un´antologia qualunque: è un viaggio affascinante in quei quarant´anni, un itinerarium mentis nella vita di intellettuali che all´inizio sperarono nel regime come "Stato antinazista", o come "Società dei lettori colti". E poi soffrì l´involuzione repressiva dell´era brezneviana, il declino finale, il trauma della riunificazione.
«La Ddr all´inizio appariva agli intellettuali come lo Stato in cui ogni villaggio aveva un teatro, una casa della cultura o una biblioteca», scrivono Buchwald e Wagenbach. Le prime poesie dell´antologia sono piene di sensi di colpa per il passato e di voglia di riscatto. «Noi siamo la generazione perduta», scrive Inge Müller negli anni Cinquanta. E Stephan Hermlin, che poi nell´era Breznev sarebbe divenuto dissidente, ricordava allora Le ceneri di Birkenau. L´illusione di costruire una Germania migliore durò a lungo. Almeno fino alla costruzione del Muro: lo scrittore Uwe Johnson, ricorda l´antologia scuotendo la memoria del presente, diceva di aver «traslocato» da Est a Ovest, non si sentiva fuggiasco. Sfogliare il libro appassiona i lettori tedeschi di vent´anni dopo la fine dello "Stato che non è morto". Ecco Sarah Kirsch narrare semplicemente i piccoli momenti intimi in cui si macina insieme il raro caffè razionato, o Wolf Biermann invitare senza censure a «non aspettare tempi migliori».
Nello Stato finito ma non morto, come nella Mosca di ieri, poesia e letteratura erano un rifugio dell´intellighenzia. La Ddr aveva i suoi Evtusenko, i suoi Pasternak, i suoi Vysotskij. Ecco ancora Hermlin narrare l´avventura degli uccelli migratori, «tesi a scoprire altre terre»: elogio del viaggio vietato. Hermlin, che oggi i tedeschi riunificati riscoprono, fu punito, dimesso a forza dal regime da numero uno dell´Accademia delle arti. Venne il tempo della resa alla censura, era concessa solo l´ironia. Come quella di Thomas Brasch sul burocrate che anno dopo anno appende a casa prima il ritratto di Stalin, poi quello del primo dittatore Ulbricht, poi quello di sua moglie, e alla fine disperato non si sente mai lasciato solo in pace. Vengono confessioni d´addio, come Adieu Land di Gabriele Eckart, addio a un Paese dove non ce la fai più a vivere, eppure nel cuore resta la tua patria. E, negli anni del crollo del regime, la lirica dà voce alla realtà: ne Il Muro Reiner Kunze confessa che «quando lo costruimmo, non immaginavamo quanto sarebbe stato alto». «Noi» lo costruimmo: un´idea di identità nazionale oggi scomparsa ma non morta.
Che cosa bisogna dunque narrare ai giovani e ai bambini, nati dopo l´89, di questo Stato finito ma ancora vivo nell´immaginario collettivo? Un esperimento straordinario è in corso al Fez di Berlino est, l´ex parco-centro culturale della gioventù dove il regime indottrinava ma tollerava anche i pedagoghi creativi. La mostra Dimmi, cos´era la Ddr? prova a spiegarlo ai bambini. Narra delle realtà idilliache, dai Kindergarten alle colonie estive, ma anche del Muro. Racconta del minimo garantito per tutti come delle merci razionate o delle code, espone i credo convinti degli attivisti della Fdj, la gioventù comunista tedesco-orientale, ma ricorda anche la storia dei giovani ribelli, condannati all´emarginazione: come Annette, punk di Berlino est, che scrisse nei suoi diari: «In questo Stato solo il lavoro ci affranca dal grigiore del tempo libero». Per quella frase scontò sette mesi in una cella della polizia politica.
Nessun momento del privato dei cittadini sfuggiva allo es-war-nicht-alles-schlecht-Staat, lo "Stato in cui non tutto era male", eppure nel ricordo di quella realtà spietata non mancano i rimpianti. Rimpianti personali, ricordi di chi dovette vivere oltre il Muro e non vuole sentirsi oggi svalutato per questo. Der Turm, il romanzo di Uwe Tellkamp, nato all´Est e divenuto letterato famoso nell´Ovest del dopo-riunificazione, riabilita chi dovette vivere lì e visse resistendo nell´intimo, senza ribellarsi in piazza ma anche senza una capitolazione morale. È la storia di alcune famiglie borghesi che vivono nell´elegante quartiere delle colline oltre l´Elba, a Dresda. Accademici, scienziati, registi e attori, lassù sulla collina cercano di sentirsi lontani, nelle loro villette erose dal tempo, dal quotidiano della «dittatura proletaria». Sopravvivono tramandandosi la cultura borghese di prima di Hitler e della guerra, si stringono tra loro nelle tradizioni, nelle amicizie e negli affetti. La vicenda si svolge negli ultimi sette anni del regime, alla fine l´idillio si spezza. Anche in questo splendido romanzo così culturalmente ostile a quell´ancien régime, cogli il senso melanconico della fine d´un mondo.

Corriere della Sera 24.5.09
Nei confini si trovano le identità del futuro
di Zygmunt Bauman


I confini sono campi di battaglia. Ma anche «workshop creativi» in cui germogliano i semi di forme future di umanità. Il sociologo Zygmunt Bauman, inventore di fortunate formule sulla «società liquida», ridefinisce i concetti di confine e di frontiera. Le barriere e i muri sono i laboratori dove si modellano le nuove società, ma i muri sono per principio valicabili. Nelle società contemporanee si moltiplicano le demarcazioni: il futuro dipenderà dal dialogo che si creerà lungo questi confini.

Valencia. Una rassegna in Spagna ospita artisti che hanno esplorato le frontiere, culturali e geografiche
Lezioni. Dalle idee di Lévi-Strauss alle grandi migrazioni: l’analisi del creatore della «società liquida»
Oltre i muri. Barriere spontanee, recinti, divieti legislativi: i laboratori in cui si modella l’evoluzione umana
Sono pochi i muri privi di cancelli e di porte. I muri sono, per principio, valicabili e sono anche interfacce tra i luoghi che separano
Distinguere un luogo dal resto dello spazio vuol dire modificare le probabilità, rendere certi eventi possibili e altri impossibili

Il grande antropologo Claude Lévi-Strauss, nelle Strutture ele­mentari della parentela (1949), il primo dei suoi libri, sostiene che la proibizione dell’incesto (o, più precisamente, la creazione del­l’idea di «incesto», cioè di un rap­porto possibile ma da non pratica­re, proibito tra umani) segna l’atto di nascita della cultura. La cultura, e quindi il (particolare) modo uma­no di essere, inizia tracciando un confine che prima non esisteva. Le donne (tutte, dal punto di vista bio­logico, potenziali partner in un rapporto sessuale) vengono divise tra quelle con cui è proibito unirsi sessualmente, e le altre, con cui in­vece è permesso. Alle somiglianze e differenze naturali viene aggiun­ta una distinzione artificiale, crea­ta e imposta dagli uomini; più pre­cisamente, a certi tratti naturali (in questo caso biografici) viene attri­buito un significato ulteriore, asso­ciandoli a specifiche regole di per­cezione, valutazione e alla scelta di un modello di comportamento. La cultura, dagli inizi e per tutta la sua lunga storia, ha continuato a seguire lo stesso modello: usa dei segni che trova o costruisce per di­videre, distinguere, differenziare, classificare e separare gli oggetti della percezione e della valutazio­ne, e i modi preferiti/raccomanda­ti/ imposti di rispondere a quegli oggetti. La cultura consiste da sem­pre nella gestione delle scelte uma­ne.

1. I confini sono tracciati per cre­are differenze, per distinguere un luogo dal resto dello spazio, un pe­riodo dal resto del tempo, una cate­goria di creature umane dal resto dell’umanità... Creare delle diffe­renze significa modificare le proba­bilità: rendere certi eventi più pro­babili e altri meno, se non addirit­tura impossibili. Quando questo si verifica in determinati luoghi, peri­odi, o categorie di persone, il mon­do si semplifica, diventa più com­prensibile, si trasforma in un am­biente in cui è più facile agire in modo ragionevole (efficace, inten­zionale). Il confine protegge (o al­meno così si spera o si crede) dal­l’inatteso e dall’imprevedibile: dal­le situazioni che ci spaventerebbe­ro, ci paralizzerebbero e ci rende­rebbero incapaci di agire. Più i con­fini sono visibili e i segni di demar­cazione sono chiari, più sono «or­dinati » lo spazio e il tempo all’in­terno dei quali ci muoviamo. I con­fini danno sicurezza. Ci permetto­no di sapere come, dove e quando muoverci. Ci consentono di agire con fiducia.

2. Per avere questo ruolo, per im­porre ordine al caos, rendere il mondo comprensibile e vivibile, i confini devono essere concreta­mente tracciati. Intorno alle case troviamo steccati o siepi. Sulle por­te e sui cancelli ci sono nomi che mostrano la distinzione tra chi sta dentro e chi fuori, tra i residenti e gli ospiti. Ignorare questi segni, di­sobbedire alle regole che ci indica­no, è una trasgressione che com­porta conseguenze che vorremmo evitare: eventi temibili, imprevedi­bili e incontrollabili. D’altro canto, conformarsi alle istruzioni, esplici­te o implicite, e modificare il pro­prio modello di comportamento quando si attraversa il confine crea (ricrea, rafforza, manifesta) l’ordine che il confine deve instau­rare, servire e mantenere. Ordine vuol dire la cosa giusta al posto giu­sto e al momento giusto. Sono i confini a determinare quali sono le cose, i luoghi e i momenti giu­sti. Gli oggetti del bagno devono essere tenuti separati da quelli del­la cucina, quelli della camera da letto da quelli del soggiorno, quel­li destinati all’esterno da quelli per l’interno. Le cose fuori posto sono sporcizia e devono essere spazzate via, rimosse, distrutte o trasferite altrove, al luogo a cui «appartengo­no » — se esiste (non sempre esi­ste, come potrebbero testimoniare i rifugiati apolidi o i vagabondi sen­zatetto).

Chiamiamo «pulizia» la ri­mozione di ciò che è indesiderabi­le, il ristabilimento dell’ordine. «Pulizia» significa ordine.

3. I confini sono tracciati per cre­are e mantenere un ordine spazia­le: per raccogliere in certi luoghi al­cune persone e cose lasciandone fuori altre. Negli edifici pubblici gli avvisi di «divieto di accesso» so­no sempre posti su un solo lato della porta, per separare chi viene da quella parte (clienti, pazienti—esterni) da chi sta dall’altro lato (impiegati, sorveglianti, manager — interni). Le guardie all’entrata dei centri commerciali, ristoranti, edifici amministrativi, quartieri esclusivi, teatri o territori statali permettono a qualcuno di entrare e ad altri no, controllando bigliet­ti, lasciapassare, passaporti e simi­li documenti, o cercando di capire le intenzioni di chi vuole entrare o predire la sua capacità di attenersi alle regole stabilite. Ogni modello di ordine spaziale divide gli esseri umani in «desiderabili» e «indesi­derabili ». Ogni confine ha lo sco­po di evitare che le due categorie si mescolino nello stesso spazio.

4. I confini dividono lo spazio; ma non sono pure e semplici bar­riere. Sono anche interfacce tra i luoghi che separano. In quanto ta­li, sono soggetti a pressioni con­trapposte e sono perciò fonti po­tenziali di conflitti e tensioni. So­no pochi (se pure ci sono) i muri privi di cancelli o porte. I muri so­no, per principio, valicabili — an­che se le guardie da entrambi i lati hanno scopi opposti e cercano di rendere l’osmosi (la permeabilità e penetrabilità dei confini) asimme­trica. L’asimmetria è completa, o quasi, nel caso delle prigioni, dei campi di detenzione e dei ghetti, o delle «aree ghettizzate» (Gaza e la Cisgiordania sono oggi gli esempi più vistosi di questo tipo), dove le guardie sono solo da un lato; ma le zone delle città che notoriamente è bene evitare tendono ad assomi­gliare a questo modello estremo, affiancando al rifiuto di entrare di chi è fuori la condizione di non po­ter uscire di chi è dentro.

5. Tracciare e proteggere i confi­ni sono attività prioritarie, volte a ottenere e mantenere la sicurezza; il prezzo da pagare è la perdita del­la libertà di movimento. Questa li­bertà diventa ben presto il fattore discriminante tra i diversi gradi so­ciali e il criterio secondo cui un in­dividuo o una categoria vengono misurati all’interno della gerarchia sociale; il diritto di passaggio (o meglio il diritto di ignorare il confi­ne) diventa quindi una delle que­stioni più contestate, di carattere strettamente classista; mentre la capacità di sfidare il divieto di vali­care un confine diviene una delle principali armi di dissenso e di re­sistenza contro la gerarchia di po­tere esistente. Queste pressioni sfo­ciano in un evidente paradosso: nel nostro pianeta che si sta rapida­mente globalizzando, la diminuzio­ne dell’efficacia dei confini (la loro crescente porosità, associata al fat­to che la distanza spaziale ha sem­pre minor valore difensivo) si ac­compagna alla rapida crescita di si­gnificato che si tende ad attribuire loro.

6. Lontani dall’attenzione e dalle pesanti interferenze dei governi, in una sorta di penombra mediati­ca, si moltiplicano confini di tipo differente, spontanei, senza de­marcazioni. Sono la conseguenza della crescente urbanizzazione (due anni fa gli abitanti delle aree urbane hanno superato il 50 per cento della popolazione mondia­le). I «confini spontanei», costitui­ti dal rifiuto di una commistione, anziché da cemento e filo spinato, svolgono una doppia funzione: ol­tre ad avere lo scopo di separare, hanno anche il ruolo/destino di es­sere delle interfacce, di promuove­re quindi incontri, interazioni e scambi, e in definitiva una fusione di orizzonti cognitivi e pratiche quotidiane. È a questo livello «mi­cro sociale» che tradizioni, credi, culture e stili di vita differenti (che i confini amministrati dai governi a livello «macro sociale» cercano con alterne fortune di tenere sepa­rati) si incontrano e inevitabilmen­te ingaggiano un dialogo — pacifi­co o antagonistico, ma che porta sempre a stimolare la conoscenza e la familiarità reciproca, e poten­zialmente la comprensione, il ri­spetto e la solidarietà.

7. Il difficile compito di creare le condizioni per una coabitazione, pacifica e vantaggiosa per tutti, di forme differenti di vita, viene scari­cato su realtà locali (soprattutto ur­bane), che si trasformano, volenti o nolenti, in laboratori in cui si spe­rimentano, e alla fine si apprendo­no, i modi e i mezzi della coabita­zione umana in un pianeta globa­lizzato. Le frontiere, materiali o mentali, di calce e mattoni o sim­boliche, sono a volte dei campi di battaglia, ma sono anche dei workshop creativi dell’arte del vive­re insieme, dei terreni in cui vengo­no gettati e germogliano (consape­volmente o meno) i semi di forme future di umanità.

Nella storia nulla è predetermi­nato; la storia è una traccia lasciata nel tempo da scelte umane molte­plici e di diversa origine, quasi mai coordinate. È troppo presto per prevedere quale delle due funzioni — tra loro interconnesse — dei confini prevarrà. Di una cosa però possiamo essere certi: noi (e i no­stri figli) dormiremo nel letto che ci saremo collettivamente prepara­ti: tracciando confini e trattando sulle norme che regolano il funzio­namento delle frontiere. Che av­venga di proposito o casualmen­te... che ne siamo coscienti o no.
(Traduzione di Maria Sepa)

Corriere della Sera 24.5.09
Il rilancio del continente
Le due donne che chiedono all’Africa di prendere il destino nelle sue mani
di Francis Fukuyama


La premio Nobel Wangari Maathai spera nella nascita di leader che sappiano unire più lingue ed etnie
L’economista Dambisa Moyo boccia gli aiuti internazionali: sono causa del malgoverno

Tra il 2002 e il 2008 l’Africa sub-sahariana ha conosciuto una nuova stagione di crescita trainata dal boom globale delle materie prime e dagli investimenti cinesi.

Si è chiuso così uno dei periodi più tormentati nella storia recente del Continente: una fase lunga tutta una generazione durante la quale la maggior parte dei Paesi della regione ha registrato un crollo del reddito pro capite, talvolta a livelli mai conosciuti sin dalla fine del colonialismo.

Quest’inversione di tendenza segna l’apertura di nuove opportunità per gli africani; eppure, il clamoroso crollo dei prezzi delle materie prime registrato lo scorso anno per effetto della recessione globale indica quanto sia fragile il trend di ripresa. Né vi sono evidenti segnali di una svolta politica. Gli anni segnati da questa fase di crescita, infatti, hanno visto lo scoppio di una drammatica guerra nella Repubblica democratica del Congo che ha provocato oltre 5 milioni di vittime, un altro conflitto di minore entità ma altrettanto devastante nel Nord dell’Uganda, una catastrofe umanitaria in Darfur e la permanente tragedia dello Zimbabwe di Robert Mugabe.

In Occidente, le cause e i rimedi al mancato sviluppo dell’Africa sono stati dibattuti principalmente da osservatori maschi e di pelle bianca come Jeffrey Sachs e William Easterly, che si sono espressi rispettivamente a favore e contro una massiccia assistenza dall’estero. E il primo ha incassato il sostegno di celebrità come Bob Geldof, Bono e Angelina Jolie. È dunque utile e interessante scoprire le originali analisi di due donne africane: Wangari Maathai, del Kenya, e Dambisa Moyo, dello Zambia.

Le due autrici vengono da percorsi molto diversi. Wangari Maathai, che è stata parlamentare prima di perdere il seggio alle elezioni del 2007, ha ricevuto nel 2004 il premio Nobel per la Pace per l’attività di opposizione al regime dell’ex presidente keniano Daniel arap Moi, e per l’impegno a difesa dell’ambiente culminato con la fondazione del movimento di base «Green Belt» (cintura verde). È una donna chiaramente coraggiosa. Pur essendo di origini kikuyu, ha invocato a gran voce il riconteggio dei voti quando Mwai Kibaki, appartenente alla stessa etnia, ha tentato di accaparrarsi la vittoria alle presidenziali del 2007, innescando una sanguinosa escalation di violenza etnica. Dambisa Moyo, invece, ha lasciato lo Zambia per frequentare l’università negli Stati Uniti e, dopo essersi laureata a Oxford e ad Harvard, ha lavorato alla Banca mondiale e alla Goldman Sachs.

Si direbbe che anche i loro libri abbiano ben poco in comune. In The Challenge for Africa, Maathai traccia una lunga serie di conclusioni. L’autrice sostiene che non esista un compromesso naturale tra crescita economica e difesa dell’ambiente, e che i governi africani dovrebbero perseguire entrambe. Punta l’indice contro il colonialismo occidentale, colpevole di aver disprezzato l’identità e la cultura africana, ma rimprovera anche agli africani il pernicioso attaccamento a frammentarie «micro-nazioni». Critica la dipendenza dagli aiuti, ma non solleva forti obiezioni al programma Sachs-Bono per un significativo incremento dell’assistenza allo sviluppo da parte dell’Occidente. È convinta che il cambiamento dovrà scaturire dall’attivismo di base, e che gli africani debbano stringersi attorno alle proprie tradizioni.

Il libro di Moyo, Dead Aid, contiene al contrario un messaggio molto semplice: l’assistenza esterna allo sviluppo è alla radice del sottosviluppo dell’Africa e va rapidamente e completamente interrotta, se si vuole che il Continente progredisca. L’autrice si dice a favore dello sviluppo del settore privato, anche se di provenienza cinese, e inveisce contro il protezionismo agricolo nel Nord del mondo, che impedisce all’attività commerciale di diventare un motore di crescita. Non sorprende, dunque, che il suo libro si rivolga a un pubblico molto diverso da quello che ha premiato Maathai con il Nobel per la Pace. Si direbbe, anzi, che Maathai e Moyo siano votate a uno scontro polarizzato, simile a quello tra Sachs e Easterly, circa il giusto approccio allo sviluppo. In realtà, questi due libri hanno molti più elementi in comune di quanto le autrici siano disposte a riconoscere.

Entrambe ritengono che il problema di fondo dell’Africa sub-sahariana sia il malgoverno.

Non esiste il concetto di bene pubblico; la politica è degenerata in una lotta per tenere in pugno lo Stato e qualsiasi bene esso controlli.

Tutti i problemi della regione derivano da questa dinamica distruttiva. Le risorse naturali, si tratti di diamanti, petrolio o legname, si sono presto trasformate in una maledizione, perché esasperano la violenza della lotta politica. Etnicità e tribù, costrutti sociali di spesso dubbia origine storica, sono stati sfruttati dai leader politici nella loro rincorsa al potere. L’avvento della democrazia non ha modificato le mire della politica, ma semplicemente alterato il metodo di lotta.

Solo così si può spiegare un fenomeno come la Nigeria, che ha incassato qualcosa come 300 miliardi di dollari in proventi petroliferi nell’arco di una generazione e tuttavia, durante lo stesso periodo, ha subìto un crollo del reddito pro capite.

Il punto, dunque, è: se la cattiva politica è alla radice dei problemi di sviluppo dell’Africa, come si è arrivati a questa situazione? E in che modo la regione potrebbe evolvere in un’altra direzione? Su questo punto, ovviamente, le differenze tra le due autrici sono marcate. Dambisa Moyo non lesina prove a sostegno della sua articolata denuncia degli aiuti stranieri come causa del malgoverno. Fa notare che durante la Guerra Fredda si è prestato incondizionatamente aiuto a personaggi come Mobutu Sese Seko nello Zaire, che accompagnò la figlia alle nozze volando su un Concorde proprio mentre i donatori occidentali acconsentivano a rinegoziare un prestito. Non fosse stato per la continua disponibilità di prestiti agevolati, sostiene l’autrice, i Paesi africani sarebbero stati costretti a rimboccarsi le maniche e adeguarsi agli standard di governance internazionali per poter accedere ai mercati obbligazionari globali.

È una tesi ricca di verità. In passato, l’assistenza dall’estero non ha fatto altro che alimentare la macchina clientelare e contribuito alla permanenza al potere di leader corrotti in Paesi come la Somalia e la Guinea Equatoriale. I governi africani, molti dei quali ricavano oltre il 50 per cento del loro bilancio nazionale dai donatori internazionali, sono tenuti a rendere conto non alle rispettive popolazioni, bensì a schiere di nazioni sovrapposte e contraddittorie.

Ma la tesi — propugnata dalla stessa Moyo — per cui se non fosse per l’afflusso di aiuti internazionali, l’Africa vanterebbe un buon governo, è assai difficile da accettare, anche perché non opera alcun distinguo tra l’assistenza militare prestata allo Zaire durante la Guerra Fredda e i trattamenti anti-retrovirali distribuiti dal Fondo globale o dal Pepfar ( President’s emergency plan for Aids relief), il piano di emergenza contro l’Aids avviato dall’amministrazione Bush, cui non si fa praticamente cenno nel libro. In realtà, il business degli aiuti ha messo a frutto qualche lezione, soprattutto dopo la fine della Guerra fredda. Si firmano meno assegni in bianco ai dittatori, e si concentra l’attività di soccorso in settori come la sanità pubblica, ricavandone apprezzabili risultati.

Se, come suggerisce l’autrice, gli aiuti venissero bloccati, un’intera fetta di popolazione africana morirebbe prematuramente. Altri programmi, come il Millennium Challenge Account (Mca, Fondo per la sfida del millennio), creato dall’amministrazione Bush nel 2004, mirano alla lotta contro la corruzione. Potrebbero non essere sufficienti, ma non aggravano certo il problema di fondo.

Se il blocco degli aiuti stranieri non può essere una cura per l’Africa, il libro di Maathai, Challenge for Africa, propone un’alternativa migliore? L’attivismo di base può stimolare soluzioni locali ed esercitare pressioni sui governi affinché migliorino le loro performance. Ma la società civile funge in definitiva da complemento di istituzioni forti, non da loro surrogato. Verso la conclusione del libro, Maathai allude alla necessità di una leadership visionaria e di un nation-building dal centro, come fece Julius Nyerere quando riunì i numerosi gruppi etnici e linguistici della Tanzania grazie all’uso del Kiswahili come lingua nazionale.

Nel corso della Storia, tuttavia, i progetti di nation-building hanno spesso richiesto una medicina molto più forte di quella che la nostra autrice o la gran parte degli africani di oggigiorno sono disposti a prendere in esame, tra cui la variazione dei confini e l’inclusione, anche forzata, di «micro-nazioni» in un’unica e più grande entità. Se nessuno di questi libri propone soluzioni pienamente soddisfacenti, entrambi mettono almeno a fuoco il vero nocciolo del problema, ossia il livello di sviluppo politico della regione. In quest’ambito, le soluzioni dovranno nascere in seno alla regione stessa. Spostare il dibattito dai doveri del mondo verso l’Africa a quelli degli africani verso loro stessi è un buon primo passo.

© New York Times Syndicate traduzione di Enrico Del Sero

Corriere della Sera 24.5.09
Islam diviso. Anche le sette pacifiste si ribellano ai soprusi dei fondamentalisti che terrorizzano Mogadiscio
Somalia, i mistici sufi corrono alle armi contro gli estremisti
di Massimo A. Alberizzi


Pacifici Il sufismo è una corrente mistica islamica tradizionalmente pacifica che ricerca l’esperienza diretta di Dio Il nome «Suf» in arabo significa lana: i sufi dei primi secoli erano asceti che vivevano nei deserti vestiti di una lunga tunica di lana, loro unica proprietà. I suoi seguaci sono chiamati anche «dervishi», poveri

NAIROBI – Abdullhai Farah era il leader spirituale della moschea Al Qadria, a Nord di Mogadiscio. È dovuto scappa­re per le minacce di morte ri­cevute tre o quattro anni fa, quando poco lontano, nella moschea Al Idayha, si sono in­stallati i fondamentalisti. In quel tempio pregava anche Fazul Abdullah Mohammed, meglio conosciuto come Fazul Harun, l’uomo che nel 1998 ha organizzato gli atten­tati contro le ambasciate Usa a Nairobi e Dar es Salaam (231 morti in totale). Al Qa­dria è una setta sufi, pacifica, secondo cui la vita è sacra e il Corano non si diffonde con la spada ma predicando amore e solidarietà.

Abdullahi Farah ora si è ri­fugiato in Somaliland e al tele­fono sembra aver abbandona­to la consueta tranquillità. «Gli shebab vogliono trasfor­mare la Somalia in un campo di concentramento, travisan­do la legge coranica applican­dola per la loro convenienza politica. I miei ragazzi a Moga­discio per la prima volta da quando è scoppiata la guerra civile (nel 1991, ndr) hanno imbracciato i fucili». Nella ca­pitale somala da due settima­ne infuria una battaglia furi­bonda.

Il tutta la Somalia le sette sufi si stanno ribellando agli integralisti e al loro braccio ar­mato, gli shebab (gioventù in arabo), dopo che questi han­no devastato le loro moschee e profanato le tombe dei loro santoni.

In aprile uno dei leader ra­dicali, Shek Hassan Daher Aweis, è rientrato in Somalia dopo sei anni di esilio in Eri­trea e ha raggruppato attorno alla sua figura carismatica i fondamentalisti. E la guerra contro il governo federale di transizione guidato dall’isla­mico moderato Shek Sherif Shek Ahmed è ricominciata più violenta di prima. L’ulti­ma battaglia per la conquista di Mogadiscio ha causato ol­tre 150 morti e un migliaio di feriti (tutti civili). Cinquanta­mila persone sono in fuga.

A nulla è valsa la scelta del­l’amministrazione di varare la sharia come legge costituzio­nale. I fondamentalisti non hanno accettato dimostrando ormai come dietro l’islami­smo di facciata si celi una lot­ta per il potere che nella Soma­lia devastata da una lunghissi­ma guerra civile si può eserci­tare solo con il terrore. Non a caso dietro di loro si cela la presenza del governo eritreo, la dittatura più dura di tutta l’Africa che fornisce armi e ad­destramento ai miliziani.

Stanchi di soffrire e di subi­re violenze, i tradizionalisti or­todossi e pacifisti della Soma­lia hanno imbracciato le armi. E non solo i seguaci laici di Ahlu Sunnah Waljama. Perfi­no i miti e potenti «santoni ca­pelloni » del Wadada Timo Weynta sono scesi sul piede di guerra.

Corriere della Sera Salute 24.5.09
Disturbi alimentari Indagine dell’università di Torino con 28 scuole di ballo
Anoressia, una minaccia che si muove a passo di danza
Colpisce le ballerine da 3 a 6 volte più delle altre ragazze
di Ruggiero Corcella


«La danza — sospirava Mar­tha Graham, 'madre' del ballet­to moderno — è una canzone del corpo di gioia e di dolore». Talvolta questo dolore diventa una malattia dai nomi terribili: anoressia, bulimia. Sul palco delle attività sportive capaci di generare disturbi del comporta­mento alimentare, la danza si è guada­gnata un posto di prima fila con 50 studi scientifici pub­blicati a livello inter­nazionale.

«Tra le danzatrici — dice Se­condo Fassino, diretto­re del Centro per i di­sturbi del comporta­mento alimentare al­l’ospedale Le Molinette di Torino — il rischio di svilup­pare anoressia aumenta di 3­6 volte rispetto alla popolazione generale, mentre la bulimia si riscontra più frequentemente in un range che varia dal 2 al 12 per cento circa. Inoltre, es­sersi dedicate alla danza nell'in­fanzia e nell'adolescenza au­menta il rischio di andare in­contro a bulimia anche dopo la fine dell'attività».

Per cercare di intercettare in tempo questi disturbi, gli spe­cialisti del Centro hanno stret­to un’alleanza con 28 scuole piemontesi di danza aderenti all’Unione italiana sport per tut­ti (Uisp) e con l'associazione Prevenzione anoressia Torino (Pr.a.To). Il progetto, già parti­to, coinvolge una cinquantina di insegnanti e un migliaio di allieve che sono state intervista­te per capire se esistono proble­matiche alimentari e disagio psicologico. Sulla base dei risul­tati dei questionari, tutti in for­ma anonima, si discuterà poi con gli insegnanti su come in­tervenire a livello formativo.

Per le ballerine, la percezio­ne e l’immagine del corpo sono molto importanti; per questo sono tra i soggetti più a ri­schio. «Nella danza, le caratteri­stiche di leggerezza sono fonda­mentali — spiega Anastasia Sardo, docente di psicologia ap­plicata alla danza all’Università di Siena —; e la danzatrice, so­prattutto nel balletto classico, deve conformarsi ad un ideale di corpo con canoni precisi se vuole superare certe difficoltà imposte dalla tecnica. Altro mo­tivo è che il balletto non fa cala­re di peso. I ballerini classici de­vono essere naturalmente ma­gri e il loro peso ideale è stima­to intorno al 75 per cento del peso corporeo dato come nor­male per quella fascia d’età e quell’altezza».

Quando suona il campanello d’allarme? Per le giovani balleri­ne, il segno oggettivo di un di­sturbo alimentare in agguato è l’assenza del ciclo mestruale per tre mesi. Esistono fattori di rischio psicologico individuali, ma molti addetti ai lavori pun­tano il dito contro l’ambiente delle scuole di danza. Anche quelle di alto livello. «Le inse­gnanti dicono di tutto — rac­conta Claudia Ravaldi, psichia­tra dell’università di Firenze —. Spesso il messaggio di non mangiare non è verbale, ma passa comunque. In alcuni ca­si, poi, si chiede espressamen­te alle ballerine di prendere diu­retici prima degli spettacoli».

Della stessa opinione Fabio­la De Clerq, fondatrice dell’as­sociazione Aba, al cui numero verde (800-165616) arrivano ogni giorno 800 richieste di aiu­to per anoressia, bulimia e di­sturbi alimentari. «Dobbiamo contrastare questa cultura del­l’istigazione alla morte». Re­spinge le accuse Frederic Oli­vieri, direttore dell’Accademia di danza della Scala di Milano: «Le nostre 200 allieve e allievi dagli 11 ai 18 anni devono man­giare di tutto un po’; su questo insisto molto. Abbiamo un oc­chio di riguardo anche al loro supporto psicologico: una paro­la sbagliata può fare da detona­tore di disturbi che comunque non ritengo legati allo sport». Invita alla prudenza e non gene­ralizzare, Carlo Bagutti, medico sportivo che da dieci anni sot­topone a screening i giovani danzatori non professionisti che partecipano al «Prix de Lau­sanne », un concorso interna­zionale molto rinomato. «Il bal­lerino anoressico è un po’ un cliché — sottolinea —. I balleri­ni e le ballerine verificano rego­larmente il loro peso corporeo e imparano a sottoporsi a un controllo alimentare».

Corriere della Sera Salute 24.5.09
Il parere e l’esperienza di una grande étoile
Savignano: «Quel che conta è il talento, non la taglia»
di R.Cor.


L’étoile internazionale Lucia­na Savignano, icona della dan­za italiana e «musa» del coreo­grafo Maurice Béjart, confessa: mangia dolci da sempre.

Un peccato mortale, nel suo mestiere...

«Sono abbastanza disordina­ta nell’alimentazione e sono go­losa. Il mio metabolismo però mi ha consentito di restare tra i 49 e i 50 chili indipendentemen­te dal cibo. Il mio non è un me­rito, sono così di costituzione. L’unico momento nell’arco del mio percorso in cui ho lottato con la bilancia è stato a 20 anni. Ho preso 2 o 3 chili, ma a quel­­l’età è normale perché il fisico si sta formando. Però poi ho tro­vato subito il mio equilibrio».

Mai ripresa sul cibo?

«No, ma ho sentito rimprove­rare altre colleghe. Certo, fare appunti è sacrosanto: bisogna però saper usare i guanti di vel­luto. Soprattutto con gli allie­vi ».

La danza classica può crea­re disturbi alimentari?

«In un certo senso sì, perché adesso i maestri sono ossessio­nati dalla magrezza. Ma in sce­na non è così: la grande Maja Plitsetzkaja non è mai stata ma­grissima, eppure le sue gam­be e le sue braccia sono passa­te alla storia».

Non crede che su questi temi ci sia un po’ di omer­tà tra le scarpette rosa?

«Secondo me il problema esi­ste, ma nel mondo del balletto non è così eclatante. Nella dan­za occorre anche molta forza fi­sica e dunque se uno è anoressi­co dopo un po’ non ce la fa. Un ballerino non può correre il ri­schio di scivolare in una malat­tia così grave».

Eppure succede: gli inse­gnanti non sono preparati?

«Non saprei. Posso dire cosa farei io, se fossi un’insegnante: valuterei soprattutto il talento di chi ho di fronte, senza gli schemi fissi dei 50 o dei 52 chi­li. Io guardo di più al lato artisti­co del ballerino. Il fisico è im­portante, ma al primo posto per me viene la sensibilità, il modo di essere e di interpreta­re la danza».

In televisione, lei è uno dei tre giudici di Academy: sul pe­so di una ballerina è scoppia­to il putiferio...

« In realtà, non sono riuscita a dire ciò che volevo. Ecco, adesso attraverso di lei posso: ho accettato di fare il program­ma perché con la mia professio­nalità e con la mia vita di arti­sta voglio insegnare ai ragazzi come diventare ballerini. Ma soprattutto che cosa si deve riu­scire a trasmettere, quando si danza. Tutto quello che ruota intorno, è un mondo che non mi appartiene. Lo lascio a chi è più bravo di me».

Da giudice: se l’istigazione all’anoressia o alla bulimia di­ventasse un reato, come è sta­to proposto?

«Mi sembra un po’ esagera­to. Ripeto: bisogna stare molto attenti ai ragazzi. Ma così si pas­serebbe da un estremo all’al­tro ».

Il Sole 24 Ore Domenica 24.5.09
L’arsura del potere
Il film di Marco Bellocchio Vincere racconta, più che il presunto matrimonio religioso del duce, la buia ascesa di un uomo che approfittò della Grande guerra per smania di dominio
Il critico: La prole di Napoleone, di Roberto Escobar
Lo storico: Impreciso ma efficace, di Emilio Gentile


Il critico: La prole di Napoleone
di Roberto Escobar

Dal buio emergono indistinte figure "in marcia". Intanto, rivolto a Ida DaIser (Giovanna Mezzogiorno), Benito Mussolini (Filippo Timi) fantastica sul proprio futuro, sicuro di una grandezza che oscurerà Napoleone. C'è fanatico amore di sé, nei suoi occhi. E c'è rapimento affascinato in quelli della sua amante (più tardi diventata sua moglie). Poi la macchina da presa torna sulle figure in marcia: sono ciechi guidati da ciechi.
Bastano queste immagini a dirci quel che non è, Vincere (Italia e Francia, 2009,128'). Non è una storia d'amore, come qualche distratto suppone. Certo, Marco Bellocchio racconta l'amore e il desiderio fra il capo del fascismo e la sarta di Trento. E racconta come la loro relazione, con il figlio che ne venne, fu nascosta dalla complicità vile di ministri, prefetti, medici, religiose. Ma è la marcia nel buio che Bellocchio davvero racconta, e che davvero fa riemergere dalle ombre del passato. E da ombre Vincere è di continuo percorso. Ombre sono i ciechi che si affidano a ciechi Ombre è il bianco e nero di cinegiornali e film che passa sgranato sulle immagini a colori, spaesante come un fantasma che la coscienza non abbia voluto dissolvere. E ombra è la memoria sbiadita di quegli anni.
Della memoria, alla fine, racconta il film: di una memoria perduta in immagini che nel tempo si son fatte mute. Chi è il giovane verboso che approfitta della Grande guerra per la sua sete di dominio? Chi è l'uomo che esibisce una virilità di cui oggi (forse) si ride? Chi è l'oratore che torce la bocca in slogan di morte? Tutto è troppo visto e insieme troppo dimenticato, per non passarci davanti senza lasciar traccia. Ogni crimine è ormai fantasma. Ma nel film, nel suo racconto di due vite distrutte, il fantasma riprende corpo. Le carni e il sangue di Ida e del figlio diventano il luogo - molto materiale, molto "evidente" - in cui la Storia torna a parlarci, obbligandoci a prender posizione. Ida non è antifascista, e non lo è il figlio. Anzi, sull'una e sull'altro il capo del fascismo esercita un fascino almeno pari a quello che esercita sulla gran maggioranza degli italiani Ed è questo che li condanna: da lui vogliono un amore impossibile, e per loro dunque mortale.
«Questo è il tempo del silenzio, il tempo degli attori», consiglia a Ida un medico. il Paese è muto e sordo, compatto nell'annullamento d'ogni libertà e pietà. Conviene, aspettare. Conviene nascondersi. Ma come può nascondersi chi voglia esser riconosciuto e insieme voglia servire? A lui tocca una sorte di morte, come a Ida e a suo figlio. E agli altri? Agli altri tocca la sorte dei ciechi che s'affidano a un cieco. Lo testimoniano le immagini che chiudono Vincere: una città nera del buio della notte e accesa dal bagliore delle bombe.

Lo storico: Impreciso ma efficace
di Emilio Gentile

Benito Mussolini non era a Trento nel 1907, ma vi fu per quasi un anno nel 1909. Ma non fu a Trento, bensì a Losanna nel 1904, che egli avrebbe sfidato Dio a colpirlo entro dieci minuti per provare la sua esistenza. La smargiassata, con la quale inizia Vincere, non è di sicura fonte mussoliniana, ma gli è stata attribuita dalla sua ex amante e maestra di marxismo Angelica Balabanoff. Un fìlm ambientato storicamente non è un compito di storia, perciò non implica una critica alla sua qualità artistica il segnalare qualche imprecisione, inesattezza e anacronismo. Come, per esempio, un gagliardetto degli Arditi, nella sede del «Il Popolo d'Italia» prima dell'intervento italiano nella Grande Guerra, perché il corpo degli arditi fu costituito nel 1917. Oppure il tentato incontro fra la Dalser e il ministro Fedele, avvenuto nel 1926, ambientato nel mausoleo a Cesare Battisti inaugurato nel 1935. O il riferimento alla Guardia Regia, sciolta nel 1922, fatto dall'umanissimo psichiatra del manicomio di Venezia in un colloquio con Ida negli anni Trenta.
Uno storico non può evitare di verificare i riferimenti storici che un film contiene, ma può apprezzare egualmente quanto il regista propone per interpretare una vicenda storica. Può apprezzare, per esempio, la rappresentazione del presunto matrimonio religioso di Mussolini con la Dalser, che sarebbe avvenuto in una chiesa del Trentino nel settembre 1914, come una sorta di appagamento onirico della donna sedotta e abbandonata. Un matrimonio religioso nell'Austria in guerra, fra una cittadina austriaca e uno dei massimi dirigenti nazionali del partito socialista, direttore dell'organo ufficiale del partito, molto noto nel Trentino come virulento mangiapreti e spregiatore di Dio, avrebbe forse lasciato tracce più clamorose, anche in mancanza di una trascrizione nel registro parrocchiale, mai rintracciata.
E altrettanto efficace appare storicamente, l'interpretazione della ostentata ostinazione con quale Ida pretendeva di essere accanto al duce al potere, padre del suo unico figlio che portava il suo nome. lda non voleva rassegnarsi a esser cancellata come non fosse mai esistita, e neppure accettare nell'ombra una vita normale, mentre il preteso marito era all'apoteosi in Italia e nel mondo. Voleva per sé e per il figlio la gloria del duce. Vittima della sua stessa spasmodica ambizione, finì schiacciata dal cinico potere mussoliniano. Storicamente efficace appare, infine, l'evocazione dell'ambiente di un regime totalitario, nel contrasto fra folle adoranti il duce, cortei di alti prelati congiunti ad alti gerarchi, madri dalle grandi poppe allattanti la nuova prole italica e la spietata reclusione manicomiale, fino alla morte, di Ida e di Benito Albino. Nelle ultime scene, il figlio sembra annunziare, con l'imitazione del padre a Berlino, il destino tragico di un Mussolini hitlerizzato. Che alla fine riappare, giovane, nell'atto di sfidare Dio, sotto lo sguardo affascinato di Ida, per finire schiacciato in effige dalla disfatta della storia. Qualcuno potrebbe pensare che, alla fine, trentasei anni dopo, Dio avesse accettato la sfida.