martedì 26 maggio 2009

l’Unità 26.5.09
Berlusconi, la strategia del caos per non dire la verità su Noemi
Ci mette dentro tutto. Addirittura attacca Alemanno: Roma è sporca, sembra l’Africa
Ma il caso esce dal gossip. Letizia parla al «Mattino». E Cicchitto lo prende sul serio
di Marco Bucciantini


Ieri ha esternato a varie tv locali, e su tutto. Il premier è preoccupato, sta pensando all’affondo, ma rischia di essere smentito poi da nuove rivelazioni. E soprattutto teme una nuova uscita della moglie o della Chiesa.

L’autunno del patriarca non è sempre circondato di ragazzine. Berlusconi è solo e preoccupato, ad Arcore. Sente i fedelissimi per telefono, Bonaiuti, Ghedini, Letta. Legge i giornali e si arrabbia, guarda le tivù e si rasserena appena un po’: i telegiornali mettono la sordina al caso Noemi. Si può ancora campare di rendita con la strategia della riduzione del danno, che resta l’ordine di scuderia. «Ma bisogna trovare una via d’uscita», fa sapere. In pratica bisogna confezionare una storia credibile, inattaccabile. Ma lo staff frena, «aspettiamo, per ora il danno è limitato». Si temono altre rivelazioni che screditerebbero questa nuova, congegnata versione dei fatti. Lo stallo logora il premier, tentato dalla controffensiva “umana”, annunciata alla Cnn («riferirò in Parlamento, sarà un boomerang per la sinistra»), e abbozzata con l’intervista al Mattino del padre di Noemi, Benedetto Letizia, nella quale difende l’onore («mia figlia è illibata») e introduce un tassello: «Berlusconi ci è stato vicino quando è morto nostro figlio, nel 2001». Nuove verità che - se prese alla lettera - servono solo a trasformare in menzogne quelle precedenti. Sull’origine della conoscenza fra la famiglia (e Noemi) e il premier («lei era piccola - fa il padre - io le dissi di chiamarlo papi: suonava meglio di nonno»).
A TUTTO CAMPO
Per giorni Berlusconi ha tolto dal tavolo le sue bugie servendo i media con nuovi argomenti, e i più vari. E banalizzando l’accaduto, riducendolo a gossip con le foto pubblicate dal suo settimanale Chi, per poi accusare gli avversari di servirsi - appunto - di gossip. Per distrarre l’opinione pubblica ha attaccato a tutto campo. Domenica, allo stadio, ha licenziato Ancelotti in diretta. Ieri si è servito dei mezzi di comunicazione locali, inibiti da cotanto zelo: il presidente del consiglio di questo Paese ha esternato su Radio Radio (frequenza romana che si occupa di sport), sull’emittente televisiva sarda Videolina, di proprietà dell’amico Sergio Zuncheddu, quindi alla capitolina Tv9, su Odeon Tv e infine è intervenuto a Rete 8, televisione teatina a corto raggio d’utenza. Rimestando così dozzinalmente i temi da essere contestato: ai romani ha detto che la città «per lordura sembra una capitale africana» (e ha indispettito Alemanno). Agli abruzzesi ha promesso un’ampliamento dell’Università, per rilanciarla dopo il terremoto. «Che dice? Ma se dobbiamo razionalizzare i corsi...», lo ha corretto il rettore Di Orio. Perfino su Obama ha azzardato: «A giugno andrò a parlare con lui su ciò che dovremo discutere e votare al G8». Un’uscita solitaria, nessuno alla Casa Bianca lo aspetta, non ci sono conferme di questo vertice a due.
L’ATTACCO E L’ATTESA
Fosse filato tutto liscio, il diversivo, la banalizzazione dei fatti (esemplare, in questo senso, l’intervento di Giuliano Ferrara sul Foglio, che si sostituisce al premier rispondendo alle dieci domande proposte da Repubblica e canzonando così l’esigenza d’informazione del Paese) sarebbero bastati per scivolare via verso le elezioni. Ma l’intervista dell’ex fidanzato di Noemi costringe il premier a muoversi. Timoroso. L’annuncio di querela della famiglia Letizia verso Gino Flaminio resterà tale: nessun avvocato troverà conveniente trascinare in tribunale la vicenda. E il previsto coinvolgimento della famiglia Letizia (padre, madre, Noemi) è per ora contenuto all’intervista al Mattino.
Berlusconi è un generale arroccato che aspetta di capire l’effetto mediatico degli argomenti avversi. Consapevole che finora la vicenda «è passata su mezzi di comunicazioni lontani dal suo elettorato, come internet e i giornali nazionali», concorda Klaus Davi, esperto di comunicazione. «Il passaggio televisivo è molto blando». Ma è a rischio la tenuta dell’immagine di uomo-famiglia, cavallo di battaglia fin da quando, 15 anni fa, stampò e divulgò in tutte le caselle postali del Paese «Una storia italiana», quella sua e della famiglia. «Può destabilizzarlo Veronica, che ha scatenato la vicenda e poi si è appartata. Una sua nuova reazione consumerebbe il voto femminile, zoccolo duro del consenso del Cavaliere. E poi la Chiesa: se i vescovi si risentissero...». Per Davi, dunque, senza colpi di scena il tono resterà basso. Altrimenti ci sarà sempre un Porta a Porta o un Parlamento da piegare ai propri comodi.

l’Unità 26.5.09
Il finale di partita del signor B.
I fischi di San Siro


La contestazione dei tifosi del Milan deve essere apparsa al signor B. come un tradimento improvviso. E bisogna ammettere che se i tifosi possedessero almeno una memoria a medio termine dovrebbero essere grati al loro presidente. Hanno vinto molto con lui, e le ultime due stagioni disputate con una formazione geriatrica sono poca cosa, a confronto col passato.
Ma se anche il presidente del Milan e del Consiglio (nell’ordine) a sua volta possedesse memoria, ricorderebbe che sempre così in Italia si risolvono i grandi amori: con un improvviso capovolgimento di passioni. Capovolgimento sentimentale e persino fisico, certe volte: come nel caso di Mussolini a piazzale Loreto.
Senza arrivare a questi eccessi di virulenza, non è escluso che la parabola del signor B. abbia raggiunto l’apice e si appresti alla conclusione. Né gli è consentito fare appello alla memoria del popolo, dopo che sulla cancellazione della memoria ha costruito le sue fortune.
Per quel che riguarda le minoranze non milaniste, sarebbe un errore trascurare la spia anche politica che si è accesa domenica scorsa a San Siro. In fondo tutto il fenomeno B. è cresciuto succhiando linfa dal gioco del pallone, ed è probabile che dal gioco del pallone possa cominciare a finire.
È sul ruolo dell’opposizione e sui tempi di degenerazione che conviene interrogarsi. Perché il ciclo del Milan possa esaurirsi serve che un’altra squadra venga alla ribalta con una proposta alternativa convincente. E qui siamo ancora indietro nella preparazione, tutt’altro che competitivi.
I tempi, poi: in ascesa sono stati quelli lunghi che conosciamo. Il populismo è stato instillato lentamente nel sistema circolatorio del Paese. Il disamore però ha molta fretta, solitamente. Se c’è un’Inter, da qualche parte, meglio che faccia alzare dalla panchina il suo miglior giocatore e lo faccia scaldare.

Repubblica 26.5.09
La menzogna in politica e il diritto alla verità
di Stefano Rodotà


Mai come in questi tempi spazio pubblico e spazio privato si sono così intensamente mescolati fin quasi a rendere indistinguibili i loro confini. Addirittura lo spazio privato sembra svanire nell´era di Facebook e di YouTube, delle infinite e continue tracce elettroniche, dell´impietosa radiografia mediatica d´ogni mossa, contatto, preferenza. Dobbiamo accettare la brutale semplificazione di chi ha affermato "la privacy è finita. Rassegnatevi"? O dobbiamo ridisegnarne i confini senza perdere i benefici della trasparenza che, soprattutto nella sfera della politica, le nuove tecnologie rendono possibili? La politica, appunto. Nel nuovissimo panorama tornano, intatte e ancor più ineludibili, antiche questioni. Quali sono i doveri dell´uomo pubblico?
Quale dev´essere la sua moralità? Possono convivere vizi privati e pubbliche virtù? Può il politico coltivare la pretesa di stabilire egli stesso fin dove può giungere lo sguardo dei cittadini? E soprattutto: qual è il rapporto tra verità e politica nel tempo della comunicazione globale?
«La menzogna ci è familiare fin dagli albori della storia scritta. L´abitudine a dire la verità non è mai stata annoverata tra le virtù politiche e le menzogne sono state sempre considerate giustificabili negli affari politici». Così Hanna Arendt, che tuttavia in questa lunga abitudine non vedeva un dato da accettare in nome di un troppo facile realismo politico. Al contrario, contro la menzogna bisogna lottare non solo per la sua intrinseca immoralità, ma per i suoi effetti distruttivi proprio dello spazio della politica. Dove esiste un establishment, un ceto politico consapevole della necessità di mantenere la propria legittimità nei confronti dei cittadini, la pubblica menzogna sui propri fatti privati porta all´espulsione del mentitore. John Profumo è costretto a dimettersi perché ha mentito alla Camera dei Comuni sulla sua relazione con Christine Keeler. Gary Hart è costretto ad abbandonare la vita politica e le sue ambizioni di candidato alla presidenza degli Stati Uniti per aver sfidato la stampa sull´esistenza di sue relazioni sessuali, che i giornalisti, facendo bene il loro mestiere, impietosamente scoprono. Non un sussulto moralistico, ma l´affidabilità stessa del politico rende inammissibile la menzogna.
Questo significa che parlare del rapporto tra menzogna e politica esige distinzioni. Vi è la menzogna in nome della salute della Repubblica, quella su vicende private del politico, quella che vuol salvaguardare uno spazio di intimità di cui nessuno può essere espropriato. Né il primo, né l´ultimo caso possono essere invocati nella vicenda che coinvolge Silvio Berlusconi. Per quanto sia divenuta totalizzante l´identificazione sua con i destini del paese, non si può certo ritenere che il suo parlar franco sui rapporti con una giovane ragazza metta a rischio il sistema politico italiano. Al contrario, proprio le sue reticenze, i silenzi e le contraddizioni stanno producendo effetti perversi nella sfera pubblica. La difesa della privacy, il rifiuto di una politica fatta di un guardare nel buco della serratura? Chi ragiona in questo modo sembra ignorare il modo in cui la vicenda è stata resa pubblica, la denuncia circostanziata e impietosa di Veronica Lario, i suoi diretti riferimenti politici. Lì si parlava della figura pubblica di Berlusconi, non di qualche pettegolezzo privato. Da decenni, peraltro, è cosa nota e consolidata che i politici godono di una più ridotta "aspettativa di privacy", proprio perché la decisione di vivere in pubblico e di gestire la cosa pubblica impone loro di rendere possibile una conoscenza ampia e una valutazione continua proprio da parte di quei cittadini al cui giudizio il presidente del Consiglio sembra tenere tanto.
Chi, allora, ha "diritto alla verità"? Questo interrogativo, che divise Immanuel Kant e Benjamin Constant, è proprio quello che sta al centro della discussione italiana. Al deciso universalismo di Kant, Constant opponeva che «nessun uomo ha diritto a una verità che nuoccia ad altri». Qui possiamo astenerci dal ripercorrere quella storica discussione, perché proprio la rilevanza politica del caso esclude comunque che la verità possa nuocere a persona diversa dal presidente del Consiglio, mentre il silenzio o la menzogna pregiudicano proprio quel diritto di sapere che costituisce ormai uno dei caratteri della democrazia, che sfida il machiavelliano uso politico della menzogna come strumento per mantenere il potere. Molte volte si è sottolineato che le procedure di occultamento della verità hanno sempre accompagnato i regimi totalitari, mentre l´accesso alla verità è sempre stato una prerogativa delle libere assemblee, a partire dalla democrazia di Atene.
Il diritto alla verità, in questo caso più che mai, è diritto di tutti. È stato proprio il presidente del Consiglio a rendere ineludibile la questione con le sue reticenze, le doppie versioni, il distogliere lo sguardo da fatti incontestabili. Il suo rifiuto di rispondere a domande specifiche, e tutt´altro che pretestuose proprio perché riferite a dati precisi, assomiglia assai a quella "facoltà di non rispondere" di cui giustamente può giovarsi l´indagato o l´imputato. "Nemo ternetur se detegere", recita un´antica e civile formula giuridica, che si può spiegare con le parole di un vecchio commentatore: «non imporre a nessuno, neppure allo scellerato più infame, di rivelare il malfatto». Quali consiglieri, ammesso che ce ne siano, hanno suggerito al presidente del Consiglio di seguire una strada così scivolosa?
Una menzogna può acquietare i fedeli di un politico, ma lo spinge a rinserrarsi nel suo campo trincerato, corrode la fiducia dei cittadini in un tempo in cui proprio la produzione di fiducia è considerata un elemento indispensabile per restituire alla politica un vero consenso. Non è il moralismo a spingere verso questa conclusione, anche se oggi soffriamo proprio di un deficit spaventoso di moralità pubblica. La democrazia, ricordiamolo, non è solo governo del popolo, ma governo "in pubblico". Qui, in questa semplice e profonda verità, sta l´inammissibilità della menzogna in politica, che si trasforma proprio nella pretesa di non rendere conto dei propri comportamenti da parte di chi ha liberamente scelto di uscire dal rassicurante spazio privato per essere protagonista nello spazio pubblico.

Repubblica 26.5.09
Il bersaglio del populismo
Presidenzialismo telematico
Intervista ad Anthony Giddens di Enrico Franceschini


Viviamo nel rischio di un presidenzialismo mediatico che mira a usare le nuove tecnologie per governare senza nessun controllo. Per questo è necessario che le Camere siano dotate di poteri autentici

«Viviamo con il rischio di un presidenzialismo populista, che mira a usare le nuove tecnologie di comunicazione, come internet e i blog, per governare senza controlli. Ma senza un parlamento dotato di reali poteri non può esserci democrazia». È la tesi di Anthony Giddens, l´ideologo della Terza Via e del blairismo. Ma l´ex-rettore della London School of Economics non è solo un politologo che studia la democrazia su carta: è anche un parlamentare, membro della camera dei Lord, nominato da Tony Blair.
Lord Giddens, in Gran Bretagna sotto Blair, come in Italia sotto Berlusconi, come in Russia sotto Putin, abbiamo assistito a un rafforzamento del potere esecutivo rispetto al potere legislativo. Come giudica il fenomeno?
«Sono esempi molto diversi tra loro. In Russia c´è un ritorno all´autoritarismo, con la tendenza verso un partito unico in parlamento e un controllo assoluto dei media. Così assoluto, nemmeno Berlusconi l´ha ottenuto, sebbene anche in Italia il rafforzamento dell´esecutivo abbia aspetti preoccupanti. Quanto alla Gran Bretagna, qui i media possono far tremare sia l´esecutivo che il legislativo, come sta accadendo in questi giorni con le rivelazioni dei giornali sui rimborsi spese dei deputati».
Da cosa deriva la tendenza a rafforzare l´esecutivo?
«Da un problema reale. I media, quando sono liberi di funzionare, nella società odierna richiedono ai governi di rispondere delle proprie azioni 24 ore su 24. Spesso ciò avviene ancora prima che ci sia una reazione da parte del parlamento alle azioni del governo; o addirittura prima che l´azione del governo sia stata effettivamente completata. Viviamo nella società dell´informazione in tempo reale, e davanti a un controllo così martellante i governi hanno avvertito la necessità di rafforzare il proprio potere».
Dunque è uno sviluppo necessario?
«Sì, ma può diventare pericoloso se viene lasciato crescere a dismisura. Internet, con la sua comunicazione diffusa e interattiva, può rappresentare per alcuni leader una tentazione di quello che io definisco presidenzialismo elettronico, un potere populista basato sul consenso espresso da sondaggi, email, blogger, anziché essere espressione del dibattito parlamentare. E ciò è sicuramente negativo, una minaccia per la democrazia».
Berlusconi ha detto che in parlamento potrebbero bastare 100 deputati.
«Un parlamento più piccolo è un obiettivo apprezzabile, specie in Italia, dove di deputati ce ne sono troppi. Ma non bisogna esagerare a diminuire la rappresentatività, nel numero di deputati e nel numero di partiti. Il bipartitismo fa funzionare meglio un paese, ma occorre che tutti i settori della società siano rappresentati in parlamento e ciò col bipartitismo non sempre avviene».
Allora il ruolo del parlamento rimane essenziale?
«Assolutamente sì. Va riformato, migliorato, adeguato ai tempi. Ma ricordiamoci che ogni volta che la democrazia è stata minacciata, in ogni parte del mondo, si sono ridotti i poteri del parlamento».
E a lei piace, il suo lavoro alla camera dei Lord?
«Sì, molto. In linea di principio sono favorevole a una riforma per far sì che i Lord siano eletti dal popolo, anziché essere nominati dalle istituzioni (a vita, ma i seggi non sono più ereditari, com´era prima della riforma approvata da Blair, ndr.). Però anche oggi la camera dei Lord svolge un ruolo importante di scrutinio legislativo, ed è composta, grazie al sistema delle nomine, da molti esperti sui problemi più svariati. E anche questo è utile».

il Riformista 26.5.09
I sondaggi sotto il 40%. Crisi di governo in Sicilia
Papi perde colpi
Il premier teme un nuovo teste
Cavaliere furioso e angosciato. Parla Letizia e gli avvocati già si preparano al prossimo colpo. I sondaggi preoccupano lo staff: la «bolla mediatica» non si sgonfia come era stato previsto
di Alessandro De Angelis


Benedetto, Letizia. A rispondere alla dieci domande che Repubblica ha rivolto a Silvio Berlusconi, di fatto, ci ha pensato lui. Il papà di Noemi, in una lunga intervista al Mattino, ha affermato: «Dico chiaro e tondo che mia figlia è illibata, il resto sono solo illazioni. Nessuno può smentire questo, da Veronica Lario in giù». Noemi dunque è casta ed è figlia sua: «Se vogliono si può fare la prova del Dna». Parola di papà. E papà giura che con «papi» (cioè Berlusconi, copyright di Noemi) il rapporto, di tutti, è limpido: «Quando morì mio figlio diciannovenne feci arrivare la notizia al presidente e due giorni dopo mi viene recapitata una lettera scritta a mano da Berlusconi, accorata, toccante. Credo sia nato quel giorno il mio rapporto con lui, lo sentiii sincero, partecipe».
Chissà se basta, a mettere la parola fine al Casoria gate, ormai un'ossessione per il Cavaliere. Che non ne può più. Chi lo ha visto in questi giorni lo definisce furioso e angosciato al tempo stesso: «È possibile che noi proponiamo la riduzione dei parlamentari e i giornali si occupano di questa spazzatura?». Per non parlare dei guai fisici: quel maledetto torcicollo che lo sta limitando nella campagna elettorale. O delle angosce private, come il pensiero per le condizioni di salute del suo amico e medico Umberto Scapagnini: «È un chiodo fisso che lo angoscia», dicono i suoi. Berlusconi è stanco, e vede che la «bolla mediatica» non si smonta. Per questo ha scelto di far parlare Benedetto Letizia. La parola di un padre contro il gossip. La difesa contro l'accusa. All'operazione ha lavorato Niccolò Ghedini, l'unico con cui il Cavaliere, in questi giorni, parla in continuazione. E neanche il giornale è scelto a caso: il direttore del Mattino Mario Orfeo è in odor di Tg2 e, sulla vicenda, si era collocato in una posizione defilata, fino a ieri.
L'avvocato Ghedini lascia intendere il senso della testimonianza di Benedetto Letizia: «Il rapporto con la ragazza nasce dall'amicizia con la famiglia, come spiega il padre e come sarà appurato nei processi che verranno intentati nei confronti di Repubblica e di chi dovesse fare dichiarazioni diffamatorie, soprattutto per Noemi. Valuteremo le eventuali azioni civili e penali da intraprendere. Berlusconi è giustamente infastidito da questa situazione, ma non è la sua priorità della giornata. Ha e abbiamo altre cose da fare». Il premier però teme che la partita non sia finita qui. E la parola di papà Letizia serve anche per coprire dell'altro. Perché se è vero che finora «è tutta panna montata» e non c'è una prova - dicasi una - a Palazzo Chigi temono in un colpo di coda: una testimonianza, magari creata ad arte, meno innocua dell'ex fidanzatino di Noemi, che spinga qualche audace procura ad aprire un'indagine. A microfoni spenti la versione è questa: «Se trovano un testimone che, magari per gloria o per altro, si inventa che c'è stato un rapporto sessuale a quel punto con la normativa vigente che è più restrittiva di quella di prima si configura l'abuso di minore e si procede d'ufficio. Qui vuole arrivare il teorema mediatico-giudiziario di Repubblica e della sinistra». Come a dire: non c'è lodo Alfano che tenga di fronte all'effetto sull'opinione pubblica.
Per questo Berlusconi ha deciso di giocare in prima persona, col suo avvocato. Anche l'ala diplomatica di palazzo Chigi, da Paolo Bonaiuti a Gianni Letta, sul caso, è inascoltata. Il Cavaliere va per conto suo. Certo un lavorio sui giornali è stato fatto: il Corriere ha smussato i toni rispetto a qualche giorno fa, e pure il Sole, che aveva fatto pubblicare le proprietà immobiliari della famiglia Letizia, è tornato meno ostile. Misure tampone. Berlusconi vuole, soprattutto, una via d'uscita politica: una mossa per invertire la tendenza cavalcata anche dalla sinistra. Che dei danni li ha già prodotti. Nei sondaggi che circolano in queste ore a palazzo Grazioli il Pdl è sceso sotto il 40 per cento. Per uno che aveva dichiarato «prenderemo il 50 per cento» l'obiettivo è praticamente impossibile. E infatti gli sherpa hanno abbassato l'asticella: «Prendiamo il 42».
Serve comunque un cambio di passo. Tutto politico. Per ora Berlusconi ha affidato la controffensiva a una serie di interviste, registrate prima della puntata di domenica del Casoria gate, e andate in onda ieri. Interviste in cui mostra i muscoli: «Mi dicono di aver mentito. Allora reagirò, spiegherò esattamente come è la situazione e avrò ancora una volta tutti gli italiani con me» ha detto alla Cnn. E ancora: «Trovo indegno il comportamento di chi entra in una vicenda privata per farne motivo di attacco politico. Abbiamo chiarito la situazione e la chiariremo ancora, anche se all'inizio io non ho voluto che si entrasse nei rapporti tra me e questa famiglia perché ritengo che abbiamo diritto alla privacy. Anche mia moglie ha creduto a quanto comunicato da certa stampa». Un modo per replicare a Franceschini e alla lista degli accusatori. Ma il premier non ha alcuna intenzione di «chiarire» in Parlamento. Quando ha annunciato un suo intervento in Aula, qualche tempo fa, si trattava di replicare sul caso Mills, certo non sulla sua vita privata. Il senso delle dichiarazioni di ieri è che risponderà colpo su colpo. L'obiettivo però è tornare a parlare di politica. E per recuperare consensi Berlusconi continuerà a spingere sulla riduzione del numero dei parlamentari, attraverso un ddl popolare. Visto che il tema anticasta «tira» sta valutando di trasformare i gazebo elettorali del Pdl in luoghi di raccolta delle firme. Un modo per cambiare argomento. Cosa che ha fatto ieri Umberto Bossi che, dopo aver archiviato il caso Noemi alla voce «esagerato», ha dato un'altra versione: «Berlusconi i suoi anni li ha. Vabbé che c'è il Viagra però ci credo poco».

il Riformista 26.5.09
Quando Repubblica chiama alle armi
il partito fiancheggiatore risponde
di Peppino Caldarola


Le vecchie sezioni hanno chiuso i battenti, le nuove aprono qualche ora al giorno, il militante democratico, disorientato, confuso, avvilito, non sa a che santo rivolgersi per dire la sua, per trovare chi interpreta i pensieri che gli frullano nella testa, addirittura per scegliere fra questi pensieri quello giusto. E va in edicola. La lettura quotidiana di Repubblica è il tonico che ci vuole. Non passa giorno senza un editoriale contro Berlusconi, da quando è scoppiato il "caso Noemi" non c'è copia del giornale che non abbia nuove rivelazioni. Finalmente c'è qualcuno che non perde di vista l'Uomo Cattivo. Una lettura corroborante, uno sprone per la nuova Resistenza trasuda da quelle colonne di piombo, a conferma del fatto che non si è mai troppo antiberlusconiani. Repubblica dà voce al nostro disagio profondo e ieri con due pensosi articoli ci ha spiegato il nostro disagio di vivere in un Paese dove la maggioranza segue il Cavaliere. L'Italia profonda non ci capisce, ma Ezio Mauro sì. Dicono che sia anche un successo editoriale la nuova battaglia dell'ammiraglia del gruppo De Benedetti contro il premier. Un giornale, e un gruppo editoriale, travolti dalla crisi della carta stampata, e destinati ad attuare tagli severi, vedono rinvigorito il rapporto con la diffusione. Auguri.
Quello fra Repubblica e la sinistra è un vero grande amore. Un amore cominciato tanto tempo fa quando Scalfari, a capo di un gruppo di coraggiosi, decise di fondare un quotidiano diverso dagli altri. Il Pci guardò con grande sospetto la nascita di questo nuovo foglio. L'idea che un gruppo di "neo-azionisti" si mettesse a dare carte nella sinistra non poteva piacere alle Botteghe Oscure. Il primo anno non dette grandi risultati al nuovo quotidiano. Ricordo una circolare di Luca Pavolini che arrivò nelle federazioni del Pci in cui si invitava a diffondere con maggior lena l'Unità con il sollievo del cattivo esito dell'esperimento di Scalfari.
Ancora pochi mesi e accadde il contrario di quanto sognava il gruppo dirigente del Pci. Repubblica diceva papale papale quello che avveniva nel grande partito, dava voce ai dissenzienti, lavorava ai fianchi Dc e Pci. Divenne così, a scapito del quotidiano di partito, il giornale di cui il militante non poteva fare a meno. È stato un lungo fidanzamento con momenti di vero amore. Quello per Berlinguer e per il partito degli onesti, ad esempio, contrapposti alle avventure del Ghino di Tacco socialista. La sintonia fra il Pci e Scalfari ebbe il vantaggio di togliere dall'isolamento i comunisti che trovarono nel quotidiano romano il principale sponsor per l'accreditamento come forza di governo. Anche Repubblica doveva fare i conti con la potenza del Pci. Il lungo amore segnò la vita di una coppia in cui ciascuno era forte nel proprio campo e tuttavia era necessario per la vita dell'altro. Fino allo scioglimento del Pci.
Da quel momento il quotidiano lancia la vera Opa sul nuovo partito. Repubblica diventa la cattedra che divide i buoni dai cattivi. Parteggia per Occhetto ma poi lo molla, si schiera con Veltroni per la successione ad Akel, si rammarica per la vittoria di D'Alema, tifa per Prodi e lo strattona, si inventa Rutelli capo dell'Ulivo e lo abbandona, fa da grancassa ai girotondi esaltando la "borghesia riflessiva", i suoi editorialisti si innamorano di Cofferati. La storia confusa e finale della sinistra è tutta scritta su quelle pagine.
Quando sta per morire la vecchia Unità è l'unico giornale a non solidarizzare. Da Ferruccio de Bortoli a Vittorio Feltri è un coro di amicizia e di promesse di aiuto, ma Repubblica, ormai da anni nelle mani di Ezio Mauro, non ha lacrime sperando di ereditare il superstite pubblico del quotidiano fondato da Antonio Gramsci al quale regala due direttori che poi si riprende, o si riprenderà, Mino Fuccillo e Concita De Gregorio. Negli anni dell'Ulivo, ogni volta che il Corriere della Sera darà qualche dispiacere alla nomenklatura si troverà sempre un editorialista di Repubblica che, non senza frustate, invita a sostenere la baracca.
Ma non è più un rapporto paritario fra due poteri, il partito e il suo principale giornale di riferimento. A mano a mano che la sinistra si immerge nelle sue svolte, il gruppo editoriale diventa qualcosa di più del giornale-amico, del pungolo quotidiano, del luogo dove si esaltano o si cancellano carriere politiche. Il partito perde peso, perde anche la bussola e Repubblica occupa tutto lo spazio libero.
Con la segreteria di Veltroni, il politico prediletto dal gruppo, Repubblica si fa tutt'uno con il nuovo leader, dopo un breve innamoramento per D'Alema. Tutto si svolge alla luce del sole. Non c'è niente di obliquo o di sotterraneo, e se c'è non ha importanza. Trasferitosi nella periferia nord di Roma, il quotidiano si stringe in un abbraccio definitivo alla nuova creatura politica vigilando soprattutto sul suo tasso di anti-berlusconismo. L'avvento di Franceschini chiude una lunga fase finendo per sancire la supremazia del giornale sul partito. Alle prime mosse del "caso Noemi" il segretario del Pd dichiara di volerne restare fuori. Dura qualche settimana appena questa dichiarazione di indipendenza. Poi Repubblica chiama alle armi e trova in via del Nazareno il braccio politico per trasferire la vicenda pruriginosa al vertice della politica e nel cuore dello Stato. Il Pd non sa e non può più dire di no. Fra qualche settimana, dopo il voto, Repubblica deciderà le sorti del Pd schierandosi per Franceschini o per uno dei tanti che ambiscono a prenderne il posto. Attenti, signori che ambite a fare carriera nel Pd. Dopo l'8 giugno sarà Ezio Mauro a comunicarvi il nome del nuovo segretario del Pd.

l’Unità 26.5.09
Nuovi misteri d’Italia
Dal G8 di Genova a oggi, il fantasma della paura come strategia di governo
di Claudia Fusani


C’è una circolarità negli eventi. Basta saperla leggere, come quei giochi da cruciverba, unisci i punti sparsi e alla fine viene fuori la figura. Alla vigilia di un altro G8 sotto il semestre di presidenza italiana che la scelta dell’Aquila rende speciale, per certi versi unico, escono in libreria un paio di libri che cercano di tirare le fila dell’altro G8, quello di Genova, otto anni dopo. Dopo le sentenze di primo grado sui principali filoni d’inchiesta di quei quattro giorni in cui ci fu “la più grave sospensione dei diritti umani nell’Occidente contemporaneo” (Amnesty international). E mentre è in carica un nuovo governo di centrodestra – così come si era appena insediato nel luglio 2001 – che da un anno sta portando avanti, neppure tanto tra le righe, un nuovo sistema di sicurezza.
Enrico Deaglio, Beppe Cremagnani, e Mario Portanuova autori di “Governare con la paura-Il G8 del 2001, i giorni nostri” (editore Melampo) hanno saputo aspettare, hanno messo la distanza necessaria tra i fatti e gli occhi, hanno continuato a raccogliere elementi e indizi, il prima e il dopo. Capacità d’analisi. Capacità di visione dell’insieme dei fatti. La conclusione è che nulla di quello che accadde in quei giorni di luglio del 2001 fu casuale, tutto era stato se non deciso almeno previsto, dagli allarmi dei servizi alla morte di Carlo Giuliani, dalle botte e dagli abusi sui manifestanti al caso blocco nero che fu libero per tre giorni di fare quello che voleva, fino al blitz alla scuola Diaz di notte, mentre la gente dormiva. “Era stata programmata una sorta di prova generale per la trasformazione, o la minaccia di trasformazione, del nostro paese in un Cile di Pinochet” scrivono gli autori. I fatti di Genova «avevano dimostrato quanto poderosa e capillare potesse essere, in una grande città d’Europa, una prova di forza: si era potuto, senza provocare grandi dibattiti, blindare e svuotare un centro cittadino, convogliare 15 mila esponenti delle forze dell’ordine, militari compresi, limitare per decreto gli spostamenti dei cittadini».
«Abuse of power comes as no surprise» scriveva agli inizi degli anni ottanta Jenny Holzer. Il libro racconta proprio come l’abuso di potere arrivi, a un certo punto, senza particolari scossoni, e di come «il potere di per sé tenda ad abusare per arricchire i suoi adepti e per mantenersi al potere». Fondamentale, per tutto questo, è creare la paura, fabbricarla. Il libro documenta come ben cinque mesi prima del G8 del 2001 i servizi segreti cominciano a disseminare veline tra giornali e tivù, allarmi, paure e scenari terrificanti, dal sangue infetto al sequestro degli agenti da parte dei manifestanti. Di più: un appunto ritrovato, ovviamente casualmente, davanti a palazzo Chigi il 5 giugno 2001 anticipa quello che poi avverrà il 21 luglio, la morte di Carlo Giuliani per mano di «un giovane poliziotto inesperto e esausto». Il libro ripercorre la dinamica degli incidenti, il mistero blac bloc, l’assalto alla Diaz, tramite la lettura delle sentenze dimostra che la polizia alla fine si è sottratta al giudizio del processo. Soprattutto, e questa è la cosa più grave, «nessuno ha avuto la voglia o il coraggio di assumersi la responsabilità di farlo. Nessuno ha ancora raccontato «la verità ultima sul G8 di Genova». Restano tre domande senza risposta: «Chi giocò sporco con gli allarmi della vigilia e perché? Chi diede gli ordini, chi gestì davvero l’ordine pubblico, chi manovrò nell’ombra sotto il sole di Genova? Chi ha garantito l’impunità agli uomini dello Stato di cui parlano le sentenze?». Non aver voluto rispondere a queste domande crea, lasciano intendere gli autori, il precedente e il presupposto perché tutto possa accadere di nuovo. «Governare con la paura» infatti è anche adesso, accade ininterrottamente da quel luglio 2001 con l’unica interruzione dei due anni del governo Prodi. Un capitolo del libro, «La nuova sicurezza», ricostruisce in pillole fatti di cronaca e scelte politiche che indicano chiaramente la rotta del nuovo concetto di sicurezza, dalla caccia i nomadi all’introduzione del reato di clandestinità, dalla tolleranza zero contro chi vorrà manifestare in modo violento contro le basi militari, le discariche e le riforme della scuola, il ritorno di raid di sapore fascista, i barboni dati alle fiamme per gioco. Dal disegno di legge al decreto sulla sicurezza, dalle ronde dei cittadini ai militari sguinzagliati nelle città a tutela dei monumenti. «Una cronaca che non si stanca di dirci quanto il governo non sia disposto a tollerare manifestazioni di dissenso» e che «la polizia e l’esercito nell’Italia del 2009 hanno ottenuto poteri più grandi di quanto abbiano mai avuto nella storia repubblicana».
«Governare con la paura» va in stampa nell’aprile 2009. Il video racconta ancora meglio come il passato stia tornando in questo presente, anzi come tutto si stia evolvendo nell’oggi passando sotto la lente di un unico, immenso, revisionismo. Va aggiunto, per dovere di cronaca, che tra due mesi ci sarà un altro G8, che la polizia ha ucciso a Londra ai primi di aprile Ian Tomlinson durante il G20, che dopo gli incidenti del G8 universitario a Torino i ministri si sono subito affrettati a lanciare allarmi terrorismo ed eversione. Anche per il G8 Interni e Giustizia del prossimo fine settimana qui a Roma. Un clima già visto. A cui non ci si può abituare. Come ricordano, al momento giusto, un libro e un video.

l’Unità 26.5.09
Stato sionista
La legge di Lieberman: fedeltà a Israele
Cittadinanza. Potrà essere revocata a chi si rifiuta di giurare
Il falco del governo Netanyahu impone all’esecutivo l’esame delle nuove norme
Nel mirino un milione e mezzo di arabi israeliani. Insorgono le associazioni umanitarie
di Umberto De Giovannangeli


Da «provocazione» elettorale a proposta di legge. Destinata a infiammare Israele. È il giuramento di fedeltà allo «Stato sionista» chiesto da Israel Beitenu di Avigdor Lieberman. Lo scontro alla Knesset.

Ora non è più una «provocazione elettorale». Ora è una proposta di legge avanzata dalla terza forza politica d’Israele - Israel Beitenu (IB), destra radicale - il cui leader, Avigdor Lieberman - guida uno dei ministeri chiave del governo: gli Esteri. Una proposta che tende a imporre a tutti i cittadini un inedito giuramento di fedeltà allo Stato israeliano e alla sua natura ebraica, è da ieri sul tavolo del governo Netanyahu.
POLEMICHE ROVENTI
La proposta ha in realtà molto cammino da fare prima di potersi tramutare in legge effettiva, poiché dovrà ottenere l'assenso collegiale del governo (a cui sarà sottoposta la settimana prossima) e successivamente della Knesset, dove si prevede fin d’ora una dura battaglia con probabili ricorsi alla Corte Suprema. Ma la polemica sul peso della destra identitaria nella compagine del premier Benyamin Netanyahu già divampa. IB, del resto, appare deciso a dare corpo agli slogan più barricadieri e discussi dei suoi comizi elettorali. Mentre il partner principale di governo (il Likud, partito della destra storica capeggiato da Netanyahu) sembra contare solo poche voci dissonanti. È dell’altro ieri il via libera ottenuto dal gruppo di Lieberman in consiglio dei ministri a un altro contestato disegno di legge, che mira a impedire alla minoranza araba del Paese (1,5 milioni di persone, il 20% della popolazione) ogni commemorazione della Nakba («catastrofe» in arabo) in cui i palestinesi rievocano la nascita d'Israele nel 1948, indissolubilmente legata nella loro memoria all’esodo di circa 700 mila profughi.
Servizio militare
La proposta formalizzata ieri, se venisse recepita, imporrebbe ai firmatari del giuramento di dichiarare fedeltà «allo Stato d’Israele quale Stato ebraico, democratico e sionista», impegnandoli per iscritto «a servire il Paese secondo le necessità, anche prestando servizio militare o civile». Non solo: essa darebbe al ministro dell’Interno la facoltà di non rilasciare carta d’identità o passaporto a chiunque rifiutasse di aderire e perfino di revocargli d'autorità la cittadinanza. La legge sull’«atto di lealtà» colpirebbe soprattutto gli arabi israeliani, molti dei quali non s'identificano affatto col carattere ebraico d'Israele. Ma anche quegli ebrei ultraortodossi che contestano lo Stato sionista in quanto creazione laica e non opera del Messia.
L’Associazione israeliana dei diritti civili non ha esitato a evocare i bagliori sinistri di una cultura totalitaria dietro la proposta, bollata come espressione di «totale fascismo». «Siamo alla barbarie identitaria, una pagina vergognosa per Israele», dice a l’Unità Yael Dayan, scrittrice, paladina dei diritti delle minoranze, figlia dell’eroe della Guerra dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan. «Questa proposta è il biglietto da visita di un governo che ha il razzismo nel suo dna», le fa eco Shulamit Aloni, più volte ministra nei governi a guida laburista, figura storica della sinistra pacifista israeliana. Imbarazzi sono emersi inoltre nel Partito laburista, portato da Ehud Barak nella coalizione con Likud e IB, mentre critiche pesanti sono piovute dall’opposizione centrista di Kadima, la formazione dell’ex ministra degli Esteri Tzipi Livni. I partiti arabi hanno parlato a loro volta di «deriva razzista», promettendo opposizione a oltranza. Un loro esponente, Jamal Zahalka (deputato del Balad alla Knesset), ha in particolare preso di mira il divieto della Nakba, affermando che «varare una legge per impedire il dolore e il lutto è un fatto senza precedenti a livello internazionale». Ma avvertendo che gli arabi d'Israele troveranno «il modo di ricordare il passato malgrado questo folle governo Netanayhu-Lieberman».

il Riformista 26.5.09
L'Iran scopre la sua "Michelle" e Mousavi spera
di Roberta Del Principe


Sfidante. Sa parlare ai giovani e vuole bloccare la fuga dei cervelli. Candidato di compromesso tra moderati e riformisti, è l'unico in grado di battere Ahmadinejad. Grazie anche a Zahra, la moglie artista impegnata, che tiene per mano ai comizi.

Era rimasto per vent'anni lontano dalla scena politica del suo Paese, Mir Hossein Mousavi, il competitor numero uno di Mahmoud Ahmadinejad alla poltrona di decimo presidente della Repubblica Islamica d'Iran. Ultimo Primo Ministro, prima dell'abolizione costituzionale della carica, architetto e pittore, presidente dell'Accademia dell'Arte iraniana e membro del Consiglio del Discernimento, Mousavi aveva guidato l'Iran dal 1980 al 1989 sotto la presidenza di Khamenei, attuale Guida Suprema.
I sondaggi sin qui divulgati in verità non concedono troppo alla speranza di battere Ahmadinejad il prossimo 12 Giugno, ma lui continua a crederci con forza e caparbietà, come quando di fronte alla discesa in campo di Mohammed Khatami, presentata come la svolta che avrebbe rafforzato e rilanciato il movimento riformista, decise di andare avanti e non ritirarsi, costringendolo ad alzare bandiera bianca in nome dell'unità degli eslahtalaban. Khatami era al suo fianco, sabato scorso, al comizio ufficiale di apertura della campagna elettorale, organizzato simbolicamente, allo stadio Azadi di Teheran, a 12 anni esatti dalla entusiasmante vittoria dell'ex presidente del 1997. «Giovani iraniani votate per lui!», il forte appello di Khatami alle migliaia di persone presenti in uno sventolio di bandiere verdi, colore simbolo dei sostenitori di Mousavi. «Il prestigio del nostro Paese non deriva da una persona sola», ha tuonato Mousavi riferendosi ad Ahmadinejad. «Tutti gli iraniani vi contribuiscono, ma hanno contro l'attuale Amministrazione che mina questo grande prestigio».
Mousavi ha grandi difficoltà a combattere contro il suo avversario e, sebbene diriga il giornale Salame-ye Sabz, affronta di fatto un presidente in carica con le armi spuntate dall'enorme sproporzione dei mezzi di comunicazione a disposizione. Le radio e le tv sono veri e propri megafoni governativi ed è notizia di ieri che Facebook, il social network utilizzato dai riformisti per diffondere il programma di Mousavi, avrà in Iran l'accesso bloccato sino al giorno delle elezioni. In tanta avversità c'è però una trovata innovativa da tutti giudicata una vera e propria svolta nella sua campagna elettorale. Risponde al nome di Zahra Rahnavard, sua moglie e madre dei suoi tre figli, sempre presente ai comizi del marito, sempre più protagonista della sua campagna e in grado di galvanizzare in modo insperato le folle che vengono ad ascoltarlo. I meeting di Mousavi sono pieni di giovani che letteralmente impazziscono per questa scultrice, per otto anni rettore all'Università femminile al Zahra di Teheran. Mousavi presenta agli iraniani la loro potenziale first lady, dandole un ruolo preminente nella sua corsa presidenziale, cosa mai avvenuta in trent'anni di Repubblica Islamica.
Lei ci ha preso gusto, si scaglia contro gli anni di Ahmadinejad, si dice speranzosa in «una nuova era in cui la libertà di parola, scrittura e pensiero non vengano più oscurate», promette tempi nuovi «senza più prigionieri politici e senza più studenti in prigione» e chiede che «la fine delle discriminazioni contro le donne non restino una semplice speranza». I coniugi Mousavi si lasciano fotografare mano nella mano, lui sorride quando Zahra, facendo intravedere il foulard firmato sotto lo chador, fa ballare ragazzi e ragazze scatenandoli nonostante i veti islamici.
Il 70% degli iraniani è sotto i trent'anni d'età e Mousavi sa bene che per intercettare i loro voti, uno stile così diverso vale tanto di più che continuare a raccontare i suoi miracoli negli anni neri della guerra con l'Iraq, in cui salvò l'economia del suo Iran e riuscì a garantire il pane ai più poveri. «Un Iran progressista con legge, giustizia e libertà!» è lo slogan della campagna elettorale di un uomo stimato dal Padre della Rivoluzione, l'Imam Khomeini, che ritorna dopo vent'anni nell'arena della politica iraniana con la convinzione di rappresentare un segno di novità e cambiamento e raccogliere consensi tra i tanti conservatori delusi dal radicalismo eccessivo del loro attuale Presidente. Dopo la morte di Khomeini, Mousavi aveva preferito l'arte alla politica, manifestando con veri e propri capolavori tutto il suo genio artistico. È lui l'architetto della bellissima cupola "Imam Khomeini" nel santuario di Qom, suoi i progetti dell'Università dei Martiri di Teheran e del cimitero di Isfahan. Convinto nuclearista, sostenitore dell'etica in economia, deciso a valorizzare il settore privato e a ricostruire relazioni con il mondo per ravviare un Paese allo sbando, Mousavi ha un grande sogno: trattenere l'emorragia dei giovani eccellenti che continuano a lasciare l'Iran. «Quando all'orizzonte non c'è speranza per lo sviluppo, la ricerca e la realizzazione della creatività, è naturale che i migliori studenti vengano attratti dalle proposte che li allontanano dal nostro meraviglioso Paese».

Corriere della Sera 26.5.09
Ricerca della paleontologa Falk dell’università della Florida
Einstein, il segreto del genio solchi anomali nel cervello
Ha una forma diversa la parte associata ai numeri
di Giovanni Caprara


Il Cremlino aveva creato un Istituto del cervello nel quale era stato esaminato anche il cervello di Lenin ( nella foto).
Fino al crollo dell’Unione Sovietica vennero conservati tra gli altri i reperti di Stalin, Breznev Majakovskij, Bulgakov, Tupolev e Sacharov

MILANO — La genialità di Albert Einstein forse ha lascia­to traccia nel suo cervello. Con questa convinzione la pa­leoantropologa Dean Falk del­l’Università della Florida ha elaborato e studiato le imma­gini della materia cerebrale del grande scienziato arrivan­do ad una conclusione che giudica «interessante». Sui lo­bi parietali normalmente as­sociati alle abilità matemati­che e alla cognizione spaziale e visuale la scienziata ha iden­tificato in superficie una doz­zina di variazioni rispetto alla norma. Sono rilievi e solchi che fanno pensare ad una riorganizzazione diversa da­gli standard e frutto ipotizza­bile delle straordinarie capaci­tà intellettuali.
Dean Falk è una illustre stu­diosa dell’evoluzione cerebra­le dei primi uomini, dei quali ha indagato anche le origini del linguaggio e le doti cogni­tive. Ora applicando le stesse tecniche ha voluto esplorare quanto è rimasto della prezio­sa materia grigia appartenuta al fisico più grande del Vente­simo secolo che ha rivoluzio­nato l’idea dello spazio e del tempo.
Einstein moriva all’ospeda­le di Princeton nell’aprile 1955. Aveva 76 anni, e sul co­modino trovarono le ultime formule con le quali cercava di creare una teoria del tutto. Aveva rifiutato un rischioso intervento chirurgico avver­tendo i medici che decideva lui quando morire. E dava di­sposizioni perché il suo cor­po venisse cremato e le cene­ri sparse al vento in un luogo segreto.
Così accadeva, ma non per il cervello che venne asporta­to durante l’autopsia e conse­gnato al patologo Thomas Harvey il quale lo trattò per la conservazione eseguendo una serie di fotografie ora uti­lizzate da Dean Falk. Poi ne ri­cavò 240 sottili campioni che montò su vetrini da microsco­pio distribuiti agli studiosi che ne facevano richiesta. Il ri­manente lo pose in un conte­nitore sottovuoto che tenne con sé per decenni nei vari spostamenti fra gli Stati Uni­ti. Egli pure cercò di analizzar­lo senza però riscontrare nul­la e nel 1998 restituiva il tutto al Medical Center dell’Univer­sità di Princeton che ora lo conserva rigorosamente.
Nel 1985 un neuroscienzia­to dell’Università di Califor­nia, Marion Diamond, pubbli­cava i primi risultati ottenuti dall’esame di alcuni vetrini sostenendo la presenza di un maggior numero di cellule ce­rebrali rispetto alla norma. Negli anni seguenti Sandra Witelson alla McMaster Uni­versity di Hamilton (Ontario) raccontava che le sue analisi mostravano nell’ area parieta­le associata alla visione e al ra­gionamento un’estensione del 15 per cento maggiore nei confronti del normale. Inol­tre notava che il cervello in quella zona era privo di una tradizionale fessura fonden­do insieme due aree molto importanti. Seguendo questi indizi Dean Falk ha voluto ap­profondire trovando altre anomalie.
«Il cervello di Einstein è ve­ramente inusuale — com­menta — Almeno in superfi­cie sembra diverso dagli al­tri ». Ma lei stessa ammette che è difficile stabilire se le forme osservate siano causa od effetto del genio. Ciò non toglie che i tentativi di indivi­duare qualche prova si ripeta­no nel tempo. E non solo per Einstein. Il Cremlino aveva addirittura creato un Istituto del cervello nel quale aveva invitato il neu­rologo tedesco Oscar Vogt per esaminare il cervello di Lenin. E nell’Istituto si conser­varono e si indagaro­no fino al crollo del­l’Unione Sovietica i cervelli di Stalin e Breznev ma anche di Majakovskij e Bul­gakov, di Tupolev e Sacharov. Mai alcuna scoperta, tuttavia, emerse dagli illustri reperti.
L’attrazione per il genio di Ulm è però troppo forte per non attrarre i ricercatori. Dalla sua mente usci­rono 300 memorie scientifiche che rivo­luzionarono la scienza ma lui stesso affermava di non ave­re parole per spiegare i suoi risultati. «Una nuova idea ar­riva all’improvviso e in ma­niera piuttosto intuitiva», di­ceva. «Vorrei che Einstein fos­se vivo — conclude Dean Falk — e forse ponendogli certe domande scopriremmo come egli pensava».

Corriere della Sera 26.5.09
Geografie Un incontro internazionale alla Fondazione Cini. Sulle tracce di Matteo Ricci
Cina, la rivoluzione silenziosa
Il sinologo François Jullien: il Tao ha creato la superpotenza
di François Jullien


Che cosa s’intende per «trasfor­mazione silenziosa»? L’eroe del modo di narrare europeo non si pone soltanto dei fini, deve ugualmente agire per far sì che la forma ideale che ha tracciato accada. Sappiamo che uno dei temi più importanti del pen­siero cinese, di qualsiasi scuola esso sia, ma particolarmente ricorrente nel taoi­smo, è il «non-agire» ( wu wei), che non può essere inteso come disimpegno, e an­cor meno come rinuncia o passività. Se il saggio o lo stratega non agiscono, essi «trasformano» ( hua): cioè fanno in modo che a poco a poco, con il loro influsso, la situazione evolva nel senso desiderato. La trasformazione si manifesta precisamente come il contrario dell’azione. L’azione, per il fatto d’essere locale, momentanea e rife­rita a un soggetto (agisco «qui e adesso»), si smarca dal corso delle cose e si fa rimar­care, divenendo in tal modo oggetto di un racconto (l’epopea). La trasformazione è invece troppo globale e progressiva, fon­dandosi sul corso delle cose, per lasciarsi reperire nel proprio processo. In questo è «silenziosa». E solo a cose fatte se ne con­stata il risultato. Prendiamo ad esempio le «trasformazioni silenziose» che tutti noi viviamo, quelle del riscaldamento climati­co o dell’invecchiamento. Le chiamo «si­lenziose », perché non le percepiamo. L’azione, ci dicono i cinesi, è tanto più visi­bile in quanto forza la situazione ma, ri­guardo ai suoi effetti, resta un epifenome­no. La trasformazione è invece effettiva, e addirittura è tanto più effettiva in quanto non la vediamo all’opera e non fa evento.
In che cosa tali nozioni possono chiari­re il presente della Cina? Non mi pare che la Cina, ancora oggi, progetti un piano per l’avvenire, persegua un fine preciso o una finalità, anche imperialistica; ma che sfrut­ti al meglio i fattori favorevoli — in qualun­que campo: economico, politico, interna­zionale, e in qualunque occasione — per rafforzare la propria potenza. È soltanto adesso che cominciamo, un po’ sbalorditi, a constatarne i risultati: in qualche decen­nio, la Cina è diventata la grande fabbrica del mondo e crescerà ancora. E questo sen­za grandi avvenimenti di rottura. Deng Xia­oping, il «Piccolo timoniere», è stato il grande trasformatore silenzioso della Ci­na. Ha fatto passare gradualmente la socie­tà cinese, alternando liberalizzazione e re­pressione, da un regime socialista a un re­gime ipercapitalista, senza mai dover di­chiarare una vera e propria spaccatura fra i due regimi.
Prendiamo l’immigrazione cinese: si estende da un quartiere all’altro, ogni nuo­vo arrivato fa venire pian piano anche i propri cugini; le celebrazioni cinesi assu­mono da un anno all’altro maggiore im­portanza, e così via. Ma la transizione è tal­mente continua che non ce ne rendiamo conto e di conseguenza restiamo senza ap­pigli per arginarla. Tale trasformazione, in­somma, è così progressiva e silenziosa, che non la vediamo. Ma ecco che, d’im­provviso, un giorno ci accorgiamo che nel­la nostra strada tanti negozi sono cinesi...
Se osserviamo la storia della Cina con­temporanea, constatiamo che in questo Pa­ese non è accaduto quel che si è verificato nell’Unione sovietica che ridiventava la Russia: il XX congresso, la destalinizzazio­ne, la perestroika, eccetera. In Cina, cioè, non c’è stato un taglio con il passato; e per questo lo stesso partito è potuto restare al potere. C’è stata una demaoizzazione in no­me di Mao, ricorrendo ad altre sue citazio­ni che incitavano a un maggior realismo.
Ricordo il mio stupore di studente in si­nologia quando un bel giorno mi accorsi che la citazione di Mao, riportata in un ri­quadro nella parte superiore del giornale, non era più in grassetto: ma le citazioni ab­bondavano nel resto della pagina. Poi le ci­tazioni di Mao hanno cominciato a cambia­re, se ne sono preferite altre; poi sono di­ventate più rare. Poi, poi... Questo modo di guidare il cambiamento ha un duplice effetto: da un lato, evita che si verifichi una rottura che mette in questione la legit­timità del potere; dall’altro, obbliga a vive­re nella connivenza, obbliga a una lettura in diagonale, e crea complicità con la tra­sformazione avviata. In effetti, lo scarto è ogni volta troppo piccolo, o troppo sfuma­to, perché ci si possa ribellare. Mi trovavo in Cina quando Deng Xiaoping tornò in po­litica. Come fu riabilitato? Dopo la morte di Mao, nel settembre 1976, si continuò la linea della «critica di Deng». Semplice­mente, le formule annesse, che sosteneva­no quella linea-guida, divennero progressi­vamente più rare. Poi, un bel giorno, è ap­parsa l’espressione: «Errori di Deng Xiao­ping ». E tutti hanno capito che era stato riabilitato, o piuttosto che era già tornato al potere. Infine, ecco riapparire l’espres­sione: «Compagno Deng Xiaoping».
Questo genere di strumenti teorici è ne­cessario per capire il caso unico che la Ci­na odierna rappresenta: quello di un regi­me ipercapitalista che si nasconde sotto un coperchio comunista, in ogni caso quel­lo di una struttura gerarchica burocratizza­ta. Lo stesso Partito comunista si è molto trasformato. La Cina ha saputo rinnovare la propria élite, da una generazione all’al­tra, grazie anche ai soggiorni all’estero dei propri dirigenti. Attualmente, alla direzio­ne del Partito c’è una generazione di mana­ger. Ma il Partito è rimasto la struttura del potere, continua a comandare e a richia­mare all’ordine coloro che protestano.
L’incontro del pensiero cinese e del pen­siero europeo dovrebbe indurci a pensare questo: che l’universale non nasce sponta­neamente, insieme alla «natura umana», ma non è altro che un orizzonte che con­duce a mettere le culture una di fronte al­l’altra, e soprattutto fornisce l’esigenza di tale confronto. Poiché, oltre a questo uni­versale, vanno anche prese in conto le cate­gorie dell’uniforme e del comune. Il comu­ne è quello che condividiamo. Sta nella ca­tegoria dell’intellegibile; è il motivo per cui, fra cinesi e europei, possiamo capirci e dialogare. Quanto all’uniforme, esso è il contrario dell’universale, o la sua perver­sione: non si basa su una necessità della ragione, ma su una comodità della produ­zione (come lo standard, lo stereotipo). È da questa dittatura discreta dell’uniforme che oggi siamo minacciati.
Dobbiamo quindi smettere, in Europa, di utilizzare l’«Estremo Oriente» come se fosse un rovescio mistico della ragione eu­ropea: farne un rovescio, significa ancora rimanere chiusi in noi stessi; o di utilizzar­lo come una semplice variazione della ra­gione europea di cui il pensiero cinese, se si proiettano su di esso le evidenze raziona­li dell’Europa, non sarebbe più che un fac­simile?
Andando incontro al pensiero cine­se e al pensiero europeo, sarà bene adope­rarsi insieme per far di nuovo lavorare la ragione, aprendo per essa nuovi cantieri.
(traduzione di Daniela Maggioni)

Il Tempo 25.5.09
Deluso Bellocchio, ma grande successo per "Vincere"
Cannes resta lontana dall'Italia
di Gian Luigi Rondi


Sono deluso, dispiaciuto, sconcertato. A Cannes sono stato due giorni, ho visto solo "Vincere", il film diretto da Marco Bellocchio e interpretato da Giovanna Mezzogiorno e non posso quindi fare confronti con gli altri film che la giuria ha premiato.
Da critico, da conoscitore attento del cinema italiano dal dopoguerra ad oggi, sento di poter sostenere che Bellocchio, con quel film, ha realizzato la sua opera maggiore e che Giovanna Mezzogiorno, interpretandolo, ci ha dimostrato, nel dramma, nel dolore, nella disperazione di aver legittimamente raccolto il testimone di Anna Magnani, quella di «Roma città aperta», della «Voce umana», di «Nella città l'inferno», di «Bellissima».
Per merito, naturalmente, della finezza, della sensibilità e del saldo dominio di tutte le espressioni anche più difficili con cui Bellocchio l'ha aiutata a creare il suo personaggio. Un personaggio dolorosissimo — una moglie letteralmente «cancellata» da Mussolini e spinta scientemente negli abissi della pazzia — risolto prima narrativamente poi stilisticamente con rigore e sapienza. Al centro di un film in cui la cronaca e la storia, spaziando dagli anni Dieci ai Quaranta, erano rappresentate con ritmi velocissimi resi più autentici, anche visivamente, da immagini di severissima finzione accompagnate ad altre, che quasi le assimilavano, riprese con creatività geniale dal repertorio cinematografico dell'epoca. Per far due volte vero. Un capolavoro. Come in questi anni il cinema italiano ha ripreso a proporci con commovente generosità.
I premi sono importanti, certo, ma io ero nella grande sala del Palais alcune sere fa e alla proiezione di «Vincere» sono stato testimone di un successo come di rado i festival ci offrono: tutto il pubblico in piedi e, verificati con l'orologio, dodici minuti di applausi scroscianti punteggiati ad ogni momento da grida forti di «Bravò». Bellocchio, Giovanna Mezzogiorno e gli altri interpreti non ci dimenticheranno. I veri premi sono quelli.

lunedì 25 maggio 2009

Repubblica 25.5.09
Come previsto l'oro va a "Il nastro bianco" coprodotto dall´Italia, a secco con Bellocchio
Vince Haneke, ma volano fischi alla giuria
Contestazioni ad alcuni premi nati anche da feroci divisioni fra i giurati
Lunga e commossa standing ovation di tutto il teatro per l´anziano Alain Resnais
di Maria Pia Fusco


Cannes. La Palma d´oro va a Il nastro bianco: mai una previsione diffusa da tempo, da quando fu presentato il programma con il film di Michael Haneke in concorso e una giuria presieduta da Isabelle Huppert, era stata così rispettata. Ed erano anni che un verdetto non divideva così vivacemente il pubblico e la stampa di Cannes. «Sono felice di aver premiato il film migliore e di poter dimostrare il mio amore non solo per un amico ma anche per un regista di grande umanità e di profonda etica, che non lancia messaggi, ma racconta storie con un suo personalissimo stile e lascia a ciascuno la sua riflessione», commenta la presidente al termine della cerimonie. E su fischi e contestazioni di una parte dei presenti, taglia corto: «Haneke è un regista che si ama o si detesta. Un grande artista è così». Haneke è «contento. Non fiero, perché potrei esserlo di un film perfetto, e per fortuna i giurati non hanno visto le imperfezioni. Sono contento, anzi, finalmente posso rispondere sì a mia moglie che ogni tanto mi pone la domanda tutta femminile "Sei felice?"».
Che i premi di Cannes quest´anno fossero targati Huppert si è intuito fin dai primi annunci: la regia a Brillante Mendoza per un film amato da pochissimi come Kinatay, l´ex aequo a Fish tank, forse l´unico accolto senza proteste, e al film di Park Chan-wook Thirst, soprattutto la sceneggiatura di Spring fever, una storia di rapporti sessuali intrecciati sui quali ancora si discute su chi faceva sesso con chi, mentre c´erano film scritti in stato di grazia come Looking for Eric di Ken Loach. Charlotte Gainsbourg, migliore attrice, è stata applaudita per nazionalismo francese e ogni voce polemica è stata soffocata dai suoi ringraziamenti alla madre e al padre «con la speranza che sia sempre fiero di me», ed è subito commozione.
Gli unici premi accolti con favore generale sono stati quelli a Un profeta di Jacques Audiard e all´attore tedesco Christof Waltz, il nazista di Inglourious basterds che ringrazia Tarantino «incontro unico nella mia vita, perché mi ha restituito la vocazione», spiegando poi che «faccio questo lavoro da troppi anni. Era arrivato al momento del dubbio e del buio».
Il momento più intenso ed emozionante della serata, condotta con humour da Edouard Baer - divertente il numero con Terry Gilliam, in lacrime per il finto equivoco di premiato e non premiante - si deve al premio speciale ad Alain Resnais, 87 anni, un riconoscimento dovuto ad un maestro che, dice, «dopo tanti anni ho ancora la capacità di provare gratitudine per il cinema e per tutti quelli che lo fanno. E posso ancora commuovermi». Si commuovono in tanti, piange in platea Sabine Azema, mentre un lungo applauso e una standing ovation salutano Resnais.
È stata una premiazione in cui neanche uno dei riconoscimenti è stato dato all´unanimità. E, così come era parso eccessivo, malgrado la grandezza dell´attrice, il discorsetto di Isabelle Huppert sulla grande amicizia che si era stabilita tra i giurati e sul rimpianto della fine dell´incontro - per fortuna smontato da Baer che consiglia scambio di numeri di telefoni - in pochi hanno creduto alle dichiarazioni di amicizia e di democrazia di ciascuno. Anzi, le voci di risse furibonde hanno trovato una conferma. L´unica a farne cenno è Robin Wright Penn. «So che si è parlato di grandi litigi e di risse al coltello. Abbiamo discusso, è vero, ma comunque ciascuno di noi ha avuto modo di esprimere la sua opinione».

Repubblica 25.5.09
Trionfa il cinema in nero non è tempo di glamour
Sangue e violenze nelle opere premiate
Vince il "Nastro bianco" una Palma annunciata
di Natalia Aspesi


Forma e riflessione convivono nel film vincitore: un´idea di cinema alto che Cannes trasmette
Pochi divi ma molti attori giovani e bravi quest´anno E nessuno ne ha sofferto

VINCE la Palma d´oro il film più inquietante di una mostra segnata da storie di sangue e violenza: Il nastro bianco del maestro della crudeltà umana, l´austriaco Michael Haneke, racconta in un meraviglioso bianco e nero, senza immagini cruente, come nascono le radici del male.
E come la sottomissione al potere autoritario della famiglia e della religione possano generare società mostruose e totalitarie. L´abbraccio tra il regista, 67 anni, e la presidente della giuria Isabelle Huppert, è stato lungo e commosso: nel 2001 lei era stata l´efferata masochista del suo film La pianista qui presentato e qui premiato, e ha dovuto superare i suoi dubbi etici (non ci sarà un conflitto di interesse?) per convincersi che Il nastro bianco (prodotto anche dall´italiana Lucky Red) coronava con la sua perfezione formale e la sua capacità di trasmettere riflessioni e angosce, l´idea di cinema alto che il Festival vuole giustamente sostenere. Non c´è stato posto, nelle decisioni di una giuria molto agguerrita e litigiosa, per l´unico film italiano in concorso, Vincere di Bellocchio, che pure era molto piaciuto a pubblico e critica ed era stato sino all´ultimo tra i possibili candidati. Ma i film belli erano tanti, e i premi pochi, quindi hanno prevalso i gusti di Huppert, Argento, Ceylan, Kureishi, Wright Penn, Shu Qi, Gray, Tagore III e Chang Dong, portati vistosamente al cinema della brutalità se non del raccapriccio, forse ritenuto più adatta di quello sereno a rappresentare il nero presente.
Quindi, ferocia carceraria in Un profeta del francese Jacques Audiard, che sino all´ultimo ha conteso la Palma ad Haneke e a cui poi è andato il gran premio della giuria; truculenza criminale tra giovani sbandati in grado di torturare una prostituta e poi di tagliarla a pezzi gettandoli ad uno ad uno dall´automobile, nel film Kinatay del filippino Brillante Mendoza, premio della regia; horror ematico con prete vampiro belloccio che vampirizza l´attrice più bella di tutto il festival, in Thirst (Sete) del coreano Park Chan-wook, premio della giuria ex aequo con Fish Tank della bionda signora inglese Andrea Arnold, che trattando solo di una adolescente di famiglia dissestata in periferia sordida, violentata dal compagno della mamma, può definirsi, dato il trend della mostra, film romantico.
Quanto al premio per i migliori attori, si va dall´efferatezza nazista in sublime chiave comica del geniale attore tedesco Christoph Waltz del film dell´americano Tarantino, Inglourious Basterds, alla stregoneria malvagia con autolesionismo barbaro della delicata Charlotte Gainsbourg dell´Antichrist del danese Lars von Trier. Giustamente, la Huppert ha voluto creare un premio speciale del festival per Alain Resnais, 87 anni fragili, che è salito sul palco accompagnato dalla più lunga ovazione della serata: abito nero, camicia rossa, cravatta nera, scarpe bianche da ginnastica: l´autore di film che hanno segnato la storia del cinema come Notte e nebbia e L´anno scorso a Marienbad, ha portato in concorso il film più lieve, più intelligente, più umano di tutta la rassegna, Les Herbes folles, in cui alla fine anche la morte appare come un gioco, un incidente trascurabile, una simpatica conclusione.
L´Asia stravince quest´anno, se si aggiunge al film coreano, e a quello filippino, anche quello cinese che ha ottenuto il premio per la miglior sceneggiatura: Febbre di primavera di Lou Ye, cui è stato proibito di filmare nel suo paese, è stato girato di nascosto e pericolosamente nelle strade di Nanchino, per raccontare promiscui amori omosessuali, essendo l´omosessualità uno dei temi più ricorrenti nei film delle varie sezioni. Stravincono in tutti i film gli attori molto bravi ma quasi mai glamour, spesso giovani, spesso qualsiasi, facce nuove quasi sempre sconosciute di un nuovo cinema che non ha bisogno di costosi divi per essere appassionante, che anzi i divi banalizzerebbero. Per le grandi star c´è il tappeto rosso, ci sono gli abiti e i gioielli da indossare, ci sono le fotografie e le video riprese, ci sono i privè alle feste dove tutti si divertono tranne loro, c´è la folla che li vuole vedere e li applaude. Quest´anno ce ne erano pochissime, nei film e sul red carpet, e quasi nessuno se ne è accorto.

Repubblica 25.5.09
La giurata
Asia Argento: "Bellocchio? Ne abbiamo parlato solo una volta"
di m. p. f.


CANNES - C´è stato un film che avrebbe voluto vedere tra i premiati e invece non è stato discusso? La domanda è alla giurata Asia Argento e il riferimento implicito naturalmente riguarda "Vincere" di Marco Bellocchio, unico italiano in concorso. La risposta è secca, nervosa: «Avete visto i film che sono stati premiati? Possiamo parlare solo di quelli, dei nove che hanno avuto riconoscimenti. E parliamone con accenti positivi. Comunque di Bellocchio abbiamo parlato una volta sola. E bene». È evidente che qualcosa da dire l´avrebbe, ma bisogna attenersi al regolamento di quest´anno, contiene l´invito ai giurati di non raccontare quello che è successo durante le riunioni della giuria. «Non si può spiare dietro le porte, non è il caso di raccontare in giro le nostre discussioni». E, come tutti gli altri giurati, parla di un clima democratico, ciascuno di noi ha avuto la possibilità di esprimere le proprie idee e ha ascoltato quelle degli altri. Ho ascoltato gli altri e ho imparato anche a cambiare idea». Il termine democrazia torna nei commenti di tutti i giurati come una parola d´ordine, anche con il sarcasmo di Kureishi, il quale, dopo aver detto di aver «visto nei film di questo festival cose che non avevo mai visto nella vita», a proposito di "Kinatay", premiato per la regia di Brillante Mendoza, uno dei più contestati, sottolinea che «non è detto che il pubblico debba per forza vederlo. Per me so che non ci sarà una seconda volta».

Gazzetta del Sud 25.5.09
Una doccia fredda sul regista e gli attori di "Vincere"
Delusione di Bellocchio


CANNES. Nessun premio per Marco Bellocchio ed il suo film "Vincere" al festival di Cannes. A poche ore dalla cerimonia di chiusura del festival è forte la delusione non solo del regista ma anche degli attori che hanno recitato nel film. La pellicola, che racconta la storia, per certi versi ancora poco nota, della relazione tra Benito Mussolini e Ida Dalser, dalla quale nacque nel 1915, Benito Albino Mussolini, cui il duce diede la paternità, è stata, a quanto si è appreso, in predicato fino all'ultimo per entrare nella rosa del palmares.
Marco Bellocchio era pronto a tornare a Cannes da Torino, dove sabato ha presenziato alla prima del film interpretato da Giovanna Mezzogiorno e Filippo Timi. A fine mattinata, quando le indiscrezioni sul verdetto della giuria sono cominciate a trapelare, la doccia fredda per il film italiano coprodotto da Rai Cinema.

l’Unità 25.5.09
Il verdetto Palmarés ultra-annunciato, accolto da applausi e fischi. Huppert: «Sono felice»
Commozione per il premio speciale al vecchio Resnais. In giuria nessuno ha difeso «Vincere»
La Palma d’oro ai bimbi nazi
Haneke vince, Bellocchio a casa
di AL.C.


Isabelle Adjani consegna la Caméra d’or, che è un premio bellissimo e va a un esordiente che se lo merita, l’australiano Warwick Thornton emozionato come un bimbo. Doveva consegnare la Palma d’oro, la Adjani, ma il cerimoniale cambia in corsa e si mormora che l’altra grande Isabelle – la Huppert, presidente della giuria – abbia imposto la retrocessione della rivale. Mezz’ora più tardi Isabelle Huppert assegna la Palma d’oro del 62esimo festival di Cannes «con una certa emozione». Sono le sue parole prima di chiamare sul palco Michael Haneke, vincitore con Il nastro bianco. È un trionfo annunciato. Le scommesse su Haneke si erano moltiplicate non appena si era saputo che la Huppert, sua vecchia compagna di lavoro (insieme sfiorarono la Palma a Cannes con La pianista), avrebbe diretto la giuria di Cannes 2009. Chiamiamolo conflitto d’interessi, noi italiani ne vediamo di peggiori tutti i giorni. Quando Isabelle si presenta in conferenza stampa con gli altri giurati, la prima domanda non può che essere quella, e la risposta, prevedibile, avremmo potuto scriverla un mese fa: «Sono felice di aver premiato Haneke perché è un grande regista, è per questo che in passato ho voluto lavorare con lui. Stimo il suo lavoro, è un autore di grande umanità che prende strane vie, e quindi è affascinante, va al fondo dell’anima umana. Credo che Il nastro bianco sia un film importante, filosofico, etico».
Dopo anni di corteggiamento, Haneke vince finalmente quella Palma che sembrava dover diventare una chimera. La vince per un film in bianco e nero, sull’incubazione del nazismo nella Germaniadegli anni ‘10, diverso dai suoi più famosi, non eccezionale. Il verdetto è accolto, in sala stampa, da applausi e fischi. Il film divide. E non mancano fischi anche per altri: al filippino Brillante Mendoza per la miglior regia, a Charlotte Gainsbourg che ringrazia con un filo di voce (sembra sua madre quando sussurrava «Je t’aime moi non plus») e alla fine saluta proprio come mamma Jane Birkin, e ricorda papà Serge augurandosi «che sia orgoglioso di me». L’unico momento che unisce tutti è il «prix exceptionnel», assegnato ad Alain Resnais per Les herbes folles. Ed è bello che la Huppert lo annunci definendo Resnais «il regista di Notte e nebbia, di Hiroshima mon amour, di L’anno scorso a Marienbad…»: per un attimo il profumo di capolavoro, il respiro antico del grande cinema aleggia in una sala che fino a quel momento ha premiato quasi esclusivamente film disgustosi. Vedere Resnais salire sul palco, con quei bei capelli bianchi e gli occhiali neri per proteggere gli occhi dai flash, e ringraziare commosso per un premio che non gli rende giustizia è l’unica immagine bella che ci portiamo via da questa premiazione.
La parola ai giurati
In conferenza stampa si tenta di sapere dalla giurata italiana, Asia Argento, se Vincere di Marco Bellocchio ha avuto qualche chance. La risposta è sprezzante: «Avete visto il palmarès, e chi ha vinto, parliamo di chi ha vinto». È evidente che Bellocchio non ha avuto difensori in giuria, ma fa parte del gioco. Su eventuali discussioni fra giurati, Asia la spara grossa: «Wittgenstein diceva: su ciò di cui non si può parlare, è meglio tacere». Citazione un tantino fuori contesto. Così come appare fuori luogo l’ultima frase di Christoph Waltz, vincitore per Inglorious Basterds, che dopo aver parlato correntemente in 3 lingue come il suo personaggio chiosa: «Vorrei ringraziare il tenente colonnello Landa e il suo inimitabile creatore, Quentin Tarantino». Va bene per il creatore, ma la creatura è un tenente delle SS ed è la prima volta che un nazista cacciatore di ebrei, per quanto immaginario, viene ringraziato al Palais di Cannes. Una serata da dimenticare.

Corriere della Sera 25.5.09
La giuria Asia Argento: non ho il dovere di spiegare. Isabelle: felicissima di restituire a Michael quel che mi ha dato in passato
«Bellocchio bocciato? Ne abbiamo parlato bene una volta»
di Giovanna Grassi


CANNES — Domanda: «Marco Bellocchio e il suo film sono stati presi in consi­derazione oppure no?». Asia Argento risponde: «Abbiamo parlato tra noi membri della giuria una volta di Vincere e ne abbiamo parlato bene. Per il resto, non mi sento in dove­re di spiegare che cosa è acca­duto dietro la porta delle no­stre riunioni. I premi esprimo­no le nostre scelte».
Con questa risposta, Asia ha zittito tutti. Gli spagnoli, ar­rabbiatissimi perché il pre­mio della giuria, fischiato in sala stampa, è andato a Bril­lante Mendoza per Kinatay e non ad Almodòvar. Gli an­glo- americani, seccati per l’as­senza anche solo di un pre­mio per Bright star della Cam­pion e per Inglourious Baster­ds (anche se Christoph Waltz, interprete del film di Taranti­no, è stato scelto come mi­glior attore), che hanno com­mentato: «Questi premi sono anti-pubblico. Vedremo i ri­sultati degli incassi e della di­stribuzione internazionale dei film votati».
Madame Cinema, alias Ma­dame la Presidente, ossia l’in­tegerrima Isabelle Huppert, può essere contenta. Il verdet­to, esattamente quello che vo­leva, le ha dato massima sod­disfazione premiando il suo regista. Decisa, dichiara: «So­no felicissima di restituirgli tutto ciò che mi ha dato in passato. Il suo film è molto importante per me e non solo stilisticamente. Amo sempre il lavoro di questo grande regi­sta, la sua umanità, il suo stile totalmente etico e il suo mo­do sottile e profondo di ana­lizzare gli animi umani e la so­cietà in parallelo».
Parole nette, ma nessuno dei giurati parla di «unanimi­tà ». Anzi, dicono tutti, in pri­mis Robin Wright Penn e il re­gista americano James Gray: «Abbiamo molto e democrati­camente discusso, abbiamo trovato accordi e cambiato quando era necessario le no­stre idee, con amicizia e con un dialogo che ci ha arricchiti tutti». Ironico lo scrittore Ha­nif Kureishi, che ha aggiunto: «Tutto vero, ma posso anche dire di aver visto nei film pre­sentati cose che mai nella vita aveva visto e anche che molti film (ha aggiunto con aria spossata, ndr.) erano davvero molto, molto lunghi».
Asia Argento, e questo era prevedibile sia per lei sia per Isabelle Huppert, due attrici esperte in ruoli «estremi», si dimostra loquace solo quan­do parla del premio a Charlot­te Gainsbourg per il film di Lars von Trier Antichrist: «La considero una sorella france­se per la sua carriera, il suo co­raggio, la sua capacità di ade­rire totalmente a ogni sua in­terpretazione ».
Ribadisce Robin Wright Penn: «Certo, nel dialogo ab­biamo cambiato idee, le ab­biamo plasmate su quelle de­gli altri e ora siamo tutti fieri del risultato».

l’Unità 25.5.09
La macchia della vergogna
di Conchita De Gregorio


Vedete? Non è il processo Mills che spiega quanto e come abbia corrotto col denaro, non sono i toni mussoliniani di quando dice il Parlamento è inutile e dannoso quel che macchia sfregiandola - agli occhi degli italiani - la cappa bianca dell'imperatore. È la sua malattia senile, è quella folle corsa all'eterna giovinezza che lo porta da anni ad assumere farmaci che ne potenzino il vigore, dunque la virilità, che lo costringe a trapiantarsi pezzi di cute a intossicarsi il sangue e poi a lavarlo con le macchine. Le donne attorno a decine. Cinquanta al tavolo, ci raccontava giorni fa Riccardo De Gennaro. Una quarantina a Capodanno in Sardegna, alloggiate come al campeggio mariano in bungalow da quattro. In principio erano attrici, soubrettes portate dalla corte compiacente. Aspiranti, sempre più giovani. Ragazzine, infine minorenni. Porta un'amica, ha detto a Noemi Letizia che aveva allora 17 anni. Noemi ha portato nella villa sarda Roberta, 17 anni anche lei. Dormivano con altre «due gemelline». Non posso vivere accanto a un uomo che «frequenta minorenni», ho pregato in ogni modo chi gli sta vicino di accudirlo «come si fa con una persona che non sta bene» ha detto sua moglie Veronica. Però poi lui è andato a Porta a Porta dall'amico Vespa e ha raccontato una serie impressionante di menzogne. Senza che nessuno lo contraddicesse: nella nostra - nella sua - tv non si usa. Che era un vecchio amico di famiglia, che lui è un uomo del popolo e perciò frequenta le feste da debuttanti delle adolescenti di Portici. No, non è per questo. È perché a volte si appassiona delle ragazze da catalogo di cui Emilio Fede e altri complici «dimenticano» sul suo tavolo. Alle bambine, poi, ci si appassiona con facilità.
Ieri a San Siro glielo hanno rimproverato i tifosi del suo Milan. Lo so, è terribilmente desolante ma il termometro del consenso politico è questo: lo stadio. San Siro, scrive Rinaldo Gianola, è il luogo dove la curva «dava del tu a Papi ben prima di Noemi». «Quante Champions League avete vinto?» il suo argomento contro l’opposizione. Gli striscioni che gli rimproverano di spendere soldi per «comprare le veline» sono un insulto e un pericolo. Striscioni comunisti, ispirati da un giornalista suggeritore? Difficile. Persino Enrico Letta, uomo sobrio non incline ad occuparsi di letteronze, dice che «Berlusconi è in preda al nervosismo perché la vicenda di Noemi gli sta sfuggendo di mano», «spara all'impazzata: dobbiamo inchiodarlo alle sue responsabilità». Morali, prima di tutto. L'ex fidanzato della ragazza dice: io non potevo farci niente. «Sarebbe come se un salumiere si fidanzasse con Jennifer Lopez. Cosa avevo da darle in cambio, io?». Si fidanzasse, è questo il verbo che usa. Non esiste il lodo Alfano della morale. Il direttore di Famiglia Cristiana Don Sciortino lo scrive oggi nel suo editoriale e lo dice a Roberto Monteforte: «Il premier deve chiarire, l'immunità morale non esiste». Famiglia Cristiana. Se il Papi della Patria deve fare i conti con la curva di San Siro e coi parroci comincia ad essere un problema. Certo, in un Paese normale sarebbero state sufficienti a chiamarlo a rispondere la voce dell'opposizione e dei giornali liberi. Ma siamo in Italia, che volete: il vero pericolo sono la moglie, i tifosi e il prete dal pulpito.

l’Unità 25.5.09
Quando tutto sarà finito
di Silvia Ballestra


Non riesco nemmeno a immaginarla la grandezza del risarcimento che ci spetterà quando tutto questo sarà finito. A cosa avremo diritto per aver assistito sgomenti ai collier da seimila euro in dono alle signore, alle canzoncine con Apicella, ai cucù da dietro le colonne, ai dischi di make-up nascosti nei fazzoletti tergisudore, alle dentiere per le anziane terremotate, alle barzellette infelici e volgari, alle mani morte, ai “posso palpare?” che girano in mondovisione, e si potrebbe andare avanti per ore, per giorni… Cosa mai ci potrà ricompensare per l’inusitato sprezzo del ridicolo, per l’umiliazione? Quando tutto questo sarà finito, avremo almeno una nostra movida come si deve, un rinascimento, un rifiorire delle arti e delle culture, del bello, del saggio, del creativo? Del presentabile? Del decente? Dopo anni e anni di signorine Noemi, di “venite in Italia a investire che ci sono belle segretarie”, di softporno pecoreccio, solo l’idea di un enorme – ma che dico – di un gigantesco risarcimento ci aiuta ad andare avanti. Con la stampa internazionale preoccupata per noi. Con gli amici europei che ci chiamano per sentire l’ultima su papi e farsi due risate. Due magistrali pagine su Le Monde, settimana scorsa, riportavano un puntuale ritratto del nostro premier che neanche il Garcia Marquez dei libri più visionari e sudamerici sarebbe riuscito a concepire. Cherie Blair rivela che il marito Tony era molto preoccupato dall’eventualità di esser fotografato accanto a Silvio in bandana. E il Guardian, e il Times, e poi ancora i tedeschi, gli spagnoli, i norvegesi. E finalmente si comincia a capire cosa vuol dire quell’antico “una risata vi seppellirà”, solo che ‘sta risata mondiale sta seppellendo noi. Noi senza bandana, senza eserciti di signorine, noi senza potere. Noi con la vergogna che dovrebbe provare lui.

Repubblica 25.5.09
Rotto l’incantesimo del nuovo Don Rodrigo
di Gad Lerner


Forse ora la smetterà d´insistere sulla propria esuberanza sessuale, sulle belle signore da palpare anche tra le macerie del terremoto e sulle veline che purtroppo non sempre può portarsi dietro.
A quasi 73 anni d´età, Silvio Berlusconi si trova per la prima volta in vita sua a fare davvero i conti con l´universo femminile così come lui l´ha fantasticato, fino a permearne la cultura popolare di massa di questo paese. Lui, per definizione il più amato dalle donne, sente che qualcosa sta incrinandosi nel suo antiquato rapporto con loro.
Le telefonate notturne a una ragazzina, irrompendo con la sproporzione del suo potere - come un don Rodrigo del Duemila - dentro quella vita che ne uscirà sconvolta. E poi il jet privato che le trasporta a gruppi in Sardegna per fare da ornamento alle feste del signore e dei suoi bravi. Ricompensate con monili ma soprattutto con aspettative di carriera, di sistemazione. L´immaginario cui lo stesso Berlusconi ha sempre alluso nei suoi discorsi pubblici è in fondo quello di un´Italietta anni Cinquanta, la stagione della sua gioventù: vitelloni e case d´appuntamento; conquista e sottomissione; il corpo femminile come meta ossessiva; la complicità maschile nell´avventura come primo distintivo di potere. Nel mezzo secolo che intercorre fra le "quindicine" nei casini e l´uso improprio dei "book" fotografici di Emilio Fede, riconosciamo una generazione di italiani poco evoluta, grossolana nell´esercizio del potere.
Di recente Lorella Zanardo e Marco Maldi Chindemi hanno riunito in un documentario di 25 minuti le modalità ordinarie con cui il corpo femminile viene presentato ogni giorno e a ogni ora dalle nostre televisioni, con una ripetitiva estetica da strip club che le differenzia dalle altre televisioni occidentali non perché altrove manchino esempi simili, ma perché da nessuna parte si tratta come da noi dell´unico modello femminile proposto in tv. La visione di questa sequenza di immagini e dialoghi è davvero impressionante (consiglio di scaricarla da www.ilcorpodelledonne.com). Viene da pensare che nell´Italia clericale del "si fa ma non si dice" l´unico passo avanti compiuto nella rappresentazione della donna sia stato di tipo tecnologico: plastificazione dei corpi, annullamento dei volti e con essi delle personalità, fino a esasperare il ruolo subalterno, spesso umiliante, destinato nella vetrina popolare quotidiana alla figura femminile senza cervello. Cosce da marchiare come prosciutti negli spettacoli di prima serata, con risate di sottofondo e senza rivolta alcuna delle professioniste, neppure quando uno dopo l´altro si sono susseguiti gli scandali tipicamente italiani denominati Vallettopoli.
In tale contesto ha prosperato il mito del leader sciupafemmine, invidiabile anche per questo. Fiducioso di godere della complicità maschile, ma anche della rassegnata subalternità di coloro fra le donne che non possano aspirare a farsi desiderare come veline.
Tale è stata finora l´assuefazione a un modello unico femminile - parossistico e come tale improponibile negli Stati Uniti, in Francia, nel Regno Unito, in Germania, in Spagna - da far sembrare audacissima la denuncia del "velinismo politico" quando l´ha proposta su "FareFuturo" la professoressa Sofia Ventura. Come se la rappresentazione degradante della donna nella cultura di massa non avesse niente a che fare con la cronica limitazione italiana nell´accesso di personalità femminili a incarichi di vertice. Una strozzatura che paghiamo perfino in termini di crescita economica, oltre che civile.
Così le ormai numerose indiscrezioni sugli "spettacolini" imbanditi nelle residenze private di Berlusconi in stile harem - mai smentite, sempre censurate dalle tv di regime - confermano la gravità della denuncia di Veronica Lario: «Figure di vergini che si offrono al drago per rincorrere il successo, la notorietà e la crescita economica». Una sistematica offesa alla dignità della donna italiana resa possibile dal fatto che «per una strana alchimia il paese tutto concede e tutto giustifica al suo imperatore».
Logica vorrebbe che dopo le ripetute menzogne sulla vicenda di Noemi Letizia tale indulgenza venga meno. La cultura misogina di cui è intriso il padrone d´Italia - ma insieme a lui vasti settori della società - risulta anacronistica e quindi destinata a andare in crisi. Si rivela inadeguata al governo di una nazione moderna.
Convinto di poter dominare dall´alto, con l´aiuto dei suoi bravi mediatici, anche una realtà divenuta plateale, l´anziano don Rodrigo del Duemila per la prima volta rischia di inciampare sul terreno che gli è più congeniale: l´onnipotenza seduttiva, la cavalcata del desiderio. L´incantesimo si è rotto, non a caso, per opera di una donna.

Repubblica 25.5.09
"Fermiamo una cultura che nuoce al Paese"
Dario Fo: "Dopo il caso Mills un'altra storia che ci fa vergognare"
Storia nefanda
intervista di Anna Bandettini


Pensavamo che il peggio fosse stato raggiunto, ora c´è questa nefanda storia
Se possiamo digerire questa storia? Abbiamo digerito la sentenza del caso Mills...

ROMA - «Pensavamo che il peggio fosse già stato raggiunto. E invece ora questa nuova, nefanda, storia. Mi viene amaramente da dire: noi italiani abbiamo quello che ci meritiamo». Lo dice con rabbia, più che con rassegnazione, il premio Nobel Dario Fo leggendo dell´ultima, clamorosa puntata della storia che riguarda Noemi Letizia, la giovane ragazza napoletana, e Silvio Berlusconi.
Fo, in che senso ce lo meritiamo noi italiani?
«Lei crede che con queste nuove dichiarazioni del fidanzato della ragazza, che contraddicono tutto quello che Berlusconi ha detto finora, succederà qualcosa? La gente in giro plaude. Se la ride. Signore che di solito si scandalizzano per un seno nudo, ora sono pronte a giustificare quest´uomo dicendo "ma vabbè che male c´è, lo fanno tutti gli uomini". Il premier va in giro con le ragazze, si dice minorenni? Che sarà mai! La gente anche davanti a questo lo ama. Viene fuori che si fa in week end in villa con trenta ragazze? Bravo! Che bella vita. Ecco cosa dicono gli italiani. E´ all´estero che ci guardano come poveri deficienti, ma in Italia si applaude. E questo perché Berlusconi ha tirato fuori il peggio di questo Paese».
Molta gente dice che si tratta di faccende private, che non c´entrano con la politica
«In parte sono d´accordo, ma per altre ragioni. Considero un errore fare il conto della spesa dei comportamenti di Berlusconi. Perché quello che fa paura non sono le cose belle o brutte che fa, ma la volgarità , la cultura, il senso della vita che esse esprimono. Berlusconi va battuto non per quello che fa ma per quello che produce, e che ha già contagiato tutto il paese. Parlo di quella cultura della pacca sul sedere, della barzelletta inutilmente triviale sempre e dovunque tu ti trovi, come quando liquidò Obama dicendo che era bello e abbronzato. La cultura delle promesse a questa o quella ragazza di darle un posto in tv o in parlamento, che per lui sono la stessa cosa. La cultura dell´uomo che va in giro con la valigia piena di gioielli per elargire regali. E´ la cultura di chi si presenta nelle vesti dell´imbonitore"
Lei dice che ormai tutto questo noi lo digeriamo.
«Se abbiamo digerito la sentenza Mills…»
Ma perché digeriamo tutto questo?
«Perché Berlusconi è il sogno dell´italiano medio, incarna l´anima profonda del Paese e l´ha allevata rendendola più triviale, più meschina e kitsch. Ecco perché dico che il problema non è lui, sono gli italiani. Non tutti per carità. Sono un 50 per cento. Ma è quel 50 per cento che lo applaude e che lo tiene lì sulla poltrona del potere».

Corriere della Sera 25.5.09
Referendum. Quell’imbarazzante somiglianza con la Legge Acerbo
di Giovanni Belardelli


Fino a oggi nessuno o quasi ha accostato la legge elettorale che uscirebbe da una vittoria dei sì al re­ferendum alla legge Acerbo approvata dal fascismo nel 1923, che ebbe la prima e ultima applicazione l’anno seguente. Eppure le somiglianze tra le due leggi sembrano piuttosto evidenti. La legge fa­scista assegnava i due terzi dei seggi alla Camera (il Senato era all’epoca di nomi­na regia) al partito che avesse ottenuto almeno il 25 per cento dei voti. Analogamente, una vit­toria del referendum Se­gni- Guzzetta farebbe attri­buire la maggioranza asso­luta dei seggi non più (co­me ora) alla singola lista bensì al singolo partito che ha avuto più voti. E questo senza la necessità di supera­re alcun quorum, com’era invece il caso della legge Acerbo che almeno imponeva di rag­giungere un quarto dei suffragi perché il premio previsto potesse scattare.
Avvicinandosi ormai la data della con­sultazione referendaria, nelle file del­l’opposizione sono aumentati i dubbi sull’opportunità di votare sì. Eppure, l’obiezione di quanti, dopo aver sostenu­to il referendum, sono passati ad avver­sarlo sembra basarsi soprattutto su con­siderazioni pratiche, utilitaristiche: oggi come oggi la nuova legge elettorale pro­dotta da una vittoria del fronte referen­dario non solo darebbe la maggioranza assoluta al PdL ma (grazie alla sua alle­anza con la Lega in Parlamento) forni­rebbe all’attuale presidente del Consi­glio i numeri per riformare la Costituzio­ne senza dover poi sottostare all’alea di un eventuale referendum popolare (che già una volta bocciò una riforma costitu­zionale del centrode­stra).
Nessuno sembra inve­ce intenzionato ad utiliz­zare l’argomento polemi­co della effettiva somi­glianza tra la eventuale nuova legge elettorale e quella preparata a suo tempo dal fascista Acer­bo. E se ne può intuire la ragione. Fino ad oggi è capitato più volte che esponenti dell’op­posizione accostassero il governo attua­le al Ventennio, Berlusconi a Mussolini. Ma sarebbe un po’ imbarazzante dichia­rare che una vittoria dei sì darebbe forse a quel paragone un fondamento obietti­vo, del quale però Berlusconi stesso — referendario dell’ultima ora — non po­trebbe in alcun modo essere incolpato.

Corriere della Sera 25.5.09
Per far crescere la scienza bisogna abbattere gli idoli
Un volume e due convegni celebrano Eugenio Colorni
di Giulio Giorello


«Alla base di ogni grande scoperta, di ogni rivoluzio­ne nel campo della scienza, c’è una conquista morale: l’ab­battimento di un idolo salda­mente insediato e abbarbica­to fra le pieghe della nostra anima», amava ripetere Euge­nio Colorni.
Ben strano tipo di filosofo nel panorama italiano della prima metà del Novecento, Colorni aveva preso le mosse dall’estetica di Croce, si era poi confrontato con quel mira­bile inventore di metodi e arti­sta di sistemi che era stato Lei­bniz: dalla matematica al dirit­to, dalla logica alla tecnologia. Era stato, però, il contatto con Umberto Saba, «il poeta libra­io di Trieste che parla il gergo della psicanalisi», ad affranca­re Eugenio da quel tipo di «malattia» che prende il filo­sofo quando rende i «bisogni che sorgono in modo oscuro dalle profondità della sua co­scienza » veri e propri feticci cui sacrificare chiarezza e con­cretezza. Tale «liberazione», che ha reso Colorni autentico filosofo della scienza, è oggi ri­costruita nel volume che rac­coglie i suoi scritti filosofici e autobiografici e che reca il ti­tolo La malattia della metafi­sica, a cura di Geri Cerchiai (Einaudi, pp. XLVIII-382, e 24).
Si tratta, come nota il cura­tore, della parabola di «un’in­telligenza sempre pronta a ri­mettersi in discussione». Quel che più mi colpisce è quella che Colorni stesso defi­niva «acredine iconoclasta», cioè la capacità di attaccare qualunque «idolo» blocchi la crescita intellettuale del singo­lo e il miglioramento della so­cietà.
Il risvolto politico di tale iconoclastia aveva già risve­gliato l’interesse di Norberto Bobbio (che aveva scritto un’introduzione per una sele­zione di Scritti di Colorni pub­blicata del 1975 dalla Nuova Italia). Ma la lotta politica non risparmia nemmeno l’impre­sa scientifica: idoli nel senso di Colorni sono stati il geocen­trismo dell’astronomia prima di Copernico, il mondo chiu­so prima di Bruno o di Gali­leo, l’idea di un piano della na­tura prima di Darwin; e lo era­no pure lo spazio e il tempo assoluti di Newton prima del­la relatività di Einstein, o la no­zione di un rigido nesso causa­le tra gli eventi prima della meccanica quantistica… Lo scienziato, per Colorni, deve dar prova di un occhio chiaro degno di Spinoza: analizzan­do gli stessi dogmi della ricer­ca scientifica e sbloccando le categorie in cui pretende di in­casellare l’esperienza, riesce a superare quel «cieco amore per se stessi», che altrimenti impedirebbe ogni innovazio­ne sia nella scienza sia nella vi­ta civile.
Nell’immergersi nella scien­za Colorni, però, non dimenti­cava la dimensione tragica del­l’esistenza. Tutta la civiltà e tutta la cultura gli apparivano frutto delle nostre inquietudi­ni: «È il fatto che dobbiamo morire che dà un senso con­creto e finito alla nostra attivi­tà, che ci permette di misura­re il tempo e di spenderlo co­me un tesoro non illimitato». Nato da famiglia ebraica (Mila­no, 22 aprile 1909), educato in ambiente liberale, militante antifascista vicino alla pro­spettiva del Socialismo, getta­to in carcere e al confino, Co­lorni ha saputo far fruttare il «tesoro» che la vita gli aveva concesso. Evaso e passato alla lotta clandestina, doveva veni­re ferito gravemente da una pattuglia della Banda Koch il 28 maggio 1944, per spirare due giorni dopo.
Vorrei terminare con una constatazione strettamente personale, essendo nato nel maggio dell’anno successivo, quando la lotta di Liberazione si era appena conclusa: è an­che grazie a uomini come Eu­genio Colorni che la mia gene­razione ha potuto crescere e studiare in un clima di (diffici­le) libertà.

Repubblica 25.5.09
Virus Spa
La nuova influenza ha rilanciato il mercato dei vaccini
Ecco come la paura può trasformare la pandemia in un affare miliardario
di Ettore Livini


La recessione non abita qui. Nell´era del bio-terrorismo, delle pandemie, della rinascita di Ebola e della Tbc, la Virus Spa - arrivata sull´orlo della bancarotta solo dieci anni fa - scoppia (anche se suona paradossale) di salute. L´influenza suina, ribattezzata in chiave più politically correct H1N1, è solo l´ultimo tassello di una resurrezione annunciata: le vendite di vaccini - crollate alla fine del secondo millennio - hanno ripreso a crescere a tassi del 10-15% l´anno, arrivando già oggi a un giro d´affari vicino ai 20 miliardi l´anno. I governi, colti in contropiede dalla rinascita di questi nemici invisibili, sono tornati a incentivare la costruzione di nuovi siti produttivi (George Bush ha stanziato un miliardo di incentivi). E tutto l´indotto - dalle mascherine protettive, alla candeggina, fino ai macchinari per la disinfezione di casa - gira a mille.
La spiegazione del boom, più che nei testi scientifici, va cercata nei manuali di economia: la domanda supera l´offerta. «La globalizzazione non è stata solo un volano per l´industria e i servizi - spiega Giovanni Rezza, epidemiologo dell´Istituto superiore della Sanità - . Anche i virus hanno imparato a cavalcarla alla grande». Salgono in aereo con le persone infette, viaggiano con le ondate di nuova immigrazione, mettono su casa nella carne di polli che girano mezzo mondo prima di finire sul piatto di portata. Senza bisogno di passaporti, troppo piccoli (100 volte meno di una cellula) per essere respinti alle frontiere. E prosperano. La Sars (8.400 persone infettate, 800 morti) è stato il primo campanello d´allarme nel 2002. Quattro anni dopo è arrivata l´aviaria (421 casi di contagio, 257 vittime tra gli umani, 300 milioni tra i volatili). Ma oggi l´esplosione della H1N1 fotografa una certezza: il ritorno del rischio-pandemia. «Il mondo microbiologico è in gran fermento - dice Margaret Chan, numero uno dell´Organizzazione mondiale della Sanità - . E Hiv, Sars e Aviaria non saranno le sue ultime cattive sorprese». Il problema? «Che oggi non siamo in grado di produrre vaccini per tutti», ammette candidamente Marie Paul Kiney, uno dei membri del Shoc (Strategic Health operation center), la task force di superesperti asserragliata da tre settimane nei sotterranei dell´Oms a Ginevra per gestire le strategie anti-suina a livello mondiale.
La Virus Spa - un´azienda totalmente privata - si frega le mani. Barak Obama ha chiesto al congresso 1,5 miliardi per comprare preventivamente nuove scorte di Relenza e Tamiflu, i due anti-influenzali di Glaxo e Roche che paiono aver effetti di contenimento sulla H1N1. Le stesse due società (schizzate in Borsa) hanno ricevuto in pochi giorni ordini per un miliardo dai governi inglese, francese, belga e finlandese. E tra Wall Street, la City e il listino elvetico, hanno messo il turbo le azioni delle 20 società farmaceutiche in grado, secondo gli analisti, di sviluppare in tempi brevi un vero e proprio vaccino contro l´influenza suina. Un affare - in caso di pandemia - da decine di miliardi.
La guerra a queste microscopiche e sfuggenti entità biologiche è diventata in pochi anni una miniera d´oro. «Me l´avessero detto dieci anni fa, non ci avrei mai creduto», ammette Rino Rappuoli, direttore del centro Novartis di Siena, in America in questi giorni proprio per la messa a punto del vaccino contro la suina insieme al Center for disease control. Negli anni ‘90 i virus e il loro indotto industriale sembravano sulla via d´estinzione. Il mondo occidentale aveva estirpato a colpi di vaccinazioni quasi tutte le malattie più pericolose. I paesi poveri, quelli dove i morbi prosperavano (e prosperano) ancora, non avevano i soldi per pagare i farmaci. E i big della farmaceutica avevano deciso di cercar fortuna in altri campi più redditizi: i produttori di vaccini sono crollati da 26 a 7 dal 1970 al 2004. In America sono scesi da 5 a 2. E quando sono arrivati l´antrace, le Torri Gemelle con il rischio di bio-terrorismo e le nuove pandemie, i virus si sono ritrovati a combattere con truppe nemiche ridotte all´osso.
George Bush è stato così costretto ad avviare in fretta e furia un piano per ripristinare la capacità produttiva domestica, destinata a cavalcare pure la domanda di filantropi come Bill Gates impegnati in campagne di vaccinazione miliardarie nel terzo mondo. E lo stesso stanno facendo altri paesi, convinti che in caso d´emergenza - secondo l´Oms la prossima pandemia seria potrebbe uccidere fino a 7,4 milioni di persone - è meglio aver scorte di medicinali in casa propria.
L´incrocio pericoloso tra la salute pubblica mondiale e gli interessi del business legati ai virus, in effetti, ha ricadute geopolitiche importanti: i paesi più poveri sono per tradizione quelli più esposti al rischio contagio ma anche quelli con meno soldi per combatterlo. Il portafoglio ordini dei vaccini, non a caso, è già quasi tutto opzionato dai grandi paesi occidentali. E l´Oms - cui Glaxo ha "regalato" 50 milioni di dosi dei suoi medicinali - sta tentando una mediazione difficilissima per trovare un punto d´equilibrio e non dividere il mondo in due, metà a prova di virus e l´altra metà preda delle scorribande microbiologiche. L´Indonesia, ad esempio, è stata tra i primi a ricostruire la sequenza genetica dell´H1N1, passaggio-chiave per la preparazione del vaccino. Ma si è rifiutata di girarla a Ginevra e alle case farmaceutiche senza garanzie di aver poi accesso al prodotti finito.
L´altra faccia della Virus Spa, farmaci a parte, è l´indotto da psicosi, un´altra azienda fiorentissima. L´americana Clorox ha visto decuplicare in Messico e quasi raddoppiare negli Usa le vendite della sua candeggina, usata come disinfettante. Aziende come le americane 3M e Kimberley lavorano a pieno ritmo ma non riescono a soddisfare la richiesta di mascherine per la respirazione: solo il governo inglese ne ha ordinate 32 milioni per i suoi medici, temendo più avanti una carenza. Tirano anche i sistemi di teleconferenza di Cisco e altri big dopo che molte aziende in giro per il mondo - già scottate dalla recessione - hanno ridotto al minimo i viaggi dei dipendenti. L´italianissima Polti, invece che pubblicizzare il suo storico pulitore Vaporetto, paga intere pagine di giornale per promuovere il Sanisystem, sanificatore anti-virus per bonificare le case degli italiani. Spese che valgono la candela se è vero, come stima Moody´s, che una pandemia da 1,4 milioni di morti (l´influenza tradizionale fa ogni anno 500mila vittime) potrebbe costare all´economia mondiale 330 miliardi di dollari.
Lo scoppio di un´epidemia seria, naturalmente, avrebbe conseguenze ad oggi inimmaginabili sulla Virus Spa. Nessuno in effetti è riuscito a creare modelli matematici attendibili per anticipare le reazioni emotive della gente. Per assurdo l´unico campione attendibile, - come certifica la rivista Lancet, arriva dal mondo virtuale del videogame "The world of warcraft". Un gioco interattivo dove l´infezione ("corrupted blood") attaccata dal serpente Haggar è sfuggita completamente al controllo dei softwaristi della Blizzard Entertainment, il produttore. L´azienda ha "teletrasportato" - «come succede con gli aerei nella realtà», dice Ran Balicer della Ben Gurion University - i giocatori infetti lontani da Haggar. Ma il virus online non si è fermato. In pochi giorni sono morti - per fortuna solo in questa specie di Matrix - 4 milioni di partecipanti. E la Blizzard ha dovuto resettare il sistema per debellare il morbo. Regalando però agli scienziati un campione prezioso per studiare le reazioni dei partecipanti e capire chi e perché era sopravvissuto (soprattutto i giocatori che non si sono fatti prendere dal panico e si sono "auto-quarantenati" fuori dai grandi centri telematici).
Il panico, in effetti, è stato sempre cattivo consigliere - anche in termini economici - per il mondo dorato del business del virus. La madre di tutte le influenze suine, quella scoppiata nel 1976 a Fort Dix nel New Jersey, è paradigmatica: ha contagiato 13 militari, uccidendone uno. Washington, con l´incubo della pandemia, ha vaccinato 40 milioni di americani, spendendo centinaia di milioni di dollari. Il morbo non si è mosso da Fort Dix e non ha più ucciso nessuno. Gli effetti collaterali del vaccino (la sindrome Guillain-Barre, sintomi la paralisi) sono costati però a Casa Bianca e produttori 93 milioni per le cause legali.

Repubblica 25.5.09
Quei virus allevati dall'uomo
Quando le pandemie sono figlie del business
di José Saramago


Non conosco niente sull´argomento e l´esperienza diretta di aver convissuto durante l´infanzia con i maiali non mi serve a niente. Quella era più che altro una famiglia ibrida di umani e animali. Ma leggo con attenzione i giornali, ascolto e vedo i reportage della radio e della televisione, e alcune provvidenziali letture mi hanno aiutato a capire meglio i particolari delle cause all´origine dell´annunciata pandemia, forse potrei trascrivere qui alcuni dati che aiutino a loro volta il lettore. Già da parecchio tempo gli specialisti in virologia sono convinti che il sistema di agricoltura intensiva della Cina meridionale sia stato il principale vettore della mutazione influenzale: sia della sua "deriva" stagionale sia dell´episodica "trasformazione" del genoma virale. Ormai già sei anni fa, la rivista Science ha pubblicato un importante articolo in cui mostrava che, dopo anni di stabilità, il virus della febbre suina dell´America del Nord aveva intrapreso un salto evolutivo vertiginoso. L´industrializzazione degli allevamenti, da parte di grandi imprese, ha rotto quello che fino ad allora era stato il monopolio naturale della Cina sull´evoluzione dell´influenza.
Negli ultimi decenni, il settore degli allevamenti si è trasformato in qualcosa che assomiglia più a quello petrolchimico che all´idea bucolica della fattoria a conduzione familiare che nei libri di scuola descrivono con compiacenza…
Nel 1966, per esempio, negli Stati Uniti c´erano 53 milioni di suini distribuiti in un milione di fattorie. Attualmente, 65 milioni di maiali sono concentrati in 65.000 strutture. Questo significa passare dagli antichi porcili ai ciclopici inferni fecali di oggi, nei quali, tra lo sterco e sotto un calore soffocante, pronti a scambiarsi agenti patogeni alla velocità della luce, si ammassano decine di milioni di animali con sistemi immunitari molto più che deboli. Sicuramente non sarà l´unica causa ma non potrà essere ignorata. L´anno scorso, una commissione convocata dal Pew Research Center ha pubblicato una informativa sulla "produzione animale in allevamenti industriali, in cui si poneva in risalto il grave pericolo che il circolare continuo di virus, caratteristico delle greggi o mandrie enormi, aumentasse la possibilità di apparizione di nuovi virus in seguito a processi di mutazione o di ricombinazione che avrebbero potuto generare virus più efficaci nella trasmissione tra umani". La commissione metteva anche in guardia sull´uso indiscriminato di antibiotici negli allevamenti suini - più economico che in ambienti umani - che stava favorendo l´aumento di infezioni da stafilococco, allo stesso tempo in cui gli scarichi liquidi residuali generavano episodi di escherichia coli e di pfiesteria (il protozoo che ha ucciso migliaia di pesci negli estuari della Carolina del Nord e che ha contagiato decine di pescatori).
Qualsiasi miglioria nell´ecologia di questo nuovo agente patogeno dovrebbe far fronte al mostruoso potere delle grandi corporazioni aviarie e d´allevamento, come Smithfield Farms (suino e manzo) e Tyson (pollame). La commissione ha riferito di un ostruzionismo sistematico messo in atto dalle grandi imprese, comprensivo di aperte minacce di bloccare i finanziamenti ai ricercatori che collaborassero con la commissione. Si tratta di un´industria molto globalizzata e con influenze politiche. Così come il colosso della carne di pollo di Bangkok, Charoen Pokphand, fu capace di mettere a tacere le indagini sul suo ruolo nella diffusione dell´influenza aviaria nel sudest asiatico, è probabile che l´epidemiologia forense del focolaio di influenza suina sbatta la testa contro il muro di gomma dell´industria della carne di maiale. Questo non significa che non si riuscirà mai a puntare il dito contro qualcuno: sulla stampa messicana si mormora già di un epicentro nei pressi di un´enorme filiale della Smithfield nello stato di Veracruz. Ma ciò che conta è il bosco, non i singoli alberi: il fallimento della strategia pandemica dell´Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), l´ulteriore declino della sanità pubblica mondiale, la morsa applicata dalle grandi multinazionali farmaceutiche sui medicinali salvavita e la catastrofe planetaria rappresentata dalla produzione di allevamenti industriali ecologicamente irresponsabili.
Ne risulta che i contagi sono molto più complicati rispetto all´entrata di un virus presumibilmente mortale nei polmoni di un cittadino incastrato nella tela degli interessi materiali e della mancanza di scrupoli delle grandi imprese. Tutto contagia tutto. La prima morte, tanto tempo fa, è stata quella dell´onestà. Ma si potrà mai chiedere, veramente, onestà a una multinazionale? Chi ci cura?
Questo testo è tratto dal blog "O Caderno de Saramago"
(http://caderno.josesaramago.org)

Repubblica 25.5.09
Se le scrittrici sfidano i mullah
Dalla Nafisi alla Djavann, le donne raccontano soprusi e violenze
Iran, quei romanzi contro il silenzio
di Vanna Vannuccini


Il fenomeno è cominciato con "Leggere Lolita a Teheran" Ora esce "La muta": l´autrice è esule in Francia
Il passaggio dalla poesia alla prosa è il segno di una emancipazione
Il libro è il diario di una quindicenne vittima di una società chiusa e repressiva

«Tra pochi minuti m´impiccano, aiutatemi!». E´ difficile non ricordare le ultime parole di Delara Darabi leggendo il libro di Chahrdortt Djavann, La muta, il diario della quindicenne Fatemeh, condannata a morte per essersi ribellata agli infiniti soprusi di un vecchio mullah e avergli infilato un coltello un gola mentre lui le infilava il suo sesso nella vagina. Una storia di brutalità, disperazione e solitudine quella di Fatemeh e di una sua giovane zia muta, in un povero villaggio dove il mullah è onnipotente. Una impiccagione reale è invece quella di Delara Darabi, 23 anni, mandata a morte dal tribunale di Rasht dopo cinque anni di carcere per un omicidio di cui si era sempre proclamata innocente, e in spregio della norma internazionale che vieta la condanna a morte per delitti commessi da minorenni.
Notizie di questo tipo, censurate dai giornali nazionali, emergono qua e là nei giornali locali iraniani e vengono rilanciate dai blog. Donne che uccidono a sangue freddo un marito dopo aver subito abusi senza fine da lui e dalla suocera. Donne che mutilano il parente che sta per stuprarle, oppure che vengono condannate per adulterio dopo essere state stuprate. La legge è contro di loro. Da sempre, ma soprattutto da quando con la rivoluzione islamica la Legge per la Protezione della famiglia fu abolita e si tornò alla sharia, che riduceva l´età per il matrimonio a nove anni, limitava il diritto al divorzio per le donne, toglieva loro la custodia dei figli e imponeva a tutte il velo.
Ma l´Iran è un paese di paradossi e uno di questi è stata l´esplosione di donne scrittrici dopo la rivoluzione islamica. Ad essa le donne parteciparono, lottando per la giustizia e la libertà senza neanche immaginare che il paese sarebbe precipitato poco dopo nel bigottismo e nella teocrazia, e questa lotta dette loro fiducia in se stesse. Dice Mehrangiz Kar, con Shirin Ebadi una delle più importanti giuriste iraniane: «Con tutti i sacrifici che avevano fatto durante la rivoluzione, ormai sapevano quanto i governanti fossero in debito verso di loro, e sapevano che la parità dei diritti era tra ciò che era loro dovuto. La richiesta di parità non viene più da un piccolo gruppo ma da tutte le donne, e il regime islamico sa di non poterla eludere senza rischiare una brutale separazione tra Stato e religione».
«Per sopravvivere dobbiamo distruggere il silenzio» scrive Simin Behbahani, la più famosa delle scrittrici iraniane (A cup of sin: selected poems Syracuse University Press). Anche questo apparentemente un paradosso: nei regimi repressivi sopravvive di solito chi nasconde il proprio pensiero. Prima della rivoluzione, sposata a un uomo non amato, Simin Behbahani aveva scritto soprattutto poesie d´amore nella forma classica, anche se modernizzata, del ghazal. Ma dopo, come molte altre poetesse, scelse la prosa, per parlare delle esperienze traumatiche della storia recente.
Il passaggio dalla lirica alla prosa è anche la storia di una emancipazione. La poesia era stata per secoli il genere letterario privilegiato perché con le sue metafore, i suoi simboli era stata anche un vero e proprio codice di resistenza contro i potenti, Lessan al Gheib, il lessico del segreto come dicono gli iraniani. Ma ora le donne decidevano di uscire allo scoperto. Di scrivere sulla guerra, gli arresti, le partenze di coloro che erano stati spinti all´esilio, mentre gli uomini spesso non avevano altrettanto coraggio di affrontare la realtà. La sessualità è ancora una linea rossa che non può essere superata, ma anche qui molte scrittrici hanno provato a uscire dal labirinto obbligato della purezza.
Lo ha fatto soprattutto chi vive in esilio come Chahdortt Djavann o Azar Nafisi, autrice del bestseller Leggere Lolita a Teheran (Adelphi). Le scrittrici rimaste in Iran - Simin Daneshvar (i cui lavori più noti sono un romanzo, Siavushun, su una famiglia iraniana travolta dalla storia e Il tramonto di Jalal in ricordo del marito, noto critico letterario), Shahrnush Parsipur, Forugh Farrokhzad (che provocò uno scandalo per aver lasciato figlio e marito per un grande amore, di cui parla nella bellissima raccolta di poesie Prigioniera), e Fereshteh Sari, restano un modello di coscienza di sé per le più giovani: «Adesso sono/in posizione da poter/ spaccare il sole come fosse un melograno/e con il succo farne inchiostro per la mia penna...», (Fereshteh Sari, L´attimo, citato da Figlie di Shahrazad di Anna Vanzan, Bruno Mondadori, pagg. 216, euro 18). In un blog ho letto di recente: «I miei guardiani sono uomini, sorvegliano le loro sostanze, i loro beni, il loro onore. Chi sono io? Sono l´onore di mio fratello, mio padre, marito, zio, perfino del figlio dei vicini. Nemmeno dopo morta mi onoreranno, al posto della mia fotografia metteranno una rosa, perché la vista di una donna può turbare un uomo...».

l’Unità 25.5.09
Una scimmietta di 47 milioni di anni scatena gli scienziati
di Pietro Greco


Ida ha conosciuto le luci della ribalta, la settimana scorsa al Museo Americano di Storia Naturale di New York, a 47 milioni di anni di distanza dalla sua morte: e si è subito accesso il dibattito scientifico.
Tra telecamere e scariche di flash, a New York qualcuno ha indicato in quell’animaletto battezzato Ida, dalla lunga coda e grande come un gatto, l’«anello mancante» tra l’uomo e gli altri animali e nella sua scoperta una delle più importanti nella ricostruzione della storia dell’evoluzione biologica. Non è così. Ida non è Eva e neppure l’anello mancante: resta però un fossile di grande interesse. Scoperta nella cava di Messel, vicino a Francoforte, oltre 25 anni fa da un collezionista dilettante, era eccezionalmente integra, nello scheletro e nelle parti molli. Il collezionista pensò bene, tuttavia, di tagliarla a metà e di venderne una parte, parzialmente ritoccata, a un museo del Wyoming. Solo dopo un certo tempo l’altra parte è stata recuperata dal Museo di storia naturale dell’Università di Oslo e attentamente studiata da un’equipe internazionale di paleontologi guidata da Jørn Hurum. I risultati sono riportati in un articolo pubblicato su PLoSONE, una rivista scientifica in rete, e presentati, appunto, in grande spolvero a New York.
I ricercatori sostengono che Ida è, appunto, un mammifero di sesso femminile, morta entro il primo anno di vita ben 47 milioni di anni fa. Appartiene a una specie finora sconosciuta, battezzata Darwinius masillae in onore di Darwin: è il primate più antico mai rinvenuto. Il che non significa, necessariamente, che sia il progenitore di tutti i primati. Tuttavia gli autori dello studio sono convinti che Ida abbia molto da dirci sulle origine degli Anthropoidea, ovvero dell’insieme delle specie cui appartengono i primati. Alcuni sostengono che i primati da cui si è poi evoluto l’uomo (secondo una filogenesi che va dalle proscimmie, alle scimmie, alle antropomorfe e gli ominini) discendano dai Tarsioidea (cui appartengono gli odierni tarsi), altri invece che le scimmie discendano dagli Adapoidea (quelli degli attuali lemuri).
La mamma di tutte le scimmie?
Sulla base di molti caratteri – dal pollice opponibile fino alla posizione degli incisivi – l’equipe di Jørn Hurum sostiene che Ida appartiene agli Adapidi e che è dagli Adapidi si è poi sviluppata la linea evolutiva che ha portato alla scimmie, alle antropomorfe e all’uomo. Nessuno può dire che Ida appartenga a una specie nostra progenitrice. È certo però che Ida appartiene alla nostra famiglia. O, almeno, così assicurano Jørn Hurum e i suoi collaboratori. Ma non tutti se ne dicono convinti. In fondo, le scimmie sono apparse molto dopo al termine di una linea filogenetica che potrebbe aver avuto una convergenza evolutiva con Ida e i suoi discendenti. Insomma, la discussione tra gli esperti resta accesa: apparteniamo alla linea dei tarsi o dei lemuri? E, rimbalzando sui media magari in maniera distorta, il dibattito scientifico sull’evoluzione mostra che, anche quando si occupa dell’origine dell’uomo, è tutt’altro che chiuso, ma al contrario è aperto e saldamente agganciato ai fatti.

Repubblica 25.5.09
Aix en Provence. Picasso-Cézanne
Musée Granet. Dal 25 maggio.


A tre anni dalla mostra dedicata a Cézanne, il museo torna sull'argomento per approfondire l'influenza da lui esercitata sul maestro spagnolo. La questione è nota, ma non è mai stata presa in considerazione in una mostra di respiro internazionale. La relazione tra Picasso e Cézanne era improntata all'ammirazione e al rispetto. Basti pensare alla decisione dell'inventore del cubismo di stabilirsi nel 1959 nel castello di Vauvenargues, ai piedi del massiccio Sainte-Victoire. L'esposizione raccoglie opere esemplari, dipinti, sculture, disegni e incisioni, che approfondiscono in dettaglio l'argomento. Si comincia con Picasso che guarda Cézanne, con riferimento a un periodo compreso tra l'arrivo dello spagnolo a Parigi nel 1900 e la fine dell'avventura cubista: il giovane artista era attratto dai problemi della forma sintetizzata e del ribaltamento di piani e superfici, risolti in modo affatto originale dal maestro di Aix, era interessato alla sua riflessione sull'oggetto-ambiente. La visita prosegue con Picasso in veste di collezionista. Altre sale documentano la ripresa di temi cari all'artista, con i ritratti di Jacqueline e le nature morte.