giovedì 28 maggio 2009

l’Unità 28.5.09
Sotto gli occhi del mondo
di Concita De Gregorio


Il mondo si occupa di noi. Incomprensibilmente ignora gli accorati appelli tv di Sandro Bondi, le minacce di querela dell'avvocato Ghedini, le grida dei proconsoli ex fascisti e dei giornali scendiletto del premier per concentrarsi sulle gesta (la vita e le opere, le parole le menzogne e le gesta) del presidente del Consiglio. Direttamente su di lui, su quello che fa, come nelle democrazie si usa. «È un pericolo in primo luogo per l'Italia ed un esempio deleterio per tutti», Financial Times. «Se il primo ministro può farla franca portando avanti una storia d'amore adulterina e semipubblica con una adolescente (e poi mentire così spudoratamente che ogni sciocco può vedere che non sta dicendo la verità) e non venir chiamato a risponderne allora la nazione è in pericolo», The Independent. «Un clima decadente da basso impero (…) una escalation inquietante di impunità morale», El Pais. Altri editoriali e commenti sono dedicati al comportamento di Silvio Berlusconi dal Clarìn di Buenos Aires, dal Times e dal Guardian di Londra, da Abc news e da quotidiani e agenzie di stampa tedeschi, francesi, nord e sudamericani. Un complotto su scala mondiale, praticamente. Tutti lì a dire che l'Italia corre un pericolo serio perché insufflati da qualche suggeritore comunista, si vede. Forse un giornalista, certo: i servizi segreti lo troveranno, statene certi, e lo metteranno a tacere al più presto. Così il nostro prestigio internazionale tornerà a rifulgere. Nel frattempo la giovane Noemi scrive alle amiche di non poter lasciare il fidanzato prima della data delle elezioni (prassi notoriamente abituale tra le adolescenti, questa del vincolo alle scadenze elettorali, da cui deve derivare l'antica formula «voto di castità»): nuovi appassionanti dettagli ci attendono. Coi corrispondenti dei giornali stranieri abbiamo appuntamento stamani qui all'Unità per un Forum. Inviate loro le vostre domande, vorremmo discutere di politica e di economia, del futuro che attende l'Europa alla vigilia di un voto della cui importanza si parla pochissimo. Inauguriamo oggi una guida al voto che speriamo possa aiutare.
Il rapporto di Amnesty international è dedicato alle politiche sull'immigrazione e contiene un duro attacco all'Italia a partire dai respingimenti. Insieme all'osservatorio Italia-razzismo trovate oggi una doppia pagina di «Le belle bandiere» dedicata ai giovani di seconda generazione: nati in Italia da genitori stranieri. Delle migliaia di commenti arrivati sull'on line faremo un dossier. Debuttano oggi sul giornale il giuslavorista Massimo Pallini, l’autista Yuri e l’operaio Davide. I loro commenti, da punti di vista evidentemente diversi, ci aiuteranno a decifrare la realtà.
P.S. Due giorni fa per un errore di impaginazione l’attacco dei vescovi alle politiche del governo sul lavoro è finito a pagina 15 anzichè a pagina 9 come avrebbe dovuto. Un disguido che capita in ogni giornale e sul quale non vorremmo annoiarvi. Il collega Paolo Franchi, che salutiamo con la consueta stima, ha voluto sottolinearlo sul Corriere della Sera. Escludendo che ritenga che questo giornale non si occupi dei temi del lavoro e dei lavoratori lo prendiamo come un contributo da caporedattore esterno di sostegno. Grazie Paolo, e buon lavoro.

l’Unità 28.5.09
«Berlusconi è un pericolo»
L’Europa teme per noi
Financial Times, Independent, El PaisArticoli con toni preoccupati
Per il governo rispondenervoso il ministro degli Esteri: «Giudizi disonesti»
di Roberto Monteforte


Il premier Berlusconi è un pericolo per il Paese. Piovono le critiche della stampa estera al presidente del Consiglio. Giudizi comuni: dal Financial Times all’Independent, al El Pais. La reazione del ministro Frattini.

«Un pericolo per l’Italia». Giudizio duro, sferzante, quello sul presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi messo nero su bianco dall’organo della City, l’autorevolissimo quotidiano anglosassone Financial Times. E non è il solo. Usa quasi le stesse espressioni l’Independent. Fa notizia il «caso Berlusconi» sui media stranieri. È il modello «veline e vallette» che mette in allarme, come il rapporto con i media del premier. Gli dedica un suo editoriale lo spagnolo El Pais, come ha fatto nei giorni scorsi il Times di Londra e il Guardian.
«Non è un fascista», ma rappresenta un «pericolo, in primo luogo per l'Italia, ed un esempio negativo per tutti» osserva il Financial Times. Berlusconi, aggiunge ironico, «chiaramente non è Mussolini: lui ha squadre di veline, non di camicie nere». «Il pericolo rappresentato da Berlusconi è di ordine diverso». E lo spiega: «È quello dei media che rendono meno seri i contenuti della politica, sostituendoli con l'intrattenimento. È la spietata demonizzazione dei nemici e il rifiuto di garantire indipendenza alla concorrenza. È quello di mettere una fortuna al servizio della creazione di un'immagine forte, fatta della rivendicazione di infiniti successi surrogati da sostegno popolare». Non fa sconti il Financial Times. Salva il quotidiano «La Repubblica», giornale di «centro che tende a sinistra», che è stato il «più ostinato» nel porre le domande «sulla sua relazione con una teenager che vuole diventare velina». Ma critica «una sinistra assente», «le istituzioni deboli e spesso politicizzate» e «un giornalismo che troppo spesso ha accettato un ruolo subalterno»: tutte responsabili dell’aver reso «Berlusconi così “dominante”». L'obiettivo resta Silvio: «un uomo molto ricco, molto potente e sempre più spietato».
L’Independent ricostruisce le vicende del premier, i sui rifiuti di chiarire la sua situazione, il possibile calo dei consensi. «L’Italia è a un bivio» scrive. A dieci giorni dalle elezioni «c’è il rischio reale che il suo silenzio finisca per danneggiarlo». «Vivere ora in Italia - commenta- è come essere intrappolati in una colata lavica che lentamente, ma inesorabilmente scivola a valle». La conclusione: «Se il primo ministro può farla franca pur avendo una relazione adultera e quasi pubblica con un’adolescente senza essere chiamato a fornire spiegazioni, vuole dire che la nazione è in pericolo».
L’impunito per El Pais
«Impunito Berlusconi» è il titolo di El Pais. «Le ultime decisioni del suo governo - commenta- rivelano una escalation inquietante di questa impunità morale». Il quotidiano spagnolo punta il dito sull’«immunità giudiziaria» la sola cosa cui il premier « puntava veramente». Ricostruisce gli ultimi avvenimenti che lo hanno vista protagonista il Cavaliere. Parla della «relazione con la aspirante vedette Noemi Letizia» che «gli è costata il divorzio e ha rivelato un clima decadente da basso impero». Ricorda come «con disprezzo per le regole del gioco democratico» abbia mentito ripetutamente sulla sua relazione con Noemi, e rifiutato di rispondere alle domande elementari sul caso poste dal quotidiano Repubblica». Per i suoi rapporti con l'avvocato inglese David Mills, condannato in primo grado per corruzione in atti giudiziari a favore del premier, conclude El Pais «sarebbe costata le dimissioni immediate a qualsiasi altro dirigente».
Contro questo fuoco di fila risponde il ministro degli Esteri, Franco Frattini. Parla del consenso degli Italiani, dei risultati del governo. «Negare tutto questo - osserva- è disonestà». «Rispetto sempre anche la cattiva stampa - conclude - perché è esercizio di libertà di espressione, ma la tratto come cattiva stampa» «Il governo italiano, e in particolare il primo ministro Berlusconi, non merita queste affermazioni che vengono sempre da alcune fonti ben individuate».

Repubblica 28.5.09
"Berlusconi pericolo per il Paese"
Stoccata del Financial Times. Frattini: stampa estera disonesta
Il giornale della City: "Il Cavaliere non è un fascista, ma un esempio deleterio per tutti"
di Silvia Buzzanca


ROMA - Silvio Berlusconi non è Benito Mussolini e il fascismo non è all´orizzonte italiano. Ma il presidente del Consiglio è «un pericolo, in primo luogo per l´Italia, ed un esempio deleterio per tutti». I paragoni storici e il giudizio vetriolo sul Cavaliere arrivano questa volta da un fondo del Financial Times, il prestigioso quotidiano economico finanziario britannico.
Parole che suscitano un vespaio a Roma: parte dell´opposizione cavalca le parole del giornale, la maggioranza fa quadrato intorno al suo leader. A cominciare dal ministro degli Esteri Franco Frattini che bolla come «cattiva stampa» il fondo del Financial Times. Dietro, afferma il titolare della Farnesina, «non credo ci siano pregiudizi, c´è disonestà».
Il giornale britannico prende le mosse dalle ultime vicende che hanno coinvolto Berlusconi: il caso Mills e il caso Noemi. Soprattutto da quest´ultimo. E scrive che «Berlusconi chiaramente non è Mussolini: lui ha squadre di starlette e non di camicie nere».
Ma, continua il Ft, «il pericolo di Berlusconi è di ordine diverso da quello di Mussolini: è quello dei media che rendono fatui i contenuti seri della politica e li sostituiscono con l´entertaiment. È quello di una inesorabile demonizzazione dei nemici ed il rifiuto di garantire basi indipendenti ai diversi potere. È mettere una fortuna al servizio della creazione di un´immagine grandiosa, composta da affermazioni di successi senza fini e sostegno popolare».
Colpa della «sinistra esitante, di istituzioni deboli e a volte politicizzate, di un giornalismo che troppo spesso ha accettato un ruolo subalterno, ma soprattutto di un uomo molto ricco, molto potente e sempre più spietato», accusa il quotidiano. Che conclude: Berlusconi «non è un fascista, ma un pericolo in primo luogo per l´Italia, ed un esempio deleterio per tutti».
Non sarà Mussolini, ma è un Nerone, attacca allora Antonio Di Pietro. «Siamo al basso impero, con un Nerone nostrano che gode nel vedere bruciare il nostro paese sul piano economico, sociale e istituzionale», dice il leader dell´Idv. «Silvio, facci sopra una risata» consiglia invece al premier il ministro dell´Interno Roberto Maroni. Ma altri esponenti del Pdl evocano un complotto internazionale.
L´opposizione, oltre all´attacco del Financial Times, segnala anche quelli di Independent e El Pais. Il giornale britannico si chiede se il caso Noemi sarà la buccia di banana che porterà via il potere a Silvio Berlusconi. Il giornale spagnolo, invece, denuncia come che «le ultime decisioni del suo governo rivelino una escalation inquietante di impunità morale». E parla di «clima decadente da basso impero».

Repubblica 28.5.09
Ecco perché i giornali internazionali ci processano
Quello che l’Italia non vuole vedere
di Alexander Stille


Troppe verità e troppo potere quello che l´Italia non vede più
Qui si è dimenticato che all´estero lo strapotere di Berlusconi è del tutto inconcepibile
Negli Usa avrebbero trasmesso migliaia di volte le conversazioni tra il premier e Saccà

Perché c´è un´attenzione e una copertura così forte da parte della stampa estera sulla vicenda delle dieci domande di "Repubblica" a cui il presidente Silvio Berlusconi non ha ancora dato risposta? Eppure in molti ambienti italiani, non soltanto quelli del Popolo della Libertà, si dice che si tratta di mero pettegolezzo, di vicende puramente private e quindi senza significato politico. La differenza tra il comportamento della stampa italiana e quella americana nello scandalo Clinton è come la differenza che c´è tra il giorno e la notte.
A mio avviso, il caso Clinton non è stato un momento di gloria per la stampa americana. Ma dietro c´era un principio molto chiaro e molto sano: che il potere dev´essere trasparente, deve rendere conto di se stesso davanti al pubblico, deve rispettare le istituzioni di controllo, come il Congresso e la magistratura. Per di più, c´era il principio fondamentale secondo cui il comportamento di un capo di Stato non è puramente personale: se ha rapporti sentimentali con persone che lavorano dentro il governo, o che aspirano a farlo, diventa un caso squisitamente politico. Ha detto più o meno così, il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco: «La stoffa umana di un leader, il suo stile e i valori di cui riempie concretamente la sua vita non sono indifferenti. Non possono esserlo. Per questo noi continuiamo a coltivare la richiesta di un presidente che con sobrietà sappia essere specchio, il meno deforme, dell´anima del Paese».
C´è poi una questione di fondo che vale a ogni latitudine: un politico dovrebbe dire la verità. Nel caso italiano Berlusconi ha offerto tante verità diverse che non possono essere tutte attendibili, ovviamente, e dunque vere tutte. Quindi viene naturale chiedersi: che cosa si vuole coprire offrendo tante versioni di comodo, pur tra loro contraddittorie? Uno dei ruoli principali della stampa è la funzione di controllo del potere politico. Thomas Jefferson, il terzo presidente degli Usa, pur essendo stato attaccato duramente dai giornali per fatti personali (il suo chiacchierato rapporto con una sua schiava, rivelatosi recentemente vero grazie agli esami del Dna), ha scritto: «Se dovessi scegliere tra un governo senza giornali o giornali senza un governo, non esiterai un attimo a fare la seconda scelta».
Quando la stampa annusa il cattivo odore che esce da una storia – opacità, poca chiarezza, incongruenze del potere - sa che il suo ruolo è quello di indagare. Quando nota delle evidenti contraddizioni (e quindi bugie) nei racconti dei potenti -Berlusconi che sostiene di aver visto la giovane Noemi due o tre volte e sempre accompagnata dai genitori e lei che rivela che quando Berlusconi ha delle ore libere lo raggiunge a Roma o a Milano - allora il giornalismo capisce istintivamente che è il momento di insistere per arrivare alla verità. Il Financial Times di Londra, certamente non un giornale di sinistra, scrive che "il pericolo di Berlusconi è una spietata demonizzazione dei nemici e un rifiuto di lasciare uno spazio a poteri di controllo."
In Italia si è dimenticato che all´estero lo strapotere di Berlusconi è letteralmente inconcepibile: che l´uomo più ricco del Paese, proprietario di tre rete televisive nazionali e imputato in vari processi gravi possa guidare insieme il governo e il sistema mediatico pubblico, è qualcosa che stupisce anche l´americano più conservatore. Perchè non è una questione di destra e sinistra, ma di potere incontrastato. Questo è il punto. E la stampa internazionale, quando la moglie del premier parla di un uomo di 72 anni che frequenta minorenni sente e capisce che si tratta di una sorta di delirio del potere assoluto. Nel caso di Berlusconi, d´altra parte, i giornali sanno che l´auto-mitologia del potere non si può separare da un´auto-mitologia sessuale. Così come non si può separare il privato dal pubblico nella sua carriera politica. Più volte, e proprio con la stampa estera, Berlusconi ha scelto di parlare del sesso e della sua carriera di playboy. Davanti all´associazione della stampa estera, Berlusconi ha detto che il primo ministro danese Rasmussen era il più bel politico d´Europa e ha detto che sarebbe stato l´uomo giusto per sua moglie. Ha stupito Wall Street parlando delle belle segretarie che lavorano in Italia. Ha detto di avere fatto il playboy con la premier finlandese. Ha parlato delle sue fidanzate francesi, di una fidanzata turca.
Il premier ha invitato i giornali a speculare sui suoi possibili rapporti con le donne candidate quando nel 2008 ha detto: «Portiamo in Parlamento il 30 per cento di donne e si scatena la corsa a dire che sono fidanzate mie e di Gianfranco. Siamo supermen, ma certi traguardi sono impegnativi anche per noi...». L´idea che posti nel Parlamento e nel governo possano essere assegnati a donne con forse hanno avuto un rapporto personale con il presidente del consiglio avrebbe scatenato negli Stati Uniti una campagna di stampa che non si sarebbe fermata finché non fossero giunte risposte convincenti. Non per curiosità morbosa ma per un evidente uso personale del potere politico. Il fatto che in Italia una ragazzina che non ha neppure fatto la maturità possa pensare che, grazie al rapporto con il suo "papi", le spetti un posto nel parlamento è sintomo di una degenerazione evidente. Poi ci sono state le conversazioni intercettate tra Agostino Saccà, il capo della Rai fiction e Berlusconi, in cui il Cavaliere ha detto testualmente di chiedere favori nella sistemazione di alcune donne sia per "sollevare il morale del capo" sia per aiutarlo a convincere un senatore dell´opposizione a cambiare schieramento politico per fare cadere il governo. Ripeto: per fare cadere il governo. Cosa c´è di personale, di privato, in questa vicenda che configura un abuso di potere? Un uomo politico americano che avesse fatto altrettanto sarebbe finito.
Perchè quindi meno chiasso e meno attenzione in Italia? Negli Stati Uniti l´audio della conversazione Berlusconi-Saccà sarebbe stata trasmessa migliaia di volte su tutte le televisioni. In Italia, invece, vorrei sapere se un singolo telegiornale l´abbia trasmesso, anche una sola volta. Non per niente, il governo Berlusconi sta per approvare una legge che renderebbe le intercettazioni di uomini politici (e soprattutto la loro pubblicazione) pressochè impossibili. Quindi dove finisce la sfera privata e comincia quella dell´interesse pubblico? I giornali stranieri cominciano a domandarselo. Berlusconi ha sempre detto che «una cosa, se non è stata in televisione, non esiste». Molte delle cose di cui mi sono occupato in questo articolo non sono state mai nemmeno accennate dalla televisione italiana e spesso nemmeno da buona parte della stampa. Il silenzio di Berlusconi davanti alle dieci domande di Repubblica è dunque possibile solo perché il Cavaliere non ha risposto a tante altre domande e perché il sistema dei media non le ha neppure mai poste.

Repubblica 28.5.09
Migranti, Amnesty accusa l´Italia
"I respingimenti violano i diritti umani. Con la crisi economica nuovi abusi"
"È espressione del disprezzo verso le persone disperate che cercano aiuto"
di Giampaolo Cadalanu


ROMA - Gli abusi colpiscono sempre i deboli: non più solo il dissidente politico, l´oppositore scomodo, la comunità ribelle, ma il diseredato a stomaco vuoto, il membro di una minoranza discriminata, e naturalmente il migrante in cerca di una vita migliore. La denuncia di Amnesty International è chiarissima: fra i diritti umani oggi si deve intendere anche quello alla sopravvivenza. E non è accettabile fare come l´Italia, che chiude le porte ai bisognosi e ignora gli impegni internazionali già presi.
Per Christine Weise, presidente di Amnesty Italia, i respingimenti sono «espressione di un disprezzo dei diritti umani e delle persone disperate che cercano aiuto». E l´organizzazione considera l´Italia responsabile di quello che succederà ai migranti ricacciati nei campi profughi della Libia, da cui arrivano rapporti di tortura e maltrattamenti.
Ma dal rapporto 2009 di Amnesty si capisce che le "porte chiuse" dell´Italia sono solo l´ultimo tassello di un mosaico dove i diritti umani sono indeboliti, declassati o persino ignorati di fronte a preoccupazioni più prosaiche. Ieri era l´emergenza terrorismo, oggi è la recessione economica: ma la tutela della dignità umana, dice Amnesty, deve venire prima dei bilanci delle banche e delle preoccupazioni artificiose sulla sicurezza. Invece dietro la crisi si nascondono abusi come «la negazione alle comunità indigene del diritto a una vita dignitosa, gli sgomberi forzati di centinaia di migliaia di persone, l´aumento dei prezzi che ha provocato fame e malattie, il persistere di violenza e discriminazione delle donne». Per questo serve una mobilitazione generale, che Amnesty lancia con lo slogan "Io pretendo dignità".
C´è un passo avanti significativo: in discussione non ci sono solo le politiche repressive dei regimi, ma lo stesso modello di sviluppo iperliberista che ha spinto verso il baratro il sistema economico dell´intero pianeta. Ma è un passo inevitabile se, come dice Daniela Carboni, responsabile delle Campagne, «la povertà non è frutto del caso, è il risultato di decisioni umane. Ma non è una condizione accettabile, né immutabile».

Repubblica 28.5.09
Jacques Barrot, Commissario europeo alla sicurezza: "Da voi meno rifugiati della media Ue"
"L´asilo politico va garantito ecco dove Roma sbaglia"
di Andrea Bonanni


Bisogna organizzare centri di esame nei paesi di imbarco. La priorità è fermare la carneficina nel Mediterraneo

BRUXELLES - L´Europa e i suoi stati membri devono garantire il diritto d´asilo dei potenziali rifugiati. No, dunque, ai respingimenti sommari dei barconi provenienti dalla Libia, anche se il problema deve essere risolto a monte, nei paesi di partenza, e non si può pretendere di aprire la porta a tutti, favorendo così anche i trafficanti di esseri umani. In questa intervista concessa ad un gruppo di giornali europei, Jacques Barrot, commissario alla Sicurezza, libertà e giustizia, mette in guardia i governi europei contro il rischio che l´estate nelle acque del Mediterraneo si trasformi in una carneficina di clandestini. «Dopo la crisi economica, quella dell´immigrazione è l´emergenza più grave se l´Europa continua a non volere guardare il faccia la realtà, rischia di avere un brutto risveglio». E critica anche la criminalizzazione dell´immigrazione, che preferisce definire «irregolare» piuttosto che «illegale».
L´Italia si è attirata le critiche dell´Onu e dell´Alto commissario per i rifugiati, Guterres, per aver rimandato in Libia barche di migranti senza consentirne lo sbarco. Come giudica il comportamento delle autorità italiane?
«L´Italia è meta di un forte flusso di clandestini. Nel 2008 trentamila. Molti di loro non hanno diritto di chiedere asilo. Ma io stesso ho fatto presente alle autorità italiane il pericolo che, respingendo indiscriminatamente le barche, si respingano anche persone che chiedono asilo. E´ questo il rischio. Mentre per noi europei il diritto di asilo è sacro e inviolabile. Certo, alcuni paesi sono sommersi di rifugiati che chiedono asilo. A Malta ce ne sono 18 ogni mille abitanti quando la media europea è dello 0,25%. A Cipro sono 41 ogni mille abitanti. Per questo mi preparo a chiedere ai ministri degli interni europei di accogliere nei loro Paesi un po´ dei rifugiati che attualmente sono ammassati a Malta, in Grecia, a Cipro e in Spagna».
E in Italia?
«In Italia i richiedenti asilo sono solo 1,26 ogni mille abitanti: la metà della media europea».
E allora, se non si possono respingere i barconi, che si fa?
«Mi rendo conto del problema. E l´ho fatto presente anche a Guterres. Perché impedendo il respingimento dei barconi, si finisce per mettere i richiedenti asilo nelle mani dei trafficanti. Invece, anche con la collaborazione dell´organizzazione dell´Onu per i rifugiati, bisogna organizzare centri di esame delle richieste di asilo nei paesi di imbarco: in Libia, in Tunisia, in Egitto».
E come far fronte all´immigrazione illegale?
«Questo termine non mi piace: sa troppo di criminalizzazione. Preferisco parlare di immigrazione irregolare. Più corretto».
Da noi, invece, si crea il reato di clandestinità.
«Sì, lo so che in alcuni Paesi l´immigrazione irregolare è considerata un crimine. Si tratta di decisioni interne su cui non voglio interferire. Ma io devo essere anche sensibile alla percezione che si ha fuori dall´Europa, in Africa o in Sudamerica, dove la criminalizzazione degli immigrati è vista con irritazione».
E allora, che fare degli immigrati irregolari?
«Stiamo lavorando per facilitare gli accordi di riammissione nei Paesi di origine. Ma la priorità evitare tragedie. Se non troviamo una soluzione comune e regole condivise, il rischio è che ci si rimpalli i clandestini tra un paese e l´altro, come è già successo. E questa è la premessa per un disastro umanitario: già ora si calcola che il 20% dei disperati che partono dall´Africa non arrivino in Europa. Dobbiamo fermare questa carneficina»

l’Unità 28.5.09
Amnesty accusa: l’Italia calpesta i diritti umani
di Umberto de Giovannangeli


Un anno fa aveva lanciato l’allarme rispetto alla china razzista verso la quale l’Italia si stava dirigendo. Un anno dopo, Amnesty International documenta nel suo rapporto una deriva inquietante.


«Un anno fa lanciammo un preciso allarme rispetto alla china razzista verso la quale l’Italia si stava dirigendo. A un anno di distanza siamo di fronte a una realtà ormai definita: l’Italia è precipitata nell’insicurezza e sta mettendo a repentaglio l’incolumità di molte persone, oltre alla propria reputazione nel panorama internazionale». E ancora: «Come spesso accade, l’accanimento discriminatorio verso un gruppo piccolo, debole e marginalizzato come i rom è stato solo l’inizio. Ha rappresentato il centro della spirale di disprezzo per i diritti umani che si è andata poi allargando e oggi colpisce sempre più persone». Un j'accuse possente. Una denuncia argomentata.
QUADRO A TINTE FOSCHE
Un grido d’allarme che va raccolto. A lanciarlo è Christine Weise, presidente della sezione italiana di Amnesty International. L’occasione è la presentazione del «Rapporto 2009. La situazione dei diritti umani nel mondo» e della campagna «Io pretendo dignità» lanciata a livello mondiale da Amnesty.
Dagli sgomberi ai respingimenti in mare: l’Italia sotto accusa. Rileva la presidente di Amnesty Italia: «Gli sgomberi delle comunità rom e sinti sono proseguiti in diverse città. Al contempo, queste minoranze sono state vittime di aggressioni verbali e fisiche di stampo razzista da parte di privati cittadini. Ciononostante, la criminalizzazione dei gruppi minoritari continua ad essere un ingrediente di ogni campagna elettorale, costi quel che costi». Il rapporto di Amnesty supporta con dati, testimonianze, questa grave denuncia. «Le riforme delle norme sull’immigrazione - osserva Weise - procedono senza una precisa pianificazione ma dense di misure atte a colpire negativamente oggi aspetto della vita delle persone migranti. La norma palesemente discriminatoria, che distingue la gravità di un reato a seconda che sia commesso da un italiano o da un immigrato irregolare, è già legge dello Stato. E in questi giorni - ricorda la presidente di Amnesty Italia - è davanti al Senato una proposta che allontanerebbe i migranti irregolari da ogni istituzione o edificio statale: dalle scuole, dagli ospedali, dagli uffici anagrafe comunali. Questo effetto perverso seguirebbe all’introduzione del reato di ingresso e permanenza irregolare ed è solo un elemento della situazione di allontanamento dei migranti irregolari dalla società, davanti a cui ci troveremmo in caso di approvazione dell’ultima parte del cosiddetto “pacchetto sicurezza”». I respingimenti. Altro dossier caldissimo.
MARE D’INGIUSTIZIA
«Ciò che accade ora nel Mediterraneo - spiega la presidente di Amnesty Italia - sta tenendo alla larga da questa e da altre garanzie le persone che sono in fuga dalla tortura e dalla persecuzione. Nel corso di questo mese almeno 500 persone, tra cui richiedenti asilo provenienti dalla Somalia e dall’Eritrea, sono state fermate in alto mare e portate a forza in Libia, un Paese che non ha una procedura di asilo».
Non basta. Denuncia ancora Amnesty: «In altri casi - quello della nave Pinar è il più noto - i migranti e i richiedenti asilo sono stati lasciati in alto mare, in attesa che l’Italia si attardasse in disquisizioni di diritto marittimo con Malta, dimenticando una regola fondamentale che la gente di mare conosce senza doverla imparare: salvare vite umane è un imperativo assoluto e ha priorità su ogni altra considerazione». Avverte Amnesty: «Il rinvio forzato in Libia è una politica estrema che si pone nel campo della responsabilità degli Stati per illeciti internazionali. Su questo punto - rimarca Christine Weise - vogliamo essere chiari: l’Italia sarà considerata responsabile per ciò che accadrà in Libia a ognuna delle persone lì ricacciate». Dalla Libia, osserva Amnesty, arrivano «persistenti rapporti di tortura e altri maltrattamenti di migranti, rifugiati e richiedenti asilo in stato di detenzione, a questi ultimi non è stata data protezione, come richiesto dal diritto internazionale sui migranti». Questa prassi - rimarca Amnesty - è il frutto amaro, ma non inatteso, di una «cooperazione incondizionata in cui l’Italia non chiede alla Libia garanzia sui diritti umani di migranti e rifugiati».

Repubblica 28.5.09
Giordano Bruno può attendere
di Michele Smargiassi


La Terra, intesa come pianeta, non ha atteso il 31 ottobre 1992, giorno in cui Giovanni Paolo II riabilitò Galileo Galilei, per mettersi a girare attorno al sole: in evidente spregio ai dogmi lo faceva già da quattro miliardi di anni. Quindi non è chiaro quali benefici effetti sul pensiero umano potrebbe avere la riabilitazione di Giordano Bruno, sollecitata (per la verità senza eccessive speranze) dal fisico Nicola Cabibbo, presidente della Pontificia accademia per le scienze, in un´intervista a Famiglia Cristiana. Le teorie sull´universo e sulla natura dell´uomo del domenicano ribelle, arso sul rogo in Campo de´ Fiori nell´anno del Signore 1600, sono ancora in buona parte indigeribili per la dottrina cristiana; ma è apprezzabile la buona volontà. Del resto, anche Charles Darwin è stato "perdonato" dal Vaticano nel ´96, ma provate a insegnare l´evoluzionismo in certe scuole cattoliche. Senza contare che una netta differenza tra lo scienziato e il filosofo esiste: se nei confronti di Darwin la reazione della Chiesa si limitò ad essere fredda, con Giordano Bruno fu invece molto, molto calda.

La Nazione Il Resto del Carlino Il Giorno 28.5.09
La Chiesa riabilita Giordano Bruno? Gli studiosi: «Ridicolo»


LA CHIESA cattolica riabilita Giordano Bruno? «Forse», risponde Nicola Cabibbo, presidente della Pontificia accademia delle scienze. «Ne ho parlato in Vaticano - prosegue il fIiico in un'intervista a 'Famiglia cristiana' - ma per ora segnali non ce ne sono. La teoria di Giordano Bruno oggi è dimostrata dall'esistenza dei pianeti extrasolari, osservati dai telescopi in orbita. Il problema sono il processo e la condanna. Credò che se ne sappia meno che del processo a Galileo Galilei. E poi non sarà facile riconoscere che non c'era alcuna ragione per metterlo al rogo». Il caso Galileo, poi «ha disorientato»: «La Chiesa era impreparata di fronte al nuovo modo di indagare la natura, quasi che la scienza pretendesse di svelare il Mistero». Ma l'idea non scuote la comunità scientifica. Anzi, si può parlare di vera e propria indifferenza. Aldo Masullo, docente emerito di filosofia morale all'Università di Napoli: «Oggi né a Bruno né ai suoi estimatori importa più nulla del riconoscimento della Chiesa». E Michele Ciliberto, professore di Storia della Filosofia moderna e contemporanea alla Normale di Pisa e presidente dell'Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento di Firenze: «Bruno è il pensatore più radicalmente anticristiano del Cinquecento europeo». Non ha dubbi anche Massimo Cacciari: «Riabilitare Bruno? Semplicemente ridicolo», dice il filosofo-sindaco di Venezia. Mostra pollice verso sulla riabilitazione Guido Del Giudice, autore di studi sul pensiero bruniano cui ha dedicato il sito www.giordanobiuno.info: «Già nel Duemila la lettera del cardinal Sodano fu esplicita: pur concedendo la sproporzione della condanna inflitta al filosofo europeo, la Chiesa ne difendeva ancora storicisticamente la legittimità».

mercoledì 27 maggio 2009

Repubblica 27.5.09
L’incubo di Albino, figlio di Mussolini
risponde Corrado Augias


Cortese dott. Augias, ho visto il bel film di Bellocchio 'Vincere'. Mi hanno disturbato le risatine da «bambini scemi» durante la prima parte quando Filippo Timi tratteggia il giovane Benito e l'atmosfera che lo circondava. Che Mussolini avesse personalità e carisma da leader non lo scopro certo io, che fosse un cialtrone lo testimonia lui medesimo, come capita a tutti i cialtroni che non possono uscire da sé stessi neanche volendo. Resta drammatico il rapporto che si instaura fra quel personaggio e un popolo che lo riconosce come guida. Accade talvolta che questi «burattinai» siano in realtà dei «burattini» che ad un certo punto si scollegano dai fili di chi crede di poterli tenere alla giusta distanza. Tutto ricade sulle spalle del popolo che non sempre ha i mezzi per riconoscerli per ciò che sono. L'attualità del film di Bellocchio è da questo punto di vista sconvolgente. Che abbia sin qui raccolto maggiori consensi all'estero, dove lo possono guardare con sereno distacco, che non in Italia, dove richiamando alla memoria il passato, si alza come un potente grido di allarme, forse è, allo stato delle cose, inevitabile.
Vittorio Melandri vimeland@alice. it

'Vincere' come ha benissimo riferito la nostra Natalia Aspesi da Cannes, racconta la vicenda di Ida Dalser, giovane donna trentina (nata nel 1880) che Mussolini avrebbe sposato con rito religioso e dalla quale nel 1915 ha avuto un figlio (Benito Albino) da lui regolarmente riconosciuto. Credo di capire da dove siano venute le 'risatine'. Nella prima parte il rapporto tra i due amanti è descritto in tutta la sua passionalità. Mentre però nella donna (interpretata da Giovanna Mezzogiorno) c'è dedizione completa. In Mussolini (Filippo Timi), all'ardore amoroso si mescola l'ambizione politica per cui lo si vede (di spalle) mentre, scioltosi da un abbraccio, si affaccia nudo su una piazza deserta che di colpo si riempie delle grida di una folla osannante come sarà poi a piazza Venezia. Proprio perché così appassionata, la sventurata Ida diventa un impaccio per il giovane aspirante dittatore e Mussolini è costretto a disfarsene. Come? Facendo rinchiudere in un manicomio lei e in un altro asilo per alienati suo figlio Benito Albino. La donna protesta di essere sua moglie, il giovane si proclama suo figlio ma questo può solo peggiorare la loro situazione. Il controllo di Mussolini sulla polizia e sui media sta diventando totale. E quando si dispone di una stampa servile nulla può la verità. E' questo aspetto che a buon diritto ha impressionato il signor Melandri. Mi ha scritto da Bologna Valeria Babini (babini@philo. unibo.it): «Bellocchio ci dà, attraverso il racconto di una vicenda privata, la storia di un incubo che è stato di tutti».

Repubblica 27.5.09
Berlusconi: "La sinistra mi odia" Bondi attacca Repubblica a Ballarò
Belpietro: "L’ex fidanzato di Noemi ha avuto una condanna"
D’Alema: ora ci risparmierà gli appelli all’insegna di Dio, patria e famiglia
di Gianluca Luzi


ROMA - Da qualche giorno il Cavaliere furente evita il contatto con la folla. Insolito per lui e infatti, dopo un periodo di clausura costellato solo di interviste tv e sfoghi con i giornali amici, ha deciso di farsi vedere di nuovo in piazza. Stasera intanto, dopo l´incontro con Zapatero, sarà all´Olimpico per assistere alla finale di Champion´s. Poi, forte della sicurezza di avere con sé gli italiani, sarà venerdì all´Aquila, sabato alla Maddalena per controllare i lavori dopo lo spostamento del G8. Domenica andrà a Bari per un comizio e dopo la parata del 2 giugno ai Fori Imperiali potrebbe intervenire a qualche altra tappa elettorale a partire da Milano. Convinto che ci sia un´offensiva che mette in fila la sentenza Mills e il caso Noemi, Berlusconi si sfoga: «Ogni giorno mi stanno gettando del fango adosso, ma io sono sereno, vado avanti per la mia strada...». Di tutto il caso Noemi si è occupata ieri sera una infuocata puntata di Ballarò in cui il ministro Bondi ha attaccato aspramente il nostro giornale e il direttore di Panorama Maurizio Belpietro, polemizzando con il direttore di Repubblica Ezio Mauro, ha sostenuto che l´ex fidanzato di Noemi, Gino Flaminio, sarebbe stato condannato in passato a due anni e sei mesi. La strategia del premier scelta con il suo avvocato-deputato Niccolò Ghedini - che ieri è entrato a Palazzo Grazioli appena il premier è tornato da Arcore - è ormai consolidata: la sinistra allo sbando e a corto di argomenti si butta sul gossip «per inventare storie false, gettare fango. Tutta una messinscena per disarcionarmi». Questo lo ha detto al telefono a un convegno di partito a Milano. E gli uomini della sinistra - ha rincarato la dose a un´emittente toscana - sono «politici professionisti che non sanno fare altro mestiere se non la politica e che quindi lo fanno non per gli altri ma per se stessi e sono malati di odio politico». L´obiettivo di Berlusconi è superare il quaranta per cento e ottenere un plebiscito sul suo nome. Una sorta di referendum. Ieri però si è preoccupato di smentire che le europee «saranno un test su di me». La vicenda Noemi pesa, anche sui sondaggi e D´Alema si augura che almeno un risultato ci dovrebbe essere: il presidente del Consiglio «d´ora in poi ci risparmierà gli appelli all´insegna di Dio, patria e famiglia». Ma peserà anche sui rapporti fra Berlusconi e la Chiesa? Il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, richiesto di un parere sulla vicenda Noemi, si chiama fuori da un giudizio diretto ma spiega che «il richiamo alla responsabilità degli adulti» fatto dal cardinale Bagnasco, vale per tutti, «non può essere sottovalutato o evaso», ma nemmeno «strumentalizzato a livello di cronaca quotidiana». Ognuno - ha osservato significativamente - «ha la propria coscienza e ognuno ha la propria capacità di giudizio». Sullo sfondo resta la domanda se sia lecito occuparsi delle vicende private di un politico. Formigoni pensa di sì: «E´ lecito discutere anche della vita personale delle persone pubbliche, e Berlusconi è certamente una persona pubblica». Del resto lo stesso premier ha sempre utilizzato la sua vita privata a fini di consenso politico. Ieri, intanto è stato il giorno delle mozioni in Parlamento: quella dell´Idv e quella del Pd. Il partito di Franceschini batte sul tasto della sentenza Mills e chiede al premier di rinunciare allo scudo del Lodo Alfano.

Repubblica 27.5.09
Il Cavaliere sotto assedio "Non farò la fine di Leone"
"Se insistono chiederò il giudizio degli elettori"
Il premier teme il precedente del capo dello Stato dimessosi per la Lockheed
di Claudio Tito


ROMA - «Vorrebbero farmi fare la fine di Leone...». Silvio Berlusconi continua a sentirsi sotto assedio. È convinto che sia in atto una «manovra» per farlo «disarcionarlo». Sostanzialmente per farlo dimettere. Costruire un caso e indurlo a lasciare Palazzo Chigi. Come è accaduto, a suo giudizio, nel 1994 con l´avviso di garanzia ricevuto a Napoli durante la Conferenza Onu sulla criminalità. Ma l´esempio che a Palazzo Grazioli viene considerato il vero punto di riferimento è quello che ha riguardato l´ex presidente della Repubblica, Giovanni Leone. Che si dimise nel giugno 1978 sull´onda dello scandalo Lockheed senza concludere il settennato presidenziale.
Anche allora, hanno ricordato al premier alcuni ministri, ci furono attacchi e la richiesta di dimissioni arrivò dall´opposizione, dal Pci. In una certa misura il Cavaliere crede di vivere la medesima situazione. «Ma io non cederò, non mi farò mettere sulla graticola», ha avvertito. «Non mi farò travolgere da un manovra antidemocratica. Da un altro ribaltone».
Anzi, è sicuro che il caso Noemi sia destinato a sgonfiarsi. «Siccome non c´è altro rispetto a quello che è stato pubblicato e io ho già spiegato - è il ragionamento fatto in queste ore - tutto finirà presto». Del resto, va ripetendo, «cosa ho fatto? Dov´è il reato?». Tant´è che prima di ritornare sull´argomento intende aspettare qualche giorno. Silenzio, per ora. «Non posso replicare quotidianamente», si lamenta. Preferisce, insomma, capire se sul "Casoria-gate" ci saranno altri sviluppi o sorprese. Modulerà la reazione proprio in base alle eventuali puntate successive. Il perno della sua risposta saranno in ogni caso le prossime elezioni europee. «La gente sarà comunque con me - ripete -. E lo vedrete dopo il 7 giugno». Il premier infatti punta a superare il 40% con il Pdl: «Se sarà così, tutti dovranno stare zitti». Tant´è che la sua agenda è cambiata. Ne ha parlato con ieri con un gruppo di parlamentari con i quali ha abbozzato le mosse dei prossimi giorni. Ha registrato gli spot elettorali: aveva preventivato di puntare solo sulla tv e su interventi via etere. Da ieri, però, ha preparato pure un programma di comizi in un minitour per le piazze d´Italia. Obiettivo: tornare a fare bagni di folla.
Nonostante le previsioni ottimistiche, però, a Via del Plebiscito sono pronti a organizzare pure le difese anche nel peggiore dei casi. A Via del Plebiscito, infatti, temono che la «manovra» possa essere accompagnata da altri capitoli. A partire dal coinvolgimento di altri "protagonisti" del Noemi-gate. Eppoi il fantasma delle intercettazioni telefoniche è tornato ad aleggiare a Palazzo Chigi e nelle chiacchierate dei parlamentari della maggioranza. Così come l´inchiesta di Napoli sul termovalorizzatore di Acerra che potrebbe toccare alcuni degli esponenti del governo. Questioni che provocano un certo allarme nel Pdl. Soprattutto in vista del G8 dell´Aquila. Il rischio che durante il summit dei "grandi" possa essere replicato quanto è accaduto nel ´94, è il vero incubo del premier. Tant´è che in questi giorni Berlusconi ha impegnato la Farnesina a difendere l´immagine dell´esecutivo sui giornali internazionali. Molti dei quali hanno riservato molte pagine alla querelle "Silvio-Veronica-Noemi". Il presidente del Consiglio sta cercando di rimediare le lesioni alla sua immagine all´estero. Proprio per evitare che il G8 si trasformi in un vertice concentrato sulle sue faccende personali. «Ma sia chiaro - ha ammonito con i fedelissimi - che io non mi farò mettere sulla graticola. Non mi farò logorare da queste vicende. Se insisteranno su questa strada, allora io risponderò. E mi rivolgerò al giudizio dei cittadini».

Corriere della Sera 27.5.09
Potere, gossip e riforme
Il consenso e la misura
di Sergio Romano


Un mese fa, dopo il terremoto de­gli Abruzzi e la fondazione del Pdl, Berlusconi poteva legit­timamente sostenere di avere con sé la maggioran­za degli italiani. La soluzio­ne del pasticcio napoleta­no, la rinascita della compa­gnia aerea nazionale, la sua continua presenza sul cam­po, all’Aquila, gli effetti con­tenuti della crisi del credito sull’economia nazionale e gli affanni dell’opposizione gli garantivano un consen­so senza precedenti. E’ pos­sibile che qualche sondag­gio peccasse di una certa esagerazione, ma il suo compiacimento non era in­giustificato. Avrebbe dovu­to ricordare che i sondaggi sono soltanto istantanee e riflettono gli umori di un Paese per sua natura mute­vole. Il buon lavoro fatto a Napoli e in Abruzzo andrà verificato alla luce dei risul­tati. Cai non è ancora uscita dalla fase del rodaggio. Il Pdl contiene molte anime. La Lega ha un’agenda a cui non intende rinunciare. E come tutte le coalizioni, an­che quella di Berlusconi è una somma di reciproche convenienze, un patto de­stinato a durare sino a quando i soci ne traggono qualche vantaggio. Ma non è facile suggerire la pruden­za a un uomo che ha costru­ito la propria vita sulle fon­damenta dell’ottimismo.
Ora, dopo le vicende del­le scorse settimane, la fac­ciata dell’edificio di Berlu­sconi comincia a rivelare al­cune crepe. Nulla di vera­mente nuovo e sorprenden­te. Sapevamo che Fini, do­po il discorso pronunciato al congresso del Pdl, non avrebbe perduto occasione per sottolineare l’originali­tà delle proprie posizioni. Sapevamo che le baruffe per l’Expo avrebbero nuo­ciuto all’immagine di Mila­no e, quindi, a quella di Ber­lusconi. Sapevamo che l’al­leanza con il movimento di Raffaele Lombardo a Paler­mo era una operazione sici­liana, basata su logiche di­verse da quelle della politi­ca nazionale. Sapevamo che il processo Mills avreb­be continuato a spargere ve­leni. Nulla di ciò che è acca­duto in questi giorni era im­prevedibile e inatteso. Ma l’effetto di questi episodi è stato moltiplicato da una faccenda di cui, francamen­te, avremmo preferito non occuparci.
Penso al caso Letizia na­turalmente. Se il presiden­te del Consiglio afferma di non essersi comportato co­me un vecchio satiro sono pronto a credergli. Ma il ca­so non sarebbe scoppiato se Berlusconi non avesse creduto di potersi permet­tere comportamenti che provocano reazioni imba­razzate anche da chi non gli è pregiudizialmente osti­le. La vita privata diventa pubblica nel momento in cui sorge il sospetto che l’ebbrezza del consenso ab­bia alterato il concetto che Berlusconi ha di se stesso e delle sue funzioni. Sappia­mo che ha molti fedeli, di­sposti a sostenerlo in qual­siasi circostanza. Ma il suo vero successo dipenderà in ultima analisi da ciò che avrà fatto durante questa le­gislatura. L’Italia ha biso­gno di riforme strutturali e costituzionali. Deve supera­re la crisi e approfittarne per affrontare problemi, dalle pensioni al mercato del lavoro, che hanno lun­gamente rallentato il suo progresso. E’ giusto che il governo conti anzitutto sul­le proprie forze. Ma è sba­gliato credere che il proble­ma delle riforme istituzio­nali possa essere evocato a piacimento con dichiarazio­ni polemiche e iniziative unilaterali, sull’onda delle circostanze, come se non fosse all’ordine del giorno da almeno tre decenni e non richiedesse una intesa con l’opposizione. Con una formula che dovrebbe pia­cere a Berlusconi, l’unica cosa da fare in questo mo­mento è parlare di meno, lavorare di più.

Corriere della Sera 27.5.09
E il premier fa la conta dei nemici
di Francesco Verderami


La serenità perduta del premier
Inquietudine anche per il caso rifiuti. Sollievo sulla Chiesa: fandonie, i rapporti non sono rotti

Un mese fa, dopo il 25 aprile, si sentiva ed era «il presidente di tutti gli italiani». Un mese dopo eccolo, il premier, rifugiarsi nelle viscere dello stadio a San Siro, inseguito dai cori su «Noemi» e «papi», preoccupato che le telecamere possano immortalare la scena, trasformando quelle parole nelle moderne monetine di Craxi.
Il retroscena Il capo del governo racconta della madre e della sorella scomparse: che vuoto nella mia vita

Domenica scorsa per Berlusconi do­veva essere un test per il ritorno in pub­blico, un esperimento nel salotto di ca­sa, al «Meazza», con il suo Milan: è fini­ta peggio della sfida di calcio con la Ro­ma. Così il Cavaliere è tornato a rinta­narsi, a comunicare dal chiuso del suo ufficio, plumbeo nell’umore e sordo agli appelli di quanti gli chiedono di uscire allo scoperto e contrattaccare.
Come se non bastasse la gogna me­diatica di cui si sente vittima, e che gli sta procurando un calo nei consensi e un vistoso danno d’immagine interna­zionale, da giorni è assillato per una nuova offensiva giudiziaria, i cui con­torni gli sono ancora poco chiari, pro­veniente da Napoli, questo è certo, co­me sembra certo che la vicenda sia le­gata al problema dei rifiuti. In princi­pio aveva temuto soltanto per il capo della Protezione civile Bertolaso, ora sa di essere anche lui «nel mirino» e sostiene che «la manovra fa parte del disegno per colpirmi», per lavorarlo ai fianchi e fiaccarlo politicamente.
Quando si perde la serenità ogni om­bra ingigantisce i timori e i sospetti, sebbene l’opinione pubblica continui a sostenerlo nei sondaggi. Così nel san­cta santorum del premier c’è chi — fa­cendo di conto sui suoi «nemici» — ag­giunge alla lista addirittura il tycoon australiano Murdoch, e motiva questa congettura legando l’aumento dell’ali­quota agli abbonamenti per la tv satel­litare, deciso l’anno scorso dall’esecuti­vo, ai ripetuti attacchi del Times con­tro il Cavaliere.
In un’atmosfera davvero surreale, nel governo c’è persino chi racconta di strani conciliaboli dentro e soprattutto fuori dal Palazzo, su un fantomatico «governo di emergenza economica» da approntare se l’argine degli ammor­tizzatori dovesse cedere per l’aumento esponenziale della disoccupazione, precipitando il Paese in una crisi socia­le. «Mi viene da ridere», è stato il com­mento a denti stretti del premier. Ep­pure ieri Bossi è stato sibillino quando ha detto che la crisi economica durerà ancora due o tre anni, per poi aggiun­gere che «tutto dipende da chi sarà al­la guida. Se c’è Berlusconi qualche la­voro si trova». «Se» c’è Berlusconi? Ma la legislatura non termina tra quattro anni?
Il «caso Noemi» è come un fer­mo- immagine, la politica appare fer­ma, in attesa di nuovi e clamorosi col­pi di scena o di una reazione del pre­mier. Così s’inseguono voci su un ritor­no a breve in pubblico di Berlusconi, già stasera all’Olimpico per la finale di Champions, e illazioni senza fonda­mento, compresa quella che vorrebbe la ragazza di Casoria una «nipote segre­ta» del Cavaliere. Ecco quali effetti di­storsivi produce quell’immagine bloc­cata che ipnotizza tutti.
Ma la politica in realtà è in gran mo­vimento. La crisi della giunta siciliana, per esempio, è interpretata nel centro­destra come l’anticipazione di quanto potrebbe accadere nel day-after berlu­sconiano, il rischio cioè dell’implosio­ne del progetto pdl. Sul fronte delle ri­forme si prepara una union sacrée con­tro i progetti del Cavaliere. La Lega poi — come spiega il ministro Calderoli — è «preoccupata di far vedere i risul­tati del governo» e allo stesso tempo «è preoccupata per Berlusconi», per il suo stato d’animo. E nel Carroccio re­sta forte il timore per ciò che potrà de­cidere il premier sul referendum dopo le Europee.
C’è «Noemi» però. E allora si atten­de che persino la Cei prenda posizione sull’argomento. E l’ansia si era impa­dronita anche di Berlusconi, se è vero che ieri mattina — tirando un sospiro di sollievo — ha anticipato a un autore­vole ministro che «tra poco i vescovi italiani assumeranno una posizione comprensiva», che «farà giustizia di quanto si dice in giro, e cioè che si sa­rebbero rotti i rapporti con il mondo cattolico. Non è vero, tutte fandonie. La sinistra si illudeva». In effetti la Cei ha deciso di non esprimere un giudi­zio sul premier, anche se «non si può essere incuranti degli effetti che certi atteggiamenti producono».
Il Cavaliere non ha tirato a indovina­re, ancora una volta deve tutto alle rela­zioni diplomatiche Oltretevere di Gian­ni Letta. «Ma io vi giuro sulla testa dei miei figli che nulla di quanto si dice è vero», ha ripetuto Berlusconi ai suoi più fidati consiglieri: «Ed è avvilente che la sinistra si sia gettata così nelle mie tristi vicende personali». E nel rac­contare la propria tristezza ha evocato la madre e la sorella scomparse, «il vuoto che hanno lasciato nella mia vi­ta ». Medita di prendersi «una rivincita contro i fomentatori d’odio», intanto resta chiuso nel suo bunker. Solo con se stesso e con la sua valanga di con­sensi.

il Riformista 27.5.09
Berlusconi e la questione femminile
di Ritanna Armeni


I suoi più fidi collaboratori sono davvero preoccupati. Si dice che Silvio Berlusconi sia in uno stato di tensione estrema, che minacci di tutto, che, insomma, abbia quasi perso ogni self control. Non c'è da stupirsene.
La situazione non è semplice; anzi, forse per la prima volta dall'inizio della sua avventura politica, le difficoltà del premier sono davvero grandi e nuove, i fronti dai quali difendersi e contro i quali fare fuoco sono molti.
E tuttavia non credo che il nervosismo, la perdita di controllo, le minacce che il premier lancia a questo o a quello siano solo la conseguenza delle sue difficoltà di fronte alle quali - come abbiamo tutti avuto modo di constatare in questi anni - Silvio Berlusconi ha sempre poi recuperato con una marcia in più, con una capacità di spiazzare l'avversario e di mostrare il sorriso anche dopo un triplo salto mortale.
No, io credo che questa volta il capo del Popolo delle libertà non sia colpito dagli attacchi che gli vengono rivolti, ma da una constatazione che sicuramente - abile e sensitivo come è - ha già fatto.
Per la prima volta la sua avventura politica e i suoi nuovi obiettivi hanno incontrato un argine, per la prima volta ha di fronte a sé un muro che non riesce a scalare, per la prima volta il suo percorso personale e di potere subisce uno stop.
Non si tratta di qualche crepa che per quanto evidente non avrebbe portato alla distruzione della casa. E infatti i sondaggi tenevano, qualcuno mugugnava, e quelli che criticavano potevano essere facilmente messi a tacere.
Oggi è diverso. Il problema non sono le incrinature più o meno profonde, ma il fatto che un cammino che avrebbe dovuto portarlo molto più in alto, a nuovi livelli di potere si è fermato. Se la marcia aveva come obiettivo il Quirinale, e la presidenza della Repubblica in un quadro istituzionale che definisse nuovi e più forti poteri per la maggiore carica dello Stato, essa è stata bloccata. Perché comunque vadano le cose da questo momento in poi dalla vicenda di Casoria, alla sentenza Mills, alle reazioni internazionali, è oramai evidente che qualcosa del progetto personale di Silvio Berlusconi si è incrinato in modo, pensiamo, non recuperabile. E questa constatazione che - ammettiamolo - innervosirebbe chiunque è addirittura insopportabile per chi come il premier punta ad addomesticare più che a governare, a conquistare più che a dirigere, e non ha mai cessato di perseguire il mito della cultura aziendalistica da trasferire a un Paese finalmente privo dai lacci e laccioli delle istituzioni e in mano a un leader efficiente, potente e carismatico.
Un sogno si è infranto. E se nei giornali, nelle migliaia di articoli che seguono quotidianamente le vicende del premier se ne parla poco, se solo pochi isolati commentatori lo sottolineano (una fra queste Ida Dominianni sul Manifesto e sul Foglio) questo è dovuto a due problemi che elenco e non in ordine di importanza.
Il primo riguarda l'opposizione che, per quanto in periodo elettorale voglia apparire più arrabbiata e aggressiva, prima che il nuovo affaire Berlusconi scoppiasse, era sostanzialmente rassegnata ad assistere a un'ulteriore ascesa del premier e al prolungarsi del suo governo e del suo potere negli anni a venire. Questa crisi era inaspettata nelle forme e nei contenuti. E trova un'opposizione inadeguata e impreparata che infatti dice una cosa e il suo contrario e non sa mettersi d'accordo sulle modalità politiche e culturali con cui affrontare la nuova situazione, Altri erano i temi su cui si doveva giocare la campagna elettorale. Altri erano i tempi previsti per una ricomposizione di un fronte frammentato come è quello del centrosinistra e della sinistra. Può apparire strano, ma mentre abitualmente l'opposizione misura persino con punte di ostinazione la temperatura all'interno della maggioranza di governo e tende a enfatizzare anche le minime alterazioni, oggi di fronte a un febbrone preferirebbe quasi non guardare il termometro.
Il secondo motivo per cui non viene constatata con lucidità l'entità del danno a Silvio Berlusconi e al berlusconismo è la assoluta imprevedibilità e novità dei contenuti da cui è nata questa crisi. Che non è scaturita dalla vicenda Mills o dal lodo Alfano, questioni quasi scontate e già da tempo metabolizzate dall'opinione pubblica. Per la prima volta nella nostra storia possiamo dire che l'ascesa che pareva inarrestabile di un leader si blocca sulla "questione femminile". Non su uno scandalo sessuale, non su un'amante segreta, non su una questione privata, (come tante che hanno accompagnato figure di statisti importanti) ma su un comportamento personale che dallo stesso premier è stato reso ampiamente pubblico. Ed è stato esibito come esemplare. Il premier in questi mesi ha rivelato a pieno la sua concezione e la sua immagine della donna. Una immagine che per molto tempo aveva usato giocosamente e nella quale aveva abilmente mescolato una idea di libertà, un uso non vittimistico del corpo, un'ammirazione galante e anche una attrazione incontenibile (sulla quale aveva ricevuto anche la comprensione di don Baget Bozzo), ma che a un certo punto è apparsa nella sua verità: donne ridotte a bambole divertenti per chi vuol giocare con loro, oggetto dei favori di uomini potenti, usate, anche se in modo consenziente in politica. Comunque non soggetti autonomi e autorevoli con propri percorsi e proprie storie personali e politiche. Sono state le accuse pacate ma pubbliche di Veronica Lario, le vicende di una giovane donna Noemi Letizia (anch'essa una vittima) i cui rapporti col premier apparsi sui giornali non sono chiari, la preoccupazione di molti ambienti cattolici per la dignità della donna, il nervosismo dei suoi alleati per un comportamento che certamente non è visto favorevolmente da tutto l'elettorato a rendere evidente che si è rotta una sintonia con il popolo che fino a ieri pareva fortissima. Si è incrinata una fiducia di uomini e di donne che magari avrebbero preferito non vedere e non sentire, ma, messi di fronte alla vicenda diventata pubblica, non possono approvare. Possono tacere, questo sì, ma è un silenzio assordante per chi accarezzava l'idea di diventare presidente della Repubblica. Silvio Berlusconi in questo momento ne è stordito.

l’Unità 27.5.09
I fuorilegge di Derrida? Sono il lupo e il sovrano
I re e le bestie? Una cosa ce l’hanno in comune: quella di essere al di sopra della legge... ecco uno dei celebri seminari del filosofo francese
di Jacques Derrida


Con «La bestia e il sovrano» di Jacques Derrida (pp. 438, 46 euro, Jaka Book), inizia la monumentale edizione dei seminari del filosofo francese, oltre 14mila pagine in 43 volumi. Fin dall'inizio della carriera universitaria Derrida scriveva le sue lezioni, tenute tra il 1960 e il 1964 alla Sorbona, dal 1964 al 1984 alla École normale supérieure di Rue d'Ulm e dal 1984 al 2003 all'École des Hautes études en sciences sociales. Derrida ha usato il materiale in alcuni libri, tuttavia la maggior parte di queste pagine è inedita. È il caso de «La bestia e il sovrano», che contiene le prime 13 lezioni del corso tenuto tra il 2001 e il 2003. È l'ultimo anello di una serie di ricerche, iniziate nel 1984, in una visione dove antropologia, politica e filosofia collidono.
Ricordo il titolo proposto per il seminario di quest’anno: la bestia e il sovrano. La, il. Naturalmente cercherò di giustificare questo titolo strada facendo e, direi, passo a passo, forse a passo di lupo.(...)
Avanza a passo di lupo. Lo dico in riferimento alla locuzione proverbiale «a passo di lupo», che in genere indica una sorta di introduzione, di intrusione discreta, addirittura di effrazione non apparente, senza spettacolo, quasi segreta, clandestina, un ingresso che fa di tutto per non farsi notare, soprattutto per non farsi arrestare, intercettare, interrompere. Avanzare «a passo di lupo» significa camminare senza rumore, arrivare senza preavviso, procedere discretamente, in modo silenzioso, invisibile, quasi non udibile e impercettibile, come per sorprendere una preda, come per cogliere di sorpresa ciò che è in vista ma che non vede giungere ciò che lo ha già visto, l’altro che ci si appresta a cogliere di sorpresa, a comprendere di sorpresa.(...)
Avanzerò col suo passo Ciò che il passo di colomba e il passo di lupo hanno in comune è che non li si sente mai, questi due passi. Ma uno annuncia la guerra, il capo della guerra, il sovrano che comanda la guerra, l’altro comanda silenziosamente la pace. Sono due figure fondamentali della grande zoo-politica che ci preoccupa qui, che non cesserà e già non cessa di occuparci. Queste due figure preoccupano il nostro spazio.
(...)Immaginate un seminario, dicevo ancora, che cominciasse così, a passo di lupo: «Lo mostreremo fra poco». Cosa? Beh, «Lo mostreremo fra poco».
Ormai, è ora, avrete già riconosciuto la citazione.
È il secondo verso di una favola di La Fontaine che mette in scena uno di questi lupi di cui parleremo molto di qui, il lupo della favola intitolata Il lupo e l’agnello. Eccone i primi due versi: la favola inizia con la morale, questa volta, prima del racconto, prima del momento narrativo così differito, cosa piuttosto rara.
«La ragione del più forte è sempre la migliore: lo mostreremo fra poco».(...)
Mi riferisco a ciò che Pascal ha messo sotto il titolo di Ragione degli effetti: «La giustizia è soggetta a contestazioni, la forza è riconoscibilissima e senza dispute. Così non si è potuto dare la forza alla giustizia, perché la forza ha contraddetto la giustizia e ha detto che quella era ingiusta e ha detto che solo lei era giusta. E così, non potendo far sì che ciò che è giusto fosse forte, si è fatto sì che ciò che è forte fosse giusto».(...)
Nel Contratto sociale (Capitolo II) Rousseau si oppone a una certa animalizzazione della politica: «Sicché secondo Grozio, è dubbio se il genere umano appartenga a un centinaio di uomini o se questo centinaio di uomini appartenga al genere umano, e sembrerebbe da tutto il suo libro che egli propenda piuttosto per la prima ipotesi: e Hobbes la pensa anch’egli così. Ecco dunque il genere umano diviso in mandrie di bestiame, ciascuna delle quali ha un suo capo, che la custodisce per divorarla».(...)
Secondo la rappresentazione corrente, alla quale facciamo riferimento per cominciare, il sovrano e la bestia sembrano avere in comune il loro essere al di fuori della legge. È come se entrambi si collocassero, per definizione, lontano o al di sopra della legge, nel non rispetto della legge assoluta, della legge assoluta che stabiliscono o che sono ma che non devono rispettare. L’essere fuori dalla legge può senza dubbio, da un lato, ed è la figura della sovranità, assumere la forma dell’essere al di sopra della legge, e quindi la forma della Legge stessa, dell’origine della legge, del garante delle leggi, come se la Legge, con la L maiuscola, la condizione della legge, fosse prima, al di sopra e quindi al fuori della legge, esteriore, addirittura eterogenea rispetto alla legge; ma l’essere al di fuori della legge può anche individuare il luogo in cui la legge non appare, o non è rispettata, o si fa violare. Sebbene questi modi di essere al di fuori della legge (che sia quello di ciò che viene chiamata bestia, che sia quello del criminale, addirittura di quel grande criminale di cui parlavamo l’anno scorso e che Benjamin diceva affascini le folle, anche quando lo si condanna e lo si giustizia, perché sfida, con la legge, la sovranità dello Stato come monopolio della violenza, o che sia l’essere al di fuori della legge del sovrano stesso), questi vari modi di essere al di fuori della legge possano sembrare eterogenei tra loro, addirittura eterogenei rispetto alla legge, resta che, condividendo questo comune essere al di fuori della legge, la bestia, il criminale e il sovrano si assomigliano in modo sconcertante; si richiamano e si evocano tra loro (Qui può finire ma anche il resto non sarebbe male) uno con l’altro; c’è tra il sovrano, il criminale e la bestia una sorta di oscura e affascinante complicità, addirittura un’inquietante mutua attrazione, un’inquietante familiarità, una unheimlich, uncanny ossessione reciproca. Tutti e due, tutti e tre, l’animale, il criminale e il sovrano sono al di fuori della legge, lontano o al di sopra della legge; il criminale, la bestia e il sovrano si assomigliano stranamente mentre sembrano collocarsi agli antipodi, agli antipodi uno dell’altro.

Corriere della Sera 27.5.09
Centri nel caos
Fecondazione senza regole dopo la sentenza della Consulta
Dopo la sentenza della Consulta sul numero di ovociti. Incertezza dei medici: «Serve un protocollo comune»
di Monica Ricci Sargentini


Le norme. La legge 40 prevedeva il limite dei tre ovociti, ora dovranno essere i sanitari a decidere volta per volta
Le cifre. In un anno in Italia sono oltre 55 mila le coppie che si rivolgono agli ospedali e quasi 10 mila i bambini nati con la procreazione assistita

Dopo la sentenza il caos. I giudici della Corte Costituzionale han­no cambiato la legge 40 sulla fe­condazione assistita rimettendo nelle mani dei medici la scelta del numero di ovociti da inseminare ma molti centri, soprattutto pubblici, continua­no ad applicare le vecchie rego­le: si fecondano al massimo tre ovociti e si trasferiscono tutti gli embrioni prodotti in un uni­co e contemporaneo impianto.
«Prima di cambiare voglia­mo essere sicuri di cosa possia­mo o non possiamo fare — di­ce Andrea Gallinelli, responsa­bile del maggiore centro di Pma (Procreazione medicalmente assi­stita) della Toscana, l’Ospedale della Ver­silia a Viareggio —. Con gli altri medici stiamo cercando di stabilire una linea co­mune, in modo da non lasciare al singo­lo la patata bollente. Per partire aspettia­mo un via libera dalla Regione».
Stessa linea nel centro diret­to da Guido Ambrosini all’Uni­versità di Padova: «Questa leg­ge non è chiara — dice —. In realtà lascia al ginecologo la possibilità di fecondare in base alla caratteristica della pazien­te ma qual è il limite? Se una donna di 43 anni produce 15 ovociti, io, che in scienza e co­scienza vorrei fecondarli tutti, posso farlo? Abbiamo paura della reazio­ne del ministero, vorremmo regole cer­te. Per questo ho interpellato anche i Nas. Presto, comunque, applicheremo la legge».
Il risultato è un’Italia disomogenea con comportamenti diversi da ospedale a ospedale. Un problema non da poco che tocca il 10-15% dei cittadini in età fertile. Nel 2007 sono state più di 55mila le cop­pie che si sono sottoposte a cu­re nel nostro Paese e sono nati oltre novemila bambini. Un al­tro numero imprecisato, sicura­mente migliaia, ha oltrepassa­to la frontiera. Ora i pazienti so­no confusi. In Lombardia, per esempio, la maggior parte dei centri ha varato un documento che recepisce la sentenza: «Gli avvocati sono stati chia­rissimi — dice Guido Ragni, consulente del Centro di sterilità della Mangiagalli — se uno non cambia rischia le penalità pecuniarie previste dalla legge 40. Noi siamo obbligati a produrre gli embrioni necessari a un serio tentativo».
L’idea è quella di partire da una gri­glia divisa in fasce d’età. Se una donna ha meno di 35 anni si insemineranno sei ovociti, se ne ha tra i 35 e i 40 si arriverà ad otto. Passati i quaranta si feconda tut­to. Ovviamente peseranno anche altre considerazioni: la qualità del liquido se­minale, i precedenti fallimenti e il tipo di risposta ovarica della donna. «Abbia­mo previsto una serie di eccezioni — spiega ancora Ragni —, per esempio si feconderanno tutti gli ovociti se la pa­ziente ha avuto un tumore oppure soffre di trombofilia o se rischia l’iperstimola­zione ovarica». Un protocollo simile, promosso dalla Società italiana studi di medicina della riproduzione (Sismer), è stato firmato da oltre 40 centri, pubblici e privati, sparsi in tutta Italia. «La senten­za ci permette di offrire alle pazienti il massimo di possibilità riducendo al mi­nimo il congelamento — dice Anna Pia Ferraretti, responsabile del Sismer di Bo­logna —. Poi è chiaro che ogni centro agirà come crede. È proprio questa la no­vità, si può diversificare».
Ma c’è anche chi è convinto che la leg­ge 40 così com’era desse già il massimo di chance alle donne in cerca di un fi­glio. «Da noi non è cambiato niente — dice Eleonora Porcu, responsabile del centro di fecondazione del Sant’Orsola di Bologna —. Io mi rifaccio alla mia esperienza professionale, ho risultati pa­ragonabili alla media europea fecondan­do tre ovociti, a volte anche solo due, con una percentuale che, nelle donne fi­no a 35 anni, sfiora il 50%. Noi stiamo già tutelando la salute delle donne e que­sto senza dover congelare embrioni. L’idea di ritrovarsi di nuovo con i bidoni di azoto liquido pieni mi sembra vera­mente anacronistica».
Al San Raffaele di Milano sono di fron­te a un dilemma. La natura cattolica del­la Fondazione imporrebbe di non conge­lare embrioni ma la Corte Costituzione ha stabilito che la donna ha diritto ad un numero di embrioni congruo per effet­tuare un serio tentativo. Conciliare le due cose sembra impossibile. Per chiarir­si le idee i medici si sono dati appunta­mento il prossimo week end a Riccione dove sperano di mettersi d’accordo defi­nitivamente su un protocollo comune. «Sarà il primo congresso confederato di tutte le società di medicina della riprodu­zione — dice Filippo Ubaldi, direttore cli­nico del centro g.en.e.r.a. a Roma—. Io però non sono d’accordo sullo stabilire una griglia con un numero fisso di ovoci­ti da inseminare. La Corte Costituzionale ha tolto il numero, non vedo perché dob­biamo rimetterlo noi».
Le pazienti sono in fibrillazione. Do­po aver gioito per la sentenza ora si sen­tono prese in giro. Nei forum si scambia­no informazioni sui centri per boicotta­re quelli che si comportano come se nul­la fosse accaduto. «Se li conosci li eviti» è il loro motto. La Fiapi (Federazione ita­liana pazienti infertili) sollecita le socie a farsi mettere per iscritto dall’ospedale che intende procedere come prima in modo da poter poi ricorrere alle vie lega­li. «Siamo pronti a fare causa — dice Fe­derica Casadei, presidente e fondatrice di Cerco un bimbo, portale sull’infertilità con 22mila utenti — con denuncia per danni perché sottoporre una donna a ri­petute stimolazioni costa molti soldi ai contribuenti. Se i medici hanno paura ad applicare la legge cambino mestie­re ».
Indignato è Carlo Flamigni, esperto di fecondazione artificiale, oggi nel Comita­to nazionale di bioetica: «I medici sono un branco di codardi. Hanno paura di punizioni ministeriali. Troveranno il co­raggio di fare il loro dovere solo quando le pazienti li porteranno in tribunale. La sentenza è chiara e nessuna legge potrà più cambiare il principio sancito dalla Corte e allora che aspettano?».
Al ministero, intanto, preparano le li­nee guida soprattutto per aderire alle di­rettive europee che impongono un innal­zamento dei livelli qualitativi di tutti i centri che utilizzano cellule umane a sco­po terapeutico. Oggi, in una conferenza stampa, il ministro del Welfare Maurizio Sacconi e la sottosegretaria alla Sanità Eugenia Roccella, annunceranno la na­scita di due commissioni, quella sulla procreazione assistita, che vigilerà sul funzionamento della legge 40, e quella sulla crioconservazione. «Per le linee guida — spiega Roccella al Corriere — ci vorrà qualche mese ma le differenze tra centro e centro rimarranno perché sono una conseguenza della sentenza della Corte Costituzionale che dà una maggio­re responsabilità al medico. Noi, intan­to, daremo indicazioni di massima attra­verso la Società italiana di ginecologia. Il divieto di crioconservazione, comun­que, è rimasto ma con delle deroghe». Ma se un centro decide di fecondare sei ovociti e, ottenuti tre embrioni, trasferir­ne solo due, congelandone uno, è nella legalità? «Sì, lo è — risponde Roccella —. Comunque questi dubbi si supere­ranno con le linee guida ma il problema ora è adeguarsi all’Europa. Bisogna rifa­re tutto. In Italia non tutti i centri posso­no offrire i livelli di qualità che vengono richiesti adesso. Per questo abbiamo bi­sogno di tempo. E a quel punto anche le ispezioni diventeranno un obbligo»

Corriere della Sera 27.5.09
All’Humanitas di Rozzano
«Decidiamo caso per caso. E congeliamo gli embrioni»
di Mo. Ri. Sar.


MILANO — Una mattina come un’altra, l’11 mag­gio scorso, all’Humanitas è avvenuta una piccola ri­voluzione. Le pazienti si sono presentate, come sempre all’alba, chi per controllare la stimolazione in corso, chi per il pick up ma questa volta l’enor­me struttura pubblica di Rozzano (Milano), che vanta ben 2.500 cicli di fecondazione all’anno, ha valicato il limite dei tre ovociti. Da allora ogni pa­ziente è un caso a sé.
Capelli arruffati, occhiali vezzosamente colorati, Paolo Emanuele Levi Setti, responsabile di medici­na della riproduzione, si aggira per i corridoi con l’aria visibilmente soddisfatta. «La Corte — dice— ha rimesso nelle mani del medico quello che solo per la Pma (Procreazione medicalmente assistita n.d.r.) era stato rubato ma contemporaneamente ci ha dato un’enorme responsabilità. E noi ce la prendiamo volentieri».
Come hanno reagito le coppie al cambiamen­to?
«Le coppie più informate sono contentissime. Hanno fatto persino una festa. Per le altre c’è un po’ di confusione. Una quota non piccola non si è ancora resa conto dell’accaduto. Altre, invece, han­no problemi etici a crioconservare e in quel caso noi siamo tenuti a rispettare il loro desiderio».
E se una donna vi chiede di fecondare tutti gli ovociti?
«La scelta rimane al medico. Non è che siamo al supermercato della fertilità. Però c’è una grande partecipazione dei pazienti al percorso. Il punto fer­mo è che la Corte ha stabilito che la tutela più alta è quella della madre. Insemineremo molti ovociti se l’età della donna è più avanzata o se l’uomo ha pro­blemi di fertilità. Invece in una donna giovane, con buone probabilità di avere una gravidanza, che pro­duce tanti ovociti, si pensa a fecondarne una parte per arrivare a trasferire uno o due embrioni. Quelli sovrannumerari che evolvono verranno congelati ed una parte degli ovociti crioconservati».
C’è una scelta degli embrioni?
«Una scelta naturale. Degli embrioni che si ferti­lizzano in genere al massimo un 50% si sviluppa fino alla quinta giornata».
Per le coppie, dunque, non c’è più motivo di andare all’estero?
«Molti andavano all’estero per congelare embrio­ni ma poi magari tornavano a mani vuote. In verità se si congela bene si congela poco. Più si va in Pae­si con leggi meno restrittive e meno embrioni ver­ranno congelati perché si può scegliere. Ora in Ita­lia siamo competitivi, abbiamo più chance che in Svizzera o in Germania. Non stiamo parlando di fa­re eugenetica, non è una selezione, ci sono embrio­ni che si sviluppano e altri che non crescono. E se non cresci non ti impianti. Certo rimane un motivo serio per andare all’estero».
Quale?
«Chi ha problemi di menopausa precoce, chi è sopravvissuto a un tumore, le donne ancora giova­ni di 40-42 anni con ovaie che non funzionano più subiscono una limitazione e un obbligo all’esilio perché in Italia la fecondazione eterologa (con do­nazione di sperma o ovuli n.d.r.) rimane vietata. E per queste persone la sofferenza è indicibile. Il di­vieto, tra l’altro, apre la via al commercio dei game­ti che in Italia era proibito quando si poteva fare l’eterologa. Mentre all’estero questo avviene ecco­me ».
Per loro c’è una soluzione possibile?
«Si potrebbe rendere donabili gli embrioni crio­conservati prima della legge e da ora in poi. In que­sto momento la coppia si impegna ad usarli nel più breve tempo possibile ma potrebbe scegliere di do­narli se fosse previsto dalle linee guida».

Corriere della Sera 27.5.09
Il Porfirio scampato al rogo
di Armando Torno


Un secolo dopo che Adolf von Harnack raccolse i frammenti del trattato del neoplatonico Porfirio, esce in italiano la prima traduzione integrale di Contro i cristiani (a cura di Giuseppe Muscolino e Giuseppe Girgenti, Bompiani, pp. 640, e 20). Risale alla fine del III secolo, è un attacco basato su un esame storico, filosofico, filologico e teologico della Bibbia. Ben più forte del precedente Il discorso vero di Celso, del tempo di Marco Aurelio, conservatoci nella confutazione di Origene. Se le polemiche anticristiane sino a quel momento negavano Gesù come logos dei greci o Messia dei profeti ebrei, Porfirio acuì l’attacco: escludeva la possibilità di conciliare pensiero greco e cristianesimo, soprattutto negava la correttezza dell’uso ermeneutico dell’allegoria per interpretare la Scrittura. L’opera fu proscritta da Costantino poco prima del Concilio di Nicea (325 d.C.), poi data alle fiamme sino all’ultima copia nel 448 d.C. Harnack raccolse i frammenti nelle opere dei confutatori; questa edizione ha in appendice anche quelli ritrovati in altri autori o in nuovi papiri dopo il 1916.

Corriere della Sera 27.5.09
Una risposta a Nicola Cabibbo, convinto che nel Seicento ai teologi mancassero gli strumenti per valutare le tesi dello scienziato
La Chiesa comprese Galileo ma non fu meno colpevole
Il pentimento di oggi lascia intatte le responsabilità di ieri
di Emanuele Severino


Nel suo articolo «Perché i teologi non capirono Galileo» («Corriere», 6 maggio) Nicola Cabibbo sottolinea opportunamente l’insistenza di Gali­lei per ottenere il titolo di Filosofo e Matemati­co primario del Gran duca, nella Firenze dei Me­dici. «Non solo Matematico», scrive Cabibbo, «ma anche e anzitutto Filosofo». E altrettanto opportunamente richiama l’opposizione di Gali­lei alla filosofia aristotelica (che sta alla base del­la teologia cattolica) in nome di quella pitagori­ca e atomistica. Ma che cosa intende Galilei con la parola 'Filosofo'? La questione è decisiva. So­lo a partire da essa si può accertare se la Chiesa del primo Seicento non abbia saputo «valutare correttamente», come sostiene Cabibbo, «l’im­patto filosofico della nuova scienza».
Il pitagorismo e l’atomismo democriteo diffe­riscono certamente dall’aristotelismo, ma con quest’ultimo hanno in comune l’essenziale. Ta­le tratto essenziale queste filosofie l’hanno in comune con lo stesso pensiero di Galilei. Insie­me ad altri, altrettanto essenziali, esso accomu­na l’intera tradizione filosofica dell’Occidente. Galilei lo indica con potenza e nel modo più esplicito. Ad esempio verso la fine della «prima giornata» del Dialogo dei massimi sistemi.
Si incomincia a introdurre, in questo testo, «una distinzione filosofica» tra l’«intensità» (os­sia la qualità, il grado di perfezione) e l’«esten­sione » della conoscenza. Quanto all’«estensio­ne », l’intelletto umano conosce ben poco, ma quanto all’«intensità» delle «proposizioni» es­so «ne intende alcune così perfettamente, e ne ha così assoluta certezza» da eguagliare la stes­sa conoscenza che Dio possiede di esse. Sono le «proposizioni» delle «scienze matematiche pu­re, cioè la geometria e l’aritmetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizio­ni di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall’intelletto umano credo che la cogni­zione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, so­pra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore». In queste righe sta parlando la gran­de filosofia — e, propriamente, la grande tradi­zione del pensiero filosofico.
L’intelletto divino conosce tutte le infinite proposizioni matematiche; quello umano ne co­nosce «poche» («è come nullo»); ma quelle po­che le conosce come sono conosciute dall’intel­letto divino. I due intelletti sono uguali quanto alla «certezza obiettiva», quella cioè che non ha come contenuto qualcosa di illusorio o di pro­babile, ma la realtà stessa così come essa è. E perché l’intelletto umano riesce ad «agguaglia­re » quello divino quanto alla «certezza obietti­va »? Perché — e qui la forza filosofica del testo raggiunge il proprio culmine —, rispetto alle «proposizioni» matematiche l’intelletto umano «arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggio­re ».
La necessità! La filosofia nasce portando alla luce il senso della necessità — la necessità di un sapere che non possa essere smentito da al­cuna potenza umana o divina — di un sapere, dunque, che eguaglia, quanto alla sua 'intensi­tà', lo stesso sapere di un Dio. Si dice, di Dio, che è l’Ente di cui non si può pensare uno mag­giore; ma innanzitutto è la necessità a mostrarsi come la 'sicurezza' (l’incontrovertibilità) della quale non si può pensare una maggiore e che quindi è essa a garantire la stessa sicurezza in­torno all’esistenza di un Dio.
In quelle righe di Galilei sta parlando la gran­de filosofia perché l’affermazione che alle pro­posizioni matematiche compete la necessità, «sopra la quale non par che possa esser sicurez­za maggiore», tale affermazione, dico, non è un’affermazione matematica, ma filosofica. Al­la filosofia, non alla scienza, compete da sem­pre il compito di comprendere il senso della ne­cessità e della non-necessità e di stabilire a qua­li conoscenze competa l’una o l’altra di queste due fondamentali categorie. Eschilo, uno degli alti sovrani della filosofia, esprime l’intera tradi­zione filosofica dicendo che «la tecnica è trop­po più debole della necessità»: più debole, cioè più insicura della necessità sopra la quale non può esservi sicurezza maggiore. Oggi, attraver­so una grandiosa apocalisse del pensiero filoso­fico, si deve dire che la necessità è troppo più debole della tecnica. E nemmeno questa è un’af­fermazione di carattere scientifico-tecnologico. Relativamente alla convinzione che la necessità costituisca la «sicurezza maggiore», Galilei sta comunque dalla parte di Eschilo, Platone, Ari­stotele, Agostino, Tommaso. Per lungo tempo, fino ad Einstein compreso, la scienza starà da questa parte. Poi, anche la scienza, e anche la stessa «geometria» e «aritmetica», giungeran­no a considerare le proprie «proposizioni» non come delle necessità, ma come ipotetiche, pro­babili, falsificabili.
E la Chiesa? La Chiesa che condanna Galilei? Bisogna proprio dire che non fu all’altezza del suo grande interlocutore e che non seppe «valu­tare correttamente l’impatto filosofico della nuova scienza», secondo quanto sostiene Cabib­bo? La risposta va articolata. Da un lato, il senso che per Galilei compete alla necessità è quello stesso che la Chiesa tien fermo. Tra la Chiesa e il suo avversario esiste, su questo punto fonda­mentale, una profonda solidarietà. Sia l’una sia l’altro credono che nell’uomo sia presente un sa­pere necessario. Dall’altro lato, la Chiesa del XVII secolo ritiene che la necessità competa alla filosofia di Tommaso d’Aquino e quindi, da ulti­mo, alla sapienza filosofica greca, soprattutto a quella aristotelica, mentre per Galilei la necessi­tà compete, nella conoscenza della natura, sol­tanto alla matematica.
Ma proprio per questo nella Chiesa di quel tempo ci fu chi seppe «valutare correttamente l’impatto filosofico della nuova scienza», ed eb­be anzi una comprensione di essa essenzial­mente più avanzata di quella del suo pur gran­dissimo interlocutore. Mi riferisco al cardinale Roberto Bellarmino. Egli ebbe a possedere della scienza, matematica compresa, lo stesso concet­to che la scienza ha oggi di sé stessa: di non es­sere un sapere necessario, ma soltanto ipoteti­co, probabile, falsificabile. E appunto per que­sto egli esorta Galileo a esporre le proprie dottri­ne non come un sapere necessario che costrin­ge 'assolutamente' a modificare la lettera delle Scritture (cioè l’affermazione del movimento del sole), ma come ipotesi che, come tali, posso­no convivere con quella lettera. E aggiunge che se ci fosse «vera dimostrazione» della teoria co­pernicano- galileana — se questa teoria apparis­se cioè come una necessità — «allora bisogne­ria andar con molta considerazione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto di­re che non l’intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra». Quel che si dimostra come necessario non può essere falso — anche se, insieme, egli dichiara di avere «grandissimo dubbio» che quella «vera dimostrazione» ci possa essere. Il dubbio da cui dev’essere afferra­to chi ormai, a differenza di Galilei, si è reso conto che la scienza non può parlare 'assoluta­mente'. La Chiesa che oggi si pente di aver con­dannato Galilei è cioè meno avanzata di quella che lo ha condannato. Questo, si capisce, guar­dando al puro contenuto concettuale della con­troversia, non al contesto storico-sociale in cui essa si è svolta.

martedì 26 maggio 2009

l’Unità 26.5.09
Berlusconi, la strategia del caos per non dire la verità su Noemi
Ci mette dentro tutto. Addirittura attacca Alemanno: Roma è sporca, sembra l’Africa
Ma il caso esce dal gossip. Letizia parla al «Mattino». E Cicchitto lo prende sul serio
di Marco Bucciantini


Ieri ha esternato a varie tv locali, e su tutto. Il premier è preoccupato, sta pensando all’affondo, ma rischia di essere smentito poi da nuove rivelazioni. E soprattutto teme una nuova uscita della moglie o della Chiesa.

L’autunno del patriarca non è sempre circondato di ragazzine. Berlusconi è solo e preoccupato, ad Arcore. Sente i fedelissimi per telefono, Bonaiuti, Ghedini, Letta. Legge i giornali e si arrabbia, guarda le tivù e si rasserena appena un po’: i telegiornali mettono la sordina al caso Noemi. Si può ancora campare di rendita con la strategia della riduzione del danno, che resta l’ordine di scuderia. «Ma bisogna trovare una via d’uscita», fa sapere. In pratica bisogna confezionare una storia credibile, inattaccabile. Ma lo staff frena, «aspettiamo, per ora il danno è limitato». Si temono altre rivelazioni che screditerebbero questa nuova, congegnata versione dei fatti. Lo stallo logora il premier, tentato dalla controffensiva “umana”, annunciata alla Cnn («riferirò in Parlamento, sarà un boomerang per la sinistra»), e abbozzata con l’intervista al Mattino del padre di Noemi, Benedetto Letizia, nella quale difende l’onore («mia figlia è illibata») e introduce un tassello: «Berlusconi ci è stato vicino quando è morto nostro figlio, nel 2001». Nuove verità che - se prese alla lettera - servono solo a trasformare in menzogne quelle precedenti. Sull’origine della conoscenza fra la famiglia (e Noemi) e il premier («lei era piccola - fa il padre - io le dissi di chiamarlo papi: suonava meglio di nonno»).
A TUTTO CAMPO
Per giorni Berlusconi ha tolto dal tavolo le sue bugie servendo i media con nuovi argomenti, e i più vari. E banalizzando l’accaduto, riducendolo a gossip con le foto pubblicate dal suo settimanale Chi, per poi accusare gli avversari di servirsi - appunto - di gossip. Per distrarre l’opinione pubblica ha attaccato a tutto campo. Domenica, allo stadio, ha licenziato Ancelotti in diretta. Ieri si è servito dei mezzi di comunicazione locali, inibiti da cotanto zelo: il presidente del consiglio di questo Paese ha esternato su Radio Radio (frequenza romana che si occupa di sport), sull’emittente televisiva sarda Videolina, di proprietà dell’amico Sergio Zuncheddu, quindi alla capitolina Tv9, su Odeon Tv e infine è intervenuto a Rete 8, televisione teatina a corto raggio d’utenza. Rimestando così dozzinalmente i temi da essere contestato: ai romani ha detto che la città «per lordura sembra una capitale africana» (e ha indispettito Alemanno). Agli abruzzesi ha promesso un’ampliamento dell’Università, per rilanciarla dopo il terremoto. «Che dice? Ma se dobbiamo razionalizzare i corsi...», lo ha corretto il rettore Di Orio. Perfino su Obama ha azzardato: «A giugno andrò a parlare con lui su ciò che dovremo discutere e votare al G8». Un’uscita solitaria, nessuno alla Casa Bianca lo aspetta, non ci sono conferme di questo vertice a due.
L’ATTACCO E L’ATTESA
Fosse filato tutto liscio, il diversivo, la banalizzazione dei fatti (esemplare, in questo senso, l’intervento di Giuliano Ferrara sul Foglio, che si sostituisce al premier rispondendo alle dieci domande proposte da Repubblica e canzonando così l’esigenza d’informazione del Paese) sarebbero bastati per scivolare via verso le elezioni. Ma l’intervista dell’ex fidanzato di Noemi costringe il premier a muoversi. Timoroso. L’annuncio di querela della famiglia Letizia verso Gino Flaminio resterà tale: nessun avvocato troverà conveniente trascinare in tribunale la vicenda. E il previsto coinvolgimento della famiglia Letizia (padre, madre, Noemi) è per ora contenuto all’intervista al Mattino.
Berlusconi è un generale arroccato che aspetta di capire l’effetto mediatico degli argomenti avversi. Consapevole che finora la vicenda «è passata su mezzi di comunicazioni lontani dal suo elettorato, come internet e i giornali nazionali», concorda Klaus Davi, esperto di comunicazione. «Il passaggio televisivo è molto blando». Ma è a rischio la tenuta dell’immagine di uomo-famiglia, cavallo di battaglia fin da quando, 15 anni fa, stampò e divulgò in tutte le caselle postali del Paese «Una storia italiana», quella sua e della famiglia. «Può destabilizzarlo Veronica, che ha scatenato la vicenda e poi si è appartata. Una sua nuova reazione consumerebbe il voto femminile, zoccolo duro del consenso del Cavaliere. E poi la Chiesa: se i vescovi si risentissero...». Per Davi, dunque, senza colpi di scena il tono resterà basso. Altrimenti ci sarà sempre un Porta a Porta o un Parlamento da piegare ai propri comodi.

l’Unità 26.5.09
Il finale di partita del signor B.
I fischi di San Siro


La contestazione dei tifosi del Milan deve essere apparsa al signor B. come un tradimento improvviso. E bisogna ammettere che se i tifosi possedessero almeno una memoria a medio termine dovrebbero essere grati al loro presidente. Hanno vinto molto con lui, e le ultime due stagioni disputate con una formazione geriatrica sono poca cosa, a confronto col passato.
Ma se anche il presidente del Milan e del Consiglio (nell’ordine) a sua volta possedesse memoria, ricorderebbe che sempre così in Italia si risolvono i grandi amori: con un improvviso capovolgimento di passioni. Capovolgimento sentimentale e persino fisico, certe volte: come nel caso di Mussolini a piazzale Loreto.
Senza arrivare a questi eccessi di virulenza, non è escluso che la parabola del signor B. abbia raggiunto l’apice e si appresti alla conclusione. Né gli è consentito fare appello alla memoria del popolo, dopo che sulla cancellazione della memoria ha costruito le sue fortune.
Per quel che riguarda le minoranze non milaniste, sarebbe un errore trascurare la spia anche politica che si è accesa domenica scorsa a San Siro. In fondo tutto il fenomeno B. è cresciuto succhiando linfa dal gioco del pallone, ed è probabile che dal gioco del pallone possa cominciare a finire.
È sul ruolo dell’opposizione e sui tempi di degenerazione che conviene interrogarsi. Perché il ciclo del Milan possa esaurirsi serve che un’altra squadra venga alla ribalta con una proposta alternativa convincente. E qui siamo ancora indietro nella preparazione, tutt’altro che competitivi.
I tempi, poi: in ascesa sono stati quelli lunghi che conosciamo. Il populismo è stato instillato lentamente nel sistema circolatorio del Paese. Il disamore però ha molta fretta, solitamente. Se c’è un’Inter, da qualche parte, meglio che faccia alzare dalla panchina il suo miglior giocatore e lo faccia scaldare.

Repubblica 26.5.09
La menzogna in politica e il diritto alla verità
di Stefano Rodotà


Mai come in questi tempi spazio pubblico e spazio privato si sono così intensamente mescolati fin quasi a rendere indistinguibili i loro confini. Addirittura lo spazio privato sembra svanire nell´era di Facebook e di YouTube, delle infinite e continue tracce elettroniche, dell´impietosa radiografia mediatica d´ogni mossa, contatto, preferenza. Dobbiamo accettare la brutale semplificazione di chi ha affermato "la privacy è finita. Rassegnatevi"? O dobbiamo ridisegnarne i confini senza perdere i benefici della trasparenza che, soprattutto nella sfera della politica, le nuove tecnologie rendono possibili? La politica, appunto. Nel nuovissimo panorama tornano, intatte e ancor più ineludibili, antiche questioni. Quali sono i doveri dell´uomo pubblico?
Quale dev´essere la sua moralità? Possono convivere vizi privati e pubbliche virtù? Può il politico coltivare la pretesa di stabilire egli stesso fin dove può giungere lo sguardo dei cittadini? E soprattutto: qual è il rapporto tra verità e politica nel tempo della comunicazione globale?
«La menzogna ci è familiare fin dagli albori della storia scritta. L´abitudine a dire la verità non è mai stata annoverata tra le virtù politiche e le menzogne sono state sempre considerate giustificabili negli affari politici». Così Hanna Arendt, che tuttavia in questa lunga abitudine non vedeva un dato da accettare in nome di un troppo facile realismo politico. Al contrario, contro la menzogna bisogna lottare non solo per la sua intrinseca immoralità, ma per i suoi effetti distruttivi proprio dello spazio della politica. Dove esiste un establishment, un ceto politico consapevole della necessità di mantenere la propria legittimità nei confronti dei cittadini, la pubblica menzogna sui propri fatti privati porta all´espulsione del mentitore. John Profumo è costretto a dimettersi perché ha mentito alla Camera dei Comuni sulla sua relazione con Christine Keeler. Gary Hart è costretto ad abbandonare la vita politica e le sue ambizioni di candidato alla presidenza degli Stati Uniti per aver sfidato la stampa sull´esistenza di sue relazioni sessuali, che i giornalisti, facendo bene il loro mestiere, impietosamente scoprono. Non un sussulto moralistico, ma l´affidabilità stessa del politico rende inammissibile la menzogna.
Questo significa che parlare del rapporto tra menzogna e politica esige distinzioni. Vi è la menzogna in nome della salute della Repubblica, quella su vicende private del politico, quella che vuol salvaguardare uno spazio di intimità di cui nessuno può essere espropriato. Né il primo, né l´ultimo caso possono essere invocati nella vicenda che coinvolge Silvio Berlusconi. Per quanto sia divenuta totalizzante l´identificazione sua con i destini del paese, non si può certo ritenere che il suo parlar franco sui rapporti con una giovane ragazza metta a rischio il sistema politico italiano. Al contrario, proprio le sue reticenze, i silenzi e le contraddizioni stanno producendo effetti perversi nella sfera pubblica. La difesa della privacy, il rifiuto di una politica fatta di un guardare nel buco della serratura? Chi ragiona in questo modo sembra ignorare il modo in cui la vicenda è stata resa pubblica, la denuncia circostanziata e impietosa di Veronica Lario, i suoi diretti riferimenti politici. Lì si parlava della figura pubblica di Berlusconi, non di qualche pettegolezzo privato. Da decenni, peraltro, è cosa nota e consolidata che i politici godono di una più ridotta "aspettativa di privacy", proprio perché la decisione di vivere in pubblico e di gestire la cosa pubblica impone loro di rendere possibile una conoscenza ampia e una valutazione continua proprio da parte di quei cittadini al cui giudizio il presidente del Consiglio sembra tenere tanto.
Chi, allora, ha "diritto alla verità"? Questo interrogativo, che divise Immanuel Kant e Benjamin Constant, è proprio quello che sta al centro della discussione italiana. Al deciso universalismo di Kant, Constant opponeva che «nessun uomo ha diritto a una verità che nuoccia ad altri». Qui possiamo astenerci dal ripercorrere quella storica discussione, perché proprio la rilevanza politica del caso esclude comunque che la verità possa nuocere a persona diversa dal presidente del Consiglio, mentre il silenzio o la menzogna pregiudicano proprio quel diritto di sapere che costituisce ormai uno dei caratteri della democrazia, che sfida il machiavelliano uso politico della menzogna come strumento per mantenere il potere. Molte volte si è sottolineato che le procedure di occultamento della verità hanno sempre accompagnato i regimi totalitari, mentre l´accesso alla verità è sempre stato una prerogativa delle libere assemblee, a partire dalla democrazia di Atene.
Il diritto alla verità, in questo caso più che mai, è diritto di tutti. È stato proprio il presidente del Consiglio a rendere ineludibile la questione con le sue reticenze, le doppie versioni, il distogliere lo sguardo da fatti incontestabili. Il suo rifiuto di rispondere a domande specifiche, e tutt´altro che pretestuose proprio perché riferite a dati precisi, assomiglia assai a quella "facoltà di non rispondere" di cui giustamente può giovarsi l´indagato o l´imputato. "Nemo ternetur se detegere", recita un´antica e civile formula giuridica, che si può spiegare con le parole di un vecchio commentatore: «non imporre a nessuno, neppure allo scellerato più infame, di rivelare il malfatto». Quali consiglieri, ammesso che ce ne siano, hanno suggerito al presidente del Consiglio di seguire una strada così scivolosa?
Una menzogna può acquietare i fedeli di un politico, ma lo spinge a rinserrarsi nel suo campo trincerato, corrode la fiducia dei cittadini in un tempo in cui proprio la produzione di fiducia è considerata un elemento indispensabile per restituire alla politica un vero consenso. Non è il moralismo a spingere verso questa conclusione, anche se oggi soffriamo proprio di un deficit spaventoso di moralità pubblica. La democrazia, ricordiamolo, non è solo governo del popolo, ma governo "in pubblico". Qui, in questa semplice e profonda verità, sta l´inammissibilità della menzogna in politica, che si trasforma proprio nella pretesa di non rendere conto dei propri comportamenti da parte di chi ha liberamente scelto di uscire dal rassicurante spazio privato per essere protagonista nello spazio pubblico.

Repubblica 26.5.09
Il bersaglio del populismo
Presidenzialismo telematico
Intervista ad Anthony Giddens di Enrico Franceschini


Viviamo nel rischio di un presidenzialismo mediatico che mira a usare le nuove tecnologie per governare senza nessun controllo. Per questo è necessario che le Camere siano dotate di poteri autentici

«Viviamo con il rischio di un presidenzialismo populista, che mira a usare le nuove tecnologie di comunicazione, come internet e i blog, per governare senza controlli. Ma senza un parlamento dotato di reali poteri non può esserci democrazia». È la tesi di Anthony Giddens, l´ideologo della Terza Via e del blairismo. Ma l´ex-rettore della London School of Economics non è solo un politologo che studia la democrazia su carta: è anche un parlamentare, membro della camera dei Lord, nominato da Tony Blair.
Lord Giddens, in Gran Bretagna sotto Blair, come in Italia sotto Berlusconi, come in Russia sotto Putin, abbiamo assistito a un rafforzamento del potere esecutivo rispetto al potere legislativo. Come giudica il fenomeno?
«Sono esempi molto diversi tra loro. In Russia c´è un ritorno all´autoritarismo, con la tendenza verso un partito unico in parlamento e un controllo assoluto dei media. Così assoluto, nemmeno Berlusconi l´ha ottenuto, sebbene anche in Italia il rafforzamento dell´esecutivo abbia aspetti preoccupanti. Quanto alla Gran Bretagna, qui i media possono far tremare sia l´esecutivo che il legislativo, come sta accadendo in questi giorni con le rivelazioni dei giornali sui rimborsi spese dei deputati».
Da cosa deriva la tendenza a rafforzare l´esecutivo?
«Da un problema reale. I media, quando sono liberi di funzionare, nella società odierna richiedono ai governi di rispondere delle proprie azioni 24 ore su 24. Spesso ciò avviene ancora prima che ci sia una reazione da parte del parlamento alle azioni del governo; o addirittura prima che l´azione del governo sia stata effettivamente completata. Viviamo nella società dell´informazione in tempo reale, e davanti a un controllo così martellante i governi hanno avvertito la necessità di rafforzare il proprio potere».
Dunque è uno sviluppo necessario?
«Sì, ma può diventare pericoloso se viene lasciato crescere a dismisura. Internet, con la sua comunicazione diffusa e interattiva, può rappresentare per alcuni leader una tentazione di quello che io definisco presidenzialismo elettronico, un potere populista basato sul consenso espresso da sondaggi, email, blogger, anziché essere espressione del dibattito parlamentare. E ciò è sicuramente negativo, una minaccia per la democrazia».
Berlusconi ha detto che in parlamento potrebbero bastare 100 deputati.
«Un parlamento più piccolo è un obiettivo apprezzabile, specie in Italia, dove di deputati ce ne sono troppi. Ma non bisogna esagerare a diminuire la rappresentatività, nel numero di deputati e nel numero di partiti. Il bipartitismo fa funzionare meglio un paese, ma occorre che tutti i settori della società siano rappresentati in parlamento e ciò col bipartitismo non sempre avviene».
Allora il ruolo del parlamento rimane essenziale?
«Assolutamente sì. Va riformato, migliorato, adeguato ai tempi. Ma ricordiamoci che ogni volta che la democrazia è stata minacciata, in ogni parte del mondo, si sono ridotti i poteri del parlamento».
E a lei piace, il suo lavoro alla camera dei Lord?
«Sì, molto. In linea di principio sono favorevole a una riforma per far sì che i Lord siano eletti dal popolo, anziché essere nominati dalle istituzioni (a vita, ma i seggi non sono più ereditari, com´era prima della riforma approvata da Blair, ndr.). Però anche oggi la camera dei Lord svolge un ruolo importante di scrutinio legislativo, ed è composta, grazie al sistema delle nomine, da molti esperti sui problemi più svariati. E anche questo è utile».

il Riformista 26.5.09
I sondaggi sotto il 40%. Crisi di governo in Sicilia
Papi perde colpi
Il premier teme un nuovo teste
Cavaliere furioso e angosciato. Parla Letizia e gli avvocati già si preparano al prossimo colpo. I sondaggi preoccupano lo staff: la «bolla mediatica» non si sgonfia come era stato previsto
di Alessandro De Angelis


Benedetto, Letizia. A rispondere alla dieci domande che Repubblica ha rivolto a Silvio Berlusconi, di fatto, ci ha pensato lui. Il papà di Noemi, in una lunga intervista al Mattino, ha affermato: «Dico chiaro e tondo che mia figlia è illibata, il resto sono solo illazioni. Nessuno può smentire questo, da Veronica Lario in giù». Noemi dunque è casta ed è figlia sua: «Se vogliono si può fare la prova del Dna». Parola di papà. E papà giura che con «papi» (cioè Berlusconi, copyright di Noemi) il rapporto, di tutti, è limpido: «Quando morì mio figlio diciannovenne feci arrivare la notizia al presidente e due giorni dopo mi viene recapitata una lettera scritta a mano da Berlusconi, accorata, toccante. Credo sia nato quel giorno il mio rapporto con lui, lo sentiii sincero, partecipe».
Chissà se basta, a mettere la parola fine al Casoria gate, ormai un'ossessione per il Cavaliere. Che non ne può più. Chi lo ha visto in questi giorni lo definisce furioso e angosciato al tempo stesso: «È possibile che noi proponiamo la riduzione dei parlamentari e i giornali si occupano di questa spazzatura?». Per non parlare dei guai fisici: quel maledetto torcicollo che lo sta limitando nella campagna elettorale. O delle angosce private, come il pensiero per le condizioni di salute del suo amico e medico Umberto Scapagnini: «È un chiodo fisso che lo angoscia», dicono i suoi. Berlusconi è stanco, e vede che la «bolla mediatica» non si smonta. Per questo ha scelto di far parlare Benedetto Letizia. La parola di un padre contro il gossip. La difesa contro l'accusa. All'operazione ha lavorato Niccolò Ghedini, l'unico con cui il Cavaliere, in questi giorni, parla in continuazione. E neanche il giornale è scelto a caso: il direttore del Mattino Mario Orfeo è in odor di Tg2 e, sulla vicenda, si era collocato in una posizione defilata, fino a ieri.
L'avvocato Ghedini lascia intendere il senso della testimonianza di Benedetto Letizia: «Il rapporto con la ragazza nasce dall'amicizia con la famiglia, come spiega il padre e come sarà appurato nei processi che verranno intentati nei confronti di Repubblica e di chi dovesse fare dichiarazioni diffamatorie, soprattutto per Noemi. Valuteremo le eventuali azioni civili e penali da intraprendere. Berlusconi è giustamente infastidito da questa situazione, ma non è la sua priorità della giornata. Ha e abbiamo altre cose da fare». Il premier però teme che la partita non sia finita qui. E la parola di papà Letizia serve anche per coprire dell'altro. Perché se è vero che finora «è tutta panna montata» e non c'è una prova - dicasi una - a Palazzo Chigi temono in un colpo di coda: una testimonianza, magari creata ad arte, meno innocua dell'ex fidanzatino di Noemi, che spinga qualche audace procura ad aprire un'indagine. A microfoni spenti la versione è questa: «Se trovano un testimone che, magari per gloria o per altro, si inventa che c'è stato un rapporto sessuale a quel punto con la normativa vigente che è più restrittiva di quella di prima si configura l'abuso di minore e si procede d'ufficio. Qui vuole arrivare il teorema mediatico-giudiziario di Repubblica e della sinistra». Come a dire: non c'è lodo Alfano che tenga di fronte all'effetto sull'opinione pubblica.
Per questo Berlusconi ha deciso di giocare in prima persona, col suo avvocato. Anche l'ala diplomatica di palazzo Chigi, da Paolo Bonaiuti a Gianni Letta, sul caso, è inascoltata. Il Cavaliere va per conto suo. Certo un lavorio sui giornali è stato fatto: il Corriere ha smussato i toni rispetto a qualche giorno fa, e pure il Sole, che aveva fatto pubblicare le proprietà immobiliari della famiglia Letizia, è tornato meno ostile. Misure tampone. Berlusconi vuole, soprattutto, una via d'uscita politica: una mossa per invertire la tendenza cavalcata anche dalla sinistra. Che dei danni li ha già prodotti. Nei sondaggi che circolano in queste ore a palazzo Grazioli il Pdl è sceso sotto il 40 per cento. Per uno che aveva dichiarato «prenderemo il 50 per cento» l'obiettivo è praticamente impossibile. E infatti gli sherpa hanno abbassato l'asticella: «Prendiamo il 42».
Serve comunque un cambio di passo. Tutto politico. Per ora Berlusconi ha affidato la controffensiva a una serie di interviste, registrate prima della puntata di domenica del Casoria gate, e andate in onda ieri. Interviste in cui mostra i muscoli: «Mi dicono di aver mentito. Allora reagirò, spiegherò esattamente come è la situazione e avrò ancora una volta tutti gli italiani con me» ha detto alla Cnn. E ancora: «Trovo indegno il comportamento di chi entra in una vicenda privata per farne motivo di attacco politico. Abbiamo chiarito la situazione e la chiariremo ancora, anche se all'inizio io non ho voluto che si entrasse nei rapporti tra me e questa famiglia perché ritengo che abbiamo diritto alla privacy. Anche mia moglie ha creduto a quanto comunicato da certa stampa». Un modo per replicare a Franceschini e alla lista degli accusatori. Ma il premier non ha alcuna intenzione di «chiarire» in Parlamento. Quando ha annunciato un suo intervento in Aula, qualche tempo fa, si trattava di replicare sul caso Mills, certo non sulla sua vita privata. Il senso delle dichiarazioni di ieri è che risponderà colpo su colpo. L'obiettivo però è tornare a parlare di politica. E per recuperare consensi Berlusconi continuerà a spingere sulla riduzione del numero dei parlamentari, attraverso un ddl popolare. Visto che il tema anticasta «tira» sta valutando di trasformare i gazebo elettorali del Pdl in luoghi di raccolta delle firme. Un modo per cambiare argomento. Cosa che ha fatto ieri Umberto Bossi che, dopo aver archiviato il caso Noemi alla voce «esagerato», ha dato un'altra versione: «Berlusconi i suoi anni li ha. Vabbé che c'è il Viagra però ci credo poco».

il Riformista 26.5.09
Quando Repubblica chiama alle armi
il partito fiancheggiatore risponde
di Peppino Caldarola


Le vecchie sezioni hanno chiuso i battenti, le nuove aprono qualche ora al giorno, il militante democratico, disorientato, confuso, avvilito, non sa a che santo rivolgersi per dire la sua, per trovare chi interpreta i pensieri che gli frullano nella testa, addirittura per scegliere fra questi pensieri quello giusto. E va in edicola. La lettura quotidiana di Repubblica è il tonico che ci vuole. Non passa giorno senza un editoriale contro Berlusconi, da quando è scoppiato il "caso Noemi" non c'è copia del giornale che non abbia nuove rivelazioni. Finalmente c'è qualcuno che non perde di vista l'Uomo Cattivo. Una lettura corroborante, uno sprone per la nuova Resistenza trasuda da quelle colonne di piombo, a conferma del fatto che non si è mai troppo antiberlusconiani. Repubblica dà voce al nostro disagio profondo e ieri con due pensosi articoli ci ha spiegato il nostro disagio di vivere in un Paese dove la maggioranza segue il Cavaliere. L'Italia profonda non ci capisce, ma Ezio Mauro sì. Dicono che sia anche un successo editoriale la nuova battaglia dell'ammiraglia del gruppo De Benedetti contro il premier. Un giornale, e un gruppo editoriale, travolti dalla crisi della carta stampata, e destinati ad attuare tagli severi, vedono rinvigorito il rapporto con la diffusione. Auguri.
Quello fra Repubblica e la sinistra è un vero grande amore. Un amore cominciato tanto tempo fa quando Scalfari, a capo di un gruppo di coraggiosi, decise di fondare un quotidiano diverso dagli altri. Il Pci guardò con grande sospetto la nascita di questo nuovo foglio. L'idea che un gruppo di "neo-azionisti" si mettesse a dare carte nella sinistra non poteva piacere alle Botteghe Oscure. Il primo anno non dette grandi risultati al nuovo quotidiano. Ricordo una circolare di Luca Pavolini che arrivò nelle federazioni del Pci in cui si invitava a diffondere con maggior lena l'Unità con il sollievo del cattivo esito dell'esperimento di Scalfari.
Ancora pochi mesi e accadde il contrario di quanto sognava il gruppo dirigente del Pci. Repubblica diceva papale papale quello che avveniva nel grande partito, dava voce ai dissenzienti, lavorava ai fianchi Dc e Pci. Divenne così, a scapito del quotidiano di partito, il giornale di cui il militante non poteva fare a meno. È stato un lungo fidanzamento con momenti di vero amore. Quello per Berlinguer e per il partito degli onesti, ad esempio, contrapposti alle avventure del Ghino di Tacco socialista. La sintonia fra il Pci e Scalfari ebbe il vantaggio di togliere dall'isolamento i comunisti che trovarono nel quotidiano romano il principale sponsor per l'accreditamento come forza di governo. Anche Repubblica doveva fare i conti con la potenza del Pci. Il lungo amore segnò la vita di una coppia in cui ciascuno era forte nel proprio campo e tuttavia era necessario per la vita dell'altro. Fino allo scioglimento del Pci.
Da quel momento il quotidiano lancia la vera Opa sul nuovo partito. Repubblica diventa la cattedra che divide i buoni dai cattivi. Parteggia per Occhetto ma poi lo molla, si schiera con Veltroni per la successione ad Akel, si rammarica per la vittoria di D'Alema, tifa per Prodi e lo strattona, si inventa Rutelli capo dell'Ulivo e lo abbandona, fa da grancassa ai girotondi esaltando la "borghesia riflessiva", i suoi editorialisti si innamorano di Cofferati. La storia confusa e finale della sinistra è tutta scritta su quelle pagine.
Quando sta per morire la vecchia Unità è l'unico giornale a non solidarizzare. Da Ferruccio de Bortoli a Vittorio Feltri è un coro di amicizia e di promesse di aiuto, ma Repubblica, ormai da anni nelle mani di Ezio Mauro, non ha lacrime sperando di ereditare il superstite pubblico del quotidiano fondato da Antonio Gramsci al quale regala due direttori che poi si riprende, o si riprenderà, Mino Fuccillo e Concita De Gregorio. Negli anni dell'Ulivo, ogni volta che il Corriere della Sera darà qualche dispiacere alla nomenklatura si troverà sempre un editorialista di Repubblica che, non senza frustate, invita a sostenere la baracca.
Ma non è più un rapporto paritario fra due poteri, il partito e il suo principale giornale di riferimento. A mano a mano che la sinistra si immerge nelle sue svolte, il gruppo editoriale diventa qualcosa di più del giornale-amico, del pungolo quotidiano, del luogo dove si esaltano o si cancellano carriere politiche. Il partito perde peso, perde anche la bussola e Repubblica occupa tutto lo spazio libero.
Con la segreteria di Veltroni, il politico prediletto dal gruppo, Repubblica si fa tutt'uno con il nuovo leader, dopo un breve innamoramento per D'Alema. Tutto si svolge alla luce del sole. Non c'è niente di obliquo o di sotterraneo, e se c'è non ha importanza. Trasferitosi nella periferia nord di Roma, il quotidiano si stringe in un abbraccio definitivo alla nuova creatura politica vigilando soprattutto sul suo tasso di anti-berlusconismo. L'avvento di Franceschini chiude una lunga fase finendo per sancire la supremazia del giornale sul partito. Alle prime mosse del "caso Noemi" il segretario del Pd dichiara di volerne restare fuori. Dura qualche settimana appena questa dichiarazione di indipendenza. Poi Repubblica chiama alle armi e trova in via del Nazareno il braccio politico per trasferire la vicenda pruriginosa al vertice della politica e nel cuore dello Stato. Il Pd non sa e non può più dire di no. Fra qualche settimana, dopo il voto, Repubblica deciderà le sorti del Pd schierandosi per Franceschini o per uno dei tanti che ambiscono a prenderne il posto. Attenti, signori che ambite a fare carriera nel Pd. Dopo l'8 giugno sarà Ezio Mauro a comunicarvi il nome del nuovo segretario del Pd.

l’Unità 26.5.09
Nuovi misteri d’Italia
Dal G8 di Genova a oggi, il fantasma della paura come strategia di governo
di Claudia Fusani


C’è una circolarità negli eventi. Basta saperla leggere, come quei giochi da cruciverba, unisci i punti sparsi e alla fine viene fuori la figura. Alla vigilia di un altro G8 sotto il semestre di presidenza italiana che la scelta dell’Aquila rende speciale, per certi versi unico, escono in libreria un paio di libri che cercano di tirare le fila dell’altro G8, quello di Genova, otto anni dopo. Dopo le sentenze di primo grado sui principali filoni d’inchiesta di quei quattro giorni in cui ci fu “la più grave sospensione dei diritti umani nell’Occidente contemporaneo” (Amnesty international). E mentre è in carica un nuovo governo di centrodestra – così come si era appena insediato nel luglio 2001 – che da un anno sta portando avanti, neppure tanto tra le righe, un nuovo sistema di sicurezza.
Enrico Deaglio, Beppe Cremagnani, e Mario Portanuova autori di “Governare con la paura-Il G8 del 2001, i giorni nostri” (editore Melampo) hanno saputo aspettare, hanno messo la distanza necessaria tra i fatti e gli occhi, hanno continuato a raccogliere elementi e indizi, il prima e il dopo. Capacità d’analisi. Capacità di visione dell’insieme dei fatti. La conclusione è che nulla di quello che accadde in quei giorni di luglio del 2001 fu casuale, tutto era stato se non deciso almeno previsto, dagli allarmi dei servizi alla morte di Carlo Giuliani, dalle botte e dagli abusi sui manifestanti al caso blocco nero che fu libero per tre giorni di fare quello che voleva, fino al blitz alla scuola Diaz di notte, mentre la gente dormiva. “Era stata programmata una sorta di prova generale per la trasformazione, o la minaccia di trasformazione, del nostro paese in un Cile di Pinochet” scrivono gli autori. I fatti di Genova «avevano dimostrato quanto poderosa e capillare potesse essere, in una grande città d’Europa, una prova di forza: si era potuto, senza provocare grandi dibattiti, blindare e svuotare un centro cittadino, convogliare 15 mila esponenti delle forze dell’ordine, militari compresi, limitare per decreto gli spostamenti dei cittadini».
«Abuse of power comes as no surprise» scriveva agli inizi degli anni ottanta Jenny Holzer. Il libro racconta proprio come l’abuso di potere arrivi, a un certo punto, senza particolari scossoni, e di come «il potere di per sé tenda ad abusare per arricchire i suoi adepti e per mantenersi al potere». Fondamentale, per tutto questo, è creare la paura, fabbricarla. Il libro documenta come ben cinque mesi prima del G8 del 2001 i servizi segreti cominciano a disseminare veline tra giornali e tivù, allarmi, paure e scenari terrificanti, dal sangue infetto al sequestro degli agenti da parte dei manifestanti. Di più: un appunto ritrovato, ovviamente casualmente, davanti a palazzo Chigi il 5 giugno 2001 anticipa quello che poi avverrà il 21 luglio, la morte di Carlo Giuliani per mano di «un giovane poliziotto inesperto e esausto». Il libro ripercorre la dinamica degli incidenti, il mistero blac bloc, l’assalto alla Diaz, tramite la lettura delle sentenze dimostra che la polizia alla fine si è sottratta al giudizio del processo. Soprattutto, e questa è la cosa più grave, «nessuno ha avuto la voglia o il coraggio di assumersi la responsabilità di farlo. Nessuno ha ancora raccontato «la verità ultima sul G8 di Genova». Restano tre domande senza risposta: «Chi giocò sporco con gli allarmi della vigilia e perché? Chi diede gli ordini, chi gestì davvero l’ordine pubblico, chi manovrò nell’ombra sotto il sole di Genova? Chi ha garantito l’impunità agli uomini dello Stato di cui parlano le sentenze?». Non aver voluto rispondere a queste domande crea, lasciano intendere gli autori, il precedente e il presupposto perché tutto possa accadere di nuovo. «Governare con la paura» infatti è anche adesso, accade ininterrottamente da quel luglio 2001 con l’unica interruzione dei due anni del governo Prodi. Un capitolo del libro, «La nuova sicurezza», ricostruisce in pillole fatti di cronaca e scelte politiche che indicano chiaramente la rotta del nuovo concetto di sicurezza, dalla caccia i nomadi all’introduzione del reato di clandestinità, dalla tolleranza zero contro chi vorrà manifestare in modo violento contro le basi militari, le discariche e le riforme della scuola, il ritorno di raid di sapore fascista, i barboni dati alle fiamme per gioco. Dal disegno di legge al decreto sulla sicurezza, dalle ronde dei cittadini ai militari sguinzagliati nelle città a tutela dei monumenti. «Una cronaca che non si stanca di dirci quanto il governo non sia disposto a tollerare manifestazioni di dissenso» e che «la polizia e l’esercito nell’Italia del 2009 hanno ottenuto poteri più grandi di quanto abbiano mai avuto nella storia repubblicana».
«Governare con la paura» va in stampa nell’aprile 2009. Il video racconta ancora meglio come il passato stia tornando in questo presente, anzi come tutto si stia evolvendo nell’oggi passando sotto la lente di un unico, immenso, revisionismo. Va aggiunto, per dovere di cronaca, che tra due mesi ci sarà un altro G8, che la polizia ha ucciso a Londra ai primi di aprile Ian Tomlinson durante il G20, che dopo gli incidenti del G8 universitario a Torino i ministri si sono subito affrettati a lanciare allarmi terrorismo ed eversione. Anche per il G8 Interni e Giustizia del prossimo fine settimana qui a Roma. Un clima già visto. A cui non ci si può abituare. Come ricordano, al momento giusto, un libro e un video.

l’Unità 26.5.09
Stato sionista
La legge di Lieberman: fedeltà a Israele
Cittadinanza. Potrà essere revocata a chi si rifiuta di giurare
Il falco del governo Netanyahu impone all’esecutivo l’esame delle nuove norme
Nel mirino un milione e mezzo di arabi israeliani. Insorgono le associazioni umanitarie
di Umberto De Giovannangeli


Da «provocazione» elettorale a proposta di legge. Destinata a infiammare Israele. È il giuramento di fedeltà allo «Stato sionista» chiesto da Israel Beitenu di Avigdor Lieberman. Lo scontro alla Knesset.

Ora non è più una «provocazione elettorale». Ora è una proposta di legge avanzata dalla terza forza politica d’Israele - Israel Beitenu (IB), destra radicale - il cui leader, Avigdor Lieberman - guida uno dei ministeri chiave del governo: gli Esteri. Una proposta che tende a imporre a tutti i cittadini un inedito giuramento di fedeltà allo Stato israeliano e alla sua natura ebraica, è da ieri sul tavolo del governo Netanyahu.
POLEMICHE ROVENTI
La proposta ha in realtà molto cammino da fare prima di potersi tramutare in legge effettiva, poiché dovrà ottenere l'assenso collegiale del governo (a cui sarà sottoposta la settimana prossima) e successivamente della Knesset, dove si prevede fin d’ora una dura battaglia con probabili ricorsi alla Corte Suprema. Ma la polemica sul peso della destra identitaria nella compagine del premier Benyamin Netanyahu già divampa. IB, del resto, appare deciso a dare corpo agli slogan più barricadieri e discussi dei suoi comizi elettorali. Mentre il partner principale di governo (il Likud, partito della destra storica capeggiato da Netanyahu) sembra contare solo poche voci dissonanti. È dell’altro ieri il via libera ottenuto dal gruppo di Lieberman in consiglio dei ministri a un altro contestato disegno di legge, che mira a impedire alla minoranza araba del Paese (1,5 milioni di persone, il 20% della popolazione) ogni commemorazione della Nakba («catastrofe» in arabo) in cui i palestinesi rievocano la nascita d'Israele nel 1948, indissolubilmente legata nella loro memoria all’esodo di circa 700 mila profughi.
Servizio militare
La proposta formalizzata ieri, se venisse recepita, imporrebbe ai firmatari del giuramento di dichiarare fedeltà «allo Stato d’Israele quale Stato ebraico, democratico e sionista», impegnandoli per iscritto «a servire il Paese secondo le necessità, anche prestando servizio militare o civile». Non solo: essa darebbe al ministro dell’Interno la facoltà di non rilasciare carta d’identità o passaporto a chiunque rifiutasse di aderire e perfino di revocargli d'autorità la cittadinanza. La legge sull’«atto di lealtà» colpirebbe soprattutto gli arabi israeliani, molti dei quali non s'identificano affatto col carattere ebraico d'Israele. Ma anche quegli ebrei ultraortodossi che contestano lo Stato sionista in quanto creazione laica e non opera del Messia.
L’Associazione israeliana dei diritti civili non ha esitato a evocare i bagliori sinistri di una cultura totalitaria dietro la proposta, bollata come espressione di «totale fascismo». «Siamo alla barbarie identitaria, una pagina vergognosa per Israele», dice a l’Unità Yael Dayan, scrittrice, paladina dei diritti delle minoranze, figlia dell’eroe della Guerra dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan. «Questa proposta è il biglietto da visita di un governo che ha il razzismo nel suo dna», le fa eco Shulamit Aloni, più volte ministra nei governi a guida laburista, figura storica della sinistra pacifista israeliana. Imbarazzi sono emersi inoltre nel Partito laburista, portato da Ehud Barak nella coalizione con Likud e IB, mentre critiche pesanti sono piovute dall’opposizione centrista di Kadima, la formazione dell’ex ministra degli Esteri Tzipi Livni. I partiti arabi hanno parlato a loro volta di «deriva razzista», promettendo opposizione a oltranza. Un loro esponente, Jamal Zahalka (deputato del Balad alla Knesset), ha in particolare preso di mira il divieto della Nakba, affermando che «varare una legge per impedire il dolore e il lutto è un fatto senza precedenti a livello internazionale». Ma avvertendo che gli arabi d'Israele troveranno «il modo di ricordare il passato malgrado questo folle governo Netanayhu-Lieberman».

il Riformista 26.5.09
L'Iran scopre la sua "Michelle" e Mousavi spera
di Roberta Del Principe


Sfidante. Sa parlare ai giovani e vuole bloccare la fuga dei cervelli. Candidato di compromesso tra moderati e riformisti, è l'unico in grado di battere Ahmadinejad. Grazie anche a Zahra, la moglie artista impegnata, che tiene per mano ai comizi.

Era rimasto per vent'anni lontano dalla scena politica del suo Paese, Mir Hossein Mousavi, il competitor numero uno di Mahmoud Ahmadinejad alla poltrona di decimo presidente della Repubblica Islamica d'Iran. Ultimo Primo Ministro, prima dell'abolizione costituzionale della carica, architetto e pittore, presidente dell'Accademia dell'Arte iraniana e membro del Consiglio del Discernimento, Mousavi aveva guidato l'Iran dal 1980 al 1989 sotto la presidenza di Khamenei, attuale Guida Suprema.
I sondaggi sin qui divulgati in verità non concedono troppo alla speranza di battere Ahmadinejad il prossimo 12 Giugno, ma lui continua a crederci con forza e caparbietà, come quando di fronte alla discesa in campo di Mohammed Khatami, presentata come la svolta che avrebbe rafforzato e rilanciato il movimento riformista, decise di andare avanti e non ritirarsi, costringendolo ad alzare bandiera bianca in nome dell'unità degli eslahtalaban. Khatami era al suo fianco, sabato scorso, al comizio ufficiale di apertura della campagna elettorale, organizzato simbolicamente, allo stadio Azadi di Teheran, a 12 anni esatti dalla entusiasmante vittoria dell'ex presidente del 1997. «Giovani iraniani votate per lui!», il forte appello di Khatami alle migliaia di persone presenti in uno sventolio di bandiere verdi, colore simbolo dei sostenitori di Mousavi. «Il prestigio del nostro Paese non deriva da una persona sola», ha tuonato Mousavi riferendosi ad Ahmadinejad. «Tutti gli iraniani vi contribuiscono, ma hanno contro l'attuale Amministrazione che mina questo grande prestigio».
Mousavi ha grandi difficoltà a combattere contro il suo avversario e, sebbene diriga il giornale Salame-ye Sabz, affronta di fatto un presidente in carica con le armi spuntate dall'enorme sproporzione dei mezzi di comunicazione a disposizione. Le radio e le tv sono veri e propri megafoni governativi ed è notizia di ieri che Facebook, il social network utilizzato dai riformisti per diffondere il programma di Mousavi, avrà in Iran l'accesso bloccato sino al giorno delle elezioni. In tanta avversità c'è però una trovata innovativa da tutti giudicata una vera e propria svolta nella sua campagna elettorale. Risponde al nome di Zahra Rahnavard, sua moglie e madre dei suoi tre figli, sempre presente ai comizi del marito, sempre più protagonista della sua campagna e in grado di galvanizzare in modo insperato le folle che vengono ad ascoltarlo. I meeting di Mousavi sono pieni di giovani che letteralmente impazziscono per questa scultrice, per otto anni rettore all'Università femminile al Zahra di Teheran. Mousavi presenta agli iraniani la loro potenziale first lady, dandole un ruolo preminente nella sua corsa presidenziale, cosa mai avvenuta in trent'anni di Repubblica Islamica.
Lei ci ha preso gusto, si scaglia contro gli anni di Ahmadinejad, si dice speranzosa in «una nuova era in cui la libertà di parola, scrittura e pensiero non vengano più oscurate», promette tempi nuovi «senza più prigionieri politici e senza più studenti in prigione» e chiede che «la fine delle discriminazioni contro le donne non restino una semplice speranza». I coniugi Mousavi si lasciano fotografare mano nella mano, lui sorride quando Zahra, facendo intravedere il foulard firmato sotto lo chador, fa ballare ragazzi e ragazze scatenandoli nonostante i veti islamici.
Il 70% degli iraniani è sotto i trent'anni d'età e Mousavi sa bene che per intercettare i loro voti, uno stile così diverso vale tanto di più che continuare a raccontare i suoi miracoli negli anni neri della guerra con l'Iraq, in cui salvò l'economia del suo Iran e riuscì a garantire il pane ai più poveri. «Un Iran progressista con legge, giustizia e libertà!» è lo slogan della campagna elettorale di un uomo stimato dal Padre della Rivoluzione, l'Imam Khomeini, che ritorna dopo vent'anni nell'arena della politica iraniana con la convinzione di rappresentare un segno di novità e cambiamento e raccogliere consensi tra i tanti conservatori delusi dal radicalismo eccessivo del loro attuale Presidente. Dopo la morte di Khomeini, Mousavi aveva preferito l'arte alla politica, manifestando con veri e propri capolavori tutto il suo genio artistico. È lui l'architetto della bellissima cupola "Imam Khomeini" nel santuario di Qom, suoi i progetti dell'Università dei Martiri di Teheran e del cimitero di Isfahan. Convinto nuclearista, sostenitore dell'etica in economia, deciso a valorizzare il settore privato e a ricostruire relazioni con il mondo per ravviare un Paese allo sbando, Mousavi ha un grande sogno: trattenere l'emorragia dei giovani eccellenti che continuano a lasciare l'Iran. «Quando all'orizzonte non c'è speranza per lo sviluppo, la ricerca e la realizzazione della creatività, è naturale che i migliori studenti vengano attratti dalle proposte che li allontanano dal nostro meraviglioso Paese».

Corriere della Sera 26.5.09
Ricerca della paleontologa Falk dell’università della Florida
Einstein, il segreto del genio solchi anomali nel cervello
Ha una forma diversa la parte associata ai numeri
di Giovanni Caprara


Il Cremlino aveva creato un Istituto del cervello nel quale era stato esaminato anche il cervello di Lenin ( nella foto).
Fino al crollo dell’Unione Sovietica vennero conservati tra gli altri i reperti di Stalin, Breznev Majakovskij, Bulgakov, Tupolev e Sacharov

MILANO — La genialità di Albert Einstein forse ha lascia­to traccia nel suo cervello. Con questa convinzione la pa­leoantropologa Dean Falk del­l’Università della Florida ha elaborato e studiato le imma­gini della materia cerebrale del grande scienziato arrivan­do ad una conclusione che giudica «interessante». Sui lo­bi parietali normalmente as­sociati alle abilità matemati­che e alla cognizione spaziale e visuale la scienziata ha iden­tificato in superficie una doz­zina di variazioni rispetto alla norma. Sono rilievi e solchi che fanno pensare ad una riorganizzazione diversa da­gli standard e frutto ipotizza­bile delle straordinarie capaci­tà intellettuali.
Dean Falk è una illustre stu­diosa dell’evoluzione cerebra­le dei primi uomini, dei quali ha indagato anche le origini del linguaggio e le doti cogni­tive. Ora applicando le stesse tecniche ha voluto esplorare quanto è rimasto della prezio­sa materia grigia appartenuta al fisico più grande del Vente­simo secolo che ha rivoluzio­nato l’idea dello spazio e del tempo.
Einstein moriva all’ospeda­le di Princeton nell’aprile 1955. Aveva 76 anni, e sul co­modino trovarono le ultime formule con le quali cercava di creare una teoria del tutto. Aveva rifiutato un rischioso intervento chirurgico avver­tendo i medici che decideva lui quando morire. E dava di­sposizioni perché il suo cor­po venisse cremato e le cene­ri sparse al vento in un luogo segreto.
Così accadeva, ma non per il cervello che venne asporta­to durante l’autopsia e conse­gnato al patologo Thomas Harvey il quale lo trattò per la conservazione eseguendo una serie di fotografie ora uti­lizzate da Dean Falk. Poi ne ri­cavò 240 sottili campioni che montò su vetrini da microsco­pio distribuiti agli studiosi che ne facevano richiesta. Il ri­manente lo pose in un conte­nitore sottovuoto che tenne con sé per decenni nei vari spostamenti fra gli Stati Uni­ti. Egli pure cercò di analizzar­lo senza però riscontrare nul­la e nel 1998 restituiva il tutto al Medical Center dell’Univer­sità di Princeton che ora lo conserva rigorosamente.
Nel 1985 un neuroscienzia­to dell’Università di Califor­nia, Marion Diamond, pubbli­cava i primi risultati ottenuti dall’esame di alcuni vetrini sostenendo la presenza di un maggior numero di cellule ce­rebrali rispetto alla norma. Negli anni seguenti Sandra Witelson alla McMaster Uni­versity di Hamilton (Ontario) raccontava che le sue analisi mostravano nell’ area parieta­le associata alla visione e al ra­gionamento un’estensione del 15 per cento maggiore nei confronti del normale. Inol­tre notava che il cervello in quella zona era privo di una tradizionale fessura fonden­do insieme due aree molto importanti. Seguendo questi indizi Dean Falk ha voluto ap­profondire trovando altre anomalie.
«Il cervello di Einstein è ve­ramente inusuale — com­menta — Almeno in superfi­cie sembra diverso dagli al­tri ». Ma lei stessa ammette che è difficile stabilire se le forme osservate siano causa od effetto del genio. Ciò non toglie che i tentativi di indivi­duare qualche prova si ripeta­no nel tempo. E non solo per Einstein. Il Cremlino aveva addirittura creato un Istituto del cervello nel quale aveva invitato il neu­rologo tedesco Oscar Vogt per esaminare il cervello di Lenin. E nell’Istituto si conser­varono e si indagaro­no fino al crollo del­l’Unione Sovietica i cervelli di Stalin e Breznev ma anche di Majakovskij e Bul­gakov, di Tupolev e Sacharov. Mai alcuna scoperta, tuttavia, emerse dagli illustri reperti.
L’attrazione per il genio di Ulm è però troppo forte per non attrarre i ricercatori. Dalla sua mente usci­rono 300 memorie scientifiche che rivo­luzionarono la scienza ma lui stesso affermava di non ave­re parole per spiegare i suoi risultati. «Una nuova idea ar­riva all’improvviso e in ma­niera piuttosto intuitiva», di­ceva. «Vorrei che Einstein fos­se vivo — conclude Dean Falk — e forse ponendogli certe domande scopriremmo come egli pensava».

Corriere della Sera 26.5.09
Geografie Un incontro internazionale alla Fondazione Cini. Sulle tracce di Matteo Ricci
Cina, la rivoluzione silenziosa
Il sinologo François Jullien: il Tao ha creato la superpotenza
di François Jullien


Che cosa s’intende per «trasfor­mazione silenziosa»? L’eroe del modo di narrare europeo non si pone soltanto dei fini, deve ugualmente agire per far sì che la forma ideale che ha tracciato accada. Sappiamo che uno dei temi più importanti del pen­siero cinese, di qualsiasi scuola esso sia, ma particolarmente ricorrente nel taoi­smo, è il «non-agire» ( wu wei), che non può essere inteso come disimpegno, e an­cor meno come rinuncia o passività. Se il saggio o lo stratega non agiscono, essi «trasformano» ( hua): cioè fanno in modo che a poco a poco, con il loro influsso, la situazione evolva nel senso desiderato. La trasformazione si manifesta precisamente come il contrario dell’azione. L’azione, per il fatto d’essere locale, momentanea e rife­rita a un soggetto (agisco «qui e adesso»), si smarca dal corso delle cose e si fa rimar­care, divenendo in tal modo oggetto di un racconto (l’epopea). La trasformazione è invece troppo globale e progressiva, fon­dandosi sul corso delle cose, per lasciarsi reperire nel proprio processo. In questo è «silenziosa». E solo a cose fatte se ne con­stata il risultato. Prendiamo ad esempio le «trasformazioni silenziose» che tutti noi viviamo, quelle del riscaldamento climati­co o dell’invecchiamento. Le chiamo «si­lenziose », perché non le percepiamo. L’azione, ci dicono i cinesi, è tanto più visi­bile in quanto forza la situazione ma, ri­guardo ai suoi effetti, resta un epifenome­no. La trasformazione è invece effettiva, e addirittura è tanto più effettiva in quanto non la vediamo all’opera e non fa evento.
In che cosa tali nozioni possono chiari­re il presente della Cina? Non mi pare che la Cina, ancora oggi, progetti un piano per l’avvenire, persegua un fine preciso o una finalità, anche imperialistica; ma che sfrut­ti al meglio i fattori favorevoli — in qualun­que campo: economico, politico, interna­zionale, e in qualunque occasione — per rafforzare la propria potenza. È soltanto adesso che cominciamo, un po’ sbalorditi, a constatarne i risultati: in qualche decen­nio, la Cina è diventata la grande fabbrica del mondo e crescerà ancora. E questo sen­za grandi avvenimenti di rottura. Deng Xia­oping, il «Piccolo timoniere», è stato il grande trasformatore silenzioso della Ci­na. Ha fatto passare gradualmente la socie­tà cinese, alternando liberalizzazione e re­pressione, da un regime socialista a un re­gime ipercapitalista, senza mai dover di­chiarare una vera e propria spaccatura fra i due regimi.
Prendiamo l’immigrazione cinese: si estende da un quartiere all’altro, ogni nuo­vo arrivato fa venire pian piano anche i propri cugini; le celebrazioni cinesi assu­mono da un anno all’altro maggiore im­portanza, e così via. Ma la transizione è tal­mente continua che non ce ne rendiamo conto e di conseguenza restiamo senza ap­pigli per arginarla. Tale trasformazione, in­somma, è così progressiva e silenziosa, che non la vediamo. Ma ecco che, d’im­provviso, un giorno ci accorgiamo che nel­la nostra strada tanti negozi sono cinesi...
Se osserviamo la storia della Cina con­temporanea, constatiamo che in questo Pa­ese non è accaduto quel che si è verificato nell’Unione sovietica che ridiventava la Russia: il XX congresso, la destalinizzazio­ne, la perestroika, eccetera. In Cina, cioè, non c’è stato un taglio con il passato; e per questo lo stesso partito è potuto restare al potere. C’è stata una demaoizzazione in no­me di Mao, ricorrendo ad altre sue citazio­ni che incitavano a un maggior realismo.
Ricordo il mio stupore di studente in si­nologia quando un bel giorno mi accorsi che la citazione di Mao, riportata in un ri­quadro nella parte superiore del giornale, non era più in grassetto: ma le citazioni ab­bondavano nel resto della pagina. Poi le ci­tazioni di Mao hanno cominciato a cambia­re, se ne sono preferite altre; poi sono di­ventate più rare. Poi, poi... Questo modo di guidare il cambiamento ha un duplice effetto: da un lato, evita che si verifichi una rottura che mette in questione la legit­timità del potere; dall’altro, obbliga a vive­re nella connivenza, obbliga a una lettura in diagonale, e crea complicità con la tra­sformazione avviata. In effetti, lo scarto è ogni volta troppo piccolo, o troppo sfuma­to, perché ci si possa ribellare. Mi trovavo in Cina quando Deng Xiaoping tornò in po­litica. Come fu riabilitato? Dopo la morte di Mao, nel settembre 1976, si continuò la linea della «critica di Deng». Semplice­mente, le formule annesse, che sosteneva­no quella linea-guida, divennero progressi­vamente più rare. Poi, un bel giorno, è ap­parsa l’espressione: «Errori di Deng Xiao­ping ». E tutti hanno capito che era stato riabilitato, o piuttosto che era già tornato al potere. Infine, ecco riapparire l’espres­sione: «Compagno Deng Xiaoping».
Questo genere di strumenti teorici è ne­cessario per capire il caso unico che la Ci­na odierna rappresenta: quello di un regi­me ipercapitalista che si nasconde sotto un coperchio comunista, in ogni caso quel­lo di una struttura gerarchica burocratizza­ta. Lo stesso Partito comunista si è molto trasformato. La Cina ha saputo rinnovare la propria élite, da una generazione all’al­tra, grazie anche ai soggiorni all’estero dei propri dirigenti. Attualmente, alla direzio­ne del Partito c’è una generazione di mana­ger. Ma il Partito è rimasto la struttura del potere, continua a comandare e a richia­mare all’ordine coloro che protestano.
L’incontro del pensiero cinese e del pen­siero europeo dovrebbe indurci a pensare questo: che l’universale non nasce sponta­neamente, insieme alla «natura umana», ma non è altro che un orizzonte che con­duce a mettere le culture una di fronte al­l’altra, e soprattutto fornisce l’esigenza di tale confronto. Poiché, oltre a questo uni­versale, vanno anche prese in conto le cate­gorie dell’uniforme e del comune. Il comu­ne è quello che condividiamo. Sta nella ca­tegoria dell’intellegibile; è il motivo per cui, fra cinesi e europei, possiamo capirci e dialogare. Quanto all’uniforme, esso è il contrario dell’universale, o la sua perver­sione: non si basa su una necessità della ragione, ma su una comodità della produ­zione (come lo standard, lo stereotipo). È da questa dittatura discreta dell’uniforme che oggi siamo minacciati.
Dobbiamo quindi smettere, in Europa, di utilizzare l’«Estremo Oriente» come se fosse un rovescio mistico della ragione eu­ropea: farne un rovescio, significa ancora rimanere chiusi in noi stessi; o di utilizzar­lo come una semplice variazione della ra­gione europea di cui il pensiero cinese, se si proiettano su di esso le evidenze raziona­li dell’Europa, non sarebbe più che un fac­simile?
Andando incontro al pensiero cine­se e al pensiero europeo, sarà bene adope­rarsi insieme per far di nuovo lavorare la ragione, aprendo per essa nuovi cantieri.
(traduzione di Daniela Maggioni)

Il Tempo 25.5.09
Deluso Bellocchio, ma grande successo per "Vincere"
Cannes resta lontana dall'Italia
di Gian Luigi Rondi


Sono deluso, dispiaciuto, sconcertato. A Cannes sono stato due giorni, ho visto solo "Vincere", il film diretto da Marco Bellocchio e interpretato da Giovanna Mezzogiorno e non posso quindi fare confronti con gli altri film che la giuria ha premiato.
Da critico, da conoscitore attento del cinema italiano dal dopoguerra ad oggi, sento di poter sostenere che Bellocchio, con quel film, ha realizzato la sua opera maggiore e che Giovanna Mezzogiorno, interpretandolo, ci ha dimostrato, nel dramma, nel dolore, nella disperazione di aver legittimamente raccolto il testimone di Anna Magnani, quella di «Roma città aperta», della «Voce umana», di «Nella città l'inferno», di «Bellissima».
Per merito, naturalmente, della finezza, della sensibilità e del saldo dominio di tutte le espressioni anche più difficili con cui Bellocchio l'ha aiutata a creare il suo personaggio. Un personaggio dolorosissimo — una moglie letteralmente «cancellata» da Mussolini e spinta scientemente negli abissi della pazzia — risolto prima narrativamente poi stilisticamente con rigore e sapienza. Al centro di un film in cui la cronaca e la storia, spaziando dagli anni Dieci ai Quaranta, erano rappresentate con ritmi velocissimi resi più autentici, anche visivamente, da immagini di severissima finzione accompagnate ad altre, che quasi le assimilavano, riprese con creatività geniale dal repertorio cinematografico dell'epoca. Per far due volte vero. Un capolavoro. Come in questi anni il cinema italiano ha ripreso a proporci con commovente generosità.
I premi sono importanti, certo, ma io ero nella grande sala del Palais alcune sere fa e alla proiezione di «Vincere» sono stato testimone di un successo come di rado i festival ci offrono: tutto il pubblico in piedi e, verificati con l'orologio, dodici minuti di applausi scroscianti punteggiati ad ogni momento da grida forti di «Bravò». Bellocchio, Giovanna Mezzogiorno e gli altri interpreti non ci dimenticheranno. I veri premi sono quelli.