venerdì 29 maggio 2009

Repubblica 19.5.85
Il gay della Fgci
intervista a Nichi Vendola di Stefano Malatesta


ROMA - Nichi Vendola ha 26 anni, è pugliese. Qualche giorno fa è stato eletto membro della segreteria nazionale della Fgci, la Federazione giovanile comunista. Ha un viso gradevole. In testa calza un berretto blu con visiera, da studente svedese. Intorno al collo è annodata una sciarpa di lana bianca. Porta al lobo sinistro un orecchino d' oro. Nichi Vendola è un gay, il primo attivista omosessuale entrato a far parte della dirigenza comunista. Dice senza asprezza polemica: "Sono sicuro che parlerai dell' orecchino d' oro. Ho già dato un' intervista in cui raccontavo un po' di cose, fatti personali e politici. Dopo ho avuto dei timori, credevo che ci fossero reazioni a Roma, nel partito. Invece i compagni sono stati benevoli. Mi hanno però avvertito: stai attento a non farti ingabbiare nel clichè, il gay alle Botteghe Oscure, eccetera. Prima c' erano i funzionari infagottati nei doppipetti grigi tagliati male, con le cravatte stonate in raso. Adesso l' omosessuale con l' orecchino. Al congresso giovanile avevo un magnifico, luminescente papillon sopra una camicia a righe. Dì, vuoi che ti stringa la mano sotto il tavolo?". Rispondo che il passaggio sotto le forche del commento becero è obbligato: cosa si vuole aspettare, finezze anglosassoni? L' umorismo in Italia, e anche altrove, è spesso di genere caserma, dovrebbe esserci abituato. Però mica posso far finta di essere venuto per le sue preclare virtù politiche di cui tutta l' Italia parla. Sono venuto perchè Vendola è il primo dirigente comunista gay dichiarato. Nel 1948 il Pci non ha espulso Pier Paolo Pasolini per indegnità morale? "Sono passati esattamente 37 anni. Sai cosa ho detto al congresso giovanile? Per noi comunisti non si tratta di difendere la grande dignità e i valori dell' omosessualità, ma di acquisire la diversità come elemento di ricchezza per chi vuole ancora trasformare il mondo. E' stato il passo più applaudito nel mio intervento". Mi ricordo di un altro intervento, più volte citato, fatto da Enrico Berlinguer quando era segretario della Fgci, su Maria Goretti: la additava ad esempio per le future generazioni dei comunisti. "Era il dopoguerra. I comunisti venivano descritti come bestie. L' accusa di essere intellettual-frocio-comunista, senza molta distinzione tra i termini, ugualmente vituperati, è stata merce corrente fino a non troppo tempo fa. Da parte del Pci si tentava di difendersi, di proporre dei modelli di moralità sotto quell' alluvione di vituperi. Il difetto stava nel prendere in prestito i modelli dalla cultura cattolico borghese". Ma c' era anche molta grettezza moralistica e bacchettona all' interno del partito. Chi conviveva con una ragazza veniva convocato e avvertito con l' usuale frase: "Compagno, è ora che regoli la tua posizione". E Togliatti ebbe dei problemi quando iniziò la sua relazione con Nilde Jotti. Secchia non scherzava. "Lo stesso Secchia, una volta caduto in disgrazia, fu accusato, non tanto larvatamente, di essere un finocchio, accusa infamante e degradante. Ma erano tempi diversi, il partito continuava a vivere in stato di allarme, non ci si potevano concedere lassismi personali con il nemico o con la sindrome del nemico alle porte. Però Pasolini, tra il ' 60 e il ' 70, già poteva scrivere liberamente anche di omosessualità su "Vie Nuove"". Pasolini era uno scrittore celebre, un poeta, "un' artista". Anche Visconti non venne mai attaccato: Togliatti ne ha fatto sempre grandi elogi. Ma era un' eccezione. L' aristocratico decadente se lo poteva permettere, proprio perchè aristocratico e decadente. L' operaio in fabbrica no. Diciamo la verità: i compagni lo avrebbero preso a calci nel sedere. "Su Visconti posso essere d' accordo. Ma lui non faceva professione di omosessualità, come non la fa Zeffirelli. In questo senso non sono "scandalosi". Invece Pasolini era provocatorio, almeno per quegli anni e il fatto che scrivesse su "Vie Nuove" è significativo. Però è vero che l' omosessuale in fabbrica, tra i compagni, non aveva vita allegra. Mio padre, comunista da sempre, un uomo magnifico, dolce, andava a fare le spedizioni per picchiare "i froci". Una volta mi ha detto: se ti ammazzassi, noi tutti potremmo riacquistare una dignità. Mi ha molto amato, ma per lui, come per tanti altri, gli omosessuali erano solo i turpi individui che adescavano i bambini nei giardinetti. Ma di queste cose non ne voglio più parlare". Non ho l' intenzione di continuare ad insistere su certi ritardi e manchevolezze del Pci. Ma qui, come in altre occasione, l' azione dei radicali mi sembra sia stata decisiva. Gli altri hanno seguito, anche con riluttanza: tutto questo non gli interessava, soprattutto non faceva parte della loro cultura. "I radicali hanno avuto dei meriti, creando movimenti, flussi, attraverso un' ottica garantista. Ma con qualche casella o piccolo spazio in più di libertà non cambi le regole del gioco, che sono rimaste quasi le stesse. Il "Fuori" voleva creare la cittadella gay, dove gli omosessuali si potessero sentir protetti. I comunisti sono sempre stati contro l' ideologia del ghetto: in ritardo, magari, però decisi a risolvere le questioni, non solo a presentarle, che è molto più facile. D' altronde basta andarsi a rileggere le centinaia di lettere che arrivavamo all' "Unità" e a "Rinascita"" durante gli anni 70: un dibattito libero". Mi dicono però che alti dirigenti del partito non siano stati particolarmente soddisfatti dell' elezione di un omosessuale nella segreteria della Fgci: Chiaromonte ad esempio. "Francamente nel Pci non ho mai avuto problemi, come li ho avuti in famiglia. Credo che oggi comunista significhi anche rispetto dell' altro, essere condannati ad una contaminazione attraverso il rapporto umano: un rischio che bisogna accettare. Lo sguardo inquietante di un altro uomo può farti crollare il tuo castello di certezze, ma è inutile e stupido fuggire. Sono i liberali che hanno sguardi paralleli, che non s' incrociano mai: l' idea del rapporto come due monologhi. Questa è mummificazione dell' esistente. Libertà comunista è dinamismo, è contaminazione, con le nostre coscienze e i nostri corpi, è buttarsi nella mischia. Io l' ho fatto, sono diventato coscientemente omosessuale, per poi recuperare l' eterosessualità, per poi trovar la sessualità, senza aggettivi. Vorrei che ci capissimo, non sto parlando di membri e di apparati genitali, altrimenti torniamo alla caserma". Io credo di capire, ma non so quanti siano in grado di farlo nel Pci, non parlo della Fgci... "Giovanni Berlinguer è uno che capisce: aperto, vivace. Anche Natta ci aiuta. Abbiamo avuto un dibattito con lui molto libero. Ripete sempre che bisogna andare fino in fondo, che bisogna parlare, confessarci di più - non dal prete con la cotta - togliersi di dosso tutti i residui di intolleranza. Gli altri non so, sono arrivato da pochi giorni a Roma. Certo l' età conta, ognuno forma la propria cultura in un momento storico preciso. Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione. Le donne, da questo punto di vista, sono notevolmente più sensibili. Ma il Pci non è un organismo matriarcale".

l’Unità 29.5.09
Una prima risposta
di Giovanni Maria Bellu


Una delle domande che si sentono rivolgere più spesso è: «Ma come mai gli italiani non reagiscono?». Loro - i corrispondenti dei giornali stranieri - fanno sempre più fatica a spiegarlo ai loro direttori e anche ai loro amici. Non basta più dire che l’Italia è un paese contraddittorio e un po’ matto che ha regalato al mondo il Rinascimento e il Fascismo, Leonardo da Vinci e Mussolini, Lorenzo il Magnifico e Sandro Bondi. Non basta perché nel mondo si è portati a pensare che le distanze tra le sensibilità, proprio come quelle tra i luoghi, si stiano progressivamente riducendo. Almeno le distanze culturali tra i paesi dell’Occidente ricco che condividono mode, letture, musiche, film e miti. Così appare strano, e a volte incomprensibile, che proprio uno dei paesi più antichi di quel mondo abbia preso un’altra strada. E sia diventato il laboratorio di qualcosa a cui è persino difficile dare un nome. Fascismo? Regime? Democrazia malata? «Governo del manganello mediatico»? L’ultima proposta è di Patricia Mayorga, cilena, una specialista dell’argomento.
Ma è facile - ed è infatti questa la strada che alla fine scelgono - individuare i singoli fatti che compongono lo strano mosaico del mistero italiano. A partire dal primo tra tutti, il peccato originale: il controllo da parte di un solo uomo, che è anche il capo del governo e il leader del principale partito politico, della quasi totalità del sistema dell’informazione televisiva. Semplice, anzi ovvio. Infatti la difficoltà non sta nell’enunciare il problema, ma nello spiegare come abbia potuto prodursi. E perché un paese dell’Occidente democratico sia giunto a questo punto di prostrazione e di rassegnazione.
Nel forum con i colleghi stranieri avremmo potuto comporre un volume di domande per il premier. Ne abbiamo scelte alcune, giusto quanta basta per chiarire che gli interrogativi attorno alla penosa vicenda delle minorenni (con le quali, ha chiarito ieri, «non ho mai fatto nulla di piccante») non sono che gli ultimi, e nemmeno i più importanti, di una lunghissima serie. E che la prima e più remota domanda - quella sull’origine della fortuna economica del capo del governo italiano - è da sempre senza risposta.
Ma - sorpresa - proprio ieri una risposta è arrivata. Ed stata è così chiara che la soddisfazione per la semplicità del messaggio quasi compensa il disagio e l’imbarazzo per il suo contenuto. Ricordate la casa editrice Einaudi, quella di Cesare Pavese, Italo Calvino, Leone Ginzburg, Elio Vittorini? Da una quindicina di anni, come buona parte di tutto ciò che ci circonda, è di proprietà di Silvio Berlusconi. Ciò nonostante ha potuto lavorare liberamente, senza visibili condizionamenti, pubblicando molti libri scomodi. Fino a qualche giorno fa, quando è venuto il momento di dare alle stampe un’opera di José Saramago che conteneva giudizi molto severi sul premier. Troppo severi anche per la Einaudi che ha chiesto, invano, all’autore di edulcorare l’edizione italiana. Il libro non uscirà. Insomma, siamo alla censura di un premio Nobel. Questo sì che è parlar chiaro. Grazie, presidente.

l’Unità 29.5.09
Einaudi dice no al Nobel Saramago
La casa editrice del presidente del Consiglio rifiuta raccolta di scritti politici: «Contenuti diffamatori»
Einaudi: no a Saramago, «Diffama Berlusconi»
di Claudia Cucchiarato


La casa editrice rifiuta una raccolta di testi politici e polemici in cui
lo scrittore portoghese formula forti accuse al presidente del Consiglio

José Saramago non accetta censure. È per questo che ha rifiutato la richiesta di Einaudi di modificare, con un’operazioni di editing, alcuni passi del suo ultimo libro, O caderno, uscito in aprile in Portogallo e ieri in Spagna. Nella copertina delle due edizioni l’autore appare assorto nella scrittura di un diario, carta e penna in mano. È così che scrive l’ottantasettenne Premio Nobel. Eppure, i testi che compongono questo libro sono tutti disponibili on-line. Dal 17 settembre scorso, infatti, Saramago ha un blog: caderno.josesaramago.org. Una raccolta di brani mordaci, intimi e polemici. Riflessioni in cui lo scrittore si permette di dire la sua sulle vicende di attualità politica, economica, culturale o sociale che più lo colpiscono. Ce n’è per tutti: da Bush a Blair, da Aznar al Papa e Fidel Castro, passando per Guantanamo, le colonie israeliane, Davos e Wall Street.
APPUNTI SULL’ITALIA
Ma ce n’è soprattutto per l’Italia: «terra della mafia e della camorra (…)governata da un delinquente». Ci va giù pesante il portoghese nelle considerazioni sul nostro presidente del Consiglio. Tanto che Einaudi, casa editrice del gruppo Mondadori, e quindi «proprietà di Berlusconi» (come ha fatto notare l’autore in uno dei suoi primi post), ha rinunciato ai diritti per la traduzione del tomo perché «pur ritenendosi libera nella critica, rifiuta di far sua un’accusa che qualsiasi giudizio condannerebbe», spiegava in un comunicato stampa diffuso ieri. Un articolo dell’Espresso, in edicola da oggi, rivela che la casa torinese non se la sarebbe sentita di mantenere i «giudizi a dir poco trancianti su Silvio Berlusconi» che il Nobel pubblica ormai da nove mesi su internet. La palla rovente è passata quindi a un altro editore, Bollati Boringhieri, che pubblicherà il Quaderno prima di Natale. Nemmeno Feltrinelli, che per prima aveva tradotto in italiano i suoi romanzi, ha preso in considerazione l’eventuale edizione. A quanto riferivano ieri, in Feltrinelli non si accettano gli scarti di Einaudi e, comunque, si tratterebbe di un libro minore, non abbastanza importante da giustificare un ritorno dell’autore nelle loro collezioni. Il brano «incriminato», prende spunto dalla tendenza del premier a censurare la produzione culturale a lui non grata (come il film W. di Oliver Stone). La tentata censura di Einaudi quindi non ha preso in contropiede lo scrittore. Ma se gli editori italiani leggessero uno degli ultimi brani del blog (Fino a quando? del 15 maggio) e quindi non compreso nel libro della discordia, si metterebbero ancor di più le mani nei capelli.
LA LODE A SAVIANO
Il nostro premier viene infatti paragonato a Catilina: vuole sovvertire le regole della Repubblica, dice Saramago, che si chiede, citando il suo amato Cicerone: «Fino a quando, Silvio, abuserai della nostra pazienza?». La risposta potrebbe fornirla il lettore, quando potrà avere in mano una copia in italiano del Quaderno del Nobel sovversivo. Che, con umiltà, il 4 dicembre scriveva: «Mi sento insignificante di fronte alla dignità e al coraggio di Roberto Saviano, un maestro di vita, condannato a morte per aver scritto un libro di denuncia contro un’organizzazione criminale capace di sequestrare una città e i suoi cittadini. Penso a Saviano e mi chiedo se un giorno riusciremo a svegliarci da questo incubo: una società in cui molti vengono perseguitati solo per aver detto la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità».

Repubblica 29.5.09
La verità ad personam
Un mese di contraddizioni poi il Cavaliere vara la verità ad personam
Il premier si fa la domanda e si dà la risposta
di Giuseppe D’Avanzo


Oggi le bugie sono sulle minorenni. Domani potrebbero riguardare fisco o rifiuti, insomma il destino del Paese
Due, tre, quattro versioni per giustificare gli incontri con Noemi: inevitabile che si ingarbuglino

Berlusconi, un mese dopo, risponde alle domande che si fa da solo. Minorenni? «Non ho detto niente». Sesso con le minorenni? «Assolutamente no, ho giurato sulla testa dei miei figli e sono consapevole che se fossi uno spergiuro mi dovrei dimettere, un minuto dopo averlo detto». (Il Cavaliere ha memoria corta. Già gli è capitato di giurare sulla testa dei figli per negare che Fininvest avesse un «comparto off-shore, very secret», All Iberian. Ora che quell´arcipelago di "fondi neri" ha trovato una documentata conferma, il capo del governo ha dimenticato quel fragoroso spergiuro). La mossa del presidente segue un sentiero che gli è familiare fino all´abitudine. Rovescia il tavolo per uscire dall´angolo in cui si è cacciato con la sua apparizione in un ristorante di Casoria per festeggiare una diciottenne. Stende un velo sui tre eventi che egli stesso si è combinato: l´incomprensibile presenza in una periferia napoletana; l´offesa pubblica alla moglie; scelte politiche che hanno convinto Veronica Lario a parlare di «ciarpame politico».
Se questo "caso Berlusconi", come si è voluto accreditare, fosse stato soltanto una pruderie, magari il colpo di teatro del premier sarebbe stato anche efficace.
Fin dall´inizio, però, questa storia non ha avuto nessuna parentela (o soltanto un legame forzato) con il gossip. Lo dimostrano con l´evidenza della luce le quattro parole («Non ho detto niente») con cui Silvio Berlusconi liquida l´intero rosario di discorsi e ricordi offerto nel monologo a Porta a porta, in tre interviste ufficiali (France 2, Corriere della sera e Stampa), nelle molte conversazioni ufficiose con i cronisti, nella pubblica promessa di «spiegare tutto» (Cnn). Della ricostruzione che il capo del governo ha proposto all´opinione pubblica non è rimasto in piedi, dopo quattro settimane, nemmeno un muro. Il think tank di Gianfranco Fini (farefuturo) e Veronica Lario lo accusano di selezionare la nuova élite politica del Paese negli studi televisivi, nei set dei reality, magari tra i cactus di Villa Certosa tra «le vergini che si offrono al drago». Il Cavaliere nega di aver mai voluto candidare alle Europee "veline" qualche ora prima che veline e soubrette confermino di aver firmato per quelle candidature. Veronica Lario svela che il premier «frequenta minorenni» posseduto da un´ossessione per il sesso che ne pregiudica la salute («non sta bene») e il presidente del consiglio ha dichiarato in tv di non frequentare minorenni e di stare benissimo. Salta però fuori una minorenne (Noemi) che certamente ha frequentato e frequenta. Per giustificarne gli incontri, Berlusconi s´ingarbuglia in una, due, tre, quattro versioni. Quanto più corregge e contraddice la sua memoria, tanto più offre ricostruzioni che stanno in piedi come un sacco vuoto. La risposta alle dieci domande che Repubblica avrebbe voluto fargli, se avesse accettato di essere intervistato, avrebbero potuto chiudere la partita, restituire al premier l´attendibilità perduta, ridimensionare una criticità che distrugge la sua reputazione (e quella dell´Italia) nel mondo. Ha preferito tacere, invece. Con ostinazione continua a tacere oggi mentre gli "arrangiamenti" si sbriciolano come un biscotto sotto la pressione di qualche interrogativo rivolto ai protagonisti. Un testimone attendibile, ex-fidanzato di Noemi, racconta di un uomo di 73 anni, capo del governo di un Paese con molte difficoltà da affrontare, che telefona in un pomeriggio autunnale del 2008 a una diciassettenne per dirle come sia «angelico» il suo viso e «puro» il suo sguardo. Decide di «allevarla». La invita a Roma, a Milano, in Sardegna quando – confessa la ragazza – si sente solo. La colma di regali e attenzioni. Il testimone, con un guaio giudiziario alle spalle, costringe Berlusconi a smentire se stesso. Il Cavaliere aveva detto di aver incontrato la ragazza sempre alla presenza dei suoi genitori, deve smentirsi: è vero, l´ho invitata – era ancora minorenne – prima a Villa Madama, poi a Villa Certosa e i genitori non c´erano. Si comprende, allora, perché il premier non risponda alle sollecitazioni: non può rispondere ad alcuna domanda senza danneggiare irrimediabilmente se stesso e un futuro luminoso progettato per concludersi al Quirinale. L´«unità di crisi», che lo consiglia, si convince a incamminarsi per la solita strada del «complotto», ma è ancora fresco nel ricordo di tutti che è stato lo stesso Berlusconi a costruire la trappola che lo tiene prigioniero senza voler ricordare che i protagonisti di quest´affare sono direttamente o indirettamente "berlusconiani", passando per Veronica Lario, da farefuturo al testimone, che svela il primo contatto tra il premier e la diciassettenne. La teoria del complotto diventa un soufflé sgonfio. Berlusconi, alle strette, riconverte i suoi passi verso una direzione che conosce bene e gli ha portato sempre fortuna: «non ho detto niente».
Il «non ho detto niente» di Berlusconi è la formula che contiene il nucleo stesso del suo sistema politico perché è il dispositivo che cancella ogni distinzione tra vero e falso. Con quel «non ho detto niente» il premier vuole eliminare, non solo le sue contraddizioni e incoerenze, ma anche gli eventi e i fatti concreti, il loro ricordo nella mente dei testimoni e dell´opinione pubblica. Pretende che sia accettato il suo personale canone secondo il quale non esiste alcun modo di stabilire che cosa sia vero perché «non esiste un criterio di verità praticabile» se si esclude ciò che viene dichiarato vero al momento. Il premier (consapevolmente o meno, non importa) ci invita a dare fede soltanto alle «credenze» che naturalmente possono essere cancellate il giorno successivo (e qui è un gioco da ragazzi per chi controlla stampa e network tv). In questo mondo di cartapesta la verità dura un solo giorno e il Gran Bugiardo che lo ha fabbricato non può mai essere accusato di mentire perché ha abolito l´idea stessa della verità.
Al fondo del "caso Berlusconi", che soltanto occasionalmente ha incrociato la vita di una ragazza e di una famiglia, c´è – come direbbe Leszek Kolakowski – «il cuore di una nuova civilizzazione» che abolisce l´idea stessa di verità. Che rende indifferente sulla scena politica l´attendibilità del premier perché il premier può affatturarsi la realtà come meglio gli conviene in quel momento, salvo poi rimodellarla il giorno dopo. Non tutti dalle nostre parti hanno compreso, contrariamente a quanto è stato subito chiaro alla stampa di mezzo mondo, che il "caso Berlusconi" oggi ci parla di minorenni, ma contemporaneamente o domani ci può parlare di disoccupazione, sviluppo, recessione, fisco, terremoto, famiglia, Europa, rifiuti: in una parola, del destino del Paese perché mette in gioco la sua rappresentazione pubblica e l´affidabilità di chi lo governa.
È a questa prova che Berlusconi sfugge rispondendo soltanto alle domande che egli stesso si pone senza nemmeno rendersi conto quanto avvilente sia vederlo apparire nei tg della sera per giurare che non fa sesso con le minorenni. Per evitare dieci domande, il premier preferisce questa umiliazione e, peggio, decide di inoltrarsi sempre di più in un vicolo cieco che minaccia di soffocarlo. Giurare sulla testa dei figli che non ha «rapporti piccanti» con le minorenni, pena le dimissioni immediate, è una sfida funesta che lo rende debole, soprattutto ricattabile. Qualunque minorenne – ed è ormai provato che a Berlusconi capita di frequentarle – può inventarsi la bubbola e scatenare un terremoto istituzionale. Questa è la strada sdrucciolevole che ha scelto il premier, costretto a scendere nei sotterranei del suo castello di bugie, incapace di spiegare perché ha mentito, a dire che cosa lo ha costretto a mentire, che cosa ancora oggi gli impone di tacere la verità. Questo è il dramma di un uomo e di un politico che è il capo del governo italiano.

Repubblica 29.5.09
Noemi, il cavaliere e le donne italiane
È difficile capire perché accettino la sistematica mancanza di rispetto del premier
di Chiara Saraceno


"Perché le donne italiane non reagiscono?" E´ la domanda che mi viene spesso posta da giornaliste straniere, che non si capacitano del silenzio delle donne, prima sul caso delle potenziali candidate alle europee individuate sulla base delle loro caratteristiche estetiche, poi sul caso di Noemi Letizia. Certo, posso puntigliosamente elencare i nomi di donne che hanno scritto su queste vicende analizzandole per quel che dicono sullo stato dei rapporti uomo-donna nel nostro paese. Salvo dover ammettere che si tratta di voci che fanno fatica ad entrare nel discorso pubblico, dal momento che, al solito, il caso è diventato un conflitto tra uomini. Ove le donne – le aspiranti candidate alle europee, Noemi, Veronica – sono diventate solo elementi di contorno: ciò di cui si parla per combattersi, non soggetti parlanti su di sé. Persino l´ex fidanzato di Noemi non ci ha pensato due volte a raccontare i loro rapporti privatissimi. Anche Veronica Berlusconi, che pure ha avuto l´ardire di prendere la parola su di sé, di nominare le questioni, è stata oggetto di pesanti operazioni di squalificazione. Da parte del marito, che le ha dato praticamente della minus habens, incapace di pensare con la propria testa, facilmente influenzabile dai pettegolezzi della "sinistra". Da parte della stampa di suo marito, che ha pensato bene di ricordarle le sue origini, sbattendone le foto da giovane attricetta un po´ discinta in prima pagina. Di ricordare a lei e a tutte noi che il corpo di una donna rimane proprietà pubblica ben al di là di quanto lei abbia deciso. E qualsiasi leggerezza di gioventù nell´esporlo e nell´usarlo prima o poi verrà loro rinfacciata. E´ bene che le giovani donne che oggi ritengono intercambiabili, o anche complementari, un "book ben fatto" e ben presentato, una comparsata al Grande Fratello e una preparazione professionale solida, ne siano consapevoli.
Ciò detto, comprendo benissimo lo sconcerto di chi mi pone quella domanda: la difficoltà a capire, e più ancora ad accettare, che le donne (ma spero anche molti uomini) italiane accettino che il loro presidente del consiglio abbia nei loro confronti un atteggiamento sistematico di mancanza di rispetto. E´ uno stillicidio continuo, che va dal complimento greve all´ossessiva ricerca di donne giovani e carine che gli facciano da contorno, al disprezzo nei confronti di quelle che giovani e carine non sono (specie se non può annoverarle tra le proprie fans) fino ai criteri utilizzati per "promuoverle" e magari farle ministre – a prescindere dalle loro altre eventuali qualità. In una sorta di conferma del vecchio pregiudizio per cui una donna, per fare strada, deve avere specifiche qualità fisiche e magari anche dare l´idea di essere disponibile.
E´ vero. Non c´è stata una protesta pubblica, né oggi né le volte precedenti. Ci sono molte possibili spiegazioni – stanchezza, timore di essere fraintese come moraliste, sfiducia nella efficacia delle proteste, imbarazzo nel farsi coinvolgere in un discorso pubblico in cui si discetta sulla "purezza" di Noemi o sulla intelligenza delle veline e non si risparmiano colpi bassi. A queste ne aggiungerei almeno altre due. La prima riguarda l´inedita traduzione che Berlusconi ha fatto dello slogan femminista degli anni settanta: "il privato è pubblico". Con questa espressione si voleva dire che i rapporti tra gli uomini e le donne così come si danno nella vita quotidiana, nella organizzazione della famiglia, nella divisione del lavoro, persino nella sessualità, sono fortemente plasmati da rapporti di potere sociale. Nella variante berlusconiana il privato, non solo erotico e sessuale, ma anche quello degli interessi economici, è invece transitato tout court nella politica, senza più distinzioni (per questo, tra l´altro, Berlusconi non può evocare oggi impunemente il diritto alla privacy). Da strumento per denunciare i rapporti di potere, l´assunto che il privato è politico è diventato un´arma del potere. Questo rovesciamento si accompagna ad un altro, più diffuso, più di massa, che coinvolge soprattutto i senza potere e che è sollecitato dalla televisione: la messa in pubblico (purché in TV) della propria vita privata e intimità come strumento per avere un più o meno effimero successo.
La seconda ragione riguarda l´imbarazzo a trattare i "casi Noemi" senza valutare le protagoniste come semplici vittime dell´uomo potente di turno e/o di genitori ambiziosi e sconsiderati (quindi di fatto senza propria capacità e volontà), ma anche prendendo le distanze dal modello di donna e di successo cui sembrano aderire. Siamo diventate afasiche perché non capiamo il modo e il mondo in cui si muovono molte giovani (e anche meno giovani) donne. Soprattutto non capiamo come dall´orgogliosa affermazione "il corpo è mio" si sia passati alla messa in rete del proprio corpo.
Eppure il grande successo in rete del documentario "Il corpo delle donne" ci mostra che molte donne (e anche uomini), messe di fronte all´uso improprio e umiliante del corpo femminile da parte della televisione (ma anche della pubblicità) italiana, iniziano a ribellarsi, a discutere, a riprendere la parola.

il Riformista 29.5.09
Così l'affare Noemi riapre le manovre per il dopo-Silvio
Perché dice la parola dimissioni
di Stefano Cappellini


Per uscire dall'angolo in cui lo ha sospinto il caso Noemi, ieri il premier ha dovuto alzare l'asticella, sdoganando nel dibattito pubblico due parole fin qui bandite dalla comunicazione di Palazzo Chigi: «minorenni» e, soprattutto, «dimissioni». La prima l'ha utilizzata per smentire «rapporti piccanti» con la ragazza, rispondendo anche all'accusa di Veronica Lario («Mio marito frequenta minorenni») che molti media avevano evitato di citare. La seconda è risuonata quando il Cavaliere ha spiegato che «se tutto fosse vero, mi dovrei dimettere subito».
Affermazione che è al tempo stesso una sfida e un atto non dovuto, dato che nessuno ha mai chiesto al premier di farsi da parte per l'affaire Noemi. Al punto che l'uscita pare rivolta più alla propria parte politica e a stroncare le voci di quanti hanno sospettato - qualcuno forse sperato - che il dopo Berlusconi in politica fosse meno lontano del previsto.
Perché non è il silenzio delle ministre del Pdl sulla questione sessuale (Gelmini eslcusa) ad aver turbato il Cavaliere. A impensierirlo molto di più è la dissimulata indifferenza con cui alcuni pezzi grossi del centrodestra seguono l'evolversi di una storia che ha messo in difficoltà il presidente del Consiglio come in precedenza era accaduto forse solo in occasione dell'avviso di garanzia recapitatogli a mezzo stampa durante il G7 di Napoli. E parliamo di quindici anni fa.
La parola dimissioni testimonia dunque, per bocca del diretto interessato, quale sia la vera posta in palio del Casoriagate, ovvero la possibilità che il governo Berlusconi - che pareva un impero destinato a durare nel tempo - possa rivelarsi, come ha scritto l'Economist poche settimane addietro «un gigante dai piedi d'argilla». Un incubo per il popolo del Cavaliere. Ma d'altra parte un'opportunità, finanche una liberazione, per quanti aspettano da tre lustri che salti il tappo berlusconiano e si rimescolino le carte della politica nazionale.
All'ombra del Berlusconi ter si muovono da tempo le ambizioni e i progetti di chi ormai morde il freno. C'è un leader autorevole e in cerca di consacrazione come Gianfranco Fini, che platealmente persegue un disegno di affermazione personale supportato da robuste idee e da una buona dose di coraggio (e il premier non ha dimenticato il contributo della fondazione finiana "Farefuturo" nell'esplosione del caso veline). Ci sono ministri come Giulio Tremonti, che gestiscono un'agenda politica e un patrimonio ideologico in gran parte autonomi da Palazzo Chigi e non si sporcano le mani con l'attualità da rotocalco. Non mancano ministri scontenti del ruolo e del portafoglio, come pure ufficiali di riserva che scalpitano in panchina e intanto mettono su tessere e correnti. Senza dimenticare un outsider come Pierferdinando Casini, esule pronto a tornare in forze nel campo che lo ha visto protagonista (non a caso il leader Udc ha chiesto a Berlusconi di rispondere ai quesiti di Repubblica su Noemi).
E non ci sono solo le trame di Palazzo. Un Berlusconi onnipotente non garba nemmeno ad alcuni tra i suoi grandi elettori, più o meno presunti. Non è gradito a quella Confindustria che per la prima volta ha visto un politico calare all'assemblea generale degli industriali guardando la platea dal basso verso l'alto, anziché presentarsi col cappello come era abitudine nella Seconda Repubblica. Persino al congresso della Cei il gioco di critiche, mezze dichiarazioni e gaffe sulla questione morale ha dimostrato che tra i vescovi italiani c'è chi ritiene opportuno, pur senza sfiduciare il Cavaliere, porre un argine ai suoi spazi di condotta. Anche chi non ha interesse ad auspicare «dimissioni» confida però che la nuova stagione di governo del premier non si stabilizzi in una monarchia assoluta.
Forse con le dichiarazioni di ieri il premier ha esorcizzato lo spettro di una crisi di governo. Ma ha anche confermato come grazie a un party di Casoria si siano ufficialmente aperte le grandi manovre per il dopo Berlusconi.

l’Unità 29.5.09
D’Alema e Fini si stringono la mano
Lavoro comune delle loro fondazioni
Il 18 giugno Italianieuropei e Farefuturo organizzano alla Camera una giornata di studio sui temi dell’identità nazionale e della nuova cittadinanza. Ma è solo un primo passo
di Susanna Turco


Dopo settimane di tensioni il pranzo tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi, l’ultimo prima delle elezioni europee, è andato benissimo naturalmente. Una cordialità, un’allegria che non si vedevano da mesi. Entrambe, del resto, accuratamente preparate dagli ottimi uffici di Gianni Letta. Accompagnate dai consigli giornalistici di «prendere Fini come una risorsa» da un lato. E addolcite dalla consapevolezza che tirare la corda si deve se si può, ma senza esagerare dall’altro.
Poi, appena un’ora dopo, il presidente della Camera è intervenuto alla presentazione di un volume su Alcide De Gasperi. E, mostrando binari e limiti di questa elettorale pax, si è prodotto in un ritratto dello statista diccì perfettamente tagliato sugli occhi del se stesso di oggi. Il «sobrio» e «serio» fondatore della Dc, ha detto l’ex leader di An, «volle essere non tanto il leader di un partito o di una nazione, ma una guida», fu «un esempio di laico cristiano», «non coinvolse mai la Chiesa nelle responsabilità che a lui spettavano come presidente del Consiglio», «più che del potere fece uso della responsabilità e per questo fu talvolta in dissenso da amici carissimi, compiendo anche scelte non condivise».
Un De Gasperi finiano, in linea con il debutto dell’ex leader di An nel Ppe, che si armonizza alla perfezione con le iniziative ammantate di istituzionalismo (e trasversalismo), pronte a partire appena dopo le elezioni. Nelle quali sempre si ritrova l’impronta dell’ex leader di An.
Una di queste coinvolge ancora una volta sia pur indirettamente Massimo D’Alema: la sua Italianieuropei, insieme alla finiana Farefuturo, sono infatti le due fondazioni «contemporanee» che, insieme con un network di fondazioni storiche come la Gramsci, la Sturzo, la Einaudi e altre stanno lavorando a un progetto portato avanti dalla Camera. L’obiettivo: lavorare e approfondire i temi dell’identità nazionale e della nuova idea di cittadinanza. Temi ai quali Fini tiene moltissimo.
Si comincerà dunque il 18 giugno, con una giornata di studio a Montecitorio, officiata naturalmente anche dal padrone di casa. Ma il progetto guarda in lungo: mira addirittura a organizzare veri e propri corsi su identità e cittadinanza destinati ai «nuovi italiani», ossia agli immigrati e ai loro figli. Gli stessi per i quali, sul fronte parlamentare, il presidente della Camera si sta adoperando per una legge che faciliti la cittadinanza. Il tutto, sempre in un’ottica di una politica «non occasionalista», che punti anche a sedimentare qualcosa, a ricostruire le tradizioni politiche nel deserto post-tangentopoli. «Dobbiamo guardare all’Italia dei prossimi quindici anni», ha ammonito del resto Fini al congresso di costituzione del Pdl. Forse avrebbe gradito riecheggiare il De Gasperi del: «Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista alla prossima generazione».
Se poi per caso nel parapiglia delle europee la polemica sulle troppe fiducie sull’opportunità di dimezzare i parlamentari dovesse sopirsi, c’è già pronto un bel convegno (19 giugno). Titolo: “Il futuro del parlamentarismo in Italia e in Germania”. È il frutto congiunto degli sforzi della Fondazione Adenauer e di quella che, per invidia dei quagliarielli vari, è la sua principale interlocutrice in Italia: la fondazione Farefuturo. Parlerà anche Fini, naturalmente. Bisognerà invece aspettare il 2 luglio per il battesimo di “Italia decide”, la trasversale associazione che sotto l’occhio vigile di Luciano Violante e l’appoggio della Camera mette insieme gli uomini di Fini e D’Alema, oltre che Tremonti, Giuliano Amato e Gianni Letta. L’obiettivo ufficiale è quello di confrontarsi, mettere a fuoco l’interesse nazionale e la classe dirigente in grado di realizzarlo. In fervente attesa del futuro che non c’era.

Corriere della Sera 29.5.09
Archivi Lettere e telegrammi dell’inizio degli anni Venti: la storia d’amore con Mussolini
La Sarfatti a Benito: prima «adorato» poi «idiota»
di Armando Torno


Il prossimo 16 giugno andranno al­l’asta alla sede di Roma di Bloomsbu­ry autografi e manoscritti, divenuti oggetto di investimento (da oggi visibili sul sito www.bloomsburyauctions.com).
Si va da alcune lettere, scritte tra il 1906 e il 1921, di Alberto Fassini (Fondatore del­la Cines, la prima casa cinematografica italiana) stimate tra 5 e 7 mila euro, ad autografi rinascimentali della collezione Camuccini con missive di Michelangelo, Raffaello, Bramante, Donatello ecc. (71 pezzi, intorno a 70 mila euro). C’è il car­teggio del poeta Marino Moretti con Car­lo F. Zanella — oltre 900 lettere, cartoli­ne, biglietti vergati tra il 1908 e il 1956: valutazione di 25-30 mila euro — e c’è quello tra D’Annunzio e Luisa Baccara, che si pone tra 30 e 35 mila euro.
In questa vendita c’è anche l’archivio personale di Ada Negri, con manoscritti, tre intere corrispondenze, documenti, foto: parte da una base di 55-65 mila eu­ro. E al suo interno, ecco la vera perla che Bloomsbury ha estrapolato indican­dola «lotto 54»: si tratta di alcune carte di Margherita Sarfatti, amica della poe­tessa, ricevute forse con l’impegno di di­struggerle. Riguardano la sua relazione con Benito Mussolini negli anni 1922-23. È un insieme di 25 lettere autografe, al­cune con relative buste; c’è una missiva dattiloscritta, 1 cablogramma dell’«He­rald Tribune» con la richiesta di intervi­stare il futuro duce, 7 telegrammi e 3 fo­to. Che cosa contengono?
Rispondiamo con un’immagine: lo spaccato senza veli della loro passione. Biografie come quella di Karin Wieland, Margherita Sarfatti l’amante del Duce (Utet libreria), descrivono questo amore senza i particolari che qui emergono con forza. Sarà compito degli studiosi appro­fondire il contenuto delle carte, ma si può constatare quanto Mussolini fosse esuberante e si tenesse lontano dalle vie del galateo nell’intimità. Di certo la Sar­fatti perse la testa. Ecco un esempio: «Le prime ore del 1923. Adorato, mio adora­to! Voglio cominciar l’anno scrivendo il tuo nome su un pezzo di carta: Benito, mio amore, mio amante, mio adorato! Sono, mi proclamo, mi glorio di essere, appassionatamente, interamente, devo­tamente, perdutamente Tua: ora, per tutto il 1923 e, se tu vorrai mio adorato, perché mi ami come io ti amo, per sempre... ». La Sarfatti desidera essere «dissimulata nell’ombra» della sua luce, chiede: «Getta l’ancora nel mio porto, grande nave gloriosa, e salpa per tutti gli oceani ». Nella lettera 10 il tono cambia: «Le tue divine stregonerie mi hanno fatto brulicare il sangue di uno strano fermento ». Le bordate aumentano sino a un «non mi chiedere cosa che non sia compatibile con la mia dignità».
Il 30 gennaio di quel 1923 qualcosa non va: «La serie di scenate assurde, ignobili, indegne, ma soprattutto idiote avvenute stasera mi ha lasciato perplessa, esasperata, disperata ma anche pensosa ». La ricordata dignità deve essere stata messa in gioco da «una serie di martirii stravaganti raffinati complicati; uno più inaspettato e immeritato e più fantastico dell’altro». La lettera n. 22, ben 28 pagine, è piena di disperazione: «Sono stanca di amarti, stanca che tu fac­cia del mio amore un tappeto per calpe­starlo. Tu sei un uomo estremamente sensitivo, ma fortissimo e, come tutti gli impetuosi, 'dai fuori' e dopo ti passa». C’è di più: «Bella figura di idiota ci hai fatto ad andare in pompa magna da quel­l’idiota di Bettinelli, il più falso, cretino, retorico pittore di Milano, e il più ignoto degli ignoti... Avresti dovuto ricordarti che quando si è a Capo del Governo, le proprie espansioni ammirative devono essere dettate anche da criteri meno per­sonali e più severi».

Corriere della Sera 29.5.09
Una mostra a Trento. La vita ai tempi dell’ Egitto
Oggetti, amuleti e sarcofagi: gli antichi giorni sul Nilo in attesa dell’ultimo viaggio
di Marcello Parilli


Esposte per la prima volta in pubblico due ricche collezioni di reperti
Gli ottocento pezzi provengono dai depositi dei musei di Torino e di Trento

In fondo al cunicolo di pietra si in­travvede un sarcofago aperto con dentro la sua mummia, i vasi ca­nopi per conservare le viscere del defunto, ciotole e suppellettili e una barchetta di legno con tanto di equipaggio per affrontare il Grande Viaggio. Si tratta di una tomba ripor­tata alla luce dal grande archeologo Ernesto Schiaparelli ad Assiut (do­ve, secondo la tradizione copta, la sacra Famiglia trovò rifugio nella sua fuga in Egitto) durante la cam­pagna egiziana del 1908-1920, che portò alla celebre scoperta della tomba di Kha, l’architetto del farao­ne Amenofi III. Anche se qui siamo 3.000 chilometri più a nord, nelle sale del Castello del Buonconsiglio di Trento, dove si respira il profu­mo della montagna piuttosto che quello delle sabbie africane.
Ma il contrasto ci sta tutto, per­ché la mostra che si apre domani a Trento è proprio figlia dell’egitto­mania che nell’Ottocento ha prima affascinato e poi conquistato l’ari­stocrazia della Vecchia Europa, di­sposta a sponsorizzare scienziati, esploratori e tombaroli in partenza per l’Egitto pur di arricchire le colle­zioni dei propri musei privati. Ma l’opportunità è ghiotta, perché fino al prossimo 8 novembre al Castello sarà possibile ammirare per la pri­ma volta due ricche collezioni (per un totale di 800 pezzi) che non era­no mai state mostrate in pubblico.
La prima è quella proveniente dai depositi del Museo Egizio di Torino ed è frutto delle campagne di scavo dello Schiaparelli ad Assiut e Gebe­lein. La seconda è quella assemblata dall’ufficiale dell’Impero Austro-Un­garico Taddeo Tonelli, appassionato egittologo: 33 casse di reperti che vennero cedute al Municipio di Trento in cambio di 500 fiorini da destinare in beneficienza, e che so­no rimaste fino a oggi custodite nei depositi del museo del castello, oggi diretto da Franco Marzatico.
La componente «torinese» della mostra, curata da Elvira D’Amicone e Massimiliana Pozzi, prevede una prima parte dedicata agli scavi di Schiaparelli. Tra pareti di roccia ben riprodotte, alcuni dei reperti si ritro­vano un secolo dopo accanto alle macchine fotografiche, ai diari e al­le lettere dell’archeologo. Segue un’ampia sezione tipicamente mu­seale all’insegna del legno (gli egi­ziani erano maestri nel lavorarlo), con l’esposizione di sarcofagi e mummie, accompagnati da tutti gli elementi del corredo funerario che servivano nell’Aldilà, considerato l’estensione della nostra vita socia­le ed economica terrena: specchi, vasellame, sandali, archi e frecce, ma anche poggiatesta per la mum­mia, barchette funerarie, scalpelli di scultori, «plastici» di attività agri­cole o artigianali, dieci stele e 40 pa­reti di sarcofago con geroglifici inci­si e dipinti che raccontano la vita della classe media, di amministrato­ri provinciali e di piccoli proprietari terrieri nella provincia del Medio Egitto fra il Primo Periodo Interme­dio e il Medio Regno (2200-1800 a.C.).
La parte «trentina» della mostra, che diventerà permanente ed è cura­ta da Sabina Malgora, riguarda inve­ce gli oggetti acquistati da Tonelli sul mercato, anche egiziano, nella prima metà dell’Ottocento. Ne fan­no parte una bellissima maschera funeraria in foglia d’oro, centinaia di amuleti (come gli scarabei del cuore, simbolo di vita eterna), oc­chi udjiat, monili in paste vitree co­lorate e moltissimi modelli di servi­tori ( ushabti), deposti nelle tombe perché sostituissero il defunto nel­le attività nell’Oltretomba.
Gli oggetti più curiosi della colle­zione di Tonelli sono però un paio di mummie di gatto: «Come tanti al­tri animali, i gatti rappresentavano delle divinità o si pensava che fosse­ro in contatto con esse, ma erano ve­nerati anche perché mangiavano i topi, vera minaccia per le riserve ali­mentari e funesti perché attiravano i serpenti velenosi — dice Sabina Malgora —. Ma c’era anche l’abitu­dine, per inviare delle richieste agli dei, di far uccidere, imbalsamare e seppellire gli animali a loro associa­ti, come coccodrilli, babbuini e, ap­punto, gatti, visto che ai maschi era associato il dio del sole Ra, e alle femmine la dea Bastet, protettrice della casa e dei bambini. Erano del­le specie di ex voto».
L’allestimento della mostra è cu­rato dall’architetto Michelangelo Lupo, che a Trento propone anche un video girato appositamente sul­l’ «Egitto mai visto» di oggi, e che contemporaneamente sta preparan­do per il Quirinale una mostra sulla Giordania in occasione della visita di Re Abd Allah e della moglie Ra­nia in ottobre.

il Riformista 29.5.09
Lothar de Mazière, ultimo capo di governo della vecchia Germania orientale
«Ho liquidato la Ddr ma non era soltanto un mostro totalitario»
di Paolo Petrillo


Memoria. Alla testa della Cdu vinse le prime elezioni libere a est e traghettò lo Stato socialista verso l'unificazione. «È stata una vera rivoluzione» dice oggi convinto. L'immagine rimasta di quella lunga esperienza però gli sembra caricaturale. «Facciamo un torto al popolo tedesco che visse aldilà del muro». Vent'anni dopo la Storia è ancora rimossa.

Berlino. È stato l'ultimo capo di governo della vecchia Germania orientale, quello Stato Operaio e Contadino di cui nel prossimo autunno si celebrerà il ventennale della scomparsa. Lothar de Mazière, classe 1940, di professione avvocato e appassionato di musica. Da presidente della Cdu e alla testa di un'ampia coalizione di partiti vince le elezioni del 18 marzo 1990, il primo voto libero tenuto in quella parte di Germania dal 1932. Il Muro di Berlino è caduto ormai da quattro mesi e il compito del governo de Maziere consiste nel liquidare la forma-Stato della Ddr, nel traghettare la Germania orientale all'interno della nuova Germania unita. Compito che viene svolto in poco meno di sei mesi: il 3 ottobre del 1990 nasce ufficialmente la nuova Bundesrepublik. Ancora pochi mesi come deputato e de Maziere abbandona definitivamente la politica. Perché? «Semplicemente perché non avevo mai pensato di fare il politico di professione - risponde de Mazière al Riformista - Il mandato affidatomi dai cittadini era stato assolto e io mi accorsi presto che non era possibile portare avanti sia la politica che il lavoro, se si volevano fare bene entrambe le cose. Così ho scelto il lavoro».
Fra pochi mesi si celebrerà il ventesimo anniversario della caduta del Muro. Se dovesse fare un bilancio fra le speranze che accompagnarono la "Svolta" ("die Wende") e la successiva realtà storica?
Intanto devo dire che il termine "svolta" non mi è mai piaciuto. Lo coniò Egon Krenz (ultimo segretario della Sed, predecessore di de Mazière alla guida della Ddr; ndr), nell'ottobre del 1989, ma è un termine fuorviante. Quello che accadde nella Germania est fu in realtà una rivoluzione. Ed è purtroppo normale che le rivoluzioni siano accompagnate da un eccesso di speranze, destinate poi ad andare in buona parte deluse. In quei mesi i tedeschi dell'est vollero credere ai miracoli: il miracolo del marco, il miracolo della riunificazione. E invece incontrarono una realtà ben diversa, un processo che imponeva tempi economici e mentali molto più lunghi dell'auspicato.
Il 2009 è anno di ricorrenze in Germania: vent'anni dalla caduta del Muro, sessanta dalla fondazione della Bundesrepublik. Eppure anche in questo clima di festeggiamenti, della Ddr si continua a parlare poco. Oppure, quando se ne parla, è solo per ribadire l'immagine di un regime autoritario e antidemocratico, spesso crudele. Una società sottoposta al costante controllo della Stasi, dove i cittadini per avere un minimo di tranquillità erano costretti a spiarsi l'un l'altro. Lei nella Ddr ci ha vissuto a lungo: corrisponde al vero quest'immagine?
No - risponde senza esitazione de Mazière - Se si riduce la Ddr alla Stasi e alla repressione, si fa un torto alle persone che vi hanno vissuto. I tedeschi orientali erano altrettanto seri dei tedeschi occidentali. E con altrettanta serietà hanno ricostruito un paese che era stato ridotto in macerie dalla guerra. È vero che la Ddr non era uno Stato di diritto, ed è vero che il potere politico era retto dalle baionette sovietiche. Ma la Germania orientale ha prodotto anche esperienze artistiche e sociali di una certa importanza, esperienze a cui ancora oggi si guarda con interesse. E negare tutto questo riducendo la Ddr a una enorme macchina di controllo poliziesco significa fornire un'immagine falsa della Ddr.
C'è qualcosa di strano nel modo in cui la Germania di oggi guarda all'esperienza Ddr. Se si pensa - specialmente da italiani - al modo in cui i tedeschi hanno fatto i conti con il passato nazista, non si può non provare una qualche ammirazione. Da generazioni la società s'interroga capillarmente in termini di responsabilità storica e cultura della memoria, con risultati apprezzabili anche sul piano del vivere civile. Invece per quanto riguarda la Ddr sembra aver prevalso una cultura della rimozione. Secondo Lei, presidente, perché un approccio tanto differente?
Il problema è che l'elaborazione della storia della Ddr è un prodotto della Germania occidentale, non di quella orientale. Ad ovest i pregiudizi sull'est sono ancora molto forti e quando si parla della Ddr si cerca soprattutto di veder confermati quei pregiudizi. È un'esperienza che faccio quasi quotidianamente: ricevo molti studenti, che vengono da me per farsi raccontare come andarono le cose al momento della caduta del Muro. E ognuno di loro ha un'immagine preconfezionata della Ddr, elaborata sulla base dei resoconti di giornalisti e storici occidentali. E ognuno di loro ci resta male, quando gli dico che le cose non erano solo così. La vulgata corrente ha ridotto la Ddr ad un mondo composto esclusivamente da vittime e carnefici. Solo che vittime e carnefici rappresentavano forse il 6 per cento della società. Il resto era popolo, che non desiderava altro che di essere popolo, impegnato com'è normale a cercare il meglio per sé e la propria famiglia.
Secondo alcuni osservatori, questa rimozione della storia della Ddr è una delle ragioni che spiegano il successo del partito Die Linke nei territori orientali del Paese. Milioni di cittadini che si ritrovano senza "passato" e che si rivolgono all'unico partito che a quella realtà fa ancora riferimento. Si tratta di una spiegazione credibile? E pensa che nei prossimi anni si avrà un cambiamento di tendenza, oppure che questa sia ormai l'atteggiamento definitivo della Brd nei confronti alla sua componente "orientale".
Sì, è probabile che il successo di Die Linke - che comunque non deve essere esagerato - si spieghi anche così. Ed è anche probabile che nel prossimo futuro storici e giornalisti cambieranno approccio nei confronti della Ddr. È vero che la Germania ha affrontato con molta serietà il proprio passato nazionalsocialista, ma è anche vero che questo confronto critico è cominciato quasi 25 anni dopo la fine del regime hitleriano. Molti storici sostengono che debba passare almeno un quarto di secolo prima d'iniziare un'affidabile ricognizione su un determinato periodo. E credo che anche la ricerca storica sulla Ddr non faccia eccezione a questa regola.

Terra 29.5.09
Né in cielo né in terra.
Lo Stato perfetto di Platone
di Noemi Ghetti


Nelle librerie l’ultimo lavoro di Mario Vegetti, «Un paradigma in cielo». Una rassegna della fortuna del pensatore politico da Aristotele a Kant e Hegel, fino ai giorni nostri. Con un’attenzione particolare al Novecento

Precursore di tutti i totalitarismi. La sua «ingegneria sociale utopica» è indifferente alla violenza richiesta per fondare una società nuova

Abbiamo un Platone liberale e uno socialista, uno fascista e uno cattolico,
uno nazista e uno bolscevico

L’iperuranio delle idee platoniche era la reazione all’antimetafisica dei sofisti, che con Protagora avevano posto «l’uomo a misura di tutte le cose»: una risposta a quello che oggi si chiamerebbe “relativismo”, paventato elemento disgregatore della “pólis”, a cui il metodo maieutico di Socrate non aveva saputo porre rimedio. Il «sapere di non sapere», cardine dell’intellettualismo etico socratico, si era rivelato infatti un principio inadeguato alla ricerca del «Sommo Bene», cioè della verità assoluta. Platone rispose con la proposizione teorica di un fondamento divino, eterno ed immutabile della conoscenza, che poteva essere solo “reminiscenza” di quanto l’anima razionale, e di necessità immortale, conosceva “ab aeterno”, per averlo mutuato nell’iperuranio da cui proveniva. Sembrerebbe una questione filosofica, e invece era una questione eminentemente politica: «la teoria delle idee - secondo Popper - è lo strumento teorico che consente di delineare, e di fondare, il “modello dello stato perfetto”, per definizione immutabile e invariante».
«Un paradigma in cielo» (Carocci), il nuovo libro di Mario Vegetti, ci conduce attraverso un’interessante rassegna della fortuna del Platone politico da Aristotele ai giorni nostri, con un’attenzione particolare al Novecento. Il titolo del libro è una citazione di un passo della Repubblica platonica in cui a Glaucone, che obietta che la città della cui fondazione si parla non esiste da nessuna parte della terra, Socrate risponde che essa è posta in cielo come modello (“paradeigma”) per chi voglia, tenendolo a mente, rifondare se stesso. Di una rifondazione del sapere si sentiva in verità bisogno, se si consideravano gli esiti della scandalosa condotta politica di cui aveva dato prova la nuova leva di filosofi cresciuti, alla fine del V secolo, in ambito sofistico-socratico. Nel 415 a.C., mentre infuriava la guerra del Peloponneso, Alcibiade, il dissoluto e ambizioso pupillo amato da Socrate nel Simposio, aveva promosso la disastrosa spedizione militare ateniese di 30.000 uomini in Sicilia, che segnò l’inizio del declino di Atene. Nel 404 a.C. il sanguinario Crizia, un altro allievo di Socrate, era stato il capo dei Trenta tiranni, il governo fantoccio imposto dagli spartani agli ateniesi sconfitti, che si era macchiato - oltre che dell’assassinio dello stesso Alcibiade - di confische, esili e uccisioni di stranieri senza cittadinanza, allora il nerbo produttivo della città.
Per Platone dunque l’interesse politico è tutt’uno con quello filosofico, e le sue opere più direttamente politiche, la Repubblica, il Politico e le Leggi, costituiscono la parallela elaborazione filosofica del progetto politico di instaurare il suo stato ideale nella Siracusa del tiranno Dionisio I e poi di Dionisio II. Il progetto, vagheggiato sulla base di un rapporto di intima amicizia con l’ammiratore e seguace siciliano Dione, cognato di Dionisio I, fu perseguito da Platone nell’arco di un trentennio, con tre a dir poco problematiche spedizioni in Sicilia.
La malattia della “pólis” della fine del V secolo e la cura ideata da Platone, una “politéia” governata da una casta illuminata di filosofi-legislatori, in cui l’ordine sia assicurato da una classe di guardiani, che garantiscano l’obbedienza del vasto gregge dei lavoratori, nel Medio Evo attirò l’interesse dei teologi cristiani, e sembrò quasi incarnarsi nel modello teocratico cristiano. Ma fu a partire da Kant e Hegel che, per tutto l’Ottocento e il Novecento, si avvicendarono le interpretazioni più disparate del pensiero di Platone, divenuto ineludibile banco di prova di ogni filosofia della politica. Tra slittamenti semantici significativi, valorizzazioni di aspetti parziali a discapito di altri, arbitrarie appropriazioni e deformazioni, la rassegna di Vegetti procede agile e nello stesso tempo approfondita, fornendoci una storia della cultura degli ultimi due secoli filtrata alla luce della teoria platonica dello stato. Incontriamo così un Platone liberale e uno socialista, un Platone nazista e uno comunista, uno fascista e uno cattolico. E non mancano quello utopico, quello ironico e addirittura quello impolitico.
Nel Novecento i tedeschi individuarono in Platone la guida spirituale della rinascita dalla sconfitta della prima guerra mondiale e dal trauma della rivoluzione repubblicana. Al nazionalsocialismo piacquero la superiorità ariana della casta dei filosofi, la militarizzazione dello stato e l’eugenetica al servizio dell’idea di razza. I bolscevichi dei primi anni della rivoluzione accolsero l’utopia platonica come premessa ad una radicale trasformazione educativa e morale della società, affascinati dall’opera di collettivizzazione, dall’abolizione della proprietà privata e della famiglia teorizzati dalla Repubblica. Ma nel 1923 le opere di Platone furono escluse dalla libera consultazione nelle biblioteche sovietiche, insieme con quelle di Kant e Nietzsche.
Per Platone, scriveva Popper nel 1944, mentre la seconda guerra mondiale infuriava, «l’individuo è il Sommo Male in senso assoluto»: questo è il punto nodale, che lo rende precursore di tutti i totalitarismi. Presa dal sacro fuoco di fondare la società nuova, «l’ingegneria sociale utopica» di Platone è indifferente alla violenza che si richiede per costituirla. Insomma, per l’arbitrarietà dei fini e l’impossibilità di controllare la sequenza dei mezzi, il filosofo della «società aperta» riteneva molto probabile che essa portasse sulla terra, invece che il cielo, l’inferno. Il potenziale antidemocratico della «scrittura velenosa», perché affascinante, della Repubblica è ancora ben lungi, Popper concludeva, dall’essere esaurito.
«Che cosa resta oggi di Platone? » si chiede Vegetti alla fine del suo saggio.
La ricerca sulle cause profonde della plurimillenaria fascinazione, subita sia dai conservatori che dai rivoluzionari, di un modello politico totalitario fondato sulla negazione della sessualità e dell’identità delle donne, relegate al ruolo riproduttivo di fattrici per la patria, e sull’elevazione del rapporto pederastico a modello ideale di eros, rimane tuttora aperta.

giovedì 28 maggio 2009

l’Unità 28.5.09
Sotto gli occhi del mondo
di Concita De Gregorio


Il mondo si occupa di noi. Incomprensibilmente ignora gli accorati appelli tv di Sandro Bondi, le minacce di querela dell'avvocato Ghedini, le grida dei proconsoli ex fascisti e dei giornali scendiletto del premier per concentrarsi sulle gesta (la vita e le opere, le parole le menzogne e le gesta) del presidente del Consiglio. Direttamente su di lui, su quello che fa, come nelle democrazie si usa. «È un pericolo in primo luogo per l'Italia ed un esempio deleterio per tutti», Financial Times. «Se il primo ministro può farla franca portando avanti una storia d'amore adulterina e semipubblica con una adolescente (e poi mentire così spudoratamente che ogni sciocco può vedere che non sta dicendo la verità) e non venir chiamato a risponderne allora la nazione è in pericolo», The Independent. «Un clima decadente da basso impero (…) una escalation inquietante di impunità morale», El Pais. Altri editoriali e commenti sono dedicati al comportamento di Silvio Berlusconi dal Clarìn di Buenos Aires, dal Times e dal Guardian di Londra, da Abc news e da quotidiani e agenzie di stampa tedeschi, francesi, nord e sudamericani. Un complotto su scala mondiale, praticamente. Tutti lì a dire che l'Italia corre un pericolo serio perché insufflati da qualche suggeritore comunista, si vede. Forse un giornalista, certo: i servizi segreti lo troveranno, statene certi, e lo metteranno a tacere al più presto. Così il nostro prestigio internazionale tornerà a rifulgere. Nel frattempo la giovane Noemi scrive alle amiche di non poter lasciare il fidanzato prima della data delle elezioni (prassi notoriamente abituale tra le adolescenti, questa del vincolo alle scadenze elettorali, da cui deve derivare l'antica formula «voto di castità»): nuovi appassionanti dettagli ci attendono. Coi corrispondenti dei giornali stranieri abbiamo appuntamento stamani qui all'Unità per un Forum. Inviate loro le vostre domande, vorremmo discutere di politica e di economia, del futuro che attende l'Europa alla vigilia di un voto della cui importanza si parla pochissimo. Inauguriamo oggi una guida al voto che speriamo possa aiutare.
Il rapporto di Amnesty international è dedicato alle politiche sull'immigrazione e contiene un duro attacco all'Italia a partire dai respingimenti. Insieme all'osservatorio Italia-razzismo trovate oggi una doppia pagina di «Le belle bandiere» dedicata ai giovani di seconda generazione: nati in Italia da genitori stranieri. Delle migliaia di commenti arrivati sull'on line faremo un dossier. Debuttano oggi sul giornale il giuslavorista Massimo Pallini, l’autista Yuri e l’operaio Davide. I loro commenti, da punti di vista evidentemente diversi, ci aiuteranno a decifrare la realtà.
P.S. Due giorni fa per un errore di impaginazione l’attacco dei vescovi alle politiche del governo sul lavoro è finito a pagina 15 anzichè a pagina 9 come avrebbe dovuto. Un disguido che capita in ogni giornale e sul quale non vorremmo annoiarvi. Il collega Paolo Franchi, che salutiamo con la consueta stima, ha voluto sottolinearlo sul Corriere della Sera. Escludendo che ritenga che questo giornale non si occupi dei temi del lavoro e dei lavoratori lo prendiamo come un contributo da caporedattore esterno di sostegno. Grazie Paolo, e buon lavoro.

l’Unità 28.5.09
«Berlusconi è un pericolo»
L’Europa teme per noi
Financial Times, Independent, El PaisArticoli con toni preoccupati
Per il governo rispondenervoso il ministro degli Esteri: «Giudizi disonesti»
di Roberto Monteforte


Il premier Berlusconi è un pericolo per il Paese. Piovono le critiche della stampa estera al presidente del Consiglio. Giudizi comuni: dal Financial Times all’Independent, al El Pais. La reazione del ministro Frattini.

«Un pericolo per l’Italia». Giudizio duro, sferzante, quello sul presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi messo nero su bianco dall’organo della City, l’autorevolissimo quotidiano anglosassone Financial Times. E non è il solo. Usa quasi le stesse espressioni l’Independent. Fa notizia il «caso Berlusconi» sui media stranieri. È il modello «veline e vallette» che mette in allarme, come il rapporto con i media del premier. Gli dedica un suo editoriale lo spagnolo El Pais, come ha fatto nei giorni scorsi il Times di Londra e il Guardian.
«Non è un fascista», ma rappresenta un «pericolo, in primo luogo per l'Italia, ed un esempio negativo per tutti» osserva il Financial Times. Berlusconi, aggiunge ironico, «chiaramente non è Mussolini: lui ha squadre di veline, non di camicie nere». «Il pericolo rappresentato da Berlusconi è di ordine diverso». E lo spiega: «È quello dei media che rendono meno seri i contenuti della politica, sostituendoli con l'intrattenimento. È la spietata demonizzazione dei nemici e il rifiuto di garantire indipendenza alla concorrenza. È quello di mettere una fortuna al servizio della creazione di un'immagine forte, fatta della rivendicazione di infiniti successi surrogati da sostegno popolare». Non fa sconti il Financial Times. Salva il quotidiano «La Repubblica», giornale di «centro che tende a sinistra», che è stato il «più ostinato» nel porre le domande «sulla sua relazione con una teenager che vuole diventare velina». Ma critica «una sinistra assente», «le istituzioni deboli e spesso politicizzate» e «un giornalismo che troppo spesso ha accettato un ruolo subalterno»: tutte responsabili dell’aver reso «Berlusconi così “dominante”». L'obiettivo resta Silvio: «un uomo molto ricco, molto potente e sempre più spietato».
L’Independent ricostruisce le vicende del premier, i sui rifiuti di chiarire la sua situazione, il possibile calo dei consensi. «L’Italia è a un bivio» scrive. A dieci giorni dalle elezioni «c’è il rischio reale che il suo silenzio finisca per danneggiarlo». «Vivere ora in Italia - commenta- è come essere intrappolati in una colata lavica che lentamente, ma inesorabilmente scivola a valle». La conclusione: «Se il primo ministro può farla franca pur avendo una relazione adultera e quasi pubblica con un’adolescente senza essere chiamato a fornire spiegazioni, vuole dire che la nazione è in pericolo».
L’impunito per El Pais
«Impunito Berlusconi» è il titolo di El Pais. «Le ultime decisioni del suo governo - commenta- rivelano una escalation inquietante di questa impunità morale». Il quotidiano spagnolo punta il dito sull’«immunità giudiziaria» la sola cosa cui il premier « puntava veramente». Ricostruisce gli ultimi avvenimenti che lo hanno vista protagonista il Cavaliere. Parla della «relazione con la aspirante vedette Noemi Letizia» che «gli è costata il divorzio e ha rivelato un clima decadente da basso impero». Ricorda come «con disprezzo per le regole del gioco democratico» abbia mentito ripetutamente sulla sua relazione con Noemi, e rifiutato di rispondere alle domande elementari sul caso poste dal quotidiano Repubblica». Per i suoi rapporti con l'avvocato inglese David Mills, condannato in primo grado per corruzione in atti giudiziari a favore del premier, conclude El Pais «sarebbe costata le dimissioni immediate a qualsiasi altro dirigente».
Contro questo fuoco di fila risponde il ministro degli Esteri, Franco Frattini. Parla del consenso degli Italiani, dei risultati del governo. «Negare tutto questo - osserva- è disonestà». «Rispetto sempre anche la cattiva stampa - conclude - perché è esercizio di libertà di espressione, ma la tratto come cattiva stampa» «Il governo italiano, e in particolare il primo ministro Berlusconi, non merita queste affermazioni che vengono sempre da alcune fonti ben individuate».

Repubblica 28.5.09
"Berlusconi pericolo per il Paese"
Stoccata del Financial Times. Frattini: stampa estera disonesta
Il giornale della City: "Il Cavaliere non è un fascista, ma un esempio deleterio per tutti"
di Silvia Buzzanca


ROMA - Silvio Berlusconi non è Benito Mussolini e il fascismo non è all´orizzonte italiano. Ma il presidente del Consiglio è «un pericolo, in primo luogo per l´Italia, ed un esempio deleterio per tutti». I paragoni storici e il giudizio vetriolo sul Cavaliere arrivano questa volta da un fondo del Financial Times, il prestigioso quotidiano economico finanziario britannico.
Parole che suscitano un vespaio a Roma: parte dell´opposizione cavalca le parole del giornale, la maggioranza fa quadrato intorno al suo leader. A cominciare dal ministro degli Esteri Franco Frattini che bolla come «cattiva stampa» il fondo del Financial Times. Dietro, afferma il titolare della Farnesina, «non credo ci siano pregiudizi, c´è disonestà».
Il giornale britannico prende le mosse dalle ultime vicende che hanno coinvolto Berlusconi: il caso Mills e il caso Noemi. Soprattutto da quest´ultimo. E scrive che «Berlusconi chiaramente non è Mussolini: lui ha squadre di starlette e non di camicie nere».
Ma, continua il Ft, «il pericolo di Berlusconi è di ordine diverso da quello di Mussolini: è quello dei media che rendono fatui i contenuti seri della politica e li sostituiscono con l´entertaiment. È quello di una inesorabile demonizzazione dei nemici ed il rifiuto di garantire basi indipendenti ai diversi potere. È mettere una fortuna al servizio della creazione di un´immagine grandiosa, composta da affermazioni di successi senza fini e sostegno popolare».
Colpa della «sinistra esitante, di istituzioni deboli e a volte politicizzate, di un giornalismo che troppo spesso ha accettato un ruolo subalterno, ma soprattutto di un uomo molto ricco, molto potente e sempre più spietato», accusa il quotidiano. Che conclude: Berlusconi «non è un fascista, ma un pericolo in primo luogo per l´Italia, ed un esempio deleterio per tutti».
Non sarà Mussolini, ma è un Nerone, attacca allora Antonio Di Pietro. «Siamo al basso impero, con un Nerone nostrano che gode nel vedere bruciare il nostro paese sul piano economico, sociale e istituzionale», dice il leader dell´Idv. «Silvio, facci sopra una risata» consiglia invece al premier il ministro dell´Interno Roberto Maroni. Ma altri esponenti del Pdl evocano un complotto internazionale.
L´opposizione, oltre all´attacco del Financial Times, segnala anche quelli di Independent e El Pais. Il giornale britannico si chiede se il caso Noemi sarà la buccia di banana che porterà via il potere a Silvio Berlusconi. Il giornale spagnolo, invece, denuncia come che «le ultime decisioni del suo governo rivelino una escalation inquietante di impunità morale». E parla di «clima decadente da basso impero».

Repubblica 28.5.09
Ecco perché i giornali internazionali ci processano
Quello che l’Italia non vuole vedere
di Alexander Stille


Troppe verità e troppo potere quello che l´Italia non vede più
Qui si è dimenticato che all´estero lo strapotere di Berlusconi è del tutto inconcepibile
Negli Usa avrebbero trasmesso migliaia di volte le conversazioni tra il premier e Saccà

Perché c´è un´attenzione e una copertura così forte da parte della stampa estera sulla vicenda delle dieci domande di "Repubblica" a cui il presidente Silvio Berlusconi non ha ancora dato risposta? Eppure in molti ambienti italiani, non soltanto quelli del Popolo della Libertà, si dice che si tratta di mero pettegolezzo, di vicende puramente private e quindi senza significato politico. La differenza tra il comportamento della stampa italiana e quella americana nello scandalo Clinton è come la differenza che c´è tra il giorno e la notte.
A mio avviso, il caso Clinton non è stato un momento di gloria per la stampa americana. Ma dietro c´era un principio molto chiaro e molto sano: che il potere dev´essere trasparente, deve rendere conto di se stesso davanti al pubblico, deve rispettare le istituzioni di controllo, come il Congresso e la magistratura. Per di più, c´era il principio fondamentale secondo cui il comportamento di un capo di Stato non è puramente personale: se ha rapporti sentimentali con persone che lavorano dentro il governo, o che aspirano a farlo, diventa un caso squisitamente politico. Ha detto più o meno così, il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco: «La stoffa umana di un leader, il suo stile e i valori di cui riempie concretamente la sua vita non sono indifferenti. Non possono esserlo. Per questo noi continuiamo a coltivare la richiesta di un presidente che con sobrietà sappia essere specchio, il meno deforme, dell´anima del Paese».
C´è poi una questione di fondo che vale a ogni latitudine: un politico dovrebbe dire la verità. Nel caso italiano Berlusconi ha offerto tante verità diverse che non possono essere tutte attendibili, ovviamente, e dunque vere tutte. Quindi viene naturale chiedersi: che cosa si vuole coprire offrendo tante versioni di comodo, pur tra loro contraddittorie? Uno dei ruoli principali della stampa è la funzione di controllo del potere politico. Thomas Jefferson, il terzo presidente degli Usa, pur essendo stato attaccato duramente dai giornali per fatti personali (il suo chiacchierato rapporto con una sua schiava, rivelatosi recentemente vero grazie agli esami del Dna), ha scritto: «Se dovessi scegliere tra un governo senza giornali o giornali senza un governo, non esiterai un attimo a fare la seconda scelta».
Quando la stampa annusa il cattivo odore che esce da una storia – opacità, poca chiarezza, incongruenze del potere - sa che il suo ruolo è quello di indagare. Quando nota delle evidenti contraddizioni (e quindi bugie) nei racconti dei potenti -Berlusconi che sostiene di aver visto la giovane Noemi due o tre volte e sempre accompagnata dai genitori e lei che rivela che quando Berlusconi ha delle ore libere lo raggiunge a Roma o a Milano - allora il giornalismo capisce istintivamente che è il momento di insistere per arrivare alla verità. Il Financial Times di Londra, certamente non un giornale di sinistra, scrive che "il pericolo di Berlusconi è una spietata demonizzazione dei nemici e un rifiuto di lasciare uno spazio a poteri di controllo."
In Italia si è dimenticato che all´estero lo strapotere di Berlusconi è letteralmente inconcepibile: che l´uomo più ricco del Paese, proprietario di tre rete televisive nazionali e imputato in vari processi gravi possa guidare insieme il governo e il sistema mediatico pubblico, è qualcosa che stupisce anche l´americano più conservatore. Perchè non è una questione di destra e sinistra, ma di potere incontrastato. Questo è il punto. E la stampa internazionale, quando la moglie del premier parla di un uomo di 72 anni che frequenta minorenni sente e capisce che si tratta di una sorta di delirio del potere assoluto. Nel caso di Berlusconi, d´altra parte, i giornali sanno che l´auto-mitologia del potere non si può separare da un´auto-mitologia sessuale. Così come non si può separare il privato dal pubblico nella sua carriera politica. Più volte, e proprio con la stampa estera, Berlusconi ha scelto di parlare del sesso e della sua carriera di playboy. Davanti all´associazione della stampa estera, Berlusconi ha detto che il primo ministro danese Rasmussen era il più bel politico d´Europa e ha detto che sarebbe stato l´uomo giusto per sua moglie. Ha stupito Wall Street parlando delle belle segretarie che lavorano in Italia. Ha detto di avere fatto il playboy con la premier finlandese. Ha parlato delle sue fidanzate francesi, di una fidanzata turca.
Il premier ha invitato i giornali a speculare sui suoi possibili rapporti con le donne candidate quando nel 2008 ha detto: «Portiamo in Parlamento il 30 per cento di donne e si scatena la corsa a dire che sono fidanzate mie e di Gianfranco. Siamo supermen, ma certi traguardi sono impegnativi anche per noi...». L´idea che posti nel Parlamento e nel governo possano essere assegnati a donne con forse hanno avuto un rapporto personale con il presidente del consiglio avrebbe scatenato negli Stati Uniti una campagna di stampa che non si sarebbe fermata finché non fossero giunte risposte convincenti. Non per curiosità morbosa ma per un evidente uso personale del potere politico. Il fatto che in Italia una ragazzina che non ha neppure fatto la maturità possa pensare che, grazie al rapporto con il suo "papi", le spetti un posto nel parlamento è sintomo di una degenerazione evidente. Poi ci sono state le conversazioni intercettate tra Agostino Saccà, il capo della Rai fiction e Berlusconi, in cui il Cavaliere ha detto testualmente di chiedere favori nella sistemazione di alcune donne sia per "sollevare il morale del capo" sia per aiutarlo a convincere un senatore dell´opposizione a cambiare schieramento politico per fare cadere il governo. Ripeto: per fare cadere il governo. Cosa c´è di personale, di privato, in questa vicenda che configura un abuso di potere? Un uomo politico americano che avesse fatto altrettanto sarebbe finito.
Perchè quindi meno chiasso e meno attenzione in Italia? Negli Stati Uniti l´audio della conversazione Berlusconi-Saccà sarebbe stata trasmessa migliaia di volte su tutte le televisioni. In Italia, invece, vorrei sapere se un singolo telegiornale l´abbia trasmesso, anche una sola volta. Non per niente, il governo Berlusconi sta per approvare una legge che renderebbe le intercettazioni di uomini politici (e soprattutto la loro pubblicazione) pressochè impossibili. Quindi dove finisce la sfera privata e comincia quella dell´interesse pubblico? I giornali stranieri cominciano a domandarselo. Berlusconi ha sempre detto che «una cosa, se non è stata in televisione, non esiste». Molte delle cose di cui mi sono occupato in questo articolo non sono state mai nemmeno accennate dalla televisione italiana e spesso nemmeno da buona parte della stampa. Il silenzio di Berlusconi davanti alle dieci domande di Repubblica è dunque possibile solo perché il Cavaliere non ha risposto a tante altre domande e perché il sistema dei media non le ha neppure mai poste.

Repubblica 28.5.09
Migranti, Amnesty accusa l´Italia
"I respingimenti violano i diritti umani. Con la crisi economica nuovi abusi"
"È espressione del disprezzo verso le persone disperate che cercano aiuto"
di Giampaolo Cadalanu


ROMA - Gli abusi colpiscono sempre i deboli: non più solo il dissidente politico, l´oppositore scomodo, la comunità ribelle, ma il diseredato a stomaco vuoto, il membro di una minoranza discriminata, e naturalmente il migrante in cerca di una vita migliore. La denuncia di Amnesty International è chiarissima: fra i diritti umani oggi si deve intendere anche quello alla sopravvivenza. E non è accettabile fare come l´Italia, che chiude le porte ai bisognosi e ignora gli impegni internazionali già presi.
Per Christine Weise, presidente di Amnesty Italia, i respingimenti sono «espressione di un disprezzo dei diritti umani e delle persone disperate che cercano aiuto». E l´organizzazione considera l´Italia responsabile di quello che succederà ai migranti ricacciati nei campi profughi della Libia, da cui arrivano rapporti di tortura e maltrattamenti.
Ma dal rapporto 2009 di Amnesty si capisce che le "porte chiuse" dell´Italia sono solo l´ultimo tassello di un mosaico dove i diritti umani sono indeboliti, declassati o persino ignorati di fronte a preoccupazioni più prosaiche. Ieri era l´emergenza terrorismo, oggi è la recessione economica: ma la tutela della dignità umana, dice Amnesty, deve venire prima dei bilanci delle banche e delle preoccupazioni artificiose sulla sicurezza. Invece dietro la crisi si nascondono abusi come «la negazione alle comunità indigene del diritto a una vita dignitosa, gli sgomberi forzati di centinaia di migliaia di persone, l´aumento dei prezzi che ha provocato fame e malattie, il persistere di violenza e discriminazione delle donne». Per questo serve una mobilitazione generale, che Amnesty lancia con lo slogan "Io pretendo dignità".
C´è un passo avanti significativo: in discussione non ci sono solo le politiche repressive dei regimi, ma lo stesso modello di sviluppo iperliberista che ha spinto verso il baratro il sistema economico dell´intero pianeta. Ma è un passo inevitabile se, come dice Daniela Carboni, responsabile delle Campagne, «la povertà non è frutto del caso, è il risultato di decisioni umane. Ma non è una condizione accettabile, né immutabile».

Repubblica 28.5.09
Jacques Barrot, Commissario europeo alla sicurezza: "Da voi meno rifugiati della media Ue"
"L´asilo politico va garantito ecco dove Roma sbaglia"
di Andrea Bonanni


Bisogna organizzare centri di esame nei paesi di imbarco. La priorità è fermare la carneficina nel Mediterraneo

BRUXELLES - L´Europa e i suoi stati membri devono garantire il diritto d´asilo dei potenziali rifugiati. No, dunque, ai respingimenti sommari dei barconi provenienti dalla Libia, anche se il problema deve essere risolto a monte, nei paesi di partenza, e non si può pretendere di aprire la porta a tutti, favorendo così anche i trafficanti di esseri umani. In questa intervista concessa ad un gruppo di giornali europei, Jacques Barrot, commissario alla Sicurezza, libertà e giustizia, mette in guardia i governi europei contro il rischio che l´estate nelle acque del Mediterraneo si trasformi in una carneficina di clandestini. «Dopo la crisi economica, quella dell´immigrazione è l´emergenza più grave se l´Europa continua a non volere guardare il faccia la realtà, rischia di avere un brutto risveglio». E critica anche la criminalizzazione dell´immigrazione, che preferisce definire «irregolare» piuttosto che «illegale».
L´Italia si è attirata le critiche dell´Onu e dell´Alto commissario per i rifugiati, Guterres, per aver rimandato in Libia barche di migranti senza consentirne lo sbarco. Come giudica il comportamento delle autorità italiane?
«L´Italia è meta di un forte flusso di clandestini. Nel 2008 trentamila. Molti di loro non hanno diritto di chiedere asilo. Ma io stesso ho fatto presente alle autorità italiane il pericolo che, respingendo indiscriminatamente le barche, si respingano anche persone che chiedono asilo. E´ questo il rischio. Mentre per noi europei il diritto di asilo è sacro e inviolabile. Certo, alcuni paesi sono sommersi di rifugiati che chiedono asilo. A Malta ce ne sono 18 ogni mille abitanti quando la media europea è dello 0,25%. A Cipro sono 41 ogni mille abitanti. Per questo mi preparo a chiedere ai ministri degli interni europei di accogliere nei loro Paesi un po´ dei rifugiati che attualmente sono ammassati a Malta, in Grecia, a Cipro e in Spagna».
E in Italia?
«In Italia i richiedenti asilo sono solo 1,26 ogni mille abitanti: la metà della media europea».
E allora, se non si possono respingere i barconi, che si fa?
«Mi rendo conto del problema. E l´ho fatto presente anche a Guterres. Perché impedendo il respingimento dei barconi, si finisce per mettere i richiedenti asilo nelle mani dei trafficanti. Invece, anche con la collaborazione dell´organizzazione dell´Onu per i rifugiati, bisogna organizzare centri di esame delle richieste di asilo nei paesi di imbarco: in Libia, in Tunisia, in Egitto».
E come far fronte all´immigrazione illegale?
«Questo termine non mi piace: sa troppo di criminalizzazione. Preferisco parlare di immigrazione irregolare. Più corretto».
Da noi, invece, si crea il reato di clandestinità.
«Sì, lo so che in alcuni Paesi l´immigrazione irregolare è considerata un crimine. Si tratta di decisioni interne su cui non voglio interferire. Ma io devo essere anche sensibile alla percezione che si ha fuori dall´Europa, in Africa o in Sudamerica, dove la criminalizzazione degli immigrati è vista con irritazione».
E allora, che fare degli immigrati irregolari?
«Stiamo lavorando per facilitare gli accordi di riammissione nei Paesi di origine. Ma la priorità evitare tragedie. Se non troviamo una soluzione comune e regole condivise, il rischio è che ci si rimpalli i clandestini tra un paese e l´altro, come è già successo. E questa è la premessa per un disastro umanitario: già ora si calcola che il 20% dei disperati che partono dall´Africa non arrivino in Europa. Dobbiamo fermare questa carneficina»

l’Unità 28.5.09
Amnesty accusa: l’Italia calpesta i diritti umani
di Umberto de Giovannangeli


Un anno fa aveva lanciato l’allarme rispetto alla china razzista verso la quale l’Italia si stava dirigendo. Un anno dopo, Amnesty International documenta nel suo rapporto una deriva inquietante.


«Un anno fa lanciammo un preciso allarme rispetto alla china razzista verso la quale l’Italia si stava dirigendo. A un anno di distanza siamo di fronte a una realtà ormai definita: l’Italia è precipitata nell’insicurezza e sta mettendo a repentaglio l’incolumità di molte persone, oltre alla propria reputazione nel panorama internazionale». E ancora: «Come spesso accade, l’accanimento discriminatorio verso un gruppo piccolo, debole e marginalizzato come i rom è stato solo l’inizio. Ha rappresentato il centro della spirale di disprezzo per i diritti umani che si è andata poi allargando e oggi colpisce sempre più persone». Un j'accuse possente. Una denuncia argomentata.
QUADRO A TINTE FOSCHE
Un grido d’allarme che va raccolto. A lanciarlo è Christine Weise, presidente della sezione italiana di Amnesty International. L’occasione è la presentazione del «Rapporto 2009. La situazione dei diritti umani nel mondo» e della campagna «Io pretendo dignità» lanciata a livello mondiale da Amnesty.
Dagli sgomberi ai respingimenti in mare: l’Italia sotto accusa. Rileva la presidente di Amnesty Italia: «Gli sgomberi delle comunità rom e sinti sono proseguiti in diverse città. Al contempo, queste minoranze sono state vittime di aggressioni verbali e fisiche di stampo razzista da parte di privati cittadini. Ciononostante, la criminalizzazione dei gruppi minoritari continua ad essere un ingrediente di ogni campagna elettorale, costi quel che costi». Il rapporto di Amnesty supporta con dati, testimonianze, questa grave denuncia. «Le riforme delle norme sull’immigrazione - osserva Weise - procedono senza una precisa pianificazione ma dense di misure atte a colpire negativamente oggi aspetto della vita delle persone migranti. La norma palesemente discriminatoria, che distingue la gravità di un reato a seconda che sia commesso da un italiano o da un immigrato irregolare, è già legge dello Stato. E in questi giorni - ricorda la presidente di Amnesty Italia - è davanti al Senato una proposta che allontanerebbe i migranti irregolari da ogni istituzione o edificio statale: dalle scuole, dagli ospedali, dagli uffici anagrafe comunali. Questo effetto perverso seguirebbe all’introduzione del reato di ingresso e permanenza irregolare ed è solo un elemento della situazione di allontanamento dei migranti irregolari dalla società, davanti a cui ci troveremmo in caso di approvazione dell’ultima parte del cosiddetto “pacchetto sicurezza”». I respingimenti. Altro dossier caldissimo.
MARE D’INGIUSTIZIA
«Ciò che accade ora nel Mediterraneo - spiega la presidente di Amnesty Italia - sta tenendo alla larga da questa e da altre garanzie le persone che sono in fuga dalla tortura e dalla persecuzione. Nel corso di questo mese almeno 500 persone, tra cui richiedenti asilo provenienti dalla Somalia e dall’Eritrea, sono state fermate in alto mare e portate a forza in Libia, un Paese che non ha una procedura di asilo».
Non basta. Denuncia ancora Amnesty: «In altri casi - quello della nave Pinar è il più noto - i migranti e i richiedenti asilo sono stati lasciati in alto mare, in attesa che l’Italia si attardasse in disquisizioni di diritto marittimo con Malta, dimenticando una regola fondamentale che la gente di mare conosce senza doverla imparare: salvare vite umane è un imperativo assoluto e ha priorità su ogni altra considerazione». Avverte Amnesty: «Il rinvio forzato in Libia è una politica estrema che si pone nel campo della responsabilità degli Stati per illeciti internazionali. Su questo punto - rimarca Christine Weise - vogliamo essere chiari: l’Italia sarà considerata responsabile per ciò che accadrà in Libia a ognuna delle persone lì ricacciate». Dalla Libia, osserva Amnesty, arrivano «persistenti rapporti di tortura e altri maltrattamenti di migranti, rifugiati e richiedenti asilo in stato di detenzione, a questi ultimi non è stata data protezione, come richiesto dal diritto internazionale sui migranti». Questa prassi - rimarca Amnesty - è il frutto amaro, ma non inatteso, di una «cooperazione incondizionata in cui l’Italia non chiede alla Libia garanzia sui diritti umani di migranti e rifugiati».

Repubblica 28.5.09
Giordano Bruno può attendere
di Michele Smargiassi


La Terra, intesa come pianeta, non ha atteso il 31 ottobre 1992, giorno in cui Giovanni Paolo II riabilitò Galileo Galilei, per mettersi a girare attorno al sole: in evidente spregio ai dogmi lo faceva già da quattro miliardi di anni. Quindi non è chiaro quali benefici effetti sul pensiero umano potrebbe avere la riabilitazione di Giordano Bruno, sollecitata (per la verità senza eccessive speranze) dal fisico Nicola Cabibbo, presidente della Pontificia accademia per le scienze, in un´intervista a Famiglia Cristiana. Le teorie sull´universo e sulla natura dell´uomo del domenicano ribelle, arso sul rogo in Campo de´ Fiori nell´anno del Signore 1600, sono ancora in buona parte indigeribili per la dottrina cristiana; ma è apprezzabile la buona volontà. Del resto, anche Charles Darwin è stato "perdonato" dal Vaticano nel ´96, ma provate a insegnare l´evoluzionismo in certe scuole cattoliche. Senza contare che una netta differenza tra lo scienziato e il filosofo esiste: se nei confronti di Darwin la reazione della Chiesa si limitò ad essere fredda, con Giordano Bruno fu invece molto, molto calda.

La Nazione Il Resto del Carlino Il Giorno 28.5.09
La Chiesa riabilita Giordano Bruno? Gli studiosi: «Ridicolo»


LA CHIESA cattolica riabilita Giordano Bruno? «Forse», risponde Nicola Cabibbo, presidente della Pontificia accademia delle scienze. «Ne ho parlato in Vaticano - prosegue il fIiico in un'intervista a 'Famiglia cristiana' - ma per ora segnali non ce ne sono. La teoria di Giordano Bruno oggi è dimostrata dall'esistenza dei pianeti extrasolari, osservati dai telescopi in orbita. Il problema sono il processo e la condanna. Credò che se ne sappia meno che del processo a Galileo Galilei. E poi non sarà facile riconoscere che non c'era alcuna ragione per metterlo al rogo». Il caso Galileo, poi «ha disorientato»: «La Chiesa era impreparata di fronte al nuovo modo di indagare la natura, quasi che la scienza pretendesse di svelare il Mistero». Ma l'idea non scuote la comunità scientifica. Anzi, si può parlare di vera e propria indifferenza. Aldo Masullo, docente emerito di filosofia morale all'Università di Napoli: «Oggi né a Bruno né ai suoi estimatori importa più nulla del riconoscimento della Chiesa». E Michele Ciliberto, professore di Storia della Filosofia moderna e contemporanea alla Normale di Pisa e presidente dell'Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento di Firenze: «Bruno è il pensatore più radicalmente anticristiano del Cinquecento europeo». Non ha dubbi anche Massimo Cacciari: «Riabilitare Bruno? Semplicemente ridicolo», dice il filosofo-sindaco di Venezia. Mostra pollice verso sulla riabilitazione Guido Del Giudice, autore di studi sul pensiero bruniano cui ha dedicato il sito www.giordanobiuno.info: «Già nel Duemila la lettera del cardinal Sodano fu esplicita: pur concedendo la sproporzione della condanna inflitta al filosofo europeo, la Chiesa ne difendeva ancora storicisticamente la legittimità».

mercoledì 27 maggio 2009

Repubblica 27.5.09
L’incubo di Albino, figlio di Mussolini
risponde Corrado Augias


Cortese dott. Augias, ho visto il bel film di Bellocchio 'Vincere'. Mi hanno disturbato le risatine da «bambini scemi» durante la prima parte quando Filippo Timi tratteggia il giovane Benito e l'atmosfera che lo circondava. Che Mussolini avesse personalità e carisma da leader non lo scopro certo io, che fosse un cialtrone lo testimonia lui medesimo, come capita a tutti i cialtroni che non possono uscire da sé stessi neanche volendo. Resta drammatico il rapporto che si instaura fra quel personaggio e un popolo che lo riconosce come guida. Accade talvolta che questi «burattinai» siano in realtà dei «burattini» che ad un certo punto si scollegano dai fili di chi crede di poterli tenere alla giusta distanza. Tutto ricade sulle spalle del popolo che non sempre ha i mezzi per riconoscerli per ciò che sono. L'attualità del film di Bellocchio è da questo punto di vista sconvolgente. Che abbia sin qui raccolto maggiori consensi all'estero, dove lo possono guardare con sereno distacco, che non in Italia, dove richiamando alla memoria il passato, si alza come un potente grido di allarme, forse è, allo stato delle cose, inevitabile.
Vittorio Melandri vimeland@alice. it

'Vincere' come ha benissimo riferito la nostra Natalia Aspesi da Cannes, racconta la vicenda di Ida Dalser, giovane donna trentina (nata nel 1880) che Mussolini avrebbe sposato con rito religioso e dalla quale nel 1915 ha avuto un figlio (Benito Albino) da lui regolarmente riconosciuto. Credo di capire da dove siano venute le 'risatine'. Nella prima parte il rapporto tra i due amanti è descritto in tutta la sua passionalità. Mentre però nella donna (interpretata da Giovanna Mezzogiorno) c'è dedizione completa. In Mussolini (Filippo Timi), all'ardore amoroso si mescola l'ambizione politica per cui lo si vede (di spalle) mentre, scioltosi da un abbraccio, si affaccia nudo su una piazza deserta che di colpo si riempie delle grida di una folla osannante come sarà poi a piazza Venezia. Proprio perché così appassionata, la sventurata Ida diventa un impaccio per il giovane aspirante dittatore e Mussolini è costretto a disfarsene. Come? Facendo rinchiudere in un manicomio lei e in un altro asilo per alienati suo figlio Benito Albino. La donna protesta di essere sua moglie, il giovane si proclama suo figlio ma questo può solo peggiorare la loro situazione. Il controllo di Mussolini sulla polizia e sui media sta diventando totale. E quando si dispone di una stampa servile nulla può la verità. E' questo aspetto che a buon diritto ha impressionato il signor Melandri. Mi ha scritto da Bologna Valeria Babini (babini@philo. unibo.it): «Bellocchio ci dà, attraverso il racconto di una vicenda privata, la storia di un incubo che è stato di tutti».

Repubblica 27.5.09
Berlusconi: "La sinistra mi odia" Bondi attacca Repubblica a Ballarò
Belpietro: "L’ex fidanzato di Noemi ha avuto una condanna"
D’Alema: ora ci risparmierà gli appelli all’insegna di Dio, patria e famiglia
di Gianluca Luzi


ROMA - Da qualche giorno il Cavaliere furente evita il contatto con la folla. Insolito per lui e infatti, dopo un periodo di clausura costellato solo di interviste tv e sfoghi con i giornali amici, ha deciso di farsi vedere di nuovo in piazza. Stasera intanto, dopo l´incontro con Zapatero, sarà all´Olimpico per assistere alla finale di Champion´s. Poi, forte della sicurezza di avere con sé gli italiani, sarà venerdì all´Aquila, sabato alla Maddalena per controllare i lavori dopo lo spostamento del G8. Domenica andrà a Bari per un comizio e dopo la parata del 2 giugno ai Fori Imperiali potrebbe intervenire a qualche altra tappa elettorale a partire da Milano. Convinto che ci sia un´offensiva che mette in fila la sentenza Mills e il caso Noemi, Berlusconi si sfoga: «Ogni giorno mi stanno gettando del fango adosso, ma io sono sereno, vado avanti per la mia strada...». Di tutto il caso Noemi si è occupata ieri sera una infuocata puntata di Ballarò in cui il ministro Bondi ha attaccato aspramente il nostro giornale e il direttore di Panorama Maurizio Belpietro, polemizzando con il direttore di Repubblica Ezio Mauro, ha sostenuto che l´ex fidanzato di Noemi, Gino Flaminio, sarebbe stato condannato in passato a due anni e sei mesi. La strategia del premier scelta con il suo avvocato-deputato Niccolò Ghedini - che ieri è entrato a Palazzo Grazioli appena il premier è tornato da Arcore - è ormai consolidata: la sinistra allo sbando e a corto di argomenti si butta sul gossip «per inventare storie false, gettare fango. Tutta una messinscena per disarcionarmi». Questo lo ha detto al telefono a un convegno di partito a Milano. E gli uomini della sinistra - ha rincarato la dose a un´emittente toscana - sono «politici professionisti che non sanno fare altro mestiere se non la politica e che quindi lo fanno non per gli altri ma per se stessi e sono malati di odio politico». L´obiettivo di Berlusconi è superare il quaranta per cento e ottenere un plebiscito sul suo nome. Una sorta di referendum. Ieri però si è preoccupato di smentire che le europee «saranno un test su di me». La vicenda Noemi pesa, anche sui sondaggi e D´Alema si augura che almeno un risultato ci dovrebbe essere: il presidente del Consiglio «d´ora in poi ci risparmierà gli appelli all´insegna di Dio, patria e famiglia». Ma peserà anche sui rapporti fra Berlusconi e la Chiesa? Il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, richiesto di un parere sulla vicenda Noemi, si chiama fuori da un giudizio diretto ma spiega che «il richiamo alla responsabilità degli adulti» fatto dal cardinale Bagnasco, vale per tutti, «non può essere sottovalutato o evaso», ma nemmeno «strumentalizzato a livello di cronaca quotidiana». Ognuno - ha osservato significativamente - «ha la propria coscienza e ognuno ha la propria capacità di giudizio». Sullo sfondo resta la domanda se sia lecito occuparsi delle vicende private di un politico. Formigoni pensa di sì: «E´ lecito discutere anche della vita personale delle persone pubbliche, e Berlusconi è certamente una persona pubblica». Del resto lo stesso premier ha sempre utilizzato la sua vita privata a fini di consenso politico. Ieri, intanto è stato il giorno delle mozioni in Parlamento: quella dell´Idv e quella del Pd. Il partito di Franceschini batte sul tasto della sentenza Mills e chiede al premier di rinunciare allo scudo del Lodo Alfano.

Repubblica 27.5.09
Il Cavaliere sotto assedio "Non farò la fine di Leone"
"Se insistono chiederò il giudizio degli elettori"
Il premier teme il precedente del capo dello Stato dimessosi per la Lockheed
di Claudio Tito


ROMA - «Vorrebbero farmi fare la fine di Leone...». Silvio Berlusconi continua a sentirsi sotto assedio. È convinto che sia in atto una «manovra» per farlo «disarcionarlo». Sostanzialmente per farlo dimettere. Costruire un caso e indurlo a lasciare Palazzo Chigi. Come è accaduto, a suo giudizio, nel 1994 con l´avviso di garanzia ricevuto a Napoli durante la Conferenza Onu sulla criminalità. Ma l´esempio che a Palazzo Grazioli viene considerato il vero punto di riferimento è quello che ha riguardato l´ex presidente della Repubblica, Giovanni Leone. Che si dimise nel giugno 1978 sull´onda dello scandalo Lockheed senza concludere il settennato presidenziale.
Anche allora, hanno ricordato al premier alcuni ministri, ci furono attacchi e la richiesta di dimissioni arrivò dall´opposizione, dal Pci. In una certa misura il Cavaliere crede di vivere la medesima situazione. «Ma io non cederò, non mi farò mettere sulla graticola», ha avvertito. «Non mi farò travolgere da un manovra antidemocratica. Da un altro ribaltone».
Anzi, è sicuro che il caso Noemi sia destinato a sgonfiarsi. «Siccome non c´è altro rispetto a quello che è stato pubblicato e io ho già spiegato - è il ragionamento fatto in queste ore - tutto finirà presto». Del resto, va ripetendo, «cosa ho fatto? Dov´è il reato?». Tant´è che prima di ritornare sull´argomento intende aspettare qualche giorno. Silenzio, per ora. «Non posso replicare quotidianamente», si lamenta. Preferisce, insomma, capire se sul "Casoria-gate" ci saranno altri sviluppi o sorprese. Modulerà la reazione proprio in base alle eventuali puntate successive. Il perno della sua risposta saranno in ogni caso le prossime elezioni europee. «La gente sarà comunque con me - ripete -. E lo vedrete dopo il 7 giugno». Il premier infatti punta a superare il 40% con il Pdl: «Se sarà così, tutti dovranno stare zitti». Tant´è che la sua agenda è cambiata. Ne ha parlato con ieri con un gruppo di parlamentari con i quali ha abbozzato le mosse dei prossimi giorni. Ha registrato gli spot elettorali: aveva preventivato di puntare solo sulla tv e su interventi via etere. Da ieri, però, ha preparato pure un programma di comizi in un minitour per le piazze d´Italia. Obiettivo: tornare a fare bagni di folla.
Nonostante le previsioni ottimistiche, però, a Via del Plebiscito sono pronti a organizzare pure le difese anche nel peggiore dei casi. A Via del Plebiscito, infatti, temono che la «manovra» possa essere accompagnata da altri capitoli. A partire dal coinvolgimento di altri "protagonisti" del Noemi-gate. Eppoi il fantasma delle intercettazioni telefoniche è tornato ad aleggiare a Palazzo Chigi e nelle chiacchierate dei parlamentari della maggioranza. Così come l´inchiesta di Napoli sul termovalorizzatore di Acerra che potrebbe toccare alcuni degli esponenti del governo. Questioni che provocano un certo allarme nel Pdl. Soprattutto in vista del G8 dell´Aquila. Il rischio che durante il summit dei "grandi" possa essere replicato quanto è accaduto nel ´94, è il vero incubo del premier. Tant´è che in questi giorni Berlusconi ha impegnato la Farnesina a difendere l´immagine dell´esecutivo sui giornali internazionali. Molti dei quali hanno riservato molte pagine alla querelle "Silvio-Veronica-Noemi". Il presidente del Consiglio sta cercando di rimediare le lesioni alla sua immagine all´estero. Proprio per evitare che il G8 si trasformi in un vertice concentrato sulle sue faccende personali. «Ma sia chiaro - ha ammonito con i fedelissimi - che io non mi farò mettere sulla graticola. Non mi farò logorare da queste vicende. Se insisteranno su questa strada, allora io risponderò. E mi rivolgerò al giudizio dei cittadini».

Corriere della Sera 27.5.09
Potere, gossip e riforme
Il consenso e la misura
di Sergio Romano


Un mese fa, dopo il terremoto de­gli Abruzzi e la fondazione del Pdl, Berlusconi poteva legit­timamente sostenere di avere con sé la maggioran­za degli italiani. La soluzio­ne del pasticcio napoleta­no, la rinascita della compa­gnia aerea nazionale, la sua continua presenza sul cam­po, all’Aquila, gli effetti con­tenuti della crisi del credito sull’economia nazionale e gli affanni dell’opposizione gli garantivano un consen­so senza precedenti. E’ pos­sibile che qualche sondag­gio peccasse di una certa esagerazione, ma il suo compiacimento non era in­giustificato. Avrebbe dovu­to ricordare che i sondaggi sono soltanto istantanee e riflettono gli umori di un Paese per sua natura mute­vole. Il buon lavoro fatto a Napoli e in Abruzzo andrà verificato alla luce dei risul­tati. Cai non è ancora uscita dalla fase del rodaggio. Il Pdl contiene molte anime. La Lega ha un’agenda a cui non intende rinunciare. E come tutte le coalizioni, an­che quella di Berlusconi è una somma di reciproche convenienze, un patto de­stinato a durare sino a quando i soci ne traggono qualche vantaggio. Ma non è facile suggerire la pruden­za a un uomo che ha costru­ito la propria vita sulle fon­damenta dell’ottimismo.
Ora, dopo le vicende del­le scorse settimane, la fac­ciata dell’edificio di Berlu­sconi comincia a rivelare al­cune crepe. Nulla di vera­mente nuovo e sorprenden­te. Sapevamo che Fini, do­po il discorso pronunciato al congresso del Pdl, non avrebbe perduto occasione per sottolineare l’originali­tà delle proprie posizioni. Sapevamo che le baruffe per l’Expo avrebbero nuo­ciuto all’immagine di Mila­no e, quindi, a quella di Ber­lusconi. Sapevamo che l’al­leanza con il movimento di Raffaele Lombardo a Paler­mo era una operazione sici­liana, basata su logiche di­verse da quelle della politi­ca nazionale. Sapevamo che il processo Mills avreb­be continuato a spargere ve­leni. Nulla di ciò che è acca­duto in questi giorni era im­prevedibile e inatteso. Ma l’effetto di questi episodi è stato moltiplicato da una faccenda di cui, francamen­te, avremmo preferito non occuparci.
Penso al caso Letizia na­turalmente. Se il presiden­te del Consiglio afferma di non essersi comportato co­me un vecchio satiro sono pronto a credergli. Ma il ca­so non sarebbe scoppiato se Berlusconi non avesse creduto di potersi permet­tere comportamenti che provocano reazioni imba­razzate anche da chi non gli è pregiudizialmente osti­le. La vita privata diventa pubblica nel momento in cui sorge il sospetto che l’ebbrezza del consenso ab­bia alterato il concetto che Berlusconi ha di se stesso e delle sue funzioni. Sappia­mo che ha molti fedeli, di­sposti a sostenerlo in qual­siasi circostanza. Ma il suo vero successo dipenderà in ultima analisi da ciò che avrà fatto durante questa le­gislatura. L’Italia ha biso­gno di riforme strutturali e costituzionali. Deve supera­re la crisi e approfittarne per affrontare problemi, dalle pensioni al mercato del lavoro, che hanno lun­gamente rallentato il suo progresso. E’ giusto che il governo conti anzitutto sul­le proprie forze. Ma è sba­gliato credere che il proble­ma delle riforme istituzio­nali possa essere evocato a piacimento con dichiarazio­ni polemiche e iniziative unilaterali, sull’onda delle circostanze, come se non fosse all’ordine del giorno da almeno tre decenni e non richiedesse una intesa con l’opposizione. Con una formula che dovrebbe pia­cere a Berlusconi, l’unica cosa da fare in questo mo­mento è parlare di meno, lavorare di più.

Corriere della Sera 27.5.09
E il premier fa la conta dei nemici
di Francesco Verderami


La serenità perduta del premier
Inquietudine anche per il caso rifiuti. Sollievo sulla Chiesa: fandonie, i rapporti non sono rotti

Un mese fa, dopo il 25 aprile, si sentiva ed era «il presidente di tutti gli italiani». Un mese dopo eccolo, il premier, rifugiarsi nelle viscere dello stadio a San Siro, inseguito dai cori su «Noemi» e «papi», preoccupato che le telecamere possano immortalare la scena, trasformando quelle parole nelle moderne monetine di Craxi.
Il retroscena Il capo del governo racconta della madre e della sorella scomparse: che vuoto nella mia vita

Domenica scorsa per Berlusconi do­veva essere un test per il ritorno in pub­blico, un esperimento nel salotto di ca­sa, al «Meazza», con il suo Milan: è fini­ta peggio della sfida di calcio con la Ro­ma. Così il Cavaliere è tornato a rinta­narsi, a comunicare dal chiuso del suo ufficio, plumbeo nell’umore e sordo agli appelli di quanti gli chiedono di uscire allo scoperto e contrattaccare.
Come se non bastasse la gogna me­diatica di cui si sente vittima, e che gli sta procurando un calo nei consensi e un vistoso danno d’immagine interna­zionale, da giorni è assillato per una nuova offensiva giudiziaria, i cui con­torni gli sono ancora poco chiari, pro­veniente da Napoli, questo è certo, co­me sembra certo che la vicenda sia le­gata al problema dei rifiuti. In princi­pio aveva temuto soltanto per il capo della Protezione civile Bertolaso, ora sa di essere anche lui «nel mirino» e sostiene che «la manovra fa parte del disegno per colpirmi», per lavorarlo ai fianchi e fiaccarlo politicamente.
Quando si perde la serenità ogni om­bra ingigantisce i timori e i sospetti, sebbene l’opinione pubblica continui a sostenerlo nei sondaggi. Così nel san­cta santorum del premier c’è chi — fa­cendo di conto sui suoi «nemici» — ag­giunge alla lista addirittura il tycoon australiano Murdoch, e motiva questa congettura legando l’aumento dell’ali­quota agli abbonamenti per la tv satel­litare, deciso l’anno scorso dall’esecuti­vo, ai ripetuti attacchi del Times con­tro il Cavaliere.
In un’atmosfera davvero surreale, nel governo c’è persino chi racconta di strani conciliaboli dentro e soprattutto fuori dal Palazzo, su un fantomatico «governo di emergenza economica» da approntare se l’argine degli ammor­tizzatori dovesse cedere per l’aumento esponenziale della disoccupazione, precipitando il Paese in una crisi socia­le. «Mi viene da ridere», è stato il com­mento a denti stretti del premier. Ep­pure ieri Bossi è stato sibillino quando ha detto che la crisi economica durerà ancora due o tre anni, per poi aggiun­gere che «tutto dipende da chi sarà al­la guida. Se c’è Berlusconi qualche la­voro si trova». «Se» c’è Berlusconi? Ma la legislatura non termina tra quattro anni?
Il «caso Noemi» è come un fer­mo- immagine, la politica appare fer­ma, in attesa di nuovi e clamorosi col­pi di scena o di una reazione del pre­mier. Così s’inseguono voci su un ritor­no a breve in pubblico di Berlusconi, già stasera all’Olimpico per la finale di Champions, e illazioni senza fonda­mento, compresa quella che vorrebbe la ragazza di Casoria una «nipote segre­ta» del Cavaliere. Ecco quali effetti di­storsivi produce quell’immagine bloc­cata che ipnotizza tutti.
Ma la politica in realtà è in gran mo­vimento. La crisi della giunta siciliana, per esempio, è interpretata nel centro­destra come l’anticipazione di quanto potrebbe accadere nel day-after berlu­sconiano, il rischio cioè dell’implosio­ne del progetto pdl. Sul fronte delle ri­forme si prepara una union sacrée con­tro i progetti del Cavaliere. La Lega poi — come spiega il ministro Calderoli — è «preoccupata di far vedere i risul­tati del governo» e allo stesso tempo «è preoccupata per Berlusconi», per il suo stato d’animo. E nel Carroccio re­sta forte il timore per ciò che potrà de­cidere il premier sul referendum dopo le Europee.
C’è «Noemi» però. E allora si atten­de che persino la Cei prenda posizione sull’argomento. E l’ansia si era impa­dronita anche di Berlusconi, se è vero che ieri mattina — tirando un sospiro di sollievo — ha anticipato a un autore­vole ministro che «tra poco i vescovi italiani assumeranno una posizione comprensiva», che «farà giustizia di quanto si dice in giro, e cioè che si sa­rebbero rotti i rapporti con il mondo cattolico. Non è vero, tutte fandonie. La sinistra si illudeva». In effetti la Cei ha deciso di non esprimere un giudi­zio sul premier, anche se «non si può essere incuranti degli effetti che certi atteggiamenti producono».
Il Cavaliere non ha tirato a indovina­re, ancora una volta deve tutto alle rela­zioni diplomatiche Oltretevere di Gian­ni Letta. «Ma io vi giuro sulla testa dei miei figli che nulla di quanto si dice è vero», ha ripetuto Berlusconi ai suoi più fidati consiglieri: «Ed è avvilente che la sinistra si sia gettata così nelle mie tristi vicende personali». E nel rac­contare la propria tristezza ha evocato la madre e la sorella scomparse, «il vuoto che hanno lasciato nella mia vi­ta ». Medita di prendersi «una rivincita contro i fomentatori d’odio», intanto resta chiuso nel suo bunker. Solo con se stesso e con la sua valanga di con­sensi.

il Riformista 27.5.09
Berlusconi e la questione femminile
di Ritanna Armeni


I suoi più fidi collaboratori sono davvero preoccupati. Si dice che Silvio Berlusconi sia in uno stato di tensione estrema, che minacci di tutto, che, insomma, abbia quasi perso ogni self control. Non c'è da stupirsene.
La situazione non è semplice; anzi, forse per la prima volta dall'inizio della sua avventura politica, le difficoltà del premier sono davvero grandi e nuove, i fronti dai quali difendersi e contro i quali fare fuoco sono molti.
E tuttavia non credo che il nervosismo, la perdita di controllo, le minacce che il premier lancia a questo o a quello siano solo la conseguenza delle sue difficoltà di fronte alle quali - come abbiamo tutti avuto modo di constatare in questi anni - Silvio Berlusconi ha sempre poi recuperato con una marcia in più, con una capacità di spiazzare l'avversario e di mostrare il sorriso anche dopo un triplo salto mortale.
No, io credo che questa volta il capo del Popolo delle libertà non sia colpito dagli attacchi che gli vengono rivolti, ma da una constatazione che sicuramente - abile e sensitivo come è - ha già fatto.
Per la prima volta la sua avventura politica e i suoi nuovi obiettivi hanno incontrato un argine, per la prima volta ha di fronte a sé un muro che non riesce a scalare, per la prima volta il suo percorso personale e di potere subisce uno stop.
Non si tratta di qualche crepa che per quanto evidente non avrebbe portato alla distruzione della casa. E infatti i sondaggi tenevano, qualcuno mugugnava, e quelli che criticavano potevano essere facilmente messi a tacere.
Oggi è diverso. Il problema non sono le incrinature più o meno profonde, ma il fatto che un cammino che avrebbe dovuto portarlo molto più in alto, a nuovi livelli di potere si è fermato. Se la marcia aveva come obiettivo il Quirinale, e la presidenza della Repubblica in un quadro istituzionale che definisse nuovi e più forti poteri per la maggiore carica dello Stato, essa è stata bloccata. Perché comunque vadano le cose da questo momento in poi dalla vicenda di Casoria, alla sentenza Mills, alle reazioni internazionali, è oramai evidente che qualcosa del progetto personale di Silvio Berlusconi si è incrinato in modo, pensiamo, non recuperabile. E questa constatazione che - ammettiamolo - innervosirebbe chiunque è addirittura insopportabile per chi come il premier punta ad addomesticare più che a governare, a conquistare più che a dirigere, e non ha mai cessato di perseguire il mito della cultura aziendalistica da trasferire a un Paese finalmente privo dai lacci e laccioli delle istituzioni e in mano a un leader efficiente, potente e carismatico.
Un sogno si è infranto. E se nei giornali, nelle migliaia di articoli che seguono quotidianamente le vicende del premier se ne parla poco, se solo pochi isolati commentatori lo sottolineano (una fra queste Ida Dominianni sul Manifesto e sul Foglio) questo è dovuto a due problemi che elenco e non in ordine di importanza.
Il primo riguarda l'opposizione che, per quanto in periodo elettorale voglia apparire più arrabbiata e aggressiva, prima che il nuovo affaire Berlusconi scoppiasse, era sostanzialmente rassegnata ad assistere a un'ulteriore ascesa del premier e al prolungarsi del suo governo e del suo potere negli anni a venire. Questa crisi era inaspettata nelle forme e nei contenuti. E trova un'opposizione inadeguata e impreparata che infatti dice una cosa e il suo contrario e non sa mettersi d'accordo sulle modalità politiche e culturali con cui affrontare la nuova situazione, Altri erano i temi su cui si doveva giocare la campagna elettorale. Altri erano i tempi previsti per una ricomposizione di un fronte frammentato come è quello del centrosinistra e della sinistra. Può apparire strano, ma mentre abitualmente l'opposizione misura persino con punte di ostinazione la temperatura all'interno della maggioranza di governo e tende a enfatizzare anche le minime alterazioni, oggi di fronte a un febbrone preferirebbe quasi non guardare il termometro.
Il secondo motivo per cui non viene constatata con lucidità l'entità del danno a Silvio Berlusconi e al berlusconismo è la assoluta imprevedibilità e novità dei contenuti da cui è nata questa crisi. Che non è scaturita dalla vicenda Mills o dal lodo Alfano, questioni quasi scontate e già da tempo metabolizzate dall'opinione pubblica. Per la prima volta nella nostra storia possiamo dire che l'ascesa che pareva inarrestabile di un leader si blocca sulla "questione femminile". Non su uno scandalo sessuale, non su un'amante segreta, non su una questione privata, (come tante che hanno accompagnato figure di statisti importanti) ma su un comportamento personale che dallo stesso premier è stato reso ampiamente pubblico. Ed è stato esibito come esemplare. Il premier in questi mesi ha rivelato a pieno la sua concezione e la sua immagine della donna. Una immagine che per molto tempo aveva usato giocosamente e nella quale aveva abilmente mescolato una idea di libertà, un uso non vittimistico del corpo, un'ammirazione galante e anche una attrazione incontenibile (sulla quale aveva ricevuto anche la comprensione di don Baget Bozzo), ma che a un certo punto è apparsa nella sua verità: donne ridotte a bambole divertenti per chi vuol giocare con loro, oggetto dei favori di uomini potenti, usate, anche se in modo consenziente in politica. Comunque non soggetti autonomi e autorevoli con propri percorsi e proprie storie personali e politiche. Sono state le accuse pacate ma pubbliche di Veronica Lario, le vicende di una giovane donna Noemi Letizia (anch'essa una vittima) i cui rapporti col premier apparsi sui giornali non sono chiari, la preoccupazione di molti ambienti cattolici per la dignità della donna, il nervosismo dei suoi alleati per un comportamento che certamente non è visto favorevolmente da tutto l'elettorato a rendere evidente che si è rotta una sintonia con il popolo che fino a ieri pareva fortissima. Si è incrinata una fiducia di uomini e di donne che magari avrebbero preferito non vedere e non sentire, ma, messi di fronte alla vicenda diventata pubblica, non possono approvare. Possono tacere, questo sì, ma è un silenzio assordante per chi accarezzava l'idea di diventare presidente della Repubblica. Silvio Berlusconi in questo momento ne è stordito.

l’Unità 27.5.09
I fuorilegge di Derrida? Sono il lupo e il sovrano
I re e le bestie? Una cosa ce l’hanno in comune: quella di essere al di sopra della legge... ecco uno dei celebri seminari del filosofo francese
di Jacques Derrida


Con «La bestia e il sovrano» di Jacques Derrida (pp. 438, 46 euro, Jaka Book), inizia la monumentale edizione dei seminari del filosofo francese, oltre 14mila pagine in 43 volumi. Fin dall'inizio della carriera universitaria Derrida scriveva le sue lezioni, tenute tra il 1960 e il 1964 alla Sorbona, dal 1964 al 1984 alla École normale supérieure di Rue d'Ulm e dal 1984 al 2003 all'École des Hautes études en sciences sociales. Derrida ha usato il materiale in alcuni libri, tuttavia la maggior parte di queste pagine è inedita. È il caso de «La bestia e il sovrano», che contiene le prime 13 lezioni del corso tenuto tra il 2001 e il 2003. È l'ultimo anello di una serie di ricerche, iniziate nel 1984, in una visione dove antropologia, politica e filosofia collidono.
Ricordo il titolo proposto per il seminario di quest’anno: la bestia e il sovrano. La, il. Naturalmente cercherò di giustificare questo titolo strada facendo e, direi, passo a passo, forse a passo di lupo.(...)
Avanza a passo di lupo. Lo dico in riferimento alla locuzione proverbiale «a passo di lupo», che in genere indica una sorta di introduzione, di intrusione discreta, addirittura di effrazione non apparente, senza spettacolo, quasi segreta, clandestina, un ingresso che fa di tutto per non farsi notare, soprattutto per non farsi arrestare, intercettare, interrompere. Avanzare «a passo di lupo» significa camminare senza rumore, arrivare senza preavviso, procedere discretamente, in modo silenzioso, invisibile, quasi non udibile e impercettibile, come per sorprendere una preda, come per cogliere di sorpresa ciò che è in vista ma che non vede giungere ciò che lo ha già visto, l’altro che ci si appresta a cogliere di sorpresa, a comprendere di sorpresa.(...)
Avanzerò col suo passo Ciò che il passo di colomba e il passo di lupo hanno in comune è che non li si sente mai, questi due passi. Ma uno annuncia la guerra, il capo della guerra, il sovrano che comanda la guerra, l’altro comanda silenziosamente la pace. Sono due figure fondamentali della grande zoo-politica che ci preoccupa qui, che non cesserà e già non cessa di occuparci. Queste due figure preoccupano il nostro spazio.
(...)Immaginate un seminario, dicevo ancora, che cominciasse così, a passo di lupo: «Lo mostreremo fra poco». Cosa? Beh, «Lo mostreremo fra poco».
Ormai, è ora, avrete già riconosciuto la citazione.
È il secondo verso di una favola di La Fontaine che mette in scena uno di questi lupi di cui parleremo molto di qui, il lupo della favola intitolata Il lupo e l’agnello. Eccone i primi due versi: la favola inizia con la morale, questa volta, prima del racconto, prima del momento narrativo così differito, cosa piuttosto rara.
«La ragione del più forte è sempre la migliore: lo mostreremo fra poco».(...)
Mi riferisco a ciò che Pascal ha messo sotto il titolo di Ragione degli effetti: «La giustizia è soggetta a contestazioni, la forza è riconoscibilissima e senza dispute. Così non si è potuto dare la forza alla giustizia, perché la forza ha contraddetto la giustizia e ha detto che quella era ingiusta e ha detto che solo lei era giusta. E così, non potendo far sì che ciò che è giusto fosse forte, si è fatto sì che ciò che è forte fosse giusto».(...)
Nel Contratto sociale (Capitolo II) Rousseau si oppone a una certa animalizzazione della politica: «Sicché secondo Grozio, è dubbio se il genere umano appartenga a un centinaio di uomini o se questo centinaio di uomini appartenga al genere umano, e sembrerebbe da tutto il suo libro che egli propenda piuttosto per la prima ipotesi: e Hobbes la pensa anch’egli così. Ecco dunque il genere umano diviso in mandrie di bestiame, ciascuna delle quali ha un suo capo, che la custodisce per divorarla».(...)
Secondo la rappresentazione corrente, alla quale facciamo riferimento per cominciare, il sovrano e la bestia sembrano avere in comune il loro essere al di fuori della legge. È come se entrambi si collocassero, per definizione, lontano o al di sopra della legge, nel non rispetto della legge assoluta, della legge assoluta che stabiliscono o che sono ma che non devono rispettare. L’essere fuori dalla legge può senza dubbio, da un lato, ed è la figura della sovranità, assumere la forma dell’essere al di sopra della legge, e quindi la forma della Legge stessa, dell’origine della legge, del garante delle leggi, come se la Legge, con la L maiuscola, la condizione della legge, fosse prima, al di sopra e quindi al fuori della legge, esteriore, addirittura eterogenea rispetto alla legge; ma l’essere al di fuori della legge può anche individuare il luogo in cui la legge non appare, o non è rispettata, o si fa violare. Sebbene questi modi di essere al di fuori della legge (che sia quello di ciò che viene chiamata bestia, che sia quello del criminale, addirittura di quel grande criminale di cui parlavamo l’anno scorso e che Benjamin diceva affascini le folle, anche quando lo si condanna e lo si giustizia, perché sfida, con la legge, la sovranità dello Stato come monopolio della violenza, o che sia l’essere al di fuori della legge del sovrano stesso), questi vari modi di essere al di fuori della legge possano sembrare eterogenei tra loro, addirittura eterogenei rispetto alla legge, resta che, condividendo questo comune essere al di fuori della legge, la bestia, il criminale e il sovrano si assomigliano in modo sconcertante; si richiamano e si evocano tra loro (Qui può finire ma anche il resto non sarebbe male) uno con l’altro; c’è tra il sovrano, il criminale e la bestia una sorta di oscura e affascinante complicità, addirittura un’inquietante mutua attrazione, un’inquietante familiarità, una unheimlich, uncanny ossessione reciproca. Tutti e due, tutti e tre, l’animale, il criminale e il sovrano sono al di fuori della legge, lontano o al di sopra della legge; il criminale, la bestia e il sovrano si assomigliano stranamente mentre sembrano collocarsi agli antipodi, agli antipodi uno dell’altro.

Corriere della Sera 27.5.09
Centri nel caos
Fecondazione senza regole dopo la sentenza della Consulta
Dopo la sentenza della Consulta sul numero di ovociti. Incertezza dei medici: «Serve un protocollo comune»
di Monica Ricci Sargentini


Le norme. La legge 40 prevedeva il limite dei tre ovociti, ora dovranno essere i sanitari a decidere volta per volta
Le cifre. In un anno in Italia sono oltre 55 mila le coppie che si rivolgono agli ospedali e quasi 10 mila i bambini nati con la procreazione assistita

Dopo la sentenza il caos. I giudici della Corte Costituzionale han­no cambiato la legge 40 sulla fe­condazione assistita rimettendo nelle mani dei medici la scelta del numero di ovociti da inseminare ma molti centri, soprattutto pubblici, continua­no ad applicare le vecchie rego­le: si fecondano al massimo tre ovociti e si trasferiscono tutti gli embrioni prodotti in un uni­co e contemporaneo impianto.
«Prima di cambiare voglia­mo essere sicuri di cosa possia­mo o non possiamo fare — di­ce Andrea Gallinelli, responsa­bile del maggiore centro di Pma (Procreazione medicalmente assi­stita) della Toscana, l’Ospedale della Ver­silia a Viareggio —. Con gli altri medici stiamo cercando di stabilire una linea co­mune, in modo da non lasciare al singo­lo la patata bollente. Per partire aspettia­mo un via libera dalla Regione».
Stessa linea nel centro diret­to da Guido Ambrosini all’Uni­versità di Padova: «Questa leg­ge non è chiara — dice —. In realtà lascia al ginecologo la possibilità di fecondare in base alla caratteristica della pazien­te ma qual è il limite? Se una donna di 43 anni produce 15 ovociti, io, che in scienza e co­scienza vorrei fecondarli tutti, posso farlo? Abbiamo paura della reazio­ne del ministero, vorremmo regole cer­te. Per questo ho interpellato anche i Nas. Presto, comunque, applicheremo la legge».
Il risultato è un’Italia disomogenea con comportamenti diversi da ospedale a ospedale. Un problema non da poco che tocca il 10-15% dei cittadini in età fertile. Nel 2007 sono state più di 55mila le cop­pie che si sono sottoposte a cu­re nel nostro Paese e sono nati oltre novemila bambini. Un al­tro numero imprecisato, sicura­mente migliaia, ha oltrepassa­to la frontiera. Ora i pazienti so­no confusi. In Lombardia, per esempio, la maggior parte dei centri ha varato un documento che recepisce la sentenza: «Gli avvocati sono stati chia­rissimi — dice Guido Ragni, consulente del Centro di sterilità della Mangiagalli — se uno non cambia rischia le penalità pecuniarie previste dalla legge 40. Noi siamo obbligati a produrre gli embrioni necessari a un serio tentativo».
L’idea è quella di partire da una gri­glia divisa in fasce d’età. Se una donna ha meno di 35 anni si insemineranno sei ovociti, se ne ha tra i 35 e i 40 si arriverà ad otto. Passati i quaranta si feconda tut­to. Ovviamente peseranno anche altre considerazioni: la qualità del liquido se­minale, i precedenti fallimenti e il tipo di risposta ovarica della donna. «Abbia­mo previsto una serie di eccezioni — spiega ancora Ragni —, per esempio si feconderanno tutti gli ovociti se la pa­ziente ha avuto un tumore oppure soffre di trombofilia o se rischia l’iperstimola­zione ovarica». Un protocollo simile, promosso dalla Società italiana studi di medicina della riproduzione (Sismer), è stato firmato da oltre 40 centri, pubblici e privati, sparsi in tutta Italia. «La senten­za ci permette di offrire alle pazienti il massimo di possibilità riducendo al mi­nimo il congelamento — dice Anna Pia Ferraretti, responsabile del Sismer di Bo­logna —. Poi è chiaro che ogni centro agirà come crede. È proprio questa la no­vità, si può diversificare».
Ma c’è anche chi è convinto che la leg­ge 40 così com’era desse già il massimo di chance alle donne in cerca di un fi­glio. «Da noi non è cambiato niente — dice Eleonora Porcu, responsabile del centro di fecondazione del Sant’Orsola di Bologna —. Io mi rifaccio alla mia esperienza professionale, ho risultati pa­ragonabili alla media europea fecondan­do tre ovociti, a volte anche solo due, con una percentuale che, nelle donne fi­no a 35 anni, sfiora il 50%. Noi stiamo già tutelando la salute delle donne e que­sto senza dover congelare embrioni. L’idea di ritrovarsi di nuovo con i bidoni di azoto liquido pieni mi sembra vera­mente anacronistica».
Al San Raffaele di Milano sono di fron­te a un dilemma. La natura cattolica del­la Fondazione imporrebbe di non conge­lare embrioni ma la Corte Costituzione ha stabilito che la donna ha diritto ad un numero di embrioni congruo per effet­tuare un serio tentativo. Conciliare le due cose sembra impossibile. Per chiarir­si le idee i medici si sono dati appunta­mento il prossimo week end a Riccione dove sperano di mettersi d’accordo defi­nitivamente su un protocollo comune. «Sarà il primo congresso confederato di tutte le società di medicina della riprodu­zione — dice Filippo Ubaldi, direttore cli­nico del centro g.en.e.r.a. a Roma—. Io però non sono d’accordo sullo stabilire una griglia con un numero fisso di ovoci­ti da inseminare. La Corte Costituzionale ha tolto il numero, non vedo perché dob­biamo rimetterlo noi».
Le pazienti sono in fibrillazione. Do­po aver gioito per la sentenza ora si sen­tono prese in giro. Nei forum si scambia­no informazioni sui centri per boicotta­re quelli che si comportano come se nul­la fosse accaduto. «Se li conosci li eviti» è il loro motto. La Fiapi (Federazione ita­liana pazienti infertili) sollecita le socie a farsi mettere per iscritto dall’ospedale che intende procedere come prima in modo da poter poi ricorrere alle vie lega­li. «Siamo pronti a fare causa — dice Fe­derica Casadei, presidente e fondatrice di Cerco un bimbo, portale sull’infertilità con 22mila utenti — con denuncia per danni perché sottoporre una donna a ri­petute stimolazioni costa molti soldi ai contribuenti. Se i medici hanno paura ad applicare la legge cambino mestie­re ».
Indignato è Carlo Flamigni, esperto di fecondazione artificiale, oggi nel Comita­to nazionale di bioetica: «I medici sono un branco di codardi. Hanno paura di punizioni ministeriali. Troveranno il co­raggio di fare il loro dovere solo quando le pazienti li porteranno in tribunale. La sentenza è chiara e nessuna legge potrà più cambiare il principio sancito dalla Corte e allora che aspettano?».
Al ministero, intanto, preparano le li­nee guida soprattutto per aderire alle di­rettive europee che impongono un innal­zamento dei livelli qualitativi di tutti i centri che utilizzano cellule umane a sco­po terapeutico. Oggi, in una conferenza stampa, il ministro del Welfare Maurizio Sacconi e la sottosegretaria alla Sanità Eugenia Roccella, annunceranno la na­scita di due commissioni, quella sulla procreazione assistita, che vigilerà sul funzionamento della legge 40, e quella sulla crioconservazione. «Per le linee guida — spiega Roccella al Corriere — ci vorrà qualche mese ma le differenze tra centro e centro rimarranno perché sono una conseguenza della sentenza della Corte Costituzionale che dà una maggio­re responsabilità al medico. Noi, intan­to, daremo indicazioni di massima attra­verso la Società italiana di ginecologia. Il divieto di crioconservazione, comun­que, è rimasto ma con delle deroghe». Ma se un centro decide di fecondare sei ovociti e, ottenuti tre embrioni, trasferir­ne solo due, congelandone uno, è nella legalità? «Sì, lo è — risponde Roccella —. Comunque questi dubbi si supere­ranno con le linee guida ma il problema ora è adeguarsi all’Europa. Bisogna rifa­re tutto. In Italia non tutti i centri posso­no offrire i livelli di qualità che vengono richiesti adesso. Per questo abbiamo bi­sogno di tempo. E a quel punto anche le ispezioni diventeranno un obbligo»

Corriere della Sera 27.5.09
All’Humanitas di Rozzano
«Decidiamo caso per caso. E congeliamo gli embrioni»
di Mo. Ri. Sar.


MILANO — Una mattina come un’altra, l’11 mag­gio scorso, all’Humanitas è avvenuta una piccola ri­voluzione. Le pazienti si sono presentate, come sempre all’alba, chi per controllare la stimolazione in corso, chi per il pick up ma questa volta l’enor­me struttura pubblica di Rozzano (Milano), che vanta ben 2.500 cicli di fecondazione all’anno, ha valicato il limite dei tre ovociti. Da allora ogni pa­ziente è un caso a sé.
Capelli arruffati, occhiali vezzosamente colorati, Paolo Emanuele Levi Setti, responsabile di medici­na della riproduzione, si aggira per i corridoi con l’aria visibilmente soddisfatta. «La Corte — dice— ha rimesso nelle mani del medico quello che solo per la Pma (Procreazione medicalmente assistita n.d.r.) era stato rubato ma contemporaneamente ci ha dato un’enorme responsabilità. E noi ce la prendiamo volentieri».
Come hanno reagito le coppie al cambiamen­to?
«Le coppie più informate sono contentissime. Hanno fatto persino una festa. Per le altre c’è un po’ di confusione. Una quota non piccola non si è ancora resa conto dell’accaduto. Altre, invece, han­no problemi etici a crioconservare e in quel caso noi siamo tenuti a rispettare il loro desiderio».
E se una donna vi chiede di fecondare tutti gli ovociti?
«La scelta rimane al medico. Non è che siamo al supermercato della fertilità. Però c’è una grande partecipazione dei pazienti al percorso. Il punto fer­mo è che la Corte ha stabilito che la tutela più alta è quella della madre. Insemineremo molti ovociti se l’età della donna è più avanzata o se l’uomo ha pro­blemi di fertilità. Invece in una donna giovane, con buone probabilità di avere una gravidanza, che pro­duce tanti ovociti, si pensa a fecondarne una parte per arrivare a trasferire uno o due embrioni. Quelli sovrannumerari che evolvono verranno congelati ed una parte degli ovociti crioconservati».
C’è una scelta degli embrioni?
«Una scelta naturale. Degli embrioni che si ferti­lizzano in genere al massimo un 50% si sviluppa fino alla quinta giornata».
Per le coppie, dunque, non c’è più motivo di andare all’estero?
«Molti andavano all’estero per congelare embrio­ni ma poi magari tornavano a mani vuote. In verità se si congela bene si congela poco. Più si va in Pae­si con leggi meno restrittive e meno embrioni ver­ranno congelati perché si può scegliere. Ora in Ita­lia siamo competitivi, abbiamo più chance che in Svizzera o in Germania. Non stiamo parlando di fa­re eugenetica, non è una selezione, ci sono embrio­ni che si sviluppano e altri che non crescono. E se non cresci non ti impianti. Certo rimane un motivo serio per andare all’estero».
Quale?
«Chi ha problemi di menopausa precoce, chi è sopravvissuto a un tumore, le donne ancora giova­ni di 40-42 anni con ovaie che non funzionano più subiscono una limitazione e un obbligo all’esilio perché in Italia la fecondazione eterologa (con do­nazione di sperma o ovuli n.d.r.) rimane vietata. E per queste persone la sofferenza è indicibile. Il di­vieto, tra l’altro, apre la via al commercio dei game­ti che in Italia era proibito quando si poteva fare l’eterologa. Mentre all’estero questo avviene ecco­me ».
Per loro c’è una soluzione possibile?
«Si potrebbe rendere donabili gli embrioni crio­conservati prima della legge e da ora in poi. In que­sto momento la coppia si impegna ad usarli nel più breve tempo possibile ma potrebbe scegliere di do­narli se fosse previsto dalle linee guida».

Corriere della Sera 27.5.09
Il Porfirio scampato al rogo
di Armando Torno


Un secolo dopo che Adolf von Harnack raccolse i frammenti del trattato del neoplatonico Porfirio, esce in italiano la prima traduzione integrale di Contro i cristiani (a cura di Giuseppe Muscolino e Giuseppe Girgenti, Bompiani, pp. 640, e 20). Risale alla fine del III secolo, è un attacco basato su un esame storico, filosofico, filologico e teologico della Bibbia. Ben più forte del precedente Il discorso vero di Celso, del tempo di Marco Aurelio, conservatoci nella confutazione di Origene. Se le polemiche anticristiane sino a quel momento negavano Gesù come logos dei greci o Messia dei profeti ebrei, Porfirio acuì l’attacco: escludeva la possibilità di conciliare pensiero greco e cristianesimo, soprattutto negava la correttezza dell’uso ermeneutico dell’allegoria per interpretare la Scrittura. L’opera fu proscritta da Costantino poco prima del Concilio di Nicea (325 d.C.), poi data alle fiamme sino all’ultima copia nel 448 d.C. Harnack raccolse i frammenti nelle opere dei confutatori; questa edizione ha in appendice anche quelli ritrovati in altri autori o in nuovi papiri dopo il 1916.

Corriere della Sera 27.5.09
Una risposta a Nicola Cabibbo, convinto che nel Seicento ai teologi mancassero gli strumenti per valutare le tesi dello scienziato
La Chiesa comprese Galileo ma non fu meno colpevole
Il pentimento di oggi lascia intatte le responsabilità di ieri
di Emanuele Severino


Nel suo articolo «Perché i teologi non capirono Galileo» («Corriere», 6 maggio) Nicola Cabibbo sottolinea opportunamente l’insistenza di Gali­lei per ottenere il titolo di Filosofo e Matemati­co primario del Gran duca, nella Firenze dei Me­dici. «Non solo Matematico», scrive Cabibbo, «ma anche e anzitutto Filosofo». E altrettanto opportunamente richiama l’opposizione di Gali­lei alla filosofia aristotelica (che sta alla base del­la teologia cattolica) in nome di quella pitagori­ca e atomistica. Ma che cosa intende Galilei con la parola 'Filosofo'? La questione è decisiva. So­lo a partire da essa si può accertare se la Chiesa del primo Seicento non abbia saputo «valutare correttamente», come sostiene Cabibbo, «l’im­patto filosofico della nuova scienza».
Il pitagorismo e l’atomismo democriteo diffe­riscono certamente dall’aristotelismo, ma con quest’ultimo hanno in comune l’essenziale. Ta­le tratto essenziale queste filosofie l’hanno in comune con lo stesso pensiero di Galilei. Insie­me ad altri, altrettanto essenziali, esso accomu­na l’intera tradizione filosofica dell’Occidente. Galilei lo indica con potenza e nel modo più esplicito. Ad esempio verso la fine della «prima giornata» del Dialogo dei massimi sistemi.
Si incomincia a introdurre, in questo testo, «una distinzione filosofica» tra l’«intensità» (os­sia la qualità, il grado di perfezione) e l’«esten­sione » della conoscenza. Quanto all’«estensio­ne », l’intelletto umano conosce ben poco, ma quanto all’«intensità» delle «proposizioni» es­so «ne intende alcune così perfettamente, e ne ha così assoluta certezza» da eguagliare la stes­sa conoscenza che Dio possiede di esse. Sono le «proposizioni» delle «scienze matematiche pu­re, cioè la geometria e l’aritmetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizio­ni di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall’intelletto umano credo che la cogni­zione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, so­pra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore». In queste righe sta parlando la gran­de filosofia — e, propriamente, la grande tradi­zione del pensiero filosofico.
L’intelletto divino conosce tutte le infinite proposizioni matematiche; quello umano ne co­nosce «poche» («è come nullo»); ma quelle po­che le conosce come sono conosciute dall’intel­letto divino. I due intelletti sono uguali quanto alla «certezza obiettiva», quella cioè che non ha come contenuto qualcosa di illusorio o di pro­babile, ma la realtà stessa così come essa è. E perché l’intelletto umano riesce ad «agguaglia­re » quello divino quanto alla «certezza obietti­va »? Perché — e qui la forza filosofica del testo raggiunge il proprio culmine —, rispetto alle «proposizioni» matematiche l’intelletto umano «arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggio­re ».
La necessità! La filosofia nasce portando alla luce il senso della necessità — la necessità di un sapere che non possa essere smentito da al­cuna potenza umana o divina — di un sapere, dunque, che eguaglia, quanto alla sua 'intensi­tà', lo stesso sapere di un Dio. Si dice, di Dio, che è l’Ente di cui non si può pensare uno mag­giore; ma innanzitutto è la necessità a mostrarsi come la 'sicurezza' (l’incontrovertibilità) della quale non si può pensare una maggiore e che quindi è essa a garantire la stessa sicurezza in­torno all’esistenza di un Dio.
In quelle righe di Galilei sta parlando la gran­de filosofia perché l’affermazione che alle pro­posizioni matematiche compete la necessità, «sopra la quale non par che possa esser sicurez­za maggiore», tale affermazione, dico, non è un’affermazione matematica, ma filosofica. Al­la filosofia, non alla scienza, compete da sem­pre il compito di comprendere il senso della ne­cessità e della non-necessità e di stabilire a qua­li conoscenze competa l’una o l’altra di queste due fondamentali categorie. Eschilo, uno degli alti sovrani della filosofia, esprime l’intera tradi­zione filosofica dicendo che «la tecnica è trop­po più debole della necessità»: più debole, cioè più insicura della necessità sopra la quale non può esservi sicurezza maggiore. Oggi, attraver­so una grandiosa apocalisse del pensiero filoso­fico, si deve dire che la necessità è troppo più debole della tecnica. E nemmeno questa è un’af­fermazione di carattere scientifico-tecnologico. Relativamente alla convinzione che la necessità costituisca la «sicurezza maggiore», Galilei sta comunque dalla parte di Eschilo, Platone, Ari­stotele, Agostino, Tommaso. Per lungo tempo, fino ad Einstein compreso, la scienza starà da questa parte. Poi, anche la scienza, e anche la stessa «geometria» e «aritmetica», giungeran­no a considerare le proprie «proposizioni» non come delle necessità, ma come ipotetiche, pro­babili, falsificabili.
E la Chiesa? La Chiesa che condanna Galilei? Bisogna proprio dire che non fu all’altezza del suo grande interlocutore e che non seppe «valu­tare correttamente l’impatto filosofico della nuova scienza», secondo quanto sostiene Cabib­bo? La risposta va articolata. Da un lato, il senso che per Galilei compete alla necessità è quello stesso che la Chiesa tien fermo. Tra la Chiesa e il suo avversario esiste, su questo punto fonda­mentale, una profonda solidarietà. Sia l’una sia l’altro credono che nell’uomo sia presente un sa­pere necessario. Dall’altro lato, la Chiesa del XVII secolo ritiene che la necessità competa alla filosofia di Tommaso d’Aquino e quindi, da ulti­mo, alla sapienza filosofica greca, soprattutto a quella aristotelica, mentre per Galilei la necessi­tà compete, nella conoscenza della natura, sol­tanto alla matematica.
Ma proprio per questo nella Chiesa di quel tempo ci fu chi seppe «valutare correttamente l’impatto filosofico della nuova scienza», ed eb­be anzi una comprensione di essa essenzial­mente più avanzata di quella del suo pur gran­dissimo interlocutore. Mi riferisco al cardinale Roberto Bellarmino. Egli ebbe a possedere della scienza, matematica compresa, lo stesso concet­to che la scienza ha oggi di sé stessa: di non es­sere un sapere necessario, ma soltanto ipoteti­co, probabile, falsificabile. E appunto per que­sto egli esorta Galileo a esporre le proprie dottri­ne non come un sapere necessario che costrin­ge 'assolutamente' a modificare la lettera delle Scritture (cioè l’affermazione del movimento del sole), ma come ipotesi che, come tali, posso­no convivere con quella lettera. E aggiunge che se ci fosse «vera dimostrazione» della teoria co­pernicano- galileana — se questa teoria apparis­se cioè come una necessità — «allora bisogne­ria andar con molta considerazione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto di­re che non l’intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra». Quel che si dimostra come necessario non può essere falso — anche se, insieme, egli dichiara di avere «grandissimo dubbio» che quella «vera dimostrazione» ci possa essere. Il dubbio da cui dev’essere afferra­to chi ormai, a differenza di Galilei, si è reso conto che la scienza non può parlare 'assoluta­mente'. La Chiesa che oggi si pente di aver con­dannato Galilei è cioè meno avanzata di quella che lo ha condannato. Questo, si capisce, guar­dando al puro contenuto concettuale della con­troversia, non al contesto storico-sociale in cui essa si è svolta.