sabato 30 maggio 2009

Repubblica 30.5.09
Psicoanalisi
Perché è finita una rivoluzione culturale
di Luciana Sica


Parla l´analista Luigi Zoja "Freud e Jung hanno cambiato la visione del mondo, ora invece nessuno affronta più le grandi questioni"
"Il mio prossimo libro si chiamerà ‘La follia di Aiace´ sulla paranoia nella storia"
"C´è un´attenzione quasi esclusiva ai problemi tecnici legati alla cura dei pazienti"

«Oggi la psicoanalisi ha un grave limite: si occupa quasi esclusivamente dei problemi clinici e tecnici legati alla cura dei pazienti. Ma questa è una regressione rispetto alle idee di Freud, e anche di Jung. Ben altro è stata infatti la psicoanalisi nel ventesimo secolo, una rivoluzione della visione dell´uomo che ha plasmato la cultura, dalla letteratura al cinema, dalla musica all´arte... Negli ultimi anni invece prevale la pratica terapeutica: gli analisti non tematizzano più le grandi questioni culturali, si rinchiudono nelle loro "stanze", in un mondo sempre più autoreferenziale e marginale. La psicoanalisi dovrebbe tornare ad essere quella che è sempre stata: una griglia di lettura della realtà, una terapia della cultura».
Il j´accuse è di Luigi Zoja, autore di libri uno più colto dell´altro, tradotti anche in una decina di idiomi diversi, un analista che con i suoi pazienti può conversare in inglese, tedesco, francese, spagnolo - oltre che in italiano, naturalmente. L´orientamento cosmopolita di Zoja segna una biografia insolita e intensa, la formazione a Zurigo allo Jung Institut, gli anni newyorchesi, gli incarichi di prestigio (dal ´98 al 2001 ha rappresentato gli junghiani di tutto il mondo come presidente dell´International Association for Analytical Psycology). E poi gli incontri con personalità di prim´ordine, come James Hillman che ha conosciuto alla fine degli anni Sessanta ed è suo amico («lo vedrò in agosto negli Stati Uniti»).
Oggi, a sessantacinque anni, Zoja vive a Milano con la moglie che è un´analista per l´infanzia («ma l´Italia non mi entusiasma») e - come dice, in questa intervista - trascorre più della metà del tempo a scrivere. È senz´altro così se in marzo è uscito da Einaudi un suo saggio di grande appeal su La morte del prossimo e di recente, da Bollati Boringhieri, Contro Ismene: un libro che raccoglie le sue "Considerazioni sulla violenza", come chiarisce già il sottotitolo (pagg. 160, euro 12).
A dieci anni da Il gesto di Ettore sulla scomparsa del padre, in Contro Ismene affronta il tema dei conflitti umani nelle loro forme più aggressive. Per lei il ricorso alle grandi figure della mitologia è d´obbligo?
«Sì, per me è d´obbligo, e sono anche recidivo - seppure Il gesto di Ettore in nessun´altra lingua ha conservato il titolo originale: troppo classicheggiante, dicevano. Ma io insisto, tanto che il mio nuovo libro sulla paranoia nella storia ha come titolo provvisorio La follia di Aiace».
Magari è la sua formazione a imporlo: lei appartiene a un filone junghiano incline a privilegiare le immagini dei miti, le grandi figure archetipiche, non è così?
«Non sono un fanatico "archetipista", e ormai più che di inconscio collettivo preferisco parlare di inconscio culturale... Utilizzo Ismene come un grande simbolo negativo del pensiero non critico, del conformismo, della sudditanza agli ordini superiori, ed è sottintesa l´assoluta preferenza per la sorella Antigone, che muore per il fratello già morto, perché siano rispettati i riti che esistono da sempre e il sentimento fondamentale della pietà - un´immagine però davvero troppo sfruttata, quasi ovvia».
Un po´ in tutti i suoi libri - anche in Giustizia e bellezza, quel trattatello dove metteva insieme etica ed estetica - il presente non viene mai schiacciato sull´attualità. Vuole ricordarci che non siamo nel primo mattino del mondo?
«La maggior parte degli esseri umani non è consapevole del ruolo del passato sui modi di pensare dominanti. In questo mio nuovo libro sulla violenza, gli stessi rimandi linguistici non sono mai casuali o posticci perché anche scavando nell´origine delle parole, nella loro etimologia, vediamo come il linguaggio e quindi la cultura in cui abitiamo ha un inconscio. Quest´operazione di scavo segna del resto da sempre la psicoanalisi, da quando Freud amò citare quel motto tratto dall´Eneide per alludere al destino del rimosso: Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo».
Se ci si limita a ragionare solo in termini di politica, di economia, di religione, dei conflitti umani più estremi rimane sempre una quota molto alta di incomprensibilità. Non a caso Freud alla fine ha parlato di un istinto di morte, di una mortido contrapposta alla libido... Lei crede nel Male in sé?
«Nella psicologia junghiana parliamo dell´"Ombra", non tanto di un derivato degli istinti ma di una categoria di puro carattere psicologico che non affonda nella dimensione biologica ma neppure corrisponde all´immagine cosciente del soggetto, e che tuttavia esiste e sempre contiene pulsioni asociali. Per esemplificare, direi che il ventesimo secolo è stata una galleria degli orrori dominata dall´"Ombra" - o anche dall´istinto di morte, se si preferisce il lessico freudiano».
Già negli anni Sessanta, Franco Fornari parlava di un inconscio depositario di proiezioni assassine per evitare l´incontro con la propria distruttività. La trova una chiave di lettura condivisibile anche oggi?
«È una lettura senz´altro ancora valida, e che in qualche modo utilizzo nel mio nuovo studio sulla paranoia, quella patologia che rigetta ogni colpa sull´altro e può letteralmente infettare le masse, se a esserne colpito è un tipo come Hitler... Ecco, ad esempio, la lezione di Fornari è molto più utile di certi specialismi a cui tendono oggi le scuole analitiche».
Cent´anni di psicoanalisi. E il mondo va sempre peggio, era il titolo provocatorio di un pamphlet firmato dal suo amico Hillman... Ma davvero si può attribuire ogni clamoroso fallimento della ragione alla psicoanalisi?
«Di quel libro sono stato io a consigliarne la traduzione, ma il titolo non mi è piaciuto per niente: e l´ho anche scritto. Ma chi l´ha detto che il mondo dovesse andare meglio, grazie alla psicoanalisi? Questa è una pura ingenuità che proviene dagli aspetti più cheap della cultura americana... Io poi non sono così pessimista, altrimenti non continuerei a fare il mestiere dell´analista e a scrivere: penso che nei passaggi decisivi della storia c´è sempre una nicchia di persone che ragiona con la propria testa e interpella la propria coscienza - e fino a quando potremo contare sull´esistenza di questa gente un futuro migliore sarà sempre possibile».

Repubblica 30.5.09
L’attualità del caso Galileo mentre si chiude a Firenze un convegno a lui dedicato
Se la Chiesa processa gli eretici di oggi
di Adriano Prosperi


A cento anni dalle sue scoperte, il rito accusatorio contro lo scienziato ripropone tutta la violenza contro la Ragione di cui la Fede è capace

L’invito a rileggere il processo a Galileo spicca nel programma del convegno fiorentino che si chiude oggi ad Arcetri. E´ un invito da prendere sul serio. La ricorrenza centenaria di quello straordinario 1609 quando Galileo passò le notti a guardare il cielo col cannocchiale ha certamente qualcosa da dire al nostro presente. Quello fu un momento altissimo della cultura italiana nella fase matura della sua egemonia europea, come documenta la splendida mostra fiorentina curata da Paolo Galluzzi. Ad esso seguì un precipitoso declino. Anche a causa di quel processo, col quale, scrisse John Milton, la censura ecclesiastica «spense l´ardore dell´ingegno italiano». Si chiudeva il processo a Galileo, si apriva quello alla Chiesa . Oggi sono le autorità della Chiesa cattolica a difendersi, parlando di un «malinteso», di una «reciproca incomprensione» (così papa Wojtyla), di un problema del rapporto «tra ragione e fede», come scrive l´attuale arcivescovo di Firenze. Fede e Ragione, Chiesa e Ricerca: grandi parole, frastornanti per chi vuol capire che cosa accadde allora. Per questo bisogna rileggere i documenti.
Davanti alle carte processuali si è presi come da una vertigine pensando alla storia che documentano e a quella che hanno creato. Una storia non di avventure, di fede e di passione, come avrebbe detto Benedetto Croce, ma piuttosto di violenze e di astuzie, di volpi e di leoni. Astuzia di Galileo, per esempio. Aveva a che fare con poteri occhiuti e sospettosi. Perciò si tutelò con ben due «imprimatur» nel pubblicare il suo Dialogo: il che mise in imbarazzo i giudici e dette al processo un andamento peculiare. Il potere gli si presentò coi modi vellutati del gesuita Bellarmino nell´incontro del febbraio 1616, quando il cardinale cercò di convincere quel brillante professore a dissimulare la sostanza della sua scoperta. Ma la violenza dei nemici – tanti, per l´odio che sempre si scatena davanti alla vera creatività - era già nell´aria se, come sembra, è autentico il discusso documento dell´intimazione del Commissario Segizzi su cui il processo del 1633 fece leva. Il processo, un testo di inesauribile fascino drammatico, all´altezza delle massime espressioni del teatro barocco, si concluse come doveva. Galileo si arrese alla forza mascherata di diritto: «Son qua nelle loro mani, faccino quello li piace».
Il fascicolo fu riposto nell´archivio del Sant´Uffizio, il carcere-tribunale più antico di tutta Italia, un vero monumento storico dell´immobilità del potere nel paese più ballerino e traballante d´Europa. Ci vollero le armate di Napoleone per farlo uscire da lì. Quello che se ne seppe fu solo la sentenza di condanna, inviata a pochi e ben mirati destinatari. In Italia i professori lessero e giurarono. Lo stesso fecero quasi tutti i loro eredi del secolo scorso, negli anni dell´abbraccio fra regime fascista e Santa Sede. Riflessi condizionati. Su questi precedenti si basano i tentativi che ancora si fanno da noi di imporre vincoli di legge a chi cura gli immigrati , i malati, i morenti.
Oggi su queste carte antiche si tenta di aprire un processo nuovo: non più quello di rito inquisitorio, della rigorosa ricerca della verità, ma quello di rito accusatorio in cui il giudice media tra due contendenti . Al posto di Galileo che voleva che la terra si muovesse c´è oggi la Scienza. Al posto di papa Barberini che la voleva immobile c´è la Fede, candida e benevolente. E´ tra questi due contendenti che si vuole cercare l´accordo. Ma, come sono in genere i patteggiamenti che nei tribunali permettono di beffare la giustizia, anche questa offerta di accomodamento sembra piuttosto truffaldina. La fede, quella con la minuscola, non c´entra, non è una istituzione, è una cosa che ha tante forme quanti sono gli esseri umani. C´entra la Chiesa come potere, quel potere che in Italia ha fatto di ogni riformatore un eretico. La «reciproca incomprensione» è una formula adatta alle liquidazioni di incidenti automobilistici per «concorso di colpa». E la colpa di Galileo è una sola: a lui si dovette la sconfitta del sistema di potere che saldava filosofia aristotelica e geografia tolemaica nel disegno di un mondo chiuso sotto il sigillo simbolico del Libro sacro affidato da un Dio al di sopra delle nubi a un Vicedeo in terra. Quel fatto è incancellabile. Dagli orizzonti di allora il mondo si è allontanato quanto da noi si allontanano i satelliti che portano il nome di Galileo tra le stelle.

l’Unità 30.5.09
Immigrazione religione confusione
Permessi di soggiorno in nome di Dio
di Flore Murard-Yovanovitch


La questione “immigrazione” è diventata in Italia il terreno sociale prediletto della Chiesa. Nei migranti essa identifica i nuovi “deboli” e gli “indifesi”, i naturali destinatari della sua beneficenza e della sua retorica. Tanto da sembrare oggi in prima fila nella denuncia delle politiche migratorie del Paese e del “pacchetto sicurezza”, come l’ultimo fronte che resista all’onda di xenofobia.
Non ultima la notizia che i padri comboniani vogliono dare «permessi di soggiorno ai migranti... in nome di Dio!». Padri missionari in testa, la rete delle associazioni cattoliche si sta preparando per la Giornata mondiale del Rifugiato del prossimo 20 giugno a rilasciare, a chi viene considerato irregolare, un permesso di soggiorno “quasi” identico a quello del ministero dell’Interno, che porterà la dicitura «Ministero del Cielo».
Nonostante l’intento provocatorio mirato forse a risvegliare autorità e cittadini, l’iniziativa sottende il forte grado di confusione culturale che circonda la questione immigrazione in Italia. Invece di essere affrontata - come dovrebbe - in termini di cittadinanza e di diritti umani, essa retrocede a una dimensione di carità cristiana. D’altronde si sa che l’aiuto al prossimo, considerato come “vittima”, è una forma di potere sull’altro. Una sorta di violenza invisibile.
L’immigrato non deve essere solo “aiutato”, ma considerato nella sua irriducibile umanità uguale alla mia. In termini né religiosi né di assistenzialismo, ma di uguaglianza psichica tra gli esseri umani.
È una questione urgente e di fondamentale importanza. Il Sud del mondo sta approdando in Europa a ritmi sempre più veloci, senza che noi siamo capaci di guardare, oltre al barcone stracolmo, le dinamiche politico-economiche - dittature, guerre, nuova fame - che spingono queste donne e uomini a emigrare; senza contare il vero “colonialismo mentale” che abbiamo innescato. Arrivano, ma solo per essere ridotti all’esclusiva ricerca quotidiana di cibo e tetto, una sopravvivenza che li deruba della possibilità di un’identità e dei loro sogni. Ecco la domanda che esploderà prima o poi: come possono coesistere uomini liberi con uomini-bisogni, uomini-rifiuti? E quanto può durare questa non esistenza, anzi “dis-esistenza”, senza fare implodere la nostra stessa umanità?
Le grandi questioni politiche e culturali degli anni a venire si giocano forse in questo abisso, che si scava ogni giorno nel nostro Paese, dove è in formazione una specie di normalmente accettata "seconda umanità". Occorre, al contrario, chiarezza su cosa sia un uomo, affinché la politica non resti assistenzialismo cristiano o, peggio, diventi inaccettabile gestione di due umanità disuguali.

l’Unità 30.5.09
Italia alla berlina nel mondo
Il New York Times: sembra il «Satyricon» di Fellini
di Umberto De Giovannangeli


C’è chi scomoda il Satyricon di Fellini. Chi conia un nuovo, e poco incoraggiante, appellativo per raccontare l’Italia di oggi: «Berlusconistan». Chi accosta il Cavaliere all’autocrate cinese Zhao Ziyang.Di tutto e di più. Nel mondo di papi. Visto dal resto del mondo reale. E da una stampa libera. Di criticare. Non solo Europa. La vicenda Naomi è approdata ieri su alcuni grandi media americani. Ne parlano, infatti, il New York Times, l’Herald Tribune, il settimanale Time e il quotidiano economico Wall Street Journal.
AMERICA IMBARAZZATA
Il New York Times riporta l’opinione di «molti italiani che si chiedono se la reputazione di questa ultima fase della carriera del premier non cominci a somigliare sempre di più alla decadenza della Roma imperiale del Satyricon di Fellini». L’affare Noemi offre spunto al settimanale Time di parlare dell’Italia come «Berlusconistan». Il primo ministro «governa su questa repubblica da reality show in virtù della sua perseveranza politica e sorprendente popolarità; con il controllo delle onde dell’etere; e con la sua capacità di trasformare i suoi capricci personali in un discorso pubblico di disturbante intrattenimento», scrive l’autorevole settimanale in servizio da Roma in cui afferma anche che gli oppositori del presidente del Consiglio («che nel Berlusconistan possono andare in onda») ritengono che stavolta «il maestro della manipolazione abbia fatto scattare un nuovo ciclo che potrebbe portare alla sua fine politica».
EL «MUNDO FELIX»
Chissà se Silvio Berlusconi sa chi è Zhao Ziyang. Se è digiuno di conoscenza storico-politica, può abbeverarsi all’articolo uscito ieri sullo spagnolo «El Paìs», a firma di uno dei più autorevoli scienziati della politica spagnoli, Antonio Elorza. Zhao era segretario generale del Partito comunista cinese ai tempi del massacro di Tienanmen. «Il mondo felix» a cui aspirava - spiega Elorza - è quello dell’unanimità di vedute e di consensi. L’aspirazione massima di ogni autocrate, «incluso Berlusconi. Pechino chiama. Berlusconistan risponde.

Repubblica 30.5.09
La stampa Usa
Il New York Times: molti si domandano se stia esagerando anche per i tolleranti italiani
"Decadenza alla Satyricon. Silvio ha sbagliato i calcoli"


ROMA - Dopo l´affondo del britannico Financial Times («Berlusconi è un esempio deleterio per tutti»), stavolta è il New York Times a portare il colpo. «Molti si domandano - si legge in prima pagina - se Berlusconi non stia esagerando anche per i tolleranti italiani e se la fine della sua carriera stia sempre più ricordando la decadenza dell´impero romano del Satyricon di Fellini». All´articolo, ripreso anche sulla home page del sito, seguono decine e decine di commenti sconfortati di lettori americani, europei e italiani. C´è chi definisce il Cavaliere un «satiro», chi invoca l´intervento delle Nazioni Unite e chi, dall´Italia, invita i lettori a stelle e strisce «a considerare anche le tante persone che non lo hanno mai votato».
Ma c´è dell´altro, perché anche nel seguito blog del New York Times dedicato al giornalismo si parla diffusamente della vicenda Lario-Noemi, con link alle «dieci domande di Repubblica», ai video, e all´inchiesta della nostra testata. Il giornalista Robert Mackey, per far capire la situazione al pubblico Usa, utilizza un paragone: «Immaginate un mondo nel quale Donald Trump possiede la NBC e vive alla Casa Bianca, mentre prepara a Miss California un seggio al Congresso, e sarete solo a metà strada per capire quello che avviene in Italia».
Brutte notizie per Berlusconi anche dal settimanale Time. In un articolo l´Italia viene ribattezzata «Berlusconistan», con un suffisso che ricorda le satrapie asiatiche ex Urss. Riferendosi all´ultima apparizione del presidente del Consiglio, in cui Berlusconi esordiva chiedendo se ci fossero domande sulle «minorenni», il Time annota: «Non è proprio il classico modo con cui il leader di una nazione del G8 inizia una conferenza stampa. Ma questa è l´Italia al tempo di Berlusconi, la terra di un fiammeggiante miliardario la cui ambigua relazione con una 18enne ha dominato il dibattito per un mese». Si occupano diffusamente del premier anche il Wall Street Journal e El Pais. Mentre il Guardian scrive: «Si capisce in che guai è Berlusconi se perfino i Blair prendono le distanze da lui».
(f. bei)

Repubblica 30.5.09
Piccante
di Stefano Bartezzaghi


È quanto meno insolita la circostanza per cui un premier debba dichiarare: «Non ho mai avuto rapporti piccanti con minorenni». Eppure dobbiamo essere abituati alle circostanze insolite, perché quello che si nota è soprattutto la scelta dell´aggettivo. «Piccante» in questo contesto è indubbiamente un eufemismo, una parola che arriva direttamente dall´universo dell´ammicco (piccante-ammiccante, ottima rima). Si è usata soprattutto per le commedie sexy degli anni 70, con uomini costituzionalmente sbavanti che spiavano vestizioni, svestizioni, docce, giarrettiere e guepière. Come il sapore da cui prende il nome, il genere piccante piace innanzitutto, forse soltanto, ai maschi, che ne vengono accalorati ed eccitati. Il piccante è la spezia onnipresente nei book delle aspiranti soubrette e attrici di fiction tv, nei servizi dei rotocalchi, nei retroscena evocati da Dagospia. Il piccante è una sensazione evanescente, non lascia tracce di sé, è peccato solo per chi se ne impiccia. E persino il proverbio raccomanda di non parlare di piccante a casa del piccato.

Repubblica 30.5.09
Se le famiglie dicessero no
di Gabriele Romagnoli


Il diavolo è sempre in cerca di anime da comprare, ma vendergli la propria resta una libera scelta. L´ultima, probabilmente. è quanto viene da pensare riconsiderando da una diversa angolazione l´ultimo "caso Berlusconi".
Se dal punto di vista politico quel che conta è l´incapacità di un presidente del consiglio di affrontare la verità dei fatti, che le sue contraddizioni hanno finito per rendere rilevante, dal punto di vista sociale a colpire è l´atteggiamento della famiglia Letizia, ragazza e genitori, la loro incapacità di dire, a suo tempo, un semplice (e ragionevole) no che avrebbe cambiato la storia. Quale storia? Quella di un piccolo nucleo umano alla periferia di Napoli, ma anche quella d´Italia. Perché è evidente che quel nucleo è lo specchio di un Paese. E´ la superficie sulla quale può vedere il proprio volto rivelato quella maggioranza consapevole di italiani che (a prescindere da come ha votato) si è consegnata non tanto a un uomo, a una guida, quanto a uno stile di vita, a un´ideale che preferisce la scorciatoia all´etica.
Prendiamo solo gli eventi acclarati ed esaminiamoli staccandoci dal particolare, senza relegarli ai nomi che ne nascondono la dimensione universale. In un luogo lontano dal cuore dell´impero e dalla luce dei riflettori (tendenti a coincidere) una coppia di genitori alleva una figlia sperando, come tutti tendono a fare, che la sua vita sia più fortunata della loro. La madre augurandole il successo nello spettacolo che lei non ha potuto avere. Il padre, l´accesso a quel potere di cui lui ha solo conosciuto l´anticamera. A un certo punto, per circostanze che qui non rilevano, book o cartolina, entra in contatto con la ragazza un uomo al di fuori della sua portata. Di cinquant´anni più grande, potente e, si aggiunga, sposato. Saltiamo i preliminari e consideriamo una sola tra le cose accertate: quest´uomo invita la ragazza a passare un capodanno nella sua villa in Sardegna. Che sia ospite insieme ad altre dozzine di esemplari può essere considerata un´attenuante o un´aggravante, dipende dai punti di vista. Il fatto resta. E qui sorge la domanda sul rapporto con i figli, che non è quella mal mirata posta dal segretario del pd Dario Franceschini. La domanda è: se hai una figlia minorenne e un settantenne, maritato e potente l´invita a casa sua per le feste, come reagiresti?
Che cosa induce i genitori a guardarla fare la valigia e magari aiutarla a infilarci le calzette rosse? Non pensano a possibili rapporti piccanti, certo: pensano al bene di lei, alla carriera che potrà schiudersi, come è già per altre, nello spettacolo o nella politica. Questo sognano la ragazza, i suoi genitori, l´Italia in cui da almeno una generazione, viviamo.
Ora, è luogo comune a questo punto scagliare l´anatema contro il diavolo: è stato lui a venderci questi sogni, a far deviare dalla strada maestra asfaltando scorciatoie verso direzioni che sono altrettanti precipizi. Più che una spiegazione un alibi, una copertura per la mancanza di spina morale che nessun palinsesto avrebbe potuto piegare se fosse esistita. E´ vero che le tentazioni sono tante e facili. Un qualunque pulcino ballerino può attraversare una passerella di presunti talenti , tuffarsi nell´altro canale e vincere, chessò, il Festival di Sanremo. Una qualsiasi faccia da citofono può piazzarsi in una casa, cicalecciare a comando e diventare una celebrità. Se, in un´altra epoca, Montanelli scriveva che l´ingresso al governo di Giovanni Goria ridava speranza a tutte le mamme con un figlio non troppo dotato, l´investitura delle Carfagna, Brambilla, Gelmini ha prodotto madri pronte a preparare alle figlie il trolley rosa per la Sardegna. Volere questo, volerlo in questo modo, non è un delitto. Proporre questo, proporlo in questo modo, non è un delitto. Il diavolo fa il suo mestiere. Quelli a cui telefona rispondono come possono. La vera domanda è una: perché non riescono a dire no?
Quando e come hanno perso gli anticorpi? Quando questo scambio è diventato la normalità del vivere qui e ora? Quando ne è valsa la pena? Quando? A quale risveglio e dopo quanto sonno? E non è questione che riguarda uno spicchio di società, individuabile politicamente o economicamente. E´ una situazione generalizzata, trasversale. Ognuno incontra il proprio diavolo, prima o poi. E può decidere come rispondere alla sua proposta. Può accettarne l´invito: in Sardegna, nel salottino televisivo che dà la popolarità, alla tavola dei signori che distribuiscono le cariche. O può proseguire nella sua, lunga, strada. Non è una decisione in cabina elettorale, è molto più di così. Riguarda la capacità di essere se stessi, lottare da soli contro i limiti imposti dal caso e dalle virtù, sconfiggerli o accettarli senza l´aiutino del presentatore o l´affettuosa benevolenza di chi dà e trucca le carte. Riguarda, soprattutto, la possibilità di costituire un esempio per le generazioni a seguire, affinché la prossima sappia da sé rispondere allo squillo del cellulare:
"Pronto, ciao: sono papi…"
"Lei ha sbagliato numero".

Repubblica 30.5.09
Il fantasma del ‘94 che piace al cavaliere
di Giuseppe D’Avanzo


C´è stato un tempo in cui, accanto a Silvio Berlusconi, sedeva Cesare Previti: pagava i giudici per tenere lontano dalla severità della giustizia il patron di Fininvest. Diventa premier. Si cucina da solo l´impunità. Berlusconi non ha più bisogno di chi gli corrompe i giudici.
Un passo dei giudici consentirebbe al premier di passare all´attacco

Se avesse ancora accanto a sé un barattiere, gli chiederebbe di pagare un pubblico ministero per procurarsi un bell´avviso di garanzia. Perché la campagna elettorale di Berlusconi ha bisogno - come noi dell´aria - del conflitto con la magistratura. Il suo elettorato non ama le toghe e, per parte sua, il Cavaliere indossa con splendore i sontuosi panni della vittima. Il binomio radicalizza il suo elettorato, gli assicura la vittoria a mani basse, gli consente di attenuare la crisi di sfiducia che l´affligge; di cancellare l´inadeguatezza del governo; di dimenticare le minacce e i numeri di una crisi che, nonostante la «false speranze» che diffonde (come dice Bankitalia), appesantirà imprese, occupazione e famiglie italiane ancora per due anni, contrariamente a quanto accade negli altri Paesi europei.
Un avviso di garanzia, benedetto, permetterebbe al premier di fare piazza pulita anche di scene come quella a cui hanno assistito milioni di italiani l´altra sera: un uomo di 73 anni, capo di governo, che giura sulla testa dei figli, tra l´imbarazzo dei suoi ministri, che non ha avuto «rapporti piccanti, molto piccanti» con una minorenne. Un avviso di garanzia, benvenuto, potrebbe cambiare di segno anche questo affare. Se lo è combinato da solo irritando i suoi alleati con le candidature delle sue giovani o giovanissime amiche, umiliando in pubblico la moglie, ficcandosi in un ristorante della peggiore periferia di Napoli. Un passo della magistratura consentirebbe al capo di governo di giocare non in difesa, un po´ smarrito come appare oggi, ma in attacco secondo uno schema che lo ha sempre gratificato. Purtroppo, per quel che se ne sa, i pubblici ministeri stanno facendo a Berlusconi un dispetto molto grave: lo ignorano, non gli invieranno alcun avviso di garanzia. Così il conflitto con la magistratura vede in campo un solo combattente: il Cavaliere. Come in una pantomina, ingaggia la sua battaglia da solo, finge e simula uno scontro che non c´è. Come tanto tempo fa, quando nei giardini della villa Olivetta di Portofino lo sentirono gridare: «Dài, colpiscimi, stupido. È tutta questa la tua forza? Colpisci più forte, ancora più forte». Quelli di casa pensano a un ladro, a una rissa. Accorrono. Lo vedono lì sul prato. Solo. Lui saltella, arretra, avanza, scarta di lato in un´immaginaria rissa. Le gambe flesse, i passi corti, il pugno destro ben stretto a protezione della mascella e il sinistro che si allunga veloce contro l´avversario che non c´è.
In fondo, Berlusconi politico ripete ossessivamente sempre la stessa perfomance comunicativa, come se il largo consenso di cui gode fosse inutile per governare, anche se questo dovrebbe essere il suo impegno prioritario. Urla e si lamenta, invece. Gli riesce meglio. Scomparsi i «comunisti», salta su contro i magistrati. Anche se quelli se ne stanno buoni, deve rappresentarli con il coltello tra i denti. Per evocare il pericolo, ha bisogno di richiamare un episodio di quindici anni fa, l´avviso di garanzia per la corruzione della Guardia di Finanza. Il suo ricordo è come al solito truccato. I tre processi hanno accertato, in maniera definitiva, che la Guardia di Finanza è stata corrotta, che le tangenti sono state pagate per concludere le indagini sulla Fininvest. Dopo una condanna a 2 anni e 9 mesi, la Cassazione non ha ritenuto sufficienti gli indizi del collegamento diretto fra i funzionari corrotti e Silvio Berlusconi, link invece definitivamente provato per altri dirigenti Fininvest, condannati con sentenza irrevocabile. Assolto? Berlusconi non dice che se quel «collegamento non è stato provato» fu grazie a un testimone che il Cavaliere corruppe: David Mackenzie Mills.

Repubblica 30.5.09
Il Cavaliere e l’incubo del ´94 "Ma stavolta non mi fermerà nessuno"
"Pronto ad elezioni anche a ottobre". Noemi e l’ipotesi Matrix
di Claudio Tito


Su Dagospia le voci di un´inchiesta dopo le accuse di Veronica. La procura di Roma apre un fascicolo dopo aver ricevuto lettere di cittadini, ma si tratta di una indagine senza notizie di reato
An e Lega non vogliono elezioni anticipate e il Quirinale segue con apprensione le mosse del premier, mostrando freddezza verso l´ipotesi di tornare alle urne

ROMA - «Questa volta non mi fermerà nessuno. Se tentano l´assalto, io faccio saltare il banco. Farò come l´anno scorso a Piazza San Babila. Farò come la svolta del predellino». L´incubo del ‘94 si è materializzato. I magistrati, alcuni «poteri tornati forti», il sospetto «ribaltonista». Dopo un anno di governo, il Cavaliere fa un salto indietro nel passato. E´ tornato a 15 anni fa. Quando l´avviso di garanzia a Napoli fece barcollare la coalizione e poi Umberto Bossi dichiarò aperta la crisi. Lo scontro con l´allora presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, e la nascita dell´esecutivo pilotato da Lamberto Dini. Un´esperienza, ripete adesso ai suoi, che resta ancora una «lezione». «Stavolta non mi fermerà nessuno». L´esempio del «predellino» - il comizio del febbraio 2007 a Milano - lo cita con i suoi per far capire che non si farà frenare dagli alleati. Una frase che ha degli obiettivi espliciti: i partner recalcitranti, appunto, e soprattutto il presidente della Repubblica.
Il presidente del consiglio ha fatto scattare l´allarme rosso. «Troppe coincidenze», avverte. Il "Casoriagate", le inchieste napoletane sul termovalorizzatore di Acerra che potrebbero coinvolgere il sottosegretario Guido Bertolaso e adesso le voci, lanciate ieri dal sito di gossip "Dagospia", su un fascicolo riguardante la frase pronunciata dalla moglie Veronica Lario: il premier «frequenta minorenni». In realtà non ci sono conferme, anche se lettere anonime e diverse e-mail sono arrivate alla procura di Roma, qualcuna anche contro la consorte del primo ministro. Il procuratore Giovanni Ferrara, obbligato per legge, ha aperto un fascicolo, timbrato con l´intestazione «modello 45», ovvero indagine al momento senza notizia di reato. Non ancora una vera e propria inchiesta. Ma la fuga di notizie sta mandando su tutte le furie l´uomo di Via del Plebiscito. E il suo legale, Niccolo Ghedini, ha annunciato una querela contro Dagospia e le sue «insinuazioni diffamatorie».
A questo punto, dunque, il premier è pronto a fare i conti con tutti i potenziali "avversari". Con i pm, certo. Ma pure con gli scettici "interni". E sì, perché la semplice idea di far precipitare il paese di nuovo verso le elezioni anticipate ha provocato un brivido in buona parte della maggioranza. In molti dei "peones" alla prima esperienza parlamentare. Ma anche nei leader. Quelli di Alleanza nazionale hanno fatto sapere a chiare lettere di considerare un azzardo il ritorno alle urne. «Ma quali elezioni», è sbottato il ministro per le politiche comunitarie, Andrea Ronchi. Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, non intende rinunciare alla consonanza costruita negli ultimi dodici mesi con Giorgio Napolitano. Dopo il tentativo di ricomporre i precedenti dissidi, tra la prima carica dello Stato e il premier la tensione è tornata alta. Il presidente della repubblica, in modo del tutto informale e ufficioso, non ha nascosto nei suoi contatti di seguire con apprensione le mosse e gli annunci del presidente del consiglio. L´inquilino del Colle replicherà presto agli attacchi rivolti alla magistratura. Probabilmente lo farà in occasione del prossimo plenum del Csm. Ma anche sull´ipotesi di elezioni anticipate è a dir poco freddo. Anche perché il potere di sciogliere le Camere rappresenta un´esclusiva del Quirinale e non di Palazzo Chigi. Pure i «colonnelli» della Lega hanno iniziato a tirare il freno. Una posizione che a Berlusconi ha già fatto ritornare in mente il braccio di ferro del 1995 con Scalfaro.
Lo stesso Umberto Bossi non è affatto attratto dalla «minaccia» berlusconiana e ieri ha negato che esista una ipotesi di elezioni anticipate. Farebbero allontanare per l´ennesima volta l´approdo federalista. Ma ieri a L´Aquila il Cavaliere ha fatto di tutto per non smentire l´opzione elettorale. Nei briefing con lo staff ha perfino cominciato a parlare delle possibili alternative «temporali». Se tutto precipitasse, se arrivasse quello che per lui è il «redde rationem», quando si potrebbe votare? Berlusconi non esclude a priori di andare alla resa dei conti a ottobre. Con il Pd ancora in mezzo al guado e senza un leader consacrato dal congresso. Oppure nella prossima primavera, insieme alle regionali.
Nel frattempo si prepara a dare battaglia nel breve periodo. Le europee sono alle porte e vuole giocarsi tutte le carte per sfondare la soglia del 40%. E una delle carte è proprio Noemi. Vuole trasformarla in un´arma elettorale. Organizzando persino un puntata ad hoc di Matrix. La ragazza napoletana potrebbe presentarsi davanti alle telecamere. Non a caso gli uomini del Cavaliere starebbero già sondando i possibili «maestri» di comunicazione televisiva per «preparare» Noemi e consentirle una buona performance. Ma c´è poco tempo.

Repubblica 30.5.09
Cattiva stampa e cattiva politica
di Giovanni Valentini


Sono passati più di due secoli da quando Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti d´America, scrisse la frase riportata qui sopra in una lettera a Edward Carrington, prima militare e poi rappresentante politico della Virginia. E nel frattempo, s´è avverato ciò che lui stesso auspicava di seguito: "Ma devo dire che ogni uomo dovrebbe essere in grado di ricevere questi giornali ed essere capace di leggerli".
Trasferita nell´Italia contemporanea e messa in bocca al presidente del Consiglio in carica, la citazione di Jefferson andrebbe completamente rovesciata: non c´è alcun dubbio che Silvio Berlusconi preferirebbe invece un governo senza giornali. E con lui, molti dei suoi adepti e cortigiani. Anzi, l´opzione potrebbe riscuotere consensi perfino nelle file della sinistra o del centrosinistra.
La stampa, la libera stampa, disturba i potenti. Per la semplice ragione che, in nome dell´opinione pubblica, esercita bene o male una funzione di controllo nei loro confronti e in questo senso rappresenta un contropotere. Osserva, riferisce e giudica il loro comportamento. Valuta quello che fanno e non fanno. Indaga sulle loro azioni. Li intervista, li contraddice e a volte si permette pure di criticarli.
Lungi da noi la tentazione di una difesa d´ufficio della categoria. Anche i giornalisti - a cominciare ovviamente da chi scrive - possono sbagliare, hanno le loro colpe, i loro difetti e le loro debolezze. A differenza dei politici, però, rendono conto ogni giorno ai propri lettori, oltreché alla propria coscienza, al proprio direttore, al proprio editore ed eventualmente alla giustizia, mentre i politici si rifugiano spesso e volentieri dietro lo scudo dell´immunità parlamentare. Sta di fatto, comunque, che i lettori comprano i giornali e talvolta accade invece che la politica compra gli elettori.
Ora, quando il presidente del Consiglio dichiara che "chi vuol fare del male, fa il delinquente, il pubblico ministero o il giornalista", non si sa bene se – detto da un personaggio come lui - sia un´offesa o un complimento. L´associazione magistrati giustamente protesta e li ritiene "insulti inaccettabili". E il presidente della Federazione nazionale della Stampa, Roberto Natale, li definisce attacchi "indecorosi". Ma, diciamo la verità, non c´è da parte della nostra categoria quella reazione indignata e compatta che una tale aggressione meriterebbe.
Sotto il fuoco delle polemiche suscitate dal "caso Berlusconi", riprese e amplificate da diversi e autorevoli giornali stranieri, il ministro degli Esteri Franco Frattini, artefice di una fondamentale legge sul conflitto di interessi che non impedisce al premier neppure di fare il presidente vacante del Milan, non trova di meglio che prendersela con la "stampa cattiva e disonesta". Ma si può, e può in particolare il capo della diplomazia, liquidare in blocco con una battuta del genere le critiche di testate come il Financial Times, organo della business community internazionale; come i quotidiani inglesi The Guardian e The Indipendent o come lo spagnolo El Paìs? Noi, giornalisti italiani, ormai ci siamo abituati e conosciamo fin troppo bene i nostri governanti. Ma che cosa devono pensare i colleghi stranieri e, soprattutto, che cosa devono pensare i lettori dei rispettivi giornali?
All´estero, non tutti sanno che questa è una classe politica composta da funzionari o impiegati di partito, non di eletti dal popolo. Nominati dall´alto, e non sempre in virtù delle proprie qualità o competenze, ma piuttosto dei servizi che rendono a questo o a quel capo; della loro fedeltà e obbedienza; del loro aspetto fisico o magari della loro "bellezza". Una burocrazia parlamentare, insomma, che non viene scelta dal corpo elettorale, bensì dai vertici dei partiti e imposta di fatto ai cittadini.
L´intolleranza crescente verso i giornali, da parte di un ceto politico dedito innanzitutto alla difesa dei propri interessi e della propria sopravvivenza, rivela in realtà una tara, una debolezza congenita, che deriva appunto dal senso di precarietà e dipendenza. L´informazione viene così demonizzata e criminalizzata. E non resta che attaccare, offendere e insultare i giornali e i giornalisti, italiani o stranieri, in una gara all´insegna della stupidità e volgarità, per guadagnare titoli e meriti agli occhi dei maggiorenti. Siamo ormai al limite dello squadrismo verbale.
La stampa sarà pure "cattiva e disonesta", come sostiene impunemente il ministro Frattini. Ma, allora, che cosa dobbiamo dire tutti noi, cittadini ed elettori, di questa politica? Cattiva e disonesta, non basta. Da parte nostra, come il presidente Jefferson e al contrario di Berlusconi, continuiamo a preferire giornali senza un governo piuttosto che un governo senza giornali.

Repubblica 30.5.09
La terapia della verità
di Massimo Giannini


Serve l´asciutto neorealismo post-moderno di Mario Draghi, per rompere il finto orizzonte di cartapesta sul quale Silvio Berlusconi proietta il suo personale Truman Show, a beneficio di un «pubblico» che si vuole ormai trasformato in «popolo». Dopo la Confindustria di Emma Marcegaglia, tocca ora al governatore della Banca d´Italia il compito di raccontare qualche amara verità a un´opinione pubblica sedata dal prozac della psico-politica governativa.
La prima verità è che l´Italia è un Paese in crisi profonda. Quest´anno il Pil crollerà del 5%. Solo nel semestre ottobre-marzo la caduta è stata pari al 7%. La famosa «ripresa», sbandierata da Palazzo Grazioli, non esiste in nessun luogo. E persino i «recenti segnali di affievolimento» della recessione, secondo Draghi, esistono solo nei «sondaggi d´opinione». La seconda verità è che tanti, troppi italiani stanno male. Il nostro tasso di povertà relativa è molto superiore alla media di Eurolandia: 20%, contro il 16% della Ue. La flessione della domanda e dei consumi nasce da un cedimento del reddito e dell´occupazione che si acuirà nei prossimi mesi. Due quinti delle imprese con oltre 20 addetti licenzieranno personale. Due milioni di lavoratori temporanei vedranno scadere il loro contratto entro la fine dell´anno.
La terza verità è che la «coperta» del nostro Welfare, con buona pace dei ministri Sacconi e Brunetta che la considerano la migliore del mondo, è corta e piena di buchi. Oltre 1 milione e mezzo di lavoratori, se licenziati, non hanno diritto ad alcun sostegno, e circa 800 mila lavoratori possono contare su un´indennità che non raggiunge i 500 euro al mese. Serve «una riforma organica e rigorosa» degli ammortizzatori sociali, e «una misura di sostegno al reddito per i casi non coperti». Non i pannicelli caldi della Cassa integrazione in deroga, o le pezze a colori dei fondi Fas.
La quarta verità è che anche la straordinaria virtù delle imprese del Quarto Capitalismo rischia di non reggere l´urto delle ristrutturazioni. Nelle prospettive sugli investimenti delle imprese manifatturiere permane «un forte pessimismo» per tutto il 2009. E tra le 500 mila piccole aziende con meno di 20 addetti, che danno lavoro a oltre 2 milioni di persone, è spesso «a rischio la stessa sopravvivenza». Purtroppo una Fiat che vince in America, o una Tod´s che sbarca in Fifth Avenue, non bastano a fare primavera.
La quinta verità è che una politica economica attendista e rinunciataria ci sta regalando un doppio maleficio: nessuna crescita dell´economia reale, ma nessun risanamento dei conti pubblici. Il governo fa poco per arginare la crisi, ma deficit, debito e spesa primaria corrente continuano a lievitare ugualmente a ritmi vertiginosi. Non è solo l´eredità immane del passato, ma è anche il paradosso italiano del presente. Per questo servono riforme strutturali immediate e «prospettiche», che ci permettano di rafforzare le manovre anti-cicliche oggi in cambio di un sicuro risanamento di bilancio domani. Dalle pensioni alla pubblica amministrazione, dalla scuola alle infrastrutture. C´è l´imbarazzo della scelta, se solo il governo passasse dalla rappresentazione all´azione.
La sesta verità è che il sommerso, eterna risorsa dell´Italietta furba e irresponsbile, non ci tirerà mai più fuori dal gorgo. L´economia irregolare che pesa per il 15% della ricchezza nazionale è un´anomalia insopportabile anche per un Paese di poeti, di santi e di evasori come il nostro. L´occultamento di una parte così alta di basi imponibili accresce ulteriormente l´onere di chi è ligio al dovere, riduce la competitività delle imprese, accresce le iniquità e «disarticola il tessuto sociale». E anche qui, il governo non fa quel che deve. Non è un caso che Draghi segnali il collasso delle entrate tributarie. Un gettito Iva che diminuisce dell´1,5%, anche quando i consumi crescono del 2,3%, vuol dire una cosa sola: l´area dell´evasione fiscale si sta allargando.
Sta tutto qui, nel divario tra verità e finzione, l´abisso analitico e «terapeutico» che separa il governo e il governatore. Per Berlusconi la crisi è un «dato psicologico», virtuale e «percepito». Per curarla, quindi, basta una tambureggiante psico-terapia collettiva, impartita attraverso il verbo suadente del premier o il titolo compiacente di un tg, per attivare nel cervello del cittadino- consumatore- imprenditore-risparmiatore le endorfine di un «positivismo ad ogni costo». Per Bankitalia (come già per Confindustria) la crisi è invece un «fatto economico», reale e vissuto. Per curarla, dunque, servono riforme vere, qui ed ora, che incidano sull´esistenza quotidiana delle persone, delle famiglie, delle imprese. Usa lo straordinario consenso che hai per cambiare e modernizzare questo Paese, era stata la sfida lanciata al Cavaliere dalla Marcegaglia. Draghi, con parole più sfumate, dice esattamente la stessa cosa. È significativo che a convergere su questa «piattaforma» riformista, contrapposta al «format» populista, stavolta ci siano anche i sindacati.
Sarà anche vero - come sostiene Giulio Tremonti in un´irrituale intervista «a orologeria» uscita ieri sul Sole 24 Ore, guarda caso proprio nel giorno delle Considerazioni finali - che la Banca d´Italia è solo «un´autorità tecnica», che la vera e unica «sovranità appartiene al popolo» e che «la responsabilità politica è del governo che ne risponde». Ma resta il fatto che Berlusconi sembra essere rimasto il solo a non capire che il puro galleggiamento, per questo Paese, è inutile. Non ci sarà nessuna quiete, dopo la «tempesta perfetta» che ha travolto noi, e che prima o poi rischia di travolgere anche lui.
m.gianninirepubblica.it

Corriere della Sera 30.5.09
La sinistra e il sogno della «grande slavina»
di Paolo Franchi


Un consiglio amichevole a Dario Franceschini: non abbia paura di sembrare provinciale, e lasci stare i grandi giornali stranieri, ultimi il New York Times, che tira in ballo il Satyricon, e Time, che ci descrive come il Berlusconi­stan.

Non perché non abbiano le loro buone ra­gioni, si capisce, ma perché l’assunto da cui muovono, l’idea cioè che sarebbe iniziato il declino di Silvio Berlusconi e del berlusconi­smo, è tutto da dimostrare, e in ogni caso ben difficilmente troverà conferme nelle ur­ne. Certo, il presidente del Consiglio appena un mese fa sembrava il padrone assoluto, se non del Paese, quanto meno dell’opinione pubblica italiana, ivi compresa quella parte che gli è avversa, ma politicamente sembra nutrirsi solo di questa avversione. Oggi, inve­ce, è percepito anche da molti suoi amici co­me un anziano leader in difficoltà, che fatica non solo a dare risposte esaurienti sul caso Letizia, o a far fronte a sentenze che lo chia­mano in causa, ma anche a tenere insieme il litigioso universo della sua (larghissima) mag­gioranza. Nulla indica però che il consenso di cui Berlusconi e il centrodestra godono sia stato anche solo incrinato. E in ogni caso, i problemi, se esistono (ed esistono, eccome), sono tra Berlusconi e se stesso, tra Berlusconi e i suoi cari, tra Berlusconi e i suoi partner, tra Berlusconi e il suo popolo: l’opposizione, spiace (anzi: preoccupa) dirlo, c’entra poco o nulla. Può pure darsi che, di qui a qualche tempo, si rivelino irrisolvibili. Chiediamo ve­nia in anticipo per il paragone: ma, anche in questo caso il presidente del Consiglio do­vrebbe temere, più che un 25 aprile, un 25 lu­glio.
Franceschini si dà, comprensibilmente, obiettivi modesti o, se vogliamo, realistici. Ha raccolto un partito inesistente, si è gettato nella mischia, e ora spera di recuperare qual­cosa, ma sente sul collo il fiato di Antonio Di Pietro e di un antiberlusconismo in servizio permanente effettivo, assai diffuso non sol­tanto nel «ceto medio riflessivo» caro a Paul Ginsborg, che si illude sia giunta, finalmente, la sua ora. Una campagna elettorale non è cer­to l’occasione più indicata per impegnarsi in analisi accuratamente evitate per quindici an­ni e passa: ma un minimo di riflessione si im­pone perché, se si riduce la politica a propa­ganda, il rischio (il segretario del Pd ci è in­cappato appena qualche giorno fa) è di fare della propaganda controproducente. Sempre più spesso analisi e commenti ci propongono confronti tra la situazione attuale e la grande slavina che si portò via la Prima Repubblica. Nell’aria si avvertono miasmi (per qualcuno in realtà sono profumi) non troppo dissimili. Ma il confronto, per mille e un motivo, non sta in piedi. E in ogni caso chi a sinistra lo azzarda dovrebbe ricordare che da quello sconquasso uscì vincitore (non proprio ca­sualmente, e certo non solo in virtù delle sue televisioni) Berlusconi; e che proprio allora cominciò a prendere forma quel mutamento tellurico della scena politica, culturale e civile del Paese, ottimisticamente spacciato per una fase di transizione, che è giunto a (clamo­roso) compimento solo con le elezioni politi­che dell’aprile scorso, quando per la prima volta non solo la sinistra, ma tutto quello che si era salvato della Prima Repubblica (com­presa l’Udc) si è ritrovato, in compagnia di Di Pietro, all’opposizione. Non se ne parla abba­stanza, ma si è trattato di un passaggio d’epo­ca, di quelli che chiamano, per non morire d’inedia, a riconversioni profonde e di lungo periodo, che però non sono state nemmeno abbozzate. Farlo in una campagna elettorale in cui si lotta per sopravvivere sarebbe impen­sabile. Ma sperare di poterle eludere alzando la voce e facendo voti perché l’avversario con­tinui a farsi del male da sé è, o dovrebbe esse­re, più impensabile ancora.

Repubblica 30.5.09
Roma blindata per il corteo anti G8
Blitz degli antagonisti: saremo migliaia. Dai ministri accordi anti-pirateria
di Paolo G. Brera


ROMA - Migliaia di poliziotti e carabinieri schierati per fronteggiare poche decine di antagonisti, i quali con marcata verve espressionista sono riusciti a far parlare di loro senza combinare guai. La prima giornata del G8 della Sicurezza e dell´Immigrazione, che si chiude oggi a Roma con una «grande manifestazione» autorizzata in centro, è scivolata via senza incidenti. In una Capitale blindata, stupita e arrabbiata per i disagi di un summit tra le case e gli uffici del quartiere Flaminio, i ragazzi della "Rete NoG8" hanno disegnato impronte dei piedi all´Anagrafe; hanno beatificato "Sans Papier" in S. Maria Maggiore, celebrandolo protettore dei migranti senza documenti (sans papier); si sono fatti identificare e denunciare in cinque per un tentato assalto scenografico al ministero della Marina; infine hanno assediato con musica e slogan il centro per l´espulsione degli immigrati a Ponte Galeria.
«Saremo migliaia», dicono annunciando il corteo che oggi attraverserà il quartiere più multietnico di Roma e raggiungerà una delle piazze più belle del mondo, piazza Navona, con proteste assortite di commercianti e residenti. Dei black bloc, fino a ieri nessuna traccia. Questura e prefettura ribadiscono cauto ottimismo, e gli organizzatori assicurano intenzioni pacifiche. Il rischio è che s´infiltrino frange di autonomi in cerca dello scontro. E a complicare le cose c´è la critical mass, il corteo nazionale di ciclisti arrabbiati che minacciano di unirsi ai "noG8". Nel chiuso del G8, intanto, i ministri hanno stretto accordi per la lotta alla criminalità e per combattere pedo pornografia e pirateria. Un´intesa di massima su chi ha giurisdizione a processare i bucanieri che, se limato dai tecnici, sarà finalizzato al G8 de L´Aquila.
(ha collaborato Valeria Forgnone)

Repubblica 30.5.09
In piazza giovani, precari e invisibili "Ma non chiamateci più no global"
di Calo Bonini, Anais Ginori


ROMA - Da trentasei ore, fulminei e chiassosi, come un Davide che balla intorno a Golia, appaiono in drappelli di qualche decina per poi scomparire. E riapparire altrove. In una violazione simbolica di «zone rosse», che descrive il perimetro dei diritti negati ai migranti. Che rende solare quel che chiedono - «No al G8, no al pacchetto sicurezza». «La vostra sicurezza non ci cancellerà. Cittadini e cittadine nati» - e, a ben vedere, racconta quel che sono. Oggi pomeriggio, si annunciano in 10 mila e avranno la piazza. Nel lessico pigro della politica e dell´informazione, li chiamano ancora "No global". Nonostante quel nome non dica e non descriva più nulla. Nelle analisi delle burocrazie della sicurezza e degli osservatori del Movimento, si aggiunge che di qui al prossimo mese sarà proprio la piazza - oggi a Roma, il 4 luglio a Vicenza contro la base Dal Molin, dal 7 al 9 luglio per il G8 a l´Aquila - a raccontare di cosa si stia davvero parlando. Anche se il ministro dell´Interno Roberto Maroni un´idea sembra averla già maturata. Quando, tornando a far ballare i fantasmi degli anni ‘70, avverte che «non c´è da stare tranquilli». Che nei «social network» è «forte l´attrattiva per criminali e terroristi», e la «stagione dell´eversione non è chiusa».
Eppure, se li osservi in queste ore a Roma, se ascolti il Movimento discutere, ne scorri i forum in Rete e chiedi chi sono e cosa sono diventati, scopri appunto che persino il nome - "No global" - è roba buona per il museo delle cere. Il "movimento dei movimenti" dei giorni di Genova non c´è più. I 300 mila del G8 2001, le 730 organizzazioni che li rappresentavano, se li è portati via il tempo e la storia. Come del resto raccontano i destini di alcuni dei loro 18 leader di allora. Prigionieri di se stessi e di un passato ingiallito quelli che hanno scelto il salto nella politica come professione (Vittorio Agnoletto e Francesco Caruso). O alla ricerca d´altro, come Luca Casarini, il figlio di operai padovani, oggi papà di un bimbo piccolo, un esordio da romanziere noir con Mondadori, tornato a fare politica sul territorio, ma ormai libero dalla stimmate della "leadership". «Perché leader abbiamo scelto che non ce ne siano». «Perché è finita la stagione della "soggettività politica"». «Perché il Movimento deve far parlare la società». Perché gli eredi dei disobbedienti e delle tute bianche - adolescenti nei giorni di Genova e oggi ventenni - sono nella "Rete no logo". Lo spazio senza simboli.
Il collettivo "Wu Ming", che nel 2001 aveva dato forma e contenuto simbolico ai giorni di Genova con l´appello "Dalle Moltitudini d´Europa in marcia contro l´Impero", ha scritto: «Nel 2003, il Movimento era già in profonda crisi. Giorno dopo giorno regredì a presenza marginale, si ridusse a un inter-gruppi che occupava lo spazio dell´estrema sinistra tradizionale. Riemersero strategie e tattiche fossili, sub-leniniste. Grandi quantità di tempo ed energie vennero dissipate in guerre identitarie tra correnti». Alberto Zoratti, microbiologo, esperto di commercio equo e solidale, ex portavoce del Genoa Social Forum, aggiunge: «A Genova dicevamo che la globalizzazione basata sulla liberalizzazione del mercato avrebbe portato solo instabilità economica. Bene, abbiamo sbagliato per difetto. Al punto da scoprire oggi che l´alfiere della finanza creativa di allora, Giulio Tremonti, è diventato nemico della globalizzazione. Eppure, dopo Genova, non abbiamo saputo sfuggire alla logica del conflitto frontale. Abbiamo cominciato a perdere consenso».
Suona come il racconto di una ritirata. Di una morte per consunzione. Segnata, per altro, dalla perdita di contatto con il mondo cattolico, dalla nuova centralità dei Cobas che sono tornati ad essere l´unico sindacato in piazza a spese della Cgil, dalle divisioni nella sinistra cosiddetta radicale se stare o meno dentro il Movimento. Eppure, le cose non sembrano stare esattamente così. Dice Luca Casarini: «La verità è che i "no Global" non esistono più, perché abbiamo vinto. Perché la storia ci ha dato ragione. Otto anni fa, ci opponevamo alla globalizzazione nel momento della sua massima espansione. Oggi, che la globalizzazione celebra la sua sconfitta, il Movimento assume nuove parole d´ordine e nuove forme. Che sono quelle antiche della crisi e delle contraddizioni del capitalismo». Privo di rappresentanza e coordinamento (cui ha rinunciato), l´antagonismo ha abbandonato un orizzonte globale per tornare a lavorare nel territorio sui nodi della «formazione» (con l´«Onda»), del «precariato», dei beni comuni («di chi sono l´aria, l´acqua, la terra?»), dei migranti. Continuando a coltivare un´idea dello scontro di piazza come «violazione della zona rossa». Finendo per comporre un quadro, che, all´indomani delle rivolte che hanno acceso la Grecia e la Francia, Ilvo Diamanti, su questo giornale, ha fissato con parole che sono per altro diventate patrimonio dei nuovi «no logo». «Il denominatore comune di queste esplosioni sociali - ha scritto - sono i giovani, occultati e vigilati da una società vecchia e in declino, da un sistema politico im-previdente, inefficiente e spesso corrotto. Schiacciati in un presente senza futuro, cui sono sottratti i diritti di cittadinanza. Inutile ignorarli, fare come se non ci fossero. Ci sono. Esistono. E se si finge di non vedere si accendono, bruciano». La geografia dei centri sociali si è ridisegnata in quelle che chiamano «aree di aggregazione». E accade così, ad esempio, che le adesioni a «dachepartestare. org», nodo che ha organizzato la scorsa settimana la manifestazione antirazzista di Milano, siano quelle che mancano a «globalproject. info», riferimento dei centri sociali del Nord-Est, promotori, con i romani di "Action", della manifestazione di oggi. Che il "Cantiere" di Milano si sia separato dai padovani, mentre "Askatasuna" di Torino, "Crash" di Bologna ed "Ex carcere" di Palermo si raccolgano intorno a "infoaut. org". «Siamo un Movimento 2.0», dice Monica Di Sisto della cooperativa "Fair", mutuando la definizione di questa nuova mappa politica dalla rivoluzione concettuale che ha conosciuto la Rete. «La mobilitazione, oggi, è più reticolare e interattiva». E sia dunque. Addio «No global». Ecco i ragazzi del «2.0».

Repubblica 30.5.09
La presunzione dell’occidente
"Non esiste una civiltà superiore"
di Remo Bodei


L’identità dell’Europa secondo il filosofo è frutto di tante culture diverse
Non possiamo presentarci come un faro esportando i principi di libertà e democrazia
Dobbiamo eliminare l´idea dello straniero come potenziale nemico

Dalla caduta dell´impero romano l´Europa non ha più conosciuto alcuna forma di unificazione a lungo termine. Essa è costitutivamente la patria della diversità, è fatta di differenze: volerle unificare è assurdo, così come sarebbe ridicolo voler perseguire l´integrazione culturale per ottenere un melting pot analogo quello degli Stati Uniti. C´è invece bisogno, almeno nel presente, di incoraggiare la condivisione di una struttura istituzionale e di un patriottismo costituzionale, in modo che gli stati membri vecchi e nuovi seguano regole intonate ai principi democratici, alla diffusione dei diritti umani e all´adattamento a nuove strutture economiche. L´intera struttura deve venir rafforzata, specialmente per le generazioni europee più giovani, da un sistema educativo teso a creare una cittadinanza europea, la cui ricchezza deve prodursi catalizzando le differenze all´interno di un progetto di crescita condiviso.
Oggi l´Europa - soprattutto alla luce del suo passato coloniale - non può presentarsi semplicemente come un "faro", esportando i principi di libertà e democrazia. Il suo compito è sposare la domanda di libertà con quella di uguaglianza all´interno dei propri stati, per impedire che la libertà diventi un privilegio in un mondo lacerato dai conflitti, e l´uguaglianza un vuoto slogan ideologico. Se assumiamo il 1989 come data-simbolo, non è solo per la caduta del muro di Berlino, ma anche per il fallimento, magari non definitivo, di un grande progetto storico che voleva diffondere l´uguaglianza fra i cittadini d´Europa. Tale progetto è fallito perché nei paesi socialisti la volontà di raggiungere l´uguaglianza ha finito per produrre una disuguaglianza più grande, ma tale fallimento non può essere la giustificazione per lo sviluppo di modelli di liberalismo cosiddetto "selvaggio".
Ogni paese europeo ha la propria storia, che deve poter interagire con la storia degli altri. Ogni cittadina e ogni cittadino europeo ha le proprie caratteristiche, che vanno preservate a vari livelli: si può essere europea/o, italiana/o, toscana/o o napoletana/o. L´Unione Europea non deve precludere alcuna forma di attaccamento a patrie locali, alcun localismo, e in alcun modo implica che lo Stato, anello di congiunzione fra comunità locali e Comunità Europea, debba sparire o che l´"identità" venga minata.
In sostanza sono in gioco tre tipi di identità: l´identità "autoreferenziale", basata sullo schema logico a=a (spagnolo in quanto spagnolo, francese in quanto francese), come se l´identità fosse un fatto di natura. Poi, per contrasto, c´è un´identità che consiste nell´accettare le deformazioni provocate da secoli di oppressioni interne ed esterne, e nell´esaltarle come segni di identità: "Io sono così e ne sono orgoglioso". Penso ad esempio al caso dell´Unione Sovietica degli anni ‘20 e ‘30, con il suo "culto del proletariato", e ad alcuni poeti africani e caraibici, come Léopold Sédar Senghor o Aimé Césaire, con la loro idea di négritude: nel dire "sì, voi bianchi avete l´intelligenza, ma noi abbiamo immaginazione e passione" non si sono resi conto che in questo modo svalutavano la loro intelligenza. Infine il terzo tipo, che vede l´identità europea come un work in progress, una fune fatta di fili diversi, che tanto più si rinforza quanto più i fili sono ben intrecciati fra loro.
Questa costruzione che è l´Europa potrà portar beneficio alle relazioni tra le comunità greche e turche di Cipro, al problema degli ungheresi in Transilvania, o dei romeni in Moldavia, e forse, in futuro, dei serbi in Croazia; forse, indirettamente, potrà allentare le tensioni con le popolazioni russe nei paesi baltici. Ma qui vogliamo soprattutto sottolineare che l´ampliamento dell´Europa va inteso sia come una grande opportunità storica, sia come un arduo compito.
L´identità europea - anche in riferimento alle identità degli stati europei - è un´identità in costruzione. Non c´è dubbio che in tutta Europa possiamo ancora trovare storie nascoste, lingue rimaste ai margini e in pericolo, identità rifiutate e culture che rischiano di scomparire. Ma contro tutte le forme di razzismo o di sciovinismo è necessario marcare una distinzione tra il rifiuto di qualsiasi gerarchia fra culture (nel senso che ogni cultura ha la propria dignità) e il tentativo di culture piccole o grandi di rinchiudersi in un´esasperata presunzione di autoctonia. Al contrario, la loro identità dovrebbe definirsi non solo per opposizione, ma anche sulla base di differenze aperte al processo di universalizzazione, all´interazione con altre culture, all´elaborazione di modelli alternativi di appartenenza e di cittadinanza. Per questo è necessario sostenere concetti come quello di métissage di tutta l´umanità, di reciproca fecondazione culturale, e ristabilire le "differenze", rifiutando la presunzione di un Occidente che si proclama portatore della sola Civiltà degna di questo nome. (...)
Per fortuna la storia umana non si arresta: le culture del mondo si mescolano e rivivono poi in forme nuove e inattese. Non è necessario aspettare il futuro: possiamo (e dobbiamo) agire ora, per rafforzare i legami di amicizia e comprensione reciproca tra le diverse culture. Dobbiamo, se possibile, eliminare l´idea preconcetta dell´estraneo, dello straniero, come potenziale nemico anziché possibile ospite. Noi guardiamo lo straniero con una sorta di strabismo: proprio quando il globalismo spinge verso l´universalismo, nasce un impulso parallelo all´isolamento. Siamo in grado di trovare, oggi, su scala internazionale, forme di "universalismo" ospitale, aperto e non-fondazionalista, pluralistico e costantemente in evoluzione, capace di accogliere culture diverse, rendendone compatibili le differenze senza ghettizzarle?
Una cosa è certa: abbiamo bisogno di promuovere e sviluppare modalità di pensiero in grado di tenere insieme la fune dell´umanità, che tanto più si rinforza quanto più intesse fra loro i fili delle storie particolari. Oggi le idee di "civiltà", "umanità" e "umanesimo" sono viste con sospetto, accusate come sono di confondere irrimediabilmente l´essenza dell´umanità con quella di una sua forma storica particolare, la giudeo-cristiana. E l´accusa è che il vero universalismo è stato sostituito da un universalismo imposto con secoli di violenza e sfruttamento. La sfida è dura e richiede coraggio su due fronti: da un lato, nella determinazione a considerare le critiche mosse dalle altre culture, ascoltando le loro voci; dall´altro, nella volontà di scrutare il lato in ombra dell´universalismo europeo e occidentale, chiedendoci se e dove sia in errore.
(traduzione dall´originale inglese di Nicoletta Salomon)

l’Unità 30.5.09
La leader comunista tedesca Fondatrice della Lega spartachista fu assassinata nel 1919
La sua tomba Ogni anno è meta di pellegrinaggio. La fondazione: si faccia luce
Giallo sui resti di Rosa Luxemburg
«Trovati in un ospedale di Berlino»
di Gherardo Ugolini


È un giallo quello che si è aperto ieri a Berlino sui resti di Rosa Luxemburg, la rivoluzionaria tedesca, leader del movimento spartachista, assassinata il 15 gennaio del ’19 insieme a Karl Liebknecht.

La storia racconta che nel 1919 gli assassini, sicari dei Freikorps, formazioni semi-fasciste dalle cui fila sarebbero successivamente usciti numerosi leader nazisti, riuscirono a farla franca grazie alle alte protezioni politiche di cui godevano, mentre il corpo di Rosa Luxemburg, cui non erano state risparmiate crudeli sevizie, fu gettato in un canale di Berlino per essere ripescato qualche mese dopo e venir sepolto nel cimitero berlinese di Friedrichsfelde. Fino a ieri nessuno aveva mai avanzato dubbi sull’autenticità dei resti della Luxemburg e anzi il cimitero in cui riposa è divenuto nel corso del tempo meta di pellegrinaggio politico. Ogni anno la seconda domenica di gennaio la sinistra berlinese organizza un rituale di massa nel corso del quale migliaia di militanti sfilano davanti alla tomba di Rosa porgendole un garofano rosso in segno di omaggio. Ma è veramente Rosa Luxemburg quella sepolta lì?
Le rivelazioni
Secondo le rivelazioni del settimanale Der Spiegel il cadavere ripescato settant’anni fa non è affatto quello autentico della pasionaria marxista, teorica del socialismo libertario, i cui resti giacerebbero invece insepolti in un obitorio della capitale tedesca.
Ad annunciare la sensazionale scoperta è stato Michael Toskos, direttore del reparto di medicina legale dell’ospedale Charité, il quale ha identificato i resti della «vera» Luxemburg con quelli di una donna annegata molto tempo fa, conservati in una sala dell’obitorio della sua clinica. Si tratta di un cadavere privo di mani, testa e piedi, ma che tuttavia presenterebbe «analogie sbalorditive con Rosa Luxemburg», ha dichiarato Tsokos al settimanale di Amburgo.
Dalle analisi condotte si è potuto appurare che la donna annegata aveva un’età compresa tra i 40 ed i 50 anni, presentava una malformazione al femore ed aveva gambe di lunghezza diversa. Dati che si adattano perfettamente alla fondatrice del partito comunista tedesco, la quale era sulla soglia dei cinquant’anni quando venne assassinata, soffriva di una lussazione congenita del femore ed era leggermente claudicante. Viceversa – sempre secondo Tsokos – dall’autopsia che fu eseguita nel 1919 sul corpo identificato con Rosa Luxemburg non risultava nessuna lussazione e nessuna differenza di lunghezza tra le due gambe.
Per avere una conferma definitiva della tesi di Toskos bisognerà aspettare la prova del DNA, sempre che sia possibile realizzare un siffatto riscontro. Nel frattempo non tutti in Germania sembrano condividere la novità. Klaus Gietinger, per esempio, autore di numerose pubblicazioni su Rosa Luxemburg e sul suo omicidio, nutre molti dubbi e in un’intervista alla Süddeutsche Zeitung fa notare che all’epoca «il corpo di Rosa fu identificato dalla sua segretaria in base ai vestiti che indossava, mentre i medici legali riscontrarono tracce delle ferite subite e soprattutto del colpo di pistola sparato alla testa».
Appello a Merkel
Chi non l’ha presa per niente bene è la Fondazione Rosa Luxemburg, collegata al partito della Linke. In un comunicato i responsabili si dicono «sconvolti per la scoperta che il 13 giugno 1919 sarebbe stata sepolta una sconosciuta al posto di Rosa Luxemburg» e chiedono al governo tedesco guidato da Angela Merkel, «nella sua qualità di successore dei governi del Reich tedesco», di «fare il possibile per identificare i resti del cadavere di donna rinvenuto alla Charité e darle finalmente l’estrema sepoltura».

l’Unità 30.5.09
La morale e lo zampino di Darwin
di Sergio Bartolomei, Comitato di Bioetica


Una delle strategie più comunemente utilizzate dai “ridimensionatori” di Darwin è di lamentare il carattere rudimentale o incompleto della teoria evoluzionistica quando applicata a sfere non strettamente biologiche del comportamento. Ben altre sarebbero le chiavi per risolvere l’enigma dell’“animo umano” quando questo si trovi impegnato, per esempio, ad affrontare questioni e dilemmi morali. A questo esercizio di benaltrismo è dedicato anche l’articolo di Francesco D’Agostino su Avvenire del 28 maggio che si conclude con una concessione e una negazione: «Darwin è un nome nella storia della scienza, un nome grandissimo, ma nulla di più». In cosa consiste il “di più” che Darwin, pur “grandissimo”, non potrebbe mai attingere? Secondo l’autore, «Darwin non ci dice cosa è l’etica umana». A dir la verità nell’articolo si riconosce almeno in parte quella che è stata l’impresa principale e originalissima di Darwin in questo ambito.
Detta in estrema sintesi, Darwin ritiene che la morale non sia né il dono speciale di una entità trascendente, né il prodotto disincarnato della razionalità umana. Nasce dalla evoluzione degli istinti di cooperazione e simpatia presenti nella natura biologica sia dell’uomo che degli altri animali. Rispetto a questi ultimi il senso morale umano non costituirebbe cioè una frattura o un salto, ma solo una differenza di grado. Non solo. Avremmo tutto da guadagnare, anche dal punto di vista morale, se riducessimo la spocchia che sempre ci ha accompagnati nel raffigurarci come specie a se stante, frutto di una creazione speciale, e cominciassimo invece a immaginarci più realisticamente come “creati dagli animali”.
Vero è che Darwin di mestiere non faceva il filosofo morale né il moralista. Era un “naturalista” che aveva investigato sulle origini del senso morale esclusivamente dal punto di vista della “storia naturale” di homo sapiens, concludendo che siamo “morali” non perché innaturali, ma perché animali. Il risultato almeno indiretto è stato di aver infranto l’alone di sacralità e mistero che avvolge parole come “moralità”, “obbligo”, “dovere”, quasi fossero entità sui generis di chissà quale sovramondo. Contrariamente a chi concepiva (e concepisce) l’etica come una collezione di norme date da sempre e indipendenti dalla volontà, Darwin ha messo in luce che l’etica è un’impresa laica e mondana, fragile e precaria come tutte le cose terrene, affidata alla nostra responsabilità di animali cooperativi. Da questo punto di vista non sembra più sostenibile affermare che la spiegazione darwiniana della morale lasci inalterate spiegazioni alternative, come quelle religiose, che la fanno derivare da leggi e comandi divini. Può sembrare nulla, ma per chi ragioni come se Dio non fosse è davvero molto.
* membro del consiglio direttivo della Consulta di Bioetica

l’Unità 30.5.09
Littel, il narcisismo fascista
Gli incubi e la violenza del pupillo di Hitler Léon Degrelle nel saggio psicostorico dell’autore de «Le Benevole»
di Bruno Gravagnuolo


Chi è. L’esordio fulminante con «Le benevole»
Jonathan Littell, nato in una famiglia di origine ebraica, emigrata dalla Polonia negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento, è figlio dello scrittore Robert Littell. Con «Le benevole», il suo romanzo d’esordio (ancora unico romanzo pubblicato), è stato una delle rivelazioni letterarie degli ultimi anni. Pubblicato in Italia da Einaudi nel 2007, racconta la Seconda Guerra Mondiale attraverso le memorie immaginarie di un ufficiale SS a cui ha dato il nome di Maximilien Aue. L'opera ha ottenuto due importanti riconoscimenti letterari: il Grand Prix du Roman de l'Académie Française e il Prix Goncourt ed ha sollevato numerose polemiche.
E se provassimo a comprendere fascismo e nazismo come «stato della mente»? Come «situazione-limite» e «stato corporeo», volti a una distruttività che rigenera menti disgregate? Forse sarebbe un approccio insondabile, esposto all’arbitrio e «psicostorico». E però vale la pena di tentare. Visto che psiche collettiva e rappresentazioni ossessive appaiono così decisive e invadenti nei fascismi. E nei totalitarismi in generale (marx-leninisti inclusi). E visto che gli abissi di orrore novecenteschi - inconcepibile Shoà in primis - ancora non si lasciano decifrare compiutamente. Ci prova Jonathan Littell, con Il secco e l’umido. Una breve incursione in territorio fascista (Einaudi, tr. di Margherita Botto, pp.118, Euro 18). Scritto in simultanea a un altro libro che gli ha fruttato il Goncourt in Francia: Le Benevole, diario confessione dell’ufficiale nazista Max Aue, intriso di massacri, sesso gay e funzioni corporali (tra Celine e Pasolini, subissato di critiche negli Usa). Stavolta, con Il secco e l’umido, si tratta di un saggio di esegesi. Svolta su un’esperienza vera: quella narrata nel diario su La campagna di russia di Léon Degrelle, il capo delle Ss valloni belghe. Fondatore negli anni trenta del movimento cattolico ultràs «rexista». Che arrivò nel 1936 a mandare più di una ventina di deputati al Parlamento di Bruxelles. E tentò di diventare il Quisling di un governatorato franco-borgognone, inclusivo del belgio francofono e all’ombra di un’Europa nazificata. Un uomo al quale Hitler disse: «Se avessi avuto un figlio avrei voluto che fosse come lei».
L’INFEZIONE DEL NEMICO
Il fulcro del saggio? Sono le ossessioni ricorrenti di Degrelle, volontario Ss in Ucraina e protagonista di decine e decine di corpo a corpo con i rossi, nonché artefice di massacri velati nel diario. Eccole quelle ossessioni: «secco e umido», «solido e molle», «liquido e denso», «verticale e orizzontale». «disgregato e organizzato». E poi ancora, «puro e impuro», «orientale e occidentale», «compatto e dissolto», «spirito e materia». Su tutto - nel caos omicida che accompagna azione territoriale delle Ss e putrefazione dei corpi dei nemici - una contrapposizione di fondo, che ripete alla lettera alcune delle ossessioni di Adolph Hitler nel Mein Kampf: la «palude di sangue bolscevica» e il «contro-annientamento europeo». Il chiarore verticale occidentale, contro l’Asia ebraica e comunista (paludosa, patogena, informe).
Qual è la chiave esplicativa del narratore saggista Littell, figlio dello storico Usa Jonathan Littell e cresciuto tra Francia e Catalogna? Eccola: «il fascista come bambino mai nato». Mai staccato dalla madre e narcisisticamente proteso all’autoconservazione fusionale. Personalità altresì corazzata da un «carattere caserma» autoritario, che sposta con violenza sull’Altro il terrore vissuto dell’annientamento fusionale. Per sfuggire al vuoto del «non-essere». Insomma, una sindrome autoritaria che espelle la minaccia interna di annullamento su un terzo, e la organizza nel gesto corporeo violento. Gesto gregariamente condiviso con i commilitoni, e nelle parade che sceneggiano entusiasmo e bellicismo. E rigenerazione corporea collettiva che scaccia il male e lo cura, annientando l’insidia della diversità «infettiva» (ebraica o femminile). Dietro l’analisi «post-freudiana» di Littell però, c’è esplicitamente un altro studioso: Klaus Thewelait (scrive in post-fazione). Che usò la stessa chiave per decifrare gli incubi dei «maschi-soldati» dei Freikorps tedeschi del 1917, quelli che uccisero Rosa Luxemburg. Il fascismo dunque come incrocio tra Autorità sadica e orrore del vuoto, in personalità frammentate. Resta però l’enigma: come fu che dalle viscere della storia venne fuori una tale psicopatia di massa, con tanti bravi padri e madri a fare da «volenterosi carnefici»?

Corriere della Sera 30.5.09
Colloquio con il Nobel sul nuovo fronte della genetica
«Spengo i geni dei topi per scoprire i segreti dell’uomo»
Smithies: così troviamo l’origine dei mali
di Giuseppe Remuzzi


Prima di parlare vuole sapere di Il­debrando Pizzetti, quello dell'«Assas­sinio nella Cattedrale», l'opera della sera prima alla Scala. Vuole essere si­curo di saper pronunciare bene il no­me. Glielo scrivo su un foglietto. E Oliver Smithies comincia la sua lezio­ne a Milano, al congresso mondiale di nefrologia, col parlare dell'Opera. «Anch'io come l'Arcivescovo di Can­terbury ho passato la vita a difendere le mie idee. Me l'ha insegnato mia madre». Aveva undici anni quando decise che da grande avrebbe fatto l'inventore, e Oliver Smithies inven­tore lo fu davvero, fino al Nobel per la medicina nel 2007. Prima di lui dei rapporti fra geni e malattie si sapeva pochino. Perché in due gemelle iden­tiche la stessa mutazione, cioè un ge­ne un po' diverso dal normale, porta a due manifestazioni di malattie mol­to diverse, un danno al rene e la ceci­tà ad un occhio? E perché con una mutazione un altro bambino ha una malattia meno grave?
Capire le funzioni
Senza gli studi di Oliver Smithies, Mario Capecchi e Martin Evans a queste domande non avremmo mai saputo rispondere. I tre scienziati hanno trovato il modo, nel topo di laboratorio, di togliere di mezzo questo o quel gene, che serviva per capirne la funzione. «Se togliendo un certo gene gli animali hanno debolezza ai muscoli quello potrebbe essere il gene della distrofia muscolare. Se ne si spegne un altro e gli animali perdono la memoria, quello è uno dei geni che aiutano a ricordare» continua Oliver Smithies.
Ma come si fa a spegnere un gene? Immaginiamo un libro con migliaia di pagine e che abbia migliaia di parole per ciascuna pagina. Il libro sta in una libreria con 3000 di questi li­bri. Libri, parole e lettere insieme fan­no l'informazione genetica degli uo­mini. Con un sistema che gli scienzia­ti chiamano «gene targeting» si può per esempio togliere la cinquantase­iesima parola di pagina 700 del volu­me 1250 e vedere cosa succede. Op­pure se la sessantasettesima parola di pagina 30 del volume 600 è sba­gliata la si può sostituire con quella giusta. «Per arrivarci bisognava pri­ma riuscire a spegnere proprio il ge­ne che volevamo spegnere e solo quello. E non era facile, il topo di ge­ni ne ha 25.000. Abbiamo sfruttato la capacità dei geni di fare ricombina­zione omologa». Cosa vuol dire? Smi­thies e Capecchi hanno introdotto nel nucleo di una cellula il pezzetti­no di Dna di interesse fiancheggiato da tratti di sequenze uguali a quelle del gene che volevano spegnere o so­stituire. Queste sequenze erano in grado di trovarne altre, identiche, e ricombinarsi.
«Il secondo problema era arrivare ad un topo che avesse le stesse carat­teristiche della cellula che eravamo riusciti a modificare. C'era un modo solo per farlo, ripetere gli stessi espe­rimenti con le cellule embrionali, ma bisognava imparare a coltivarle». Ci è arrivato Martin Evans. A quel pun­to lì Smithies, Capecchi e Evans pre­sero a cercare fondi ma queste ricer­che non le voleva finanziare nessu­no, né di qua né di là dall'oceano. «Pensare di togliere da una cellula embrionale proprio il gene che si vor­rebbe togliere, o metterci un pezzetti­no di Dna normale con l'idea che pos­sa sostituire quello malato, è velleita­rio. Fu questo più o meno il commen­to di chi ha giudicato le nostre propo­ste ».
Diecimila animali
Smithies e gli altri però non si la­sciarono scoraggiare e i primi risulta­ti arrivarono molto presto. «Il primo gene che abbiamo provato a spegne­re fu quello che codifica per un cana­le del cloro così abbiamo ottenuto to­pi con le stesse alterazioni degli am­malati di fibrosi cistica. Quei topi lì sono serviti a capire la malattia dell' uomo, senza sarebbe stato impossibi­le pensare a una cura. Poi abbiamo spento il gene dell'apolipoproteina E, ne sono venuti topolini con l'atero­sclerosi ». Oggi ce ne sono almeno 10.000 di animali in cui è stato spento o modi­ficato un determinato gene e che giorno dopo giorno ci aiutano a capi­re di più dei rapporti fra geni e malat­tie. Oliver Smithies si è occupato an­che di ipertensione, e aveva una ra­gione speciale per farlo. «Mio padre morì giovane - dice ancora il geneti­sta inglese - , forse di infarto. Aveva la pressione alta. Ho sempre pensato che se ci fossero stati buoni farmaci non sarebbe morto. Poi un giorno, non ricordo di preciso quando, mi sono accorto che anch'io avevo la pressione alta. Ho provato con la re­serpina ma mi veniva la depressio­ne. Così ho smesso coi farmaci e ho ripreso a lavorare con i topi. Volevo capire perché aumenta la pressione con l'idea che solo così si sarebbero potuti trovare i farmaci giusti. Spe­gnevo i geni che potevano essere im­plicati uno dopo l'altro finché non ho trovato quelli giusti. Oggi per chi ha la pressione alta ci sono buone cu­re, grazie anche ai nostri topi».
Le buone cure
Se non abbiamo ancora buone cu­re per la maggior parte dei tumori è perché gli scienziati non sono anco­ra riusciti a fare con i geni dei tumori quello che Oliver Smithies ha fatto con i geni della pressione. Per i tumo­ri il discorso è più complicato per­ché sono centinaia, forse migliaia di malattie diverse. Ma prima o poi ci si arriverà.

l’Unità 30.5.09
La ninfea e l’informe
Le opere di Monet in mostra a Milano e i suoi lontani concorrenti
giapponesi: Hokusai e Hiroshige
di Renato Barilli


Una mostra al Palazzo Reale di Milano riprende utilmente il tema delle ninfee, cavallo di battaglia negli ultimi decenni della lunga esistenza del padre dell’Impressionismo, Claude Monet (1840-1926). A dire il vero, non si sarebbe sentito un particolare bisogno di frugare nella produzione che il grande artista ricavava dal bacino fatto costruire apposta nella sua tenuta di Giverny, tante altre mostre vi si erano già soffermate, ma a rendere utile questa ennesima tappa sta il confronto espressamente tematizzato con i lontani concorrenti giapponesi, qui evocati nelle persone dei grandi illustratori del Sol Levante Hokusai e Hiroshige, attivi circa un secolo prima di Monet. Si aggiunga che a Roma, Museo del Corso, sarà aperta fino al 13 settembre un’amplissima mostra dedicata al secondo dei due, e dunque ci sono tutti i termini per impostare il confronto. A livello di contenuti esso è più che legittimo, basti ricordare che Monet aveva voluto ricreare nella sua tenuta un Ponte Giapponese, e le ninfee, gli iris, le varie piante acquatiche in cui tuffava avidamente il suo sguardo corrispondono in pieno ai motivi floreali coltivati dagli artisti dell’Estremo Oriente. Ma questa è anche l’occasione di dire risolutamente che le vie stilistiche erano assai diverse, per non dire opposte. Monet è l’ultimo cultore delle soluzioni adottate dall’Occidente con i due grandi apripista, Leon Battista Alberti, e soprattutto Leonardo, colui che scopre la presenza dell’atmosfera, la cui massa corrode i corpi man mano che si allontanano da noi e li affonda nell’indistinzione dello sfumato. A quel modo l’Occidente sceglieva una via di grande rigore scientifico, offriva una mappa veritiera a tutte le future incursioni e invasioni del pianeta.
LA «SCIENZA» NELLE OPERE
I Cinesi, allora già sviluppatissimi, adottavano invece soluzioni opposte, distillavano da piante e fiori dei profili sciolti, affidati a un linearismo fluente. I loro reticoli grafici si accampavano sulla piattezza delle superfici, traendo dalle cose degli schemi di estrema eleganza, colmi di valenze decorative, ma ben poco utili per chi avesse voluto davvero affrontare altri paesi nelle loro condizioni atmosferiche reali. E i giapponesi Hokusai e Hiroshige, tra Sette e Ottocento, furono eredi di quelle maniere limpide, dilettose, schematiche. Invece nella visione di Monet le ninfee si intridono in una massa indistinta, vischiosa, quasi impenetrabile. Insomma i dati reali, di massa, di consistenza, di illuminazione cangiante predominano sulla pretesa di astrarre, da quegli ammassi, qualche profilo ben ordinato, e di disporlo con bella grazia sul piano.Ma sul finire dell’Ottocento era in vista la grande rivoluzione scientifica e tecnologica impostata sull’elettromagnetismo, che ci avrebbe insegnato a cogliere dal reale sagome essenziali, dando ragione alla soluzione estremo-orientale, e obbligando i nostri artisti ad andare a Canossa, a convertirsi alle maniere agili e stilizzate del Sol Levante.
Monet. Il tempo delle ninfee a cura di Claudia Beltramo Ceppi
Milano Palazzo Reale Fino al 27 settembre catalogo: Giunti

L’espresso 29.5.09
Marco Bellocchio: «L'Italia di oggi conformista come quella fascista»
intervista di Elisa Grando


Il suo film "Vincere", che ha diviso l'ultimo Festival di Cannes, racconta la storia tragica della donna che diede un figlio al Duce

PORDENONE Al Festival di Cannes, Marco Bellocchio ha spaccato in due la critica: il suo film "Vincere", la storia drammatica di Ida Dalser che diede un figlio a Benito Mussolini ma poi, considerata una minaccia per l'irreprensibile quadretto famigliare del Duce con la moglie Rachele, fu confinata dal regime in manicomio, ha entusiasmato la stampa straniera e lasciato più perplessa quella italiana. "Vincere", intanto, è quarto al box office e Bellocchio è pronto a testare la reazione del pubblico: questa sera presenterà personalmente il film a Cinemazero di Pordenone, prima della proiezione delle 21.15.
Ieri sono arrivate anche sei candidature ai Nastri d'Argento, tra le quali quella alla miglior regia, a Giovanna Mezzogiorno come miglior attrice, a Filippo Timi come miglior attore e a Francesca Calvelli, compagna di Bellocchio nella vita, per il montaggio. Tutte le candidature sono meritate: "Vincere" è un melodramma coinvolgente che intreccia, con inventiva stilistica, l'amore caparbio e assoluto di Ida per il Duce con l'ascesa del fascismo. E riunisce alcuni dei temi ricorrenti nella filmografia del regista, da "I pugni in tasca" a "L'ora di religione", da "La balia" a "Il regista di matrimoni": l'intreccio fra storia e dimensione privata, la ribellione (anche qui declinata al femminile, come in "Il diavolo in corpo" e "Buongiorno, notte"), il sopravvento dell'inconscio, la presenza inestirpabile della Chiesa. Bellocchio è un baluardo del cinema italiano laico, "engagé" e autoriale, non ha mai abbassato la guardia sulla ricerca estetica ma gran parte della credibilità del film, in questo caso, gravava sugli attori, Giovanna Mezzogiorno e Filippo Timi.
Ridare un volto a Benito Mussolini e a Ida Dalser non era compito facile: come ha scelto i protagonisti?
«La scelta di Timi è stata più facile perché ha un'aderenza fisica con Mussolini che gli permetteva di rappresentarlo giovane e potente, ma anche il talento per incarnare l'opposto, la fragilità del figlio Benito Albino. Giovanna Mezzogiorno ha un viso terribilmente giusto per il personaggio e in più una grande capacità di reazione fisica, un temperamento tenace, duro, nordico come Ida».
Come si è documentato sulla vicenda di Ida Dalser?
«Le fonti sono il bel libro ricco di notizie "La moglie di Mussolini" di Marco Zeni (ed. Effe e Erre, ndr.), quello più giornalistico di Alfredo Pieroni ("Il figlio segreto del Duce: la storia di Benito Albino Mussolini e di sua madre Ida Dalser", ed. Garzanti, ndr.) e il documentario "Il segreto di Mussolini" di Fabrizio Laurenti e Gianfranco Norelli. Poi ho fatto alcuni giri in Trentino nella zona di Ida, ho trovato le sue cartelle cliniche nell'ospedale di Pergine e ho parlato con la gente di Sopramonte, il suo paese».
In una sequenza Ida, riportata in manicomio dalla folla che protesta, dice alla sua gente: "Non dimenticateci". La sua speranza si è avverata?
«Sì. A Sopramonte il ricordo di questa donna, di questa eroina, è ancora molto vivo. Tant'è vero che l'episodio del film in cui Ida mostra una pistola al figlio e gli dice "Qui c'è un colpo solo, è per il cuore di tuo padre" è stato raccontato a un mio collaboratore da una signora anziana. Attorno a Ida e contro il fascismo c'era una sorta di difesa da parte dei compaesani forse anche perché, fino a pochi anni prima, quello era territorio austriaco».
Che ruolo ha la presenza della Chiesa nel film?
«Non c'è un attacco particolare nei confronti della Chiesa, ma si stigmatizzano due cose. La prima è che Mussolini, laico e mangiapreti, per arrivare al potere assoluto ha avuto bisogno di fare un accordo con la Chiesa. L'altra è un certo tipo di ideologia cattolica, in qualche modo presente anche oggi anche se espressa con parole diverse, che sottolinea la rassegnazione e la carità, sostiene che la vita è un passaggio, che la parte migliore viene dopo. Sono cose che non condivido per niente ma, in quel contesto, erano messaggi che servivano a confortare dalla tragedia dell'isolamento manicomiale. In tempi di disperazione questa mentalità è benemerita, ma non è sufficiente. E non manda avanti il mondo».
Come in "Buongiorno, notte", anche in "Vincere" ha inserito immagini di repertorio che rinforzano l'impronta storica del film...
«Ho pensato subito che la storia potesse essere rappresentata attraverso immagini reali. Mi servivano anche come strumento di sintesi, perché il film in due ore racconta trent'anni. Avevo la possibilità di mostrarle utilizzando una serie di situazioni in cui i personaggi sono al cinematografo che, in quell'epoca, era popolare come la televisione oggi».
Nel film usa didascalie, sovraimpressioni, grafica: lei stesso l'ha definito un "melodramma futurista".
«Ho creato un linguaggio, divenuto definitivo durante il montaggio, che utilizza anche connessioni irrazionali ma non dissociate, come l'idea di condensare in pochissimi secondi l'attentato di Sarajevo, i funerali degli arciduchi, Mussolini nudo che s'immagina già di essere al balcone di Palazzo Venezia. Tutto, anche l'uso della didascalia in chiave di "futurismo rivoluzionario" un po' come le didascalie aggressive di Ejzenstejn, vuol essere espressivo, non esplicativo. Abbiamo cercato in modo abbastanza empirico di esaltare i momenti importanti, anche con apporti grafici».
Guardando "Vincere" nei giorni caldi della bufera mediatica che ha investito il premier Berlusconi è inevitabile pensare a quanto, oggi come allora, le vicende private entrino in politica...
«Quando ho pensato di fare questo film non ho affatto considerato di proporre una relazione col presente, o di attaccare Silvio Berlusconi. Nel confronto con la realtà attuale, però, viene fuori qualcosa di più riferito non tanto alla persona singola di Berlusconi, ma ad un clima generale di disperazione, insensibilità, cinismo. Mi sembra che la gente si sia arresa: il consenso verso Berlusconi non è mai entusiastico, è come se non ci fosse niente di meglio».
Suona come una critica alla sinistra...
«Lo è: l'opposizione non sa proporre ai suoi "naturali" elettori, come gli operai e i precari, una risposta più convincente della demagogia populista del premier. Se la maggior parte degli operai vota per Berlusconi vuol dire che c'è qualcosa che la sinistra non riesce a comunicare, che non si riescono ad opporre delle idee convincenti. In questo senso c'è un clima simile all'epoca raccontata dal film: nel fascismo c'era un forte conformismo, lo stesso che si respira qui oggi anche se non siamo in una dittatura ma in una "democrazia autoritaria", per usare le parole di Eugenio Scalfari».
Nel 2006 si è candidato alle elezioni con La Rosa nel Pugno. Ha mai pensato di tornare in politica?
«Assolutamente no. Quella era una candidatura simbolica: La Rosa nel Pugno, un partito laico che univa socialisti e radicali e propugnava idee che condividevo, era fragilissimo e così ho dato la mia adesione anche formale. Ma per me stare in Parlamento, o anche solo in un consiglio comunale, sarebbe come suicidarmi. Ho bisogno di una libertà assoluta, di alzarmi, di muovermi. E lo dico con rispetto di chi passa la propria vita sugli scranni».

venerdì 29 maggio 2009

Repubblica 19.5.85
Il gay della Fgci
intervista a Nichi Vendola di Stefano Malatesta


ROMA - Nichi Vendola ha 26 anni, è pugliese. Qualche giorno fa è stato eletto membro della segreteria nazionale della Fgci, la Federazione giovanile comunista. Ha un viso gradevole. In testa calza un berretto blu con visiera, da studente svedese. Intorno al collo è annodata una sciarpa di lana bianca. Porta al lobo sinistro un orecchino d' oro. Nichi Vendola è un gay, il primo attivista omosessuale entrato a far parte della dirigenza comunista. Dice senza asprezza polemica: "Sono sicuro che parlerai dell' orecchino d' oro. Ho già dato un' intervista in cui raccontavo un po' di cose, fatti personali e politici. Dopo ho avuto dei timori, credevo che ci fossero reazioni a Roma, nel partito. Invece i compagni sono stati benevoli. Mi hanno però avvertito: stai attento a non farti ingabbiare nel clichè, il gay alle Botteghe Oscure, eccetera. Prima c' erano i funzionari infagottati nei doppipetti grigi tagliati male, con le cravatte stonate in raso. Adesso l' omosessuale con l' orecchino. Al congresso giovanile avevo un magnifico, luminescente papillon sopra una camicia a righe. Dì, vuoi che ti stringa la mano sotto il tavolo?". Rispondo che il passaggio sotto le forche del commento becero è obbligato: cosa si vuole aspettare, finezze anglosassoni? L' umorismo in Italia, e anche altrove, è spesso di genere caserma, dovrebbe esserci abituato. Però mica posso far finta di essere venuto per le sue preclare virtù politiche di cui tutta l' Italia parla. Sono venuto perchè Vendola è il primo dirigente comunista gay dichiarato. Nel 1948 il Pci non ha espulso Pier Paolo Pasolini per indegnità morale? "Sono passati esattamente 37 anni. Sai cosa ho detto al congresso giovanile? Per noi comunisti non si tratta di difendere la grande dignità e i valori dell' omosessualità, ma di acquisire la diversità come elemento di ricchezza per chi vuole ancora trasformare il mondo. E' stato il passo più applaudito nel mio intervento". Mi ricordo di un altro intervento, più volte citato, fatto da Enrico Berlinguer quando era segretario della Fgci, su Maria Goretti: la additava ad esempio per le future generazioni dei comunisti. "Era il dopoguerra. I comunisti venivano descritti come bestie. L' accusa di essere intellettual-frocio-comunista, senza molta distinzione tra i termini, ugualmente vituperati, è stata merce corrente fino a non troppo tempo fa. Da parte del Pci si tentava di difendersi, di proporre dei modelli di moralità sotto quell' alluvione di vituperi. Il difetto stava nel prendere in prestito i modelli dalla cultura cattolico borghese". Ma c' era anche molta grettezza moralistica e bacchettona all' interno del partito. Chi conviveva con una ragazza veniva convocato e avvertito con l' usuale frase: "Compagno, è ora che regoli la tua posizione". E Togliatti ebbe dei problemi quando iniziò la sua relazione con Nilde Jotti. Secchia non scherzava. "Lo stesso Secchia, una volta caduto in disgrazia, fu accusato, non tanto larvatamente, di essere un finocchio, accusa infamante e degradante. Ma erano tempi diversi, il partito continuava a vivere in stato di allarme, non ci si potevano concedere lassismi personali con il nemico o con la sindrome del nemico alle porte. Però Pasolini, tra il ' 60 e il ' 70, già poteva scrivere liberamente anche di omosessualità su "Vie Nuove"". Pasolini era uno scrittore celebre, un poeta, "un' artista". Anche Visconti non venne mai attaccato: Togliatti ne ha fatto sempre grandi elogi. Ma era un' eccezione. L' aristocratico decadente se lo poteva permettere, proprio perchè aristocratico e decadente. L' operaio in fabbrica no. Diciamo la verità: i compagni lo avrebbero preso a calci nel sedere. "Su Visconti posso essere d' accordo. Ma lui non faceva professione di omosessualità, come non la fa Zeffirelli. In questo senso non sono "scandalosi". Invece Pasolini era provocatorio, almeno per quegli anni e il fatto che scrivesse su "Vie Nuove" è significativo. Però è vero che l' omosessuale in fabbrica, tra i compagni, non aveva vita allegra. Mio padre, comunista da sempre, un uomo magnifico, dolce, andava a fare le spedizioni per picchiare "i froci". Una volta mi ha detto: se ti ammazzassi, noi tutti potremmo riacquistare una dignità. Mi ha molto amato, ma per lui, come per tanti altri, gli omosessuali erano solo i turpi individui che adescavano i bambini nei giardinetti. Ma di queste cose non ne voglio più parlare". Non ho l' intenzione di continuare ad insistere su certi ritardi e manchevolezze del Pci. Ma qui, come in altre occasione, l' azione dei radicali mi sembra sia stata decisiva. Gli altri hanno seguito, anche con riluttanza: tutto questo non gli interessava, soprattutto non faceva parte della loro cultura. "I radicali hanno avuto dei meriti, creando movimenti, flussi, attraverso un' ottica garantista. Ma con qualche casella o piccolo spazio in più di libertà non cambi le regole del gioco, che sono rimaste quasi le stesse. Il "Fuori" voleva creare la cittadella gay, dove gli omosessuali si potessero sentir protetti. I comunisti sono sempre stati contro l' ideologia del ghetto: in ritardo, magari, però decisi a risolvere le questioni, non solo a presentarle, che è molto più facile. D' altronde basta andarsi a rileggere le centinaia di lettere che arrivavamo all' "Unità" e a "Rinascita"" durante gli anni 70: un dibattito libero". Mi dicono però che alti dirigenti del partito non siano stati particolarmente soddisfatti dell' elezione di un omosessuale nella segreteria della Fgci: Chiaromonte ad esempio. "Francamente nel Pci non ho mai avuto problemi, come li ho avuti in famiglia. Credo che oggi comunista significhi anche rispetto dell' altro, essere condannati ad una contaminazione attraverso il rapporto umano: un rischio che bisogna accettare. Lo sguardo inquietante di un altro uomo può farti crollare il tuo castello di certezze, ma è inutile e stupido fuggire. Sono i liberali che hanno sguardi paralleli, che non s' incrociano mai: l' idea del rapporto come due monologhi. Questa è mummificazione dell' esistente. Libertà comunista è dinamismo, è contaminazione, con le nostre coscienze e i nostri corpi, è buttarsi nella mischia. Io l' ho fatto, sono diventato coscientemente omosessuale, per poi recuperare l' eterosessualità, per poi trovar la sessualità, senza aggettivi. Vorrei che ci capissimo, non sto parlando di membri e di apparati genitali, altrimenti torniamo alla caserma". Io credo di capire, ma non so quanti siano in grado di farlo nel Pci, non parlo della Fgci... "Giovanni Berlinguer è uno che capisce: aperto, vivace. Anche Natta ci aiuta. Abbiamo avuto un dibattito con lui molto libero. Ripete sempre che bisogna andare fino in fondo, che bisogna parlare, confessarci di più - non dal prete con la cotta - togliersi di dosso tutti i residui di intolleranza. Gli altri non so, sono arrivato da pochi giorni a Roma. Certo l' età conta, ognuno forma la propria cultura in un momento storico preciso. Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione. Le donne, da questo punto di vista, sono notevolmente più sensibili. Ma il Pci non è un organismo matriarcale".

l’Unità 29.5.09
Una prima risposta
di Giovanni Maria Bellu


Una delle domande che si sentono rivolgere più spesso è: «Ma come mai gli italiani non reagiscono?». Loro - i corrispondenti dei giornali stranieri - fanno sempre più fatica a spiegarlo ai loro direttori e anche ai loro amici. Non basta più dire che l’Italia è un paese contraddittorio e un po’ matto che ha regalato al mondo il Rinascimento e il Fascismo, Leonardo da Vinci e Mussolini, Lorenzo il Magnifico e Sandro Bondi. Non basta perché nel mondo si è portati a pensare che le distanze tra le sensibilità, proprio come quelle tra i luoghi, si stiano progressivamente riducendo. Almeno le distanze culturali tra i paesi dell’Occidente ricco che condividono mode, letture, musiche, film e miti. Così appare strano, e a volte incomprensibile, che proprio uno dei paesi più antichi di quel mondo abbia preso un’altra strada. E sia diventato il laboratorio di qualcosa a cui è persino difficile dare un nome. Fascismo? Regime? Democrazia malata? «Governo del manganello mediatico»? L’ultima proposta è di Patricia Mayorga, cilena, una specialista dell’argomento.
Ma è facile - ed è infatti questa la strada che alla fine scelgono - individuare i singoli fatti che compongono lo strano mosaico del mistero italiano. A partire dal primo tra tutti, il peccato originale: il controllo da parte di un solo uomo, che è anche il capo del governo e il leader del principale partito politico, della quasi totalità del sistema dell’informazione televisiva. Semplice, anzi ovvio. Infatti la difficoltà non sta nell’enunciare il problema, ma nello spiegare come abbia potuto prodursi. E perché un paese dell’Occidente democratico sia giunto a questo punto di prostrazione e di rassegnazione.
Nel forum con i colleghi stranieri avremmo potuto comporre un volume di domande per il premier. Ne abbiamo scelte alcune, giusto quanta basta per chiarire che gli interrogativi attorno alla penosa vicenda delle minorenni (con le quali, ha chiarito ieri, «non ho mai fatto nulla di piccante») non sono che gli ultimi, e nemmeno i più importanti, di una lunghissima serie. E che la prima e più remota domanda - quella sull’origine della fortuna economica del capo del governo italiano - è da sempre senza risposta.
Ma - sorpresa - proprio ieri una risposta è arrivata. Ed stata è così chiara che la soddisfazione per la semplicità del messaggio quasi compensa il disagio e l’imbarazzo per il suo contenuto. Ricordate la casa editrice Einaudi, quella di Cesare Pavese, Italo Calvino, Leone Ginzburg, Elio Vittorini? Da una quindicina di anni, come buona parte di tutto ciò che ci circonda, è di proprietà di Silvio Berlusconi. Ciò nonostante ha potuto lavorare liberamente, senza visibili condizionamenti, pubblicando molti libri scomodi. Fino a qualche giorno fa, quando è venuto il momento di dare alle stampe un’opera di José Saramago che conteneva giudizi molto severi sul premier. Troppo severi anche per la Einaudi che ha chiesto, invano, all’autore di edulcorare l’edizione italiana. Il libro non uscirà. Insomma, siamo alla censura di un premio Nobel. Questo sì che è parlar chiaro. Grazie, presidente.

l’Unità 29.5.09
Einaudi dice no al Nobel Saramago
La casa editrice del presidente del Consiglio rifiuta raccolta di scritti politici: «Contenuti diffamatori»
Einaudi: no a Saramago, «Diffama Berlusconi»
di Claudia Cucchiarato


La casa editrice rifiuta una raccolta di testi politici e polemici in cui
lo scrittore portoghese formula forti accuse al presidente del Consiglio

José Saramago non accetta censure. È per questo che ha rifiutato la richiesta di Einaudi di modificare, con un’operazioni di editing, alcuni passi del suo ultimo libro, O caderno, uscito in aprile in Portogallo e ieri in Spagna. Nella copertina delle due edizioni l’autore appare assorto nella scrittura di un diario, carta e penna in mano. È così che scrive l’ottantasettenne Premio Nobel. Eppure, i testi che compongono questo libro sono tutti disponibili on-line. Dal 17 settembre scorso, infatti, Saramago ha un blog: caderno.josesaramago.org. Una raccolta di brani mordaci, intimi e polemici. Riflessioni in cui lo scrittore si permette di dire la sua sulle vicende di attualità politica, economica, culturale o sociale che più lo colpiscono. Ce n’è per tutti: da Bush a Blair, da Aznar al Papa e Fidel Castro, passando per Guantanamo, le colonie israeliane, Davos e Wall Street.
APPUNTI SULL’ITALIA
Ma ce n’è soprattutto per l’Italia: «terra della mafia e della camorra (…)governata da un delinquente». Ci va giù pesante il portoghese nelle considerazioni sul nostro presidente del Consiglio. Tanto che Einaudi, casa editrice del gruppo Mondadori, e quindi «proprietà di Berlusconi» (come ha fatto notare l’autore in uno dei suoi primi post), ha rinunciato ai diritti per la traduzione del tomo perché «pur ritenendosi libera nella critica, rifiuta di far sua un’accusa che qualsiasi giudizio condannerebbe», spiegava in un comunicato stampa diffuso ieri. Un articolo dell’Espresso, in edicola da oggi, rivela che la casa torinese non se la sarebbe sentita di mantenere i «giudizi a dir poco trancianti su Silvio Berlusconi» che il Nobel pubblica ormai da nove mesi su internet. La palla rovente è passata quindi a un altro editore, Bollati Boringhieri, che pubblicherà il Quaderno prima di Natale. Nemmeno Feltrinelli, che per prima aveva tradotto in italiano i suoi romanzi, ha preso in considerazione l’eventuale edizione. A quanto riferivano ieri, in Feltrinelli non si accettano gli scarti di Einaudi e, comunque, si tratterebbe di un libro minore, non abbastanza importante da giustificare un ritorno dell’autore nelle loro collezioni. Il brano «incriminato», prende spunto dalla tendenza del premier a censurare la produzione culturale a lui non grata (come il film W. di Oliver Stone). La tentata censura di Einaudi quindi non ha preso in contropiede lo scrittore. Ma se gli editori italiani leggessero uno degli ultimi brani del blog (Fino a quando? del 15 maggio) e quindi non compreso nel libro della discordia, si metterebbero ancor di più le mani nei capelli.
LA LODE A SAVIANO
Il nostro premier viene infatti paragonato a Catilina: vuole sovvertire le regole della Repubblica, dice Saramago, che si chiede, citando il suo amato Cicerone: «Fino a quando, Silvio, abuserai della nostra pazienza?». La risposta potrebbe fornirla il lettore, quando potrà avere in mano una copia in italiano del Quaderno del Nobel sovversivo. Che, con umiltà, il 4 dicembre scriveva: «Mi sento insignificante di fronte alla dignità e al coraggio di Roberto Saviano, un maestro di vita, condannato a morte per aver scritto un libro di denuncia contro un’organizzazione criminale capace di sequestrare una città e i suoi cittadini. Penso a Saviano e mi chiedo se un giorno riusciremo a svegliarci da questo incubo: una società in cui molti vengono perseguitati solo per aver detto la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità».

Repubblica 29.5.09
La verità ad personam
Un mese di contraddizioni poi il Cavaliere vara la verità ad personam
Il premier si fa la domanda e si dà la risposta
di Giuseppe D’Avanzo


Oggi le bugie sono sulle minorenni. Domani potrebbero riguardare fisco o rifiuti, insomma il destino del Paese
Due, tre, quattro versioni per giustificare gli incontri con Noemi: inevitabile che si ingarbuglino

Berlusconi, un mese dopo, risponde alle domande che si fa da solo. Minorenni? «Non ho detto niente». Sesso con le minorenni? «Assolutamente no, ho giurato sulla testa dei miei figli e sono consapevole che se fossi uno spergiuro mi dovrei dimettere, un minuto dopo averlo detto». (Il Cavaliere ha memoria corta. Già gli è capitato di giurare sulla testa dei figli per negare che Fininvest avesse un «comparto off-shore, very secret», All Iberian. Ora che quell´arcipelago di "fondi neri" ha trovato una documentata conferma, il capo del governo ha dimenticato quel fragoroso spergiuro). La mossa del presidente segue un sentiero che gli è familiare fino all´abitudine. Rovescia il tavolo per uscire dall´angolo in cui si è cacciato con la sua apparizione in un ristorante di Casoria per festeggiare una diciottenne. Stende un velo sui tre eventi che egli stesso si è combinato: l´incomprensibile presenza in una periferia napoletana; l´offesa pubblica alla moglie; scelte politiche che hanno convinto Veronica Lario a parlare di «ciarpame politico».
Se questo "caso Berlusconi", come si è voluto accreditare, fosse stato soltanto una pruderie, magari il colpo di teatro del premier sarebbe stato anche efficace.
Fin dall´inizio, però, questa storia non ha avuto nessuna parentela (o soltanto un legame forzato) con il gossip. Lo dimostrano con l´evidenza della luce le quattro parole («Non ho detto niente») con cui Silvio Berlusconi liquida l´intero rosario di discorsi e ricordi offerto nel monologo a Porta a porta, in tre interviste ufficiali (France 2, Corriere della sera e Stampa), nelle molte conversazioni ufficiose con i cronisti, nella pubblica promessa di «spiegare tutto» (Cnn). Della ricostruzione che il capo del governo ha proposto all´opinione pubblica non è rimasto in piedi, dopo quattro settimane, nemmeno un muro. Il think tank di Gianfranco Fini (farefuturo) e Veronica Lario lo accusano di selezionare la nuova élite politica del Paese negli studi televisivi, nei set dei reality, magari tra i cactus di Villa Certosa tra «le vergini che si offrono al drago». Il Cavaliere nega di aver mai voluto candidare alle Europee "veline" qualche ora prima che veline e soubrette confermino di aver firmato per quelle candidature. Veronica Lario svela che il premier «frequenta minorenni» posseduto da un´ossessione per il sesso che ne pregiudica la salute («non sta bene») e il presidente del consiglio ha dichiarato in tv di non frequentare minorenni e di stare benissimo. Salta però fuori una minorenne (Noemi) che certamente ha frequentato e frequenta. Per giustificarne gli incontri, Berlusconi s´ingarbuglia in una, due, tre, quattro versioni. Quanto più corregge e contraddice la sua memoria, tanto più offre ricostruzioni che stanno in piedi come un sacco vuoto. La risposta alle dieci domande che Repubblica avrebbe voluto fargli, se avesse accettato di essere intervistato, avrebbero potuto chiudere la partita, restituire al premier l´attendibilità perduta, ridimensionare una criticità che distrugge la sua reputazione (e quella dell´Italia) nel mondo. Ha preferito tacere, invece. Con ostinazione continua a tacere oggi mentre gli "arrangiamenti" si sbriciolano come un biscotto sotto la pressione di qualche interrogativo rivolto ai protagonisti. Un testimone attendibile, ex-fidanzato di Noemi, racconta di un uomo di 73 anni, capo del governo di un Paese con molte difficoltà da affrontare, che telefona in un pomeriggio autunnale del 2008 a una diciassettenne per dirle come sia «angelico» il suo viso e «puro» il suo sguardo. Decide di «allevarla». La invita a Roma, a Milano, in Sardegna quando – confessa la ragazza – si sente solo. La colma di regali e attenzioni. Il testimone, con un guaio giudiziario alle spalle, costringe Berlusconi a smentire se stesso. Il Cavaliere aveva detto di aver incontrato la ragazza sempre alla presenza dei suoi genitori, deve smentirsi: è vero, l´ho invitata – era ancora minorenne – prima a Villa Madama, poi a Villa Certosa e i genitori non c´erano. Si comprende, allora, perché il premier non risponda alle sollecitazioni: non può rispondere ad alcuna domanda senza danneggiare irrimediabilmente se stesso e un futuro luminoso progettato per concludersi al Quirinale. L´«unità di crisi», che lo consiglia, si convince a incamminarsi per la solita strada del «complotto», ma è ancora fresco nel ricordo di tutti che è stato lo stesso Berlusconi a costruire la trappola che lo tiene prigioniero senza voler ricordare che i protagonisti di quest´affare sono direttamente o indirettamente "berlusconiani", passando per Veronica Lario, da farefuturo al testimone, che svela il primo contatto tra il premier e la diciassettenne. La teoria del complotto diventa un soufflé sgonfio. Berlusconi, alle strette, riconverte i suoi passi verso una direzione che conosce bene e gli ha portato sempre fortuna: «non ho detto niente».
Il «non ho detto niente» di Berlusconi è la formula che contiene il nucleo stesso del suo sistema politico perché è il dispositivo che cancella ogni distinzione tra vero e falso. Con quel «non ho detto niente» il premier vuole eliminare, non solo le sue contraddizioni e incoerenze, ma anche gli eventi e i fatti concreti, il loro ricordo nella mente dei testimoni e dell´opinione pubblica. Pretende che sia accettato il suo personale canone secondo il quale non esiste alcun modo di stabilire che cosa sia vero perché «non esiste un criterio di verità praticabile» se si esclude ciò che viene dichiarato vero al momento. Il premier (consapevolmente o meno, non importa) ci invita a dare fede soltanto alle «credenze» che naturalmente possono essere cancellate il giorno successivo (e qui è un gioco da ragazzi per chi controlla stampa e network tv). In questo mondo di cartapesta la verità dura un solo giorno e il Gran Bugiardo che lo ha fabbricato non può mai essere accusato di mentire perché ha abolito l´idea stessa della verità.
Al fondo del "caso Berlusconi", che soltanto occasionalmente ha incrociato la vita di una ragazza e di una famiglia, c´è – come direbbe Leszek Kolakowski – «il cuore di una nuova civilizzazione» che abolisce l´idea stessa di verità. Che rende indifferente sulla scena politica l´attendibilità del premier perché il premier può affatturarsi la realtà come meglio gli conviene in quel momento, salvo poi rimodellarla il giorno dopo. Non tutti dalle nostre parti hanno compreso, contrariamente a quanto è stato subito chiaro alla stampa di mezzo mondo, che il "caso Berlusconi" oggi ci parla di minorenni, ma contemporaneamente o domani ci può parlare di disoccupazione, sviluppo, recessione, fisco, terremoto, famiglia, Europa, rifiuti: in una parola, del destino del Paese perché mette in gioco la sua rappresentazione pubblica e l´affidabilità di chi lo governa.
È a questa prova che Berlusconi sfugge rispondendo soltanto alle domande che egli stesso si pone senza nemmeno rendersi conto quanto avvilente sia vederlo apparire nei tg della sera per giurare che non fa sesso con le minorenni. Per evitare dieci domande, il premier preferisce questa umiliazione e, peggio, decide di inoltrarsi sempre di più in un vicolo cieco che minaccia di soffocarlo. Giurare sulla testa dei figli che non ha «rapporti piccanti» con le minorenni, pena le dimissioni immediate, è una sfida funesta che lo rende debole, soprattutto ricattabile. Qualunque minorenne – ed è ormai provato che a Berlusconi capita di frequentarle – può inventarsi la bubbola e scatenare un terremoto istituzionale. Questa è la strada sdrucciolevole che ha scelto il premier, costretto a scendere nei sotterranei del suo castello di bugie, incapace di spiegare perché ha mentito, a dire che cosa lo ha costretto a mentire, che cosa ancora oggi gli impone di tacere la verità. Questo è il dramma di un uomo e di un politico che è il capo del governo italiano.

Repubblica 29.5.09
Noemi, il cavaliere e le donne italiane
È difficile capire perché accettino la sistematica mancanza di rispetto del premier
di Chiara Saraceno


"Perché le donne italiane non reagiscono?" E´ la domanda che mi viene spesso posta da giornaliste straniere, che non si capacitano del silenzio delle donne, prima sul caso delle potenziali candidate alle europee individuate sulla base delle loro caratteristiche estetiche, poi sul caso di Noemi Letizia. Certo, posso puntigliosamente elencare i nomi di donne che hanno scritto su queste vicende analizzandole per quel che dicono sullo stato dei rapporti uomo-donna nel nostro paese. Salvo dover ammettere che si tratta di voci che fanno fatica ad entrare nel discorso pubblico, dal momento che, al solito, il caso è diventato un conflitto tra uomini. Ove le donne – le aspiranti candidate alle europee, Noemi, Veronica – sono diventate solo elementi di contorno: ciò di cui si parla per combattersi, non soggetti parlanti su di sé. Persino l´ex fidanzato di Noemi non ci ha pensato due volte a raccontare i loro rapporti privatissimi. Anche Veronica Berlusconi, che pure ha avuto l´ardire di prendere la parola su di sé, di nominare le questioni, è stata oggetto di pesanti operazioni di squalificazione. Da parte del marito, che le ha dato praticamente della minus habens, incapace di pensare con la propria testa, facilmente influenzabile dai pettegolezzi della "sinistra". Da parte della stampa di suo marito, che ha pensato bene di ricordarle le sue origini, sbattendone le foto da giovane attricetta un po´ discinta in prima pagina. Di ricordare a lei e a tutte noi che il corpo di una donna rimane proprietà pubblica ben al di là di quanto lei abbia deciso. E qualsiasi leggerezza di gioventù nell´esporlo e nell´usarlo prima o poi verrà loro rinfacciata. E´ bene che le giovani donne che oggi ritengono intercambiabili, o anche complementari, un "book ben fatto" e ben presentato, una comparsata al Grande Fratello e una preparazione professionale solida, ne siano consapevoli.
Ciò detto, comprendo benissimo lo sconcerto di chi mi pone quella domanda: la difficoltà a capire, e più ancora ad accettare, che le donne (ma spero anche molti uomini) italiane accettino che il loro presidente del consiglio abbia nei loro confronti un atteggiamento sistematico di mancanza di rispetto. E´ uno stillicidio continuo, che va dal complimento greve all´ossessiva ricerca di donne giovani e carine che gli facciano da contorno, al disprezzo nei confronti di quelle che giovani e carine non sono (specie se non può annoverarle tra le proprie fans) fino ai criteri utilizzati per "promuoverle" e magari farle ministre – a prescindere dalle loro altre eventuali qualità. In una sorta di conferma del vecchio pregiudizio per cui una donna, per fare strada, deve avere specifiche qualità fisiche e magari anche dare l´idea di essere disponibile.
E´ vero. Non c´è stata una protesta pubblica, né oggi né le volte precedenti. Ci sono molte possibili spiegazioni – stanchezza, timore di essere fraintese come moraliste, sfiducia nella efficacia delle proteste, imbarazzo nel farsi coinvolgere in un discorso pubblico in cui si discetta sulla "purezza" di Noemi o sulla intelligenza delle veline e non si risparmiano colpi bassi. A queste ne aggiungerei almeno altre due. La prima riguarda l´inedita traduzione che Berlusconi ha fatto dello slogan femminista degli anni settanta: "il privato è pubblico". Con questa espressione si voleva dire che i rapporti tra gli uomini e le donne così come si danno nella vita quotidiana, nella organizzazione della famiglia, nella divisione del lavoro, persino nella sessualità, sono fortemente plasmati da rapporti di potere sociale. Nella variante berlusconiana il privato, non solo erotico e sessuale, ma anche quello degli interessi economici, è invece transitato tout court nella politica, senza più distinzioni (per questo, tra l´altro, Berlusconi non può evocare oggi impunemente il diritto alla privacy). Da strumento per denunciare i rapporti di potere, l´assunto che il privato è politico è diventato un´arma del potere. Questo rovesciamento si accompagna ad un altro, più diffuso, più di massa, che coinvolge soprattutto i senza potere e che è sollecitato dalla televisione: la messa in pubblico (purché in TV) della propria vita privata e intimità come strumento per avere un più o meno effimero successo.
La seconda ragione riguarda l´imbarazzo a trattare i "casi Noemi" senza valutare le protagoniste come semplici vittime dell´uomo potente di turno e/o di genitori ambiziosi e sconsiderati (quindi di fatto senza propria capacità e volontà), ma anche prendendo le distanze dal modello di donna e di successo cui sembrano aderire. Siamo diventate afasiche perché non capiamo il modo e il mondo in cui si muovono molte giovani (e anche meno giovani) donne. Soprattutto non capiamo come dall´orgogliosa affermazione "il corpo è mio" si sia passati alla messa in rete del proprio corpo.
Eppure il grande successo in rete del documentario "Il corpo delle donne" ci mostra che molte donne (e anche uomini), messe di fronte all´uso improprio e umiliante del corpo femminile da parte della televisione (ma anche della pubblicità) italiana, iniziano a ribellarsi, a discutere, a riprendere la parola.

il Riformista 29.5.09
Così l'affare Noemi riapre le manovre per il dopo-Silvio
Perché dice la parola dimissioni
di Stefano Cappellini


Per uscire dall'angolo in cui lo ha sospinto il caso Noemi, ieri il premier ha dovuto alzare l'asticella, sdoganando nel dibattito pubblico due parole fin qui bandite dalla comunicazione di Palazzo Chigi: «minorenni» e, soprattutto, «dimissioni». La prima l'ha utilizzata per smentire «rapporti piccanti» con la ragazza, rispondendo anche all'accusa di Veronica Lario («Mio marito frequenta minorenni») che molti media avevano evitato di citare. La seconda è risuonata quando il Cavaliere ha spiegato che «se tutto fosse vero, mi dovrei dimettere subito».
Affermazione che è al tempo stesso una sfida e un atto non dovuto, dato che nessuno ha mai chiesto al premier di farsi da parte per l'affaire Noemi. Al punto che l'uscita pare rivolta più alla propria parte politica e a stroncare le voci di quanti hanno sospettato - qualcuno forse sperato - che il dopo Berlusconi in politica fosse meno lontano del previsto.
Perché non è il silenzio delle ministre del Pdl sulla questione sessuale (Gelmini eslcusa) ad aver turbato il Cavaliere. A impensierirlo molto di più è la dissimulata indifferenza con cui alcuni pezzi grossi del centrodestra seguono l'evolversi di una storia che ha messo in difficoltà il presidente del Consiglio come in precedenza era accaduto forse solo in occasione dell'avviso di garanzia recapitatogli a mezzo stampa durante il G7 di Napoli. E parliamo di quindici anni fa.
La parola dimissioni testimonia dunque, per bocca del diretto interessato, quale sia la vera posta in palio del Casoriagate, ovvero la possibilità che il governo Berlusconi - che pareva un impero destinato a durare nel tempo - possa rivelarsi, come ha scritto l'Economist poche settimane addietro «un gigante dai piedi d'argilla». Un incubo per il popolo del Cavaliere. Ma d'altra parte un'opportunità, finanche una liberazione, per quanti aspettano da tre lustri che salti il tappo berlusconiano e si rimescolino le carte della politica nazionale.
All'ombra del Berlusconi ter si muovono da tempo le ambizioni e i progetti di chi ormai morde il freno. C'è un leader autorevole e in cerca di consacrazione come Gianfranco Fini, che platealmente persegue un disegno di affermazione personale supportato da robuste idee e da una buona dose di coraggio (e il premier non ha dimenticato il contributo della fondazione finiana "Farefuturo" nell'esplosione del caso veline). Ci sono ministri come Giulio Tremonti, che gestiscono un'agenda politica e un patrimonio ideologico in gran parte autonomi da Palazzo Chigi e non si sporcano le mani con l'attualità da rotocalco. Non mancano ministri scontenti del ruolo e del portafoglio, come pure ufficiali di riserva che scalpitano in panchina e intanto mettono su tessere e correnti. Senza dimenticare un outsider come Pierferdinando Casini, esule pronto a tornare in forze nel campo che lo ha visto protagonista (non a caso il leader Udc ha chiesto a Berlusconi di rispondere ai quesiti di Repubblica su Noemi).
E non ci sono solo le trame di Palazzo. Un Berlusconi onnipotente non garba nemmeno ad alcuni tra i suoi grandi elettori, più o meno presunti. Non è gradito a quella Confindustria che per la prima volta ha visto un politico calare all'assemblea generale degli industriali guardando la platea dal basso verso l'alto, anziché presentarsi col cappello come era abitudine nella Seconda Repubblica. Persino al congresso della Cei il gioco di critiche, mezze dichiarazioni e gaffe sulla questione morale ha dimostrato che tra i vescovi italiani c'è chi ritiene opportuno, pur senza sfiduciare il Cavaliere, porre un argine ai suoi spazi di condotta. Anche chi non ha interesse ad auspicare «dimissioni» confida però che la nuova stagione di governo del premier non si stabilizzi in una monarchia assoluta.
Forse con le dichiarazioni di ieri il premier ha esorcizzato lo spettro di una crisi di governo. Ma ha anche confermato come grazie a un party di Casoria si siano ufficialmente aperte le grandi manovre per il dopo Berlusconi.

l’Unità 29.5.09
D’Alema e Fini si stringono la mano
Lavoro comune delle loro fondazioni
Il 18 giugno Italianieuropei e Farefuturo organizzano alla Camera una giornata di studio sui temi dell’identità nazionale e della nuova cittadinanza. Ma è solo un primo passo
di Susanna Turco


Dopo settimane di tensioni il pranzo tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi, l’ultimo prima delle elezioni europee, è andato benissimo naturalmente. Una cordialità, un’allegria che non si vedevano da mesi. Entrambe, del resto, accuratamente preparate dagli ottimi uffici di Gianni Letta. Accompagnate dai consigli giornalistici di «prendere Fini come una risorsa» da un lato. E addolcite dalla consapevolezza che tirare la corda si deve se si può, ma senza esagerare dall’altro.
Poi, appena un’ora dopo, il presidente della Camera è intervenuto alla presentazione di un volume su Alcide De Gasperi. E, mostrando binari e limiti di questa elettorale pax, si è prodotto in un ritratto dello statista diccì perfettamente tagliato sugli occhi del se stesso di oggi. Il «sobrio» e «serio» fondatore della Dc, ha detto l’ex leader di An, «volle essere non tanto il leader di un partito o di una nazione, ma una guida», fu «un esempio di laico cristiano», «non coinvolse mai la Chiesa nelle responsabilità che a lui spettavano come presidente del Consiglio», «più che del potere fece uso della responsabilità e per questo fu talvolta in dissenso da amici carissimi, compiendo anche scelte non condivise».
Un De Gasperi finiano, in linea con il debutto dell’ex leader di An nel Ppe, che si armonizza alla perfezione con le iniziative ammantate di istituzionalismo (e trasversalismo), pronte a partire appena dopo le elezioni. Nelle quali sempre si ritrova l’impronta dell’ex leader di An.
Una di queste coinvolge ancora una volta sia pur indirettamente Massimo D’Alema: la sua Italianieuropei, insieme alla finiana Farefuturo, sono infatti le due fondazioni «contemporanee» che, insieme con un network di fondazioni storiche come la Gramsci, la Sturzo, la Einaudi e altre stanno lavorando a un progetto portato avanti dalla Camera. L’obiettivo: lavorare e approfondire i temi dell’identità nazionale e della nuova idea di cittadinanza. Temi ai quali Fini tiene moltissimo.
Si comincerà dunque il 18 giugno, con una giornata di studio a Montecitorio, officiata naturalmente anche dal padrone di casa. Ma il progetto guarda in lungo: mira addirittura a organizzare veri e propri corsi su identità e cittadinanza destinati ai «nuovi italiani», ossia agli immigrati e ai loro figli. Gli stessi per i quali, sul fronte parlamentare, il presidente della Camera si sta adoperando per una legge che faciliti la cittadinanza. Il tutto, sempre in un’ottica di una politica «non occasionalista», che punti anche a sedimentare qualcosa, a ricostruire le tradizioni politiche nel deserto post-tangentopoli. «Dobbiamo guardare all’Italia dei prossimi quindici anni», ha ammonito del resto Fini al congresso di costituzione del Pdl. Forse avrebbe gradito riecheggiare il De Gasperi del: «Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista alla prossima generazione».
Se poi per caso nel parapiglia delle europee la polemica sulle troppe fiducie sull’opportunità di dimezzare i parlamentari dovesse sopirsi, c’è già pronto un bel convegno (19 giugno). Titolo: “Il futuro del parlamentarismo in Italia e in Germania”. È il frutto congiunto degli sforzi della Fondazione Adenauer e di quella che, per invidia dei quagliarielli vari, è la sua principale interlocutrice in Italia: la fondazione Farefuturo. Parlerà anche Fini, naturalmente. Bisognerà invece aspettare il 2 luglio per il battesimo di “Italia decide”, la trasversale associazione che sotto l’occhio vigile di Luciano Violante e l’appoggio della Camera mette insieme gli uomini di Fini e D’Alema, oltre che Tremonti, Giuliano Amato e Gianni Letta. L’obiettivo ufficiale è quello di confrontarsi, mettere a fuoco l’interesse nazionale e la classe dirigente in grado di realizzarlo. In fervente attesa del futuro che non c’era.

Corriere della Sera 29.5.09
Archivi Lettere e telegrammi dell’inizio degli anni Venti: la storia d’amore con Mussolini
La Sarfatti a Benito: prima «adorato» poi «idiota»
di Armando Torno


Il prossimo 16 giugno andranno al­l’asta alla sede di Roma di Bloomsbu­ry autografi e manoscritti, divenuti oggetto di investimento (da oggi visibili sul sito www.bloomsburyauctions.com).
Si va da alcune lettere, scritte tra il 1906 e il 1921, di Alberto Fassini (Fondatore del­la Cines, la prima casa cinematografica italiana) stimate tra 5 e 7 mila euro, ad autografi rinascimentali della collezione Camuccini con missive di Michelangelo, Raffaello, Bramante, Donatello ecc. (71 pezzi, intorno a 70 mila euro). C’è il car­teggio del poeta Marino Moretti con Car­lo F. Zanella — oltre 900 lettere, cartoli­ne, biglietti vergati tra il 1908 e il 1956: valutazione di 25-30 mila euro — e c’è quello tra D’Annunzio e Luisa Baccara, che si pone tra 30 e 35 mila euro.
In questa vendita c’è anche l’archivio personale di Ada Negri, con manoscritti, tre intere corrispondenze, documenti, foto: parte da una base di 55-65 mila eu­ro. E al suo interno, ecco la vera perla che Bloomsbury ha estrapolato indican­dola «lotto 54»: si tratta di alcune carte di Margherita Sarfatti, amica della poe­tessa, ricevute forse con l’impegno di di­struggerle. Riguardano la sua relazione con Benito Mussolini negli anni 1922-23. È un insieme di 25 lettere autografe, al­cune con relative buste; c’è una missiva dattiloscritta, 1 cablogramma dell’«He­rald Tribune» con la richiesta di intervi­stare il futuro duce, 7 telegrammi e 3 fo­to. Che cosa contengono?
Rispondiamo con un’immagine: lo spaccato senza veli della loro passione. Biografie come quella di Karin Wieland, Margherita Sarfatti l’amante del Duce (Utet libreria), descrivono questo amore senza i particolari che qui emergono con forza. Sarà compito degli studiosi appro­fondire il contenuto delle carte, ma si può constatare quanto Mussolini fosse esuberante e si tenesse lontano dalle vie del galateo nell’intimità. Di certo la Sar­fatti perse la testa. Ecco un esempio: «Le prime ore del 1923. Adorato, mio adora­to! Voglio cominciar l’anno scrivendo il tuo nome su un pezzo di carta: Benito, mio amore, mio amante, mio adorato! Sono, mi proclamo, mi glorio di essere, appassionatamente, interamente, devo­tamente, perdutamente Tua: ora, per tutto il 1923 e, se tu vorrai mio adorato, perché mi ami come io ti amo, per sempre... ». La Sarfatti desidera essere «dissimulata nell’ombra» della sua luce, chiede: «Getta l’ancora nel mio porto, grande nave gloriosa, e salpa per tutti gli oceani ». Nella lettera 10 il tono cambia: «Le tue divine stregonerie mi hanno fatto brulicare il sangue di uno strano fermento ». Le bordate aumentano sino a un «non mi chiedere cosa che non sia compatibile con la mia dignità».
Il 30 gennaio di quel 1923 qualcosa non va: «La serie di scenate assurde, ignobili, indegne, ma soprattutto idiote avvenute stasera mi ha lasciato perplessa, esasperata, disperata ma anche pensosa ». La ricordata dignità deve essere stata messa in gioco da «una serie di martirii stravaganti raffinati complicati; uno più inaspettato e immeritato e più fantastico dell’altro». La lettera n. 22, ben 28 pagine, è piena di disperazione: «Sono stanca di amarti, stanca che tu fac­cia del mio amore un tappeto per calpe­starlo. Tu sei un uomo estremamente sensitivo, ma fortissimo e, come tutti gli impetuosi, 'dai fuori' e dopo ti passa». C’è di più: «Bella figura di idiota ci hai fatto ad andare in pompa magna da quel­l’idiota di Bettinelli, il più falso, cretino, retorico pittore di Milano, e il più ignoto degli ignoti... Avresti dovuto ricordarti che quando si è a Capo del Governo, le proprie espansioni ammirative devono essere dettate anche da criteri meno per­sonali e più severi».

Corriere della Sera 29.5.09
Una mostra a Trento. La vita ai tempi dell’ Egitto
Oggetti, amuleti e sarcofagi: gli antichi giorni sul Nilo in attesa dell’ultimo viaggio
di Marcello Parilli


Esposte per la prima volta in pubblico due ricche collezioni di reperti
Gli ottocento pezzi provengono dai depositi dei musei di Torino e di Trento

In fondo al cunicolo di pietra si in­travvede un sarcofago aperto con dentro la sua mummia, i vasi ca­nopi per conservare le viscere del defunto, ciotole e suppellettili e una barchetta di legno con tanto di equipaggio per affrontare il Grande Viaggio. Si tratta di una tomba ripor­tata alla luce dal grande archeologo Ernesto Schiaparelli ad Assiut (do­ve, secondo la tradizione copta, la sacra Famiglia trovò rifugio nella sua fuga in Egitto) durante la cam­pagna egiziana del 1908-1920, che portò alla celebre scoperta della tomba di Kha, l’architetto del farao­ne Amenofi III. Anche se qui siamo 3.000 chilometri più a nord, nelle sale del Castello del Buonconsiglio di Trento, dove si respira il profu­mo della montagna piuttosto che quello delle sabbie africane.
Ma il contrasto ci sta tutto, per­ché la mostra che si apre domani a Trento è proprio figlia dell’egitto­mania che nell’Ottocento ha prima affascinato e poi conquistato l’ari­stocrazia della Vecchia Europa, di­sposta a sponsorizzare scienziati, esploratori e tombaroli in partenza per l’Egitto pur di arricchire le colle­zioni dei propri musei privati. Ma l’opportunità è ghiotta, perché fino al prossimo 8 novembre al Castello sarà possibile ammirare per la pri­ma volta due ricche collezioni (per un totale di 800 pezzi) che non era­no mai state mostrate in pubblico.
La prima è quella proveniente dai depositi del Museo Egizio di Torino ed è frutto delle campagne di scavo dello Schiaparelli ad Assiut e Gebe­lein. La seconda è quella assemblata dall’ufficiale dell’Impero Austro-Un­garico Taddeo Tonelli, appassionato egittologo: 33 casse di reperti che vennero cedute al Municipio di Trento in cambio di 500 fiorini da destinare in beneficienza, e che so­no rimaste fino a oggi custodite nei depositi del museo del castello, oggi diretto da Franco Marzatico.
La componente «torinese» della mostra, curata da Elvira D’Amicone e Massimiliana Pozzi, prevede una prima parte dedicata agli scavi di Schiaparelli. Tra pareti di roccia ben riprodotte, alcuni dei reperti si ritro­vano un secolo dopo accanto alle macchine fotografiche, ai diari e al­le lettere dell’archeologo. Segue un’ampia sezione tipicamente mu­seale all’insegna del legno (gli egi­ziani erano maestri nel lavorarlo), con l’esposizione di sarcofagi e mummie, accompagnati da tutti gli elementi del corredo funerario che servivano nell’Aldilà, considerato l’estensione della nostra vita socia­le ed economica terrena: specchi, vasellame, sandali, archi e frecce, ma anche poggiatesta per la mum­mia, barchette funerarie, scalpelli di scultori, «plastici» di attività agri­cole o artigianali, dieci stele e 40 pa­reti di sarcofago con geroglifici inci­si e dipinti che raccontano la vita della classe media, di amministrato­ri provinciali e di piccoli proprietari terrieri nella provincia del Medio Egitto fra il Primo Periodo Interme­dio e il Medio Regno (2200-1800 a.C.).
La parte «trentina» della mostra, che diventerà permanente ed è cura­ta da Sabina Malgora, riguarda inve­ce gli oggetti acquistati da Tonelli sul mercato, anche egiziano, nella prima metà dell’Ottocento. Ne fan­no parte una bellissima maschera funeraria in foglia d’oro, centinaia di amuleti (come gli scarabei del cuore, simbolo di vita eterna), oc­chi udjiat, monili in paste vitree co­lorate e moltissimi modelli di servi­tori ( ushabti), deposti nelle tombe perché sostituissero il defunto nel­le attività nell’Oltretomba.
Gli oggetti più curiosi della colle­zione di Tonelli sono però un paio di mummie di gatto: «Come tanti al­tri animali, i gatti rappresentavano delle divinità o si pensava che fosse­ro in contatto con esse, ma erano ve­nerati anche perché mangiavano i topi, vera minaccia per le riserve ali­mentari e funesti perché attiravano i serpenti velenosi — dice Sabina Malgora —. Ma c’era anche l’abitu­dine, per inviare delle richieste agli dei, di far uccidere, imbalsamare e seppellire gli animali a loro associa­ti, come coccodrilli, babbuini e, ap­punto, gatti, visto che ai maschi era associato il dio del sole Ra, e alle femmine la dea Bastet, protettrice della casa e dei bambini. Erano del­le specie di ex voto».
L’allestimento della mostra è cu­rato dall’architetto Michelangelo Lupo, che a Trento propone anche un video girato appositamente sul­l’ «Egitto mai visto» di oggi, e che contemporaneamente sta preparan­do per il Quirinale una mostra sulla Giordania in occasione della visita di Re Abd Allah e della moglie Ra­nia in ottobre.

il Riformista 29.5.09
Lothar de Mazière, ultimo capo di governo della vecchia Germania orientale
«Ho liquidato la Ddr ma non era soltanto un mostro totalitario»
di Paolo Petrillo


Memoria. Alla testa della Cdu vinse le prime elezioni libere a est e traghettò lo Stato socialista verso l'unificazione. «È stata una vera rivoluzione» dice oggi convinto. L'immagine rimasta di quella lunga esperienza però gli sembra caricaturale. «Facciamo un torto al popolo tedesco che visse aldilà del muro». Vent'anni dopo la Storia è ancora rimossa.

Berlino. È stato l'ultimo capo di governo della vecchia Germania orientale, quello Stato Operaio e Contadino di cui nel prossimo autunno si celebrerà il ventennale della scomparsa. Lothar de Mazière, classe 1940, di professione avvocato e appassionato di musica. Da presidente della Cdu e alla testa di un'ampia coalizione di partiti vince le elezioni del 18 marzo 1990, il primo voto libero tenuto in quella parte di Germania dal 1932. Il Muro di Berlino è caduto ormai da quattro mesi e il compito del governo de Maziere consiste nel liquidare la forma-Stato della Ddr, nel traghettare la Germania orientale all'interno della nuova Germania unita. Compito che viene svolto in poco meno di sei mesi: il 3 ottobre del 1990 nasce ufficialmente la nuova Bundesrepublik. Ancora pochi mesi come deputato e de Maziere abbandona definitivamente la politica. Perché? «Semplicemente perché non avevo mai pensato di fare il politico di professione - risponde de Mazière al Riformista - Il mandato affidatomi dai cittadini era stato assolto e io mi accorsi presto che non era possibile portare avanti sia la politica che il lavoro, se si volevano fare bene entrambe le cose. Così ho scelto il lavoro».
Fra pochi mesi si celebrerà il ventesimo anniversario della caduta del Muro. Se dovesse fare un bilancio fra le speranze che accompagnarono la "Svolta" ("die Wende") e la successiva realtà storica?
Intanto devo dire che il termine "svolta" non mi è mai piaciuto. Lo coniò Egon Krenz (ultimo segretario della Sed, predecessore di de Mazière alla guida della Ddr; ndr), nell'ottobre del 1989, ma è un termine fuorviante. Quello che accadde nella Germania est fu in realtà una rivoluzione. Ed è purtroppo normale che le rivoluzioni siano accompagnate da un eccesso di speranze, destinate poi ad andare in buona parte deluse. In quei mesi i tedeschi dell'est vollero credere ai miracoli: il miracolo del marco, il miracolo della riunificazione. E invece incontrarono una realtà ben diversa, un processo che imponeva tempi economici e mentali molto più lunghi dell'auspicato.
Il 2009 è anno di ricorrenze in Germania: vent'anni dalla caduta del Muro, sessanta dalla fondazione della Bundesrepublik. Eppure anche in questo clima di festeggiamenti, della Ddr si continua a parlare poco. Oppure, quando se ne parla, è solo per ribadire l'immagine di un regime autoritario e antidemocratico, spesso crudele. Una società sottoposta al costante controllo della Stasi, dove i cittadini per avere un minimo di tranquillità erano costretti a spiarsi l'un l'altro. Lei nella Ddr ci ha vissuto a lungo: corrisponde al vero quest'immagine?
No - risponde senza esitazione de Mazière - Se si riduce la Ddr alla Stasi e alla repressione, si fa un torto alle persone che vi hanno vissuto. I tedeschi orientali erano altrettanto seri dei tedeschi occidentali. E con altrettanta serietà hanno ricostruito un paese che era stato ridotto in macerie dalla guerra. È vero che la Ddr non era uno Stato di diritto, ed è vero che il potere politico era retto dalle baionette sovietiche. Ma la Germania orientale ha prodotto anche esperienze artistiche e sociali di una certa importanza, esperienze a cui ancora oggi si guarda con interesse. E negare tutto questo riducendo la Ddr a una enorme macchina di controllo poliziesco significa fornire un'immagine falsa della Ddr.
C'è qualcosa di strano nel modo in cui la Germania di oggi guarda all'esperienza Ddr. Se si pensa - specialmente da italiani - al modo in cui i tedeschi hanno fatto i conti con il passato nazista, non si può non provare una qualche ammirazione. Da generazioni la società s'interroga capillarmente in termini di responsabilità storica e cultura della memoria, con risultati apprezzabili anche sul piano del vivere civile. Invece per quanto riguarda la Ddr sembra aver prevalso una cultura della rimozione. Secondo Lei, presidente, perché un approccio tanto differente?
Il problema è che l'elaborazione della storia della Ddr è un prodotto della Germania occidentale, non di quella orientale. Ad ovest i pregiudizi sull'est sono ancora molto forti e quando si parla della Ddr si cerca soprattutto di veder confermati quei pregiudizi. È un'esperienza che faccio quasi quotidianamente: ricevo molti studenti, che vengono da me per farsi raccontare come andarono le cose al momento della caduta del Muro. E ognuno di loro ha un'immagine preconfezionata della Ddr, elaborata sulla base dei resoconti di giornalisti e storici occidentali. E ognuno di loro ci resta male, quando gli dico che le cose non erano solo così. La vulgata corrente ha ridotto la Ddr ad un mondo composto esclusivamente da vittime e carnefici. Solo che vittime e carnefici rappresentavano forse il 6 per cento della società. Il resto era popolo, che non desiderava altro che di essere popolo, impegnato com'è normale a cercare il meglio per sé e la propria famiglia.
Secondo alcuni osservatori, questa rimozione della storia della Ddr è una delle ragioni che spiegano il successo del partito Die Linke nei territori orientali del Paese. Milioni di cittadini che si ritrovano senza "passato" e che si rivolgono all'unico partito che a quella realtà fa ancora riferimento. Si tratta di una spiegazione credibile? E pensa che nei prossimi anni si avrà un cambiamento di tendenza, oppure che questa sia ormai l'atteggiamento definitivo della Brd nei confronti alla sua componente "orientale".
Sì, è probabile che il successo di Die Linke - che comunque non deve essere esagerato - si spieghi anche così. Ed è anche probabile che nel prossimo futuro storici e giornalisti cambieranno approccio nei confronti della Ddr. È vero che la Germania ha affrontato con molta serietà il proprio passato nazionalsocialista, ma è anche vero che questo confronto critico è cominciato quasi 25 anni dopo la fine del regime hitleriano. Molti storici sostengono che debba passare almeno un quarto di secolo prima d'iniziare un'affidabile ricognizione su un determinato periodo. E credo che anche la ricerca storica sulla Ddr non faccia eccezione a questa regola.

Terra 29.5.09
Né in cielo né in terra.
Lo Stato perfetto di Platone
di Noemi Ghetti


Nelle librerie l’ultimo lavoro di Mario Vegetti, «Un paradigma in cielo». Una rassegna della fortuna del pensatore politico da Aristotele a Kant e Hegel, fino ai giorni nostri. Con un’attenzione particolare al Novecento

Precursore di tutti i totalitarismi. La sua «ingegneria sociale utopica» è indifferente alla violenza richiesta per fondare una società nuova

Abbiamo un Platone liberale e uno socialista, uno fascista e uno cattolico,
uno nazista e uno bolscevico

L’iperuranio delle idee platoniche era la reazione all’antimetafisica dei sofisti, che con Protagora avevano posto «l’uomo a misura di tutte le cose»: una risposta a quello che oggi si chiamerebbe “relativismo”, paventato elemento disgregatore della “pólis”, a cui il metodo maieutico di Socrate non aveva saputo porre rimedio. Il «sapere di non sapere», cardine dell’intellettualismo etico socratico, si era rivelato infatti un principio inadeguato alla ricerca del «Sommo Bene», cioè della verità assoluta. Platone rispose con la proposizione teorica di un fondamento divino, eterno ed immutabile della conoscenza, che poteva essere solo “reminiscenza” di quanto l’anima razionale, e di necessità immortale, conosceva “ab aeterno”, per averlo mutuato nell’iperuranio da cui proveniva. Sembrerebbe una questione filosofica, e invece era una questione eminentemente politica: «la teoria delle idee - secondo Popper - è lo strumento teorico che consente di delineare, e di fondare, il “modello dello stato perfetto”, per definizione immutabile e invariante».
«Un paradigma in cielo» (Carocci), il nuovo libro di Mario Vegetti, ci conduce attraverso un’interessante rassegna della fortuna del Platone politico da Aristotele ai giorni nostri, con un’attenzione particolare al Novecento. Il titolo del libro è una citazione di un passo della Repubblica platonica in cui a Glaucone, che obietta che la città della cui fondazione si parla non esiste da nessuna parte della terra, Socrate risponde che essa è posta in cielo come modello (“paradeigma”) per chi voglia, tenendolo a mente, rifondare se stesso. Di una rifondazione del sapere si sentiva in verità bisogno, se si consideravano gli esiti della scandalosa condotta politica di cui aveva dato prova la nuova leva di filosofi cresciuti, alla fine del V secolo, in ambito sofistico-socratico. Nel 415 a.C., mentre infuriava la guerra del Peloponneso, Alcibiade, il dissoluto e ambizioso pupillo amato da Socrate nel Simposio, aveva promosso la disastrosa spedizione militare ateniese di 30.000 uomini in Sicilia, che segnò l’inizio del declino di Atene. Nel 404 a.C. il sanguinario Crizia, un altro allievo di Socrate, era stato il capo dei Trenta tiranni, il governo fantoccio imposto dagli spartani agli ateniesi sconfitti, che si era macchiato - oltre che dell’assassinio dello stesso Alcibiade - di confische, esili e uccisioni di stranieri senza cittadinanza, allora il nerbo produttivo della città.
Per Platone dunque l’interesse politico è tutt’uno con quello filosofico, e le sue opere più direttamente politiche, la Repubblica, il Politico e le Leggi, costituiscono la parallela elaborazione filosofica del progetto politico di instaurare il suo stato ideale nella Siracusa del tiranno Dionisio I e poi di Dionisio II. Il progetto, vagheggiato sulla base di un rapporto di intima amicizia con l’ammiratore e seguace siciliano Dione, cognato di Dionisio I, fu perseguito da Platone nell’arco di un trentennio, con tre a dir poco problematiche spedizioni in Sicilia.
La malattia della “pólis” della fine del V secolo e la cura ideata da Platone, una “politéia” governata da una casta illuminata di filosofi-legislatori, in cui l’ordine sia assicurato da una classe di guardiani, che garantiscano l’obbedienza del vasto gregge dei lavoratori, nel Medio Evo attirò l’interesse dei teologi cristiani, e sembrò quasi incarnarsi nel modello teocratico cristiano. Ma fu a partire da Kant e Hegel che, per tutto l’Ottocento e il Novecento, si avvicendarono le interpretazioni più disparate del pensiero di Platone, divenuto ineludibile banco di prova di ogni filosofia della politica. Tra slittamenti semantici significativi, valorizzazioni di aspetti parziali a discapito di altri, arbitrarie appropriazioni e deformazioni, la rassegna di Vegetti procede agile e nello stesso tempo approfondita, fornendoci una storia della cultura degli ultimi due secoli filtrata alla luce della teoria platonica dello stato. Incontriamo così un Platone liberale e uno socialista, un Platone nazista e uno comunista, uno fascista e uno cattolico. E non mancano quello utopico, quello ironico e addirittura quello impolitico.
Nel Novecento i tedeschi individuarono in Platone la guida spirituale della rinascita dalla sconfitta della prima guerra mondiale e dal trauma della rivoluzione repubblicana. Al nazionalsocialismo piacquero la superiorità ariana della casta dei filosofi, la militarizzazione dello stato e l’eugenetica al servizio dell’idea di razza. I bolscevichi dei primi anni della rivoluzione accolsero l’utopia platonica come premessa ad una radicale trasformazione educativa e morale della società, affascinati dall’opera di collettivizzazione, dall’abolizione della proprietà privata e della famiglia teorizzati dalla Repubblica. Ma nel 1923 le opere di Platone furono escluse dalla libera consultazione nelle biblioteche sovietiche, insieme con quelle di Kant e Nietzsche.
Per Platone, scriveva Popper nel 1944, mentre la seconda guerra mondiale infuriava, «l’individuo è il Sommo Male in senso assoluto»: questo è il punto nodale, che lo rende precursore di tutti i totalitarismi. Presa dal sacro fuoco di fondare la società nuova, «l’ingegneria sociale utopica» di Platone è indifferente alla violenza che si richiede per costituirla. Insomma, per l’arbitrarietà dei fini e l’impossibilità di controllare la sequenza dei mezzi, il filosofo della «società aperta» riteneva molto probabile che essa portasse sulla terra, invece che il cielo, l’inferno. Il potenziale antidemocratico della «scrittura velenosa», perché affascinante, della Repubblica è ancora ben lungi, Popper concludeva, dall’essere esaurito.
«Che cosa resta oggi di Platone? » si chiede Vegetti alla fine del suo saggio.
La ricerca sulle cause profonde della plurimillenaria fascinazione, subita sia dai conservatori che dai rivoluzionari, di un modello politico totalitario fondato sulla negazione della sessualità e dell’identità delle donne, relegate al ruolo riproduttivo di fattrici per la patria, e sull’elevazione del rapporto pederastico a modello ideale di eros, rimane tuttora aperta.