domenica 31 maggio 2009

l’Unità 31.5.09
Affare di Stato. Il premier ottiene il sequestro delle foto a Villa Certosa: cosa ha da nascondere?
Topless ed effusioni. Centinaia di ragazze nella reggia
Il reporter indagato: contattato dalla segretaria del premier
Gioco sporco
di Concita De Gregorio


Niccolò "Mavalà" Ghedini, avvocato personale del premier e dunque deputato, detta la linea difensiva e stuoli di suoi assistenti - spesso parimenti deputati - eseguono solerti. I giornali di famiglia si incaricano del lavoro sporco: picchiano, insinuano. La strategia è questa: screditare personalmente i «testimoni d'accusa», infangarne la reputazione. Non entrare nel merito delle circostanze provate ma distruggere le prove: siano intercettazioni telefoniche (con una legge, addirittura, se serve) o fotografie: ci sono dirigenti Rai che procacciano ragazze «per il morale del Capo»?. Illegittimo diffondere i testi, al macero. Ci sono foto che mostrano il premier con decine di ragazze giovanissime a seno nudo in altalena? Violata la privacy, sequestrate le foto. Fingiamo per un momento che non siano enormemente più importanti il processo Mills, All Iberian, la corruzione eletta da trent'anni a sistema. Parliamo solo di quest'ultimo inconveniente senile. Siamo di fronte da mesi, forse da anni - un crescendo peggiorato con l'età - ad un premier che sistematicamente usa il suo enorme potere economico e politico per procacciarsi, tra molti altri benefici privati, ragazze a decine di cui circondarsi nelle festicciole a palazzo. Tutti lo sanno, i protagonisti di questa esibizione di grandeur da basso impero sono migliaia. Ogni ragazza ha un'amica, che ha un fidanzato, che ha un amico. Le foto sui cellulari circolano senza controllo. Le ragazze sono sempre più giovani: crisalidi sul punto di diventare farfalle. Per prima Veronica Lario, la moglie, ha detto: è un uomo che non sta bene, frequenta minorenni, figure di vergini che si offrono al drago. Libero l'ha messa in prima pagina a seno nudo, foto di scena giovanili, col titolo «Velina ingrata». Nessuno dei figli ha reso in quell’occasione dichiarazioni pubbliche. L'ex fidanzato della ex minorenne Noemi ha rivelato la data dell'avvento nella sua vita di Silvio Berlusconi: 2008.
Gli avvocati e i giornali del premier lo hanno aggredito personalmente senza mai smentirlo: ha precedenti penali, si è fatto pagare. Dal testo si evince che Repubblica non l'ha pagato, Novella 2000 ha smentito, il Giornale gli ha dato 500 euro. L'unico ad aver pagato è dunque finora il Giornale. Il fotografo sardo che custodisce centinaia di scatti di ragazzine in villa è da ieri indagato, le foto sotto sequestro. Non avendo altro a cui attaccarsi Libero ha titolato ieri in prima pagina «Pure Concita al servizio del Cavaliere». L'argomento è che pubblico libri con Mondadori. La prima casa editrice di questo paese, come Einaudi, esistevano prima di Berlusconi e gli sopravviveranno. Ho un rapporto personale con Cristina Mondadori da quando, negli anni Ottanta, vinsi la prima edizione del premio giornalistico intitolato a suo marito Mario Formenton: fu quella borsa di studio a portarmi nei più grandi giornali europei e poi a Repubblica dove ho lavorato vent'anni. Con Cristina Mondadori ho condiviso il lavoro per una fondazione dedicata ai bambini affetti da malattie congenite, vicende personali ci accomunano. I proventi dei miei libri vanno ad associazioni che di questo si occupano. Sono vicende personali, queste sì. Provo un poco di imbarazzo per i colleghi che con tanta leggerezza le sollevano senza sapere cosa toccano. Mi scuso di aver abusato di questo spazio per rispondere, non accadrà più.

l’Unità 31.5.09
Silvio da Casoria, l’educatore
I misteri mai voluti chiarire sul rapporto con una neodiciottenne, gli attacchi ai giudici e la semplice domanda del leader Pd
di Furio Colombo


Basta elencare alcuni fatti - nessuno enorme, tutti esemplari - accaduti lo stesso giorno, rivederli sui giornali e le notizie tv del giorno dopo, per capire la strana, misteriosa avventura che stiamo vivendo.
Primo fatto: il Presidente del Consiglio va alla Assemblea della Confesercenti e dichiara: «Se vuoi fare il male o fai il delinquente, o fai il giornalista o fai il magistrato». Solo i magistrati hanno protestato. Secondo fatto: «In un carruggio di Genova un giovane anarchico, tale Juan Antonio Sorrache Fernandez ha urlato contro il ministro La Russa una raffica di insulti prima di essere bloccato dagli uomini della scorta» (La Repubblica, 29 maggio). Episodio sgradevole su cui il generoso ministro della Difesa ha sorriso. Ma non il suo guardaspalle, il corpulento senatore della Repubblica Giorgio Bornacin. Ha atteso che il giovane scalmanato spagnolo fosse tenuto ben fermo dalla scorta e solo in quel momento gli ha sferrato un pugno al volto. Il TG3, Linea Notte, 28 maggio, ha mostrato con chiarezza il gesto di coraggio del senatore extra-large di cui il ministro La Russa dispone. Terzo fatto: «Einaudi non pubblica Il Quaderno il nuovo libro del premio Nobel José Saramago. «L‘opera contiene giudizi a dir poco trancianti su Silvio Berlusconi che di Einaudi è il proprietario» (Il Corriere della Sera 29 maggio). Qui c’è anche anche una nitida ridefinizione dell’editore. Non conta il Nobel. Conta il proprietario. Altrimenti come avrebbero potuto pubblicare, in America, la copiosa produzione di libri contro Kennedy, contro Clinton, contro Carter, contro Reagan, contro Bush, padre e figlio? Quarto fatto: il segretario del Partito democratico Dario Franceschini rivolge ai suoi ascoltatori, durante un incontro elettorale a Genova, questa domanda: «Fareste educare i vostri figli da Berlusconi?». È utile dire che domanda di Franceschini segue di pochi giorni l’improvvisa apparizione di Berlusconi alla festa di una diciottenne bella e sconosciuta (al resto degli italiani) circondata da decine di amiche e coetanee. Segue un regalo alla giovane debuttante, acquistato per migliaia di euro da orafo di reputazione internazionale; segue una serie innumerevole di affermazioni solenni e di solenni smentite; segue la perplessità di tutta Europa, stampa e politica, sul legame, la origine del legame, il rapporto tuttora immerso nel mistero fra Berlusconi e famiglia Letizia, in particolare con il padre della fortunata diciottenne. Però è un fatto che la festa ha avuto luogo a un tiro di schioppo dall’inceneritore di Acerra, festosamente inaugurato, con presidio di Forze armate, poche settimane prima dal premier.
Per allargare il quadro a beneficio dei posteri è bene ricordare che la domanda di Franceschini segue di pochi giorni una motivata sentenza del Tribunale di Milano (primo grado) che definisce più volte Berlusconi Silvio, padre e padrone di mezza Italia, «corruttore». Segue di pochi giorni una accorata lettera della consorte divorzianda Veronica Lario. Dice «frequenta minorenni» Supplica: «Aiutatelo come si aiuta qualcuno che non sta bene». Berlusconi Silvio, l’educatore. A questo punto, dite la verità: è difficile che un italiano, per quanto di destra, decida di far educare i suoi figli da uno che, di notte, deve improvvisamente recarsi a Casoria. Da uno che risponde alla sgradevole sentenza di Milano con attacchi violenti alla magistratura. Da uno che non tollera neppure la mite stampa italiana e la mette in lista fra i delinquenti; da uno che non risponde a dieci semplici elementari domande di Repubblica se non con il giuramento di non aver fatto nulla di «piccante» (notare il gergo da vecchio cabaret); da uno che la stampa del mondo definisce «un pericolo» e «una minaccia»; da uno di cui l’opinione americana diffida a causa degli intimi legami di affari con la Libia e con Putin, due ambienti dove gli oppositori e i giornalisti fastidiosi si eliminano.
Ma il leader giura sulla testa dei figli (un bel pericolo!). E i figli, rispondono sia al legame di affetto sia a quello, innegabilmente forte, di azienda. Di fronte al padre-azienda, l’Italia - ci dicono - si commuove. Che cosa accade allora? Accade che la sottosegretaria Roccella offra i suoi figli al presidente di Casoria (senza rivelare, però, che sono già grandini). E il resto dell’opinione pubblica, tutta la destra, tutta la stampa, un bel po’ di sinistra e Pd, accusano Franceschini di delitto contro la famiglia (Berlusconi).
Ma lui, tutto solo e accusato da ogni singolo editoriale di ogni singola libera testata, intendeva mettere in guardia la famiglia Italia. Perciò ripetete con lui la frase che vale la pena di fare bandiera elettorale: «Fareste educare i vostri figli da Silvio Berlusconi?».

l’Unità 31.5.09
Generazione sms
Quelle affollate solitudini dell’era cyber-liquida: l’Altro è solo un clic
L’instabilità affettiva: una nuova «condizione umana»
di Clara Sereni


Liquido. È diventato - il termine «lanciato» dal filosofo Bauman - ormai una categoria. Incertezza, paura, precarietà delle situazioni, delle condizioni e delle relazioni. In particolare si legano tra di loro concetti quali il consumismo alla creazione di rifiuti «umani», la globalizzazione all’industria della «paura», lo smantellamento delle sicurezze ad una vita appunto «liquida» sempre più frenetica e costretta ad adeguarsi alle attitudini del «gruppo» per non sentirsi esclusa, e così via. Anche perchè la solitudine genera insicurezza, ma altrettanto fa la relazione sentimentale. La capacità quindi di interrompere - di «disconnettersi» dice la Sereni - ciascuno dei rapporti interpersonali con un semplice gesto rappresenta dunque una vera e propria -nuova - condizione umana.
Mio suocero era padrone di tante storie. Storie di un’infanzia povera e abbandonata nelle campagne affamate del Molise, storie di avventure rocambolesche da camionista durante la guerra, storie della vita da prestigiatore che, per un certo tempo, aveva fiancheggiato la sua attività prevalente. Mio suocero faceva il taxista, e risiedeva nell’abitacolo non grande della sua automobile il serbatoio più ricco – numericamente e tematicamente – delle sue storie. Perché correndo a tavoletta verso un ospedale o al commissariato, oppure bloccate con lui dentro un ingorgo, le persone non di rado gli raccontavano di sé ragioni addotte e torti subiti, sofferenze e – più raramente – sprazzi di felicità. Parlavano di giornali letti, dei prezzi in aumento, di politica. Con la libertà di discorso che appartiene a chi pensa che mai più incontrerà la persona con cui sta parlando, a cui sta rivelando di sé anche qualcosa di intimo. Con la stessa libertà e per le stesse ragioni mio suocero dava consigli e esprimeva i propri pareri senza remore, discutendo talvolta anche animatamente: e se per i contrasti emersi la mancia non c’era pazienza, aveva detto comunque la sua. Si erano scambiate delle opinioni. Si portava a casa, con la storia, un’esperienza. Per non oscurare quei colloqui scelse di non essere mai radio-taxi, pur rinunciando così ad una parte di guadagni. Mio suocero è morto sedici anni fa, non un secolo. Eppure penso che da lì a qui ci sia stata una mutazione antropologica, qualcosa di cui forse non siamo ancora del tutto consapevoli, e che pure cambia radicalmente il quadro dentro cui ci muoviamo.
Una prima modifica, ormai evidentissima. Anche chi di noi è nato prima dei microchips, trovandosi dentro un taxi (un autobus, un treno) per affanno o felicità, trasferimento di piacere o urgenza, dopo aver dichiarato la destinazione con chi gli è compagno di tragitto non parla più: manda Sms e/o parla al cellulare con qualcun altro. Parlano al cellulare le coppie che camminano per mano, una con una persona e l’altro con un’altra, e mandano Sms. La linea può cadere perché c’è una galleria o perché la facciamo cadere noi, per interrompere un discorso che non ci piace. E gli SMS sono fatti apposta per rispondere soltanto quando vogliamo farlo, come le telefonate: sul display vediamo chi ci sta chiamando, e decidiamo se sottrarci o no. Attraverso i cellulari passano litigate e insulti di gente di ogni età, ma passa raramente il conflitto vero, quello che ti obbliga a costruire dialetticamente nuovi ponti per incontrare l’Altro, e non semplici passerelle temporanee, pronte a crollare al primo soffio di vento.
Pensavo a tutto questo quando ho preso in mano, con colpevole ritardo, Amore liquido, di Zigmunt Bauman (Laterza, 2006), secondo il quale le relazioni, i rapporti interpersonali, hanno oggi le stesse caratteristiche della Rete per un verso, e dei centri commerciali dall’altro. La Rete, perché non si decide più la fatica di una relazione, preferendo il più agevole meccanismo connessione-disconnessione: rispetto al quale siamo noi, solo noi a decidere. Possiamo rivelare di noi gli aspetti più intimi ed oscuri, certi che qualcuno ci ascolti ma altrettanto certi che, mai si verificasse un conflitto, basterà premere quit, e tutto si fermerà. I centri commerciali, perché lì scatta la ricerca compulsiva del prodotto più conveniente, più competitivo: dal punto di vista del prezzo, ma anche della qualità presunta o reale, dell’esclusività e dell’essere cool, dell’invidia o della considerazione che il possesso di quell’oggetto può generare nelle persone che si frequentano. A questo si aggiunge il meccanismo per cui molti di noi, se non proprio tutti, non acquistano più un nuovo prodotto perché il precedente si è rotto, o consumato, o comunque non funziona più: lo si compra perché è l’ultimo modello, e ogni altro che lo preceda si percepisce ormai come superato, inutile. Qualcosa di cui vergognarsi anche un po’, o che comunque non fa sentire “all’altezza”: di un modello di sviluppo che ti spinge a desiderare sempre di più, ed anche a non affidarti ad un solo prodotto, legandoti troppo al quale potresti perderti chissà quali mirabolanti occasioni.
Le grandi occasioni: come in un centro commerciale si consumano relazioni e amori, da non approfondire mai troppo (e da disconnettere opportunamente) per non perderne altre e migliori, per lasciare la porta sempre aperta al principe azzurro o alla principessa rosa che verrà, per non lasciarsi scappare contatti che potrebbero essere utili nei più svariati campi. Una escalation del desiderio insoddisfatto, che contribuisce in maniera rilevante a renderci isolati, individualisti, fragili, frustrati. Manovrabili da chi conosce le regole del gioco. Utilizzabili da leader che si propongono come testimonial di un prodotto, e non come costruttori di politiche.
Ho riassunto in maniera probabilmente maldestra i contenuti ben più ricchi del libro di Bauman, che vi fotografa però, a mio parere, quella che ho definito mutazione antropologica. Che ci riguarda tutti, anche chi non ha mai frequentato una chat o un social-network. E certo concerne anche chi usa la posta elettronica, quella che (come ha scritto Beppe Sebaste) garantisce insieme il massimo di distanza e il massimo di vicinanza, induce a tirar fuori cose di sé che altrimenti non si direbbero perché fare i conti con le proprie e altrui emozioni non è mai obbligatorio: chi dovesse indagarle si può sempre non rispondere, oppure mandare una faccina e chiuderla lì.
Certo non sono ancora scomparse del tutto le relazioni vere, i rapporti dotati di senso: ma siamo sulla buona strada. Forse si può dire che Internet ha atomizzato le anime più dell’atomica vera, quella di Nagasaki e Hiroshima: in fondo, ai tempi dell’equilibrio del terrore c’era più aggregazione, più obiettivi condivisi, e perfino meno guerre, di oggi.
Se si accetta questo punto di vista sulla trasformazione, appare ovvio come uno come Berlusconi vi si muova come un pesce nell’acqua: maestro nello stimolare speranze senza mai soddisfarle, che lascia ogni volta baluginare la speranza-certezza di un’altra occasione. Migliore, più appetibile: l’ultimo modello. Non più la carota per far marciare l’asino, ma il premio che spetta al vincitore di turno, quale che sia la posta in gioco, e chiunque abbia, di quel gioco, le carte in mano. Come si fa, a tornare a parlare con l’autista del taxi e con il compagno di viaggio? Come si fa a rischiare nuove relazioni vere e non virtuali, ad affrontare il conflitto della crescita resistendo alla tentazione di disconnettersi? Come si fa a parlare con i più giovani, a trasmettere la memoria e le esperienze, senza farsi travolgere dall’informazione spezzettata e disorganica, ma percepita come totale, di Youtube? Come si fa a smettere di inseguire l’ultimo modello di leader, e affrontare la fatica (e il conflitto, di nuovo) di costruire un modo diverso di fare politica? Le risposte non le porterà una cicogna, e sotto i cavoli è inutile cercare. Ma credo che di queste risposte ci sia bisogno: per sconfiggere Berlusconi, e per sconfiggere soprattutto il Berlusconi che, con radici ben insediate, cresce e si allarga dentro di noi.

l’Unità 31.5.09
Esibizione di muscoli
Il paese degli uomini veri
di Dijana Pavlovic


L’Espresso riporta la cronaca del Capodanno 2007 a Villa Certosa, con il nostro premier e i suoi ospiti circondati da 50 ragazze portate con aerei privati, diaria milionaria (in lire), gioielli, mancetta (sempre di milioni in lire) per lo shopping. Quello che mi rattrista di più non è la “faccia tosta” di un personaggio pubblico che pure messo allo scoperto delle sue menzogne, non mette in discussione il suo comportamento, anzi ci fa su battute, figurarsi se pensa alle dimissioni come accadrebbe in qualsiasi paese civile, ma il ritorno di una cultura maschilista per la quale chi “si fa” le ragazzine è un “uomo vero”. Non c’è dubbio, questo Paese sta diventando il paese degli “uomini duri e puri”, pronti a mostraci i muscoli e altro: come dimenticare il Bossi del «chi ce l’ha più duro»? Che poi questa virilità sia oramai solo virtuale viste le disavventure chirurgiche del premier e del leghista non conta. Quello che conta è dimostrare che è venuto il tempo dei “maschi”. E la campagna elettorale è ricca di queste esternazioni. Con stile “virile” all’anniversario della Polizia, il ministro Maroni ha chiuso il suo intervento così: per la sicurezza ora c’è «un binomio perfetto, Maroni e Manganelli», cioè lui e il capo della polizia.
Come ai bei tempi del Ventennio la politica si fa con battute da osteria, con ostentazione di forza e si rispolvera lo stile littorio. Se le organizzazioni e i giornali internazionali esprimono la loro preoccupazione per la deriva razzista e autoritaria, sono vigliacchi e criminali, come l’ONU che si ostina a difendere e proteggere le vite umane e il diritto di esistere dei migranti che non conta «un fico secco», come ci ha detto un altro uomo vero, il ministro La Russa, mentre Maroni garantisce che «noi tireremo dritto» perché «la sicurezza ora è garantita»; o asserviti alla sinistra come i giornali della “perfida Albione”. Così i muscoli e i toni truculenti nascondono tutti i nostri mali e le nostre insicurezze, PIL a picco, fabbriche che chiudono, operai in cassa integrazione, ceto medio sulla soglia della povertà, giovani senza futuro, la miseria culturale per cui entrare in Parlamento o fare la velina è la stessa cosa, un razzismo oramai pratica quotidiana nella violenza contro i diversi.
E questa nuova Italia, governata da un corruttore, come in ogni regime che si rispetti, sarà controllata da delatori che spiano i clandestini e da ronde di uomini veri, magari gli stessi che non muovono un dito se assistono a un’aggressione, ma poi sono pronti al linciaggio quando non corrono rischi. C’è qualcosa di diverso in questa viltà dall’azione del ministro alla Cattiveria che infierisce contro gli inermi, siano essi immigrati o rom?

l’Unità 31.5.09
Non siamo a Topolinia
di Maria Novella Oppo


L’avvocato Ghedini, quando studiava all’università, certo non immaginava che sarebbe diventato uno degli sfondi fissi delle peggiori notizie dei tg. Così è apparso ieri, mentre veniva data (in fretta e furia) la notizia del sequestro di foto dell’ormai mitico capodanno a Villa Certosa. Quello al quale partecipava la piccola Noemi, senza genitori, ma insieme a decine di altre ragazze. Le foto sono state fatte sequestrare in nome del rispetto della privacy di Berlusconi, nonché di un capo di Stato straniero, che faceva parte dell’allegra comitiva, a quanto pare allietata pure da ragazze in topless. Il capo di Stato è l’allora primo ministro ceco Topolanek, ma, come si può intuire dalle foto «piccanti», non siamo a Topolinia. Siamo in piena Berlusconia, l’unico paese al mondo in cui il premier controlla tv e giornali. Uno, anzi, diretto da quel Maurizio Belpietro che poche sere fa si è violentemente ribellato a sentirsi definire dipendente di Berlusconi. E ne aveva ben d’onde.

l’Unità 31.5.09
I sondaggi, e non solo. Cresce il rischio astensionismo
di Marco Mongiello


Le istituzioni europee rilanciano con una campagna che ha coinvolto anche il network Mtv. Sono i giovani il punto di debolezza: nel 2004 ha votato solo il 40 per cento degli elettori tra i 18 e i 24 anni.

Il conto alla rovescia per le elezioni europee è iniziato e a Bruxelles si attende con il fiato sospeso il fatidico momento in cui, la sera di domenica 7 giugno, arriveranno i risultati. Ma non sono quelli sui partiti a preoccupare, il numeretto che rischia di provocare un terremoto politico è quello dell'astensionismo.
L'ultimo dato di Eurobarometro a marzo è allarmante: solo il 34% degli europei avrebbe l'intenzione di andare alle urne, il 19% è sicuro che non andrà. Le premesse del resto non lasciano tranquilli: dalle prime elezioni dirette dell'Europarlamento, nel 1979, alle ultime del 2004 il tasso di partecipazione dei cittadini è andato diminuendo in maniera costante, passando dal dal 63% del 1979 al 45,6% di cinque anni fa. Un paradosso se si pensa che nello stesso arco temporale il Parlamento europeo è andato via via accrescendo i propri poteri e il numero dei propri membri in seguito all'allargamento dell'Ue.
Dal 2005 il mondo della politica europea vive una sindrome da stress post-traumatico dopo la bocciatura della Costituzione da parte di Francia e Olanda. Un trauma risvegliato dal “no” al Trattato di Lisbona al referendum irlandese nel 2008. Quando si va a fare i conti con i cittadini insomma le sofisticate architetture politiche dell'Unione europea rischiano di rivelarsi un castello di carte.
Ben il 53% degli intervistati si è detto “non interessato” alle elezioni europee e il 62% non conosce la data delle votazioni. Tra i Paesi euroscettici, dove è più alta la percentuale delle persone che non hanno intenzione di votare, c'è la Gran Bretagna, insieme come Lettonia, Bulgaria, Polonia e Slovacchia. In Italia invece la partecipazione alle elezioni, comprese quelle europee, è storicamente tra le più alte, anche se pure da noi il trend è al ribasso, dall'84,9% del '79 al 73,1% del 2004. In ogni caso, hanno rassicurato gli analisti di Eurobarometro i dati non riflettono il tasso di partecipazione effettivo perché interviste sono state fatte tra gennaio e febbraio. Troppo lontani dalla campagna elettorale.
Secondo il presidente del Parlamento europeo, il tedesco Hans-Gert Poettering, il problema è che «c'è una percezione totalmente sbagliata del Parlamento europeo» e «la situazione in Italia non è diversa da quella degli altri Paesi». Ma la verità in Italia, ha spiegato il capodelegazione del Pd all'Europarlamento, Gianni Pittella, «è che la campagna elettorale viene sottratta a qualsiasi dibattito sui temi europei».
La campagna elettorale
Dalle rilevazioni di inizio anno comunque le istituzioni europee si sono mobilitate con una campagna da 18 milioni di euro che ha coinvolto anche il popolare network televisivo musicale Mtv per cercare di portare alle urne i giovani. Alle elezioni del 2004 la fascia di elettori tra i 18 e i 24 anni che è andata a votare è stata appena del 40%.
L'ultimo sondaggio condotto dalla Tns Opinion per conto dell'Assemblea di Strasburgo e pubblicato qualche giorno fa indica che qualcosa si sta muovendo. Il 43% dei cittadini, intervistati nel periodo tra il 4 e il 15 maggio, si è detto certo di andare a votare ed un ulteriore 6% ha indicato che «probabilmente» voterà. La percentuale di quelli già sicuri di non andare alle urne è invece scesa dal 19% di inizio anno al 12%. Ma quest'ultimo sondaggio non ha precedenti e non può essere confrontato con i risultati delle elezioni precedenti. Per il verdetto finale bisognerà aspettare il 7 sera.

Repubblica 31.5.09
Vent’anni dopo
Le ali spezzate del sogno cinese
di Sandro Viola


Nelle ore tra il 3 e il 4 giugno 1989, i carri armati attaccarono i giovani che da settimane occupavano piazza Tienanmen chiedendo una svolta democratica. I morti furono centinaia Ecco, per la prima volta, la testimonianza dell´allora leader sovietico che, trovandosi nella capitale per una storica visita di Stato, fu spettatore e interlocutore della rivolta
Il potere comunista era parso al collasso: aveva proclamato la legge marziale ma la protesta continuava come prima Alla fine prevalse l´ala conservatrice e Deng Xiaoping diede l´ordine dell´assalto

Nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989 i leader comunisti cinesi soffocarono nel sangue la protesta giovanile I ricordi di un inviato a Pechino e quelli di Mikhail Gorbaciov che fu testimone eccellente della rivolta

Nella notte tra il 20 e il 21 maggio 1989 la Trentottesima armata ebbe l´ordine di marciare verso il centro di Pechino. Ma oltrepassate le periferie, quando già s´avvicinavano al centro, i convogli dell´esercito si trovarono davanti un muro di folla. Sin dall´alba, tutte le strade che portano al viale della Pace celeste e alla piazza Tienanmen erano infatti ostruite da decine di migliaia di manifestanti che innalzavano striscioni e cartelli di protesta contro il governo e il Partito comunista. I blindati e i camion militari s´erano quindi dovuti arrestare, e i soldati ne erano discesi alla ricerca dei pochi ritagli d´ombra dove ripararsi dal gran caldo. Così, attorno alle dieci del mattino, l´atmosfera era ormai quella caotica, sfiduciata, d´un 8 settembre.
La truppa seduta sui marciapiedi, gli ufficiali ai telefoni per chiedere ordini che non arrivavano, la catena di comando dell´Esercito popolare cinese (che all´epoca contava due milioni e mezzo di uomini) evidentemente saltata.
Il giorno precedente, per bocca del primo ministro Li Peng, il governo aveva proclamato la legge marziale. Proibizione di manifestare, coprifuoco. Ma era stato come parlare al vento, non agli abitanti di Pechino. Tutto era infatti rimasto com´era ormai da quasi due settimane: la piazza Tienanmen occupata da molte migliaia di studenti, e intorno alla Tienanmen - il cuore del Potere - centinaia di migliaia di dimostranti, in certe ore un milione, affluiti da ogni punto della capitale. E tutto questo senza alcuna reazione da parte delle autorità.
La sensazione più diffusa era quindi quella d´uno stupefacente, impressionante vuoto di potere. Il governo, e soprattutto il Politburo del partito, sembravano dissolti. Dalla piazza Tienanmen si levava il fetore degli escrementi accumulatisi tra il mausoleo di Mao Zedong, il monumento ai caduti e il palazzo dell´Assemblea del popolo, nei giorni dell´occupazione condotta dagli studenti. E quel fetore costituiva un´onta atroce per la dignità d´un regime che aveva dominato sulla Cina, temuto, indiscusso, negli ultimi quattro decenni. Un´onta, e l´annuncio della sconfitta. Perché il regime sembrava ormai non essere più in grado di reagire alla rivolta studentesca e all´appoggio massiccio che era venuto alla rivolta dagli abitanti della capitale.
Comincio da qui, dall´incredibile giornata del 21 maggio 1989, la rievocazione della "primavera di Pechino", perché fu quel giorno che il comunismo parve anche in Cina sull´orlo del collasso. Già liquidato in Polonia e ormai boccheggiante in Russia, nei sei-sette mesi successivi il comunismo sarebbe caduto in Ungheria, nella Germania dell´Est, in Cecoslovacchia, in Bulgaria, in Romania, e un po´ più tardi in Albania. Quei regimi vacillavano infatti da tempo, sempre più debilitati dalle penurie che imponevano alle popolazioni e dall´assoluto discredito che circondava i loro gruppi dirigenti. Ma la Cina era diversa. Un decennio di riforme economiche, una crescita del Pil che superava il 10 per cento annuo, un benessere ormai diffuso nelle aree urbane, e soprattutto un apparato del potere ancora ferreo nel totale controllo della società, sembravano aver messo il comunismo cinese al riparo da ogni brutta sorpresa.
Invece, improvvisa, inaspettata e travolgente, giunse la scossa più lunga, più ampia e profonda di tutte quelle che s´erano già prodotte, e si sarebbero ancora prodotte durante l´anno, nell´universo comunista. Tutto era iniziato verso la fine d´aprile, quando gli studenti delle due università di Pechino erano scesi a migliaia nelle strade del centro per commemorare la morte di Hu Yaobang, l´ex segretario del partito estromesso a causa delle sue tendenze liberaleggianti. Ma fu il 13 maggio che gli studenti occuparono la piazza Tienanmen. Due giorni dopo sarebbe dovuto infatti arrivare Mikhail Gorbaciov, e a Pechino c´erano centinaia di giornalisti stranieri giunti ad assistere alla riconciliazione (in realtà una Canossa sovietica) russo-cinese. I manifestanti, e coloro che ai vertici del partito avevano deciso d´appoggiare la protesta, sapevano quindi che quei giornalisti e telecamere costituivano una sorta di trincea che il governo e il Politburo avrebbero evitato d´attaccare. Un migliaio di studenti s´accamparono così nella piazza, e più di cento tra loro iniziarono uno sciopero della fame subito attorniati da una folla enorme.
La visita di Gorbaciov ebbe aspetti da film comico. Le cerimonie solenni che avrebbero dovuto aver luogo nel palazzo dell´Assemblea del Popolo, il cui ingresso è appunto sulla Tienanmen, vennero cancellate dal programma. La comitiva sovietica entrava e usciva da ingressi laterali, protetta da interi plotoni delle forze di sicurezza, e la conferenza stampa finale di Gorbaciov dovette svolgersi nella palazzina dove i sovietici erano stati messi ad abitare, e alla quale giunsero, avvertiti in ritardo, bloccati dalla marea di folla che occupava le strade, pochissimi giornalisti.
Partita per Shanghai la delegazione sovietica, la situazione precipitò. Di primissimo mattino, da est e ovest del viale della Pace celeste, confluivano fiumi di pechinesi che andavano ad addensarsi nei pressi della piazza. Ormai, il tragitto dal mio albergo alla Tienanmen, che ancora il 10-11 maggio percorrevo in venti minuti d´automobile, prendeva tre ore. Era intanto divenuto sempre più chiaro che dietro agli studenti ci fosse una fazione del partito, dato che migliaia di manifestanti giungevano a bordo di camion e bus: e in Cina, a quel tempo, camion e bus non potevano circolare se non con l´autorizzazione d´una qualche autorità.
Nella piazza, dalla massa studentesca era emersa nel frattempo una leadership: i Wan Dang, i Wue Kaixi, i Cen Zuang, che parlavano con i giornalisti stranieri, componevano gli slogan contro il nepotismo e la corruzione dei dirigenti, organizzavano i servizi, per così dire, dell´occupazione. Passaggi liberi per le ambulanze, tende per i giovani che facevano lo sciopero della fame, piccoli complessi rock per tenere alto il morale.
Ma il vertice comunista, che sembrava scomparso, era in realtà ormai pronto a reagire. Zhao Zhiyang, il segretario del partito favorevole ad un dialogo con gli studenti, venne dimesso. Attorno a Deng Xiaoping e al primo ministro Li Peng, che avevano deciso l´azione di forza, si strinsero i vecchi conservatori, Chen Yun, Peng Zhen, Hu Qiaomu, Deng Liqun, i vegliardi che due anni prima, al XIII congresso del partito, avevamo visto giungere alla tribuna incespicanti, sorretti ai due lati dalle infermiere. Durato quasi un mese, lo stallo nel Politburo era a questo punto superato. Si trattava solo di scegliere il momento in cui, come aveva detto Deng, si sarebbero fatte «rotolare le teste».
Il 25 maggio ci fu l´ultimo, terribile insulto lanciato contro il potere comunista. Nel pomeriggio ero sulla Tienanmen, quando da un lato della piazza, quello dinanzi all´ingresso della Città proibita, si levò un coro di esclamazioni spaventate. Sulla gigantografia del volto di Mao che pendeva (e ancora pende) sulla porta della Pace celeste, erano stati scaraventati numerosi barattoli di vernice nera, gialla, rossa, e la faccia del Grande Timoniere appariva imbrattata, profanata come nessun cinese avrebbe mai immaginato di vedere.
Intanto la Trentottesima armata, che non era riuscita a superare il muro della folla per raggiungere il centro di Pechino, era stata sostituita dalla Ventisettesima. Una grossa parte degli studenti sentirono che il dramma era ormai incombente, e lasciarono la Tienanmen. Attorno alla Dea della democrazia, una sagoma femminile in gesso e cartapesta che i manifestanti avevano costruito ispirandosi alla statua della Libertà, rimasero 1.000-1.500 giovani. Almeno trecento dei quali, quando nella notte tra il 3 e il 4 giugno la Ventisettesima attaccò la piazza, vennero trucidati dalle raffiche dei mitragliatori.

Repubblica 31.5.09
Gorbaciov racconta quei giorni a Pechino
di Fiammetta Cucurnia


ROMA. «Sì, io c´ero. Ero a Pechino in quei giorni gravi. Non potrò mai dimenticare il dolore che leggevo sul volto di Zhao Ziyang, né le facce stanche e gli occhi pieni di speranza degli studenti che mi venivano vicino, sorridenti, e dicevano "perestrojka, perestrojka". Era il loro modo di chiedere aiuto, ma io non potevo fare nulla». Vent´anni dopo, per la prima volta, Mikhail Gorbaciov racconta i retroscena del suo viaggio a Pechino, tra il 15 e il 17 maggio del 1989: l´importanza di quella sua visita dopo tanti anni di rivalità tra i due giganti comunisti; il silenzio dei dirigenti cinesi; i suoi contatti con i giovani che proprio dalle sue riforme avevano tratto coraggio e ora speravano fortissimamente nel suo aiuto; il suo dolore per l´epilogo tragico.
Mikhail Sergeevic, con quale stato d´animo affrontò il viaggio a Pechino? «Si trattava, per noi, di un viaggio storico. Dovevamo chiudere la lunga parentesi di ostilità tra Russia e Cina, durata oltre trent´anni. Lo volevamo noi, a Mosca. E lo volevano anche i nostri amici cinesi. Non esistevano due persone più adatte ad affrontare questo nodo di Gorbaciov e Deng Xiaoping. Così cominciammo le consultazioni».
All´epoca gli esperti dicevano che uno dei problemi più gravi era quello del regolamento delle frontiere.
«Ma figuriamoci. Sapete quanto erano lunghe le frontiere tra Urss e Cina? Mezzo mondo. Piccole scaramucce qua e là potevano sempre essere ricomposte. Decidemmo a pié pari di scorporare quel problema: troppo complesso, ne avremmo parlato in seguito. Ma poiché anche i cinesi erano molto interessati, trovare l´accordo fu gioco facile. Ci furono molte consultazioni. A un certo punto, durante un viaggio di Stato, Li Peng fece scalo a Mosca per rifornire il suo aereo, e ci incontrammo. Fu un colloquio lungo, in cui parlammo di tutto: lui conosceva benissimo il russo, perché aveva studiato da noi. Ricordo che mi disse: "Compagno Gorbaciov, la Cina però non accetterà mai di fare il fratello minore". "Ma come sarebbe possibile", gli risposi io "che un Paese cresciuto ormai oltre il miliardo di cittadini possa fare il nostro fratello minore?". Alla fine fu stabilita una data, 16 e 17 maggio 1989. In quel momento nessuno poteva immaginare quel che sarebbe accaduto in quei giorni».
Quando cominciarono ad arrivare le prime notizie delle manifestazioni di Pechino, come reagirono i membri del Politburo?
«Le prime notizie parlavano, sì, di manifestazioni di massa, però sembrava tutto di dimensioni contenute. Ci consultammo tra di noi, nel Politburo, e decidemmo che non era il caso di rinviare la visita. Non era possibile ipotizzare quello che avrei trovato al mio arrivo: io arrivai nel momento più duro della rivolta».
Che misure presero i dirigenti cinesi per evitare imbarazzi?
«Il programma ufficiale fu mantenuto. Noi stavamo all´interno del Palazzo del popolo, col Politburo. Facevamo le nostre trattative, ci servivano la colazione, ci riunivamo per il pranzo. E intanto, in quelle stesse ore, fuori della finestra c´era il finimondo. In piazza c´era la Cina. Centinaia di migliaia di persone, non solo studenti, chiedevano un incontro. Speravano che Gorbaciov, arrivato da Mosca con la sua perestrojka, potesse influire sulle decisioni del governo. Ma io non potevo».
Non ne parlò con i leader cinesi?
«Ero molto colpito. Molto solidale. Ma ero in Cina per una visita ufficiale, di Stato, ed è del tutto evidente che non potevo intervenire. Dovevano decidere i dirigenti cinesi. I problemi erano arrivati a un punto da non poter più essere ignorati».
Proprio Repubblica, in quei giorni, scrisse che in città circolava il racconto dell´auto di Gorbaciov bloccata, mentre correva nel quartiere Jing Song, dagli operai che cercavano Li Peng. Nella leggenda pechinese, che però non ha mai trovato riscontro, lei scende subito a parlare col popolo, interroga e risponde alle domande, stringe le mani sorridendo e prima di andarsene distribuisce caramelle.
«È vero che incontrai i ragazzi. Un giorno, mentre ci muovevamo in macchina scortati dalla polizia, ho visto un gruppo di studenti e operai. Erano riusciti ad avvicinarsi tanto che l´auto fu costretta a fermarsi. Io aprii subito la portiera e uscii fuori. Erano molto affettuosi. Sorridenti. Avevano i visi stanchi, gli occhi rossi. Capii che volevano spiegarmi il perché della loro protesta, che erano lì per la democrazia, la libertà. «Perestrojka», dicevano. Ma io ho cercato di non approfondire. Mi rendevo perfettamente conto della delicatezza della situazione. E anche delle difficoltà della dirigenza cinese. Avevo ricevuto moltissime lettere, commoventi, dagli studenti. Lettere e biglietti che ancora conservo».
Ma se la città era invasa dalla folla, come mai lei la incrociò una sola volta?
«Evidentemente, il governo cinese voleva ridurre al minimo i contatti. Un giorno, mentre ci portavano in macchina al Palazzo, mi resi conto che eravamo finiti in periferia. Un percorso alternativo, fuori mano. Ma noi abbiamo chiuso gli occhi, lasciando che fossero loro a decidere. Dietro tutto questo c´era il supremo interesse del mio Paese di ristabilire le relazioni bilaterali. Di questa normalizzazione avevamo bisogno noi, ne aveva bisogno la Cina e, io dico, ne aveva bisogno il mondo. Non abbiamo però potuto tacere del tutto. Fui costretto a dire, durante la conferenza stampa, di sperare e di essere certo che i leader cinesi sarebbero riusciti a trovare in sé la saggezza per fare la scelta migliore».
Si fa fatica ad immaginare che in quella situazione così drammatica, con la piazza in subbuglio, tutto il mondo con gli occhi puntati, essendo evidente che lei non poteva ignorare ciò che stava accadendo, nessuno dei dirigenti cinesi abbia voluto dire nulla.
«Ci accolsero nel migliore dei modi, con immenso calore, amicizia. Certo, erano ben coscienti del fatto che noi non solo sapevamo tutto, ma continuavamo a ricevere richieste di aiuto dalla piazza. Tuttavia direttamente, durante i colloqui, non dissero mai niente. Non potrò mai dimenticare Zhao Ziyang. La sofferenza si leggeva sul suo viso. Il giorno in cui ci accolse in qualità di segretario del Partito comunista cinese non riusciva a nascondere il peso insostenibile che aveva nel cuore. Sembrava che potesse avere un infarto da un momento all´altro. Il colloquio durò ore e ore, forse cinque, se non ricordo male. Bevemmo insieme litri di vodka. Non so se abbia avuto la tentazione di aprirsi di più. Disse solo che c´erano dei problemi da risolvere. No, è chiaro: non volevano coinvolgerci direttamente».
Cosa pensò quando seppe che Zhao era stato rimosso e emarginato, dopo aver cercato di evitare il bagno di sangue?
«Pensai che non era la decisione migliore. Ma stiamo parlando della Cina. All´interno della classe dirigente in quei giorni ci fu uno scontro. Poi Deng accolse il punto di vista di Li Peng».
Si disse che la dirigenza cinese temeva un "effetto Gorbaciov".
«È possibile. Ma ci tennero a dimostrarmi grande amicizia. Subito dopo Pechino, andammo per tre giorni a Shanghai. Il sindaco allora era Jang Zemin. Ci portarono a vedere le prime zone economiche speciali. Pranzammo insieme, lui cantava le canzoni russe e io gli facevo il controcanto. Anche lui parlava bene russo, aveva studiato da noi in gioventù».
Qualcuno scrisse che la tragedia della Tienanmen fu in qualche modo un monito per lei, che mai volle usare la forza in Russia.
«No, questo è falso. C´erano state già molte situazioni simili da noi. Rivolte nazionali e dispute territoriali. Io avevo già fatto la mia scelta».
Secondo lei fu la rivolta cinese a dare il via ai sommovimenti del 1989, che finì col crollo del Muro di Berlino?
«Io credo che, sì, tutto cominciò quell´anno, con la perestrojka che iniziava a segnare la svolta e la decisione di creare a Mosca un vero Parlamento espresso attraverso vere elezioni. Fu una scossa che fece tremare il mondo e poi si fermò nel punto di partenza, due anni dopo, col crollo dell´Urss».

Liberazione 31.5.09, pagine prima 2 e 3
Conversazione con Pietro Ingrao su elezioni, politica, compiti della sinistra
«Voto comunista nel modo più chiaro e più netto che oggi in Italia mi è dato»
Intervista di Dino Greco - Cosimo Rossi

«Forse sbaglio, devo capire meglio: ma il cammino della mia vita e però anche tante lotte che ho vissuto intensamente insieme con Fausto mi sembra che seguivano visioni del mondo diverse dal tanto peggio tanto meglio . E mi interrogo su quale è il mutamento in campo che chiama Fausto a questi nuovi pensieri". Un sorriso spontaneo si allarga in volto a mitigare le parole di Pietro Ingrao, di quei sorrisi paterni che esprimono un'incredulità piena di benevolenza, come sono anche il suo affetto e l'attuale dissenso nei confronti di Fausto Bertinotti e delle sue notazioni (in una intervista all' Unità del 7 maggio scorso) a proposito della necessità di far "tabula rasa" della sinistra, cosicché possa rinascere "come una fenice" dalle proprie ceneri. Una provocazione, ma tutt'altro che astratta. E men che meno improbabile.
Domando a Ingrao che pensa.
Voglio riflettere. Fausto evoca questioni di prospettiva e di teoria ardue, di grande portata. Io non ho sicurezze sui fondamenti dei temi che solleva. Avrei da porgli domande, forse anche su nodi teorici. Ma sento qualcosa che mi chiama altrove: come se non avessi tempo. Fra giorni l'Europa va al voto e tante cose intorno a noi ci dicono come la prova sia pesante.
Temi che ci sia indifferenza sul voto?
Temo che molti non abbiano chiari la portata di questo voto e lo stato delle cose in cui avviene.
C'è una crisi dell'economia mondiale che qualcuno paragona a quella fatale del 1929. E l'Italia è fra i paesi più esposti: questa Italia che a capo del governo ha oggi un conservatore, per non dire un reazionario di sette cotte. Non mi turbano le sue relazioni con la giovinetta Noemi, che mi sembrano così melanconiche, persino patetiche. Mi spaventa il deficit di iniziativa, l'arretratezza del suo sguardo di fronte all'incalzare della crisi mondiale. Questo è il Berlusconi che nuoce alla nazione, e che tuttavia porta a casa un mucchio debordante di voti. Tale è oggi la situazione drammatica del potere pubblico in Italia, da cui vengono le mie ansie.
Primo punto: temo l'assenza dal voto, l'astensione. Mai come in questa ora difficile abbiamo bisogno che votino in tanti, e che votino bene. E non solo perchè dobbiamo dare un colpo a questo governo conservatore oggi così ampiamente maggioritario nel Paese, ma perchè oggi - ora assai più di ieri - abbiamo necessità di un peso e di un volto nuovo dell'Italia in Europa
Abbiamo bisogno di un voto italiano che incroci nel nuovo Parlamento europeo le correnti progressiste, capaci di leggere il capitalismo mondiale che ora abbiamo dinanzi, nella dubbia e oscillante fase che esso attraversa. E qui l'oggi ha bisogno di un sapere antagonista che sappia intendere i nuovi terremoti che segnano l'Occidente, l'Asia e l'Africa. Provincialismi non ci sono più permessi.
Berlusconi è un piccolo reazionario di fronte a queste enormi scadenze. Scopre adesso - meno male! - che il Parlamento italiano è pletorico. E che iniziativa ha preso - da premier! - per snellirlo e articolarlo? E sa dare una lettura moderna e attiva del sindacato e del conflitto di classe? E se non fa questo di che futuro parla?
Ma a te pare che ci sia oggi nell'opposizione antiberlusconiana una sinistra coesa e anche audace nella costruzione di una alternativa?
Io vedo un lavoro grande che ci sta dinanzi, e sento aspramente il peso della divisione con cui la sinistra di classe va al voto.
Ricordo però come eravamo divisi - e persino lontani - quando - a metà degli anni Trenta - cominciammo a costruire lo schieramento e l'unità della Resistenza. Eppure reggemmo alla prova. Inventammo - nella differenza - linguaggi e istituzioni comuni e anche cittadinanze comuni, fratellanze...
Per le nuove prove di oggi servono come il pane pari ardimento: e prima di tutto c'è bisogno di un'avanguardia che ridia fiato alla lotta di classe nel suo senso più largo, prima di tutto nei luoghi di lavoro, nella sede cruciale e diretta dello scontro di classe: e insieme nelle sedi in cui maturano l'immaginario, il simbolico, che sono diventate oggi molto più penetranti: nel simbolico e nel politico e negli intrichi quotidiani che ne sgorgano.
Il voto significa però anche marcatura delle differenze.
Sì, e tuttavia io ho ancora una forte paura dello sparpagliamento degli elettori e soprattutto temo che una frantumazione condanni la sinistra a una drammatica esclusione dal nuovo parlamento europeo. Non so come si possa affrontare la questione senza generare inutili inasprimenti dal momento che ormai talune scelte son fatte.
E tuttavia mi chiedo: come possiamo dire e raccomandare che bisogna assolutamente evitare conflitti penosi nella sinistra o uno sparpagliamento infecondo o addirittura l'assenza?
Non sto chiedendo impossibili unanimismi. Sottolineo due obbiettivi essenziali, primari: un voto contro Berlusconi, e poi spero, mi auguro, un voto di sinistra. Io dichiaro la mia preferenza per Rifondazione, la forza che a sinistra mi sembra più solida in campo. Perchè non credo possibile ricominciare un lavoro di riunificazione della sinistra che di essa faccia a meno.
E io voto comunista nel modo più chiaro e più netto che oggi in Italia mi è dato. Lo scrivo già prima di quel mio ritiro nella cabina elettorale. Lo discuto nelle sale, nelle piazze, nelle case, poiché senza tale confronto aperto di identità non c'è costruzione di volontà pubblica.
Fatto sta che la disapprovazione del popolo di sinistra nei riguardi della classe politica sovente non si trasforma in impegno per riappropriarsi della politica, bensì in rinuncia…
E difatti dobbiamo rilanciare una grande, orgogliosa campagna che chiami alla scesa in campo, alla partecipazione, alla politica attiva.
Consentimi un ricordo. Ho viva nella memoria una data, la tragica estate del 1940, dopo che i tedeschi avevano invaso Belgio e Olanda volti a Parigi per quella tragica e trionfale sfilata Champs Elisées. E il 10 giugno Mussolini aveva annunciato la dichiarazione di guerra a fianco dei nazi dal balcone di Palazzo Venezia.
Ricordo come fosse oggi la domanda che in quei giorni tragici pulsava ostinata nella mia mente: "Che faccio?". Poi dentro di me maturò quella risposta dura ed elementare "Non ci sto". Nel senso che si sta dentro la lotta. Non ci si ritira dalla prova..
Tu ricordi catastrofi, conflitti, che hanno incendiato il globo. Qualunque paragone è certamente inappropriato. Ma cominciamo ugualmente di qui, per sottolineare quali sono, a tuo avviso, gli snodi cruciali della vicenda della sinistra italiana…
Penso al mio tempo. Sono nato nel 1915, quando l'imperialismo approdava all'epoca delle grandi guerre mondiali. Prima fu la dura lotta di trincea del triennio 1915 1918. Poi - alla fine dei torbidi anni Trenta - fu lo scatenarsi del nazismo nel mondo e la risposta straordinaria della Resistenza, questo nome che qualcuno ora vorrebbe cancellare e che ebbe un'espressione così ardita e ricca d'invenzione anche in Italia. Il comunismo italiano ne fu attore cruciale: nei suoi volti molteplici in termini di soggetto politico, soggetto sindacale, classe dirigente, movimenti di idee, vicende della cultura. Quella è stata un'Italia vigorosa, forte, ricca...
Ed è stata, appunto, il paese che ha visto affermarsi il più grande partito comunista occidentale. Di dove traevano origine la vitalità e la forza della sinistra e del Pci in particolare?
Quella forza rossa, di sinistra, per come l'ho conosciuta io e l'abbiamo conosciuta tutti viva e attiva nel mondo, aveva due gambe.
La prima era la capacità di incidere nel concreto del vissuto quotidiano: il suo legame con la storia del pane che si portava a casa. Qualcosa di costruito con grande fatica e concretezza, che si esprimeva attraverso la lotta sociale e l'iniziativa politica, e la presenza articolata non solo - e prima di tutto - nel luogo di lavoro, ma anche - e fitto - nel territorio, nelle contrade, nelle città, nei borghi.
L'altra gamba era la convinzione d'essere parte di una dimensione non solo nazionale ma addirittura mondiale della battaglia: e d'essere portatori di una visione generale del mondo, d'una ideologia. Il sindacato, la sezione, il circolo, il municipio - come li ho conosciuti io - erano tutti luoghi molto segnati da questa articolazione e da questa complessità che intrecciava la lotta immediata di ogni giorno alla convinzione di rivoltare il mondo.
Ma ora si sono sgretolate anche l'articolazione locale e del tessuto di rappresentanza, quel radicamento delle organizzazioni di massa, del partito, attraverso cui i bisogni immediati si allacciavano con la strategia generale, dalla fabbrica al quartiere, dalla scuola al municipio...
Appunto: la presenza articolata del soggetto liberatorio. Per fare un esempio: ricordo come fu ricca, multipla l'iniziativa dei sindaci delle città rosse; e come erano presenti nella vita quotidiana a risolvere problemi del qui e ora , e come intrecciavano le questioni del lavoro con le altre dimensioni dell'agire di ogni giorno.
Allora, in quella esperienza voi vi trovaste di fronte la Chiesa di Roma, al suo massimo livello. E non era vostra amica. Come agiste?
Cercammo testardamente il dialogo. Nonostante la scomunica. E riuscimmo a generarlo. Evoco un'esperienza personale. A Firenze esisteva un ramo di cattolicesimo avanzato, che aveva come guida e simbolo una figura come Giorgio La Pira. Con lui, con Ernesto Balducci vissi una ricerca confidente, schietta e sincera. Balducci giunse a fare parlare me, ateo dichiarato, dal pulpito della sua chiesa. E il mio dialogo con i cattolici - in altri giorni - proseguì con altri atei come la Rossanda, Tronti e altri in un convento sulla collina di Fano dove un monaco singolare invitava ogni anno a dialogare credenti e atei dichiarati: sulle cose del mondo. E potrei raccontarti ancora del mio dialogo con Dossetti, indimenticabile. Naturalmente c'erano alti prelati, come il cardinale Ottaviani, che erano anticomunisti feroci. Eppure anche con lui il compagno Franco Rodano dibatteva...
E poi, come si produsse una crisi di portata tale da condurre, oltre che al naufragio elettorale, al naufragio di un'esperienza invece così ricca e complessa?
Ci fu un passaggio storico che segnò l'inizio del cambiamento, ed è la sconfitta degli anni Ottanta, che vide la caduta del leninismo, il crollo dell'Urss, la sconfitta di Mao, e anche il tracollo di quei partiti che in qualche modo erano legati a quella storia. Attenti: noi comunisti italiani avevamo un nostro volto, ma discendevamo da quel corpo.
E la seconda metà del secolo fu complessa e sconvolgente. Prima ci furono le vicende straordinarie del Sessantotto e, ancor più in Italia, del Sessantanove.
Quell'anno in Italia la sinistra di classe - con Trentin e Carniti alla testa - toccò una vetta straordinaria. Ho ancora vivissimo il ricordo di cosa furono nell'Italia le lotte operaie: quelle - così innovative - del '69 che misero in ginocchio la Fiat e videro calare a Roma un corteo davvero infinito di tute blue alle soglie di una vittoria folgorante...
Dopo però venne l'inizio della sconfitta. La vivemmo anche nelle nostre roccaforti del Nord. Ma il crollo fu su scala internazionale.
E non fu solo la sconfitta dell'Urss, con l'avventura sciagurata dell'Afghanistan. Non resse più l'ipotesi leninista, che era stata la dottrina su cui si erano formate generazioni come la mia, illuminate da pionieri straordinari e originali del comunismo come Gramsci, Terracini, e poi Togliatti, l'uomo del compromesso di Salerno e del grande Partito Comunista di massa italiano...
E perché un comunismo italiano con queste radici e con quella dimensione di massa entra in crisi?
Perché vennero al pettine nodi su cui il leninismo e ancor più lo stalinismo e poi il maoismo, avevano dato una risposta che non resse alle prove della storia e che voleva una settaria concentrazione del potere al vertice. E intanto scattava la controffensiva conservatrice: Agnelli prende l'iniziativa, poi il binomio Reagan-Tatcher trionfa su tutti i piani.
Ma non ci sono anche delle cause endogene della crisi? L'articolazione territoriale che si prosciuga, la rappresentanza sociale che si sgretola mentre il lavoro si balcanizza, la sostanziale accettazione della moderazione salariale e del paradigma sviluppista mentre i contratti si precarizzano. Da questo punto di vista non sarebbe giusto osservare che la crisi della sinistra comincia anche prima degli anni Ottanta?
Sì. Ho detto che la crisi forte sgorgava dalle radici: il leninismo.
Lo so. È un grande tema. E io qui posso solo mettere qualche breve nome. E' l'idea leninista del soggetto che non regge alla prova della storia. La strategia della rivoluzione concentrata nel vertice di partito mobilitò masse straordinarie in Europa e nel mondo e le chiama a conquistare il comando in paesi sterminati. Ma non le rese compartecipi del governo, che restò nelle mani di un'élite straordinaria, ma pur sempre un'élite, che non regge alla luci e al passo inaudito del mondo. E allora crolla.
Ma anche il capitalismo insegue le sue crisi. Oggi è a una nuova prova. A partire dagli Stati uniti, stiamo assistendo a una dinamica davvero micidiale e brutale.
Prendiamo il caso Chrysler. Il padrone fallisce, interviene il manager di un altro grande gruppo come Marchionne e si mette d'accordo con Obama, l'azienda viene quindi rilevata a spese dei contribuenti americani e dei lavoratori, che ci mettono una barca di fondi pensione, per un totale pari al 55 per cento del patrimonio azionario.
Si potrebbe immaginare che di conseguenza si modifichi l'assetto sociale della proprietà. Invece non cambia nulla. Anzi: in un Cda di 9 persone ne entra una sola in rappresentanza del 55 per cento di azioni dei lavoratori, che in più cedono salario, rinunciano alle ferie e acconsentono a una moratoria sugli scioperi fino al 2015. Al che emerge in modo eclatante il rischio che la straordinaria crisi del capitalismo e del mercato non produca alcuno sbocco a sinistra, ma piuttosto porti a una gigantesca rivoluzione passiva che si risolva con una nuova razionalizzazione capitalistica.
Ma io non sono affatto convinto che ci sia un automatismo per cui, data la crisi del capitale, si realizza un avanzamento nella relazioni sociali e del movimento operaio. Non è assolutamente così. Nella mia vita ho già vissuto momenti di crisi economico-sociale profonda che si sono risolti con vittorie anche clamorose del capitalismo. Certamente è stato così nel primo dopoguerra in Italia, quando, attraverso lo scontro anche armato, si affermò la reazione bruta del fascismo, che spazzò via con la forza uno schieramento delle forze di sinistra che non era affatto poca cosa.
Se poi guardiamo agli anni Trenta troviamo dimostrazioni ancora più drammatiche. C'è la spaventosa crisi mondiale del '29. E, nel cuore d'Europa, la Germania esce da quelle crisi con lo scatenarsi del nazismo.
Mutatis mutandis, vedi in qualche misura delle analogie e dei paragoni possibili con la situazione attuale?
No. Non ci sono riproduzioni meccaniche. La rovina inaudita che hanno portato con sé il nazismo e il fascismo è un unicum. La differenza fra quella violenza nera e l'oggi pallido sono tuttora enormi.
E' vero, invece, che il determinarsi di una crisi della portata di quella cui stiamo assistendo non significa affatto che vi sia automaticamente una riscossa del mondo del lavoro. La partita, in questo senso, è tutta drammaticamente aperta.
Sennonché si gioca con l'handicap di una sconfitta storica ma ancora cogente della sinistra: l'avversario ha riconquistato non solo la fabbrica, ma i linguaggi, la concezione del mondo…
E anche i mezzi con cui le idee si esprimono. Pensiamo, per esempio, a che grande rivoluzione è stata la televisione. La grande invenzione della sinistra, in questo senso molto europea, era stata invece quella combinazione tra il soggetto del cambiamento globale e la capacità di farlo vivere nelle risultanze quotidiane. Oggi sono in crisi tutti e due i rapporti, tutti e due i linguaggi: quello per la narrazione della vicenda quotidiana e quello per la narrazione di un'idea della rivoluzione, della di trasformazione dell'organizzazione sociale. Da questo punto di vista la cosa che temo di più è la frantumazione della sinistra, cioè la perdita della sua capacità di ricondurre l'azione politica a un'idea e a una strategia mondiale del soggetto.
Il bisogno di riallacciare un discorso generale sulla trasformazione su cui insisti sconta l'annichilimento e la dispersione delle culture politiche della sinistra. E allora non credi che alla sinistra occorra, per così dire, prendere di sotto il sacco per rivoltarlo sul tavolo e affrontare i grandi temi ideali e culturali: pace, disarmo, libertà, differenza, uguaglianza, diritti, natura, produzione…; tutti quei filoni di ricerca e di impegno che in più delle volte invece la politica abbandona a se stessi o assume solo in modo episodico e utilitaristico, senza tesserli nella trama di una soggettività politica nuova?
Lo so. Lo abbiamo appreso dolorosamente, sia pur a tratti, e con dure mancanze. Se non diamo alla lotta questo fiato, questo respiro, non si riesce a intervenire nemmeno nell'immediatezza della lotta quotidiana, che pure ritengo così vitale. Se in Italia la sinistra ha avuto quella sua originalità e quella forza è stato perchè ho guardato alla terra natale e insieme ai rivolgimenti nel vasto e cangiante mondo.
Mi ricordo, ad esempio, cos'è stata in Italia nei nostri paesi la passione per la guerra - così lontana - in Vietnam.
Ricordo la reverenza con cui- in un mio viaggio in Vietnam- visitammo la casa di Ho Chi Min: il silenzio assorto con cui guardavamo quei nudi cimeli di una storia straordinaria: l'emozione senza parole su eventi pure così lontani e diversi da noi.
Allora in Italia la guerra in Vietnam giunse anche sulla bocca di un cantante popolare, Gianni Morandi, persino in quella Tv quasi tutta in mano ai conservatori...
Ancora il problema del 4 per cento, per concludere di dove si era cominciato. Con quel 4 per cento cosa dovrebbero fare Rifondazione e le altre forze riunite nella lista anticapitalista e comunista?
Superato il guado elettorale, devono iniziare un lavoro di riunificazione della sinistra: un progetto plurimo, ma che mantenga ricca e fertile la propria dimensione di soggetto politico. Che significa l'unità e la dialettica insieme: la democrazia come risorsa, non come fastidio.

sabato 30 maggio 2009

Repubblica 30.5.09
Psicoanalisi
Perché è finita una rivoluzione culturale
di Luciana Sica


Parla l´analista Luigi Zoja "Freud e Jung hanno cambiato la visione del mondo, ora invece nessuno affronta più le grandi questioni"
"Il mio prossimo libro si chiamerà ‘La follia di Aiace´ sulla paranoia nella storia"
"C´è un´attenzione quasi esclusiva ai problemi tecnici legati alla cura dei pazienti"

«Oggi la psicoanalisi ha un grave limite: si occupa quasi esclusivamente dei problemi clinici e tecnici legati alla cura dei pazienti. Ma questa è una regressione rispetto alle idee di Freud, e anche di Jung. Ben altro è stata infatti la psicoanalisi nel ventesimo secolo, una rivoluzione della visione dell´uomo che ha plasmato la cultura, dalla letteratura al cinema, dalla musica all´arte... Negli ultimi anni invece prevale la pratica terapeutica: gli analisti non tematizzano più le grandi questioni culturali, si rinchiudono nelle loro "stanze", in un mondo sempre più autoreferenziale e marginale. La psicoanalisi dovrebbe tornare ad essere quella che è sempre stata: una griglia di lettura della realtà, una terapia della cultura».
Il j´accuse è di Luigi Zoja, autore di libri uno più colto dell´altro, tradotti anche in una decina di idiomi diversi, un analista che con i suoi pazienti può conversare in inglese, tedesco, francese, spagnolo - oltre che in italiano, naturalmente. L´orientamento cosmopolita di Zoja segna una biografia insolita e intensa, la formazione a Zurigo allo Jung Institut, gli anni newyorchesi, gli incarichi di prestigio (dal ´98 al 2001 ha rappresentato gli junghiani di tutto il mondo come presidente dell´International Association for Analytical Psycology). E poi gli incontri con personalità di prim´ordine, come James Hillman che ha conosciuto alla fine degli anni Sessanta ed è suo amico («lo vedrò in agosto negli Stati Uniti»).
Oggi, a sessantacinque anni, Zoja vive a Milano con la moglie che è un´analista per l´infanzia («ma l´Italia non mi entusiasma») e - come dice, in questa intervista - trascorre più della metà del tempo a scrivere. È senz´altro così se in marzo è uscito da Einaudi un suo saggio di grande appeal su La morte del prossimo e di recente, da Bollati Boringhieri, Contro Ismene: un libro che raccoglie le sue "Considerazioni sulla violenza", come chiarisce già il sottotitolo (pagg. 160, euro 12).
A dieci anni da Il gesto di Ettore sulla scomparsa del padre, in Contro Ismene affronta il tema dei conflitti umani nelle loro forme più aggressive. Per lei il ricorso alle grandi figure della mitologia è d´obbligo?
«Sì, per me è d´obbligo, e sono anche recidivo - seppure Il gesto di Ettore in nessun´altra lingua ha conservato il titolo originale: troppo classicheggiante, dicevano. Ma io insisto, tanto che il mio nuovo libro sulla paranoia nella storia ha come titolo provvisorio La follia di Aiace».
Magari è la sua formazione a imporlo: lei appartiene a un filone junghiano incline a privilegiare le immagini dei miti, le grandi figure archetipiche, non è così?
«Non sono un fanatico "archetipista", e ormai più che di inconscio collettivo preferisco parlare di inconscio culturale... Utilizzo Ismene come un grande simbolo negativo del pensiero non critico, del conformismo, della sudditanza agli ordini superiori, ed è sottintesa l´assoluta preferenza per la sorella Antigone, che muore per il fratello già morto, perché siano rispettati i riti che esistono da sempre e il sentimento fondamentale della pietà - un´immagine però davvero troppo sfruttata, quasi ovvia».
Un po´ in tutti i suoi libri - anche in Giustizia e bellezza, quel trattatello dove metteva insieme etica ed estetica - il presente non viene mai schiacciato sull´attualità. Vuole ricordarci che non siamo nel primo mattino del mondo?
«La maggior parte degli esseri umani non è consapevole del ruolo del passato sui modi di pensare dominanti. In questo mio nuovo libro sulla violenza, gli stessi rimandi linguistici non sono mai casuali o posticci perché anche scavando nell´origine delle parole, nella loro etimologia, vediamo come il linguaggio e quindi la cultura in cui abitiamo ha un inconscio. Quest´operazione di scavo segna del resto da sempre la psicoanalisi, da quando Freud amò citare quel motto tratto dall´Eneide per alludere al destino del rimosso: Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo».
Se ci si limita a ragionare solo in termini di politica, di economia, di religione, dei conflitti umani più estremi rimane sempre una quota molto alta di incomprensibilità. Non a caso Freud alla fine ha parlato di un istinto di morte, di una mortido contrapposta alla libido... Lei crede nel Male in sé?
«Nella psicologia junghiana parliamo dell´"Ombra", non tanto di un derivato degli istinti ma di una categoria di puro carattere psicologico che non affonda nella dimensione biologica ma neppure corrisponde all´immagine cosciente del soggetto, e che tuttavia esiste e sempre contiene pulsioni asociali. Per esemplificare, direi che il ventesimo secolo è stata una galleria degli orrori dominata dall´"Ombra" - o anche dall´istinto di morte, se si preferisce il lessico freudiano».
Già negli anni Sessanta, Franco Fornari parlava di un inconscio depositario di proiezioni assassine per evitare l´incontro con la propria distruttività. La trova una chiave di lettura condivisibile anche oggi?
«È una lettura senz´altro ancora valida, e che in qualche modo utilizzo nel mio nuovo studio sulla paranoia, quella patologia che rigetta ogni colpa sull´altro e può letteralmente infettare le masse, se a esserne colpito è un tipo come Hitler... Ecco, ad esempio, la lezione di Fornari è molto più utile di certi specialismi a cui tendono oggi le scuole analitiche».
Cent´anni di psicoanalisi. E il mondo va sempre peggio, era il titolo provocatorio di un pamphlet firmato dal suo amico Hillman... Ma davvero si può attribuire ogni clamoroso fallimento della ragione alla psicoanalisi?
«Di quel libro sono stato io a consigliarne la traduzione, ma il titolo non mi è piaciuto per niente: e l´ho anche scritto. Ma chi l´ha detto che il mondo dovesse andare meglio, grazie alla psicoanalisi? Questa è una pura ingenuità che proviene dagli aspetti più cheap della cultura americana... Io poi non sono così pessimista, altrimenti non continuerei a fare il mestiere dell´analista e a scrivere: penso che nei passaggi decisivi della storia c´è sempre una nicchia di persone che ragiona con la propria testa e interpella la propria coscienza - e fino a quando potremo contare sull´esistenza di questa gente un futuro migliore sarà sempre possibile».

Repubblica 30.5.09
L’attualità del caso Galileo mentre si chiude a Firenze un convegno a lui dedicato
Se la Chiesa processa gli eretici di oggi
di Adriano Prosperi


A cento anni dalle sue scoperte, il rito accusatorio contro lo scienziato ripropone tutta la violenza contro la Ragione di cui la Fede è capace

L’invito a rileggere il processo a Galileo spicca nel programma del convegno fiorentino che si chiude oggi ad Arcetri. E´ un invito da prendere sul serio. La ricorrenza centenaria di quello straordinario 1609 quando Galileo passò le notti a guardare il cielo col cannocchiale ha certamente qualcosa da dire al nostro presente. Quello fu un momento altissimo della cultura italiana nella fase matura della sua egemonia europea, come documenta la splendida mostra fiorentina curata da Paolo Galluzzi. Ad esso seguì un precipitoso declino. Anche a causa di quel processo, col quale, scrisse John Milton, la censura ecclesiastica «spense l´ardore dell´ingegno italiano». Si chiudeva il processo a Galileo, si apriva quello alla Chiesa . Oggi sono le autorità della Chiesa cattolica a difendersi, parlando di un «malinteso», di una «reciproca incomprensione» (così papa Wojtyla), di un problema del rapporto «tra ragione e fede», come scrive l´attuale arcivescovo di Firenze. Fede e Ragione, Chiesa e Ricerca: grandi parole, frastornanti per chi vuol capire che cosa accadde allora. Per questo bisogna rileggere i documenti.
Davanti alle carte processuali si è presi come da una vertigine pensando alla storia che documentano e a quella che hanno creato. Una storia non di avventure, di fede e di passione, come avrebbe detto Benedetto Croce, ma piuttosto di violenze e di astuzie, di volpi e di leoni. Astuzia di Galileo, per esempio. Aveva a che fare con poteri occhiuti e sospettosi. Perciò si tutelò con ben due «imprimatur» nel pubblicare il suo Dialogo: il che mise in imbarazzo i giudici e dette al processo un andamento peculiare. Il potere gli si presentò coi modi vellutati del gesuita Bellarmino nell´incontro del febbraio 1616, quando il cardinale cercò di convincere quel brillante professore a dissimulare la sostanza della sua scoperta. Ma la violenza dei nemici – tanti, per l´odio che sempre si scatena davanti alla vera creatività - era già nell´aria se, come sembra, è autentico il discusso documento dell´intimazione del Commissario Segizzi su cui il processo del 1633 fece leva. Il processo, un testo di inesauribile fascino drammatico, all´altezza delle massime espressioni del teatro barocco, si concluse come doveva. Galileo si arrese alla forza mascherata di diritto: «Son qua nelle loro mani, faccino quello li piace».
Il fascicolo fu riposto nell´archivio del Sant´Uffizio, il carcere-tribunale più antico di tutta Italia, un vero monumento storico dell´immobilità del potere nel paese più ballerino e traballante d´Europa. Ci vollero le armate di Napoleone per farlo uscire da lì. Quello che se ne seppe fu solo la sentenza di condanna, inviata a pochi e ben mirati destinatari. In Italia i professori lessero e giurarono. Lo stesso fecero quasi tutti i loro eredi del secolo scorso, negli anni dell´abbraccio fra regime fascista e Santa Sede. Riflessi condizionati. Su questi precedenti si basano i tentativi che ancora si fanno da noi di imporre vincoli di legge a chi cura gli immigrati , i malati, i morenti.
Oggi su queste carte antiche si tenta di aprire un processo nuovo: non più quello di rito inquisitorio, della rigorosa ricerca della verità, ma quello di rito accusatorio in cui il giudice media tra due contendenti . Al posto di Galileo che voleva che la terra si muovesse c´è oggi la Scienza. Al posto di papa Barberini che la voleva immobile c´è la Fede, candida e benevolente. E´ tra questi due contendenti che si vuole cercare l´accordo. Ma, come sono in genere i patteggiamenti che nei tribunali permettono di beffare la giustizia, anche questa offerta di accomodamento sembra piuttosto truffaldina. La fede, quella con la minuscola, non c´entra, non è una istituzione, è una cosa che ha tante forme quanti sono gli esseri umani. C´entra la Chiesa come potere, quel potere che in Italia ha fatto di ogni riformatore un eretico. La «reciproca incomprensione» è una formula adatta alle liquidazioni di incidenti automobilistici per «concorso di colpa». E la colpa di Galileo è una sola: a lui si dovette la sconfitta del sistema di potere che saldava filosofia aristotelica e geografia tolemaica nel disegno di un mondo chiuso sotto il sigillo simbolico del Libro sacro affidato da un Dio al di sopra delle nubi a un Vicedeo in terra. Quel fatto è incancellabile. Dagli orizzonti di allora il mondo si è allontanato quanto da noi si allontanano i satelliti che portano il nome di Galileo tra le stelle.

l’Unità 30.5.09
Immigrazione religione confusione
Permessi di soggiorno in nome di Dio
di Flore Murard-Yovanovitch


La questione “immigrazione” è diventata in Italia il terreno sociale prediletto della Chiesa. Nei migranti essa identifica i nuovi “deboli” e gli “indifesi”, i naturali destinatari della sua beneficenza e della sua retorica. Tanto da sembrare oggi in prima fila nella denuncia delle politiche migratorie del Paese e del “pacchetto sicurezza”, come l’ultimo fronte che resista all’onda di xenofobia.
Non ultima la notizia che i padri comboniani vogliono dare «permessi di soggiorno ai migranti... in nome di Dio!». Padri missionari in testa, la rete delle associazioni cattoliche si sta preparando per la Giornata mondiale del Rifugiato del prossimo 20 giugno a rilasciare, a chi viene considerato irregolare, un permesso di soggiorno “quasi” identico a quello del ministero dell’Interno, che porterà la dicitura «Ministero del Cielo».
Nonostante l’intento provocatorio mirato forse a risvegliare autorità e cittadini, l’iniziativa sottende il forte grado di confusione culturale che circonda la questione immigrazione in Italia. Invece di essere affrontata - come dovrebbe - in termini di cittadinanza e di diritti umani, essa retrocede a una dimensione di carità cristiana. D’altronde si sa che l’aiuto al prossimo, considerato come “vittima”, è una forma di potere sull’altro. Una sorta di violenza invisibile.
L’immigrato non deve essere solo “aiutato”, ma considerato nella sua irriducibile umanità uguale alla mia. In termini né religiosi né di assistenzialismo, ma di uguaglianza psichica tra gli esseri umani.
È una questione urgente e di fondamentale importanza. Il Sud del mondo sta approdando in Europa a ritmi sempre più veloci, senza che noi siamo capaci di guardare, oltre al barcone stracolmo, le dinamiche politico-economiche - dittature, guerre, nuova fame - che spingono queste donne e uomini a emigrare; senza contare il vero “colonialismo mentale” che abbiamo innescato. Arrivano, ma solo per essere ridotti all’esclusiva ricerca quotidiana di cibo e tetto, una sopravvivenza che li deruba della possibilità di un’identità e dei loro sogni. Ecco la domanda che esploderà prima o poi: come possono coesistere uomini liberi con uomini-bisogni, uomini-rifiuti? E quanto può durare questa non esistenza, anzi “dis-esistenza”, senza fare implodere la nostra stessa umanità?
Le grandi questioni politiche e culturali degli anni a venire si giocano forse in questo abisso, che si scava ogni giorno nel nostro Paese, dove è in formazione una specie di normalmente accettata "seconda umanità". Occorre, al contrario, chiarezza su cosa sia un uomo, affinché la politica non resti assistenzialismo cristiano o, peggio, diventi inaccettabile gestione di due umanità disuguali.

l’Unità 30.5.09
Italia alla berlina nel mondo
Il New York Times: sembra il «Satyricon» di Fellini
di Umberto De Giovannangeli


C’è chi scomoda il Satyricon di Fellini. Chi conia un nuovo, e poco incoraggiante, appellativo per raccontare l’Italia di oggi: «Berlusconistan». Chi accosta il Cavaliere all’autocrate cinese Zhao Ziyang.Di tutto e di più. Nel mondo di papi. Visto dal resto del mondo reale. E da una stampa libera. Di criticare. Non solo Europa. La vicenda Naomi è approdata ieri su alcuni grandi media americani. Ne parlano, infatti, il New York Times, l’Herald Tribune, il settimanale Time e il quotidiano economico Wall Street Journal.
AMERICA IMBARAZZATA
Il New York Times riporta l’opinione di «molti italiani che si chiedono se la reputazione di questa ultima fase della carriera del premier non cominci a somigliare sempre di più alla decadenza della Roma imperiale del Satyricon di Fellini». L’affare Noemi offre spunto al settimanale Time di parlare dell’Italia come «Berlusconistan». Il primo ministro «governa su questa repubblica da reality show in virtù della sua perseveranza politica e sorprendente popolarità; con il controllo delle onde dell’etere; e con la sua capacità di trasformare i suoi capricci personali in un discorso pubblico di disturbante intrattenimento», scrive l’autorevole settimanale in servizio da Roma in cui afferma anche che gli oppositori del presidente del Consiglio («che nel Berlusconistan possono andare in onda») ritengono che stavolta «il maestro della manipolazione abbia fatto scattare un nuovo ciclo che potrebbe portare alla sua fine politica».
EL «MUNDO FELIX»
Chissà se Silvio Berlusconi sa chi è Zhao Ziyang. Se è digiuno di conoscenza storico-politica, può abbeverarsi all’articolo uscito ieri sullo spagnolo «El Paìs», a firma di uno dei più autorevoli scienziati della politica spagnoli, Antonio Elorza. Zhao era segretario generale del Partito comunista cinese ai tempi del massacro di Tienanmen. «Il mondo felix» a cui aspirava - spiega Elorza - è quello dell’unanimità di vedute e di consensi. L’aspirazione massima di ogni autocrate, «incluso Berlusconi. Pechino chiama. Berlusconistan risponde.

Repubblica 30.5.09
La stampa Usa
Il New York Times: molti si domandano se stia esagerando anche per i tolleranti italiani
"Decadenza alla Satyricon. Silvio ha sbagliato i calcoli"


ROMA - Dopo l´affondo del britannico Financial Times («Berlusconi è un esempio deleterio per tutti»), stavolta è il New York Times a portare il colpo. «Molti si domandano - si legge in prima pagina - se Berlusconi non stia esagerando anche per i tolleranti italiani e se la fine della sua carriera stia sempre più ricordando la decadenza dell´impero romano del Satyricon di Fellini». All´articolo, ripreso anche sulla home page del sito, seguono decine e decine di commenti sconfortati di lettori americani, europei e italiani. C´è chi definisce il Cavaliere un «satiro», chi invoca l´intervento delle Nazioni Unite e chi, dall´Italia, invita i lettori a stelle e strisce «a considerare anche le tante persone che non lo hanno mai votato».
Ma c´è dell´altro, perché anche nel seguito blog del New York Times dedicato al giornalismo si parla diffusamente della vicenda Lario-Noemi, con link alle «dieci domande di Repubblica», ai video, e all´inchiesta della nostra testata. Il giornalista Robert Mackey, per far capire la situazione al pubblico Usa, utilizza un paragone: «Immaginate un mondo nel quale Donald Trump possiede la NBC e vive alla Casa Bianca, mentre prepara a Miss California un seggio al Congresso, e sarete solo a metà strada per capire quello che avviene in Italia».
Brutte notizie per Berlusconi anche dal settimanale Time. In un articolo l´Italia viene ribattezzata «Berlusconistan», con un suffisso che ricorda le satrapie asiatiche ex Urss. Riferendosi all´ultima apparizione del presidente del Consiglio, in cui Berlusconi esordiva chiedendo se ci fossero domande sulle «minorenni», il Time annota: «Non è proprio il classico modo con cui il leader di una nazione del G8 inizia una conferenza stampa. Ma questa è l´Italia al tempo di Berlusconi, la terra di un fiammeggiante miliardario la cui ambigua relazione con una 18enne ha dominato il dibattito per un mese». Si occupano diffusamente del premier anche il Wall Street Journal e El Pais. Mentre il Guardian scrive: «Si capisce in che guai è Berlusconi se perfino i Blair prendono le distanze da lui».
(f. bei)

Repubblica 30.5.09
Piccante
di Stefano Bartezzaghi


È quanto meno insolita la circostanza per cui un premier debba dichiarare: «Non ho mai avuto rapporti piccanti con minorenni». Eppure dobbiamo essere abituati alle circostanze insolite, perché quello che si nota è soprattutto la scelta dell´aggettivo. «Piccante» in questo contesto è indubbiamente un eufemismo, una parola che arriva direttamente dall´universo dell´ammicco (piccante-ammiccante, ottima rima). Si è usata soprattutto per le commedie sexy degli anni 70, con uomini costituzionalmente sbavanti che spiavano vestizioni, svestizioni, docce, giarrettiere e guepière. Come il sapore da cui prende il nome, il genere piccante piace innanzitutto, forse soltanto, ai maschi, che ne vengono accalorati ed eccitati. Il piccante è la spezia onnipresente nei book delle aspiranti soubrette e attrici di fiction tv, nei servizi dei rotocalchi, nei retroscena evocati da Dagospia. Il piccante è una sensazione evanescente, non lascia tracce di sé, è peccato solo per chi se ne impiccia. E persino il proverbio raccomanda di non parlare di piccante a casa del piccato.

Repubblica 30.5.09
Se le famiglie dicessero no
di Gabriele Romagnoli


Il diavolo è sempre in cerca di anime da comprare, ma vendergli la propria resta una libera scelta. L´ultima, probabilmente. è quanto viene da pensare riconsiderando da una diversa angolazione l´ultimo "caso Berlusconi".
Se dal punto di vista politico quel che conta è l´incapacità di un presidente del consiglio di affrontare la verità dei fatti, che le sue contraddizioni hanno finito per rendere rilevante, dal punto di vista sociale a colpire è l´atteggiamento della famiglia Letizia, ragazza e genitori, la loro incapacità di dire, a suo tempo, un semplice (e ragionevole) no che avrebbe cambiato la storia. Quale storia? Quella di un piccolo nucleo umano alla periferia di Napoli, ma anche quella d´Italia. Perché è evidente che quel nucleo è lo specchio di un Paese. E´ la superficie sulla quale può vedere il proprio volto rivelato quella maggioranza consapevole di italiani che (a prescindere da come ha votato) si è consegnata non tanto a un uomo, a una guida, quanto a uno stile di vita, a un´ideale che preferisce la scorciatoia all´etica.
Prendiamo solo gli eventi acclarati ed esaminiamoli staccandoci dal particolare, senza relegarli ai nomi che ne nascondono la dimensione universale. In un luogo lontano dal cuore dell´impero e dalla luce dei riflettori (tendenti a coincidere) una coppia di genitori alleva una figlia sperando, come tutti tendono a fare, che la sua vita sia più fortunata della loro. La madre augurandole il successo nello spettacolo che lei non ha potuto avere. Il padre, l´accesso a quel potere di cui lui ha solo conosciuto l´anticamera. A un certo punto, per circostanze che qui non rilevano, book o cartolina, entra in contatto con la ragazza un uomo al di fuori della sua portata. Di cinquant´anni più grande, potente e, si aggiunga, sposato. Saltiamo i preliminari e consideriamo una sola tra le cose accertate: quest´uomo invita la ragazza a passare un capodanno nella sua villa in Sardegna. Che sia ospite insieme ad altre dozzine di esemplari può essere considerata un´attenuante o un´aggravante, dipende dai punti di vista. Il fatto resta. E qui sorge la domanda sul rapporto con i figli, che non è quella mal mirata posta dal segretario del pd Dario Franceschini. La domanda è: se hai una figlia minorenne e un settantenne, maritato e potente l´invita a casa sua per le feste, come reagiresti?
Che cosa induce i genitori a guardarla fare la valigia e magari aiutarla a infilarci le calzette rosse? Non pensano a possibili rapporti piccanti, certo: pensano al bene di lei, alla carriera che potrà schiudersi, come è già per altre, nello spettacolo o nella politica. Questo sognano la ragazza, i suoi genitori, l´Italia in cui da almeno una generazione, viviamo.
Ora, è luogo comune a questo punto scagliare l´anatema contro il diavolo: è stato lui a venderci questi sogni, a far deviare dalla strada maestra asfaltando scorciatoie verso direzioni che sono altrettanti precipizi. Più che una spiegazione un alibi, una copertura per la mancanza di spina morale che nessun palinsesto avrebbe potuto piegare se fosse esistita. E´ vero che le tentazioni sono tante e facili. Un qualunque pulcino ballerino può attraversare una passerella di presunti talenti , tuffarsi nell´altro canale e vincere, chessò, il Festival di Sanremo. Una qualsiasi faccia da citofono può piazzarsi in una casa, cicalecciare a comando e diventare una celebrità. Se, in un´altra epoca, Montanelli scriveva che l´ingresso al governo di Giovanni Goria ridava speranza a tutte le mamme con un figlio non troppo dotato, l´investitura delle Carfagna, Brambilla, Gelmini ha prodotto madri pronte a preparare alle figlie il trolley rosa per la Sardegna. Volere questo, volerlo in questo modo, non è un delitto. Proporre questo, proporlo in questo modo, non è un delitto. Il diavolo fa il suo mestiere. Quelli a cui telefona rispondono come possono. La vera domanda è una: perché non riescono a dire no?
Quando e come hanno perso gli anticorpi? Quando questo scambio è diventato la normalità del vivere qui e ora? Quando ne è valsa la pena? Quando? A quale risveglio e dopo quanto sonno? E non è questione che riguarda uno spicchio di società, individuabile politicamente o economicamente. E´ una situazione generalizzata, trasversale. Ognuno incontra il proprio diavolo, prima o poi. E può decidere come rispondere alla sua proposta. Può accettarne l´invito: in Sardegna, nel salottino televisivo che dà la popolarità, alla tavola dei signori che distribuiscono le cariche. O può proseguire nella sua, lunga, strada. Non è una decisione in cabina elettorale, è molto più di così. Riguarda la capacità di essere se stessi, lottare da soli contro i limiti imposti dal caso e dalle virtù, sconfiggerli o accettarli senza l´aiutino del presentatore o l´affettuosa benevolenza di chi dà e trucca le carte. Riguarda, soprattutto, la possibilità di costituire un esempio per le generazioni a seguire, affinché la prossima sappia da sé rispondere allo squillo del cellulare:
"Pronto, ciao: sono papi…"
"Lei ha sbagliato numero".

Repubblica 30.5.09
Il fantasma del ‘94 che piace al cavaliere
di Giuseppe D’Avanzo


C´è stato un tempo in cui, accanto a Silvio Berlusconi, sedeva Cesare Previti: pagava i giudici per tenere lontano dalla severità della giustizia il patron di Fininvest. Diventa premier. Si cucina da solo l´impunità. Berlusconi non ha più bisogno di chi gli corrompe i giudici.
Un passo dei giudici consentirebbe al premier di passare all´attacco

Se avesse ancora accanto a sé un barattiere, gli chiederebbe di pagare un pubblico ministero per procurarsi un bell´avviso di garanzia. Perché la campagna elettorale di Berlusconi ha bisogno - come noi dell´aria - del conflitto con la magistratura. Il suo elettorato non ama le toghe e, per parte sua, il Cavaliere indossa con splendore i sontuosi panni della vittima. Il binomio radicalizza il suo elettorato, gli assicura la vittoria a mani basse, gli consente di attenuare la crisi di sfiducia che l´affligge; di cancellare l´inadeguatezza del governo; di dimenticare le minacce e i numeri di una crisi che, nonostante la «false speranze» che diffonde (come dice Bankitalia), appesantirà imprese, occupazione e famiglie italiane ancora per due anni, contrariamente a quanto accade negli altri Paesi europei.
Un avviso di garanzia, benedetto, permetterebbe al premier di fare piazza pulita anche di scene come quella a cui hanno assistito milioni di italiani l´altra sera: un uomo di 73 anni, capo di governo, che giura sulla testa dei figli, tra l´imbarazzo dei suoi ministri, che non ha avuto «rapporti piccanti, molto piccanti» con una minorenne. Un avviso di garanzia, benvenuto, potrebbe cambiare di segno anche questo affare. Se lo è combinato da solo irritando i suoi alleati con le candidature delle sue giovani o giovanissime amiche, umiliando in pubblico la moglie, ficcandosi in un ristorante della peggiore periferia di Napoli. Un passo della magistratura consentirebbe al capo di governo di giocare non in difesa, un po´ smarrito come appare oggi, ma in attacco secondo uno schema che lo ha sempre gratificato. Purtroppo, per quel che se ne sa, i pubblici ministeri stanno facendo a Berlusconi un dispetto molto grave: lo ignorano, non gli invieranno alcun avviso di garanzia. Così il conflitto con la magistratura vede in campo un solo combattente: il Cavaliere. Come in una pantomina, ingaggia la sua battaglia da solo, finge e simula uno scontro che non c´è. Come tanto tempo fa, quando nei giardini della villa Olivetta di Portofino lo sentirono gridare: «Dài, colpiscimi, stupido. È tutta questa la tua forza? Colpisci più forte, ancora più forte». Quelli di casa pensano a un ladro, a una rissa. Accorrono. Lo vedono lì sul prato. Solo. Lui saltella, arretra, avanza, scarta di lato in un´immaginaria rissa. Le gambe flesse, i passi corti, il pugno destro ben stretto a protezione della mascella e il sinistro che si allunga veloce contro l´avversario che non c´è.
In fondo, Berlusconi politico ripete ossessivamente sempre la stessa perfomance comunicativa, come se il largo consenso di cui gode fosse inutile per governare, anche se questo dovrebbe essere il suo impegno prioritario. Urla e si lamenta, invece. Gli riesce meglio. Scomparsi i «comunisti», salta su contro i magistrati. Anche se quelli se ne stanno buoni, deve rappresentarli con il coltello tra i denti. Per evocare il pericolo, ha bisogno di richiamare un episodio di quindici anni fa, l´avviso di garanzia per la corruzione della Guardia di Finanza. Il suo ricordo è come al solito truccato. I tre processi hanno accertato, in maniera definitiva, che la Guardia di Finanza è stata corrotta, che le tangenti sono state pagate per concludere le indagini sulla Fininvest. Dopo una condanna a 2 anni e 9 mesi, la Cassazione non ha ritenuto sufficienti gli indizi del collegamento diretto fra i funzionari corrotti e Silvio Berlusconi, link invece definitivamente provato per altri dirigenti Fininvest, condannati con sentenza irrevocabile. Assolto? Berlusconi non dice che se quel «collegamento non è stato provato» fu grazie a un testimone che il Cavaliere corruppe: David Mackenzie Mills.

Repubblica 30.5.09
Il Cavaliere e l’incubo del ´94 "Ma stavolta non mi fermerà nessuno"
"Pronto ad elezioni anche a ottobre". Noemi e l’ipotesi Matrix
di Claudio Tito


Su Dagospia le voci di un´inchiesta dopo le accuse di Veronica. La procura di Roma apre un fascicolo dopo aver ricevuto lettere di cittadini, ma si tratta di una indagine senza notizie di reato
An e Lega non vogliono elezioni anticipate e il Quirinale segue con apprensione le mosse del premier, mostrando freddezza verso l´ipotesi di tornare alle urne

ROMA - «Questa volta non mi fermerà nessuno. Se tentano l´assalto, io faccio saltare il banco. Farò come l´anno scorso a Piazza San Babila. Farò come la svolta del predellino». L´incubo del ‘94 si è materializzato. I magistrati, alcuni «poteri tornati forti», il sospetto «ribaltonista». Dopo un anno di governo, il Cavaliere fa un salto indietro nel passato. E´ tornato a 15 anni fa. Quando l´avviso di garanzia a Napoli fece barcollare la coalizione e poi Umberto Bossi dichiarò aperta la crisi. Lo scontro con l´allora presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, e la nascita dell´esecutivo pilotato da Lamberto Dini. Un´esperienza, ripete adesso ai suoi, che resta ancora una «lezione». «Stavolta non mi fermerà nessuno». L´esempio del «predellino» - il comizio del febbraio 2007 a Milano - lo cita con i suoi per far capire che non si farà frenare dagli alleati. Una frase che ha degli obiettivi espliciti: i partner recalcitranti, appunto, e soprattutto il presidente della Repubblica.
Il presidente del consiglio ha fatto scattare l´allarme rosso. «Troppe coincidenze», avverte. Il "Casoriagate", le inchieste napoletane sul termovalorizzatore di Acerra che potrebbero coinvolgere il sottosegretario Guido Bertolaso e adesso le voci, lanciate ieri dal sito di gossip "Dagospia", su un fascicolo riguardante la frase pronunciata dalla moglie Veronica Lario: il premier «frequenta minorenni». In realtà non ci sono conferme, anche se lettere anonime e diverse e-mail sono arrivate alla procura di Roma, qualcuna anche contro la consorte del primo ministro. Il procuratore Giovanni Ferrara, obbligato per legge, ha aperto un fascicolo, timbrato con l´intestazione «modello 45», ovvero indagine al momento senza notizia di reato. Non ancora una vera e propria inchiesta. Ma la fuga di notizie sta mandando su tutte le furie l´uomo di Via del Plebiscito. E il suo legale, Niccolo Ghedini, ha annunciato una querela contro Dagospia e le sue «insinuazioni diffamatorie».
A questo punto, dunque, il premier è pronto a fare i conti con tutti i potenziali "avversari". Con i pm, certo. Ma pure con gli scettici "interni". E sì, perché la semplice idea di far precipitare il paese di nuovo verso le elezioni anticipate ha provocato un brivido in buona parte della maggioranza. In molti dei "peones" alla prima esperienza parlamentare. Ma anche nei leader. Quelli di Alleanza nazionale hanno fatto sapere a chiare lettere di considerare un azzardo il ritorno alle urne. «Ma quali elezioni», è sbottato il ministro per le politiche comunitarie, Andrea Ronchi. Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, non intende rinunciare alla consonanza costruita negli ultimi dodici mesi con Giorgio Napolitano. Dopo il tentativo di ricomporre i precedenti dissidi, tra la prima carica dello Stato e il premier la tensione è tornata alta. Il presidente della repubblica, in modo del tutto informale e ufficioso, non ha nascosto nei suoi contatti di seguire con apprensione le mosse e gli annunci del presidente del consiglio. L´inquilino del Colle replicherà presto agli attacchi rivolti alla magistratura. Probabilmente lo farà in occasione del prossimo plenum del Csm. Ma anche sull´ipotesi di elezioni anticipate è a dir poco freddo. Anche perché il potere di sciogliere le Camere rappresenta un´esclusiva del Quirinale e non di Palazzo Chigi. Pure i «colonnelli» della Lega hanno iniziato a tirare il freno. Una posizione che a Berlusconi ha già fatto ritornare in mente il braccio di ferro del 1995 con Scalfaro.
Lo stesso Umberto Bossi non è affatto attratto dalla «minaccia» berlusconiana e ieri ha negato che esista una ipotesi di elezioni anticipate. Farebbero allontanare per l´ennesima volta l´approdo federalista. Ma ieri a L´Aquila il Cavaliere ha fatto di tutto per non smentire l´opzione elettorale. Nei briefing con lo staff ha perfino cominciato a parlare delle possibili alternative «temporali». Se tutto precipitasse, se arrivasse quello che per lui è il «redde rationem», quando si potrebbe votare? Berlusconi non esclude a priori di andare alla resa dei conti a ottobre. Con il Pd ancora in mezzo al guado e senza un leader consacrato dal congresso. Oppure nella prossima primavera, insieme alle regionali.
Nel frattempo si prepara a dare battaglia nel breve periodo. Le europee sono alle porte e vuole giocarsi tutte le carte per sfondare la soglia del 40%. E una delle carte è proprio Noemi. Vuole trasformarla in un´arma elettorale. Organizzando persino un puntata ad hoc di Matrix. La ragazza napoletana potrebbe presentarsi davanti alle telecamere. Non a caso gli uomini del Cavaliere starebbero già sondando i possibili «maestri» di comunicazione televisiva per «preparare» Noemi e consentirle una buona performance. Ma c´è poco tempo.

Repubblica 30.5.09
Cattiva stampa e cattiva politica
di Giovanni Valentini


Sono passati più di due secoli da quando Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti d´America, scrisse la frase riportata qui sopra in una lettera a Edward Carrington, prima militare e poi rappresentante politico della Virginia. E nel frattempo, s´è avverato ciò che lui stesso auspicava di seguito: "Ma devo dire che ogni uomo dovrebbe essere in grado di ricevere questi giornali ed essere capace di leggerli".
Trasferita nell´Italia contemporanea e messa in bocca al presidente del Consiglio in carica, la citazione di Jefferson andrebbe completamente rovesciata: non c´è alcun dubbio che Silvio Berlusconi preferirebbe invece un governo senza giornali. E con lui, molti dei suoi adepti e cortigiani. Anzi, l´opzione potrebbe riscuotere consensi perfino nelle file della sinistra o del centrosinistra.
La stampa, la libera stampa, disturba i potenti. Per la semplice ragione che, in nome dell´opinione pubblica, esercita bene o male una funzione di controllo nei loro confronti e in questo senso rappresenta un contropotere. Osserva, riferisce e giudica il loro comportamento. Valuta quello che fanno e non fanno. Indaga sulle loro azioni. Li intervista, li contraddice e a volte si permette pure di criticarli.
Lungi da noi la tentazione di una difesa d´ufficio della categoria. Anche i giornalisti - a cominciare ovviamente da chi scrive - possono sbagliare, hanno le loro colpe, i loro difetti e le loro debolezze. A differenza dei politici, però, rendono conto ogni giorno ai propri lettori, oltreché alla propria coscienza, al proprio direttore, al proprio editore ed eventualmente alla giustizia, mentre i politici si rifugiano spesso e volentieri dietro lo scudo dell´immunità parlamentare. Sta di fatto, comunque, che i lettori comprano i giornali e talvolta accade invece che la politica compra gli elettori.
Ora, quando il presidente del Consiglio dichiara che "chi vuol fare del male, fa il delinquente, il pubblico ministero o il giornalista", non si sa bene se – detto da un personaggio come lui - sia un´offesa o un complimento. L´associazione magistrati giustamente protesta e li ritiene "insulti inaccettabili". E il presidente della Federazione nazionale della Stampa, Roberto Natale, li definisce attacchi "indecorosi". Ma, diciamo la verità, non c´è da parte della nostra categoria quella reazione indignata e compatta che una tale aggressione meriterebbe.
Sotto il fuoco delle polemiche suscitate dal "caso Berlusconi", riprese e amplificate da diversi e autorevoli giornali stranieri, il ministro degli Esteri Franco Frattini, artefice di una fondamentale legge sul conflitto di interessi che non impedisce al premier neppure di fare il presidente vacante del Milan, non trova di meglio che prendersela con la "stampa cattiva e disonesta". Ma si può, e può in particolare il capo della diplomazia, liquidare in blocco con una battuta del genere le critiche di testate come il Financial Times, organo della business community internazionale; come i quotidiani inglesi The Guardian e The Indipendent o come lo spagnolo El Paìs? Noi, giornalisti italiani, ormai ci siamo abituati e conosciamo fin troppo bene i nostri governanti. Ma che cosa devono pensare i colleghi stranieri e, soprattutto, che cosa devono pensare i lettori dei rispettivi giornali?
All´estero, non tutti sanno che questa è una classe politica composta da funzionari o impiegati di partito, non di eletti dal popolo. Nominati dall´alto, e non sempre in virtù delle proprie qualità o competenze, ma piuttosto dei servizi che rendono a questo o a quel capo; della loro fedeltà e obbedienza; del loro aspetto fisico o magari della loro "bellezza". Una burocrazia parlamentare, insomma, che non viene scelta dal corpo elettorale, bensì dai vertici dei partiti e imposta di fatto ai cittadini.
L´intolleranza crescente verso i giornali, da parte di un ceto politico dedito innanzitutto alla difesa dei propri interessi e della propria sopravvivenza, rivela in realtà una tara, una debolezza congenita, che deriva appunto dal senso di precarietà e dipendenza. L´informazione viene così demonizzata e criminalizzata. E non resta che attaccare, offendere e insultare i giornali e i giornalisti, italiani o stranieri, in una gara all´insegna della stupidità e volgarità, per guadagnare titoli e meriti agli occhi dei maggiorenti. Siamo ormai al limite dello squadrismo verbale.
La stampa sarà pure "cattiva e disonesta", come sostiene impunemente il ministro Frattini. Ma, allora, che cosa dobbiamo dire tutti noi, cittadini ed elettori, di questa politica? Cattiva e disonesta, non basta. Da parte nostra, come il presidente Jefferson e al contrario di Berlusconi, continuiamo a preferire giornali senza un governo piuttosto che un governo senza giornali.

Repubblica 30.5.09
La terapia della verità
di Massimo Giannini


Serve l´asciutto neorealismo post-moderno di Mario Draghi, per rompere il finto orizzonte di cartapesta sul quale Silvio Berlusconi proietta il suo personale Truman Show, a beneficio di un «pubblico» che si vuole ormai trasformato in «popolo». Dopo la Confindustria di Emma Marcegaglia, tocca ora al governatore della Banca d´Italia il compito di raccontare qualche amara verità a un´opinione pubblica sedata dal prozac della psico-politica governativa.
La prima verità è che l´Italia è un Paese in crisi profonda. Quest´anno il Pil crollerà del 5%. Solo nel semestre ottobre-marzo la caduta è stata pari al 7%. La famosa «ripresa», sbandierata da Palazzo Grazioli, non esiste in nessun luogo. E persino i «recenti segnali di affievolimento» della recessione, secondo Draghi, esistono solo nei «sondaggi d´opinione». La seconda verità è che tanti, troppi italiani stanno male. Il nostro tasso di povertà relativa è molto superiore alla media di Eurolandia: 20%, contro il 16% della Ue. La flessione della domanda e dei consumi nasce da un cedimento del reddito e dell´occupazione che si acuirà nei prossimi mesi. Due quinti delle imprese con oltre 20 addetti licenzieranno personale. Due milioni di lavoratori temporanei vedranno scadere il loro contratto entro la fine dell´anno.
La terza verità è che la «coperta» del nostro Welfare, con buona pace dei ministri Sacconi e Brunetta che la considerano la migliore del mondo, è corta e piena di buchi. Oltre 1 milione e mezzo di lavoratori, se licenziati, non hanno diritto ad alcun sostegno, e circa 800 mila lavoratori possono contare su un´indennità che non raggiunge i 500 euro al mese. Serve «una riforma organica e rigorosa» degli ammortizzatori sociali, e «una misura di sostegno al reddito per i casi non coperti». Non i pannicelli caldi della Cassa integrazione in deroga, o le pezze a colori dei fondi Fas.
La quarta verità è che anche la straordinaria virtù delle imprese del Quarto Capitalismo rischia di non reggere l´urto delle ristrutturazioni. Nelle prospettive sugli investimenti delle imprese manifatturiere permane «un forte pessimismo» per tutto il 2009. E tra le 500 mila piccole aziende con meno di 20 addetti, che danno lavoro a oltre 2 milioni di persone, è spesso «a rischio la stessa sopravvivenza». Purtroppo una Fiat che vince in America, o una Tod´s che sbarca in Fifth Avenue, non bastano a fare primavera.
La quinta verità è che una politica economica attendista e rinunciataria ci sta regalando un doppio maleficio: nessuna crescita dell´economia reale, ma nessun risanamento dei conti pubblici. Il governo fa poco per arginare la crisi, ma deficit, debito e spesa primaria corrente continuano a lievitare ugualmente a ritmi vertiginosi. Non è solo l´eredità immane del passato, ma è anche il paradosso italiano del presente. Per questo servono riforme strutturali immediate e «prospettiche», che ci permettano di rafforzare le manovre anti-cicliche oggi in cambio di un sicuro risanamento di bilancio domani. Dalle pensioni alla pubblica amministrazione, dalla scuola alle infrastrutture. C´è l´imbarazzo della scelta, se solo il governo passasse dalla rappresentazione all´azione.
La sesta verità è che il sommerso, eterna risorsa dell´Italietta furba e irresponsbile, non ci tirerà mai più fuori dal gorgo. L´economia irregolare che pesa per il 15% della ricchezza nazionale è un´anomalia insopportabile anche per un Paese di poeti, di santi e di evasori come il nostro. L´occultamento di una parte così alta di basi imponibili accresce ulteriormente l´onere di chi è ligio al dovere, riduce la competitività delle imprese, accresce le iniquità e «disarticola il tessuto sociale». E anche qui, il governo non fa quel che deve. Non è un caso che Draghi segnali il collasso delle entrate tributarie. Un gettito Iva che diminuisce dell´1,5%, anche quando i consumi crescono del 2,3%, vuol dire una cosa sola: l´area dell´evasione fiscale si sta allargando.
Sta tutto qui, nel divario tra verità e finzione, l´abisso analitico e «terapeutico» che separa il governo e il governatore. Per Berlusconi la crisi è un «dato psicologico», virtuale e «percepito». Per curarla, quindi, basta una tambureggiante psico-terapia collettiva, impartita attraverso il verbo suadente del premier o il titolo compiacente di un tg, per attivare nel cervello del cittadino- consumatore- imprenditore-risparmiatore le endorfine di un «positivismo ad ogni costo». Per Bankitalia (come già per Confindustria) la crisi è invece un «fatto economico», reale e vissuto. Per curarla, dunque, servono riforme vere, qui ed ora, che incidano sull´esistenza quotidiana delle persone, delle famiglie, delle imprese. Usa lo straordinario consenso che hai per cambiare e modernizzare questo Paese, era stata la sfida lanciata al Cavaliere dalla Marcegaglia. Draghi, con parole più sfumate, dice esattamente la stessa cosa. È significativo che a convergere su questa «piattaforma» riformista, contrapposta al «format» populista, stavolta ci siano anche i sindacati.
Sarà anche vero - come sostiene Giulio Tremonti in un´irrituale intervista «a orologeria» uscita ieri sul Sole 24 Ore, guarda caso proprio nel giorno delle Considerazioni finali - che la Banca d´Italia è solo «un´autorità tecnica», che la vera e unica «sovranità appartiene al popolo» e che «la responsabilità politica è del governo che ne risponde». Ma resta il fatto che Berlusconi sembra essere rimasto il solo a non capire che il puro galleggiamento, per questo Paese, è inutile. Non ci sarà nessuna quiete, dopo la «tempesta perfetta» che ha travolto noi, e che prima o poi rischia di travolgere anche lui.
m.gianninirepubblica.it

Corriere della Sera 30.5.09
La sinistra e il sogno della «grande slavina»
di Paolo Franchi


Un consiglio amichevole a Dario Franceschini: non abbia paura di sembrare provinciale, e lasci stare i grandi giornali stranieri, ultimi il New York Times, che tira in ballo il Satyricon, e Time, che ci descrive come il Berlusconi­stan.

Non perché non abbiano le loro buone ra­gioni, si capisce, ma perché l’assunto da cui muovono, l’idea cioè che sarebbe iniziato il declino di Silvio Berlusconi e del berlusconi­smo, è tutto da dimostrare, e in ogni caso ben difficilmente troverà conferme nelle ur­ne. Certo, il presidente del Consiglio appena un mese fa sembrava il padrone assoluto, se non del Paese, quanto meno dell’opinione pubblica italiana, ivi compresa quella parte che gli è avversa, ma politicamente sembra nutrirsi solo di questa avversione. Oggi, inve­ce, è percepito anche da molti suoi amici co­me un anziano leader in difficoltà, che fatica non solo a dare risposte esaurienti sul caso Letizia, o a far fronte a sentenze che lo chia­mano in causa, ma anche a tenere insieme il litigioso universo della sua (larghissima) mag­gioranza. Nulla indica però che il consenso di cui Berlusconi e il centrodestra godono sia stato anche solo incrinato. E in ogni caso, i problemi, se esistono (ed esistono, eccome), sono tra Berlusconi e se stesso, tra Berlusconi e i suoi cari, tra Berlusconi e i suoi partner, tra Berlusconi e il suo popolo: l’opposizione, spiace (anzi: preoccupa) dirlo, c’entra poco o nulla. Può pure darsi che, di qui a qualche tempo, si rivelino irrisolvibili. Chiediamo ve­nia in anticipo per il paragone: ma, anche in questo caso il presidente del Consiglio do­vrebbe temere, più che un 25 aprile, un 25 lu­glio.
Franceschini si dà, comprensibilmente, obiettivi modesti o, se vogliamo, realistici. Ha raccolto un partito inesistente, si è gettato nella mischia, e ora spera di recuperare qual­cosa, ma sente sul collo il fiato di Antonio Di Pietro e di un antiberlusconismo in servizio permanente effettivo, assai diffuso non sol­tanto nel «ceto medio riflessivo» caro a Paul Ginsborg, che si illude sia giunta, finalmente, la sua ora. Una campagna elettorale non è cer­to l’occasione più indicata per impegnarsi in analisi accuratamente evitate per quindici an­ni e passa: ma un minimo di riflessione si im­pone perché, se si riduce la politica a propa­ganda, il rischio (il segretario del Pd ci è in­cappato appena qualche giorno fa) è di fare della propaganda controproducente. Sempre più spesso analisi e commenti ci propongono confronti tra la situazione attuale e la grande slavina che si portò via la Prima Repubblica. Nell’aria si avvertono miasmi (per qualcuno in realtà sono profumi) non troppo dissimili. Ma il confronto, per mille e un motivo, non sta in piedi. E in ogni caso chi a sinistra lo azzarda dovrebbe ricordare che da quello sconquasso uscì vincitore (non proprio ca­sualmente, e certo non solo in virtù delle sue televisioni) Berlusconi; e che proprio allora cominciò a prendere forma quel mutamento tellurico della scena politica, culturale e civile del Paese, ottimisticamente spacciato per una fase di transizione, che è giunto a (clamo­roso) compimento solo con le elezioni politi­che dell’aprile scorso, quando per la prima volta non solo la sinistra, ma tutto quello che si era salvato della Prima Repubblica (com­presa l’Udc) si è ritrovato, in compagnia di Di Pietro, all’opposizione. Non se ne parla abba­stanza, ma si è trattato di un passaggio d’epo­ca, di quelli che chiamano, per non morire d’inedia, a riconversioni profonde e di lungo periodo, che però non sono state nemmeno abbozzate. Farlo in una campagna elettorale in cui si lotta per sopravvivere sarebbe impen­sabile. Ma sperare di poterle eludere alzando la voce e facendo voti perché l’avversario con­tinui a farsi del male da sé è, o dovrebbe esse­re, più impensabile ancora.

Repubblica 30.5.09
Roma blindata per il corteo anti G8
Blitz degli antagonisti: saremo migliaia. Dai ministri accordi anti-pirateria
di Paolo G. Brera


ROMA - Migliaia di poliziotti e carabinieri schierati per fronteggiare poche decine di antagonisti, i quali con marcata verve espressionista sono riusciti a far parlare di loro senza combinare guai. La prima giornata del G8 della Sicurezza e dell´Immigrazione, che si chiude oggi a Roma con una «grande manifestazione» autorizzata in centro, è scivolata via senza incidenti. In una Capitale blindata, stupita e arrabbiata per i disagi di un summit tra le case e gli uffici del quartiere Flaminio, i ragazzi della "Rete NoG8" hanno disegnato impronte dei piedi all´Anagrafe; hanno beatificato "Sans Papier" in S. Maria Maggiore, celebrandolo protettore dei migranti senza documenti (sans papier); si sono fatti identificare e denunciare in cinque per un tentato assalto scenografico al ministero della Marina; infine hanno assediato con musica e slogan il centro per l´espulsione degli immigrati a Ponte Galeria.
«Saremo migliaia», dicono annunciando il corteo che oggi attraverserà il quartiere più multietnico di Roma e raggiungerà una delle piazze più belle del mondo, piazza Navona, con proteste assortite di commercianti e residenti. Dei black bloc, fino a ieri nessuna traccia. Questura e prefettura ribadiscono cauto ottimismo, e gli organizzatori assicurano intenzioni pacifiche. Il rischio è che s´infiltrino frange di autonomi in cerca dello scontro. E a complicare le cose c´è la critical mass, il corteo nazionale di ciclisti arrabbiati che minacciano di unirsi ai "noG8". Nel chiuso del G8, intanto, i ministri hanno stretto accordi per la lotta alla criminalità e per combattere pedo pornografia e pirateria. Un´intesa di massima su chi ha giurisdizione a processare i bucanieri che, se limato dai tecnici, sarà finalizzato al G8 de L´Aquila.
(ha collaborato Valeria Forgnone)

Repubblica 30.5.09
In piazza giovani, precari e invisibili "Ma non chiamateci più no global"
di Calo Bonini, Anais Ginori


ROMA - Da trentasei ore, fulminei e chiassosi, come un Davide che balla intorno a Golia, appaiono in drappelli di qualche decina per poi scomparire. E riapparire altrove. In una violazione simbolica di «zone rosse», che descrive il perimetro dei diritti negati ai migranti. Che rende solare quel che chiedono - «No al G8, no al pacchetto sicurezza». «La vostra sicurezza non ci cancellerà. Cittadini e cittadine nati» - e, a ben vedere, racconta quel che sono. Oggi pomeriggio, si annunciano in 10 mila e avranno la piazza. Nel lessico pigro della politica e dell´informazione, li chiamano ancora "No global". Nonostante quel nome non dica e non descriva più nulla. Nelle analisi delle burocrazie della sicurezza e degli osservatori del Movimento, si aggiunge che di qui al prossimo mese sarà proprio la piazza - oggi a Roma, il 4 luglio a Vicenza contro la base Dal Molin, dal 7 al 9 luglio per il G8 a l´Aquila - a raccontare di cosa si stia davvero parlando. Anche se il ministro dell´Interno Roberto Maroni un´idea sembra averla già maturata. Quando, tornando a far ballare i fantasmi degli anni ‘70, avverte che «non c´è da stare tranquilli». Che nei «social network» è «forte l´attrattiva per criminali e terroristi», e la «stagione dell´eversione non è chiusa».
Eppure, se li osservi in queste ore a Roma, se ascolti il Movimento discutere, ne scorri i forum in Rete e chiedi chi sono e cosa sono diventati, scopri appunto che persino il nome - "No global" - è roba buona per il museo delle cere. Il "movimento dei movimenti" dei giorni di Genova non c´è più. I 300 mila del G8 2001, le 730 organizzazioni che li rappresentavano, se li è portati via il tempo e la storia. Come del resto raccontano i destini di alcuni dei loro 18 leader di allora. Prigionieri di se stessi e di un passato ingiallito quelli che hanno scelto il salto nella politica come professione (Vittorio Agnoletto e Francesco Caruso). O alla ricerca d´altro, come Luca Casarini, il figlio di operai padovani, oggi papà di un bimbo piccolo, un esordio da romanziere noir con Mondadori, tornato a fare politica sul territorio, ma ormai libero dalla stimmate della "leadership". «Perché leader abbiamo scelto che non ce ne siano». «Perché è finita la stagione della "soggettività politica"». «Perché il Movimento deve far parlare la società». Perché gli eredi dei disobbedienti e delle tute bianche - adolescenti nei giorni di Genova e oggi ventenni - sono nella "Rete no logo". Lo spazio senza simboli.
Il collettivo "Wu Ming", che nel 2001 aveva dato forma e contenuto simbolico ai giorni di Genova con l´appello "Dalle Moltitudini d´Europa in marcia contro l´Impero", ha scritto: «Nel 2003, il Movimento era già in profonda crisi. Giorno dopo giorno regredì a presenza marginale, si ridusse a un inter-gruppi che occupava lo spazio dell´estrema sinistra tradizionale. Riemersero strategie e tattiche fossili, sub-leniniste. Grandi quantità di tempo ed energie vennero dissipate in guerre identitarie tra correnti». Alberto Zoratti, microbiologo, esperto di commercio equo e solidale, ex portavoce del Genoa Social Forum, aggiunge: «A Genova dicevamo che la globalizzazione basata sulla liberalizzazione del mercato avrebbe portato solo instabilità economica. Bene, abbiamo sbagliato per difetto. Al punto da scoprire oggi che l´alfiere della finanza creativa di allora, Giulio Tremonti, è diventato nemico della globalizzazione. Eppure, dopo Genova, non abbiamo saputo sfuggire alla logica del conflitto frontale. Abbiamo cominciato a perdere consenso».
Suona come il racconto di una ritirata. Di una morte per consunzione. Segnata, per altro, dalla perdita di contatto con il mondo cattolico, dalla nuova centralità dei Cobas che sono tornati ad essere l´unico sindacato in piazza a spese della Cgil, dalle divisioni nella sinistra cosiddetta radicale se stare o meno dentro il Movimento. Eppure, le cose non sembrano stare esattamente così. Dice Luca Casarini: «La verità è che i "no Global" non esistono più, perché abbiamo vinto. Perché la storia ci ha dato ragione. Otto anni fa, ci opponevamo alla globalizzazione nel momento della sua massima espansione. Oggi, che la globalizzazione celebra la sua sconfitta, il Movimento assume nuove parole d´ordine e nuove forme. Che sono quelle antiche della crisi e delle contraddizioni del capitalismo». Privo di rappresentanza e coordinamento (cui ha rinunciato), l´antagonismo ha abbandonato un orizzonte globale per tornare a lavorare nel territorio sui nodi della «formazione» (con l´«Onda»), del «precariato», dei beni comuni («di chi sono l´aria, l´acqua, la terra?»), dei migranti. Continuando a coltivare un´idea dello scontro di piazza come «violazione della zona rossa». Finendo per comporre un quadro, che, all´indomani delle rivolte che hanno acceso la Grecia e la Francia, Ilvo Diamanti, su questo giornale, ha fissato con parole che sono per altro diventate patrimonio dei nuovi «no logo». «Il denominatore comune di queste esplosioni sociali - ha scritto - sono i giovani, occultati e vigilati da una società vecchia e in declino, da un sistema politico im-previdente, inefficiente e spesso corrotto. Schiacciati in un presente senza futuro, cui sono sottratti i diritti di cittadinanza. Inutile ignorarli, fare come se non ci fossero. Ci sono. Esistono. E se si finge di non vedere si accendono, bruciano». La geografia dei centri sociali si è ridisegnata in quelle che chiamano «aree di aggregazione». E accade così, ad esempio, che le adesioni a «dachepartestare. org», nodo che ha organizzato la scorsa settimana la manifestazione antirazzista di Milano, siano quelle che mancano a «globalproject. info», riferimento dei centri sociali del Nord-Est, promotori, con i romani di "Action", della manifestazione di oggi. Che il "Cantiere" di Milano si sia separato dai padovani, mentre "Askatasuna" di Torino, "Crash" di Bologna ed "Ex carcere" di Palermo si raccolgano intorno a "infoaut. org". «Siamo un Movimento 2.0», dice Monica Di Sisto della cooperativa "Fair", mutuando la definizione di questa nuova mappa politica dalla rivoluzione concettuale che ha conosciuto la Rete. «La mobilitazione, oggi, è più reticolare e interattiva». E sia dunque. Addio «No global». Ecco i ragazzi del «2.0».

Repubblica 30.5.09
La presunzione dell’occidente
"Non esiste una civiltà superiore"
di Remo Bodei


L’identità dell’Europa secondo il filosofo è frutto di tante culture diverse
Non possiamo presentarci come un faro esportando i principi di libertà e democrazia
Dobbiamo eliminare l´idea dello straniero come potenziale nemico

Dalla caduta dell´impero romano l´Europa non ha più conosciuto alcuna forma di unificazione a lungo termine. Essa è costitutivamente la patria della diversità, è fatta di differenze: volerle unificare è assurdo, così come sarebbe ridicolo voler perseguire l´integrazione culturale per ottenere un melting pot analogo quello degli Stati Uniti. C´è invece bisogno, almeno nel presente, di incoraggiare la condivisione di una struttura istituzionale e di un patriottismo costituzionale, in modo che gli stati membri vecchi e nuovi seguano regole intonate ai principi democratici, alla diffusione dei diritti umani e all´adattamento a nuove strutture economiche. L´intera struttura deve venir rafforzata, specialmente per le generazioni europee più giovani, da un sistema educativo teso a creare una cittadinanza europea, la cui ricchezza deve prodursi catalizzando le differenze all´interno di un progetto di crescita condiviso.
Oggi l´Europa - soprattutto alla luce del suo passato coloniale - non può presentarsi semplicemente come un "faro", esportando i principi di libertà e democrazia. Il suo compito è sposare la domanda di libertà con quella di uguaglianza all´interno dei propri stati, per impedire che la libertà diventi un privilegio in un mondo lacerato dai conflitti, e l´uguaglianza un vuoto slogan ideologico. Se assumiamo il 1989 come data-simbolo, non è solo per la caduta del muro di Berlino, ma anche per il fallimento, magari non definitivo, di un grande progetto storico che voleva diffondere l´uguaglianza fra i cittadini d´Europa. Tale progetto è fallito perché nei paesi socialisti la volontà di raggiungere l´uguaglianza ha finito per produrre una disuguaglianza più grande, ma tale fallimento non può essere la giustificazione per lo sviluppo di modelli di liberalismo cosiddetto "selvaggio".
Ogni paese europeo ha la propria storia, che deve poter interagire con la storia degli altri. Ogni cittadina e ogni cittadino europeo ha le proprie caratteristiche, che vanno preservate a vari livelli: si può essere europea/o, italiana/o, toscana/o o napoletana/o. L´Unione Europea non deve precludere alcuna forma di attaccamento a patrie locali, alcun localismo, e in alcun modo implica che lo Stato, anello di congiunzione fra comunità locali e Comunità Europea, debba sparire o che l´"identità" venga minata.
In sostanza sono in gioco tre tipi di identità: l´identità "autoreferenziale", basata sullo schema logico a=a (spagnolo in quanto spagnolo, francese in quanto francese), come se l´identità fosse un fatto di natura. Poi, per contrasto, c´è un´identità che consiste nell´accettare le deformazioni provocate da secoli di oppressioni interne ed esterne, e nell´esaltarle come segni di identità: "Io sono così e ne sono orgoglioso". Penso ad esempio al caso dell´Unione Sovietica degli anni ‘20 e ‘30, con il suo "culto del proletariato", e ad alcuni poeti africani e caraibici, come Léopold Sédar Senghor o Aimé Césaire, con la loro idea di négritude: nel dire "sì, voi bianchi avete l´intelligenza, ma noi abbiamo immaginazione e passione" non si sono resi conto che in questo modo svalutavano la loro intelligenza. Infine il terzo tipo, che vede l´identità europea come un work in progress, una fune fatta di fili diversi, che tanto più si rinforza quanto più i fili sono ben intrecciati fra loro.
Questa costruzione che è l´Europa potrà portar beneficio alle relazioni tra le comunità greche e turche di Cipro, al problema degli ungheresi in Transilvania, o dei romeni in Moldavia, e forse, in futuro, dei serbi in Croazia; forse, indirettamente, potrà allentare le tensioni con le popolazioni russe nei paesi baltici. Ma qui vogliamo soprattutto sottolineare che l´ampliamento dell´Europa va inteso sia come una grande opportunità storica, sia come un arduo compito.
L´identità europea - anche in riferimento alle identità degli stati europei - è un´identità in costruzione. Non c´è dubbio che in tutta Europa possiamo ancora trovare storie nascoste, lingue rimaste ai margini e in pericolo, identità rifiutate e culture che rischiano di scomparire. Ma contro tutte le forme di razzismo o di sciovinismo è necessario marcare una distinzione tra il rifiuto di qualsiasi gerarchia fra culture (nel senso che ogni cultura ha la propria dignità) e il tentativo di culture piccole o grandi di rinchiudersi in un´esasperata presunzione di autoctonia. Al contrario, la loro identità dovrebbe definirsi non solo per opposizione, ma anche sulla base di differenze aperte al processo di universalizzazione, all´interazione con altre culture, all´elaborazione di modelli alternativi di appartenenza e di cittadinanza. Per questo è necessario sostenere concetti come quello di métissage di tutta l´umanità, di reciproca fecondazione culturale, e ristabilire le "differenze", rifiutando la presunzione di un Occidente che si proclama portatore della sola Civiltà degna di questo nome. (...)
Per fortuna la storia umana non si arresta: le culture del mondo si mescolano e rivivono poi in forme nuove e inattese. Non è necessario aspettare il futuro: possiamo (e dobbiamo) agire ora, per rafforzare i legami di amicizia e comprensione reciproca tra le diverse culture. Dobbiamo, se possibile, eliminare l´idea preconcetta dell´estraneo, dello straniero, come potenziale nemico anziché possibile ospite. Noi guardiamo lo straniero con una sorta di strabismo: proprio quando il globalismo spinge verso l´universalismo, nasce un impulso parallelo all´isolamento. Siamo in grado di trovare, oggi, su scala internazionale, forme di "universalismo" ospitale, aperto e non-fondazionalista, pluralistico e costantemente in evoluzione, capace di accogliere culture diverse, rendendone compatibili le differenze senza ghettizzarle?
Una cosa è certa: abbiamo bisogno di promuovere e sviluppare modalità di pensiero in grado di tenere insieme la fune dell´umanità, che tanto più si rinforza quanto più intesse fra loro i fili delle storie particolari. Oggi le idee di "civiltà", "umanità" e "umanesimo" sono viste con sospetto, accusate come sono di confondere irrimediabilmente l´essenza dell´umanità con quella di una sua forma storica particolare, la giudeo-cristiana. E l´accusa è che il vero universalismo è stato sostituito da un universalismo imposto con secoli di violenza e sfruttamento. La sfida è dura e richiede coraggio su due fronti: da un lato, nella determinazione a considerare le critiche mosse dalle altre culture, ascoltando le loro voci; dall´altro, nella volontà di scrutare il lato in ombra dell´universalismo europeo e occidentale, chiedendoci se e dove sia in errore.
(traduzione dall´originale inglese di Nicoletta Salomon)

l’Unità 30.5.09
La leader comunista tedesca Fondatrice della Lega spartachista fu assassinata nel 1919
La sua tomba Ogni anno è meta di pellegrinaggio. La fondazione: si faccia luce
Giallo sui resti di Rosa Luxemburg
«Trovati in un ospedale di Berlino»
di Gherardo Ugolini


È un giallo quello che si è aperto ieri a Berlino sui resti di Rosa Luxemburg, la rivoluzionaria tedesca, leader del movimento spartachista, assassinata il 15 gennaio del ’19 insieme a Karl Liebknecht.

La storia racconta che nel 1919 gli assassini, sicari dei Freikorps, formazioni semi-fasciste dalle cui fila sarebbero successivamente usciti numerosi leader nazisti, riuscirono a farla franca grazie alle alte protezioni politiche di cui godevano, mentre il corpo di Rosa Luxemburg, cui non erano state risparmiate crudeli sevizie, fu gettato in un canale di Berlino per essere ripescato qualche mese dopo e venir sepolto nel cimitero berlinese di Friedrichsfelde. Fino a ieri nessuno aveva mai avanzato dubbi sull’autenticità dei resti della Luxemburg e anzi il cimitero in cui riposa è divenuto nel corso del tempo meta di pellegrinaggio politico. Ogni anno la seconda domenica di gennaio la sinistra berlinese organizza un rituale di massa nel corso del quale migliaia di militanti sfilano davanti alla tomba di Rosa porgendole un garofano rosso in segno di omaggio. Ma è veramente Rosa Luxemburg quella sepolta lì?
Le rivelazioni
Secondo le rivelazioni del settimanale Der Spiegel il cadavere ripescato settant’anni fa non è affatto quello autentico della pasionaria marxista, teorica del socialismo libertario, i cui resti giacerebbero invece insepolti in un obitorio della capitale tedesca.
Ad annunciare la sensazionale scoperta è stato Michael Toskos, direttore del reparto di medicina legale dell’ospedale Charité, il quale ha identificato i resti della «vera» Luxemburg con quelli di una donna annegata molto tempo fa, conservati in una sala dell’obitorio della sua clinica. Si tratta di un cadavere privo di mani, testa e piedi, ma che tuttavia presenterebbe «analogie sbalorditive con Rosa Luxemburg», ha dichiarato Tsokos al settimanale di Amburgo.
Dalle analisi condotte si è potuto appurare che la donna annegata aveva un’età compresa tra i 40 ed i 50 anni, presentava una malformazione al femore ed aveva gambe di lunghezza diversa. Dati che si adattano perfettamente alla fondatrice del partito comunista tedesco, la quale era sulla soglia dei cinquant’anni quando venne assassinata, soffriva di una lussazione congenita del femore ed era leggermente claudicante. Viceversa – sempre secondo Tsokos – dall’autopsia che fu eseguita nel 1919 sul corpo identificato con Rosa Luxemburg non risultava nessuna lussazione e nessuna differenza di lunghezza tra le due gambe.
Per avere una conferma definitiva della tesi di Toskos bisognerà aspettare la prova del DNA, sempre che sia possibile realizzare un siffatto riscontro. Nel frattempo non tutti in Germania sembrano condividere la novità. Klaus Gietinger, per esempio, autore di numerose pubblicazioni su Rosa Luxemburg e sul suo omicidio, nutre molti dubbi e in un’intervista alla Süddeutsche Zeitung fa notare che all’epoca «il corpo di Rosa fu identificato dalla sua segretaria in base ai vestiti che indossava, mentre i medici legali riscontrarono tracce delle ferite subite e soprattutto del colpo di pistola sparato alla testa».
Appello a Merkel
Chi non l’ha presa per niente bene è la Fondazione Rosa Luxemburg, collegata al partito della Linke. In un comunicato i responsabili si dicono «sconvolti per la scoperta che il 13 giugno 1919 sarebbe stata sepolta una sconosciuta al posto di Rosa Luxemburg» e chiedono al governo tedesco guidato da Angela Merkel, «nella sua qualità di successore dei governi del Reich tedesco», di «fare il possibile per identificare i resti del cadavere di donna rinvenuto alla Charité e darle finalmente l’estrema sepoltura».

l’Unità 30.5.09
La morale e lo zampino di Darwin
di Sergio Bartolomei, Comitato di Bioetica


Una delle strategie più comunemente utilizzate dai “ridimensionatori” di Darwin è di lamentare il carattere rudimentale o incompleto della teoria evoluzionistica quando applicata a sfere non strettamente biologiche del comportamento. Ben altre sarebbero le chiavi per risolvere l’enigma dell’“animo umano” quando questo si trovi impegnato, per esempio, ad affrontare questioni e dilemmi morali. A questo esercizio di benaltrismo è dedicato anche l’articolo di Francesco D’Agostino su Avvenire del 28 maggio che si conclude con una concessione e una negazione: «Darwin è un nome nella storia della scienza, un nome grandissimo, ma nulla di più». In cosa consiste il “di più” che Darwin, pur “grandissimo”, non potrebbe mai attingere? Secondo l’autore, «Darwin non ci dice cosa è l’etica umana». A dir la verità nell’articolo si riconosce almeno in parte quella che è stata l’impresa principale e originalissima di Darwin in questo ambito.
Detta in estrema sintesi, Darwin ritiene che la morale non sia né il dono speciale di una entità trascendente, né il prodotto disincarnato della razionalità umana. Nasce dalla evoluzione degli istinti di cooperazione e simpatia presenti nella natura biologica sia dell’uomo che degli altri animali. Rispetto a questi ultimi il senso morale umano non costituirebbe cioè una frattura o un salto, ma solo una differenza di grado. Non solo. Avremmo tutto da guadagnare, anche dal punto di vista morale, se riducessimo la spocchia che sempre ci ha accompagnati nel raffigurarci come specie a se stante, frutto di una creazione speciale, e cominciassimo invece a immaginarci più realisticamente come “creati dagli animali”.
Vero è che Darwin di mestiere non faceva il filosofo morale né il moralista. Era un “naturalista” che aveva investigato sulle origini del senso morale esclusivamente dal punto di vista della “storia naturale” di homo sapiens, concludendo che siamo “morali” non perché innaturali, ma perché animali. Il risultato almeno indiretto è stato di aver infranto l’alone di sacralità e mistero che avvolge parole come “moralità”, “obbligo”, “dovere”, quasi fossero entità sui generis di chissà quale sovramondo. Contrariamente a chi concepiva (e concepisce) l’etica come una collezione di norme date da sempre e indipendenti dalla volontà, Darwin ha messo in luce che l’etica è un’impresa laica e mondana, fragile e precaria come tutte le cose terrene, affidata alla nostra responsabilità di animali cooperativi. Da questo punto di vista non sembra più sostenibile affermare che la spiegazione darwiniana della morale lasci inalterate spiegazioni alternative, come quelle religiose, che la fanno derivare da leggi e comandi divini. Può sembrare nulla, ma per chi ragioni come se Dio non fosse è davvero molto.
* membro del consiglio direttivo della Consulta di Bioetica

l’Unità 30.5.09
Littel, il narcisismo fascista
Gli incubi e la violenza del pupillo di Hitler Léon Degrelle nel saggio psicostorico dell’autore de «Le Benevole»
di Bruno Gravagnuolo


Chi è. L’esordio fulminante con «Le benevole»
Jonathan Littell, nato in una famiglia di origine ebraica, emigrata dalla Polonia negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento, è figlio dello scrittore Robert Littell. Con «Le benevole», il suo romanzo d’esordio (ancora unico romanzo pubblicato), è stato una delle rivelazioni letterarie degli ultimi anni. Pubblicato in Italia da Einaudi nel 2007, racconta la Seconda Guerra Mondiale attraverso le memorie immaginarie di un ufficiale SS a cui ha dato il nome di Maximilien Aue. L'opera ha ottenuto due importanti riconoscimenti letterari: il Grand Prix du Roman de l'Académie Française e il Prix Goncourt ed ha sollevato numerose polemiche.
E se provassimo a comprendere fascismo e nazismo come «stato della mente»? Come «situazione-limite» e «stato corporeo», volti a una distruttività che rigenera menti disgregate? Forse sarebbe un approccio insondabile, esposto all’arbitrio e «psicostorico». E però vale la pena di tentare. Visto che psiche collettiva e rappresentazioni ossessive appaiono così decisive e invadenti nei fascismi. E nei totalitarismi in generale (marx-leninisti inclusi). E visto che gli abissi di orrore novecenteschi - inconcepibile Shoà in primis - ancora non si lasciano decifrare compiutamente. Ci prova Jonathan Littell, con Il secco e l’umido. Una breve incursione in territorio fascista (Einaudi, tr. di Margherita Botto, pp.118, Euro 18). Scritto in simultanea a un altro libro che gli ha fruttato il Goncourt in Francia: Le Benevole, diario confessione dell’ufficiale nazista Max Aue, intriso di massacri, sesso gay e funzioni corporali (tra Celine e Pasolini, subissato di critiche negli Usa). Stavolta, con Il secco e l’umido, si tratta di un saggio di esegesi. Svolta su un’esperienza vera: quella narrata nel diario su La campagna di russia di Léon Degrelle, il capo delle Ss valloni belghe. Fondatore negli anni trenta del movimento cattolico ultràs «rexista». Che arrivò nel 1936 a mandare più di una ventina di deputati al Parlamento di Bruxelles. E tentò di diventare il Quisling di un governatorato franco-borgognone, inclusivo del belgio francofono e all’ombra di un’Europa nazificata. Un uomo al quale Hitler disse: «Se avessi avuto un figlio avrei voluto che fosse come lei».
L’INFEZIONE DEL NEMICO
Il fulcro del saggio? Sono le ossessioni ricorrenti di Degrelle, volontario Ss in Ucraina e protagonista di decine e decine di corpo a corpo con i rossi, nonché artefice di massacri velati nel diario. Eccole quelle ossessioni: «secco e umido», «solido e molle», «liquido e denso», «verticale e orizzontale». «disgregato e organizzato». E poi ancora, «puro e impuro», «orientale e occidentale», «compatto e dissolto», «spirito e materia». Su tutto - nel caos omicida che accompagna azione territoriale delle Ss e putrefazione dei corpi dei nemici - una contrapposizione di fondo, che ripete alla lettera alcune delle ossessioni di Adolph Hitler nel Mein Kampf: la «palude di sangue bolscevica» e il «contro-annientamento europeo». Il chiarore verticale occidentale, contro l’Asia ebraica e comunista (paludosa, patogena, informe).
Qual è la chiave esplicativa del narratore saggista Littell, figlio dello storico Usa Jonathan Littell e cresciuto tra Francia e Catalogna? Eccola: «il fascista come bambino mai nato». Mai staccato dalla madre e narcisisticamente proteso all’autoconservazione fusionale. Personalità altresì corazzata da un «carattere caserma» autoritario, che sposta con violenza sull’Altro il terrore vissuto dell’annientamento fusionale. Per sfuggire al vuoto del «non-essere». Insomma, una sindrome autoritaria che espelle la minaccia interna di annullamento su un terzo, e la organizza nel gesto corporeo violento. Gesto gregariamente condiviso con i commilitoni, e nelle parade che sceneggiano entusiasmo e bellicismo. E rigenerazione corporea collettiva che scaccia il male e lo cura, annientando l’insidia della diversità «infettiva» (ebraica o femminile). Dietro l’analisi «post-freudiana» di Littell però, c’è esplicitamente un altro studioso: Klaus Thewelait (scrive in post-fazione). Che usò la stessa chiave per decifrare gli incubi dei «maschi-soldati» dei Freikorps tedeschi del 1917, quelli che uccisero Rosa Luxemburg. Il fascismo dunque come incrocio tra Autorità sadica e orrore del vuoto, in personalità frammentate. Resta però l’enigma: come fu che dalle viscere della storia venne fuori una tale psicopatia di massa, con tanti bravi padri e madri a fare da «volenterosi carnefici»?

Corriere della Sera 30.5.09
Colloquio con il Nobel sul nuovo fronte della genetica
«Spengo i geni dei topi per scoprire i segreti dell’uomo»
Smithies: così troviamo l’origine dei mali
di Giuseppe Remuzzi


Prima di parlare vuole sapere di Il­debrando Pizzetti, quello dell'«Assas­sinio nella Cattedrale», l'opera della sera prima alla Scala. Vuole essere si­curo di saper pronunciare bene il no­me. Glielo scrivo su un foglietto. E Oliver Smithies comincia la sua lezio­ne a Milano, al congresso mondiale di nefrologia, col parlare dell'Opera. «Anch'io come l'Arcivescovo di Can­terbury ho passato la vita a difendere le mie idee. Me l'ha insegnato mia madre». Aveva undici anni quando decise che da grande avrebbe fatto l'inventore, e Oliver Smithies inven­tore lo fu davvero, fino al Nobel per la medicina nel 2007. Prima di lui dei rapporti fra geni e malattie si sapeva pochino. Perché in due gemelle iden­tiche la stessa mutazione, cioè un ge­ne un po' diverso dal normale, porta a due manifestazioni di malattie mol­to diverse, un danno al rene e la ceci­tà ad un occhio? E perché con una mutazione un altro bambino ha una malattia meno grave?
Capire le funzioni
Senza gli studi di Oliver Smithies, Mario Capecchi e Martin Evans a queste domande non avremmo mai saputo rispondere. I tre scienziati hanno trovato il modo, nel topo di laboratorio, di togliere di mezzo questo o quel gene, che serviva per capirne la funzione. «Se togliendo un certo gene gli animali hanno debolezza ai muscoli quello potrebbe essere il gene della distrofia muscolare. Se ne si spegne un altro e gli animali perdono la memoria, quello è uno dei geni che aiutano a ricordare» continua Oliver Smithies.
Ma come si fa a spegnere un gene? Immaginiamo un libro con migliaia di pagine e che abbia migliaia di parole per ciascuna pagina. Il libro sta in una libreria con 3000 di questi li­bri. Libri, parole e lettere insieme fan­no l'informazione genetica degli uo­mini. Con un sistema che gli scienzia­ti chiamano «gene targeting» si può per esempio togliere la cinquantase­iesima parola di pagina 700 del volu­me 1250 e vedere cosa succede. Op­pure se la sessantasettesima parola di pagina 30 del volume 600 è sba­gliata la si può sostituire con quella giusta. «Per arrivarci bisognava pri­ma riuscire a spegnere proprio il ge­ne che volevamo spegnere e solo quello. E non era facile, il topo di ge­ni ne ha 25.000. Abbiamo sfruttato la capacità dei geni di fare ricombina­zione omologa». Cosa vuol dire? Smi­thies e Capecchi hanno introdotto nel nucleo di una cellula il pezzetti­no di Dna di interesse fiancheggiato da tratti di sequenze uguali a quelle del gene che volevano spegnere o so­stituire. Queste sequenze erano in grado di trovarne altre, identiche, e ricombinarsi.
«Il secondo problema era arrivare ad un topo che avesse le stesse carat­teristiche della cellula che eravamo riusciti a modificare. C'era un modo solo per farlo, ripetere gli stessi espe­rimenti con le cellule embrionali, ma bisognava imparare a coltivarle». Ci è arrivato Martin Evans. A quel pun­to lì Smithies, Capecchi e Evans pre­sero a cercare fondi ma queste ricer­che non le voleva finanziare nessu­no, né di qua né di là dall'oceano. «Pensare di togliere da una cellula embrionale proprio il gene che si vor­rebbe togliere, o metterci un pezzetti­no di Dna normale con l'idea che pos­sa sostituire quello malato, è velleita­rio. Fu questo più o meno il commen­to di chi ha giudicato le nostre propo­ste ».
Diecimila animali
Smithies e gli altri però non si la­sciarono scoraggiare e i primi risulta­ti arrivarono molto presto. «Il primo gene che abbiamo provato a spegne­re fu quello che codifica per un cana­le del cloro così abbiamo ottenuto to­pi con le stesse alterazioni degli am­malati di fibrosi cistica. Quei topi lì sono serviti a capire la malattia dell' uomo, senza sarebbe stato impossibi­le pensare a una cura. Poi abbiamo spento il gene dell'apolipoproteina E, ne sono venuti topolini con l'atero­sclerosi ». Oggi ce ne sono almeno 10.000 di animali in cui è stato spento o modi­ficato un determinato gene e che giorno dopo giorno ci aiutano a capi­re di più dei rapporti fra geni e malat­tie. Oliver Smithies si è occupato an­che di ipertensione, e aveva una ra­gione speciale per farlo. «Mio padre morì giovane - dice ancora il geneti­sta inglese - , forse di infarto. Aveva la pressione alta. Ho sempre pensato che se ci fossero stati buoni farmaci non sarebbe morto. Poi un giorno, non ricordo di preciso quando, mi sono accorto che anch'io avevo la pressione alta. Ho provato con la re­serpina ma mi veniva la depressio­ne. Così ho smesso coi farmaci e ho ripreso a lavorare con i topi. Volevo capire perché aumenta la pressione con l'idea che solo così si sarebbero potuti trovare i farmaci giusti. Spe­gnevo i geni che potevano essere im­plicati uno dopo l'altro finché non ho trovato quelli giusti. Oggi per chi ha la pressione alta ci sono buone cu­re, grazie anche ai nostri topi».
Le buone cure
Se non abbiamo ancora buone cu­re per la maggior parte dei tumori è perché gli scienziati non sono anco­ra riusciti a fare con i geni dei tumori quello che Oliver Smithies ha fatto con i geni della pressione. Per i tumo­ri il discorso è più complicato per­ché sono centinaia, forse migliaia di malattie diverse. Ma prima o poi ci si arriverà.

l’Unità 30.5.09
La ninfea e l’informe
Le opere di Monet in mostra a Milano e i suoi lontani concorrenti
giapponesi: Hokusai e Hiroshige
di Renato Barilli


Una mostra al Palazzo Reale di Milano riprende utilmente il tema delle ninfee, cavallo di battaglia negli ultimi decenni della lunga esistenza del padre dell’Impressionismo, Claude Monet (1840-1926). A dire il vero, non si sarebbe sentito un particolare bisogno di frugare nella produzione che il grande artista ricavava dal bacino fatto costruire apposta nella sua tenuta di Giverny, tante altre mostre vi si erano già soffermate, ma a rendere utile questa ennesima tappa sta il confronto espressamente tematizzato con i lontani concorrenti giapponesi, qui evocati nelle persone dei grandi illustratori del Sol Levante Hokusai e Hiroshige, attivi circa un secolo prima di Monet. Si aggiunga che a Roma, Museo del Corso, sarà aperta fino al 13 settembre un’amplissima mostra dedicata al secondo dei due, e dunque ci sono tutti i termini per impostare il confronto. A livello di contenuti esso è più che legittimo, basti ricordare che Monet aveva voluto ricreare nella sua tenuta un Ponte Giapponese, e le ninfee, gli iris, le varie piante acquatiche in cui tuffava avidamente il suo sguardo corrispondono in pieno ai motivi floreali coltivati dagli artisti dell’Estremo Oriente. Ma questa è anche l’occasione di dire risolutamente che le vie stilistiche erano assai diverse, per non dire opposte. Monet è l’ultimo cultore delle soluzioni adottate dall’Occidente con i due grandi apripista, Leon Battista Alberti, e soprattutto Leonardo, colui che scopre la presenza dell’atmosfera, la cui massa corrode i corpi man mano che si allontanano da noi e li affonda nell’indistinzione dello sfumato. A quel modo l’Occidente sceglieva una via di grande rigore scientifico, offriva una mappa veritiera a tutte le future incursioni e invasioni del pianeta.
LA «SCIENZA» NELLE OPERE
I Cinesi, allora già sviluppatissimi, adottavano invece soluzioni opposte, distillavano da piante e fiori dei profili sciolti, affidati a un linearismo fluente. I loro reticoli grafici si accampavano sulla piattezza delle superfici, traendo dalle cose degli schemi di estrema eleganza, colmi di valenze decorative, ma ben poco utili per chi avesse voluto davvero affrontare altri paesi nelle loro condizioni atmosferiche reali. E i giapponesi Hokusai e Hiroshige, tra Sette e Ottocento, furono eredi di quelle maniere limpide, dilettose, schematiche. Invece nella visione di Monet le ninfee si intridono in una massa indistinta, vischiosa, quasi impenetrabile. Insomma i dati reali, di massa, di consistenza, di illuminazione cangiante predominano sulla pretesa di astrarre, da quegli ammassi, qualche profilo ben ordinato, e di disporlo con bella grazia sul piano.Ma sul finire dell’Ottocento era in vista la grande rivoluzione scientifica e tecnologica impostata sull’elettromagnetismo, che ci avrebbe insegnato a cogliere dal reale sagome essenziali, dando ragione alla soluzione estremo-orientale, e obbligando i nostri artisti ad andare a Canossa, a convertirsi alle maniere agili e stilizzate del Sol Levante.
Monet. Il tempo delle ninfee a cura di Claudia Beltramo Ceppi
Milano Palazzo Reale Fino al 27 settembre catalogo: Giunti

L’espresso 29.5.09
Marco Bellocchio: «L'Italia di oggi conformista come quella fascista»
intervista di Elisa Grando


Il suo film "Vincere", che ha diviso l'ultimo Festival di Cannes, racconta la storia tragica della donna che diede un figlio al Duce

PORDENONE Al Festival di Cannes, Marco Bellocchio ha spaccato in due la critica: il suo film "Vincere", la storia drammatica di Ida Dalser che diede un figlio a Benito Mussolini ma poi, considerata una minaccia per l'irreprensibile quadretto famigliare del Duce con la moglie Rachele, fu confinata dal regime in manicomio, ha entusiasmato la stampa straniera e lasciato più perplessa quella italiana. "Vincere", intanto, è quarto al box office e Bellocchio è pronto a testare la reazione del pubblico: questa sera presenterà personalmente il film a Cinemazero di Pordenone, prima della proiezione delle 21.15.
Ieri sono arrivate anche sei candidature ai Nastri d'Argento, tra le quali quella alla miglior regia, a Giovanna Mezzogiorno come miglior attrice, a Filippo Timi come miglior attore e a Francesca Calvelli, compagna di Bellocchio nella vita, per il montaggio. Tutte le candidature sono meritate: "Vincere" è un melodramma coinvolgente che intreccia, con inventiva stilistica, l'amore caparbio e assoluto di Ida per il Duce con l'ascesa del fascismo. E riunisce alcuni dei temi ricorrenti nella filmografia del regista, da "I pugni in tasca" a "L'ora di religione", da "La balia" a "Il regista di matrimoni": l'intreccio fra storia e dimensione privata, la ribellione (anche qui declinata al femminile, come in "Il diavolo in corpo" e "Buongiorno, notte"), il sopravvento dell'inconscio, la presenza inestirpabile della Chiesa. Bellocchio è un baluardo del cinema italiano laico, "engagé" e autoriale, non ha mai abbassato la guardia sulla ricerca estetica ma gran parte della credibilità del film, in questo caso, gravava sugli attori, Giovanna Mezzogiorno e Filippo Timi.
Ridare un volto a Benito Mussolini e a Ida Dalser non era compito facile: come ha scelto i protagonisti?
«La scelta di Timi è stata più facile perché ha un'aderenza fisica con Mussolini che gli permetteva di rappresentarlo giovane e potente, ma anche il talento per incarnare l'opposto, la fragilità del figlio Benito Albino. Giovanna Mezzogiorno ha un viso terribilmente giusto per il personaggio e in più una grande capacità di reazione fisica, un temperamento tenace, duro, nordico come Ida».
Come si è documentato sulla vicenda di Ida Dalser?
«Le fonti sono il bel libro ricco di notizie "La moglie di Mussolini" di Marco Zeni (ed. Effe e Erre, ndr.), quello più giornalistico di Alfredo Pieroni ("Il figlio segreto del Duce: la storia di Benito Albino Mussolini e di sua madre Ida Dalser", ed. Garzanti, ndr.) e il documentario "Il segreto di Mussolini" di Fabrizio Laurenti e Gianfranco Norelli. Poi ho fatto alcuni giri in Trentino nella zona di Ida, ho trovato le sue cartelle cliniche nell'ospedale di Pergine e ho parlato con la gente di Sopramonte, il suo paese».
In una sequenza Ida, riportata in manicomio dalla folla che protesta, dice alla sua gente: "Non dimenticateci". La sua speranza si è avverata?
«Sì. A Sopramonte il ricordo di questa donna, di questa eroina, è ancora molto vivo. Tant'è vero che l'episodio del film in cui Ida mostra una pistola al figlio e gli dice "Qui c'è un colpo solo, è per il cuore di tuo padre" è stato raccontato a un mio collaboratore da una signora anziana. Attorno a Ida e contro il fascismo c'era una sorta di difesa da parte dei compaesani forse anche perché, fino a pochi anni prima, quello era territorio austriaco».
Che ruolo ha la presenza della Chiesa nel film?
«Non c'è un attacco particolare nei confronti della Chiesa, ma si stigmatizzano due cose. La prima è che Mussolini, laico e mangiapreti, per arrivare al potere assoluto ha avuto bisogno di fare un accordo con la Chiesa. L'altra è un certo tipo di ideologia cattolica, in qualche modo presente anche oggi anche se espressa con parole diverse, che sottolinea la rassegnazione e la carità, sostiene che la vita è un passaggio, che la parte migliore viene dopo. Sono cose che non condivido per niente ma, in quel contesto, erano messaggi che servivano a confortare dalla tragedia dell'isolamento manicomiale. In tempi di disperazione questa mentalità è benemerita, ma non è sufficiente. E non manda avanti il mondo».
Come in "Buongiorno, notte", anche in "Vincere" ha inserito immagini di repertorio che rinforzano l'impronta storica del film...
«Ho pensato subito che la storia potesse essere rappresentata attraverso immagini reali. Mi servivano anche come strumento di sintesi, perché il film in due ore racconta trent'anni. Avevo la possibilità di mostrarle utilizzando una serie di situazioni in cui i personaggi sono al cinematografo che, in quell'epoca, era popolare come la televisione oggi».
Nel film usa didascalie, sovraimpressioni, grafica: lei stesso l'ha definito un "melodramma futurista".
«Ho creato un linguaggio, divenuto definitivo durante il montaggio, che utilizza anche connessioni irrazionali ma non dissociate, come l'idea di condensare in pochissimi secondi l'attentato di Sarajevo, i funerali degli arciduchi, Mussolini nudo che s'immagina già di essere al balcone di Palazzo Venezia. Tutto, anche l'uso della didascalia in chiave di "futurismo rivoluzionario" un po' come le didascalie aggressive di Ejzenstejn, vuol essere espressivo, non esplicativo. Abbiamo cercato in modo abbastanza empirico di esaltare i momenti importanti, anche con apporti grafici».
Guardando "Vincere" nei giorni caldi della bufera mediatica che ha investito il premier Berlusconi è inevitabile pensare a quanto, oggi come allora, le vicende private entrino in politica...
«Quando ho pensato di fare questo film non ho affatto considerato di proporre una relazione col presente, o di attaccare Silvio Berlusconi. Nel confronto con la realtà attuale, però, viene fuori qualcosa di più riferito non tanto alla persona singola di Berlusconi, ma ad un clima generale di disperazione, insensibilità, cinismo. Mi sembra che la gente si sia arresa: il consenso verso Berlusconi non è mai entusiastico, è come se non ci fosse niente di meglio».
Suona come una critica alla sinistra...
«Lo è: l'opposizione non sa proporre ai suoi "naturali" elettori, come gli operai e i precari, una risposta più convincente della demagogia populista del premier. Se la maggior parte degli operai vota per Berlusconi vuol dire che c'è qualcosa che la sinistra non riesce a comunicare, che non si riescono ad opporre delle idee convincenti. In questo senso c'è un clima simile all'epoca raccontata dal film: nel fascismo c'era un forte conformismo, lo stesso che si respira qui oggi anche se non siamo in una dittatura ma in una "democrazia autoritaria", per usare le parole di Eugenio Scalfari».
Nel 2006 si è candidato alle elezioni con La Rosa nel Pugno. Ha mai pensato di tornare in politica?
«Assolutamente no. Quella era una candidatura simbolica: La Rosa nel Pugno, un partito laico che univa socialisti e radicali e propugnava idee che condividevo, era fragilissimo e così ho dato la mia adesione anche formale. Ma per me stare in Parlamento, o anche solo in un consiglio comunale, sarebbe come suicidarmi. Ho bisogno di una libertà assoluta, di alzarmi, di muovermi. E lo dico con rispetto di chi passa la propria vita sugli scranni».