martedì 2 giugno 2009

l'Unità 2.6.09
The Times: «La qualità di un governo non è un fatto privato. Risponda alle accuse»
Financial Times: «Le rivelazioni piccanti nascondono gli addebiti più seri», il processo Mills
Cade «la maschera del clown»
La stampa estera non perdona
di Umberto De Giovannangeli


«Cade la maschera del clown». «Berlusconi, lo scandalo alle calcagna». «L’odore di scandalo distoglie l’attenzione da accuse più serie». Times, FT, Liberation... Così il Cavaliere perde la faccia. E l’Italia credibilità.

Il Papi-premier messo alla berlina dalla stampa internazionale. Titoli da far arrossire dalla vergogna. Editoriali che argomentano un discredito che nessun altro leader europeo avrebbe potuto sostenere come se niente fosse... «Berlusconi deve rispondere alle accuse di essere un donnaiolo e a quelle su comportamenti inappropriati. La qualità di governo non è un fatto privato». Così The Times sul premier italiano, in un lungo editoriale il cui titolo è tutto un programma: «Cade la maschera del clown».
TIMES SPIETATO
«L’aspetto più di cattivo gusto del comportamento di Slivio Berlusconi - scrive il quotidiano londinese - non è che egli sia un buffone sciovinista. Né che egli si accompagni con donne che hanno 50 anni meno di lui, abusando della sua posizione per offrire loro lavori come modelle, assistenti personali o persino assurdamente, candidate per l’Europarlamento, La cosa più scioccante è l’assoluto disprezzo con cui tratta gli italiani». Un j’accuse pesantissimo. Argomentato. «L’anziano libertino - scrive ancora The Times - può trovare divertente, o anche temerario, fare la parte del playboy, vantandosi delle sue conquiste, umiliando sua moglie, o facendo commenti che per molte donne sono inappropriati in maniera grottesca. Non è il primo o il solo il cui comportamento privo di dignità sia inappropriato per la sua carica. Ma quando vengono poste domande legittime su rapporti che toccano lo scandalo e i quotidiani lo invitano a spiegare delle associazioni che, nella migliore delle ipotesi, lasciano perplessi, la maschera del clown cade. Minaccia quei quotidiani, e televisioni che egli controlla, invoca la legge affinché protegga la sua privacy, rilascia dichiarazioni elusive e contraddittorie e poi promette melodrammaticamente di dimettersi se verrà scoperto a mentire...».
FT ALL’ATTACCO
«L’odore di scandalo distoglie l’attenzione da accuse più serie». È il nuovo affondo del Financial Times contro il Cavaliere, definito nei giorni scorsi «un esempio deleterio per tutti». «Lo stillicidio di rivelazioni piccanti che riguardano Silvio Berlusconi e la sua relazione con giovani belle ragazze ha ravvivato una campagna elettorale altrimenti di routine, con la coalizione di centrodestra del premier italiano che fa la sua parte per continuare a far ardere il fuoco dello scandalo», scrive il quotidiano britannico. Che sottolinea come la stampa vicina a Berlusconi, concentrandosi sugli ultimi gossip, «abbia utilmente messo in secondo piano le brutte notizie sul secondo anno di recessione economica e sul fallito tentativo di Fiat di acquisire Opel». Non solo. Dopo aver ricordato che la settimana scorsa, mentre la casa automobilistica torinese «combatteva per stringere l’offerta per il braccio europeo di Gm, il governo Berlusconi era impegnato a ottenere un divieto del tribunale e il sequestro di alcune centinaia di foto» sulle feste in Sardegna, il FT osserva come lo scandalo «abbia anche messo in un angolo le accuse potenzialmente più dannose di corruzione mosse dai giudici di Milano».
LIBERATION INCALZA
«Berlusconi, lo scandalo alle calcagna», è il titolo che campeggia sull’intera prima pagina del quotidiano parigino della gauche, Liberation. «Per soffocare il caso Noemi - scrive Libè in prima - il presidente del Consiglio italiano ha fatto vietare la pubblicazione di foto degli inviati nella sua villa in Sardegna, fra le quali quelle della sua giovane amica, allora minorenne». «Il cavaliere ostenta la sua vita privata ed espone la sua famiglia... ha fatto della comunicazione la sua politica. Proclama la sua morale cristiana a fini politici», rileva nel suo editoriale Francois Sergent, uno dei tre vicedirettori di Liberation. Berlusconi, conclude Sergent, «mantiene la confusione fra la sua pratica politica e la sua vita privata e di uomo d’affari. Per la prima volta, gli italiani sembrano misurare i pericoli di questa pericolosa miscela».

l'Unità 2.6.09
Libertà vigilata. Sotto i tacchi di Berlusconi
Camere espropriate, Enti commissariati, Grandi Opere decretazione d’urgenza e stati d’emergenza: il premier liquida le istituzioni attraverso un contro-potere demagogico
e «militare». Ma combina molto meno di un efficiente governo democratico
di Vittorio Emiliani


Silvio Berlusconi non ha nemmeno bisogno di riformare in senso presidenzialista e decisionista le norme e le regole esistenti. La maggioranza vasta e, per ora, supina di cui dispone gli consente sin da ora una strategia di rapida devitalizzazione della democrazia. Il Parlamento è, nei fatti, annichilito e come commissariato attraverso l’uso a getto continuo dei decreti-legge (accoppiati ai voti di fiducia). L’articolo 77 della Costituzione li consente soltanto per i «casi straordinari di necessità e d’urgenza». Se ne sono presentati in questa legislatura? Sì, quelli proposti dalla crisi economica planetaria e però su di essi Berlusconi ha preferito stare a guardare sperando di salvarsi così. Ha usato la decretazione d’urgenza per misure ordinarie espropriando le Camere.
All’attuale premier poco importa di ciò che preesisteva al suo dominio. Quindi ci cammina sopra. Non ha tempo da perdere, lui. Deve governare, lui. Così le garanzie formali e sostanziali, poste a difesa dell’interesse dei cittadini vengono tranciate di netto, col pretesto di «semplificare», di eliminare passaggi burocratici. Questi, in realtà, spesso sono contrappesi e controlli messi lì al fine di evitare scorciatoie pericolose per la democrazia.
Berlusconi diffida profondamente del Parlamento e delle sue funzioni di controllo dell’esecutivo. Ma diffida degli stessi ministri e Ministeri. Difatti, appena può, nomina commissari e supercommissari, come fece, con risultati pratici assai mediocri, nel periodo 2002-2006. Di un supercommissario si fida in particolare: del sottosegretario alla Protezione civile, Guido Bertolaso, che, come lui, coltiva un’idea sbrigativa, monocratica e «militare», del potere.
Per il post-terremoto abruzzese ci ha messo direttamente la faccia straparlando di tempi brevissimi e insieme di «new town» (salvo poi smentire sé stesso), di passaggio diretto dalle tende alle case in pochissimi mesi. Un cumulo di demagogiche sciocchezze che hanno rallentato l’approntamento di misure concrete e ben mirate. Presuntuoso e pasticcione.
Ha, di fatto, «commissariato», grazie alla remissività di Bondi (e non solo), i Beni culturali, le Soprintendenze. Ha tentato lo stesso giochino con gli enti locali, ma gli è andata male. Però ci ha provato. Idem col Piano-casa e le Regioni. Con la Lega che sta lì a guardare. Ora si appresta a varare una raffica di commissari alle grandi opere. Così pagheremo fior di stipendi ai commissari per risolvere poco o nulla. Berlusconi non vuole nessun «mediatore» fra la sua figura di supercommissario e il popolo. Così facendo, ottiene due risultati disastrosi: umilia le istituzioni democratiche e combina molto meno di un efficiente, operante governo democratico.

Repubblica 2.6.09
Berlusconi: "Sto per scoppiare" scontro con la stampa estera
L´attacco del Times: "Cade la maschera del clown"
di Gianluca Luzi


Il premier: i giornali stranieri sono ispirati, insufflati dalla sinistra italiana
Il premier: ho chiarito tutto non c´è bisogno di andare in Parlamento

ROMA - Noemi, il divorzio, Veronica, le feste, Mills, gli aerei di Stato, le foto. Berlusconi si sfoga: «Una cosa indegna, vergognosa... Sono vicino a scoppiare». Ma «non posso mollare, perchè siamo tutti circondati da troppa gente per male: nella politica, nella magistratura e nella stampa». Certo, «i sondaggi su di me sono calati dal 75,1 al 73 per cento, ma alle europee prenderemo tra il 43 e il 45 per cento e la sconfitta della sinistra sarà terribile, usciranno con le ossa rotte». E poi, «io ho già chiarito tutto». Veline? «Non è vero». Minorenni? «Si immagini...». Mills? «Non vero». «Tutte calunnie pure e semplici che si ritorceranno contro chi le ha agitate». Quindi «la risposta che dovevo dare l´ho data. Non c´è bisogno che io vada in Parlamento». Ma le domande di Repubblica restano ancora senza risposte. All´estero se ne sono accorti e tra la stampa straniera e Berlusconi è guerra aperta. «Cade la maschera del clown», scrive il Times di Londra, proprietario Rupert Murdoch, il tycoon australiano che possiede media in tutto il mondo tra cui la tv satellitare Sky. Eppure per Berlusconi anche il giornale simbolo della stampa britannica è ispirato dalla sinistra. Ogni giorno, ormai, la stampa di tutto il mondo scrive articoli sconcertati per le notizie che arrivano dall´Italia ed estremamente critici sul presidente del consiglio. Giornali che vengono letti attentamente anche a Washington che ancora non ha diramato l´invito ufficiale per Berlusconi il quale però ha già annunciato il vertice alla Casa Bianca per il 15 giugno: «Un incontro normale, un incontro di lavoro», lo definisce senza enfasi. Un vertice lungamente sospirato a cui la diplomazia italiana sta lavorando da mesi e a cui il premier arriverà buon ultimo tra i leader del G8.
«Berlusconi deve rispondere alle accuse di essere un donnaiolo e a quelle su comportamenti inappropriati. La qualità di governo non è un fatto privato», scrive il Times a cui Berlusconi risponde mettendo in dubbio l´indipendenza di giudizio perchè «i giornali stranieri sono in collegamento diretto con i giornali della sinistra italiana: sono cose ispirate e insufflate dalla sinistra italiana». Il quotidiano di Londra è implacabile e non solo gli dà del «buffone sciovinista» che si accompagna «con donne che hanno 50 anni meno di lui, abusando della sua posizione per offrire loro lavori come modelle, assistenti personali o persino, assurdamente, candidate per l´Europarlamento». Ma aggiunge che «la cosa più scioccante è l´assoluto disprezzo con cui tratta gli italiani». Berlusconi è un «anziano libertino» che può «trovare divertente o temerario fare la parte del playboy». Ma quando vengono poste «domande legittime» come quelle di Repubblica «su rapporti che toccano lo scandaloso, la maschera del clown cade». E se non basta il Times c´è il Financial Times, che nei giorni scorsi lo ha definito «un esempio deleterio per tutti». Questa volta il quotidiano economico sostiene che «l´odore di scandalo distoglie l´attenzione da accuse più serie» come «le brutte notizie sul secondo anno di recessione economica e sul fallito tentativo di Fiat di acquisire Opel». Però tutto questo per Berlusconi è una campagna orchestrata dalla sinistra italiana, quella che ha «fatto cadere mia moglie in una trappola» e che ha assunto «Novella 2000 come carta dei valori». Con i «giornali della sinistra che hanno riempito il vuoto dei programmi della sinistra con il gossip e con una calunnia. Questa sinistra sa solo cavalcare le calunnie e violare la privacy». Ma la prima pagina sulla presunta relazione di Veronica Lario era di Libero che non è affatto un giornale di sinistra.

Repubblica 2.6.09
Demolizione di una first lady
di Natalia Aspesi


C´è una verità fantomatica, inventata lì per lì, inventata male e quindi continuamente rabberciata, rovesciata, cambiata, sempre più ridicola e offensiva: ma a quella bisogna credere, e c´è chi ci crede perché si obbliga ciecamente a credere tutto ciò che dice il capo, tutto ciò che attorno al capo viene costruito dalla sua corte per distogliere da lui ogni ombra.
Con le sue parole Veronica volava alto. I giornali del premier volano molto basso
Il capo e la sua corte sono certi che le loro menzogne costituiscano la realtà dei fatti, perché loro sanno come far tacere la realtà vera e i fatti veri: ancora ieri ha detto di aver già "chiarito tutto", ma in realtà continua a non rispondere alle domande. C´è un intero esercito di avvocati, con i loro visi aguzzi gelidi e spietati, c´è una moltitudine di dipendenti, nei giornali e nelle televisioni, c´è una folla di miracolati, carichi di spille d´oro, inviti in villa, voli su aerei di Stato, cariche politiche, prebende di ogni tipo, leggi apposite, ci sono gli amici degli amici, ci sono i corifei addestrati tutti alla stessa scuola, che nei talk show urlano sulle parole dei dissenzienti per non farle capire, c´è un possente muro per difendere il capo, per avallare le sue menzogne: e chiunque osi sottrarsi a questa nebbia nefasta, a questa palude eversiva, viene irriso, sporcato, attaccato, annientato.
Dopo che il premier si era assicurato che le foto definite innocenti dei festini nel suo luna park sardo fossero state requisite dalla magistratura (ma perché se innocenti?), non ha negato ai dipendenti del giornale di proprietà di suo fratello di pubblicare la foto di sua moglie, madre di tre dei suoi figli, accompagnata dalla sua guardia del corpo. La signora Lario e il signor Orlandi camminano a distanza di almeno due metri, il che pare anche troppo per un bodyguard il cui dovere è stare vicino all´oggetto della sua sorveglianza: e infatti ogni giorno la televisione ci fa vedere con quanto rigore e adocchiando ovunque, la folla di nervosi gorilla del capo assediano e sfiorano il suo sacro corpo per proteggerlo da ogni eventuale fastidio. Eppure nessuno ha mai osato vedere nella loro presenza appiccicosa qualcosa di erotico. Ma si sa, per le donne è un´altra cosa, magari basta una semplice vicinanza... Infatti ci ha subito pensato una signora, un´altra dipendente del capo per intemperanti benemerenze politiche, a rivelare ad un altro giornale del giro che quel cupo signore intento al suo lavoro, forse il solo che si era potuto vederle vicino, era l´amante della signora.
Si immagina il folto gruppo di pensiero intento a costruire le sue storie per mascherare le menzogne, e per concertare il nuovo attacco alla signora Lario, a chi ha osato dire per prima la verità, quell´uomo non sta bene; suo marito, ma soprattutto il capo del governo; la persona che deve occuparsi del paese e della sua crisi e spesso si distrae, anche troppo e in modo non sempre adatto, non tanto ai suoi doveri di marito, quanto a quelli di premier di un paese che ormai in Europa è guardato con molto sospetto.
Con quelle parole Veronica Lario volava alto: i giornali del premier, con le loro illazioni, volano molto basso: riducono un evento gravissimo che potrebbe essere, che è di Stato, che riguarda la pratica della menzogna e dell´uso della violenza e della sopraffazione da parte del potere, a un affare di corna e di dispetti matrimoniali. La volgarità è quelle dei reality televisivi fatti di finzione, è il non sapere usare mezzi di difesa se non nell´offesa. C´è un´Italia che crede davvero alla degradante fiction che le viene ammanita e si commuove per un povero miliardario ultrasettantenne e truccato che la moglie ha tradito lasciandolo solo, e cosa doveva fare se non invitare un po´ di belle ragazze a mangiare la pizza nel suo paradiso adatto ai gusti di Emilio Fede? Ma ce n´è anche un´altra d´Italia sempre più disorientata e costernata davanti a questi orrori, a questo labirinto di menzogne, a questo disprezzo per una donna, per le donne, per tutto il paese.

Corriere della Sera 2.6.09
Il caso dei voli di Stato. Da Mastella a Apicella
Corsi e ricorsi dei privilegi
di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella


«Tempo di rumba, tempo di te / Ballo e non ballo: ma perché?», si chiede Mariano Apicella in una canzone. Pare ora per quelle foto che lo mostrano mentre scende da un volo-blu, dei giudici potrebbero farlo «ballare» sul serio. Tanto più che in un’intervista a Claudio Sabelli Fioretti il menestrello del Cavaliere confidava già tutto: «Quando lui ha bisogno mi telefona Marinella, la segretaria: “Mariano, se non hai problemi il dottore ti vorrebbe stasera”. Io vado a Roma, poso la macchina a Ciampino e parto con lui sull’aereo presidenziale. Quasi sempre per la Sardegna, qualche volta per Milano». A spese dei cittadini.
Si dirà: che c’entra? L’aereo pubblico partirebbe lo stesso e un passeggero in più non incide di un centesimo!
È esattamente ciò che disse Clemente Ma­stella, nel settembre 2007, dopo essere stato denunciato dall’Espresso mentre saliva col fi­glio sul volo di Stato che portava Francesco Rutelli a Monza per il Gran premio di F1: «Mio figlio non lo vedo mai, che male c’è se l’ho por­tato al Gran premio? Tanto, se in aereo erava­mo 10 o 15 non cambiava niente».
Eh, no, è una questione di principio, titolò la Padania: «L’inGiustizia vola al Gran Pre­mio ». Il Giornale berlusconiano rincarò: «Non dicevano di voler tagliare i costi della politica? Forse usare l'aereo di Stato più farao­nico che ci sia per assistere al Gp di Monza non è il miglior modo di risparmiare. O no? Per dire: il Gran premio lo trasmettevano pu­re su RaiUno, il cui segnale, ci risulta, dovreb­be arrivare fino a Ceppaloni». E Alessandra Mussolini, furente: «Ho messo sul sito gli indi­rizzi e-mail di Rutelli e Mastella per consenti­re a tutti i cittadini di coprirli di “Vergogna!”» Dice oggi Palazzo Chigi che i «passaggi» of­ferti al cantautore personale del Cavaliere («Mi disse: “Vorrei avere qualcuno che mi fa un po’ rilassare nei fine settimana”») sono as­solutamente legittimi: «La disciplina dell'im­piego degli aerei di Stato è stabilità dalla Diret­tiva 25 luglio 2008, regolarmente registrata al­la Corte dei Conti, che ne detta le regole per tutte le Autorità ammesse ad usufruirne». E cosa dice questa legge, che spazzò via quella più restrittiva fatta dal governo Prodi per argi­nare un andazzo che nel 2005 aveva visto im­piegare i voli di Stato per 37 ore al giorno con una spesa di 65 milioni di euro pari al costo di 2.241 (duemiladuecentoquarantuno) biglietti andata e ritorno al giorno (al giorno!) da Mila­no a Londra con la Ryanair?
Dice quella legge (bollata allora da Libero con il titolo «Onorevoli e vip: Silvio allarga gli aerei blu» sotto l’occhiello: «Voli di Stato: la Casta mette le ali») che quelli che Luigi Einau­di chiamava «i padreterni» possono imbarca­re persone estranee «purché accreditate al se­guito della stessa, su indicazione dell'Autori­tà, anche in relazione alla natura del viaggio e al rango rivestito dalle personalità trasporta­te ». Di più: «L'imbarco di persone estranee al­la delegazione non comporta quindi alcun ag­gravio degli oneri comunque a carico dell'era­rio ». Appunto: la tesi di Mastella.
Obiezioni? Ma per carità: la legge è legge. E non ci permettiamo di dubitare che sia stata rispettata fino in fondo. Un conto è il rispetto delle regole formali, però (tanto più se queste sono state cambiate apposta) e un altro è l'op­portunità. È probabile che lo stesso Berlusco­ni avesse tutti i diritti mesi fa di prendere l’eli­cottero della protezione civile per andare a far­si un massaggio alla beauty farm di Mességué in Umbria, come documentò un filmato del TG3. L’opportunità, però è un’altra cosa. E di­spiace che anche questi episodi, gravi o secon­dari che li si consideri, confermino una certa «rilassatezza» sui costi e i privilegi della politi­ca. Come se la rovinosa sconfitta della sinistra alle elezioni dell'aprile 2008 avesse già saldato il conto tra la politica e i cittadini indignati.
Che la sinistra, incapace di capire l'insoffe­renza montante, meritasse la batosta, lo han­no ormai ammesso in tanti. Compreso Fausto Bertinotti, finito nel mirino proprio per i voli blu: «I nostri gruppi dirigenti? Sganciati e lon­tani dalla realtà dei lavoratori, autoreferenzia­li, così si è venuta formando anche a sinistra una vera e propria casta, un ceto politico inte­ressato solo alla propria sopravvivenza».
Sarebbe davvero un peccato se la destra, che in gran parte cavalcò quei sentimenti di indignazione e oggi, secondo il Pd, triplica (da 150 a oltre 400 ore medie al mese) quei voli blu che ieri bollava con parole di fuoco, pensasse che la grande ondata di insofferenza si sia allontanata per sempre. Peggio ancora se pensasse che non c'è più bisogno di una ro­busta moralizzazione del sistema. Certo, alcu­ne misure sono state prese. La Camera e il Qui­rinale, quest'anno, dovrebbero costare meno dell'anno scorso. Ma già al Senato, ad esem­pio, non sarà così. E molti episodi rivelano una sconfortante indifferenza nei confronti dei tagli e soprattutto delle riforme ancora ne­cessari.
Basti pensare alla recentissima denuncia dei «portaborse» secondo i quali i presidenti delle Camere, dopo avere «annunciato solen­nemente un giro di vite radicale contro lo scandalo dei collaboratori parlamentari assun­ti in nero», hanno riciclato «parola per paro­la, i contenuti di una missiva analoga spedita il 28 marzo 2007» e da loro stessi giudicati «inadeguati». O all’assenteismo dei nostri eu­ro- parlamentari, 10 dei quali sono tra gli ulti­mi 20 nella classifica. O alla decisione di vara­re l'area metropolitana di Reggio Calabria no­nostante sia per abitanti al 44º posto tra gli agglomerati urbani perfino dietro Aversa, Va­rese, Chiari, Vigevano… O ancora alla timidez­za nel prendere di petto temi politicamente spinosi come la gestione di carrozzoni quali la Tirrenia o l’Amia, la società che dovrebbe occuparsi dei rifiuti da cui è sommersa a Paler­mo e i cui capi (tra i quali il presidente, pro­mosso a senatore) andavano negli Emirati Ara­bi a «vendere» la raccolta differenziata «alla palermitana» spendendo anche 500 euro a pa­sto.

Corriere della Sera 2.6.09
Politica e fumetti
Una sceneggiatura che ricorda le avventure di Topolinia
di Beppe Severgnini


Topolanek nudo! Sembra un allarme lanciato da Superpippo, è invece è l’argomento di cui discutiamo in Italia. Oggi è la Festa delle Repubblica: se qualcuno avesse dubbi che la nostra democrazia sta assumendo contorni fumettistici, legga i giornali. Che bisogno abbiamo dei Tremonti Bonds, per aiutare la finanze nazionali? Vendiamo i diritti alla Disney.
La nostra discesa verso gli inferi del ridicolo passa anche da vicende improbabili e nomi impeccabili. Mirek Topolánek, anni 53. Capo del governo a Praga fino al marzo scorso, è separato dalla moglie Pavla Topolánková; ha due figlie, due figli e due nipoti. I suoi idoli sono Churchill, Thatcher e Aznar. Le sue letture Steinbeck, Hemingway e Kundera.
I suoi passatempi — informa Wikipedia — includono tennis, golf e guida nei rally. Di naturismo non si parla. Di ragazze neanche.
Villa Certosa sta assumendo, nella fantasie nazionali, tratti leggendari. Gli amici del protagonista, cercando di minimizzare, contribuiscono ad arricchire la sceneggiatura.
Marcello Dell’Utri: «C’è la gelateria. Tu vai lì, e ti servono tutto il gelato che vuoi. Gratis. Se ci pensa, è una trovata molto divertente». Flavio Briatore: «C’è il gioco del vulcano.
Si chiacchiera del più e del meno e quando il gruppo si avvicina al laghetto, (Berlusconi) finge di preoccuparsi, dicendo che la Sardegna è una zona vulcanica. E a quel punto si sente un’esplosione pazzesca, ci sono effetti tipo fiamme...». Sandro Bondi, cercando di spiegare il Topolanek desnudo: «Mah... D’altra parte consideri che la villa è a pochi metri dal mare. Una mare, come lei saprà, di una bellezza assoluta».
Per descrivere le festicciole del Capo hanno tirato in ballo di tutto: da Boccaccio a Fellini a Umberto Smaila. Inesatto. Nessuna Rimini notturna né campagna toscana, niente «Colpo Grosso» o Sodoma & Gomorra all’italiana. Villa Certosa è Topolinia (qualcuno lo spieghi al «Times» di Londra). Una città incredibile dove la Banda Bassotti tira tardi in compagnia del commissario Basettoni, Pluto veglia tra i ginepri e Macchia Nera guarda Minnie che si fa la doccia.
In attesa di sapere se il prodotto è adatto ai bambini, diciamo questo: era da tempo che la politica italiana non produceva una trama altrettanto fantasiosa. La satiriasi del potere è un fatto storico: imperatori e satrapi, dittatori e autocrati hanno sempre amato riempire le feste di attrazioni e ragazze. In democrazia la cosa è più complicata, ma la cinica elasticità italiana consentirebbe di raccontare molto, se non proprio tutto. L’ultimo scoglio è la coerenza ufficiale: i politici, anche i più spregiudicati, non sono ancora pronti ad ammettere quello che fanno, temendo che qualcuno lo confronti con quello che dicono.
Durerà poco: l’ipocrisia, nei fumetti, non serve.
Ps L’ex primo ministro ceco Mirek Topolanek il 29 maggio ha risposto alle critiche di Silvio Berlusconi il quale, durante l'assemblea di Confesercenti, aveva parlato delle debolezze dell'Europa e della poca autorevolezza della presidenza ceca di turno: «Silvio, amico mio, chiudi la bocca!». Invito accolto, pare.

il Riformista 2.6.09
Europee dal casoriagate potrebbero arrivare i voti che fanno la differenza tra il disastro e la tenuta
Effetto Noemi sulle urne
Così il Pd rivede la luce
di Alessandro Calvi


Anche Noemi, dunque, come ancora di salvezza per il Pd. La sensazione è che l'ordine di scuderia, dalle parti del Nazareno, sia ancora questo, anche se, a causa di quella uscita sull'educazione dei figli di Berlusconi, Dario Franceschini ha dovuto fare un passo indietro. Ma c'è Massimo D'Alema - e non soltanto lui - a battere la grancassa. Insomma, sembra netta nel Pd la convinzione che questa storia possa finire per mobilitare almeno una parte dell'elettorato. E, magari, si tratta proprio di quei 2 o 3 punti che servono per scollinare oltre quota 25% ed evitare che, all'indomani del voto, si possa parlare di disastro. Sempre che Antonio Di Pietro non finisca per cannibalizzare anche quei pochi voti, sprofondando all'inferno Franceschini. E con lui l'intero Pd.
Ecco, dunque, che anche Noemi potrebbe tornare utile. Spiega Nando Pagnoncelli (Ipsos) che nelle ultime settimane si è evidenziato un ampliamento della zona grigia che raccoglie gli indecisi e chi dichiara di non volersi recare al voto. È il segnale di un disorientamento che, normalmente, con l'avvicinarsi del voto tende a diminuire. «La mia sensazione - osserva Pagnoncelli - è che il Pd potrebbe trarre giovamento dall'affrontare la vicenda sul piano dei valori. D'altra parte, sul piano del pragmatismo è il centrodestra ad essere avvantaggiato». Inoltre, spiega Pagnoncelli, il Pd certamente non pesca voti nel centrodestra ma nell'elettorato che, allo stato, non se la sente di riconfermare il voto. «Dovendo parlare a persone che hanno già votato Pd - prosegue - ecco che parlare di valori può servire. E anche quella frase di Franceschini potrebbe non avere un impatto così negativo sull'elettorato al quale attinge il Pd».
Quella frase, dunque, ovvero l'uscita sull'educazione dei figli con la quale Franceschini ha finito per tirare in ballo i figli del premier - quelli di primo e di secondo letto - facendo, come i fatti hanno dimostrato, anche un favore al Cavaliere che, proprio su quella frase, ha potuto costruire la riscossa personale. Anche per questo, ora Franceschini si tiene un passo indietro e parla d'altro come, ad esempio, dell'assenza del governo nella vicenda Fiat-Opel o, come ha fatto ieri, dei rifiuti di Palermo. Se poi deve tornare sul dossier Noemi, lo fa prendendola larga, parlando - come si faceva un tempo - di una Italia di plastica che si contrappone a quella reale. Nulla a che vedere con gli attacchi pre-autogol, quando faceva da sponda alla campagna di Repubblica o parlava, a proposito del premier, di «un uomo che ha perso l'equilibrio» e che «è pieno di scheletri nell'armadio». A tenere alti i toni, ora, sono altri. E, il D'Alema che, come ha fatto nei giorni scorsi, spiega che il caso Noemi «ha indubbiamente una rilevanza pubblica», è tra questi.
L'infortunio di Franceschini, in ogni caso, potrebbe non costare molto al Pd. Anzi, potrebbe non costare nulla. Questo, però, perché, a differenza di Pagnoncelli, c'è anche chi si dice convinto che l'affaire Noemi non sposti un'acca o quasi. «Il Pd - spiega Nicola Piepoli (Istituto Piepoli) - è fermo, non si muove. Né si è mai mosso. Se aveva 100 voti ad ottobre, ne ha ancora 100, forse 98. È appena un filo più fragile ma la vicenda Noemi non sposta nulla. È gossip, non politica. Agli italiani interessa altro: la Fiat, la crisi, non il chiacchiericcio». Anche Renato Mannheimer rileva come «fino a poco tempo fa tutta questa vicenda aveva inciso molto poco, data la forte indecisione che c'è a sinistra». Però, «entrare nella polemica potrebbe essere una scelta vincente», spiega, Mannheimer, per intercettare qualcuno degli astenuti delle scorse elezioni. In linea di massima, infatti, quei voti andrebbero alla sinistra estrema o all'Idv. Ed è lì che il Pd può sperare di pescare qualcosa anche se, avverte Mannaheimer, non è detto che poi nella realtà ciò avvenga: «Non è certo la vicenda Noemi che può convincere a votare chi era deluso la volta scorsa».
Che questa storia possa avere conseguenze soprattutto nella distribuzione dei voti a sinistra lo pensa anche Roberto Weber (Swg). «Però - precisa - incide più che altro a sfavore di Berlusconi. L'elettorato del Pd, infatti, vota su un vissuto lungo». Ovvero, lo smarrimento di almeno 2 anni che, in una qualche misura, è lo stesso che ha pagato anche Walter Veltroni. Ed è lì che il Pd si gioca molte delle sue carte. Piuttosto, dice Weber, la sensazione è che tutta questa storia possa avere arrestato «lo slancio di Berlusconi che si stava costruendo un profilo da uomo di Stato più che da capo di partito». Ma, dice Weber, non ci saranno smottamenti. Ragione di più, forse, per Franceschini per cercare voti in casa propria. Se è il caso, anche usando Noemi.

Repubblica 2.6.09
I retroscena dei rapporti tra Berlusconi e Ratzinger nel nuovo libro di Pinotti e Gümpel
Quel patto segreto tra la destra e la chiesa
di Alberto Statera


Si chiama "L´unto del Signore" E rivela i legami tra il Governo e il Vaticano. Sanciti alla presenza di Letta e Bertone in un incontro del 5 giugno 2008

L'unto del Signore, come si autodefinì una volta, non è mai stato l´idealtipo del buon cattolico praticante. Ma quel 5 giugno 2008, con la regia del gentiluomo di Sua Santità Gianni Letta e del segretario di Stato Tarcisio Bertone, Silvio Berlusconi e Joseph Alois Ratzinger siglarono un patto d´acciaio tra il governo italiano in carica da un mese e il papato. Passato un anno, quel patto difensivo-offensivo ha già dato risultati straordinari per i contraenti, tanto da indurre il presidente della Camera Gianfranco Fini a tentare di smarcarsi dal berlusconismo anche in nome della laicità dello Stato.
Non c´è divorzio che possa incrinare quella sorta di nuovo Concordato de facto, nonostante le critiche della Chiesa del Vangelo alla «partnership» delle alte gerarchie con il politico amorale per eccellenza. Quella partnership consolidata recentemente con il Papa, in realtà viene da lontano, come documenta con dovizia di prove un libro-inchiesta di Ferruccio Pinotti e Udo Gümpel, intitolato per l´appunto L´unto del Signore in uscita per la Bur il 3 di giugno (pagg. 299 , euro 12,50) . Viene talmente da lontano da essere ormai indissolubile. Ne è convinto, anche il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga: «Alla Chiesa cattolica - ha detto intervistato dagli autori - che uno vada in chiesa o meno non importa molto: se devo fare un contratto, una società, come amico mi scelgo uno che abbia le mie stesse idee religiose, ma se questo cristiano non capisce nulla di finanza e dall´altra parte c´è un massone che capisce di finanza, con chi crede che faccia la società? La Chiesa guarda al concreto». Berlusconi è cristiano e pure massone (tessera 1816 della P2).
Il giovane Silvio, studi al liceo Sant´Ambrogio dei Salesiani e frequentazione di Torrescalla, residenza universitaria milanese dell´Opus Dei, dove conobbe Marcello dell´Utri, fa i primi passi di imprenditore edile con l´aiuto della Banca Rasini. Investendo una parte dei primi guadagni, fonda la squadra di calcio Torrescalla-Edilnord targata Opus Dei: lui presidente, l´amico palermitano allenatore e il fratello Paolo centravanti.
Alla Rasini il padre Luigi da semplice impiegato è diventato direttore.
Questa banca, con un solo sportello a Milano in piazza dei Mercanti, era alternativamente definita «Vatican bank», «Sportello della mafia» o « Banca di Andreotti». E´ stata in realtà tutte queste cose prima di finire nel 1992 dentro la Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani, l´uomo che sussurrava ad Antonio Fazio, pio governatore della Banca d´Italia e legionario di Cristo.
Dagli anni Sessanta e fino al blitz antimafia del 14 febbraio 1983 che portò all´arresto del direttore Antonio Vecchione, succeduto a Berlusconi senior, e di un gruppo di imprenditori legati ai clan Fidanzati, Bono e Gaeta, era in quello sportello a due passi dal Duomo il crocevia degli interessi di Cosa Nostra e del Vaticano. La maggioranza azionaria era passata dai Rasini a Giuseppe Azzaretto, nato e Misilmeri nei pressi di Palermo, cavaliere di Malta e commendatore del Santo Sepolcro, che aveva nominato presidente Carlo Nasalli Rocca, anche lui cavaliere di Malta e fratello del cardinale Mario Nasalli Rocca.
Ma si diceva che l´effettivo controllo fosse di Giulio Andreotti, come conferma Ezio Cartotto, ex dirigente democristiano che con Dell´Utri partecipò alla fondazione di Forza Italia. Interpellato da Pinotti e Gümpel, Dario Azzaretto racconta: «Andreotti è stato per la mia famiglia un grande amico e lo è tuttora», tanto che per anni ha trascorso le vacanze nella loro villa in Costa Azzurra.
Ma i misteri della Rasini, passata negli anni Ottanta anche per le mani dell´imprenditore andreottiano Nino Rovelli, non sono finiti qui. Dietro c´erano tre fiduciarie basate in Liechtenstein e amministrate dal gentiluomo di Sua Santità e gran croce dell´Ordine papale di San Gregorio Herbert Batliner, re dell´offshore, gnomo degli gnomi plurinquisito, che nel 2006 regalò un organo del valore di 730 mila euro a papa Ratzinger.
C´era anche Berlusconi in quelle tre fiduciarie? «Non mi pare - risponde Dario Azzaretto - che Berlusconi o parenti di Berlusconi o persone vicine a Berlusconi avessero partecipazioni in società che si potevano riferire alla banca». Le sue operazioni con la Rasini - aggiunge - avvenivano tramite Armando Minna, membro del collegio dei sindaci e amministratore di alcune holding berlusconiane registrate come saloni di bellezza e parrucchieri.
Ufficialmente è nel 1975, quando i primi inquilini già abitano a Milano 2, che nasce la Fininvest. Ma la ricerca certosina degli autori dell´Unto del signore la retrodata di almeno un anno, quando una Fininvest Ltd-Grand Cayman compare tra le società partecipate da Capitalfin, controllata a sua volta dal Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e dall´Istituto per le Opere di Religione.
Ciò che coincide con quanto dichiarato dal figlio del banchiere piduista trovato morto a Londra nel 1982 sui soldi misteriosi con cui venne costituita la Fininvest. Carlo Calvi racconta tra l´altro che il padre, in una riunione del dicembre 1976 alle Bahamas cui era presente anche il cardinal Marcinkus, lo prese sottobraccio e gli sussurrò: «Finanzieremo le attività televisive di Silvio Berlusconi».
Storia antica, ma significativa del vero miracolo compiuto da Berlusconi: quello di avere sempre con sé il Vaticano, nonostante la sua storia personale. Al punto, diventato presidente del Consiglio, da dividere l´Italia tra due sovranità che si contendono il paese: quella della Chiesa e quella del declinante Stato laico.
Racconta ancora Cartotto: «Dell´Utri mi invitò a una convention di Publitalia a Montecarlo. Arrivammo nel principato con l´aereo aziendale. Su quell´aereo c´eravamo io, il professor Torno e monsignor Gianfranco Ravasi. Sono convinto che Berlusconi abbia cominciato a pensare all´ipotesi di scendere in campo nell´autunno del 1992, proprio in occasione di quella convention. Silvio fece un discorso nel quale rilevava che il clima politico si stava facendo pesante. Disse che gli amici perdevano potere, che i nemici ne conquistavano e l´azienda doveva attendersi momenti difficili».
Decisa infine la «discesa in campo», i rapporti col Vaticano divennero quasi un´ossessione: «Posso dire di aver avuto un piccolo ruolo anche io», vanta Cartotto: «Organizzai un incontro tra Bertone e Aldo Brancher, un ex sacerdote che ora è uno degli uomini più importanti di Forza Italia, quando il cardinale non conosceva ancora il gruppo berlusconiano. Poi Brancher lasciò il passo a Letta soprattutto nel momento in cui Bertone divenne segretario di Stato». Il cardinale Silvio Oddi, per trent´anni prefetto della Congregazione per il clero, assolse prontamente il Berlusconi politico dal peccato del primo divorzio. Il cardinale Camillo Ruini avallò.
Il 30 giugno 2008, tre settimane dopo l´incontro Ratzinger - Berlusconi, il governo confeziona il disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche che prevede una disciplina ad hoc per gli ecclesiastici. Se si intercetta un prete bisognerà avvertire il suo vescovo, se si intercetta il vescovo il segretario di Stato vaticano. E se si intercetta il papa? Opzione non prevista.

l'Unità 2.6.09
L’allora e l'adesso di Gobetti
Le lettere alla moglie Ada colpiscono perché danno un’idea del vuoto morale e politico che ricorda l’oppressione umana di oggi
di Giovanni Nucci


Leggendo le lettere scritte per la morte di Piero Gobetti alla moglie Ada («L’autunno delle libertà», appena uscito da Bollati Boringhieri), ne viene una strana commozione. Lo «strazio» di Don Sturzo; la «perdita definitiva di possibilità» di cui parla Angelo Tasca; o Gaetano Salvemini a cui «pare di aver perduto una radice nella vita... vorrei gridare furiosamente il mio dolore, e non posso»; o il «ramoscello di edera che abbiamo staccato oggi dalla tomba del suo povero Piero» e che Dolores Prezzolini manderà appunto ad Ada Gobetti qualche mese dopo la morte di Piero.
Colpiscono e commuovono perché danno un’idea del vuoto, morale e politico, che lasciò Gobetti in un momento di grande oppressione del paese (morì nel febbraio del 1926, in esilio, a Parigi). Ma se la commozione va per empatia, forse è perché stiamo vivendo una simile oppressione umana e culturale, antropologica, prima di tutto. E perché Gobetti continua a mancare. D’altronde aveva capito così bene l’allora da farlo calzare perfettamente con l’adesso. Quando parlava, ad esempio, del fascismo in Italia come di un’«indicazione di infanzia perché sogna il trionfo della facilità, della fiducia, dell’entusiasmo», e lo definiva «l’autobiografia di una nazione». Il che suggerirebbe che quell’autobiografia non si è conclusa, anzi si protrae. Il gioco è semplice, basta prendere La rivoluzione liberale nella finalmente nuova edizione che Einaudi ha pubblicato un anno fa (ottima l’introduzione di Flores d’Arcais), e fare qualche sostituzione: intendere l’adesso con l’allora, sostituire (per dirla con Gadda) «chillo fetente d’ ’o balcone ’e palazzo Chigge» con quello di adesso: uno vale l’altro. (Le parentesi siano d’aiuto) Gobetti diventa, anche citandone una minima parte, illuminante.
«A (Mussolini) manca il senso squisitamente moderno dell’ironia, non comprende la storia se non per miti, gli sfugge la finezza critica dell’attività creativa che è dote centrale del grande politico. (...) Ha bisogno di un mondo in cui al condottiero non si chieda di essere un politico. Lottare per una idea, elaborare una lotta, un pensiero, è un lusso, una seccatura: (Mussolini) è abbastanza intelligente per piegarvisi, ma gli basterebbe la lotta pura e semplice senza i tormenti della critica moderna. Solo gli ingenui si sono potuti stupire dei suoi recenti amori con la Chiesa cattolica. Nessuno è più lontano di (Mussolini) dallo spirito dello Stato laico e dalla vecchia Destra degli Spaventa. Egli non ha nulla di religioso, sdegna il problema come tale, non sopporta la lotta col dubbio; ha bisogno di una fede per non doverci più pensare, per essere il braccio temporale di una idea trascendentale. (...) In un consesso internazionale di impenetrabili l’inferiorità di (Mussolini), attore più che artista, tributo più che statista, è palese poiché egli non sa che specchiarsi nella propria enfasi. (...) (Mussolini) è a suo agio soltanto quando parla al buon popolo e ne ascolta i desideri e lo rimbrotta con fiero cipiglio per le sue monellerie. (...) Tuttavia restano notevoli le attitudini di (Mussolini) a conservare il potere tra un popolo entusiasta e desideroso di svaghi, che egli conosce benissimo e cui appresta quotidianamente sorprese.
(...) Il mussolinismo è dunque un risultato assai più grave del fascismo stesso perché ha confermato nel popolo l’abito cortigiano, lo scarso senso della propria responsabilità, il vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex macchina la propria salvezza. La lotta politica in regime mussoliniano non è facile: non è facile resistergli perché egli non resta fermo a nessuna coerenza, a nessuna posizione, a nessuna distinzione precisa ma è pronto a tutti i trasformismi».
Carlo Rosselli -oggi voliamo alti!- scrisse ad Ada che «Piero Gobetti è ormai una divisa, un programma di vita. Sono certo che tra dieci, vent’anni, quando ciò che ci opprime e ci umilia sarà crollato egli sarà ricordato come uno dei più nobili ed efficaci precursori». Lo fu talmente da esserlo ancora adesso, dopo novant’anni. Forse vale la pena che le nuove e future classi dirigenti che vogliano reagire, partano da lì. (Ed anche le vecchie, magari per illuminarsi su certe loro incomprensioni del fenomeno che stiamo vivendo). Lui stesso, Gobetti, chiudendo il suo libro sembrava volerli spronare: «Dovrà ineluttabilmente l’Italia rimanere condannata dalla sua inferiorità economica a questi costumi anacronistici e cortigiani? O le forze della nuova iniziativa popolare e di ceti dirigenti incompromessi riusciranno a dare il tono alla nostra storia futura?».

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Corriere della Sera 2.6.09
Vent'anni fa la strage
Gli studenti di piazza Tienanmen furono coraggiosi, non avventati
di Ian Buruma


Ci si sente raggelare al pensiero che esattamente vent’anni dopo il massacro di piazza Tienanmen sono pochissimi i giovani della Repubblica Popolare Cinese ad avere un’idea di quanto accadde in quell’occasione. Molti cittadini disarmati furono trucidati dalle truppe dell’Esercito di Liberazione cinese il 4 giugno 1989, e non solo nelle vicinanze di piazza Tienanmen, ma in tutte le città della Cina. Per la maggior parte non erano studenti, come quelli che avevano dato avvio alle manifestazioni pacifiche contro corruzione e autocrazia, bensì semplici operai, quella classe sociale che vede proprio nel partito comunista il suo difensore. I giovani non lo sanno, perché i genitori hanno preferito tacere, sia per evitare grane a se stessi e ai loro figli, sia perché l’argomento non viene mai sfiorato dai media ufficiali cinesi: è tabù. I siti web che menzionano gli avvenimenti del 1989 vengono chiusi. Le mail intercettate. E coloro che insistono ancora a parlarne in pubblico sono spesso arrestati.
Zhao Ziyang era il segretario generale del partito comunista nel 1989. Sebbene assai poco incline a idee democratiche, le sue simpatie tuttavia erano per gli studenti scesi in piazza. E siccome si opponeva ai membri più intransigenti del suo stesso governo, venne condannato agli arresti domiciliari fino alla morte, sopravvenuta nel 2005. Le sue memorie sono state fatte uscire di nascosto dal Paese incise su cassette, camuffate come registrazioni dell’Opera di Pechino, e di recente pubblicate in inglese e in cinese. Ovviamente, la loro distribuzione in Cina è vietata. Il libro di Zhao è destinato ad aprire nuovi dibattiti su quali insegnamenti trarre dal «4 giugno». Sono dibattiti necessari, e sarebbe auspicabile che si svolgessero in Cina. Una forte corrente di pensiero, emersa subito dopo i massacri nel 1989, sostiene che i leader studenteschi più radicali si comportarono sventatamente.
Avrebbero dovuto sapere che era impossibile sottrarsi a una repressione violenta. Nel provocare il regime, gli studenti fecero deragliare ogni possibilità di riforme politiche graduali, che i loro mentori più anziani, e più moderati, avevano cautamente avviato. I sostenitori di questa tesi spesso aggiungono che, inoltre, la Cina non era ancora pronta per la democrazia. E le manifestazioni di piazza non erano certo il sistema migliore per vederla realizzata. Anzi, i leader studenteschi radicali non avevano un’idea esatta della democrazia, né più né meno dei leader comunisti, oggetto delle loro critiche. La vita nella capitale, e in molte altre città cinesi, fu gravemente sconvolta. Il governo cinese usò la mano pesante, certo, ma aveva il dovere di riportare ordine nelle strade. Se i leader studenteschi avessero davvero voluto rovesciare il governo, e con metodi violenti, questa teoria sarebbe assai convincente. Ma non esistono prove che gli studenti avessero queste mire. I manifestanti non reclamavano altro che libertà di parola, dialogo con il governo, sindacati indipendenti. In retrospettiva, è facile dire che le manifestazioni erano destinate a essere soffocate nel sangue. Se la storia non si ripete mai esattamente, esistono tuttavia dei modelli ricorrenti. Non bastano i cortei a far cadere un regime, occorre l’intervento di altri scossoni politici, talvolta del tutto imprevisti. Quando i tedeschi dell’Est protestarono contro i loro autocrati comunisti nel 1989, nessuno sapeva a che cosa sarebbero andati incontro. Non pochi furono i dirigenti di partito che invocarono lo spiegamento dei carri armati, proprio come i compagni di Pechino. Ma quando Gorbaciov si rifiutò di approvare il giro di vite nella Repubblica Democratica tedesca, i sollevamenti popolari andarono a sommarsi alle inefficaci manovre del governo e insieme contribuirono a dare la spallata decisiva al Muro. Gli studenti sudcoreani che affollavano le strade di Seul nel 1986 non ce l’avrebbero fatta, da soli, a rovesciare la dittatura militare. I ragazzi di piazza Tienanmen non potevano sapere che cosa stava accadendo all’interno del regime blindato della Cina. L’approccio conciliante di Zhao Ziyang risultò perdente. Gli intransigenti, che si rifiutarono di cedere il monopolio del potere, riportarono la vittoria.
Se avesse prevalso Zhao, gli studenti si sarebbero ritirati? Difficilmente.
Ad ogni modo, non spettava agli studenti, né agli operai che li appoggiavano, schierarsi con questa o quella fazione del governo. Altro non chiedevano che un po’ più di libertà. E questa dovrebbe essere la lezione principale da trarre da quei giorni primaverili a Pechino, a Shanghai, a Guangzhou e in molte altre città: i cinesi hanno il diritto, come tutti gli altri popoli, di esprimersi liberamente, senza timore dell’arresto, di votare i propri leader, e di vedere che la legge è rispettata da tutti, a cominciare dai politici. Il 4 giugno 1989 migliaia di cinesi persero la vita per aver chiesto molto meno. Il modo migliore per ricordarli è riaffermare il loro diritto a quelle libertà che milioni di cittadini danno per scontate, sia in Occidente che in molti Paesi asiatici. Il modo peggiore è puntare il dito contro un manipolo di studenti che si ostinò a reclamare quel diritto, fino a che non fu troppo tardi.
traduzione di Rita Baldassarre

il Riformista 2.6.09
Diario italiano di quei giorni d'orrore a Pechino
di Ilaria Maria Sala


Sangue. Ce ne era tanto per le strade e gente che piangeva. Madri che chiedevano ai soldati perché avessero sparato contro i ragazzi, militari impiccati e poi bruciati dalla folla inferocita e addolorata. Il 4 giugno, nella piazza simbolo del regime, si consumò il massacro di migliaia di studenti.

Nell'anno accademico 1988-1989 ero iscritta alla Normale di Pechino dove studiavo cinese. Le manifestazioni studentesche cominciarono il 17 aprile, con la morte di Hu Yaobang, leader riformista, e durarono fino al 3 giugno: notte in cui l'esercito cinese cominciò a sparare sui dimostranti.
3 giugno, 1989 - Il centro di Pechino è ancora occupato, il governo rifiuta il dialogo, e molti sono stanchi dello stallo, dell'atmosfera ormai pesante sulla città. L'incertezza è forte: i soldati sono qui da due settimane e mezzo, seduti senza fare niente, si guardano intorno confusi e accaldati, affatto minacciosi, ragazzini messi lì da qualche scriteriato. Alcuni nuovi movimenti di truppe appaiono sospetti, e oggi c'è molta tensione nell'aria. C'è chi dice che i soldati stiano andando via, ma non si capisce se sia vero: dicono che è stato dato l'ordine di dare il cambio a questi soldati, che hanno passato troppo tempo in città e non possono eseguire i nuovi ordini che sarebbero stati dati. Non c'è modo di sapere se sia vero, ma gli studenti non vogliono andare via: hanno sofferto troppo, e non riescono a credere che il governo sia così crudele.
I soldati che sono in città dal 17 maggio hanno ascoltato turbati gli studenti che gli dicevano perché manifestano, hanno accettato con un po' di impaccio il cibo e le bevande che gli venivano portate dalle nonne della città, e hanno preso i giornali dei primi di maggio, quando i giornalisti avevano deciso di non censurarsi più e si schieravano dalla parte delle manifestazioni. Gli studenti erano venuti in tutti i dormitori, anche da noi studenti stranieri, a chiedere copie di quotidiani di quei giorni perché i militari potessero leggere la vera versione dei fatti, quella scritta prima della legge marziale. Ma tre giorni fa ci sono stati degli arresti: undici persone delle "Tigri Volanti", i motociclisti che fanno la staffetta facendo la spola fra la piazza e la periferia della città per riportare ogni movimento sospetto agli studenti. Adesso non c'è nessuno che possa dare notizie accurate. Qualche tassista ha deciso di sostituire le Tigri Volanti, ma sono intercettati e fermati.
La piazza ormai puzza. È occupata da settimane e per quanto facciano per tenere pulito, la folla è troppa, molti sono accampati nelle tende blu portate in dono dai sostenitori di Hong Kong. Gli studenti di Pechino la notte tornano nei campus e di giorno scendono a Tiananmen, ma sono meno di prima. Ai confini della piazza, c'è la tenda con il quartiere generale degli operai. Sono andata a pranzo con la mia compagna di stanza. Appena sedute siamo state interrogate dalla cameriera: vuole sapere come stanno «i nostri studenti», se abbiamo notizie degli spostamenti di truppe, appena ha finito il turno andrà in piazza e dice: «tai kelian». Poverini.
Questa sera le cose sono peggiorate improvvisamente. Si sente dire che alcuni operai, in periferia, sono stati picchiati: oggi? Ieri? Nessuno lo conferma o lo nega, la città ora è davvero nervosa, non si sa a cosa credere. All'Università di nuovo ci stringiamo intorno alla radio ascoltando la Bbc. Ma anche la voce del loro corrispondente, James Miles, questa sera è concitata. Andiamo a letto preoccupati.
4 giugno, 1989 - Sono le quattro e mezza. Siamo stati svegliati dalle sirene e dalle ambulanze, e dal suono in lontananza degli spari. Fuori è buio, ma dalla nostra Università, la Normale di Pechino, quella più vicina al centro, si vede il grande viale che porta in città e che per settimane è stato una passerella delle manifestazioni di centinaia di migliaia di studenti. Di nuovo davanti ai cancelli ci sono migliaia di persone, uscite in fretta: alcuni in pigiama, altri hanno fatto in tempo a vestirsi. Molti vanno verso la piazza, altri cercano di fermarli: l'esercito sta sparando, e tanti pensano di poterli andare ad affrontare e fermarli. Cantano l'Internazionale, e continuano a scandire che «l'Esercito del Popolo non può uccidere il popolo!». Invece sembra di sì.
Dalla piattaforma sul tetto dell'edificio appena spunta l'alba guardando verso il centro città si vedono delle colonne di fumo. Scendo, vado fuori, e sono circondata da persone: alcuni piangono, tanti gridano. Ci spostiamo per far passare un autobus che sta entrando nell'Università, dicono che vada verso la clinica; le porte sono ancora aperte e vedo che è pieno di feriti e sangue sul pavimento. Alcuni non si muovono, altri guardano fisso sconvolti, una donna nella folla piange e grida che hanno ucciso gli studenti. Un uomo con del sangue sulla faccia mi si avvicina e vuole che prenda dei proiettili che ha raccolto da per terra per farli vedere «nel tuo Paese», dice che il mondo deve sapere che cosa stanno facendo qui, agli studenti disarmati. Un altro gli dice di metterli via subito, che è pericoloso, per me, per loro, per tutti. Si guardano sconsolati, la folla di gente che esce dalle case con lo shock sul volto è sempre più grande, poi c'è un momento di silenzio: vedo dei camion con i soldati che si avvicinano alla nostra Università. Sei, pieni di soldati. La folla si apre per lasciarli passare, gridando: «cosa avete fatto? Come avete potuto uccidere i nostri studenti? Cosa avete fatto?» Un soldato si alza in piedi, e si toglie la cintura di proiettili che ha intorno al corpo, e la dà alla gente che ha circondato il camion.
Poi, dà loro anche la pistola. Ha le guance bagnate di lacrime. Anche gli altri si alzano, e consegnano le armi. Le persone le prendono, altri applaudono, molti piangono. Uno studente prende una bandiera rossa e si arrampica sul cofano del camion: resta in piedi e indica di andare verso le altre Università. Ancora applausi, ancora pianti. Un mio amico mi trova e mi dice: «Vieni, ti prego, accompagnami a cercare mia sorella, è in piazza. Non spareranno sugli stranieri». Andiamo, in bici. Pechino sembra ribaltata: barricate, carri armati bruciati, sangue, un soldato bruciato impiccato da un ponte, gente che si affretta a portare in ospedale dei feriti, gli spari che continuano in lontananza.

Repubblica Milano 2.6.09
La famiglia secondo il ribelle Bellocchio
di Mario Serenellini


La Cineteca Italiana presenta all´Oberdan nove film del maestro reduce da Cannes
Uno sguardo critico e crudele sulla istituzione domestica, vista come cellula malata della nostra società

«Esistono vari tipi di pazzia. Quella che a me, muovendomi nel mondo dell´arte, interessa, è la pazzia dell´indifferenza. Credo che non esista pazzia peggiore di quella dell´uomo indifferente, che si è costruito una corazza caratteriale di tale spessore da non essere più disposto a rimettersi in gioco». Già trent´anni fa, su "Positif", Marco Bellocchio annunciava, senza saperlo, il film di oggi, Vincere, parabola di vera follia – l´indifferenza di un uomo di potere, il Mussolini interpretato da Filippo Timi, affrancato da ogni regola – che s´inventa le finte follie di moglie e figlio, per annientarne la credibilità e, persino, l´esistenza.
Il film, purtroppo negletto a Cannes, è il tacito tarlo ispiratore della selezione di nove titoli che la Cineteca Italiana mette in rassegna all´Oberdan, da domani al 1° luglio, col titolo "La famiglia secondo Marco Bellocchio", tema cardine e costante dell´intera cinematografia del regista piacentino, alle soglie dei suoi sempre giovani e sempre ribelli 70 anni.
Da I pugni in tasca (il 7 e il 21) a Il regista di matrimoni (il 20 e il 1°), lo sguardo critico e crudele sulla istituzione domestica, vista come cellula malata della società, è il filo conduttore del più tenace e coerente cinema-"contro" (insieme con quello di Pasolini e, forse, di Bene) che abbia attraversato l´Italia a partire dagli anni ´60.
Oasi apparentemente più tenui in questo percorso, due dei documentari che Bellocchio ha girato su di sé e la sua famiglia, Vacanze in Val Trebbia dell´80 e l´emozionante Sorelle del 2006. Radiografia delle radici, ritorno, anni dopo, sui luoghi natali (Bobbio, in provincia di Piacenza), entrambi (proiettati il 21) risvegliano i germi da cui s´è sviluppata la ricerca e l´esistenza del regista («non documentari ma film sulla famiglia, non necessariamente la mia, dato che io e gli altri diventiamo personaggi», ha chiarito Bellocchio): dove non a caso rispuntano immagini di Pugni in tasca, «perché richiamavano quelle appena girate, scene parallele anche dopo tanti anni trascorsi».
Nel resto del suo cinema, la famiglia, focolaio e scatenamento di malattia, è il nido di nevrosi che porta una madre a allontanarsi dal figlio da poco partorito (in La balia, dal diletto Pirandello, il 4 e il 7) o il teatro di un violento scontro, e della sua cruenta rappresentazione, tra un Marat-Sade di collegio e uno Zéro de conduite ancor più ideologico, in Nel nome del padre (il 3, alle 19, e il 6).
Ma è forse in Salto nel vuoto (il 20 e 26), con due attori stupefacenti come Michel Piccoli e Anouk Aimée, entrambi premiati a Cannes 1980 per la migliore interpretazione, che Bellocchio scava ancor più a fondo nella vacuità colpevole, ricattatoria e, alla fine, assassina del microcosmo famigliare, visto come luogo di costrizione psicologica e di graduale imposizione della follia, insomma, di potere e sopraffazione, come avverrà trent´anni dopo, in forma più dilatata e politica, in Vincere.

La Sicilia 2.6.09
Bellocchio, il nuovo modo di «Vincere»
di Nerina Spadaro


"Vincere" sta andando bene al botteghino. I dati di quest'ultimo weekend non sono ancora noti, ma il film di Marco Bellocchio, reduce dal festival di Cannes, solo pochi giorni fa era al quarto posto per incassi. Dopo "Angeli e Demoni", "Una notte al museo 2" e "San Valentino di sangue", ma prima di "Star Trek", "X Men" e "17 again".
Quando un film d'autore, e di un autore considerato difficile come Bellocchio, pur in assenza di premi raggiunge buoni risultati commerciali, questo significa fra l'altro che parecchi affezionati dei divani televisivi hanno deciso di muoversi da casa.
Che ad attirarli sia stato il rumore della stampa per questa nuova opera di un maestro giunto alla vecchiaia, oppure la prospettiva di vedere una storia d'epoca che può avere legami con il presente, o semplicemente il titolo e un buon lancio pubblicitario, in ogni caso gli habitués della fiction si saranno trovati davanti a qualcosa di completamente inedito. Un po' come persone abituate a nutrirsi di scatolette, piene di coloranti e aromi artificiali, e che a un tratto hanno l'opportunità di fare un ricco pasto con ingredienti di altissima qualità.
Se però consideriamo le cose da un punto di vista più ampio di quello della banalità televisiva, se pensiamo cioè alla spropositata quantità di immagini che ogni giorno comunque ci colpisce, dalla tv in chiaro, dal digitale terrestre, dal satellite, dai dvd, dai computer e ovviamente dai megaschermi delle multisale, ecco che la scelta di Bellocchio, la scelta cioè di misurarsi con il consumo di massa delle immagini, fa addirittura l'effetto di un colpo di frusta.
Certo, già altri autori, stranieri e italiani, hanno in qualche modo accettato la necessità, per "arrivare" a un pubblico ormai saturo, di trovare nuove e più estreme formule espressive. Ma qui, di fronte alla maestosità di un'opera che secondo l'ormai celebre commento di Variety, "toglie il respiro", si ha proprio l'impressione che un artista possa quasi tutto.
E infatti è come se Bellocchio, con questo suo "Vincere", dopo aver fatto silenzio intorno a sé, impartisse una lezione a quanti insistono sulla necessità di seguire l'esempio americano. Quale esempio? Quello dei film "forti", capaci appunto di perforare la corazza di un pubblico in perenne overdose di immagini.
Eccolo allora, il film forte, il film capace di perforare la nostra corazza sensoriale. Ma che diversamente dai blockbuster perfora anche il nostro torpore mentale, la nostra indifferenza di pubblico assuefatto alla dimensione televisiva, o tutt'al più a quella dei cinepanettoni e cinecocomeri.
Uno struggente mélo (come lo ha definito Aldo Fittante), un poema dark (come lo ha definito Roberto Silvestri). Ma attraverso il quale, e nonostante la nostra pigrizia, siamo costretti a interessarci di origini del fascismo, di futurismo, di psichiatria. E perfino di storia del cinema.
nerina.spadaro@alice.it

lunedì 1 giugno 2009

l'Unità 1.6.09
Toccato il fondo
Sull’aereo di Stato la combriccola del premier
Oltre il cantante Apicella c’era qualcun altro?
Tecnicamente si chiama «peculato»
Missione istituzionale
di Concita De Gregorio

Mentre Palermo - come già vi dicevamo ieri - sprofonda sotto una montagna di rifiuti, la città avvelenata dal fetore dei cassonetti bruciati da cittadini esausti, altra immondizia dilaga nel Paese. Il governo della spazzatura mediatica ha dato mandato ai suoi giornali e alle sue tv di silenziare chiunque si azzardi a mostrare come il presidente del Consiglio sia solito far viaggiare su aerei di Stato ragazzine e giovani donne a decine da portare in villa per le sue feste private, di far accomodare il suo cantante personale sul volo destinato a «delegazioni in missione istituzionale», di usare insomma l'aereo, il governo e chi si renda disponibile nel Paese intero per il suo privato piacere. La foto che pubblichiamo oggi in copertina ritrae Mariano Apicella, ex posteggiatore napoletano oggi coautore col premier di brani melodici e suo intrattenitore di fiducia, mentre scende dall'aereo che l'Italia (cioè noi) mette a disposizione del Presidente del consiglio. Antonello Zappadu, il fotografo, è da due giorni indagato per violazione della privacy, tutto il suo archivio è stato sequestrato fra sabato e domenica con una insolitamente efficiente azione di rastrellamento disposta in giorni festivi e prefestivi, a uffici chiusi. Ci ha raccontato giorni fa e ha ripetuto ieri ai giornalisti stranieri richiamati a frotte dall'impennata giudiziaria del Noemigate che «molte delle immagini in mio possesso mostrano ragazze che scendono dall'aereo di Stato, alcune giovanissime». Quelle immagini, che pure circolano e sono in possesso di molti, da ieri sono state requisite dall'Autorità. Che violazione della privacy può esserci per foto prese in un aeroporto, pubblico luogo di transito, di fronte a decine di testimoni? Perché anziché sequestrare il materiale e tentare di screditare il fotografo non si risponde alla domanda: è vero o no che il cantante e le ragazze venivano portati in Sardegna a bordo dell'Air force One italiano per sollevare nei giorni di festa il morale del Capo?
Se non c'è niente da nascondere non lo si nasconda. Se le ragazze - arrivate eventualmente anche con voli di linea - non erano minorenni lo si dimostri. Difficile. Noemi e la sua amica Roberta, per esempio, lo erano. Allora cosa fa la squadra Ghedini, anziché lavorare nel Parlamento dove è stata eletta? Cosa fanno i giornali del padrone? Picchiano, spostano l'attenzione altrove. Su Veronica, la moglie, per esempio. Che, dice Daniela Santanchè in cerca di una nuova casa politica e del credito per ottenerla, ha una relazione con la sua guardia del corpo. «Libero» spara. A noi interessa? Se anche fosse che rilevanza avrebbe? Risponde alle domande sulla condotta del premier? Il «Giornale» cerca prove che i giornalisti non allineati siano corruttori: non ci riesce, purtroppo. Nessuno ha pagato o ha offerto denaro per avere interviste, ci sono le prove. Restano inevase le domande principali a cui ora si aggiunge: Apicella ha «il rango di personalità» che risponde alle esigenze di «protocollo di carattere internazionale» che ne giustificano la presenza sul volo di Stato? Dipende dalla «natura del viaggio», dice il regolamento sui voli che Berlusconi ha fatto approvare. Appunto. La chiave è qui: la natura del viaggio.

Repubblica 1.6.09
Silvio e i giornali di corte lanciano il pestaggio mediatico che oscura le verità scomode
Il volto nuovo del potere
di Giuseppe D'Avanzo

Da Gino a Veronica, l´obiettivo è "degradarli"

Il premier impone perfino ai genitori di Noemi di datare a dieci anni fa una amicizia recente
Sotto tiro anche il fotografo sardo che ha ripreso l´arrivo delle ragazze ospiti del premier

Si sta dispiegando, sotto i nostri occhi, una tecnica della politica moderna che dovrebbe aprire gli occhi a coloro che, con sguardo accigliato e infastidito – anche nella sinistra – hanno liquidato il "caso Berlusconi" come gossip sconcio, di cui «non se ne può più». La faccenda, al contrario, è di grande interesse politico perché è venuta alla luce nel discorso pubblico, e nel cuore stesso della destra, la domanda se sia appropriato selezionare le classi dirigenti del Paese tra le giovanissime amiche del capo del governo e soltanto in virtù della loro affettuosità con il premier. L´affare interroga, con ogni evidenza, la qualità dello spazio democratico: il premier può, e fino a che punto, ingannare impunemente l´opinione pubblica mentendo, in questo caso, sulle candidature delle "veline", sulla sua amicizia con una minorenne e tacendo lo stato delle sue condizioni psicofisiche? Non è sempre una minaccia per la res publica la menzogna? La menzogna di chi governa non va bandita incondizionatamente dal discorso pubblico se si vuole salvaguardare il vincolo tra governati e governanti?
Il "caso Berlusconi" svela da oggi anche altro e di peggio. Ci mostra il dispositivo di un sistema politico dove la menzogna ha, non solo, un primato assoluto, ma una sua funzione specifica. Distruttiva, punitiva e creatrice allo stesso tempo. Distruttiva della trama stessa della realtà; punitiva della reputazione di chi, per ostinazione o ingenuità o professione, non occulta i "duri fatti"; creatrice di una narrazione fantastica che nega eventi, parole e luoghi per sostituirli con una scena di cartapesta popolata di fantasmi, falsi amori, immaginari complotti politici.
E´ stato per primo Silvio Berlusconi a muovere. Si scopre vulnerabile nelle condizioni di instabilità provocate dalle parole della moglie («frequenta minorenni», «non sta bene») e fragile per la sua presenza nella peggiore periferia di Napoli a una festa di compleanno di una minorenne. E´ dunque costretto a mostrare, senza finzioni ideologiche, il suo potere nelle forme più spietate dell´abuso e della pura violenza. E´ già un abuso di potere (come ha scritto qui Alexander Stille) in un pomeriggio di autunno telefonare, da un palazzo di Roma e senza conoscerla, a una ragazzina che sta facendo i compiti nella sua "cameretta" per sussurrarle ammirazione per «il volto angelico» e inviti a conservare la sua «purezza». E´ un abuso di potere ancora maggiore imporre ai genitori della ragazza di confermare la fiaba di «una decennale amicizia» con il premier, nata invece soltanto sette mesi prima grazie a un book fotografico finito non si sa come sullo scrittoio presidenziale.
E´ pura violenza pretendere che gli si creda quando dice: «Io non ho detto niente». Tutti abbiamo sentito Berlusconi dire, spiegare, raccontare in pubblico e soprattutto contraddirsi e mentire. Ora egli pretende che il potere delle sue parole sulla realtà e sui nostri stessi ricordi sia, per noi, illimitato e indiscusso. Esige che noi dimentichiamo ciò che ricordiamo e crediamo vero ciò che egli dice vero e noi sappiamo bugiardo. Non ha detto niente, no? Berlusconi chiede la nostra ubbidienza passiva, l´assuefazione a ogni manipolazione anche la più pasticciata. Reclama una sterilizzazione mentale (e morale) dell´intera società italiana.
Già basterebbe questo atto di pura violenza per riproporre le dieci domande a cui il capo del governo non vuole dare risposta da più di due settimane perché, palesemente, non è in grado di farlo. Se lo facesse, potrebbe compromettere se stesso, rivelare abitudini e comportamenti in rumorosa contraddizione con il suo messaggio politico (Dio, patria, famiglia).
C´è altro, però. Berlusconi sa che questa prova di forza non lo mette al sicuro dal potenziale catastrofico della "crisi di Casoria". Sa che spesso i fatti sono irriducibili e hanno la tendenza a riemergere. Sa che per distruggere quella realtà minacciosa, deve distruggere presto e nel modo più definitivo chi la può testimoniare. Anche in questo caso il premier ha deciso di muoversi con un canone di assoluta violenza. E´ quel che accade in queste ore. Per raccontarlo bisogna ricordare che i giorni non sono passati inutilmente perché hanno offerto a chi ha voglia di sapere e capire qualche accenno di "verità".
Veronica Lario dice a Repubblica che il premier «frequenta minorenni». Berlusconi nega dinanzi alle telecamere di Porta a porta di frequentare minorenni. Mente, ora è chiaro. Ci inganna intenzionalmente e consapevolmente, ben sapendo che cosa vuole deliberatamente nascondere. Ha frequentato la minorenne di Napoli come altre minorenni hanno affollato le sue feste e affollano i suoi weekend nella villa di Punta Lada in Sardegna. Dov´erano quelli che oggi minimizzano la presenza di ragazzine alla corte di un anziano potente di 73 anni quando quel signore negava di «frequentare minorenni»?
Un secondo punto, fermo e indiscutibile, è l´inizio dell´amicizia con Noemi, la ragazza napoletana. La retrodatazione del legame tra il premier e la famiglia della ragazza al 1991 si è rivelata posticcia e contraddittoria. I suoi incontri con la minorenne, anche in assenza dei genitori, sono stati documentati (Villa Madama; Capodanno 2009 a Villa Certosa). L´inizio dell´affettuosa e paterna amicizia tra il capo del governo e la minorenne è stata testimoniata dall´ex-fidanzato della ragazza, confermato da una zia di Noemi, fissato nell´autunno del 2008.
Contro questi "punti fermi", che lasciano il premier nudo con le sue bugie, si è scatenata una manovra utile a scomporre, ricomporre e confondere i fatti in un caleidoscopio mediatico di immagini false dove l´arma è la menzogna e gli armigeri sono i giornalisti stipendiati dal capo del governo, dimentichi di ogni deontologia professionale e trasformati in agenti provocatori; i corifei del leader, forti dell´immunità parlamentare e disposti a ogni calunnia. Buon´ultima Daniela Santanché che accetta di fare, nell´interesse del Capo, il lavoro sporco di diffamarne la moglie («ha un compagno»). Chiunque, in questo affare, abbia portato il suo granellino di verità viene ora sottoposto a un pubblico rito di degradazione fabbricato con un violento uso della menzogna.
Il primo assalto è toccato a Repubblica investita, dall´editore all´ultimo cronista che si è occupato del "caso", da un´onda di panzane. Prima il complotto politico (ma la polemica sulle veline è stata sollevata dal think tank di Gianfranco Fini). Poi la bubbola del pagamento del testimone (Gino Flaminio) che colloca la prima telefonata di Berlusconi a Noemi alla fine del 2008. L´accusa la grida in tv il ministro Bondi. Qualche giorno prima che un allegro commando di redattori del giornale della famiglia Berlusconi si scateni contro Flaminio allungandogli un paio di centoni «per l´incomodo» e realizzando la ridicola impresa di essere i soli a pagare l´ingenuo Gino. Che, anche se spaventato e intimorito, dice, ridice e conferma in tre occasioni di «non aver avuto un centesimo da Repubblica». Non è finita. Uguale trattamento viene inflitto al fotografo che ha immortalato, nell´aeroporto di Olbia, lo sbarco da un aereo di Stato delle ragazze (alcune, appaiono da lontano minorenni) invitate a allietare il fine settimana del presidente del consiglio. Infilato prima in una trappola dall´house organ di Casa Berlusconi, denunciato poi per truffa (improbabile reato) dall´avvocato del premier, la procura di Roma decide di sequestrare sia le immagini illegittime (scattate verso il patio di Villa Certosa) sia le foto legittime (raccolte in un luogo pubblico).
Siamo solo all´interludio perché il colpo finale, la menzogna usata come manganello punitivo, viene riservato alla prima e più autorevole testimone dell´instabilità psicofisica del premier e dei suoi giorni con le minorenni: Veronica Lario. Daniela Santanchè (non è un´amica della Lario, non frequenta la villa di Macherio) svela a Libero che «Veronica ha un compagno». E, se «Veronica ha un compagno», come possono essere attendibili i suoi rilievi al marito? Il cerchio ora è chiuso. Il pestaggio menzognero è completo, anche se non concluso. Ciascuno ha cominciato ad avere quel che si merita.
Questo spettacolo nero ha il suo significato politico. Berlusconi vuole insegnarci che, al di fuori della sua verità, non ce ne può essere un´altra. Vuole ricordarci che la memoria individuale e collettiva è a suo appannaggio, una sua proprietà, manipolabile a piacere. Si scorge nella "crisi di Casoria" un uso della menzogna come funzione distruttiva del potere che scongiura l´irruzione del reale e oscura i fatti. Si misura l´impiego dei media sotto controllo diretto o indiretto del premier come fabbrica di menzogne punitive di chi non si conforma (riflettano tutti coloro che ripetono che ormai il conflitto d´interesse è stato "assorbito" dal Paese). E´ il nuovo volto, finora nascosto, di un potere spietato. E´ il paradigma di una macchina politica che intimorisce. C´è ancora qualcuno che può pensare che questa sia la trama di un gossip e non la storia di un abuso di potere continuato, ora anche violento, e quindi una questione che scrolla la nostra democrazia?

Repubblica 1.6.09
Italia, cronaca di un paese senza
di Stefano Rodotà

Ricordate il titolo di un libro bello e premonitore di Alberto Arbasino, Un Paese senza? "Senza memoria, senza storia, senza passato, senza esperienza, senza grandezza, senza dignità", e via continuando. In questi anni il catalogo si è allungato in maniera inquietante, persino drammatica, e il Presidente del Consiglio, con una accelerazione impressionante negli ultimi mesi, ce la mette tutta nel dire quel che dobbiamo aspettarci.
Ecco, allora, un Paese senza Parlamento e senza magistratura (perché queste istituzioni saranno gusci vuoti se si realizzeranno i progetti tante volte annunciati). Un Paese senza eguaglianza e senza diritti fondamentali (perché questa è la deriva indicata dagli ultimi provvedimenti in materia di sicurezza). Un Paese senza rispetto per se stesso (perché è sbalorditivo che tutti i giornalisti rimangano disciplinatamente seduti quando, in una conferenza stampa, il Presidente del Consiglio intima a una loro collega "o via lei o via io"). Un Paese senza opinione pubblica, senza lavoro…
Ma vi è un "senza" che campeggia su tutti gli altri. Nell´articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell´uomo e del cittadino del 1789, uno dei testi fondativi della moderna democrazia, si legge: "Una società, nella quale non è assicurata la garanzia dei diritti e non è determinata la separazione dei poteri, non ha Costituzione". Quando il Presidente del Consiglio attacca frontalmente Parlamento e magistratura, quando cancella o rende labili i confini tra i diversi poteri dello Stato, quando pone la fiducia su provvedimenti lesivi di diritti fondamentali delle persone, il risultato è proprio quello deprecato dalla Dichiarazione del 1789. Un Paese senza Costituzione.
Con una mossa per lui abituale, Berlusconi ha accusato opposizione e stampa di aver falsificato le sue opinioni sulla riforma delle Camere. Ma quelle tre definizioni del Parlamento – pletorico, inutile, controproducente – gli sono sfuggite, vanno lette insieme e sono rivelatrici. Pletoriche le Camere lo sono certamente, ed è colpa non piccola della sinistra l´aver trascurato in passato i suggerimenti provenienti dal suo interno sulla riduzione del numero dei parlamentari, lasciando così incancrenirsi un problema che sarebbe poi finito nelle polemiche sulla "casta" e avrebbe alimentato l´antipolitica. Ma vi sono due modi per pensare e attuare questa riduzione. Avere meno parlamentari può rispondere all´obiettivo di avere un lavoro più serrato, di poter rendere più incisivi i controlli, attribuendo ai parlamentari poteri e risorse adeguati. Un Parlamento non indebolito dalla diminuzione dei suoi componenti, ma sostanzialmente rafforzato nelle sue prerogative.
Quando, però, la riduzione è invocata da chi ha detto di volere in Parlamento una pattuglia di competenti e una folla di docili gregari, che ha proposto di far votare solo i capigruppo, che pretende di avere le mani libere nella decretazione d´urgenza, emerge clamorosamente proprio l´immagine di una istituzione ritenuta inutile, che intralcia e ritarda, dunque controproducente. Quando Berlusconi richiama il numero di 100 parlamentari, riferendosi al Senato degli Stati Uniti (dimenticando, però, i 432 membri della Camera dei rappresentanti), parla di un modello dove il potere di quei cento è grandissimo, può bloccare anche iniziative essenziali del Presidente, si concreta in fortissime possibilità di controllo, è basato su risorse umane e finanziarie cospicue. Questo modello fa a pugni con la richiesta berlusconiana di maggiori poteri al Presidente del Consiglio, che eccede le esigenze di un´azione di governo più spedita, si concreta in una espropriazione di competenze del Parlamento e dello stesso Presidente della Repubblica, alterando così la forma di governo repubblicana.
Non a caso la riforma invocata da Berlusconi dovrebbe passare attraverso una ulteriore e radicale mortificazione del Parlamento. Non disegni di legge del governo, non iniziative di senatori e deputati dovrebbero contenere le ipotesi di riforma. Queste sarebbero affidate ad una proposta di legge di iniziativa popolare sulla quale raccogliere milioni di firme. Come sarebbe condotta la campagna per la raccolta delle firme? Dicendo che un Parlamento inetto e recalcitrante, incapace di riformarsi, deve essere obbligato a farlo dalla forza del popolo. Quali sarebbero gli effetti di questa scelta? La definitiva legittimazione del rapporto esclusivo tra Capo e Popolo. Berlusconi lo aveva già annunciato qualche tempo fa. Di fronte al rifiuto del Presidente della Repubblica di firmare il decreto riguardante Eluana Englaro, aveva reagito dicendo di avere il diritto di seguire la via della decretazione d´urgenza senza alcun controllo, aggiungendo proprio che avrebbe fatto modificare la Costituzione da parte dei cittadini. Un Paese senza democrazia, allora, perché questa assumerebbe le forme della democrazia plebiscitaria.
Proprio questa linea è stata ribadita dal Presidente del Consiglio quando, rivolgendosi non a caso all´assemblea degli industriali, ha detto che il suo governo funziona come un consiglio d´amministrazione. In questa affermazione, peraltro non nuova, non si manifesta soltanto una idea autocratica e aziendalistica della politica. Si ritrova una visione della società che si esprimeva senza mezzi termini nella vecchia formula "la democrazia si arresta alle porte dell´impresa". Considerato appunto come un´impresa con il suo consiglio d´amministrazione, il governo vede come inammissibile intralcio ogni forma di controllo. Da questa visione generale, e non da singoli episodi, nasce l´assalto al Parlamento, alla magistratura, al sistema dell´informazione, sul quale si esercita un potere di normalizzazione (vedi le nomine Rai) e al quale si rifiuta ogni risposta.
Che cosa dire di questa continua pulsione verso un Paese senza democrazia, alla quale il Capo sostituisce i suoi riti, i suoi fedelissimi, i suoi bagni di folla? Non credo che gli anticorpi democratici siano del tutto scomparsi, e per ciò ritengo indispensabile che i politici d´opposizione guardino con rispetto e attenzione non strumentale a tutti quei cittadini che non si rassegnano a esser parte di un Paese senza. Questo, nell´immediato, significa che si possono certo presentare proposte di riforma istituzionale, ma essendo ben consapevoli del quadro politico del quale fanno parte. La riduzione del numero dei parlamentari, ha senso se non si presenta come una imbarazzata risposta all´appello berlusconiano, ma come l´occasione per ridare al Parlamento il ruolo che ha perduto, senza cadere in trappole come la concessione di ingannevoli statuti dell´opposizione. Altrimenti, il cerchio si chiuderebbe davvero, con una opposizione destituita della sua permanente funzione democratica, legittimata solo a pensare a una possibile rivincita alle prossime elezioni, alla quale viene elargita solo qualche minima possibilità di emendamento.

l'Unità 1.6.09
Criminali in pectore
lo rivela un test
Malcom Klein, professore di sociologia, guida a Los Angeles un esperimento per la prevenzione del crimine tra gli adolescenti tra i 10 e i 15 anni
di Giuliano Capecelatro

Dal punto di vista investigativo, non sfugge al sospetto di una schedatura preventiva. Piccola piccola, forse, ma consistente. Perché il test, una settantina di domande, va a pescare tra adolescenti dai 10 ai 15 anni. Con l’obiettivo di far abboccare qualche criminale in pectore. Per tenerlo sotto controllo, monitorarlo, bloccarne se possibile le nefandezze sul nascere. Dal punto di vista logico ha tutta l’aria di una tautologia: chi delinque (o, postulato implicito, nuota in un ambiente criminogeno), anche a dieci anni, è un delinquente. E grazie al test ottiene una pre-iscrizione nell’albo professionale. Da oltre quarant’anni Malcom Klein, professore emerito di psicologia sociale, insegue il sogno di arginare la marea del crimine. Ora Los Angeles gliene offre il destro. Con altri ricercatori della University of Southern California faccia il suo test. Chieda a John e Mary se la violenza li attira. O come reagiscono se qualcuno gli fa le linguacce. E schiaffi i bambini in odor di crimine nel libro nero.
Los Angeles. Città degli angeli. E di una malavita agguerrita e intraprendente. Le statistiche ufficiali elencano ottocento gang che fanno il bello e il cattivo tempo nella contea. Forti di un esercito di ottantamila affiliati. Con solide ramificazioni anche al di là degli Stati Uniti. Nel vicino e tormentato Messico, ma anche nella lontana e in apparenza meno tribolata Europa.
Se gli omicidi sono calati di un buon 30% dal 2007, la rete criminale mantiene un controllo ferreo su ogni attività di qualche rilievo, dall’edilizia alle prigioni. La contea vara programmi di riabilitazione. Che inevitabilmente si rivelano dei flop. Però, al capitolo prevenzione del crimine, ci sono in ballo 24 milioni di dollari. E le autorità si augurano che i test forniscano indicazioni utili su come spenderli.Malcom Klein è uno che non si è fatto le ossa tra scartoffie e comode scrivanie. Ma nella più ardua e formativa delle università, la strada. Lì, con entusiasmo da missionario, agli albori degli anni Sessanta il giovane professore iniziò a studiare la materia in corpore vili e a gettare le fondamenta delle sue teorie. «Sedotto- racconta- dalle dinamiche di gruppo della vita nelle bande». Decenni di lavoro. Una montagna di dati. Qualche luogo comune abbattuto; sulle donne che eviterebbero di arruolarsi nelle gang, per esempio. Diligentemente, Klein ha stilato l’elenco di quelli che chiama «gruppi ausiliari femminili». E sui giovani l’esperienza gli ha insegnato che il potere di attrazione delle gang è meno forte di quanto ritenesse: anche nelle zone in cui la malavita la fa da padrona, sì e no un 15% di adolescenti sceglie di entrare in una banda.
Però… basta un niente. Una simpatia troppo spiccata per le droghe. Il piacere di menar le mani e angariare chi è più piccolo, più debole. Klein ha già fatto circolare un migliaio di test nelle zone più a rischio. Primo responso: per un terzo degli esaminati servono programmi di prevenzione. E, di domanda in domanda, il professore potrebbe trovare anche la risposta al quesito che più di altri lo tortura: sapere chi, in questo quarantennio, gli ha svaligiato nove volte la casa.

l'Unità 1.6.09
Israele sfida Obama:
le nostre colonie cresceranno
di Umberto De Giovannangeli

La sfida ad Obama. La guerra fratricida in Cisgiordania. A pochi giorni dall’atteso discorso al Cairo del presidente Usa (il 4 giugno), le notizie che giungono da Israele e dai Territori palestinesi non inducono all’ottimismo. Al governo israeliano Obama aveva chiesto un gesto concreto in favore del dialogo: il blocco della colonizzazione in Cisgiordania. La risposta è una porta chiusa.
«Voglio rendere chiaro che l’attuale governo non accetterà mai alcun congelamento degli insediamenti legali di Giudea e Samaria» (Cisgiordania), tuona più di tutti il ministro dei Trasporti, Yisrael Katz, esponente del Likud (il partito di Netanyahu): definendo «legali» (a differenza degli avamposti) quelle costruzioni autorizzate dai governi israeliani, che la comunità internazionale giudica viceversa illegittime al pari di tutte le colonie realizzate dal 1967 in poi. Katz ritiene in particolare «ingiusta» la richiesta americana di congelare i piani di ampliamento presentati da Israele come una risposta alla «crescita naturale» della popolazione delle colonie (forte già oggi di 280.000 persone solo in Cisgiordania, Gerusalemme est esclusa).
PORTE CHIUSE
D’accordo con lui, fra gli altri, il ministro-rabbino Daniel Hershkowitz, titolare del dicastero della Scienza e rappresentante del Focolare Ebraico (vicino al movimento dei coloni religiosi), il quale ha tacciato di «irragionevolezza» il rifiuto Usa di convenire sull''argomento della «crescita naturale». Accostando Obama niente meno che a un «faraone» reincarnato, deciso a «buttare nel Nilo» il popolo di Mosè.Netanyahu - archiviato ieri il secondo sgombero in pochi giorni di un micro avamposto - si è sentito a sua volta in dovere di precisare al gruppo parlamentare del Likud di non avere alcuna intenzione di «rimuovere comunità» intere. Nello staff del premier - scrive unanime la stampa, da Haaretz a Maariv - non mancano d'altronde inquietudini per la sequenza delle mosse di Obama: intenzionato, secondo indiscrezioni di provenienza britannica, a promuovere in ogni modo una svolta nel negoziato israelo-palestinese, verso la contrastata soluzione dei due Stati, già «entro due anni». Mosse che secondo un funzionario anonimo citato dai media hanno ormai indotto lo stesso Netanyahu a domandarsi se Washington non stia cercando di metterlo in difficoltà di proposito, nella speranza magari di far cadere il suo governo.
SANGUE IN CISGIORDANIA
L’altra notte agenti dell'Anp hanno bussato alla porta di una casa di due piani a Qalqilya (nord della Cisgiordania) per arrestare due attivisti di Hamas. Ma gli agenti vengono accolti con raffiche di armi automatiche che feriscono mortalmente tre poliziotti e costringono gli altri a ritirarsi in attesa di rinforzi. Inizia così una battaglia durata circa sette ore, a conclusione della quale, ieri mattina, sono stati uccisi Mohammed Samman, il più alto ufficiale di Hamas nell'area, il suo vice Moahmmed Yassin e il proprietario della casa. Secondo il portavoce della polizia di al Fatah, Adnan Damiri,gli assediati hanno ignorato ripetute esortazioni ad arrendersi e hanno continuato a far fuoco sulle forze dell'ordine. A suo dire la cellula distrutta aveva il compito di raccogliere informazioni sui servizi di sicurezza palestinesi e sulle loro basi per conto di Hamas al fine di preparare attacchi. «Se vogliamo costruire il nostro Stato dobbiamo fare in modo che vi sia una sola autorità col potere di far rispettare le leggi e di portare armi», sottolinea Nabil Abu Rudeina, portavoce del presidente Abu Mazen. «L’esempio di Hamas a Gaza non si ripeterà» avvertono fonti dell'Anp.
La reazione di Hamas non si fa attendere. L’accusa rivolta all'Anp e al Fatah è di aver «superato ogni linea rossa», ad Abu Mazen di essere colluso con «il nemico sionista». Lo si legge in una nota diffusa a Gaza dal portavoce Fawzi Barhum nella quale si sostiene che in queste condizioni il dialogo interpalestinese «non ha senso». «Ciò che è accaduto oggi a Qalqilya dimostra che la missione principale delle forze di sicurezza dell'Anp è complementare a quella del nemico sionista e mira a colpire la resistenza palestinese», afferma Barhum nella nota. «Vendicheremo i nostri martiri», minacciano le Brigate Ezzedin al Qassam, braccio armato di Hamas. «Romperemo il silenzio ogni volta che si verificheranno violazioni» allo status quo, replica al Fatah, ribaltando su Hamas l’accusa d'aver innescato un nuovo ciclo di violenze e di voler «sabotare il dialogo» interpalestinese promosso in questi mesi tra continui intoppi dall'Egitto.

Israele gela Barack Obama. La colonizzazione in Cisgiordania non si fermerà. Almeno non negli insediamenti «legali». In Cisgiordania è guerra tra al Fatah e Hamas: sei morti in uno scontro a fuoco a Qalqilya.

l'Unità 1.6.09
Il 31 maggio 1809 moriva il compositore che dette le ali a Mozart e Beethoven
Inseguiva l’eco del Paradiso perduto: il che, dal Romanticismo in poi, divenne un peccato
Joseph Haydn, il «Papa» che conquistò la borghesia
di Giordano Montecchi

Chi dice Haydn dice Mozart, e automaticamente condanna il primo a un gradino più basso. Non è giusto, ma così in genere va il mondo: Dante col suo Petrarca, Bach col suo Händel, Coppi col suo Bartali. Se poi sfogliamo certi polverosi manuali di storia della musica ecco venirci incontro Haydn, Mozart e Beethoven, la trimurti del classicismo viennese, dove a Haydn tocca il ruolo del precursore che prepara il terreno e apre la strada al trionfo del genio e della perfezione insuperabili. Haydn: il padre della sinfonia e della forma sonata, l’eminenza grigia che ha dato idealmente le ali a Wolfgang e Ludwig, i due supereroi destinati a surclassarlo nelle spietate classifiche della storia, rubandogli il favore dei posteri e oscurandone in gran parte la fisionomia.
Gli anniversari, queste rimembranze a orologeria, hanno sempre in sé qualcosa di sottilmente ipocrita. Ma la mediocrazia non perdona, lo show globale rotola inesorabile come uno schiacciasassi e allora, spesso, un anniversario diventa l’unico salvagente cui aggrapparsi per salvare certi artisti da un’indifferenza e da un oblio che sentiamo profondamente ingiusti.
Haydn morì il 31 maggio 1809 a Vienna. Senza la rotondità del numero, 200 anni da allora, un’intera pagina su di lui sarebbe stata impensabile, così come il florilegio di manifestazioni in suo onore nel 2009. Papa Haydn, come già lo chiamavano, aveva allora 77 anni: un grande vecchio che tutta l’Europa musicale ammirava e venerava come l’artefice di una nuova epoca e di un nuovo stile e che però si preparava a ridimensionarlo nella prospettiva di uno storicismo che lo avrebbe trasformato nel «prologo» dell’età della musica per antonomasia: il Classicismo.
UN ROMANTICO DEL PARADISO
Ci sono moltissime buone ragioni per ricordarci di Haydn e della sua musica così incantevole nella sua tornitura e nei suoi guizzi, nella naturalezza di un eloquio che più nessuno mai ha potuto eguagliare, neppure i suoi «figli d’arte» i quali, forti della sua lezione, hanno spinto la musica agli estremi del sublime e dell’abisso. Se diamo retta a un celebre scritto di E.T.A. Hoffmann pubblicato nel 1813, Haydn «concepisce romanticamente ciò che vi è di umano nella vita umana; è più commensurabile, più comprensibile per il pubblico». Mozart invece «si rivolge a ciò che di sovrumano, di meraviglioso vi è nell’intimo dello spirito», mentre Beethoven «muove la leva del terrore, (...)del dolore, e suscita appunto quel desiderio nostalgico e infinito che è l’essenza del romanticismo». In altre parole, dopo Haydn è come se la musica avesse conosciuto un nuovo peccato originale, perdendo l’innocenza e la pienezza del sentirsi in armonia col proprio tempo e coi propri simili.
In un’epoca ferita e drogata dal romanticismo e dai suoi postumi, Haydn è risuonato troppo rose e fiori, come l’eco di un paradiso perduto (e guarda caso fu proprio The Lost Paradise di Milton a ispirargli l’oratorio Die Schöpfung, «la creazione», gigantesco capolavoro dei suoi ultimi anni). Ma riascoltarlo oggi: i suoi quartetti davanti ai quali tutti si sono inginocchiati, le sue sinfonie così miracolose nel condurci per mano, e senza mai un passo falso, dal tono più severo e meditativo alla vitalità più irresistibile e screanzata, mentre una timbrica nuova sboccia, ancora vergine e rugiadosa. Per trent’anni Haydn fu al servizio di una delle più potenti e musicofile casate dell’Impero, i principi di Eszterházy. Sgobbò, sperimentò, trionfò e a poco a poco la sua fama si sparse in tutta Europa. Finché nel 1791 e poi ancora nel 1794 lo vollero a Londra per comporre e dirigere le sue entusiasmanti sinfonie di fronte al pubblico più emancipato del pianeta. Haydn andò, annusò quel pubblico e lo mandò in visibilio con 12 abbaglianti sinfonie. Avrebbe voluto con sé il suo migliore amico, quel Wolfgang Amadeus che da lui molto aveva imparato e che a sua volta molto gli aveva insegnato. Ma Mozart, del quale Haydn non cessava di tessere le lodi come il più grande compositore vivente, non andò e poco dopo morì, solo e dimenticato.
FINE DELLA PENITENZA
Anche per questo Haydn è unico. In molti hanno appreso la sua lingua, spingendola verso esiti che egli stesso non avrebbe potuto concepire. Ma nessuno ha potuto godere la sua condizione di chi, smessa la livrea dell’artista di corte, può avventurarsi nel nuovo mondo della borghesia e degli affari mietendovi successi e allori ancor più eclatanti: incarnazione perfetta e scintillante di ciò che di meglio l’Illuminismo poteva augurarsi. Dopo aver deliziato il principe, Haydn l’illuminista colse al volo il momento magico in cui sembrò che il rapporto col nuovo pubblico borghese sarebbe stato ancora migliore. Non fu così. L’800 e i suoi eredi elaborarono l’arte della sofferenza e via via Haydn impallidì nel ricordo. Ma oggi che la misura è stracolma, riascoltare Haydn è come mettere fine alla penitenza.

domenica 31 maggio 2009

l’Unità 31.5.09
Affare di Stato. Il premier ottiene il sequestro delle foto a Villa Certosa: cosa ha da nascondere?
Topless ed effusioni. Centinaia di ragazze nella reggia
Il reporter indagato: contattato dalla segretaria del premier
Gioco sporco
di Concita De Gregorio


Niccolò "Mavalà" Ghedini, avvocato personale del premier e dunque deputato, detta la linea difensiva e stuoli di suoi assistenti - spesso parimenti deputati - eseguono solerti. I giornali di famiglia si incaricano del lavoro sporco: picchiano, insinuano. La strategia è questa: screditare personalmente i «testimoni d'accusa», infangarne la reputazione. Non entrare nel merito delle circostanze provate ma distruggere le prove: siano intercettazioni telefoniche (con una legge, addirittura, se serve) o fotografie: ci sono dirigenti Rai che procacciano ragazze «per il morale del Capo»?. Illegittimo diffondere i testi, al macero. Ci sono foto che mostrano il premier con decine di ragazze giovanissime a seno nudo in altalena? Violata la privacy, sequestrate le foto. Fingiamo per un momento che non siano enormemente più importanti il processo Mills, All Iberian, la corruzione eletta da trent'anni a sistema. Parliamo solo di quest'ultimo inconveniente senile. Siamo di fronte da mesi, forse da anni - un crescendo peggiorato con l'età - ad un premier che sistematicamente usa il suo enorme potere economico e politico per procacciarsi, tra molti altri benefici privati, ragazze a decine di cui circondarsi nelle festicciole a palazzo. Tutti lo sanno, i protagonisti di questa esibizione di grandeur da basso impero sono migliaia. Ogni ragazza ha un'amica, che ha un fidanzato, che ha un amico. Le foto sui cellulari circolano senza controllo. Le ragazze sono sempre più giovani: crisalidi sul punto di diventare farfalle. Per prima Veronica Lario, la moglie, ha detto: è un uomo che non sta bene, frequenta minorenni, figure di vergini che si offrono al drago. Libero l'ha messa in prima pagina a seno nudo, foto di scena giovanili, col titolo «Velina ingrata». Nessuno dei figli ha reso in quell’occasione dichiarazioni pubbliche. L'ex fidanzato della ex minorenne Noemi ha rivelato la data dell'avvento nella sua vita di Silvio Berlusconi: 2008.
Gli avvocati e i giornali del premier lo hanno aggredito personalmente senza mai smentirlo: ha precedenti penali, si è fatto pagare. Dal testo si evince che Repubblica non l'ha pagato, Novella 2000 ha smentito, il Giornale gli ha dato 500 euro. L'unico ad aver pagato è dunque finora il Giornale. Il fotografo sardo che custodisce centinaia di scatti di ragazzine in villa è da ieri indagato, le foto sotto sequestro. Non avendo altro a cui attaccarsi Libero ha titolato ieri in prima pagina «Pure Concita al servizio del Cavaliere». L'argomento è che pubblico libri con Mondadori. La prima casa editrice di questo paese, come Einaudi, esistevano prima di Berlusconi e gli sopravviveranno. Ho un rapporto personale con Cristina Mondadori da quando, negli anni Ottanta, vinsi la prima edizione del premio giornalistico intitolato a suo marito Mario Formenton: fu quella borsa di studio a portarmi nei più grandi giornali europei e poi a Repubblica dove ho lavorato vent'anni. Con Cristina Mondadori ho condiviso il lavoro per una fondazione dedicata ai bambini affetti da malattie congenite, vicende personali ci accomunano. I proventi dei miei libri vanno ad associazioni che di questo si occupano. Sono vicende personali, queste sì. Provo un poco di imbarazzo per i colleghi che con tanta leggerezza le sollevano senza sapere cosa toccano. Mi scuso di aver abusato di questo spazio per rispondere, non accadrà più.

l’Unità 31.5.09
Silvio da Casoria, l’educatore
I misteri mai voluti chiarire sul rapporto con una neodiciottenne, gli attacchi ai giudici e la semplice domanda del leader Pd
di Furio Colombo


Basta elencare alcuni fatti - nessuno enorme, tutti esemplari - accaduti lo stesso giorno, rivederli sui giornali e le notizie tv del giorno dopo, per capire la strana, misteriosa avventura che stiamo vivendo.
Primo fatto: il Presidente del Consiglio va alla Assemblea della Confesercenti e dichiara: «Se vuoi fare il male o fai il delinquente, o fai il giornalista o fai il magistrato». Solo i magistrati hanno protestato. Secondo fatto: «In un carruggio di Genova un giovane anarchico, tale Juan Antonio Sorrache Fernandez ha urlato contro il ministro La Russa una raffica di insulti prima di essere bloccato dagli uomini della scorta» (La Repubblica, 29 maggio). Episodio sgradevole su cui il generoso ministro della Difesa ha sorriso. Ma non il suo guardaspalle, il corpulento senatore della Repubblica Giorgio Bornacin. Ha atteso che il giovane scalmanato spagnolo fosse tenuto ben fermo dalla scorta e solo in quel momento gli ha sferrato un pugno al volto. Il TG3, Linea Notte, 28 maggio, ha mostrato con chiarezza il gesto di coraggio del senatore extra-large di cui il ministro La Russa dispone. Terzo fatto: «Einaudi non pubblica Il Quaderno il nuovo libro del premio Nobel José Saramago. «L‘opera contiene giudizi a dir poco trancianti su Silvio Berlusconi che di Einaudi è il proprietario» (Il Corriere della Sera 29 maggio). Qui c’è anche anche una nitida ridefinizione dell’editore. Non conta il Nobel. Conta il proprietario. Altrimenti come avrebbero potuto pubblicare, in America, la copiosa produzione di libri contro Kennedy, contro Clinton, contro Carter, contro Reagan, contro Bush, padre e figlio? Quarto fatto: il segretario del Partito democratico Dario Franceschini rivolge ai suoi ascoltatori, durante un incontro elettorale a Genova, questa domanda: «Fareste educare i vostri figli da Berlusconi?». È utile dire che domanda di Franceschini segue di pochi giorni l’improvvisa apparizione di Berlusconi alla festa di una diciottenne bella e sconosciuta (al resto degli italiani) circondata da decine di amiche e coetanee. Segue un regalo alla giovane debuttante, acquistato per migliaia di euro da orafo di reputazione internazionale; segue una serie innumerevole di affermazioni solenni e di solenni smentite; segue la perplessità di tutta Europa, stampa e politica, sul legame, la origine del legame, il rapporto tuttora immerso nel mistero fra Berlusconi e famiglia Letizia, in particolare con il padre della fortunata diciottenne. Però è un fatto che la festa ha avuto luogo a un tiro di schioppo dall’inceneritore di Acerra, festosamente inaugurato, con presidio di Forze armate, poche settimane prima dal premier.
Per allargare il quadro a beneficio dei posteri è bene ricordare che la domanda di Franceschini segue di pochi giorni una motivata sentenza del Tribunale di Milano (primo grado) che definisce più volte Berlusconi Silvio, padre e padrone di mezza Italia, «corruttore». Segue di pochi giorni una accorata lettera della consorte divorzianda Veronica Lario. Dice «frequenta minorenni» Supplica: «Aiutatelo come si aiuta qualcuno che non sta bene». Berlusconi Silvio, l’educatore. A questo punto, dite la verità: è difficile che un italiano, per quanto di destra, decida di far educare i suoi figli da uno che, di notte, deve improvvisamente recarsi a Casoria. Da uno che risponde alla sgradevole sentenza di Milano con attacchi violenti alla magistratura. Da uno che non tollera neppure la mite stampa italiana e la mette in lista fra i delinquenti; da uno che non risponde a dieci semplici elementari domande di Repubblica se non con il giuramento di non aver fatto nulla di «piccante» (notare il gergo da vecchio cabaret); da uno che la stampa del mondo definisce «un pericolo» e «una minaccia»; da uno di cui l’opinione americana diffida a causa degli intimi legami di affari con la Libia e con Putin, due ambienti dove gli oppositori e i giornalisti fastidiosi si eliminano.
Ma il leader giura sulla testa dei figli (un bel pericolo!). E i figli, rispondono sia al legame di affetto sia a quello, innegabilmente forte, di azienda. Di fronte al padre-azienda, l’Italia - ci dicono - si commuove. Che cosa accade allora? Accade che la sottosegretaria Roccella offra i suoi figli al presidente di Casoria (senza rivelare, però, che sono già grandini). E il resto dell’opinione pubblica, tutta la destra, tutta la stampa, un bel po’ di sinistra e Pd, accusano Franceschini di delitto contro la famiglia (Berlusconi).
Ma lui, tutto solo e accusato da ogni singolo editoriale di ogni singola libera testata, intendeva mettere in guardia la famiglia Italia. Perciò ripetete con lui la frase che vale la pena di fare bandiera elettorale: «Fareste educare i vostri figli da Silvio Berlusconi?».

l’Unità 31.5.09
Generazione sms
Quelle affollate solitudini dell’era cyber-liquida: l’Altro è solo un clic
L’instabilità affettiva: una nuova «condizione umana»
di Clara Sereni


Liquido. È diventato - il termine «lanciato» dal filosofo Bauman - ormai una categoria. Incertezza, paura, precarietà delle situazioni, delle condizioni e delle relazioni. In particolare si legano tra di loro concetti quali il consumismo alla creazione di rifiuti «umani», la globalizzazione all’industria della «paura», lo smantellamento delle sicurezze ad una vita appunto «liquida» sempre più frenetica e costretta ad adeguarsi alle attitudini del «gruppo» per non sentirsi esclusa, e così via. Anche perchè la solitudine genera insicurezza, ma altrettanto fa la relazione sentimentale. La capacità quindi di interrompere - di «disconnettersi» dice la Sereni - ciascuno dei rapporti interpersonali con un semplice gesto rappresenta dunque una vera e propria -nuova - condizione umana.
Mio suocero era padrone di tante storie. Storie di un’infanzia povera e abbandonata nelle campagne affamate del Molise, storie di avventure rocambolesche da camionista durante la guerra, storie della vita da prestigiatore che, per un certo tempo, aveva fiancheggiato la sua attività prevalente. Mio suocero faceva il taxista, e risiedeva nell’abitacolo non grande della sua automobile il serbatoio più ricco – numericamente e tematicamente – delle sue storie. Perché correndo a tavoletta verso un ospedale o al commissariato, oppure bloccate con lui dentro un ingorgo, le persone non di rado gli raccontavano di sé ragioni addotte e torti subiti, sofferenze e – più raramente – sprazzi di felicità. Parlavano di giornali letti, dei prezzi in aumento, di politica. Con la libertà di discorso che appartiene a chi pensa che mai più incontrerà la persona con cui sta parlando, a cui sta rivelando di sé anche qualcosa di intimo. Con la stessa libertà e per le stesse ragioni mio suocero dava consigli e esprimeva i propri pareri senza remore, discutendo talvolta anche animatamente: e se per i contrasti emersi la mancia non c’era pazienza, aveva detto comunque la sua. Si erano scambiate delle opinioni. Si portava a casa, con la storia, un’esperienza. Per non oscurare quei colloqui scelse di non essere mai radio-taxi, pur rinunciando così ad una parte di guadagni. Mio suocero è morto sedici anni fa, non un secolo. Eppure penso che da lì a qui ci sia stata una mutazione antropologica, qualcosa di cui forse non siamo ancora del tutto consapevoli, e che pure cambia radicalmente il quadro dentro cui ci muoviamo.
Una prima modifica, ormai evidentissima. Anche chi di noi è nato prima dei microchips, trovandosi dentro un taxi (un autobus, un treno) per affanno o felicità, trasferimento di piacere o urgenza, dopo aver dichiarato la destinazione con chi gli è compagno di tragitto non parla più: manda Sms e/o parla al cellulare con qualcun altro. Parlano al cellulare le coppie che camminano per mano, una con una persona e l’altro con un’altra, e mandano Sms. La linea può cadere perché c’è una galleria o perché la facciamo cadere noi, per interrompere un discorso che non ci piace. E gli SMS sono fatti apposta per rispondere soltanto quando vogliamo farlo, come le telefonate: sul display vediamo chi ci sta chiamando, e decidiamo se sottrarci o no. Attraverso i cellulari passano litigate e insulti di gente di ogni età, ma passa raramente il conflitto vero, quello che ti obbliga a costruire dialetticamente nuovi ponti per incontrare l’Altro, e non semplici passerelle temporanee, pronte a crollare al primo soffio di vento.
Pensavo a tutto questo quando ho preso in mano, con colpevole ritardo, Amore liquido, di Zigmunt Bauman (Laterza, 2006), secondo il quale le relazioni, i rapporti interpersonali, hanno oggi le stesse caratteristiche della Rete per un verso, e dei centri commerciali dall’altro. La Rete, perché non si decide più la fatica di una relazione, preferendo il più agevole meccanismo connessione-disconnessione: rispetto al quale siamo noi, solo noi a decidere. Possiamo rivelare di noi gli aspetti più intimi ed oscuri, certi che qualcuno ci ascolti ma altrettanto certi che, mai si verificasse un conflitto, basterà premere quit, e tutto si fermerà. I centri commerciali, perché lì scatta la ricerca compulsiva del prodotto più conveniente, più competitivo: dal punto di vista del prezzo, ma anche della qualità presunta o reale, dell’esclusività e dell’essere cool, dell’invidia o della considerazione che il possesso di quell’oggetto può generare nelle persone che si frequentano. A questo si aggiunge il meccanismo per cui molti di noi, se non proprio tutti, non acquistano più un nuovo prodotto perché il precedente si è rotto, o consumato, o comunque non funziona più: lo si compra perché è l’ultimo modello, e ogni altro che lo preceda si percepisce ormai come superato, inutile. Qualcosa di cui vergognarsi anche un po’, o che comunque non fa sentire “all’altezza”: di un modello di sviluppo che ti spinge a desiderare sempre di più, ed anche a non affidarti ad un solo prodotto, legandoti troppo al quale potresti perderti chissà quali mirabolanti occasioni.
Le grandi occasioni: come in un centro commerciale si consumano relazioni e amori, da non approfondire mai troppo (e da disconnettere opportunamente) per non perderne altre e migliori, per lasciare la porta sempre aperta al principe azzurro o alla principessa rosa che verrà, per non lasciarsi scappare contatti che potrebbero essere utili nei più svariati campi. Una escalation del desiderio insoddisfatto, che contribuisce in maniera rilevante a renderci isolati, individualisti, fragili, frustrati. Manovrabili da chi conosce le regole del gioco. Utilizzabili da leader che si propongono come testimonial di un prodotto, e non come costruttori di politiche.
Ho riassunto in maniera probabilmente maldestra i contenuti ben più ricchi del libro di Bauman, che vi fotografa però, a mio parere, quella che ho definito mutazione antropologica. Che ci riguarda tutti, anche chi non ha mai frequentato una chat o un social-network. E certo concerne anche chi usa la posta elettronica, quella che (come ha scritto Beppe Sebaste) garantisce insieme il massimo di distanza e il massimo di vicinanza, induce a tirar fuori cose di sé che altrimenti non si direbbero perché fare i conti con le proprie e altrui emozioni non è mai obbligatorio: chi dovesse indagarle si può sempre non rispondere, oppure mandare una faccina e chiuderla lì.
Certo non sono ancora scomparse del tutto le relazioni vere, i rapporti dotati di senso: ma siamo sulla buona strada. Forse si può dire che Internet ha atomizzato le anime più dell’atomica vera, quella di Nagasaki e Hiroshima: in fondo, ai tempi dell’equilibrio del terrore c’era più aggregazione, più obiettivi condivisi, e perfino meno guerre, di oggi.
Se si accetta questo punto di vista sulla trasformazione, appare ovvio come uno come Berlusconi vi si muova come un pesce nell’acqua: maestro nello stimolare speranze senza mai soddisfarle, che lascia ogni volta baluginare la speranza-certezza di un’altra occasione. Migliore, più appetibile: l’ultimo modello. Non più la carota per far marciare l’asino, ma il premio che spetta al vincitore di turno, quale che sia la posta in gioco, e chiunque abbia, di quel gioco, le carte in mano. Come si fa, a tornare a parlare con l’autista del taxi e con il compagno di viaggio? Come si fa a rischiare nuove relazioni vere e non virtuali, ad affrontare il conflitto della crescita resistendo alla tentazione di disconnettersi? Come si fa a parlare con i più giovani, a trasmettere la memoria e le esperienze, senza farsi travolgere dall’informazione spezzettata e disorganica, ma percepita come totale, di Youtube? Come si fa a smettere di inseguire l’ultimo modello di leader, e affrontare la fatica (e il conflitto, di nuovo) di costruire un modo diverso di fare politica? Le risposte non le porterà una cicogna, e sotto i cavoli è inutile cercare. Ma credo che di queste risposte ci sia bisogno: per sconfiggere Berlusconi, e per sconfiggere soprattutto il Berlusconi che, con radici ben insediate, cresce e si allarga dentro di noi.

l’Unità 31.5.09
Esibizione di muscoli
Il paese degli uomini veri
di Dijana Pavlovic


L’Espresso riporta la cronaca del Capodanno 2007 a Villa Certosa, con il nostro premier e i suoi ospiti circondati da 50 ragazze portate con aerei privati, diaria milionaria (in lire), gioielli, mancetta (sempre di milioni in lire) per lo shopping. Quello che mi rattrista di più non è la “faccia tosta” di un personaggio pubblico che pure messo allo scoperto delle sue menzogne, non mette in discussione il suo comportamento, anzi ci fa su battute, figurarsi se pensa alle dimissioni come accadrebbe in qualsiasi paese civile, ma il ritorno di una cultura maschilista per la quale chi “si fa” le ragazzine è un “uomo vero”. Non c’è dubbio, questo Paese sta diventando il paese degli “uomini duri e puri”, pronti a mostraci i muscoli e altro: come dimenticare il Bossi del «chi ce l’ha più duro»? Che poi questa virilità sia oramai solo virtuale viste le disavventure chirurgiche del premier e del leghista non conta. Quello che conta è dimostrare che è venuto il tempo dei “maschi”. E la campagna elettorale è ricca di queste esternazioni. Con stile “virile” all’anniversario della Polizia, il ministro Maroni ha chiuso il suo intervento così: per la sicurezza ora c’è «un binomio perfetto, Maroni e Manganelli», cioè lui e il capo della polizia.
Come ai bei tempi del Ventennio la politica si fa con battute da osteria, con ostentazione di forza e si rispolvera lo stile littorio. Se le organizzazioni e i giornali internazionali esprimono la loro preoccupazione per la deriva razzista e autoritaria, sono vigliacchi e criminali, come l’ONU che si ostina a difendere e proteggere le vite umane e il diritto di esistere dei migranti che non conta «un fico secco», come ci ha detto un altro uomo vero, il ministro La Russa, mentre Maroni garantisce che «noi tireremo dritto» perché «la sicurezza ora è garantita»; o asserviti alla sinistra come i giornali della “perfida Albione”. Così i muscoli e i toni truculenti nascondono tutti i nostri mali e le nostre insicurezze, PIL a picco, fabbriche che chiudono, operai in cassa integrazione, ceto medio sulla soglia della povertà, giovani senza futuro, la miseria culturale per cui entrare in Parlamento o fare la velina è la stessa cosa, un razzismo oramai pratica quotidiana nella violenza contro i diversi.
E questa nuova Italia, governata da un corruttore, come in ogni regime che si rispetti, sarà controllata da delatori che spiano i clandestini e da ronde di uomini veri, magari gli stessi che non muovono un dito se assistono a un’aggressione, ma poi sono pronti al linciaggio quando non corrono rischi. C’è qualcosa di diverso in questa viltà dall’azione del ministro alla Cattiveria che infierisce contro gli inermi, siano essi immigrati o rom?

l’Unità 31.5.09
Non siamo a Topolinia
di Maria Novella Oppo


L’avvocato Ghedini, quando studiava all’università, certo non immaginava che sarebbe diventato uno degli sfondi fissi delle peggiori notizie dei tg. Così è apparso ieri, mentre veniva data (in fretta e furia) la notizia del sequestro di foto dell’ormai mitico capodanno a Villa Certosa. Quello al quale partecipava la piccola Noemi, senza genitori, ma insieme a decine di altre ragazze. Le foto sono state fatte sequestrare in nome del rispetto della privacy di Berlusconi, nonché di un capo di Stato straniero, che faceva parte dell’allegra comitiva, a quanto pare allietata pure da ragazze in topless. Il capo di Stato è l’allora primo ministro ceco Topolanek, ma, come si può intuire dalle foto «piccanti», non siamo a Topolinia. Siamo in piena Berlusconia, l’unico paese al mondo in cui il premier controlla tv e giornali. Uno, anzi, diretto da quel Maurizio Belpietro che poche sere fa si è violentemente ribellato a sentirsi definire dipendente di Berlusconi. E ne aveva ben d’onde.

l’Unità 31.5.09
I sondaggi, e non solo. Cresce il rischio astensionismo
di Marco Mongiello


Le istituzioni europee rilanciano con una campagna che ha coinvolto anche il network Mtv. Sono i giovani il punto di debolezza: nel 2004 ha votato solo il 40 per cento degli elettori tra i 18 e i 24 anni.

Il conto alla rovescia per le elezioni europee è iniziato e a Bruxelles si attende con il fiato sospeso il fatidico momento in cui, la sera di domenica 7 giugno, arriveranno i risultati. Ma non sono quelli sui partiti a preoccupare, il numeretto che rischia di provocare un terremoto politico è quello dell'astensionismo.
L'ultimo dato di Eurobarometro a marzo è allarmante: solo il 34% degli europei avrebbe l'intenzione di andare alle urne, il 19% è sicuro che non andrà. Le premesse del resto non lasciano tranquilli: dalle prime elezioni dirette dell'Europarlamento, nel 1979, alle ultime del 2004 il tasso di partecipazione dei cittadini è andato diminuendo in maniera costante, passando dal dal 63% del 1979 al 45,6% di cinque anni fa. Un paradosso se si pensa che nello stesso arco temporale il Parlamento europeo è andato via via accrescendo i propri poteri e il numero dei propri membri in seguito all'allargamento dell'Ue.
Dal 2005 il mondo della politica europea vive una sindrome da stress post-traumatico dopo la bocciatura della Costituzione da parte di Francia e Olanda. Un trauma risvegliato dal “no” al Trattato di Lisbona al referendum irlandese nel 2008. Quando si va a fare i conti con i cittadini insomma le sofisticate architetture politiche dell'Unione europea rischiano di rivelarsi un castello di carte.
Ben il 53% degli intervistati si è detto “non interessato” alle elezioni europee e il 62% non conosce la data delle votazioni. Tra i Paesi euroscettici, dove è più alta la percentuale delle persone che non hanno intenzione di votare, c'è la Gran Bretagna, insieme come Lettonia, Bulgaria, Polonia e Slovacchia. In Italia invece la partecipazione alle elezioni, comprese quelle europee, è storicamente tra le più alte, anche se pure da noi il trend è al ribasso, dall'84,9% del '79 al 73,1% del 2004. In ogni caso, hanno rassicurato gli analisti di Eurobarometro i dati non riflettono il tasso di partecipazione effettivo perché interviste sono state fatte tra gennaio e febbraio. Troppo lontani dalla campagna elettorale.
Secondo il presidente del Parlamento europeo, il tedesco Hans-Gert Poettering, il problema è che «c'è una percezione totalmente sbagliata del Parlamento europeo» e «la situazione in Italia non è diversa da quella degli altri Paesi». Ma la verità in Italia, ha spiegato il capodelegazione del Pd all'Europarlamento, Gianni Pittella, «è che la campagna elettorale viene sottratta a qualsiasi dibattito sui temi europei».
La campagna elettorale
Dalle rilevazioni di inizio anno comunque le istituzioni europee si sono mobilitate con una campagna da 18 milioni di euro che ha coinvolto anche il popolare network televisivo musicale Mtv per cercare di portare alle urne i giovani. Alle elezioni del 2004 la fascia di elettori tra i 18 e i 24 anni che è andata a votare è stata appena del 40%.
L'ultimo sondaggio condotto dalla Tns Opinion per conto dell'Assemblea di Strasburgo e pubblicato qualche giorno fa indica che qualcosa si sta muovendo. Il 43% dei cittadini, intervistati nel periodo tra il 4 e il 15 maggio, si è detto certo di andare a votare ed un ulteriore 6% ha indicato che «probabilmente» voterà. La percentuale di quelli già sicuri di non andare alle urne è invece scesa dal 19% di inizio anno al 12%. Ma quest'ultimo sondaggio non ha precedenti e non può essere confrontato con i risultati delle elezioni precedenti. Per il verdetto finale bisognerà aspettare il 7 sera.

Repubblica 31.5.09
Vent’anni dopo
Le ali spezzate del sogno cinese
di Sandro Viola


Nelle ore tra il 3 e il 4 giugno 1989, i carri armati attaccarono i giovani che da settimane occupavano piazza Tienanmen chiedendo una svolta democratica. I morti furono centinaia Ecco, per la prima volta, la testimonianza dell´allora leader sovietico che, trovandosi nella capitale per una storica visita di Stato, fu spettatore e interlocutore della rivolta
Il potere comunista era parso al collasso: aveva proclamato la legge marziale ma la protesta continuava come prima Alla fine prevalse l´ala conservatrice e Deng Xiaoping diede l´ordine dell´assalto

Nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989 i leader comunisti cinesi soffocarono nel sangue la protesta giovanile I ricordi di un inviato a Pechino e quelli di Mikhail Gorbaciov che fu testimone eccellente della rivolta

Nella notte tra il 20 e il 21 maggio 1989 la Trentottesima armata ebbe l´ordine di marciare verso il centro di Pechino. Ma oltrepassate le periferie, quando già s´avvicinavano al centro, i convogli dell´esercito si trovarono davanti un muro di folla. Sin dall´alba, tutte le strade che portano al viale della Pace celeste e alla piazza Tienanmen erano infatti ostruite da decine di migliaia di manifestanti che innalzavano striscioni e cartelli di protesta contro il governo e il Partito comunista. I blindati e i camion militari s´erano quindi dovuti arrestare, e i soldati ne erano discesi alla ricerca dei pochi ritagli d´ombra dove ripararsi dal gran caldo. Così, attorno alle dieci del mattino, l´atmosfera era ormai quella caotica, sfiduciata, d´un 8 settembre.
La truppa seduta sui marciapiedi, gli ufficiali ai telefoni per chiedere ordini che non arrivavano, la catena di comando dell´Esercito popolare cinese (che all´epoca contava due milioni e mezzo di uomini) evidentemente saltata.
Il giorno precedente, per bocca del primo ministro Li Peng, il governo aveva proclamato la legge marziale. Proibizione di manifestare, coprifuoco. Ma era stato come parlare al vento, non agli abitanti di Pechino. Tutto era infatti rimasto com´era ormai da quasi due settimane: la piazza Tienanmen occupata da molte migliaia di studenti, e intorno alla Tienanmen - il cuore del Potere - centinaia di migliaia di dimostranti, in certe ore un milione, affluiti da ogni punto della capitale. E tutto questo senza alcuna reazione da parte delle autorità.
La sensazione più diffusa era quindi quella d´uno stupefacente, impressionante vuoto di potere. Il governo, e soprattutto il Politburo del partito, sembravano dissolti. Dalla piazza Tienanmen si levava il fetore degli escrementi accumulatisi tra il mausoleo di Mao Zedong, il monumento ai caduti e il palazzo dell´Assemblea del popolo, nei giorni dell´occupazione condotta dagli studenti. E quel fetore costituiva un´onta atroce per la dignità d´un regime che aveva dominato sulla Cina, temuto, indiscusso, negli ultimi quattro decenni. Un´onta, e l´annuncio della sconfitta. Perché il regime sembrava ormai non essere più in grado di reagire alla rivolta studentesca e all´appoggio massiccio che era venuto alla rivolta dagli abitanti della capitale.
Comincio da qui, dall´incredibile giornata del 21 maggio 1989, la rievocazione della "primavera di Pechino", perché fu quel giorno che il comunismo parve anche in Cina sull´orlo del collasso. Già liquidato in Polonia e ormai boccheggiante in Russia, nei sei-sette mesi successivi il comunismo sarebbe caduto in Ungheria, nella Germania dell´Est, in Cecoslovacchia, in Bulgaria, in Romania, e un po´ più tardi in Albania. Quei regimi vacillavano infatti da tempo, sempre più debilitati dalle penurie che imponevano alle popolazioni e dall´assoluto discredito che circondava i loro gruppi dirigenti. Ma la Cina era diversa. Un decennio di riforme economiche, una crescita del Pil che superava il 10 per cento annuo, un benessere ormai diffuso nelle aree urbane, e soprattutto un apparato del potere ancora ferreo nel totale controllo della società, sembravano aver messo il comunismo cinese al riparo da ogni brutta sorpresa.
Invece, improvvisa, inaspettata e travolgente, giunse la scossa più lunga, più ampia e profonda di tutte quelle che s´erano già prodotte, e si sarebbero ancora prodotte durante l´anno, nell´universo comunista. Tutto era iniziato verso la fine d´aprile, quando gli studenti delle due università di Pechino erano scesi a migliaia nelle strade del centro per commemorare la morte di Hu Yaobang, l´ex segretario del partito estromesso a causa delle sue tendenze liberaleggianti. Ma fu il 13 maggio che gli studenti occuparono la piazza Tienanmen. Due giorni dopo sarebbe dovuto infatti arrivare Mikhail Gorbaciov, e a Pechino c´erano centinaia di giornalisti stranieri giunti ad assistere alla riconciliazione (in realtà una Canossa sovietica) russo-cinese. I manifestanti, e coloro che ai vertici del partito avevano deciso d´appoggiare la protesta, sapevano quindi che quei giornalisti e telecamere costituivano una sorta di trincea che il governo e il Politburo avrebbero evitato d´attaccare. Un migliaio di studenti s´accamparono così nella piazza, e più di cento tra loro iniziarono uno sciopero della fame subito attorniati da una folla enorme.
La visita di Gorbaciov ebbe aspetti da film comico. Le cerimonie solenni che avrebbero dovuto aver luogo nel palazzo dell´Assemblea del Popolo, il cui ingresso è appunto sulla Tienanmen, vennero cancellate dal programma. La comitiva sovietica entrava e usciva da ingressi laterali, protetta da interi plotoni delle forze di sicurezza, e la conferenza stampa finale di Gorbaciov dovette svolgersi nella palazzina dove i sovietici erano stati messi ad abitare, e alla quale giunsero, avvertiti in ritardo, bloccati dalla marea di folla che occupava le strade, pochissimi giornalisti.
Partita per Shanghai la delegazione sovietica, la situazione precipitò. Di primissimo mattino, da est e ovest del viale della Pace celeste, confluivano fiumi di pechinesi che andavano ad addensarsi nei pressi della piazza. Ormai, il tragitto dal mio albergo alla Tienanmen, che ancora il 10-11 maggio percorrevo in venti minuti d´automobile, prendeva tre ore. Era intanto divenuto sempre più chiaro che dietro agli studenti ci fosse una fazione del partito, dato che migliaia di manifestanti giungevano a bordo di camion e bus: e in Cina, a quel tempo, camion e bus non potevano circolare se non con l´autorizzazione d´una qualche autorità.
Nella piazza, dalla massa studentesca era emersa nel frattempo una leadership: i Wan Dang, i Wue Kaixi, i Cen Zuang, che parlavano con i giornalisti stranieri, componevano gli slogan contro il nepotismo e la corruzione dei dirigenti, organizzavano i servizi, per così dire, dell´occupazione. Passaggi liberi per le ambulanze, tende per i giovani che facevano lo sciopero della fame, piccoli complessi rock per tenere alto il morale.
Ma il vertice comunista, che sembrava scomparso, era in realtà ormai pronto a reagire. Zhao Zhiyang, il segretario del partito favorevole ad un dialogo con gli studenti, venne dimesso. Attorno a Deng Xiaoping e al primo ministro Li Peng, che avevano deciso l´azione di forza, si strinsero i vecchi conservatori, Chen Yun, Peng Zhen, Hu Qiaomu, Deng Liqun, i vegliardi che due anni prima, al XIII congresso del partito, avevamo visto giungere alla tribuna incespicanti, sorretti ai due lati dalle infermiere. Durato quasi un mese, lo stallo nel Politburo era a questo punto superato. Si trattava solo di scegliere il momento in cui, come aveva detto Deng, si sarebbero fatte «rotolare le teste».
Il 25 maggio ci fu l´ultimo, terribile insulto lanciato contro il potere comunista. Nel pomeriggio ero sulla Tienanmen, quando da un lato della piazza, quello dinanzi all´ingresso della Città proibita, si levò un coro di esclamazioni spaventate. Sulla gigantografia del volto di Mao che pendeva (e ancora pende) sulla porta della Pace celeste, erano stati scaraventati numerosi barattoli di vernice nera, gialla, rossa, e la faccia del Grande Timoniere appariva imbrattata, profanata come nessun cinese avrebbe mai immaginato di vedere.
Intanto la Trentottesima armata, che non era riuscita a superare il muro della folla per raggiungere il centro di Pechino, era stata sostituita dalla Ventisettesima. Una grossa parte degli studenti sentirono che il dramma era ormai incombente, e lasciarono la Tienanmen. Attorno alla Dea della democrazia, una sagoma femminile in gesso e cartapesta che i manifestanti avevano costruito ispirandosi alla statua della Libertà, rimasero 1.000-1.500 giovani. Almeno trecento dei quali, quando nella notte tra il 3 e il 4 giugno la Ventisettesima attaccò la piazza, vennero trucidati dalle raffiche dei mitragliatori.

Repubblica 31.5.09
Gorbaciov racconta quei giorni a Pechino
di Fiammetta Cucurnia


ROMA. «Sì, io c´ero. Ero a Pechino in quei giorni gravi. Non potrò mai dimenticare il dolore che leggevo sul volto di Zhao Ziyang, né le facce stanche e gli occhi pieni di speranza degli studenti che mi venivano vicino, sorridenti, e dicevano "perestrojka, perestrojka". Era il loro modo di chiedere aiuto, ma io non potevo fare nulla». Vent´anni dopo, per la prima volta, Mikhail Gorbaciov racconta i retroscena del suo viaggio a Pechino, tra il 15 e il 17 maggio del 1989: l´importanza di quella sua visita dopo tanti anni di rivalità tra i due giganti comunisti; il silenzio dei dirigenti cinesi; i suoi contatti con i giovani che proprio dalle sue riforme avevano tratto coraggio e ora speravano fortissimamente nel suo aiuto; il suo dolore per l´epilogo tragico.
Mikhail Sergeevic, con quale stato d´animo affrontò il viaggio a Pechino? «Si trattava, per noi, di un viaggio storico. Dovevamo chiudere la lunga parentesi di ostilità tra Russia e Cina, durata oltre trent´anni. Lo volevamo noi, a Mosca. E lo volevano anche i nostri amici cinesi. Non esistevano due persone più adatte ad affrontare questo nodo di Gorbaciov e Deng Xiaoping. Così cominciammo le consultazioni».
All´epoca gli esperti dicevano che uno dei problemi più gravi era quello del regolamento delle frontiere.
«Ma figuriamoci. Sapete quanto erano lunghe le frontiere tra Urss e Cina? Mezzo mondo. Piccole scaramucce qua e là potevano sempre essere ricomposte. Decidemmo a pié pari di scorporare quel problema: troppo complesso, ne avremmo parlato in seguito. Ma poiché anche i cinesi erano molto interessati, trovare l´accordo fu gioco facile. Ci furono molte consultazioni. A un certo punto, durante un viaggio di Stato, Li Peng fece scalo a Mosca per rifornire il suo aereo, e ci incontrammo. Fu un colloquio lungo, in cui parlammo di tutto: lui conosceva benissimo il russo, perché aveva studiato da noi. Ricordo che mi disse: "Compagno Gorbaciov, la Cina però non accetterà mai di fare il fratello minore". "Ma come sarebbe possibile", gli risposi io "che un Paese cresciuto ormai oltre il miliardo di cittadini possa fare il nostro fratello minore?". Alla fine fu stabilita una data, 16 e 17 maggio 1989. In quel momento nessuno poteva immaginare quel che sarebbe accaduto in quei giorni».
Quando cominciarono ad arrivare le prime notizie delle manifestazioni di Pechino, come reagirono i membri del Politburo?
«Le prime notizie parlavano, sì, di manifestazioni di massa, però sembrava tutto di dimensioni contenute. Ci consultammo tra di noi, nel Politburo, e decidemmo che non era il caso di rinviare la visita. Non era possibile ipotizzare quello che avrei trovato al mio arrivo: io arrivai nel momento più duro della rivolta».
Che misure presero i dirigenti cinesi per evitare imbarazzi?
«Il programma ufficiale fu mantenuto. Noi stavamo all´interno del Palazzo del popolo, col Politburo. Facevamo le nostre trattative, ci servivano la colazione, ci riunivamo per il pranzo. E intanto, in quelle stesse ore, fuori della finestra c´era il finimondo. In piazza c´era la Cina. Centinaia di migliaia di persone, non solo studenti, chiedevano un incontro. Speravano che Gorbaciov, arrivato da Mosca con la sua perestrojka, potesse influire sulle decisioni del governo. Ma io non potevo».
Non ne parlò con i leader cinesi?
«Ero molto colpito. Molto solidale. Ma ero in Cina per una visita ufficiale, di Stato, ed è del tutto evidente che non potevo intervenire. Dovevano decidere i dirigenti cinesi. I problemi erano arrivati a un punto da non poter più essere ignorati».
Proprio Repubblica, in quei giorni, scrisse che in città circolava il racconto dell´auto di Gorbaciov bloccata, mentre correva nel quartiere Jing Song, dagli operai che cercavano Li Peng. Nella leggenda pechinese, che però non ha mai trovato riscontro, lei scende subito a parlare col popolo, interroga e risponde alle domande, stringe le mani sorridendo e prima di andarsene distribuisce caramelle.
«È vero che incontrai i ragazzi. Un giorno, mentre ci muovevamo in macchina scortati dalla polizia, ho visto un gruppo di studenti e operai. Erano riusciti ad avvicinarsi tanto che l´auto fu costretta a fermarsi. Io aprii subito la portiera e uscii fuori. Erano molto affettuosi. Sorridenti. Avevano i visi stanchi, gli occhi rossi. Capii che volevano spiegarmi il perché della loro protesta, che erano lì per la democrazia, la libertà. «Perestrojka», dicevano. Ma io ho cercato di non approfondire. Mi rendevo perfettamente conto della delicatezza della situazione. E anche delle difficoltà della dirigenza cinese. Avevo ricevuto moltissime lettere, commoventi, dagli studenti. Lettere e biglietti che ancora conservo».
Ma se la città era invasa dalla folla, come mai lei la incrociò una sola volta?
«Evidentemente, il governo cinese voleva ridurre al minimo i contatti. Un giorno, mentre ci portavano in macchina al Palazzo, mi resi conto che eravamo finiti in periferia. Un percorso alternativo, fuori mano. Ma noi abbiamo chiuso gli occhi, lasciando che fossero loro a decidere. Dietro tutto questo c´era il supremo interesse del mio Paese di ristabilire le relazioni bilaterali. Di questa normalizzazione avevamo bisogno noi, ne aveva bisogno la Cina e, io dico, ne aveva bisogno il mondo. Non abbiamo però potuto tacere del tutto. Fui costretto a dire, durante la conferenza stampa, di sperare e di essere certo che i leader cinesi sarebbero riusciti a trovare in sé la saggezza per fare la scelta migliore».
Si fa fatica ad immaginare che in quella situazione così drammatica, con la piazza in subbuglio, tutto il mondo con gli occhi puntati, essendo evidente che lei non poteva ignorare ciò che stava accadendo, nessuno dei dirigenti cinesi abbia voluto dire nulla.
«Ci accolsero nel migliore dei modi, con immenso calore, amicizia. Certo, erano ben coscienti del fatto che noi non solo sapevamo tutto, ma continuavamo a ricevere richieste di aiuto dalla piazza. Tuttavia direttamente, durante i colloqui, non dissero mai niente. Non potrò mai dimenticare Zhao Ziyang. La sofferenza si leggeva sul suo viso. Il giorno in cui ci accolse in qualità di segretario del Partito comunista cinese non riusciva a nascondere il peso insostenibile che aveva nel cuore. Sembrava che potesse avere un infarto da un momento all´altro. Il colloquio durò ore e ore, forse cinque, se non ricordo male. Bevemmo insieme litri di vodka. Non so se abbia avuto la tentazione di aprirsi di più. Disse solo che c´erano dei problemi da risolvere. No, è chiaro: non volevano coinvolgerci direttamente».
Cosa pensò quando seppe che Zhao era stato rimosso e emarginato, dopo aver cercato di evitare il bagno di sangue?
«Pensai che non era la decisione migliore. Ma stiamo parlando della Cina. All´interno della classe dirigente in quei giorni ci fu uno scontro. Poi Deng accolse il punto di vista di Li Peng».
Si disse che la dirigenza cinese temeva un "effetto Gorbaciov".
«È possibile. Ma ci tennero a dimostrarmi grande amicizia. Subito dopo Pechino, andammo per tre giorni a Shanghai. Il sindaco allora era Jang Zemin. Ci portarono a vedere le prime zone economiche speciali. Pranzammo insieme, lui cantava le canzoni russe e io gli facevo il controcanto. Anche lui parlava bene russo, aveva studiato da noi in gioventù».
Qualcuno scrisse che la tragedia della Tienanmen fu in qualche modo un monito per lei, che mai volle usare la forza in Russia.
«No, questo è falso. C´erano state già molte situazioni simili da noi. Rivolte nazionali e dispute territoriali. Io avevo già fatto la mia scelta».
Secondo lei fu la rivolta cinese a dare il via ai sommovimenti del 1989, che finì col crollo del Muro di Berlino?
«Io credo che, sì, tutto cominciò quell´anno, con la perestrojka che iniziava a segnare la svolta e la decisione di creare a Mosca un vero Parlamento espresso attraverso vere elezioni. Fu una scossa che fece tremare il mondo e poi si fermò nel punto di partenza, due anni dopo, col crollo dell´Urss».

Liberazione 31.5.09, pagine prima 2 e 3
Conversazione con Pietro Ingrao su elezioni, politica, compiti della sinistra
«Voto comunista nel modo più chiaro e più netto che oggi in Italia mi è dato»
Intervista di Dino Greco - Cosimo Rossi

«Forse sbaglio, devo capire meglio: ma il cammino della mia vita e però anche tante lotte che ho vissuto intensamente insieme con Fausto mi sembra che seguivano visioni del mondo diverse dal tanto peggio tanto meglio . E mi interrogo su quale è il mutamento in campo che chiama Fausto a questi nuovi pensieri". Un sorriso spontaneo si allarga in volto a mitigare le parole di Pietro Ingrao, di quei sorrisi paterni che esprimono un'incredulità piena di benevolenza, come sono anche il suo affetto e l'attuale dissenso nei confronti di Fausto Bertinotti e delle sue notazioni (in una intervista all' Unità del 7 maggio scorso) a proposito della necessità di far "tabula rasa" della sinistra, cosicché possa rinascere "come una fenice" dalle proprie ceneri. Una provocazione, ma tutt'altro che astratta. E men che meno improbabile.
Domando a Ingrao che pensa.
Voglio riflettere. Fausto evoca questioni di prospettiva e di teoria ardue, di grande portata. Io non ho sicurezze sui fondamenti dei temi che solleva. Avrei da porgli domande, forse anche su nodi teorici. Ma sento qualcosa che mi chiama altrove: come se non avessi tempo. Fra giorni l'Europa va al voto e tante cose intorno a noi ci dicono come la prova sia pesante.
Temi che ci sia indifferenza sul voto?
Temo che molti non abbiano chiari la portata di questo voto e lo stato delle cose in cui avviene.
C'è una crisi dell'economia mondiale che qualcuno paragona a quella fatale del 1929. E l'Italia è fra i paesi più esposti: questa Italia che a capo del governo ha oggi un conservatore, per non dire un reazionario di sette cotte. Non mi turbano le sue relazioni con la giovinetta Noemi, che mi sembrano così melanconiche, persino patetiche. Mi spaventa il deficit di iniziativa, l'arretratezza del suo sguardo di fronte all'incalzare della crisi mondiale. Questo è il Berlusconi che nuoce alla nazione, e che tuttavia porta a casa un mucchio debordante di voti. Tale è oggi la situazione drammatica del potere pubblico in Italia, da cui vengono le mie ansie.
Primo punto: temo l'assenza dal voto, l'astensione. Mai come in questa ora difficile abbiamo bisogno che votino in tanti, e che votino bene. E non solo perchè dobbiamo dare un colpo a questo governo conservatore oggi così ampiamente maggioritario nel Paese, ma perchè oggi - ora assai più di ieri - abbiamo necessità di un peso e di un volto nuovo dell'Italia in Europa
Abbiamo bisogno di un voto italiano che incroci nel nuovo Parlamento europeo le correnti progressiste, capaci di leggere il capitalismo mondiale che ora abbiamo dinanzi, nella dubbia e oscillante fase che esso attraversa. E qui l'oggi ha bisogno di un sapere antagonista che sappia intendere i nuovi terremoti che segnano l'Occidente, l'Asia e l'Africa. Provincialismi non ci sono più permessi.
Berlusconi è un piccolo reazionario di fronte a queste enormi scadenze. Scopre adesso - meno male! - che il Parlamento italiano è pletorico. E che iniziativa ha preso - da premier! - per snellirlo e articolarlo? E sa dare una lettura moderna e attiva del sindacato e del conflitto di classe? E se non fa questo di che futuro parla?
Ma a te pare che ci sia oggi nell'opposizione antiberlusconiana una sinistra coesa e anche audace nella costruzione di una alternativa?
Io vedo un lavoro grande che ci sta dinanzi, e sento aspramente il peso della divisione con cui la sinistra di classe va al voto.
Ricordo però come eravamo divisi - e persino lontani - quando - a metà degli anni Trenta - cominciammo a costruire lo schieramento e l'unità della Resistenza. Eppure reggemmo alla prova. Inventammo - nella differenza - linguaggi e istituzioni comuni e anche cittadinanze comuni, fratellanze...
Per le nuove prove di oggi servono come il pane pari ardimento: e prima di tutto c'è bisogno di un'avanguardia che ridia fiato alla lotta di classe nel suo senso più largo, prima di tutto nei luoghi di lavoro, nella sede cruciale e diretta dello scontro di classe: e insieme nelle sedi in cui maturano l'immaginario, il simbolico, che sono diventate oggi molto più penetranti: nel simbolico e nel politico e negli intrichi quotidiani che ne sgorgano.
Il voto significa però anche marcatura delle differenze.
Sì, e tuttavia io ho ancora una forte paura dello sparpagliamento degli elettori e soprattutto temo che una frantumazione condanni la sinistra a una drammatica esclusione dal nuovo parlamento europeo. Non so come si possa affrontare la questione senza generare inutili inasprimenti dal momento che ormai talune scelte son fatte.
E tuttavia mi chiedo: come possiamo dire e raccomandare che bisogna assolutamente evitare conflitti penosi nella sinistra o uno sparpagliamento infecondo o addirittura l'assenza?
Non sto chiedendo impossibili unanimismi. Sottolineo due obbiettivi essenziali, primari: un voto contro Berlusconi, e poi spero, mi auguro, un voto di sinistra. Io dichiaro la mia preferenza per Rifondazione, la forza che a sinistra mi sembra più solida in campo. Perchè non credo possibile ricominciare un lavoro di riunificazione della sinistra che di essa faccia a meno.
E io voto comunista nel modo più chiaro e più netto che oggi in Italia mi è dato. Lo scrivo già prima di quel mio ritiro nella cabina elettorale. Lo discuto nelle sale, nelle piazze, nelle case, poiché senza tale confronto aperto di identità non c'è costruzione di volontà pubblica.
Fatto sta che la disapprovazione del popolo di sinistra nei riguardi della classe politica sovente non si trasforma in impegno per riappropriarsi della politica, bensì in rinuncia…
E difatti dobbiamo rilanciare una grande, orgogliosa campagna che chiami alla scesa in campo, alla partecipazione, alla politica attiva.
Consentimi un ricordo. Ho viva nella memoria una data, la tragica estate del 1940, dopo che i tedeschi avevano invaso Belgio e Olanda volti a Parigi per quella tragica e trionfale sfilata Champs Elisées. E il 10 giugno Mussolini aveva annunciato la dichiarazione di guerra a fianco dei nazi dal balcone di Palazzo Venezia.
Ricordo come fosse oggi la domanda che in quei giorni tragici pulsava ostinata nella mia mente: "Che faccio?". Poi dentro di me maturò quella risposta dura ed elementare "Non ci sto". Nel senso che si sta dentro la lotta. Non ci si ritira dalla prova..
Tu ricordi catastrofi, conflitti, che hanno incendiato il globo. Qualunque paragone è certamente inappropriato. Ma cominciamo ugualmente di qui, per sottolineare quali sono, a tuo avviso, gli snodi cruciali della vicenda della sinistra italiana…
Penso al mio tempo. Sono nato nel 1915, quando l'imperialismo approdava all'epoca delle grandi guerre mondiali. Prima fu la dura lotta di trincea del triennio 1915 1918. Poi - alla fine dei torbidi anni Trenta - fu lo scatenarsi del nazismo nel mondo e la risposta straordinaria della Resistenza, questo nome che qualcuno ora vorrebbe cancellare e che ebbe un'espressione così ardita e ricca d'invenzione anche in Italia. Il comunismo italiano ne fu attore cruciale: nei suoi volti molteplici in termini di soggetto politico, soggetto sindacale, classe dirigente, movimenti di idee, vicende della cultura. Quella è stata un'Italia vigorosa, forte, ricca...
Ed è stata, appunto, il paese che ha visto affermarsi il più grande partito comunista occidentale. Di dove traevano origine la vitalità e la forza della sinistra e del Pci in particolare?
Quella forza rossa, di sinistra, per come l'ho conosciuta io e l'abbiamo conosciuta tutti viva e attiva nel mondo, aveva due gambe.
La prima era la capacità di incidere nel concreto del vissuto quotidiano: il suo legame con la storia del pane che si portava a casa. Qualcosa di costruito con grande fatica e concretezza, che si esprimeva attraverso la lotta sociale e l'iniziativa politica, e la presenza articolata non solo - e prima di tutto - nel luogo di lavoro, ma anche - e fitto - nel territorio, nelle contrade, nelle città, nei borghi.
L'altra gamba era la convinzione d'essere parte di una dimensione non solo nazionale ma addirittura mondiale della battaglia: e d'essere portatori di una visione generale del mondo, d'una ideologia. Il sindacato, la sezione, il circolo, il municipio - come li ho conosciuti io - erano tutti luoghi molto segnati da questa articolazione e da questa complessità che intrecciava la lotta immediata di ogni giorno alla convinzione di rivoltare il mondo.
Ma ora si sono sgretolate anche l'articolazione locale e del tessuto di rappresentanza, quel radicamento delle organizzazioni di massa, del partito, attraverso cui i bisogni immediati si allacciavano con la strategia generale, dalla fabbrica al quartiere, dalla scuola al municipio...
Appunto: la presenza articolata del soggetto liberatorio. Per fare un esempio: ricordo come fu ricca, multipla l'iniziativa dei sindaci delle città rosse; e come erano presenti nella vita quotidiana a risolvere problemi del qui e ora , e come intrecciavano le questioni del lavoro con le altre dimensioni dell'agire di ogni giorno.
Allora, in quella esperienza voi vi trovaste di fronte la Chiesa di Roma, al suo massimo livello. E non era vostra amica. Come agiste?
Cercammo testardamente il dialogo. Nonostante la scomunica. E riuscimmo a generarlo. Evoco un'esperienza personale. A Firenze esisteva un ramo di cattolicesimo avanzato, che aveva come guida e simbolo una figura come Giorgio La Pira. Con lui, con Ernesto Balducci vissi una ricerca confidente, schietta e sincera. Balducci giunse a fare parlare me, ateo dichiarato, dal pulpito della sua chiesa. E il mio dialogo con i cattolici - in altri giorni - proseguì con altri atei come la Rossanda, Tronti e altri in un convento sulla collina di Fano dove un monaco singolare invitava ogni anno a dialogare credenti e atei dichiarati: sulle cose del mondo. E potrei raccontarti ancora del mio dialogo con Dossetti, indimenticabile. Naturalmente c'erano alti prelati, come il cardinale Ottaviani, che erano anticomunisti feroci. Eppure anche con lui il compagno Franco Rodano dibatteva...
E poi, come si produsse una crisi di portata tale da condurre, oltre che al naufragio elettorale, al naufragio di un'esperienza invece così ricca e complessa?
Ci fu un passaggio storico che segnò l'inizio del cambiamento, ed è la sconfitta degli anni Ottanta, che vide la caduta del leninismo, il crollo dell'Urss, la sconfitta di Mao, e anche il tracollo di quei partiti che in qualche modo erano legati a quella storia. Attenti: noi comunisti italiani avevamo un nostro volto, ma discendevamo da quel corpo.
E la seconda metà del secolo fu complessa e sconvolgente. Prima ci furono le vicende straordinarie del Sessantotto e, ancor più in Italia, del Sessantanove.
Quell'anno in Italia la sinistra di classe - con Trentin e Carniti alla testa - toccò una vetta straordinaria. Ho ancora vivissimo il ricordo di cosa furono nell'Italia le lotte operaie: quelle - così innovative - del '69 che misero in ginocchio la Fiat e videro calare a Roma un corteo davvero infinito di tute blue alle soglie di una vittoria folgorante...
Dopo però venne l'inizio della sconfitta. La vivemmo anche nelle nostre roccaforti del Nord. Ma il crollo fu su scala internazionale.
E non fu solo la sconfitta dell'Urss, con l'avventura sciagurata dell'Afghanistan. Non resse più l'ipotesi leninista, che era stata la dottrina su cui si erano formate generazioni come la mia, illuminate da pionieri straordinari e originali del comunismo come Gramsci, Terracini, e poi Togliatti, l'uomo del compromesso di Salerno e del grande Partito Comunista di massa italiano...
E perché un comunismo italiano con queste radici e con quella dimensione di massa entra in crisi?
Perché vennero al pettine nodi su cui il leninismo e ancor più lo stalinismo e poi il maoismo, avevano dato una risposta che non resse alle prove della storia e che voleva una settaria concentrazione del potere al vertice. E intanto scattava la controffensiva conservatrice: Agnelli prende l'iniziativa, poi il binomio Reagan-Tatcher trionfa su tutti i piani.
Ma non ci sono anche delle cause endogene della crisi? L'articolazione territoriale che si prosciuga, la rappresentanza sociale che si sgretola mentre il lavoro si balcanizza, la sostanziale accettazione della moderazione salariale e del paradigma sviluppista mentre i contratti si precarizzano. Da questo punto di vista non sarebbe giusto osservare che la crisi della sinistra comincia anche prima degli anni Ottanta?
Sì. Ho detto che la crisi forte sgorgava dalle radici: il leninismo.
Lo so. È un grande tema. E io qui posso solo mettere qualche breve nome. E' l'idea leninista del soggetto che non regge alla prova della storia. La strategia della rivoluzione concentrata nel vertice di partito mobilitò masse straordinarie in Europa e nel mondo e le chiama a conquistare il comando in paesi sterminati. Ma non le rese compartecipi del governo, che restò nelle mani di un'élite straordinaria, ma pur sempre un'élite, che non regge alla luci e al passo inaudito del mondo. E allora crolla.
Ma anche il capitalismo insegue le sue crisi. Oggi è a una nuova prova. A partire dagli Stati uniti, stiamo assistendo a una dinamica davvero micidiale e brutale.
Prendiamo il caso Chrysler. Il padrone fallisce, interviene il manager di un altro grande gruppo come Marchionne e si mette d'accordo con Obama, l'azienda viene quindi rilevata a spese dei contribuenti americani e dei lavoratori, che ci mettono una barca di fondi pensione, per un totale pari al 55 per cento del patrimonio azionario.
Si potrebbe immaginare che di conseguenza si modifichi l'assetto sociale della proprietà. Invece non cambia nulla. Anzi: in un Cda di 9 persone ne entra una sola in rappresentanza del 55 per cento di azioni dei lavoratori, che in più cedono salario, rinunciano alle ferie e acconsentono a una moratoria sugli scioperi fino al 2015. Al che emerge in modo eclatante il rischio che la straordinaria crisi del capitalismo e del mercato non produca alcuno sbocco a sinistra, ma piuttosto porti a una gigantesca rivoluzione passiva che si risolva con una nuova razionalizzazione capitalistica.
Ma io non sono affatto convinto che ci sia un automatismo per cui, data la crisi del capitale, si realizza un avanzamento nella relazioni sociali e del movimento operaio. Non è assolutamente così. Nella mia vita ho già vissuto momenti di crisi economico-sociale profonda che si sono risolti con vittorie anche clamorose del capitalismo. Certamente è stato così nel primo dopoguerra in Italia, quando, attraverso lo scontro anche armato, si affermò la reazione bruta del fascismo, che spazzò via con la forza uno schieramento delle forze di sinistra che non era affatto poca cosa.
Se poi guardiamo agli anni Trenta troviamo dimostrazioni ancora più drammatiche. C'è la spaventosa crisi mondiale del '29. E, nel cuore d'Europa, la Germania esce da quelle crisi con lo scatenarsi del nazismo.
Mutatis mutandis, vedi in qualche misura delle analogie e dei paragoni possibili con la situazione attuale?
No. Non ci sono riproduzioni meccaniche. La rovina inaudita che hanno portato con sé il nazismo e il fascismo è un unicum. La differenza fra quella violenza nera e l'oggi pallido sono tuttora enormi.
E' vero, invece, che il determinarsi di una crisi della portata di quella cui stiamo assistendo non significa affatto che vi sia automaticamente una riscossa del mondo del lavoro. La partita, in questo senso, è tutta drammaticamente aperta.
Sennonché si gioca con l'handicap di una sconfitta storica ma ancora cogente della sinistra: l'avversario ha riconquistato non solo la fabbrica, ma i linguaggi, la concezione del mondo…
E anche i mezzi con cui le idee si esprimono. Pensiamo, per esempio, a che grande rivoluzione è stata la televisione. La grande invenzione della sinistra, in questo senso molto europea, era stata invece quella combinazione tra il soggetto del cambiamento globale e la capacità di farlo vivere nelle risultanze quotidiane. Oggi sono in crisi tutti e due i rapporti, tutti e due i linguaggi: quello per la narrazione della vicenda quotidiana e quello per la narrazione di un'idea della rivoluzione, della di trasformazione dell'organizzazione sociale. Da questo punto di vista la cosa che temo di più è la frantumazione della sinistra, cioè la perdita della sua capacità di ricondurre l'azione politica a un'idea e a una strategia mondiale del soggetto.
Il bisogno di riallacciare un discorso generale sulla trasformazione su cui insisti sconta l'annichilimento e la dispersione delle culture politiche della sinistra. E allora non credi che alla sinistra occorra, per così dire, prendere di sotto il sacco per rivoltarlo sul tavolo e affrontare i grandi temi ideali e culturali: pace, disarmo, libertà, differenza, uguaglianza, diritti, natura, produzione…; tutti quei filoni di ricerca e di impegno che in più delle volte invece la politica abbandona a se stessi o assume solo in modo episodico e utilitaristico, senza tesserli nella trama di una soggettività politica nuova?
Lo so. Lo abbiamo appreso dolorosamente, sia pur a tratti, e con dure mancanze. Se non diamo alla lotta questo fiato, questo respiro, non si riesce a intervenire nemmeno nell'immediatezza della lotta quotidiana, che pure ritengo così vitale. Se in Italia la sinistra ha avuto quella sua originalità e quella forza è stato perchè ho guardato alla terra natale e insieme ai rivolgimenti nel vasto e cangiante mondo.
Mi ricordo, ad esempio, cos'è stata in Italia nei nostri paesi la passione per la guerra - così lontana - in Vietnam.
Ricordo la reverenza con cui- in un mio viaggio in Vietnam- visitammo la casa di Ho Chi Min: il silenzio assorto con cui guardavamo quei nudi cimeli di una storia straordinaria: l'emozione senza parole su eventi pure così lontani e diversi da noi.
Allora in Italia la guerra in Vietnam giunse anche sulla bocca di un cantante popolare, Gianni Morandi, persino in quella Tv quasi tutta in mano ai conservatori...
Ancora il problema del 4 per cento, per concludere di dove si era cominciato. Con quel 4 per cento cosa dovrebbero fare Rifondazione e le altre forze riunite nella lista anticapitalista e comunista?
Superato il guado elettorale, devono iniziare un lavoro di riunificazione della sinistra: un progetto plurimo, ma che mantenga ricca e fertile la propria dimensione di soggetto politico. Che significa l'unità e la dialettica insieme: la democrazia come risorsa, non come fastidio.