mercoledì 3 giugno 2009

Repubblica 3.6.09
L’abuso di Stato
di Francesco Merlo


Questa volta è solo cafonaggine perché non ci può essere una giustificazione politica. Se è stata una concessione a Bossi, è stato comunque un gratuito sberleffo all´Italia istituzionale, fuori dai partiti e dalla politica, l´Italia vera. Si può infatti irridere all´avversario politico o magari anche all´alleato, ma Berlusconi durante la parata ha fatto le boccacce alla Repubblica che è la forma del paese, forma nel senso di Gestalt, dell´anima: la forma-sostanza di tutto. Davvero non c´entrano il torcicollo e la stanchezza.
Guardate le foto (nessuno stavolta le sequestrerà), guardate la mimica facciale, guardatelo mentre parodizza il saluto militare, con le labbra a pernacchia, il finto sorriso di dileggio. Sembra davvero il clown descritto dal Times.
La sola spiegazione, prima di addentrarci nella psicanalisi o nella geriatria, è che davvero abbia voluto strizzare l´occhio a Bossi che era assente perché lui, che è ministro delle Riforme, non vuole la res pubblica ma la res privata: ognuno con il suo territorio e uno sberleffo al due giugno che significa il referendum e i morti ammazzati, la guerra ma anche la rinascita di un paese che si riscatta da un passato bellicista. Il due giugno sono anche le forze armate che si posizionano nel cuore degli italiani dopo viltà e disfatte. Questa volta dunque non c´è più nulla di simpatico, la canzonatura è odiosa persino più dell´abuso che Berlusconi fa degli aerei di Stato. E bisogna dirglielo chiaramente, all´uomo che vuole piacere a tutti i costi: anche abusare degli aerei di Stato è odioso. Legalizzare un abuso infatti non cancella l´abuso ma anzi lo raddoppia.
E non perché Berlusconi ci fa viaggiare i suoi artisti e le sue star, la delicata voce bianca di Napoli e le bambole di Ibsen che nella politica estera italiana sono, con le battutine, con le pacche sulle spalle, con le barzellette e da ieri anche con le smorfie di scherno, ormai più importanti degli ambasciatori, delle strategie di investimento economico, del governo dei mercati, della flotta area e marittima, del controllo delle acque e dei cieli. Insomma, abbiamo ormai tutti capito che, nella modernissima rivoluzione berlusconiana, Mariano Apicella è il Bismarck del Kaiser.
Ma vogliamo dire che, nonostante questo prestigioso kaiseraggiamento, che ovviamente merita il dovuto rispetto istituzionale, malgrado insomma il suo alto e certificato rango, neppure Sua Eccellenza Apicella dovrebbe abusare dell´aereo di Stato. Sì, sappiamo tutto dell´ormai famosa "Direttiva del 25 luglio 2008 regolarmente registrata alla Corte dei conti" che autorizza a salire sugli aerei militari "personale estraneo alla delegazione" ma accreditato su indicazione e firma di Gianni Letta. Ma il punto è che un abuso che viene legalizzato non solo diventa un privilegio, intollerabile come tutti i privilegi, ma è ripugnante proprio perché il delitto è stato trasformato in diritto.
E sarebbe stato così anche se per, assurdo, Riccardo Muti, che non gode dell´alta onorificenza di Velina, nel luglio del 2007, anziché viaggiare su un volo di linea, fosse stato anche lui imballato, come una cassetta di spigole del generale Speciale, su un aereo di Stato e depositato al Quirinale per dirigere il requiem di Verdi per la pace, trasmesso in diretta nel martoriato Libano dove erano e sono impegnati i nostri soldati. Eppure di sicuro quel concerto poteva essere classificato tra le relazioni di politica internazionale.
Poiché ormai anche noi abbiamo imparato a conoscerlo, sappiamo che Berlusconi ci farebbe a questo punto notare che quella sua sensuale ballerina di flamenco, fotografata mentre scendeva dall´aereo presidenziale, pur non avendo certo i titoli di Muti, ha comunque almeno una laurea, come del resto le belle candidate Lara Comi, Barbara Matera e Licia Ronzulli. Insomma, che c´è di male nell´affidare la politica (estera) agli artisti qualificati? Al Quirinale la bacchetta di Muti, e a Villa Certosa il topolanek.
Certo, a Muti nessun agente dei servizi segreti in tuta mimetica fece provare il piacere della minicar, come accade alle ragazze di Villa Certosa. Sul Corriere di ieri Fiorenza Sarzanini ci ha raccontato che gli agenti in servizio durante queste feste politiche hanno anche le armi. Kalashnikov? Chissà che brividi! Tanto più che la legge che ha introdotto il nuovo galateo istituzionale, bene illustrato dalle foto sotto sequestro, non obbliga le ragazze a portare gli slip.
Berlusconi può davvero spacciare per politica estera queste sue fughe nella prepotenza di Stato e per rispetto istituzionale l´irresponsabilità di irridere al due giugno. E può darsi che sia vero che Berlusconi esprime l´anima di un Paese che non riesce a prendere sul serio neppure la sua tragica storia, e che le feste di Villa Certosa siano la versione berlusconiana degli antichi protocolli d´intesa e dei balli a corte. Ma non esistono leggi che possono cambiare la natura delle cose. Se per esempio a Berlusconi – nell´ambito di questa sua ruffiana politica estera – venisse in mente di invitare a Villa Certosa l´intero circo Togni, nessuna nuova disciplina d´urgenza firmata da Gianni Letta, renderebbe elastico l´acciaio permettendo ai servizi segreti e all´aeronautica militare di trasportare e ospitare a bordo gli elefanti e le giraffe. Ecco: l´acciaio rimane acciaio e l´abuso rimane abuso. Anzi, legalizzare l´abuso non solo non lo cancella ma, come dicevamo, lo raddoppia e lo rende odioso. E ci pare un codice, questo della prepotenza odiosamente visibile, che dovrebbe almeno impensierire un uomo come Berlusconi che punta tutto sull´amabilità. è un po´ come se a Roma il sindaco consentisse il posteggio in doppia fila, ma solo alla sua auto e a quella dei suoi amici: una pernacchia istituzionale. Come quella che il nostro presidente del Consiglio ha fatto ieri alla cerimonia nella quale la Repubblica ferma il tempo. Tutte le istituzioni, al fianco del capo dello Stato, sono i custodi e i sacerdoti della sola forma che le legittima: il due giugno è la festa del presidente del Consiglio. Com´è possibile che Berlusconi abbia canzonato se stesso? Berlusconi fa una pernacchia agli italiani ogni volta che legalmente abusa dell´aereo di Stato. Ieri l´ha fatta anche a se stesso.

Repubblica 3.6.09
Iniziativa di Open Democracy. I quesiti formulati dall’autore di un saggio sull’Italia
Dalla libertà di stampa a "papi" altre 10 domande da Londra
di Enrico Franceschini


LONDRA - L´idea di fare dieci domande a Silvio Berlusconi sta prendendo piede. "Altre dieci domande", per la precisione, dopo quelle che gli ha fatto Repubblica". E´ Open Democracy, un´organizzazione britannica che promuove il rispetto della democrazia e dei diritti umani, ad adottare la stessa iniziativa del nostro giornale, attraverso Geoff Andrews, italianista inglese, autore di un recente saggio sul nostro paese pubblicato sia nel Regno Unito che in Italia, "Un paese anormale", e frequente commentatore delle vicende di casa nostra. In una lettera aperta al presidente del Consiglio italiano sul sito dell´organizzazione (www.opendemocracy.net), Andrews nota innanzi tutto che sono passate "quasi tre settimane" dalla pubblicazione su Repubblica delle dieci domande "riguardo alla Sua relazione con Noemi Letizia". "Lei - aggiunge Andrews - ha scelto di non rispondere", con un atteggiamento che "ancora una volta solleva dubbi di interesse pubblico più ampio sul suo comportamento" come primo ministro. "Vorrei rivolgerle anch´io altre dieci domande", afferma lo studioso. Per esempio, "quale è il Suo concetto di stampa libera? Lei porrebbe condizioni alle critiche che la stampa può muovere al primo ministro?". E ancora: "Lei promise di risolvere il conflitto d´interessi entro 100 giorni dalla sua entrata in carica, eppure nulla è stato fatto. Questa situazione solleva ampie critiche in Europa. Perché non lo ha fatto? Non crede che il conflitto d´interessi presenti un problema per la democrazia italiana?". Terza domanda: "Lei ha descritto il parlamento italiano come ‘inutile´, suggerendo che basterebbero 100 parlamentari. E´ Sua opinione che il popolo italiano sarebbe felice di darle più potere per far funzionare le cose in modo più efficace?". La quarta domanda è sul paragone che Berlusconi ha fatto in passato tra il ruolo del governo e quello di un´impresa privata, affermando che considera gli imprenditori migliori dei legislatori: "Comprende la differenza fra un uomo d´affari di successo e uno statista di successo?". Una domanda è sulla sentenza secondo la quale Berlusconi ha corrotto l´avvocato inglese David Mills perché testimoniasse a suo favore: "Lei ha detto che riferirà in parlamento sulla questione ‘appena ne avrà il tempo´. Quando lo farà?". Seguono domande sulla sua intenzione di diventare presidente della Repubblica, sul G8 di questa estate, sulla candidature al parlamento europeo e sui risultati da lui conseguiti come premier. Fino all´ultima domanda: "Perché Noemi Letizia la chiama papi?".

Repubblica 3.6.09
Ludwig un genio fra i pazzi
Fratelli suicidi, sorelle isteriche un libro racconta la singolare parentela del filosofo viennese
Quando non erano in cura da qualche psichiatra, litigavano, in genere per l’eredità
Paul, il pianista, aveva perso il braccio destro in guerra. Era un fascista fanatico
di Siegmund Ginzberg


Qualche pazzo in famiglia ce l´hanno più o meno tutti. Io ne ho almeno una certificata, zia Dolcetta, che finì i suoi giorni all´Hopital de la paix, la clinica per "malattie nervose" – allora si diceva così – di Istanbul. Si raccontava che fu ricoverata dopo che aveva tentato di accoltellare la sorella Perla, la quale a suo turno una volta aveva accoltellato mio padre. Nella famiglia di Ludwig Wittgenstein "fuori dal normale", se non esattamente "fuori di testa" erano invece quasi tutti. Degli otto figli giunti in età adulta del magnate austriaco dell´acciaio Karl Wittgenstein, tre si suicidarono, due meditavano un giorno sì uno no di suicidio. Le loro tre sorelle erano perpetuamente sull´orlo di una crisi di nervi. Una restò zitella, due si sposarono con mariti che finirono pazzi, uno dei due suicida. Le crisi di nervi sono contagiose. Suicidi e follia si estendono a dismisura se nella conta si includono amici e altri parenti. Quando non erano in cura litigavano furiosamente tra loro. In genere per questioni di eredità. Ludwig, il filosofo, si era tirato fuori da ogni diatriba devolvendo la sua quota di eredità ai fratelli e andando a insegnare a Cambridge. Dove tutti lo giudicavano geniale ma un po´ matto, a cominciare dal suo protettore Bertrand Russell. Uno dei suoi allievi racconta che un giorno gli chiese a bruciapelo se gli fosse capitato di avere tragedie in famiglia. Abituato al rigore nell´uso delle parole, questi gli chiese di precisare meglio cosa intendesse per "tragedie". Ludwig Wittgenstein rispose: «Certo non la morte della nonna ottantacinquenne. Intendo: suicidi, follia, o liti».
Di queste vicende travagliate e complicate di casa Wittgenstein, racconta, con un filo di romanzato ma accuratezza di fonti, e soprattutto un lodevole ordine cronologico senza il quale il lettore sarebbe perduto, Alexander Waugh nel suo The House of Wittegenstein, sottotitolo A Family at War (l´edizione inglese, di Bloomsbury, risale al 2008, quella americana, fresca di stampa è di Doubleday). Qualche recensore l´ha bacchettato con l´argomento che nessuno è molto interessato alle vicende degli otto fratelli e sorelle di Immanuel Kant o a quelle dei sei di Soren Kierkegaard, anche se certo il suo pessimismo esistenziale doveva avere a che fare con la scomparsa prematura di cinque di loro. E soprattutto per il fatto che oltre che sui nonni, bisnonni, zii, cognati e cognate, e frequentazioni varie di casa Wittgenstein il libro si dilunga sugli "altri" Wittgenstein. In particolare sul fratello Paul, il bisbetico pianista "con un braccio solo", che tra tutti poteva sembrare il più logico predestinato al suicidio. La perdita di un braccio nella prima guerra mondiale pareva dover mettere fine alla sua carriera. Invece la proseguì anche nel secondo dopoguerra e finì coll´essere il più longevo dei maschi. A me invece questo rimprovero pare ingiusto. Un po´ perché del filosofo Ludwig la magistrale biografia di Ray Monk, Ludwig Wittgenstein: The Duty of Genius, del 1990, che viene ora ripubblicata da Bompiani in occasione del 120mo anniversario della nascita, aveva già detto quasi tutto. Un po´ perché, noblesse oblige, Alexander Waugh, nipote dello scrittore Evelyn, è di professione critico musicale e quindi ha comprensibilmente più attrazione per questo argomento che per quelli filosofici. Un po´ perché considero legittimo che di tanto in tanto, in una famiglia di geni, o almeno con un genio dominante, si riconsiderino quelli che di primo acchito apparivano i meno "interessanti": un tempo non avevo dubbi che i "grandi" della mia famiglia fossero zio Bernard, l´intellettuale, il grande agente di Stalin, e, in subordine zia Perla, la peccatrice che divenne una delle signore più ricche d´Europa, e invece ora mi viene il dubbio che potessero esserlo lo "stupidotto" di mio padre, che non combinò niente di eclatante, o addirittura la paranoica certificata zia Dolcetta.
In casa Wittgenstein erano tutti nati ricchissimi, o avevano accresciuto a dismisura la fortuna paterna come la "frigida" Gretel, ritratta da Gustav Klimt (il ritratto non le piacque, non lo appese mai) andata in sposa ad un ebreo americano che aveva cambiato nome nel britannico Stonborough e finì per spararsi come i cognati. Coprivano, come succede nelle migliori famiglie, quasi tutto l´arco delle simpatie politiche possibili del secolo, dalle simpatie comuniste di Ludwig al fascismo austriaco militante di Paul, che però mancò per poco una fine certa nei campi di sterminio hitleriani. Al pari delle sorelle, si erano scoperti a sorpresa ebrei patentati. Tre nonni ebrei su quattro e non si scappa, stabilivano le regole, e poco valsero le rimostranze per cui erano tutti convertiti da generazioni, gli sforzi per far passare il nonno Hermann Christian come figlio illegittimo di un nobile austriaco, per puro accidente allevato in una famiglia ebraica, a ottenere l´agognato meticciato. Dovettero pagare a carissimo prezzo la possibilità di emigrare dal Reich. Avevano tutti una insopportabile puzza al naso da indiscussa superiorità economica ed intellettuale (anche Ludwig, che pure francescanamente si era disvestito dei beni di famiglia per fare il professore negli austeri college britannici). Ma soprattutto avevano una tenace, insopprimibile voglia di infelicità (ammesso che quelli fossero tempi in cui era possibile essere felici).
Il fratello maggiore, Hans, aveva lasciato l´impresa familiare per tentare fortuna da solo, come aveva del resto fatto suo padre, ed era misteriosamente scomparso nel 1902, non si sa bene come, dove e quando, non si sa se annegando, o annegandosi, nella baia di Chesapeake al largo di Washington o alla foce dell´Orinoco. Un altro fratello, Rudi, omosessuale dichiarato, si era teatralmente ucciso nel 1904 in un piano bar di Vienna, ingerendo un cocktail al cianuro dopo aver chiesto al pianista di suonare una canzone sentimentale. Kurt, quello che sembrava dovesse prendere le redini delle acciaierie paterne, era morto sul fronte italiano giusto il giorno prima dell´armistizio di Vittorio Veneto. Non è stato mai appurato se si sia sparato per non arrendersi agli italiani, se si sia sparato perché aveva deciso di disubbidire all´ordine di sacrificare il suo reparto in un´inutile ultima resistenza in una guerra già persa, se siano stati i suoi superiori a sparargli o se invece sia stato ucciso dai suoi stessi soldati che si erano ammutinati. Paul, il pianista, nazionalista fanatico, austro-tedesco, antisemita e anticomunista tutto d´un pezzo, poi fascista, aveva combattuto da eroe sul fronte russo, gli avevano amputato il braccio, era stato preso prigioniero e inviato in Siberia, era stato liberato in uno scambio di prigionieri, ed era tornato a combattere con un braccio solo sul fronte italiano, guadagnandosi ben due croci di ferro. Per poi vedersi licenziare dal Conservatorio e catalogare come ebreo dopo l´Anschluss. Non sorprende che avesse conservato per il resto della vita la spigolosità dei comunisti considerati ingiustamente traditori dai loro compagni. Ludwig, che forse era, relativamente parlando, il più "normale", aveva preso sin dalla tenera età l´abitudine di considerare il suicidio, ma era stato forse salvato dalla testardaggine della logica.

Repubblica Firenze 3.6.09
Spini: "Mi attaccano perché mi temono"


Spini: giusta l’idea del terzo polo, un riconoscimento l’ha fatto anche D’Alema
"Anche gli attacchi di De Zordo mi hanno molto amareggiato. Mi ha sottovalutato"

Una vittoria, a suo modo, Valdo Spini l´ha già ottenuta. Da due settimane gli piovono addosso attacchi sia da parte del candidato sindaco del centrosinistra Matteo Renzi che da quello del centrodestra Giovanni Galli. Lui, che corre con una lista civica sostenuta da Verdi, Rifondazione e Pdci, a tre giorni dal voto si sente un leone.
Spini, pensa di essere l´elemento di disturbo nel duello tra Renzi e Galli? Quello che potrebbe sparigliare la partita?
«Registro con piacere la crescita di dimostrazioni di stima e di appoggio. Mentre avverto che i miei competitori sono entrati in una nuova fase: nel primo tempo della campagna tendevano ad ignorare benevolmente la mia candidatura, nel secondo tempo non mi hanno più lasciato sullo sfondo. Hanno cominciato a temermi e, quindi, ad attaccarmi. Ottimo risultato, direi».
Renzi ha detto che votare per Spini è come votare per Galli.
«E se l´argomento è questo vuol dire che non sa proprio più a che santo votarsi. Sul piano politico la nostra operazione, invece, è stata un successo. Contrastata, non lo nego, e tutt´altro che facile. Ma l´idea di creare un terzo polo nella battaglia Pd-Pdl si è rivelata giusta. Un riconoscimento indiretto, in fondo, ce lo ha fatto anche D´Alema, che non ci ha "scomunicati", pur chiedendo il voto per Renzi».
Alla vigilia del voto rimpiange di non aver chiuso l´accordo con Ornella De Zordo?
«Naturale, mi sentirei più forte. Oltretutto De Zordo ha fatto una campagna quasi contro di noi, mi ha persino "accusato" di averle offerto l´assessorato all´Urbanistica. Francamente credo di avercela messa tutta per aggregare le forze e penso anche che De Zordo e i suoi amici mi abbiano sottovalutato, probabilmente immaginavano che avrei fatto una campagna difensiva. I suoi attacchi mi hanno molto amareggiato ma mi sono consolato con una frase di Lenin: "Trovi sempre uno più puro che ti epura". Sopravviverò».
E´ ancora convinto di poter arrivare al ballottaggio?
«Mi baso sulle previsioni di Mannheimer, che ha rilevato come il mio bacino potenziale sia del 26 per cento, con un 17 per cento di elettori indecisi tra me e Renzi».
Renzi fa appello al voto utile, però.
«Vorrei che Renzi si ricordasse dell´infortunio di Veltroni nelle ultime politiche a proposito di "voto utile". A mio parere il voto utile è quello utile per la città, che è in condizioni di non ritorno come tutti possono vedere. Ogni buon cittadino dovrebbe votare il programma più adatto a rimettere in moto Firenze. Io ho fatto una campagna sui contenuti, ho promosso dibattiti con le università americane, parlato del futuro dell´aeroporto, della sanità, del lavoro, del turismo. E siamo l´unica coalizione che ha organizzato un confronto pubblico con i cinque aspiranti rettori».
Un giudizio su Renzi.
«Pensa che le elezioni siano uguali alle primarie, usa la stessa spregiudicatezza, attacca gli avversari. La gente invece cerca preparazione e competenza in un candidato a sindaco».
E di Galli cosa pensa?
«Con tutto il rispetto per la persona, che lo merita, la sua candidatura non ha una caratura civica ma è solo espressione del Pdl. Non a caso Berlusconi viene a dargli un mano. Qui l´unico senza babbi né papi né padri putativi sono proprio io».
Come convincerebbe un indeciso a votare per lei?
«Gli direi che come noi ci siamo messi insieme mesi fa per costruire una lista dal basso, così il suo voto può influire sul destino della città e cambiare la situazione. Agli elettori offro speranze: restituire la città ai giovani, migliorare la vita quotidiana, usare la cultura come veicolo di rilancio sul piano nazionale e internazionale: l´ho detto talmente tante volte che alla fine mi ha ascoltato anche Berlusconi che proprio oggi ha annunciato una legge speciale per Firenze».
Che farebbe appena arrivato a Palazzo Vecchio?
«Non comincerei certo, come minaccia Renzi, col "cacciare fuori tutti". Mi dedicherei anima e corpo all´impegno di sindaco e lavorerei per unire e non per rompere, per rimotivare e non per punire. I fiorentini farebbero un buon affare a scegliere me».
(s.p.)

l’Unità 3.6.09
Obama avverte Israele: un obbligo bloccare le colonie
di Umberto De Giovannangeli


Barack Obama alla prova del fuoco: la polveriera mediorientale. Oggi a Riad, domani al Cairo, il presidente Usa parla al mondo arabo e a Israele. Un passaggio chiave per la nuova politica estera americana.

Oggi a Riad. Domani al Cairo. Con uno sguardo alle elezioni di domenica in Libano e del 12 giugno in Iran. Barack Obama «sbarca» in Medio Oriente. E lo fa con un proposito ambizioso: rilanciare il processo di pace. In una visione globalizzata. Il presidente Usa sa che ogni sua frase sarà passata al vaglio, parola per parola. Così come saranno pesati i silenzi, valutate eventuali omissioni. Ayman al-Zawahri, vicecapo di Al Qaida, si è “mosso” in anticipo e - in un messaggio on line - ha sollecitato gli egiziani a respingere la visita del «criminale» Obama “reo” di «una sanguinaria campagna contro i musulmani nello Swat» (la roccaforte in Pakistan dei talebani teatro di una grande offensiva di Islamabad). Minacce a parte, il mondo arabo chiede agli Stati Uniti di mostrare fermezza nei confronti di Israele e Obama si mostra pronto a raccogliere l’invito, ricordando al governo israeliano che il blocco dell’espansione delle colonie è un obbligo da rispettare. L’ha fatto con un’intervista concessa alla radio pubblica americana Npr prima della partenza per il Medio Oriente durante cui terrà dal Cairo un discorso al mondo islamico.
I VERI AMICI
«Gli Stati Uniti - ha affermato il presidente - hanno una relazione particolare con Israele ma “essere amici” significa “essere onesti”. In alcuni momenti non siamo stati così onesti come avremmo dovuto sul fatto che la direzione presa nella regione sia profondamente negativa non solo per gli interessi israeliani, ma anche per quelli americani». Dopo aver ribadito il suo sostegno per la soluzione dei due Stati («dobbiamo avere fede costante sulla possibilità che i negoziati portino alla pace, e secondo me questo implica una soluzione con due Stati»), Obama ha sottolineato che sia i palestinesi sia gli israeliani devono rispettare i patti. «Ho detto chiaramente agli israeliani, in privato e in pubblico - ha aggiunto - che il congelamento dell’espansione delle colonie, inclusa quella per crescita naturale, fa parte degli obblighi».
TRIPLICE INTERESSE
Obama rilancia la sua visione sul «nuovo Medio Oriente» in una intervista alla Bbc. Il messaggio è indirizzato all’alleato israeliano: «Non è solo nell’interesse dei palestinesi avere uno Stato, è nell’interesse del popolo israeliano stabilizzare la situazione. Ed è nell’interesse degli Usa che vi siano due Stati che vivano a fianco in pace e sicurezza», rileva il capo della Casa Bianca. Secondo Obama, gli Stati Uniti «saranno in grado di far ripartire seri negoziati fra israeliani e palestinesi». Il presidente americano ha poi esortato alla pazienza quando gli è stato chiesto di commentare il rifiuto israeliano ad accogliere il suo invito a congelare l’attività edilizia negli insediamenti. «La diplomazia è sempre questione di una lunga e faticosa scarpinata», ha commentato. Obama affronta anche un’altra questione spinosa: il nucleare iraniano. «È nell’interesse del mondo che l’Iran accantoni le ambizioni per un’arma nucleare» e per questo serve «una diplomazia diretta e tenace». «Malgrado non voglia porre ultimatum artificiali in questo processo, voglio essere certo che, entro la fine dell’anno, si sia avviato un serio processo», avverte.
UN PATTO DI CIVILTÀ
Con la Bbc, Obama anticipa il senso politico e ideale del suo attesissimo discorso al Cairo, nel quale, il capo della Casa Bianca intende sottolineare che democrazia e libertà sono «principi universali» che i Paesi musulmani possono far propri. «Il messaggio che spero di portare - dice Obama alla Bbc - è che democrazia, stato di diritto, libertà d’espressione e libertà religiosa non sono semplicemente principi dell’Occidente da trasferire in questi Paesi. Io credo invece che siano principi universali che possono abbracciare come parte della loro identità nazionale». Obama mette in guardia sul «pericolo che gli Usa o altri Paesi pensino di poter semplicemente imporre questi valori» in Paesi che hanno «una storia e una cultura diversi». Il presidente americano - che al Cairo sarà affiancato dalla segretaria di Stato, Hillary Clinton - dice di voler incoraggiare un cammino in questo senso dimostrando in primo luogo che gli Usa rispettano questi valori. «Ed è per questo, ad esempio - rimarca il presidente americano - che chiudere Guantanamo, per quanto sia difficile, è importante perché fa parte di ciò che vogliamo affermare nel mondo». Un gesto concreto per un incontro di civiltà.

l’Unità 3.6.09
Lieberman tira dritto
L’ira degli oltranzisti: è terrorismo americano
di U.D.G.


Il gelo del governo. L’ira dei coloni oltranzisti che parlano di «terrorismo politico americano». Così Israele alla vigilia della visita in Medio Oriente di Barack Obama. Il nodo del contendere è lo stop totale agli insediamenti.

Il gelo di Lieberman. L’ira dei coloni oltranzisti. È una vigilia infuocata per Barack Obama, alle prese con la sua prima missione presidenziale in Medio Oriente. A Israele, Obama torna a chiedere il blocco totale degli insediamenti. La risposta non si fa attendere. Israele non accetta come condizione all'inizio di negoziati sul Medio Oriente la rinuncia agli insediamenti nei Territori. A ribadirlo da Mosca, dove è in visita ufficiale, è il ministro degli Esteri dello Stato ebraico, Avigdor Lieberman.
Il falco ministro
«Noi non riteniamo che l’evacuazione dei coloni possa portare a una soluzione pacifica del problema, o migliorare i rapporti tra israeliani e palestinesi», afferma Lieberman in una conferenza stampa congiunta con il suo omologo russo Sergei Lavrov. «Tutto quello che avviene nell’ambito della crescita naturale della popolazione non può essere oggetto di negoziati. Su tutte le altre questioni siamo pronti ad accordarci», aggiunge il capo della diplomazia israeliana, che parla correntemente il russo essendo cresciuto nella repubblica ex sovietica della Moldova.
Se con il governo di Israele è scoccata l’ora del grande freddo, dalla trincea del movimento dei coloni la guerra delle parole è già rovente. Bersaglio, l’amministrazione Obama, le cui continue sollecitazioni per uno stop all'espansione degli insediamenti ebraici nei territori palestinesi occupati nel 1967 sono giunte a scatenare ieri l’accusa di «terrorismo politico». La risposta ufficiale israeliana su quest'ultimo punto - confermata l’altro ieri dal premier Benjamin Netanyahu e ieri dal ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman - resta coriacea: nuovi insediamenti - è la promessa - non se ne costruiranno, ma i contestati programmi d'allargamento edilizio delle colonie esistenti andranno avanti in nome della «crescita naturale». Una risposta che agli Usa non sembra bastare più. Come hanno ribadito in questi giorni tanto Obama quanto la segretaria di Stato (ed ex beniamina dalla lobby filo-israeliana di Washington) Hillary Clinton.
I COLONI
Il movimento dei coloni è sul piede di guerra. «Gli americani impiegano ormai l'arma del terrorismo politico contro lo Stato d'Israele», ha tuonato dopo l'ultima intervista di Obama il presidente della Yesha (consiglio di coordinamento degli insediamenti), Danny Dayan, accusando il leader Usa non solo d'aver dimenticato le concessioni sulla sorte immediata delle colonie fatte a suo tempo dal predecessore George W. Bush in una lettera ad Ariel Sharon (lettera già invocata come una specie di patto di sangue anche da Yisrael Katz e Ghilad Erdan, ministro dei Trasporti e dell’Ambiente entrambi del Likud, il partito di Netanyahu). Ma persino di mettere in dubbio «la decisione di Truman del 14 maggio 1948 sul riconoscimento d'Israele». Un atteggiamento dinanzi al quale - sentenzia Dayan - bisogna essere pronti a tenere fermo il no su tutta la linea, altrimenti le pressioni «diverranno una valanga capace di portare fino alla spartizione di Gerusalemme».

Corriere della Sera 3.6.09
Lo Stato intervenga per salvare la Biblioteca di Firenze
di Paolo Di Stefano


La situazione in cui versa la Biblioteca Nazionale di Firen­ze è un paradigma dell’Italia d’oggi. Le biblioteche nazionali nel mondo (in Italia c’è anche quella di Roma: altre mantengono la definizione ma non lo sono a tutti gli effetti) offrono il cibo quotidiano a studiosi, ricercatori, lau­reandi, dottorandi. Il loro compito è raccogliere e conservare l’intero patri­monio librario di un Pae­se (non solo volumi a stampa, ma manoscritti antichi, incunaboli, perio­dici, fascicoli eccetera), ca­talogarlo, star dietro al flusso imponente delle nuove pubblicazioni, colla­borare con analoghi istitu­ti all’estero, partecipare a programmi di ricerca.
In gennaio la Nazionale di Roma, per mancanza di fondi, ha sospeso i prestiti pomeridiani. Ora, an­che grazie ai ripetuti articoli e com­menti del Corriere fiorentino, venia­mo a sapere che il provvedimento è «ineludibile» pure per un’altra istitu­zione storica come la Nazionale Cen­trale di Firenze. Al di là degli sprechi passati che negli ultimi vent’anni han­no portato a ridurre progressivamen­te il personale e persino a privare le toilette della carta igienica, e al di là anche delle responsabilità che hanno prodotto questo sfascio, resta da chie­dersi fino a quando lo Stato (e non so­lo il Ministero, ma anche la Regione e il Comune) assisterà impassibile alla paralisi o peggio all’agonia di una del­le colonne portanti della nostra cultu­ra. Agonia finora scon­giurata grazie agli inter­venti di sponsor come la Cassa di Risparmio di Firenze.
Anche all’estero, in­tendiamoci, i contribu­ti di partner privati alle biblioteche nazionali si affiancano alle sovven­zioni pubbliche, ma non sono tali da essere indispensabili per il funzionamento ordinario, elettricità compresa. Come si spiega che quelle che altrove sono considerate un orgoglio nazionale, da noi languono nell’indifferenza genera­le? La Biblioteca Nazionale, nel suo piccolo (piccolo?), non vale l’Alitalia? E chi l’ha detto.

Corriere della Sera 3.6.09
Darwin il milanese
Decisivi i legami tra la città e «il Galileo della biologia»
di Peppe Aquaro


Conosciuto, senz’altro. Qualche volta contestato, quasi sempre sostenuto. Charles Darwin non fece mai tappa a Mila­no (la moglie, Emma Wedgwood, sì, parti­colare, forse, che di scientifico ha ben po­co), ma i contatti tra lo scienziato e il mon­do accademico meneghino risultarono de­cisivi per lo sviluppo della teoria dell’evo­luzione delle specie. Lo mette in evidenza la mostra «Darwin 1809-2009», promossa dal Comune di Milano, prodotta da Palaz­zo Reale, «Codice. Idee per la cultura» e Ci­vita, con la partnership di Intesa Sanpaolo, che da domani al 25 ottobre approda nel capoluogo lombardo, alla Rotonda della Besana, dopo la tappa a Roma.
L’esposizione — mille metri quadrati, più ampia della prima versione curata a New York da Niles Eldredge e Ian Tatter­sall, prosecutori dell’opera del genio bri­tannico — presenta, tra l’altro, alcune lette­re della corrispondenza tra lo scienziato in­glese e i colleghi milanesi. Su tutti: Giovan­ni Omboni, Angelo Andres e Tito Vignoli. Tra le chicche, una delle primissime segna­lazioni, sulla rivista milanese «Il Politecni­co » del 1860, un anno dopo la pubblicazio­ne, di «On the Origin of Species», di cui è mostrata anche l’edizione originale (ne fu­rono stampate solo 2.500 copie), prestata al Museo di storia naturale di Milano. A Vi­gnoli, storico direttore del Museo, appar­tiene la sentita commemorazione funebre del celebre scienziato (1882): «Egli è certa­mente e sarà il più grande uomo del no­stro secolo, e come io ebbi l’onore di scri­vergli qualche anno fa, egli è il Galileo del­le scienze biologiche». Pochi anni prima, sempre lo stesso museo aveva battuto sul tempo la concorrenza di Modena e Napoli, nominando Darwin socio onorario.
«Quando si parla di Darwin e dei suoi rapporti con il mondo italiano, non si trat­ta soltanto di analogie fra studiosi, ma di vere e proprie anticipazioni alle teorie darwiniane — osserva Eldredge — come quella del geologo bassanese Giambattista Brocchi il quale, già a inizio Ottocento, af­fermava che le specie nascono, hanno una storia e alla fine muoiono».
Una scoperta nella scoperta, il rapporto tra l’Italia e Darwin. «Nel 1879 lo scienzia­to riceve il premio Bressa, e lui che fa? Ne devolve il ricavato alla Stazione zoologica di Napoli», ricorda Telmo Pievani, filosofo della scienza, allievo di Eldredge e Tatter­sall e curatore della mostra che vuole esse­re essenzialmente un omaggio alla figura di Darwin e all’importanza della scoperta scientifica.
Il viaggio del visitatore alla ricerca delle proprie origini è lo stesso di quello com­piuto dal naturalista inglese, dal 1831 al 1835, a bordo del brigantino Beagle. Quei cinque anni che sconvolgeranno il mondo scientifico costituiscono la parte centrale di un percorso che parte dal mondo prima di Darwin — si riteneva che la Terra aves­se soltanto 6.000 anni di vita, una visione sostenuta dal rigido e passatista mondo vittoriano — continua con un Darwin ado­lescente, ossessionato dai coleotteri. «Suo­ni e colori diversi accompagnano il visita­tore tra una sezione e l’altra — spiega Pie­vani — non appena si entra nel Viaggio in­torno al mondo, dalla Terra del Fuoco al­l’arcipelago delle Galápagos, è tutto un ca­leidoscopio di colori». Protagonisti sono gli animali vivi, come l’armadillo e l’igua­na verde dell’Amazzonia, o estinti, come il gliptodonte gigante, ricostruito sulle for­me del fossile custodito al Museo di storia naturale di Milano.
Il giro prosegue alla volta di Londra: a dominare sono le tonalità grigie, che avvol­gono come nebbie i cinque anni in cui Darwin elabora le proprie idee. «Da questo momento si entra nella mente dello scien­ziato, che comincia a sviscerare i suoi tac­cuini, rivedendo gli appunti del viaggio», ricorda Niles Eldridge nella prefazione del catalogo della mostra newyorkese del 2005 «Darwin. Alla scoperta dell’albero della vita», quello disegnato nei taccuini esposti. «In alto a sinistra, in una delle pa­gine si legge 'I Think': accelerazioni, ripen­samenti evidenziano quanto Darwin sia vi­cino alla meta», aggiunge Pievani.
Ma esiterà a pubblicare. Sui tentenna­menti di Darwin è interessante andare a ri­leggersi la lettera-risposta del 1844 (espo­sta nella mostra milanese) spedita dallo stesso scienziato a un collega geologo: «So­no sicuro di aver capito, ma non me la sen­to di pubblicare il tutto. Sarebbe come con­fessare un omicidio». Quell’omicidio lo confesserà solo nel 1859, preferendo dedi­carsi, fino ad allora, ad anni di studio for­sennato chiuso a Down House: d’effetto la ricostruzione a grandezza naturale del suo studio, con libri, microscopio e la celebre poltrona a rotelle su cui trascorse, ormai infermo, gli ultimi anni. «Ma noi non fac­ciamo morire Darwin — conclude Pievani — se a New York l’epilogo erano i funerali, qui si entrerà in una scenografia lumino­sa, il sandwalk, lo spazio dei pensieri da percorrere per approdare a 'L’evoluzione oggi', il ritorno al presente».

Corriere della Sera 3.6.09
L’opera è un «lungo ragionamento» che, fra ipotesi e audaci domande, si addentra nel labirinto del mistero dei misteri
«L’origine delle specie»? Emozionante come un albo di Tex
di Giulio Giorello


Se il celebre resoconto della sua avventura «sulla regia nave Beagle» era davvero Il viaggio di un naturalista intorno al mondo, quel capolavo­ro scientifico che è L’origine delle specie è la storia di un viaggio nei labirinti della spiegazione di quel­lo che all’epoca era «il mistero dei misteri»: perché tante forme vi­venti «bellissime e meravigliose» presentano analogie che risultano inspiegabili, se si crede che ogni specie animale o vegetale sia usci­ta così com’è, una volta per tutte, dalla volontà del Creatore? Del re­sto, la migliore definizione del­l’Origine delle specie l’ha data Darwin stesso: «un lungo ragiona­mento » che affianca a ipotesi au­daci domande e obiezioni. Spesso sembra di ascoltare Darwin in per­sona che rimugina tra sé e sé, dub­bioso e perplesso. Questo è l’aspetto dell’Origine che mi ha maggiormente colpito fin dalla prima lettura: era l’edizione italia­na presentata dal grande biologo Giuseppe Montalenti e pubblicata nella «Universale scientifica» Bo­ringhieri (1967).
Avevo recuperato in un cinefo­rum il film di Stanley Kramer, de­dicato al «processo delle scim­mie » (1925) in cui era incappato un insegnante di una cittadina del Sud degli Stati Uniti per aver dichiarato ai suoi allievi che l’uo­mo è parente prossimo degli scimpanzé più che degli angeli. Il titolo della versione italiana era E l’uomo creò Satana, mentre l’ori­ginale alludeva alla Bibbia: Eredi­ta il vento (1960). La crosta terre­stre «è un grande museo» di re­perti fossili, ma le sue collezioni sono «terribilmente incomple­te »: perché mai, se le specie non sono fisse, ma derivano da altre attraverso impercettibili gradazio­ni, non disponiamo di tutte le for­me intermedie? E se la natura sot­topone a «severo scrutinio» le va­riazioni del vivente, perché mai tale selezione naturale «produce da una parte un organo di impor­tanza trascurabile come una coda di una giraffa che serve per scac­ciare le mosche e dall’altra un or­gano così meraviglioso come l’oc­chio umano?». Le trappole che av­vocati maligni tendono all’impu­tato nel corso del processo non erano diverse da quelle che, con grande onestà intellettuale, Darwin esponeva come «difficol­tà della propria teoria».
A quel punto non mi interessa­va più se l’imputato se la fosse ca­vata con i suoi inquisitori, ma co­me Darwin fosse riuscito a tra­mutare le pretese confutazioni in vittorie della sua concezione. Era una vicenda affascinante almeno quanto qualsiasi bel racconto d’avventure. Aspettavo la conclu­sione con la stessa impazienza con cui di mese in mese attende­vo... la nuova puntata di Tex! Darwin aveva compreso che «il tempo profondo» del nostro Glo­bo giustificava le lacune nelle te­stimonianze fossili. E l’occhio? «Quando per la prima volta fu detto che la Terra gira intorno al Sole, il senso comune del genere umano dichiarò che la dottrina era falsa; ma il vecchio detto Vox populi vox Dei, come ogni filoso­fo sa, non vale nella scienza. La ragione mi dice che se si può di­mostrare l’esistenza di numerose gradazioni da un occhio sempli­ce e imperfetto a uno complesso e perfetto, tutte utili alla soprav­vivenza ed ereditabili da una ge­nerazione all’altra, la cosa non è più una smentita della nostra teo­ria, anche se pare insuperabile per la nostra immaginazione». Ma proprio questo vuol dire libe­rarsi dai pregiudizi: se non se ne è capaci davvero «eredita il ven­to »! È un’arte di cui Darwin si ri­vela, nell’Origine, grande mae­stro; ma lui con modestia avreb­be detto: «È la mia natura, non posso fare altrimenti». Sembra quasi Lutero alla Dieta di Worms, quando sfidò insieme Papato e Impero. Darwin, invece, si era li­mitato a contrastare l’ortodossia dominante entro la stessa comu­nità scientifica, cambiando così la nostra concezione del posto dell’uomo nella natura.

Corriere della Sera 3.6.09
Il naturalista trascorse il resto dei suoi anni nella quiete di Down, un borgo di quaranta case
La doppia vita del dottor Charles
di Giovanni Caprara


Dopo aver girato il pianeta a bordo della Beagle, si ritirò in campagna

«Rivedere la caduta delle foglie, udire il gorgheggio dei pettirossi come nelle campagne di Shrewsbury, provare ancora la dolce monoto­nia delle cose consuete, l’assenza delle chiassose novità che affatica­no gli occhi e la mente». Scorre il piacere nelle parole di Charles Darwin ricordando l’emozione del­la vita nella nuova casa di Down. E aggiunge: «È il luogo più tranquil­lo in cui io abbia mai vissuto. A Est e ad Ovest vi sono delle valli invalicabili, a Sud solo un sentiero molto stretto, e a Nord, attraverso il villaggio , altre due stradicciole: è come se ci trovassimo all’estre­mo limite del mondo».
È difficile immaginare l’altra anima di Darwin, quella che lo aveva porta­to ad esplorare veri e re­motissimi luoghi del pia­neta a bordo della nave Beagle. Eppure quando entra nella palazzina di tre piani immersa nel ver­de, il ritmo dell’esistenza cambia e tutto il suo oriz­zonte è segnato dalle piante che vede dalla finestra, dal sentiero che ogni mezzogiorno percorre cinque volte meditando e che per questo lui chiama il «viottolo del pensiero» ma soprattutto dalla fa­miglia, dalla moglie Emma We­dgwood e dai sette figli che cresce leggendo le favole di Dickens. Al­tri due bimbi muoiono poco dopo la nascita e uno di questi, appena entrati nella nuova casa di Down.
Poi perderà anche l’amatissima figlia Annie a soli 10 anni di età e la sua scomparsa segnerà ogni giorno seguente preoccupato che il suo matrimonio con la cugina Emma avesse condannato la sorte dei figli. Così non fu, in realtà, per­ché tutti i sopravvissuti crebbero in salute conquistando talvolta po­sizioni di prestigio.
Ma dove erano l’ebbrezza che lo aveva portato ad imbarcarsi con i pescatori di ostriche di Newhaven quando era ancora studente o il co­raggio di affrontare il lungo peri­plo del pianeta a bordo della picco­la nave comandata da Robert Fi­tzroy, come il botanico ed entomo­logo John Stevens Henslow gli ave­va suggerito?
Partì dopo gli studi a Cambrid­ge contro il volere del padre che giudicava il viaggio previsto di due anni soltanto una perdita di tempo. Rimase in navigazione cin­que anni e al ritorno nel 1836 era già famoso perché durante la spe­dizione inviava lettere e materiali che venivano fatti conoscere.
La lunga traversata sugli ocea­ni era stata ardua. Non solo per­ché Darwin soffriva terribilmente il mare, ma anche perché mentre Fitzroy scandagliava i fondali del­le coste sudamericane per costrui­re le nuove mappe ordinate dal­l’ammiragliato di sua Maestà, Charles scendeva a terra ed esplo­rava i territori quasi sempre ino­spitali dai quali rubava i campio­ni in seguito preziosi per la sua ri­voluzionaria teoria.
Al rientro aveva 27 anni e viven­do per lo più a Londra iniziava a dare forma alle sue idee come rive­lano i diari. Per poco, però. Intan­to scrive del suo viaggio ma la pressione degli impegni lo amma­la. Accusa «sconfortanti palpitazio­ni del cuore» e i medici lo obbliga­no a sospendere il lavoro. L’anno successivo, nel 1838 sta ancora peggio: mali di stomaco, dolori di testa, cuore alterno; tutti guai che si trascinerà per l’intera vita senza mai scoprirne la causa. Nemmeno le cure, talvolta drastiche e spiace­voli come bagni d’acqua gelida, l’aiuteranno.
Intanto sposa Emma e Londra diventa insopportabile. Con lei cerca casa lungo la nuova linea fer­roviaria che gli permetterà di an­dare in città, se necessario, e tor­nare in giornata per cenare in fa­miglia. La troverà nel 1842 appun­to nel villaggio di quaranta tetti di Down e in due ore poteva sedersi alle riunioni della Royal Society quando serviva.
Nella quiete delle stanze piene di libri, carte e giochi dei bambini definisce scrive «L’origine delle specie per mezzo della selezione naturale». Ma chiuso nel suo pic­colo mondo non è intenzionato a parlarne perché ne teme le conse­guenze. Si rende conto di quanto le sue intuizioni fossero rivoluzio­narie. Le darà alle stampe soltanto nel 1859 quando scopre che il più giovane Russel Wallace, anche lui dopo un viaggio avventuroso, era giunto alle sue stesse conclusioni.
E come era facilmente intuibile l’anno successivo inizieranno gli attacchi del vescovo Samuel Wil­berforce che giudicava la teoria un’idea eretica perché contro la creazione. In quel momento nasce­va il creazionismo tutt’ora forte e a sua volta evoluto nel tempo per contrastare la rivoluzione darwiniana.
Accanto alla casa Charles co­struirà una piccola serra con pian­te tropicali e altri reperti: era il suo laboratorio domestico, forse l’an­golo dei ricordi. E tra quelle pareti e quelle passeggiate trascorrerà quarant’anni distaccato dal clamo­re che i suoi scritti scatenavano. A Londra andava sempre meno, solo nelle occasioni eccezionali e l’uni­ca concessione era un liquorino dopo cena fino a che i medici non glielo proibivano. Non amava i conflitti e le discussioni in pubbli­co sempre più frequenti soprattut­to dopo la pubblicazione «Sull’ori­gine dell’uomo» che portava allo scoperto l’evoluzione umana nel contesto naturale e il suo legame con i primati. Immerso nel verde e nel silenzio di Down House si sen­tiva protetto.
Ne uscirà solo nel 1882 quando moriva a 73 anni e il suo corpo era sepolto nell’Abbazia di Westmin­ster accanto ad un altro grande ri­voluzionario, Isaac Newton, che prima di lui aveva sconvolto, ma con minori conflitti, i cieli.

«L’idea base che personalmente mi ha affascinato in Darwin, e che mi guida da sempre, è quella della metamorfosi»
Corriere della Sera 3.6.09
Un poema sullo scienziato
E il nonno Erasmus mi ha insegnato la polifonia culturale
di Luigi Trucillo


Come nasce un libro? Basandomi sulla mia ultima espe­rienza direi che bisogna sempre fare affidamento sui nonni, intesi qualche volta come antichi maestri. Cioè, in altri termini, sulla catena delle affabulazioni. A pre­scindere dall’ammirazione per i suoi scritti, infatti, probabilmen­te la prima idea di scrivere un libro di poesie su Darwin mi è bale­nata scoprendo che il nonno, il medico Erasmus Darwin, oltre a inventare i pozzi artesiani aveva rappresentato in versi la teoria dell’evoluzione di Lamarck. Se quell’approccio alla scienza era sta­to possibile allora, perché non riprovarci adesso? Sappiamo che l’attrazione che la natura esercita sulla psiche umana è innata e si definisce biofilia: come lasciar cadere la possibilità di una sua rap­presentazione estetica? A ben guardare, le intuizioni di Darwin fanno capolino dappertutto, quindi anche all’interno della poesia. Certo, non tutto è stato semplice, credo che per ogni scrittore sia stranissimo calarsi nell’opera di uno scienziato, perché si vede co­stretto a fare i conti con un tessuto di teorie sistematiche percepi­te dalla scrittura come una materia sottile del linguaggio, una spe­cie di sostanza segreta già apparentemente confezionata che ger­moglia di nuovo nella propria elaborazione.
L’idea base che personalmente mi ha affascinato in Darwin, e che mi guida da sempre, è quella della metamorfosi. Ne ho fatto quasi un’epica profonda, e mi sembrava interessante riversare la spaziosità di quest’epica contro l’idea di con­trollo così incombente nelle scienze applicate. E Darwin con la sua natu­ra stupita e profondamente demo­cratica era evidentemente un esplo­ratore più che un erogatore di con­trollo. Secondo me, ad esempio, la sua idea di ereditarietà che allude nel tempo all’asse familiare evoca, attraverso la teoria delle piccole pro­gressioni del cambiamento, un siste­ma orizzontale, di passaggio frater­no, opposto in ultima analisi alla ver­ticalità edipica e metafisica attribui­ta di norma alla trasmissione. La me­tamorfosi come elemento fraterno: non è questa un’idea bellissima, vicina in qualche misura al fon­damento della poesia? Non è il barlume di una speranza non gerarchica? E gli scienziati, quelli veri, non sono immersi nel­l’elemento creativo? Per me quindi valeva la pena tentare di aprire la materia di una teoria scientifica all’apporto di alcuni elementi classici come la tragedia, il mito, la metafora, cercan­do a tentoni il varco verso un’epistemologia inconscia. Del re­sto proprio uno scienziato, Bateson, elaborando la sua fittissi­ma struttura che connette ha parlato di una complessità orga­nizzativa del vivente che non consente meccanicismi. E ha invi­tato a una metaforizzazione della scienza. Io non ho fatto altro nei miei versi che imbucarmi in quest’idea di polifonia cultura­le. Ha detto Bateson che «la natura pensa per storie, racconta storie». E l’evoluzione allora non è per noi poeti una versione delle Mille e una notte che le specie si raccontano per non mori­re? Alla fine nella teoria di Darwin circola un ascolto profondo delle leggi naturali che è anche un invito all’apertura, all’atten­zione verso ciò che ci appare, nudo, dinanzi. Per chi sa respira­re i mutamenti è un percorso verso la riconciliazione.
(Con «Darwin», Quodlibet, Trucillo ha vinto il Premio Napoli per la poesia 2009)

il Riformista 3.6.09
La guerra dei giornali
Il pink-tank di Silvio che gestisce Noemi contro Repubblica
La svolta light del Corriere della sera
A Palazzo Grazioli, l'unità di crisi con Rossella
di Fabrizio d'Esposito


Qualcuno che segue da vicino l'evoluzione del caso, la mette così: «La questione del pink-tank è delicatissima, coinvolge vari direttori». Il pink-tank, pensatoio rosa in onore del gossip elevato a guerra politica, è la cabina di regia allestita dal Cavaliere per gestire la vicenda di Noemi Letizia. Chi ne fa parte? C'è solo una conferma e riguarda Carlo Rossella, ex direttore di Panorama e Tg5.
In questi giorni, sarebbe stato lo stesso Rossella a confidare a un suo amico di essere stato reclutato dal premier nell'unità di crisi chiamata a combattere la guerra contro il gruppo Repubblica-Espresso nel segno del Casoriagate. Di qui l'interminabile rosario di interviste o lettere pro-Berlusconi spuntate come funghi e spalmate su tutta una serie di quotidiani e rotocalchi.
Il caso più clamoroso è quello delle missive dell'ex fidanzato di Noemi, Gino Flaminio, con un piccolo precedente da rapinatore. Scovato da Giuseppe D'Avanzo su Repubblica, Flaminio è stato prima bersagliato dal Giornale berlusconiano di Mario Giordano come delinquente prezzolato al servizio della sinistra, poi si è redento con due accorate lettere in favore del Cavaliere «uomo del popolo». In realtà, il testo è unico ma ne sono uscite due versioni differenti. Una, originale, sul Corriere della sera di Ferruccio de Bortoli, l'altra, sistemata in italiano, sul Mattino di Napoli, diretto da Mario Orfeo, oggi in pole position per il Tg2. Chi ha suggerito a Flaminio di scrivere la lettera? Chi gli ha consigliato i quotidiani cui spedirla? Secondo quanto raccontato dalla nostra fonte non ci sono dubbi. Il merito è del pink-tank del premier, che avrebbe finanche scalzato il fido portavoce di Palazzo Chigi, Paolo Bonaiuti, da ogni ruolo comunicativo in questa vicenda. Insomma l'unità di crisi pianificherebbe giorno dopo giorno la controffensiva ai giornali dell'Ingegnere e avrebbe pure il compito di monitorare il sito di Dagospia. Ovviamente, il Giornale e per certi versi anche Libero di Vittorio Feltri costituiscono l'avanguardia della reazione del centrodestra, ma un filoberlusconismo light, forse inconsapevole, fa capolino anche dalle parti di via Solferino.
A parte la lettera di Gino, sono alcuni giorni, infatti, che sul Corriere post-mielista compaiono interviste che tratteggiano una Villa Certosa somigliante al Mulino Bianco, secondo le immagini offerte dal ministro Sandro Bondi («Ho visto solo famigliole») oppure da Marcello Dell'Utri («C'è la gelateria che dà i coni gratis»). Poi c'è la formidabile trasformazione di papi in nonno Silvio. Ecco l'anticipazione dell'intervista a Virginia Saintjust a Oggi, gruppo Rcs. L'ex annunciatrice della Rai al centro di un «amore platonico» nonché di un rapporto «profondo di affinità elettiva» con il Cavaliere rivela: «Quando mi telefonava era molto gentile, ma mi diceva: "Potrei essere tuo nonno"». Sulla stessa falsariga la conversazione con un'altra stellina di nome di Imma Di Ninni, già ospite di varie feste a Villa Certosa: «Lui ha classe, le donne le rispetta. Fa tanti regalini ma non chiede niente in cambio. È festoso, un gran bambinone a cui piace giocare». Ancora: «Gli ho raccontato di quando, da bambina, mi piaceva correre nel grano con un aquilone al polso. E lui se n'è ricordato, che bella persona. Ma la mia anima non ha prezzo». Titolo: «Mi regalò un aquilone d'oro».
Ma il pink-tank non deve essere rimasto contento del risultato e così ieri è stato il turno della contro-intervista a Di Ninni sul Giornale: «Guardi sono furente. Macché aquilone d'oro: hanno travisato tutto quello che ho detto». Altra anticipazione. Stavolta un scoop contenuto in un libro pubblicato da Aliberti a firma di un'ex velina, Elisa Alloro. Che dice: il nomignolo papi è stato inventato da tale Renata non da Noemi. Continua Alloro: «Il premier è una miniera di saggezza... ogni minuto trascorso con lui l'ho sempre considerato alla stregua di un dono divino».
Chi, infine. Nel senso del settimanale di Alfonso Signorini, edito da Mondadori, forse il vero house-organ del pink-tank di Palazzo Grazioli. Ieri le agenzie hanno battuto con tanto di flash l'anticipazione di un'intervista esclusiva a Noemi: «Gino si è inventato la qualunque. Non credo che l'abbia fatto gratis». Ma ce n'è anche per l'altro, Domenico Cozzolino, il suo ultimo fidanzatino: «Con Domenico abbiamo litigato. Ha fatto a mia insaputa una mossa che non mi è piaciuta: si è presentato ai provini per il Grande Fratello. Non c'è niente di male a voler andare al GF, ma in un periodo così tormentato forse sarebbe stato più giusto aspettare. Io non voglio diffidare della persona che ho al fianco. Già sono tanti quelli che hanno marciato sul mio nome».
Fabrizio d'Esposito

il Riformista 3.6.09
Bonino occupa la Rai: «Nessuna visibilità»
di Daniela Di Iorio


Radicali ed europee. La vicepresidente del Senato si "insedia" in uno studio di Saxa Rubra: «Presto azioni penali. Viale Mazzini viola la delibera del garante».

«Ho deciso di non abbandonare gli studi della Rai, mentre ci prepariamo in queste ore a nuove azioni legali, anche sul versante della giustizia penale»: così Emma Bonino ha annunciato la sua occupazione dello studio di Saxa Rubra, dove ieri dopo le 13 si era appena conclusa la registrazione dello spazio di comunicazione politica che l'aveva ospitata.
In sciopero totale della fame e della sete dalla mezzanotte di lunedì, l'esponente radicale ha comunicato al personale Rai presente la sua decisione di iniziare un'occupazione nonviolenta dello studio. Insieme alla Bonino, anche Marco Beltrandi, deputato radicale eletto nel Pd, membro della commissione di Vigilanza Rai. La protesta contro la rete nazionale è di ordine collettivo, fa sapere la Bonino: «Assieme a ormai 50 parlamentari, dirigenti e militanti radicali, abbiamo iniziato uno sciopero della sete per chiedere conto alla Rai del mancato rispetto delle delibera dell'Autorità garante per le comunicazioni. Nonostante l'intervento del presidente Zavoli, i vertici della Rai sembrano voler continuare nella vera e propria truffa compiuta ai danni dei cittadini italiani, del loro diritto a essere informati. Da nonviolenti gandhiani non intendiamo restare inerti, né tollerare che sia perfezionato il sequestro di conoscenza e di legalità in atto, né lasciare la sede di questa azienda fino a quando non saranno realizzate azioni di immediata riparazione e interruzione dell'attentato ai diritti civili e politici dei cittadini».
La promotrice dell'iniziativa ha anche voluto sottolineare che non si tratta di «protesta radicale per la visibilità in tv, visto che è di tutta evidenza che si tratta di qualcosa di più grave e serio», concludento: «Mi auguro che i grossi leader politici di questo Paese non vorranno continuare a essere protagonisti e complici di quanto sta accadendo. Per quanto ci riguarda, continuiamo a dar corpo a una sete di verità e legalità che è, sempre più, anche quella del popolo italiano».
Viale Mazzini avrebbe fatto notare di aver rispettato le indicazioni dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Ma la Lista Bonino-Pannella ha replicato in una nota: «Nessuna ottemperanza è stata data dalla Rai all'ordine dell'Autorità, che impone ai tg specifiche interviste di riepilogo informativo per restituire agli italiani la conoscenza negata da 50 giorni di ostracismo nei confronti della Lista. I tg della rete Rai si sono invece limitati a mandare un estratto di alcuni secondi della registrazione di Emma Bonino. L'ordine Agcom impone ben altro, ovvero interviste ad hoc, di alcuni minuti finalizzate a consentire agli italiani di conoscere le proposte della lista Bonino-Pannella sino ad oggi censurate».

il Riformista 3.6.09
Il simbolo dell'olocausto e la battaglia per gli spazi elettorali in tv
Caro Pannella, la stella gialla resta un errore
di Fernando Liuzzi


CAMPAGNE SBAGLIATE. Non pesa solo la sproporzione tra il significato di quel simbolo e la scopo politico per cui è usato, ma soprattutto l'idea di riproporre l'associazione ebrei uguale vittime.

A margine di una campagna elettorale poco esaltante, come quella in corso per il Parlamento europeo, si è consumata una frattura inattesa: quella tra i Radicali e il piccolo mondo ebraico italiano. Frattura non drammatica e forse recuperabile, ma comunque meritevole di essere analizzata.
Tutto nasce con l'infelice decisione dei Radicali italiani di mostrarsi, in questa campagna elettorale, con una stella gialla di carta appiccicata al bavero della giacca. Una scelta che, nelle intenzioni dell'ideatore, il sempre fertile Marco Pannella, doveva servire a un triplice scopo: segnalare la perdurante discriminazione subita dai Radicali nell'informazione politica, specie nell'ambito del servizio pubblico radiotelevisivo, che ieri ha spinto Emma Bonino a occupare per protesta la sede Rai di Saxa Rubra; denunciare lo stato di illegalità permanente che affliggerebbe il nostro Paese e che sarebbe generata dal cosiddetto "regime partitocratrico"; e, infine, comunicare un senso di allarme per i sinistri rumori prebellici provenienti da uno scenario internazionale sempre più incerto.
Perché ho parlato di frattura inattesa? Perché il padre dei Radicali, Marco Pannella, ha sempre esibito la propria simpatia per il mondo ebraico. Una simpatia, peraltro, dovuta forse più al carattere di minoranza ripetutamente oppressa degli stessi ebrei, che non a una sintonia con i contenuti profondi della tradizione ebraica. Sia come sia, anche molti ebrei hanno corrisposto a tale atteggiamento con una prolungata attenzione per i Radicali e, anche, con una condivisione di molte delle loro battaglie, a partire da quelle per la laicità dello Stato. Ma questa volta qualcosa si è rotto. A molti, se non a tutti, questa idea di riesumare la stella gialla non è andata giù. E così, dai mugugni privati e dalle telefonate amical-familiari, si è inevitabilmente passati alla polemica, certo garbata, ma pubblica.
Il primo a dar voce a questo stato d'animo è stato Tobia Zevi, militante del Partito democratico, nonché nipote di quel Bruno Zevi che del Partito radicale fu stimato Presidente. Su L'Unità del 27 maggio, il giovane Zevi ha sottolineato il rischio che un uso elettorale del più classico simbolo della discriminazione antiebraica possa "inflazionarlo".
Elena Loewenthal, nota traduttrice dall'ebraico della letteratura israeliana, ha approfondito il discorso su La Stampa del giorno successivo. Dopo aver ricordato che la stella gialla «non era una bandiera, bensì un marchio», e anzi «la fredda incubatrice della soluzione finale», ha affermato che «è impropria in qualsivoglia battaglia politica, morale, mediatica». E ciò, appunto, perché «non sveglia le coscienze: le tramortisce».
Ma, a urtare la sensibilità ebraica, non c'è solo l'evidente sproporzione - segnalata sia da Zevi che da Loewenthal - tra un segno troppo forte e troppo carico di significati negativi e lo scopo politico contingente per cui viene utilizzato. C'è anche l'insopportabile - e peraltro diffusa e reiterata - associazione tra ebreo e vittima. Peggio: l'utilizzo dell'associazione tra ebreo e vittima nell'ambito di un'operazione politica improntata al vittimismo.
«Vedete», pareva voler dire Pannella ai telespettatori, nonostante un'espressione del volto a tratti ilare, nell'ultima puntata di Ballarò. «Vedete, porto una stella gialla come quella imposta agli ebrei dai nazisti (e prima ancora dalla Chiesa), per farvi capire che oggi siamo noi radicali gli ebrei della situazione. Siamo noi quelli discriminati, quelli i cui diritti vengono negati», eccetera.
Ora il fatto è che la stella gialla, a un occhio ebraico, rappresenta qualcosa di veramente terribile: la continuità tra l'antigiudaismo cristiano e l'antisemitismo politico. Alle ricorrenti persecuzioni cristiane, medioevali e protomoderne, gli ebrei non potevano opporsi. Si limitavano a fuggire per sottrarsi ai propri persecutori. Ma nei confronti dell'antisemitismo politico di fine Ottocento-inizi Novecento, gli ebrei hanno invece mutato atteggiamento. Dalla pubblicazione del saggio sulla Autoemancipazione di Leib Yehudah Pinscher, fino all'insurrezione del Ghetto di Varsavia, gli ebrei europei hanno ripetutamente chiarito che non erano più disposti ad accettare il ruolo di vittime.
A ciò si aggiunga che la tradizione ebraica è nemica sia dell'autolesionismo che del vittimismo. Mai fare del male a sé stessi. E quanto alle sventure subite, vanno ricordate per avere consapevolezza del proprio passato, non per bearsi nella contemplazione delle proprie disgrazie o della malvagità altrui.
Insomma, Pannella ha concepito un gesto con cui voleva richiamare l'attenzione su questioni per lui decisive, ma ha sbagliato misura (e nessuno, nel gruppo dirigente dei Radicali italiani, è riuscito a farglielo notare). Così, alla fine, l'oggetto del dibattito non sono più state quelle questioni, ma il gesto in sé e il suo carattere eccessivo. Andrà meglio la prossima volta?

il Riformista 3.6.09
Comunque vada per Silvio sarà una mezza vittoria
di Ritanna Armeni


Ha talmente diffuso la certezza di un successo del Pdl, che ora rischia di dover fare i conti con una realtà inimmaginabile fino a poco tempo fa

A tre giorni dalle elezioni appare probabile che il loro risultato non apporterà alcuna stabilità al paese. La classe politica italiana, e con essa osservatori e commentatori, ha pensato per mesi all'appuntamento elettorale europeo e amministrativo come a un momento in cui il quadro politico emerso nelle precedenti elezioni politiche si sarebbe confermato e rafforzato. Alla base di questa convinzione la previsione, apparentemente scontata, che il Popolo della libertà avrebbe aumentato i suoi voti e che Silvio Berlusconi avrebbe consolidato e irrobustito il suo consenso personale. Lo stesso premier ha diffuso questa certezza, se ne è servito per accrescere il suo carisma, ne ha parlato citando ripetutamente sondaggi e stime, insomma l'ha data per scontata. E qui sta il punto. Quando una previsione appare tanto sicura, quando un'affermazione appare tanto certa, quando un'ascesa elettorale appare tanto rapida, anche un accenno di declino, anche una piccola flessione di voti o un minimo sbandamento di una parte dell'elettorato, anche un piccolo venir meno dell'entusiasmo possono creare disorientamento e instabilità. Come accade ai bolidi della Formula 1 basta un piccolissimo inconveniente a provocare un incidente.
È questo molto probabilmente il paradosso al quale assisteremo dopo il voto. Un grande partito, quale è il Popolo della libertà, riceverà secondo le previsioni tanti voti, ma se solo si fermerà la sua ascesa, se solo ridurrà di poco il suo consenso non avrà vinto la sua scommessa politica. E, soprattutto, non l'avrà vinta Silvio Berlusconi. Il capo del partito di centro destra che ha puntato tutto sul suo successo personale e sul raggiungimento di quattro milioni di preferenze, potrebbe trovarsi di fronte a una vittoria che sarà valutata come una sconfitta politica e personale.
Sui motivi di questo probabile esito si discuterà a lungo dopo il sette giugno. Si valuterà quanto hanno giocato le vicende personali del premier e hanno sicuramente avuto una funzione importante. Ma in questa sede, a settantadue ore dal voto, mi pare invece più importante sottolineare le conseguenze che si possono produrre, il paradosso che possono creare e cioè la instabilità del quadro politico.
Essa sarà determinata innanzitutto dal fatto che parte dei voti che Berlusconi si aspettava di ricevere e che avrebbero determinato il successo al quale aspirava andranno alla Lega e la Lega ha già adesso maturato non pochi motivi di frizione nei confronti del premier, in primis la sua posizione favorevole al sì al referendum elettorale.
In secondo luogo dal fatto - anch'esso importante - che per la prima volta la leadership di Berlusconi non appare un valore aggiunto per il partito (e che valore), ma riduce l'apporto di voti o - più prudentemente da parte di chi scrive - non l'aumenta come si era sperato e come lui aveva ripetutamente affermato. Sicuramente questo non metterà in discussione la sua leadership, ma la renderà meno assoluta, renderà più esplicito e meno convenzionale il dibattito interno. Nulla di grave in un partito che a questo è abituato e ha tutti gli strumenti per esercitare una dialettica interna. Ma si può dire questo del Popolo delle libertà?
Terzo e non ultimo elemento la condizione personale del premier e il suo carattere. Silvio Berlusconi è - a detta di chi lo frequenta o ha occasione di parlargli - un uomo provato che non riesce a rispondere in modo adeguato agli attacchi alla sua persona. Il suo carattere entusiasta, fattivo e prepotente quando le cose vanno bene sta cedendo di fronte agli attacchi che in queste ultime settimane gli sono piovuti addosso. Anche perché sono molti e da più fronti. I colpi bassi con cui sta rispondendo (o sta facendo rispondere ad altri) sono la dimostrazione di una perdita di controllo, ma anche della consapevolezza che l'edificio da lui costruito non è più così solido, stabile e inamovibile come un tempo. I nemici aumentano e lui lo constata ogni giorno. La magistratura e i giornalisti, certo. Ma si è aggiunta con la elezione di Obama, il malcelato distacco se non fastidio dell'amministrazione americana; la stampa estera, anche la più conservatrice, le gerarchie cattoliche e, l'establishment industriale che non ha apprezzato la neutralità sconfinante con l'indifferenza su una questione importante come la vicenda Opel-Fiat e naturalmente, una opinione pubblica che non valuta positivamente le performance machiste del premier.
Tutto questo c'è già adesso. Già adesso è chiaro agli addetti ai lavori, ma è avvolto da quella grande melassa che è sui media la narrazione berlusconiana, quell'insieme di racconti, convinzioni, bugie, attacchi, recriminazioni, promesse che hanno fatto di lui il grande vincitore della politica italiana. Dopo il 7 giugno basterà una vittoria non grande come quella narrata finora a dipanare la nebbia. E allora tutto comincerà a muoversi. Qualcuno si aspetta l'ampliarsi delle crepe. Qualcuno comincia a pensare che l'arrivo dell'attuale maggioranza a fine della legislatura non sia più certo come solo qualche settimana fa.

il Riformista 3.6.09
Vincere & Co.
Perché nelle sale del Bel Paese la Storia fa flop
di Michele Anselmi


TENDENZE. Il film di Bellocchio in una settimana ha incassato un quindicesimo di "Angeli e Demoni". Non è un caso. Molte altre pellicole sul nostro passato hanno toppato, da "Miracolo a Sant'Anna" a "Il sangue dei vinti". Perché? Tozzi: «È materiale ad alta pericolosità commerciale».
Dispiace, perché il film è bello e importante, ma i dati parlano chiaro: Vincere va male al botteghino. A due settimane dall'uscita, dopo l'anteprima in concorso a Cannes, le recensioni rispettose, il tam-tam mediatico con automatico riferimento alle vicende matrimoniali di Berlusconi, lo speciale tv di Vespa e il sostegno dei principali quotidiani, il fiammeggiante "melodramma futurista" di Marco Bellocchio ha incassato appena 1 milione e 100mila euro. Un quindicesimo di Angeli e demoni, tanto per dare l'idea. Difficile che arrivi a 2. Tanto che i detrattori, con un eccesso di malizia, l'hanno ribattezzato "Perdere".
Il 25 maggio scorso, incassato il verdetto negativo della giuria presieduta da Isabelle Huppert, il regista di L'ora di religione assicurò che il film stava «avendo una risposta molto positiva e suscitando un dibattito straordinariamente vivace». Aggiunse: «Faremo tutto il possibile per sostenerlo in sala». Purtroppo è il pubblico a non sostenere Vincere, sia col sole sia con la pioggia. Sembra distratto, disinteressato, anche quello, maturo e culturalmente più avvertito, che disdegna la "pipinara" dei multiplex a vantaggio delle sale cittadine.
Magari non dipende dalla qualità del film. Bellocchio è un regista sempre originale, Giovanna Mezzogiorno mette in gioco tutta se stessa nel ruolo di Ida Dalser, la moglie ripudiata da Mussolini, Filippo Timi si guadagna addirittura l'etichetta di "Jack Nicholson italiano" (parola del sottosegretario cinefilo Francesco Giro) nel doppio ruolo del futuro Duce e del figlio Benito Albino. E se fosse proprio quel pezzo di storia patria a respingere gli spettatori? Il ventennio, le leggi razziali, fascisti, antifascisti, partigiani, la nascita della Repubblica? Del resto, ci sono voluti anni perché il premier Berlusconi dicesse qualcosa sul 25 aprile; e ieri, per i festeggiamenti del 2 giugno, s'è fatto attendere un quarto d'ora sul palco.
Il cinema italiano ogni tanto ci riprova, investendo bei quattrini, ma generalmente arriva la delusione, il flop. C'è chi la butta sulla censura di mercato, chi parla di tema occultato o rimosso. Ogni parere è lecito. E tuttavia la tendenza sembra chiara: la Seconda guerra mondiale, così distruttiva e fondativa, terribile ed esaltante, non "tira" più al cinema. Diamo uno sguardo al box-office, prendendo in esame titoli italiani recenti. Miracolo a Sant'Anna di Spike Lee: 1 milione e 76 mila euro. Sanguepazzo con la coppia Zingaretti-Bellucci nei panni dei divi di regime Valenti e Ferida: 594 mila. Le rose del deserto di Mario Monicelli: 1 milione e mezzo. Il sangue dei vinti di Michele Soavi: 65 mila euro. Unico titolo in controtendenza, Il papà di Giovanna di Pupi Avati: 3 milioni e mezzo di euro (però lì vinceva la storia di famiglia).
Sentiamo Riccardo Tozzi, che produsse El Alamein di Enzo Monteleone, 2002, molto apprezzato dall'ex presidente Ciampi. «Guardi, sono un appassionato di storia, farei un film all'anno su questi temi, ma devo riconoscere: è materiale ad alta pericolosità commerciale. Ho amato Vincere, nulla da dire, mettiamo pure nel conto l'effetto generale depressivo dovuto alla struttura del circuito italiano delle sale». E tuttavia… «Il rifiuto c'è, puoi fare tutta la pubblicità che vuoi, ma il pubblico non ce lo porti. Penso sia un problema squisitamente italiano: la storia funestata dalla retorica, che sia Risorgimento, Fascismo, Resistenza, poco importa. Il che abbassa l'interesse, producendo l'effetto "Promessi sposi". Senti sempre l'eco dei cinegiornali Luce, così la gente si tappa le orecchie. Purtroppo. Perché c'è tanta storia che non ci siamo raccontati bene da portare al cinema».
Concorda Monteleone. Anche se premette: «Io allargherei il discorso. C'è un altro buco nero. Pensiamo ai film sull'Irak fatti dagli americani. Mica parlo del filmetto sfigato italiano, di partigiani e fascisti. Il magnifico Nella valle di Elah l'hanno visto in pochi. Peggio è andata a The Hurt Locker. Forse non è questione di Seconda guerra mondiale». Monteleone fa una pausa: «Probabilmente l'ennesima fesseria splatter di Quentin Tarantino, quell' Inglorious Basterds con Brad Pitt, sarà un successo. Ma per il resto la storia funziona più in tv, nella forma della miniserie. Infatti Perlasca e Cefalonia vanno bene. Sul grande schermo avrebbero fatto flop». Allora perché El Alamein? «Mi spingeva la passione, la voglia di raccontare quella storia lì. Il film è stato fatto di pancia, per puro sentimento, il produttore aveva un legame di sangue con la vicenda. Poi certo: al botteghino vincono solo commedia e disimpegno, il multiplex ha ucciso un certo spettatore medio acculturato, molti giovani vivono questi film come pallose lezioni di storia». Da anni il regista padovano medita di fare Il sergente della neve, dal romanzo di Mario Rigoni Stern: «Ci ha provato anche Olmi. Ma vallo a proporre a un produttore oggi».
Già. Ogni tanto, però, qualcuno ci riprova, sfidando la vulgata resistenziale, sempre facendo arrabbiare l'Anpi. Angelo Barbagallo con Sanguepazzo, Roberto Cicutto con Miracolo a Sant'Anna, Alessandro Fracassi con Il sangue dei vinti, tratto da Pansa. Fracassi non nasconde i dati sconfortanti degli incassi. «Sono il frutto di una perversa combinazione, tanto più dopo il processo di delegittimazione politica piovuto sul film da sinistra e pure da destra. Ma bisogna resistere, c'è tanta "storia negata" da raccontare. Altrimenti dovremmo affidare la memoria collettiva solo a Roma città, Tutti a casa e pochi altri». L'intoppo dov'è, allora? Nel generale abbandono di interesse del pubblico verso film di argomento storico? «Ogni tanto arriva l'eccezione che conferma la regola. Penso a Il vento che accarezza l'erba di Loach. Ma è il cinema in costume, tutto, a non attirare più il pubblico giovane. Anche per colpa nostra, fatichiamo a intercettarlo».
Non resta che dare la parola allo storico. Piero Melograni si dice convinto che «il pubblico non va perché non sa». E fa un esempio. «Per capire lo straordinario Katyn bisognerebbe conoscere un po' di storia, sapere che Stalin e Hitler si spartirono la Polonia. Purtroppo la didattica è andata a ramengo e la prevenzione nei confronti di opere considerate ideologizzate ha fatto il resto». Aggiunge Melograni: «Il cinema potrebbe svolgere un ruolo cruciale, a patto che sappia affascinare, emozionare, i giovani. Se poi non andranno, pensando di sapere già tutto, peggio per loro». Mentre Giordano Bruno Guerri sintetizza così il proprio pensiero: «Quel periodo cruciale è stato sottoposta a una politicizzazione estrema, non viene sentito come storia o storie, ma come polemica ideologica che, portata nel mondo dello spettacolo, sta in uggia. Ho questa netta impressione». A occhio, non sbaglia.

il Riformista 3.6.09
Il rifugio inglese
I segreti di Freud a Londra
di Andrea Valdambrini


Londra. Non capita solo agli scrittori di mangiare una madeleine e far venire a galla un fiume di ricordi, oppure di tuffarsi, come Leopold Bloom, in una folle giornata solo per l'avventura di essere a passeggio per le vie di Dublino. L'orizzonte della memoria, una volta tanto non personale, ma collettiva, sociale, storica perfino, può essere aperta a chiunque abbia un po' di assonanze con la psicoanalisi, se solo capita in quel posto, oserei dire magico, che è la casa di Freud a Maresfield Gardens. Per quanto possa sembrare strano, siamo in un quartiere residenziale del nord di Londra e non a Vienna. Freud ci ha speso un anno intero, quello prima di morire, dal settembre del '38 a quello del '39. La figlia Anna, che non sorprendentemente si è dedicata alla psicanalisi dell'infanzia, ci si è fermata un altro po', fino al 1982 precisamente, dato che il posto non è niente male. Una casa elegante anche se non sfarzosa su due piani, dalle ampie finestre, circondata dalla quiete di un giardino verdissimo e battuta da un vento che sembra fatto apposta per agitare le idee nella testa e evocare memorie.
La prima cosa che sorprende, salendo le ampie scale vittoriane percorse chissà quante volte nell'anno di permanenza dal padre della psicanalisi, è un sigaro. Questo è la nostra madeleine, la nostra passeggiata dublinese. Davanti a una vetrata grande che guarda sulla strada - un tavolino al centro con due sedie, una libreria altezza ginocchio sotto la finestra con una collezione di volumi di botanica - in un angolino c'è un posacenere marmoreo color avorio, istoriato di motivi floreali giapponesi. Il sigaro è semplicemente appoggiato come fosse stato lasciato lì per quotidiana negligenza qualche minuto prima. Sembra da un lato ancora umido, dall'altro è un po' annerito. Pare di vedere il padrone di casa, 82enne che sale la prima rampa incollato al suo maledetto sigaro da cui proprio non riesce a staccarsi. «La faringite come anche i problemi di cuore» annotava arrendevolmente qualche anno prima, «sono visti entrambi come punizione per il vizio del fumo». Psicopatologia di un vizio quotidiano.
La casa londinese era stata per Freud al tempo stesso un rifugio e l'emblema di una resa. L'appartamento dove aveva vissuto 47 anni della sua vita, sta a Vienna, al numero 19 di Bergstrasse. Ma quando i nazisti arrivano nella capitale dell'impero, dopo aver bruciato in un rogo terribile anche i suoi libri e quando infine sul suo portone compare, anche lì, la croce uncinata, a Freud non rimane che accettare l'invito degli amici britannici che lo vogliono portare in salvo a ogni costo. Costretto a scappare, e non certo con gioia, dalla casa di una vita, prende e salva quello che può: libri, stampe, foto, una straordinaria e preziosissima collezione di antichità. Qui incontra anche Salvador Dalì. Il pittore ne ricava un ritratto che a Freud non sarà mai mostrato (perché non l'avrebbe gradito? Perché troppo malato per apprezzare un omaggio dissacrante e inconsueto?). Lo schizzo preparatorio riproduce la ricerca faticosa della forma. «Una cena di lumache» ricorda Dalì nell'"Autobiografia", «mi ha rivelato il segreto morfologico di Freud. Il suo cranio è proprio una lumaca. Il suo cervello ha la forma di una spirale». Una libera associazione mentale è alla base della nascita del ritratto. Fa riflettere quanto è grande il debito del dadaismo - e di tutta la modernità - verso la psicanalisi.
Al piano superiore un video in bianco e nero delizia i visitatori del museo con i filmini di famiglia, commentati dalla figlia Anna, in cui appare perfino la mamma di Freud, motore involontario del Novecento, dall'umorismo autolesionista di Philip Roth all'ironia di Nanni Moretti. Il miracolo, però, è ascoltare 2 minuti e 26 secondi della voce di Sigmund, registrata per la Bbc proprio nel 1938 e conservata da questa portentosa tecnologia per lo stupore dei posteri. È un sommario e un autoritratto. Parla con disarmante semplicità, scandisce le parole sopra un leggero tremolìo: «Ho cominciato come neurologo… Ho scoperto qualcosa di nuovo che ha rivelato l'inconscio… Da quella scoperta è nata una nuova scienza… Solo alla fine sono riuscito nella mia impresa, ma la lotta non è finita». Infatti entrare nel suo studio è come tuffarsi nella storia culturale del secolo che fu. Un'enorme sala percorre longitudinalmente il piano terra della casa. Libri dappertutto, solo una minima parte della biblioteca viennese immaginiamo. E quasi al centro, lui, il "re divano", proprio l'originale. Culla, feticcio, tomba della psicanalisi. Bordato di pesanti tappeti, avvolto nel mistero dei pazienti e dell'analista, che dietro a loro, su una sedia dallo schienale sottile di legno pregiato, avrà ascoltato una serie infinita di storie su cui ha scritto, riflettuto, annotato tutto il suo nuovo metodo per il trattamento della nevrosi.
L'emozione rischia di essere troppa, bisogna uscire dal sancta santorum della psicoanalisi. Non senza prima imbattersi nei libri che Freud amava. Da Dostoevskij a Shakespeare, da Flaubert a Edgar Allan Poe e infiniti altri - non mancava certo "Viaggio in Italia" di Goethe. E infatti Freud ha visitato le antichità italiane in più occasioni. Nel 1901, quando sulle orme del grande viaggiatore tedesco viene a Roma per la prima volta, dopo aver visto il Pantheon, San Pietro in Vicoli (con il Mosè di cui scriverà fino all'anno londinese) e il tramonto dal Gianicolo annota con trasporto: «Questo pomeriggio ho avuto così tante impressioni che me le porterò dietro per anni". L'amore per Roma, per Pompei, la Sicilia e tutto quanto evoca l'antichità, si univa in lui al disprezzo per il consumismo americano, emblema di una tendenza a tagliare le radici col passato. Per riscoprire l'importanza del quale Freud avrebbe volentieri messo sul lettino un'intera nazione.
E quando il nostro viaggio della memoria nella vita quotidiana dell'ultimo anno di vita di Freud volge al termine, sorge una domanda. Chissà cosa penserebbe l'ex padrone di casa, se fosse ancora vivo, di tutti gadget venduti nella sala accanto a quello che fu il suo scrigno delle memorie di esiliato. Un mini-busto in bronzo costa la bellezza di 185 sterline! Ma a prezzi ben più popolari ci si può portare a casa la penna trasparente in cui "naviga" da su a giù il divano della psicoanalisi, il portachiavi con su incisa la triade inconscio/io/super-io, e un mini pupazzetto barbuto freud-sembiante con tanto di elegante panciotto da applicare alla punta di un solo dito. Magari per fargli dire: la mia scoperta, sì, tutto merito (o colpa) di mia madre. Ma per il kitsch, quello no. A limite parlatene con i miei eredi.

D di Repubblica 30.5.09
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martedì 2 giugno 2009

l'Unità 2.6.09
The Times: «La qualità di un governo non è un fatto privato. Risponda alle accuse»
Financial Times: «Le rivelazioni piccanti nascondono gli addebiti più seri», il processo Mills
Cade «la maschera del clown»
La stampa estera non perdona
di Umberto De Giovannangeli


«Cade la maschera del clown». «Berlusconi, lo scandalo alle calcagna». «L’odore di scandalo distoglie l’attenzione da accuse più serie». Times, FT, Liberation... Così il Cavaliere perde la faccia. E l’Italia credibilità.

Il Papi-premier messo alla berlina dalla stampa internazionale. Titoli da far arrossire dalla vergogna. Editoriali che argomentano un discredito che nessun altro leader europeo avrebbe potuto sostenere come se niente fosse... «Berlusconi deve rispondere alle accuse di essere un donnaiolo e a quelle su comportamenti inappropriati. La qualità di governo non è un fatto privato». Così The Times sul premier italiano, in un lungo editoriale il cui titolo è tutto un programma: «Cade la maschera del clown».
TIMES SPIETATO
«L’aspetto più di cattivo gusto del comportamento di Slivio Berlusconi - scrive il quotidiano londinese - non è che egli sia un buffone sciovinista. Né che egli si accompagni con donne che hanno 50 anni meno di lui, abusando della sua posizione per offrire loro lavori come modelle, assistenti personali o persino assurdamente, candidate per l’Europarlamento, La cosa più scioccante è l’assoluto disprezzo con cui tratta gli italiani». Un j’accuse pesantissimo. Argomentato. «L’anziano libertino - scrive ancora The Times - può trovare divertente, o anche temerario, fare la parte del playboy, vantandosi delle sue conquiste, umiliando sua moglie, o facendo commenti che per molte donne sono inappropriati in maniera grottesca. Non è il primo o il solo il cui comportamento privo di dignità sia inappropriato per la sua carica. Ma quando vengono poste domande legittime su rapporti che toccano lo scandalo e i quotidiani lo invitano a spiegare delle associazioni che, nella migliore delle ipotesi, lasciano perplessi, la maschera del clown cade. Minaccia quei quotidiani, e televisioni che egli controlla, invoca la legge affinché protegga la sua privacy, rilascia dichiarazioni elusive e contraddittorie e poi promette melodrammaticamente di dimettersi se verrà scoperto a mentire...».
FT ALL’ATTACCO
«L’odore di scandalo distoglie l’attenzione da accuse più serie». È il nuovo affondo del Financial Times contro il Cavaliere, definito nei giorni scorsi «un esempio deleterio per tutti». «Lo stillicidio di rivelazioni piccanti che riguardano Silvio Berlusconi e la sua relazione con giovani belle ragazze ha ravvivato una campagna elettorale altrimenti di routine, con la coalizione di centrodestra del premier italiano che fa la sua parte per continuare a far ardere il fuoco dello scandalo», scrive il quotidiano britannico. Che sottolinea come la stampa vicina a Berlusconi, concentrandosi sugli ultimi gossip, «abbia utilmente messo in secondo piano le brutte notizie sul secondo anno di recessione economica e sul fallito tentativo di Fiat di acquisire Opel». Non solo. Dopo aver ricordato che la settimana scorsa, mentre la casa automobilistica torinese «combatteva per stringere l’offerta per il braccio europeo di Gm, il governo Berlusconi era impegnato a ottenere un divieto del tribunale e il sequestro di alcune centinaia di foto» sulle feste in Sardegna, il FT osserva come lo scandalo «abbia anche messo in un angolo le accuse potenzialmente più dannose di corruzione mosse dai giudici di Milano».
LIBERATION INCALZA
«Berlusconi, lo scandalo alle calcagna», è il titolo che campeggia sull’intera prima pagina del quotidiano parigino della gauche, Liberation. «Per soffocare il caso Noemi - scrive Libè in prima - il presidente del Consiglio italiano ha fatto vietare la pubblicazione di foto degli inviati nella sua villa in Sardegna, fra le quali quelle della sua giovane amica, allora minorenne». «Il cavaliere ostenta la sua vita privata ed espone la sua famiglia... ha fatto della comunicazione la sua politica. Proclama la sua morale cristiana a fini politici», rileva nel suo editoriale Francois Sergent, uno dei tre vicedirettori di Liberation. Berlusconi, conclude Sergent, «mantiene la confusione fra la sua pratica politica e la sua vita privata e di uomo d’affari. Per la prima volta, gli italiani sembrano misurare i pericoli di questa pericolosa miscela».

l'Unità 2.6.09
Libertà vigilata. Sotto i tacchi di Berlusconi
Camere espropriate, Enti commissariati, Grandi Opere decretazione d’urgenza e stati d’emergenza: il premier liquida le istituzioni attraverso un contro-potere demagogico
e «militare». Ma combina molto meno di un efficiente governo democratico
di Vittorio Emiliani


Silvio Berlusconi non ha nemmeno bisogno di riformare in senso presidenzialista e decisionista le norme e le regole esistenti. La maggioranza vasta e, per ora, supina di cui dispone gli consente sin da ora una strategia di rapida devitalizzazione della democrazia. Il Parlamento è, nei fatti, annichilito e come commissariato attraverso l’uso a getto continuo dei decreti-legge (accoppiati ai voti di fiducia). L’articolo 77 della Costituzione li consente soltanto per i «casi straordinari di necessità e d’urgenza». Se ne sono presentati in questa legislatura? Sì, quelli proposti dalla crisi economica planetaria e però su di essi Berlusconi ha preferito stare a guardare sperando di salvarsi così. Ha usato la decretazione d’urgenza per misure ordinarie espropriando le Camere.
All’attuale premier poco importa di ciò che preesisteva al suo dominio. Quindi ci cammina sopra. Non ha tempo da perdere, lui. Deve governare, lui. Così le garanzie formali e sostanziali, poste a difesa dell’interesse dei cittadini vengono tranciate di netto, col pretesto di «semplificare», di eliminare passaggi burocratici. Questi, in realtà, spesso sono contrappesi e controlli messi lì al fine di evitare scorciatoie pericolose per la democrazia.
Berlusconi diffida profondamente del Parlamento e delle sue funzioni di controllo dell’esecutivo. Ma diffida degli stessi ministri e Ministeri. Difatti, appena può, nomina commissari e supercommissari, come fece, con risultati pratici assai mediocri, nel periodo 2002-2006. Di un supercommissario si fida in particolare: del sottosegretario alla Protezione civile, Guido Bertolaso, che, come lui, coltiva un’idea sbrigativa, monocratica e «militare», del potere.
Per il post-terremoto abruzzese ci ha messo direttamente la faccia straparlando di tempi brevissimi e insieme di «new town» (salvo poi smentire sé stesso), di passaggio diretto dalle tende alle case in pochissimi mesi. Un cumulo di demagogiche sciocchezze che hanno rallentato l’approntamento di misure concrete e ben mirate. Presuntuoso e pasticcione.
Ha, di fatto, «commissariato», grazie alla remissività di Bondi (e non solo), i Beni culturali, le Soprintendenze. Ha tentato lo stesso giochino con gli enti locali, ma gli è andata male. Però ci ha provato. Idem col Piano-casa e le Regioni. Con la Lega che sta lì a guardare. Ora si appresta a varare una raffica di commissari alle grandi opere. Così pagheremo fior di stipendi ai commissari per risolvere poco o nulla. Berlusconi non vuole nessun «mediatore» fra la sua figura di supercommissario e il popolo. Così facendo, ottiene due risultati disastrosi: umilia le istituzioni democratiche e combina molto meno di un efficiente, operante governo democratico.

Repubblica 2.6.09
Berlusconi: "Sto per scoppiare" scontro con la stampa estera
L´attacco del Times: "Cade la maschera del clown"
di Gianluca Luzi


Il premier: i giornali stranieri sono ispirati, insufflati dalla sinistra italiana
Il premier: ho chiarito tutto non c´è bisogno di andare in Parlamento

ROMA - Noemi, il divorzio, Veronica, le feste, Mills, gli aerei di Stato, le foto. Berlusconi si sfoga: «Una cosa indegna, vergognosa... Sono vicino a scoppiare». Ma «non posso mollare, perchè siamo tutti circondati da troppa gente per male: nella politica, nella magistratura e nella stampa». Certo, «i sondaggi su di me sono calati dal 75,1 al 73 per cento, ma alle europee prenderemo tra il 43 e il 45 per cento e la sconfitta della sinistra sarà terribile, usciranno con le ossa rotte». E poi, «io ho già chiarito tutto». Veline? «Non è vero». Minorenni? «Si immagini...». Mills? «Non vero». «Tutte calunnie pure e semplici che si ritorceranno contro chi le ha agitate». Quindi «la risposta che dovevo dare l´ho data. Non c´è bisogno che io vada in Parlamento». Ma le domande di Repubblica restano ancora senza risposte. All´estero se ne sono accorti e tra la stampa straniera e Berlusconi è guerra aperta. «Cade la maschera del clown», scrive il Times di Londra, proprietario Rupert Murdoch, il tycoon australiano che possiede media in tutto il mondo tra cui la tv satellitare Sky. Eppure per Berlusconi anche il giornale simbolo della stampa britannica è ispirato dalla sinistra. Ogni giorno, ormai, la stampa di tutto il mondo scrive articoli sconcertati per le notizie che arrivano dall´Italia ed estremamente critici sul presidente del consiglio. Giornali che vengono letti attentamente anche a Washington che ancora non ha diramato l´invito ufficiale per Berlusconi il quale però ha già annunciato il vertice alla Casa Bianca per il 15 giugno: «Un incontro normale, un incontro di lavoro», lo definisce senza enfasi. Un vertice lungamente sospirato a cui la diplomazia italiana sta lavorando da mesi e a cui il premier arriverà buon ultimo tra i leader del G8.
«Berlusconi deve rispondere alle accuse di essere un donnaiolo e a quelle su comportamenti inappropriati. La qualità di governo non è un fatto privato», scrive il Times a cui Berlusconi risponde mettendo in dubbio l´indipendenza di giudizio perchè «i giornali stranieri sono in collegamento diretto con i giornali della sinistra italiana: sono cose ispirate e insufflate dalla sinistra italiana». Il quotidiano di Londra è implacabile e non solo gli dà del «buffone sciovinista» che si accompagna «con donne che hanno 50 anni meno di lui, abusando della sua posizione per offrire loro lavori come modelle, assistenti personali o persino, assurdamente, candidate per l´Europarlamento». Ma aggiunge che «la cosa più scioccante è l´assoluto disprezzo con cui tratta gli italiani». Berlusconi è un «anziano libertino» che può «trovare divertente o temerario fare la parte del playboy». Ma quando vengono poste «domande legittime» come quelle di Repubblica «su rapporti che toccano lo scandaloso, la maschera del clown cade». E se non basta il Times c´è il Financial Times, che nei giorni scorsi lo ha definito «un esempio deleterio per tutti». Questa volta il quotidiano economico sostiene che «l´odore di scandalo distoglie l´attenzione da accuse più serie» come «le brutte notizie sul secondo anno di recessione economica e sul fallito tentativo di Fiat di acquisire Opel». Però tutto questo per Berlusconi è una campagna orchestrata dalla sinistra italiana, quella che ha «fatto cadere mia moglie in una trappola» e che ha assunto «Novella 2000 come carta dei valori». Con i «giornali della sinistra che hanno riempito il vuoto dei programmi della sinistra con il gossip e con una calunnia. Questa sinistra sa solo cavalcare le calunnie e violare la privacy». Ma la prima pagina sulla presunta relazione di Veronica Lario era di Libero che non è affatto un giornale di sinistra.

Repubblica 2.6.09
Demolizione di una first lady
di Natalia Aspesi


C´è una verità fantomatica, inventata lì per lì, inventata male e quindi continuamente rabberciata, rovesciata, cambiata, sempre più ridicola e offensiva: ma a quella bisogna credere, e c´è chi ci crede perché si obbliga ciecamente a credere tutto ciò che dice il capo, tutto ciò che attorno al capo viene costruito dalla sua corte per distogliere da lui ogni ombra.
Con le sue parole Veronica volava alto. I giornali del premier volano molto basso
Il capo e la sua corte sono certi che le loro menzogne costituiscano la realtà dei fatti, perché loro sanno come far tacere la realtà vera e i fatti veri: ancora ieri ha detto di aver già "chiarito tutto", ma in realtà continua a non rispondere alle domande. C´è un intero esercito di avvocati, con i loro visi aguzzi gelidi e spietati, c´è una moltitudine di dipendenti, nei giornali e nelle televisioni, c´è una folla di miracolati, carichi di spille d´oro, inviti in villa, voli su aerei di Stato, cariche politiche, prebende di ogni tipo, leggi apposite, ci sono gli amici degli amici, ci sono i corifei addestrati tutti alla stessa scuola, che nei talk show urlano sulle parole dei dissenzienti per non farle capire, c´è un possente muro per difendere il capo, per avallare le sue menzogne: e chiunque osi sottrarsi a questa nebbia nefasta, a questa palude eversiva, viene irriso, sporcato, attaccato, annientato.
Dopo che il premier si era assicurato che le foto definite innocenti dei festini nel suo luna park sardo fossero state requisite dalla magistratura (ma perché se innocenti?), non ha negato ai dipendenti del giornale di proprietà di suo fratello di pubblicare la foto di sua moglie, madre di tre dei suoi figli, accompagnata dalla sua guardia del corpo. La signora Lario e il signor Orlandi camminano a distanza di almeno due metri, il che pare anche troppo per un bodyguard il cui dovere è stare vicino all´oggetto della sua sorveglianza: e infatti ogni giorno la televisione ci fa vedere con quanto rigore e adocchiando ovunque, la folla di nervosi gorilla del capo assediano e sfiorano il suo sacro corpo per proteggerlo da ogni eventuale fastidio. Eppure nessuno ha mai osato vedere nella loro presenza appiccicosa qualcosa di erotico. Ma si sa, per le donne è un´altra cosa, magari basta una semplice vicinanza... Infatti ci ha subito pensato una signora, un´altra dipendente del capo per intemperanti benemerenze politiche, a rivelare ad un altro giornale del giro che quel cupo signore intento al suo lavoro, forse il solo che si era potuto vederle vicino, era l´amante della signora.
Si immagina il folto gruppo di pensiero intento a costruire le sue storie per mascherare le menzogne, e per concertare il nuovo attacco alla signora Lario, a chi ha osato dire per prima la verità, quell´uomo non sta bene; suo marito, ma soprattutto il capo del governo; la persona che deve occuparsi del paese e della sua crisi e spesso si distrae, anche troppo e in modo non sempre adatto, non tanto ai suoi doveri di marito, quanto a quelli di premier di un paese che ormai in Europa è guardato con molto sospetto.
Con quelle parole Veronica Lario volava alto: i giornali del premier, con le loro illazioni, volano molto basso: riducono un evento gravissimo che potrebbe essere, che è di Stato, che riguarda la pratica della menzogna e dell´uso della violenza e della sopraffazione da parte del potere, a un affare di corna e di dispetti matrimoniali. La volgarità è quelle dei reality televisivi fatti di finzione, è il non sapere usare mezzi di difesa se non nell´offesa. C´è un´Italia che crede davvero alla degradante fiction che le viene ammanita e si commuove per un povero miliardario ultrasettantenne e truccato che la moglie ha tradito lasciandolo solo, e cosa doveva fare se non invitare un po´ di belle ragazze a mangiare la pizza nel suo paradiso adatto ai gusti di Emilio Fede? Ma ce n´è anche un´altra d´Italia sempre più disorientata e costernata davanti a questi orrori, a questo labirinto di menzogne, a questo disprezzo per una donna, per le donne, per tutto il paese.

Corriere della Sera 2.6.09
Il caso dei voli di Stato. Da Mastella a Apicella
Corsi e ricorsi dei privilegi
di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella


«Tempo di rumba, tempo di te / Ballo e non ballo: ma perché?», si chiede Mariano Apicella in una canzone. Pare ora per quelle foto che lo mostrano mentre scende da un volo-blu, dei giudici potrebbero farlo «ballare» sul serio. Tanto più che in un’intervista a Claudio Sabelli Fioretti il menestrello del Cavaliere confidava già tutto: «Quando lui ha bisogno mi telefona Marinella, la segretaria: “Mariano, se non hai problemi il dottore ti vorrebbe stasera”. Io vado a Roma, poso la macchina a Ciampino e parto con lui sull’aereo presidenziale. Quasi sempre per la Sardegna, qualche volta per Milano». A spese dei cittadini.
Si dirà: che c’entra? L’aereo pubblico partirebbe lo stesso e un passeggero in più non incide di un centesimo!
È esattamente ciò che disse Clemente Ma­stella, nel settembre 2007, dopo essere stato denunciato dall’Espresso mentre saliva col fi­glio sul volo di Stato che portava Francesco Rutelli a Monza per il Gran premio di F1: «Mio figlio non lo vedo mai, che male c’è se l’ho por­tato al Gran premio? Tanto, se in aereo erava­mo 10 o 15 non cambiava niente».
Eh, no, è una questione di principio, titolò la Padania: «L’inGiustizia vola al Gran Pre­mio ». Il Giornale berlusconiano rincarò: «Non dicevano di voler tagliare i costi della politica? Forse usare l'aereo di Stato più farao­nico che ci sia per assistere al Gp di Monza non è il miglior modo di risparmiare. O no? Per dire: il Gran premio lo trasmettevano pu­re su RaiUno, il cui segnale, ci risulta, dovreb­be arrivare fino a Ceppaloni». E Alessandra Mussolini, furente: «Ho messo sul sito gli indi­rizzi e-mail di Rutelli e Mastella per consenti­re a tutti i cittadini di coprirli di “Vergogna!”» Dice oggi Palazzo Chigi che i «passaggi» of­ferti al cantautore personale del Cavaliere («Mi disse: “Vorrei avere qualcuno che mi fa un po’ rilassare nei fine settimana”») sono as­solutamente legittimi: «La disciplina dell'im­piego degli aerei di Stato è stabilità dalla Diret­tiva 25 luglio 2008, regolarmente registrata al­la Corte dei Conti, che ne detta le regole per tutte le Autorità ammesse ad usufruirne». E cosa dice questa legge, che spazzò via quella più restrittiva fatta dal governo Prodi per argi­nare un andazzo che nel 2005 aveva visto im­piegare i voli di Stato per 37 ore al giorno con una spesa di 65 milioni di euro pari al costo di 2.241 (duemiladuecentoquarantuno) biglietti andata e ritorno al giorno (al giorno!) da Mila­no a Londra con la Ryanair?
Dice quella legge (bollata allora da Libero con il titolo «Onorevoli e vip: Silvio allarga gli aerei blu» sotto l’occhiello: «Voli di Stato: la Casta mette le ali») che quelli che Luigi Einau­di chiamava «i padreterni» possono imbarca­re persone estranee «purché accreditate al se­guito della stessa, su indicazione dell'Autori­tà, anche in relazione alla natura del viaggio e al rango rivestito dalle personalità trasporta­te ». Di più: «L'imbarco di persone estranee al­la delegazione non comporta quindi alcun ag­gravio degli oneri comunque a carico dell'era­rio ». Appunto: la tesi di Mastella.
Obiezioni? Ma per carità: la legge è legge. E non ci permettiamo di dubitare che sia stata rispettata fino in fondo. Un conto è il rispetto delle regole formali, però (tanto più se queste sono state cambiate apposta) e un altro è l'op­portunità. È probabile che lo stesso Berlusco­ni avesse tutti i diritti mesi fa di prendere l’eli­cottero della protezione civile per andare a far­si un massaggio alla beauty farm di Mességué in Umbria, come documentò un filmato del TG3. L’opportunità, però è un’altra cosa. E di­spiace che anche questi episodi, gravi o secon­dari che li si consideri, confermino una certa «rilassatezza» sui costi e i privilegi della politi­ca. Come se la rovinosa sconfitta della sinistra alle elezioni dell'aprile 2008 avesse già saldato il conto tra la politica e i cittadini indignati.
Che la sinistra, incapace di capire l'insoffe­renza montante, meritasse la batosta, lo han­no ormai ammesso in tanti. Compreso Fausto Bertinotti, finito nel mirino proprio per i voli blu: «I nostri gruppi dirigenti? Sganciati e lon­tani dalla realtà dei lavoratori, autoreferenzia­li, così si è venuta formando anche a sinistra una vera e propria casta, un ceto politico inte­ressato solo alla propria sopravvivenza».
Sarebbe davvero un peccato se la destra, che in gran parte cavalcò quei sentimenti di indignazione e oggi, secondo il Pd, triplica (da 150 a oltre 400 ore medie al mese) quei voli blu che ieri bollava con parole di fuoco, pensasse che la grande ondata di insofferenza si sia allontanata per sempre. Peggio ancora se pensasse che non c'è più bisogno di una ro­busta moralizzazione del sistema. Certo, alcu­ne misure sono state prese. La Camera e il Qui­rinale, quest'anno, dovrebbero costare meno dell'anno scorso. Ma già al Senato, ad esem­pio, non sarà così. E molti episodi rivelano una sconfortante indifferenza nei confronti dei tagli e soprattutto delle riforme ancora ne­cessari.
Basti pensare alla recentissima denuncia dei «portaborse» secondo i quali i presidenti delle Camere, dopo avere «annunciato solen­nemente un giro di vite radicale contro lo scandalo dei collaboratori parlamentari assun­ti in nero», hanno riciclato «parola per paro­la, i contenuti di una missiva analoga spedita il 28 marzo 2007» e da loro stessi giudicati «inadeguati». O all’assenteismo dei nostri eu­ro- parlamentari, 10 dei quali sono tra gli ulti­mi 20 nella classifica. O alla decisione di vara­re l'area metropolitana di Reggio Calabria no­nostante sia per abitanti al 44º posto tra gli agglomerati urbani perfino dietro Aversa, Va­rese, Chiari, Vigevano… O ancora alla timidez­za nel prendere di petto temi politicamente spinosi come la gestione di carrozzoni quali la Tirrenia o l’Amia, la società che dovrebbe occuparsi dei rifiuti da cui è sommersa a Paler­mo e i cui capi (tra i quali il presidente, pro­mosso a senatore) andavano negli Emirati Ara­bi a «vendere» la raccolta differenziata «alla palermitana» spendendo anche 500 euro a pa­sto.

Corriere della Sera 2.6.09
Politica e fumetti
Una sceneggiatura che ricorda le avventure di Topolinia
di Beppe Severgnini


Topolanek nudo! Sembra un allarme lanciato da Superpippo, è invece è l’argomento di cui discutiamo in Italia. Oggi è la Festa delle Repubblica: se qualcuno avesse dubbi che la nostra democrazia sta assumendo contorni fumettistici, legga i giornali. Che bisogno abbiamo dei Tremonti Bonds, per aiutare la finanze nazionali? Vendiamo i diritti alla Disney.
La nostra discesa verso gli inferi del ridicolo passa anche da vicende improbabili e nomi impeccabili. Mirek Topolánek, anni 53. Capo del governo a Praga fino al marzo scorso, è separato dalla moglie Pavla Topolánková; ha due figlie, due figli e due nipoti. I suoi idoli sono Churchill, Thatcher e Aznar. Le sue letture Steinbeck, Hemingway e Kundera.
I suoi passatempi — informa Wikipedia — includono tennis, golf e guida nei rally. Di naturismo non si parla. Di ragazze neanche.
Villa Certosa sta assumendo, nella fantasie nazionali, tratti leggendari. Gli amici del protagonista, cercando di minimizzare, contribuiscono ad arricchire la sceneggiatura.
Marcello Dell’Utri: «C’è la gelateria. Tu vai lì, e ti servono tutto il gelato che vuoi. Gratis. Se ci pensa, è una trovata molto divertente». Flavio Briatore: «C’è il gioco del vulcano.
Si chiacchiera del più e del meno e quando il gruppo si avvicina al laghetto, (Berlusconi) finge di preoccuparsi, dicendo che la Sardegna è una zona vulcanica. E a quel punto si sente un’esplosione pazzesca, ci sono effetti tipo fiamme...». Sandro Bondi, cercando di spiegare il Topolanek desnudo: «Mah... D’altra parte consideri che la villa è a pochi metri dal mare. Una mare, come lei saprà, di una bellezza assoluta».
Per descrivere le festicciole del Capo hanno tirato in ballo di tutto: da Boccaccio a Fellini a Umberto Smaila. Inesatto. Nessuna Rimini notturna né campagna toscana, niente «Colpo Grosso» o Sodoma & Gomorra all’italiana. Villa Certosa è Topolinia (qualcuno lo spieghi al «Times» di Londra). Una città incredibile dove la Banda Bassotti tira tardi in compagnia del commissario Basettoni, Pluto veglia tra i ginepri e Macchia Nera guarda Minnie che si fa la doccia.
In attesa di sapere se il prodotto è adatto ai bambini, diciamo questo: era da tempo che la politica italiana non produceva una trama altrettanto fantasiosa. La satiriasi del potere è un fatto storico: imperatori e satrapi, dittatori e autocrati hanno sempre amato riempire le feste di attrazioni e ragazze. In democrazia la cosa è più complicata, ma la cinica elasticità italiana consentirebbe di raccontare molto, se non proprio tutto. L’ultimo scoglio è la coerenza ufficiale: i politici, anche i più spregiudicati, non sono ancora pronti ad ammettere quello che fanno, temendo che qualcuno lo confronti con quello che dicono.
Durerà poco: l’ipocrisia, nei fumetti, non serve.
Ps L’ex primo ministro ceco Mirek Topolanek il 29 maggio ha risposto alle critiche di Silvio Berlusconi il quale, durante l'assemblea di Confesercenti, aveva parlato delle debolezze dell'Europa e della poca autorevolezza della presidenza ceca di turno: «Silvio, amico mio, chiudi la bocca!». Invito accolto, pare.

il Riformista 2.6.09
Europee dal casoriagate potrebbero arrivare i voti che fanno la differenza tra il disastro e la tenuta
Effetto Noemi sulle urne
Così il Pd rivede la luce
di Alessandro Calvi


Anche Noemi, dunque, come ancora di salvezza per il Pd. La sensazione è che l'ordine di scuderia, dalle parti del Nazareno, sia ancora questo, anche se, a causa di quella uscita sull'educazione dei figli di Berlusconi, Dario Franceschini ha dovuto fare un passo indietro. Ma c'è Massimo D'Alema - e non soltanto lui - a battere la grancassa. Insomma, sembra netta nel Pd la convinzione che questa storia possa finire per mobilitare almeno una parte dell'elettorato. E, magari, si tratta proprio di quei 2 o 3 punti che servono per scollinare oltre quota 25% ed evitare che, all'indomani del voto, si possa parlare di disastro. Sempre che Antonio Di Pietro non finisca per cannibalizzare anche quei pochi voti, sprofondando all'inferno Franceschini. E con lui l'intero Pd.
Ecco, dunque, che anche Noemi potrebbe tornare utile. Spiega Nando Pagnoncelli (Ipsos) che nelle ultime settimane si è evidenziato un ampliamento della zona grigia che raccoglie gli indecisi e chi dichiara di non volersi recare al voto. È il segnale di un disorientamento che, normalmente, con l'avvicinarsi del voto tende a diminuire. «La mia sensazione - osserva Pagnoncelli - è che il Pd potrebbe trarre giovamento dall'affrontare la vicenda sul piano dei valori. D'altra parte, sul piano del pragmatismo è il centrodestra ad essere avvantaggiato». Inoltre, spiega Pagnoncelli, il Pd certamente non pesca voti nel centrodestra ma nell'elettorato che, allo stato, non se la sente di riconfermare il voto. «Dovendo parlare a persone che hanno già votato Pd - prosegue - ecco che parlare di valori può servire. E anche quella frase di Franceschini potrebbe non avere un impatto così negativo sull'elettorato al quale attinge il Pd».
Quella frase, dunque, ovvero l'uscita sull'educazione dei figli con la quale Franceschini ha finito per tirare in ballo i figli del premier - quelli di primo e di secondo letto - facendo, come i fatti hanno dimostrato, anche un favore al Cavaliere che, proprio su quella frase, ha potuto costruire la riscossa personale. Anche per questo, ora Franceschini si tiene un passo indietro e parla d'altro come, ad esempio, dell'assenza del governo nella vicenda Fiat-Opel o, come ha fatto ieri, dei rifiuti di Palermo. Se poi deve tornare sul dossier Noemi, lo fa prendendola larga, parlando - come si faceva un tempo - di una Italia di plastica che si contrappone a quella reale. Nulla a che vedere con gli attacchi pre-autogol, quando faceva da sponda alla campagna di Repubblica o parlava, a proposito del premier, di «un uomo che ha perso l'equilibrio» e che «è pieno di scheletri nell'armadio». A tenere alti i toni, ora, sono altri. E, il D'Alema che, come ha fatto nei giorni scorsi, spiega che il caso Noemi «ha indubbiamente una rilevanza pubblica», è tra questi.
L'infortunio di Franceschini, in ogni caso, potrebbe non costare molto al Pd. Anzi, potrebbe non costare nulla. Questo, però, perché, a differenza di Pagnoncelli, c'è anche chi si dice convinto che l'affaire Noemi non sposti un'acca o quasi. «Il Pd - spiega Nicola Piepoli (Istituto Piepoli) - è fermo, non si muove. Né si è mai mosso. Se aveva 100 voti ad ottobre, ne ha ancora 100, forse 98. È appena un filo più fragile ma la vicenda Noemi non sposta nulla. È gossip, non politica. Agli italiani interessa altro: la Fiat, la crisi, non il chiacchiericcio». Anche Renato Mannheimer rileva come «fino a poco tempo fa tutta questa vicenda aveva inciso molto poco, data la forte indecisione che c'è a sinistra». Però, «entrare nella polemica potrebbe essere una scelta vincente», spiega, Mannheimer, per intercettare qualcuno degli astenuti delle scorse elezioni. In linea di massima, infatti, quei voti andrebbero alla sinistra estrema o all'Idv. Ed è lì che il Pd può sperare di pescare qualcosa anche se, avverte Mannaheimer, non è detto che poi nella realtà ciò avvenga: «Non è certo la vicenda Noemi che può convincere a votare chi era deluso la volta scorsa».
Che questa storia possa avere conseguenze soprattutto nella distribuzione dei voti a sinistra lo pensa anche Roberto Weber (Swg). «Però - precisa - incide più che altro a sfavore di Berlusconi. L'elettorato del Pd, infatti, vota su un vissuto lungo». Ovvero, lo smarrimento di almeno 2 anni che, in una qualche misura, è lo stesso che ha pagato anche Walter Veltroni. Ed è lì che il Pd si gioca molte delle sue carte. Piuttosto, dice Weber, la sensazione è che tutta questa storia possa avere arrestato «lo slancio di Berlusconi che si stava costruendo un profilo da uomo di Stato più che da capo di partito». Ma, dice Weber, non ci saranno smottamenti. Ragione di più, forse, per Franceschini per cercare voti in casa propria. Se è il caso, anche usando Noemi.

Repubblica 2.6.09
I retroscena dei rapporti tra Berlusconi e Ratzinger nel nuovo libro di Pinotti e Gümpel
Quel patto segreto tra la destra e la chiesa
di Alberto Statera


Si chiama "L´unto del Signore" E rivela i legami tra il Governo e il Vaticano. Sanciti alla presenza di Letta e Bertone in un incontro del 5 giugno 2008

L'unto del Signore, come si autodefinì una volta, non è mai stato l´idealtipo del buon cattolico praticante. Ma quel 5 giugno 2008, con la regia del gentiluomo di Sua Santità Gianni Letta e del segretario di Stato Tarcisio Bertone, Silvio Berlusconi e Joseph Alois Ratzinger siglarono un patto d´acciaio tra il governo italiano in carica da un mese e il papato. Passato un anno, quel patto difensivo-offensivo ha già dato risultati straordinari per i contraenti, tanto da indurre il presidente della Camera Gianfranco Fini a tentare di smarcarsi dal berlusconismo anche in nome della laicità dello Stato.
Non c´è divorzio che possa incrinare quella sorta di nuovo Concordato de facto, nonostante le critiche della Chiesa del Vangelo alla «partnership» delle alte gerarchie con il politico amorale per eccellenza. Quella partnership consolidata recentemente con il Papa, in realtà viene da lontano, come documenta con dovizia di prove un libro-inchiesta di Ferruccio Pinotti e Udo Gümpel, intitolato per l´appunto L´unto del Signore in uscita per la Bur il 3 di giugno (pagg. 299 , euro 12,50) . Viene talmente da lontano da essere ormai indissolubile. Ne è convinto, anche il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga: «Alla Chiesa cattolica - ha detto intervistato dagli autori - che uno vada in chiesa o meno non importa molto: se devo fare un contratto, una società, come amico mi scelgo uno che abbia le mie stesse idee religiose, ma se questo cristiano non capisce nulla di finanza e dall´altra parte c´è un massone che capisce di finanza, con chi crede che faccia la società? La Chiesa guarda al concreto». Berlusconi è cristiano e pure massone (tessera 1816 della P2).
Il giovane Silvio, studi al liceo Sant´Ambrogio dei Salesiani e frequentazione di Torrescalla, residenza universitaria milanese dell´Opus Dei, dove conobbe Marcello dell´Utri, fa i primi passi di imprenditore edile con l´aiuto della Banca Rasini. Investendo una parte dei primi guadagni, fonda la squadra di calcio Torrescalla-Edilnord targata Opus Dei: lui presidente, l´amico palermitano allenatore e il fratello Paolo centravanti.
Alla Rasini il padre Luigi da semplice impiegato è diventato direttore.
Questa banca, con un solo sportello a Milano in piazza dei Mercanti, era alternativamente definita «Vatican bank», «Sportello della mafia» o « Banca di Andreotti». E´ stata in realtà tutte queste cose prima di finire nel 1992 dentro la Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani, l´uomo che sussurrava ad Antonio Fazio, pio governatore della Banca d´Italia e legionario di Cristo.
Dagli anni Sessanta e fino al blitz antimafia del 14 febbraio 1983 che portò all´arresto del direttore Antonio Vecchione, succeduto a Berlusconi senior, e di un gruppo di imprenditori legati ai clan Fidanzati, Bono e Gaeta, era in quello sportello a due passi dal Duomo il crocevia degli interessi di Cosa Nostra e del Vaticano. La maggioranza azionaria era passata dai Rasini a Giuseppe Azzaretto, nato e Misilmeri nei pressi di Palermo, cavaliere di Malta e commendatore del Santo Sepolcro, che aveva nominato presidente Carlo Nasalli Rocca, anche lui cavaliere di Malta e fratello del cardinale Mario Nasalli Rocca.
Ma si diceva che l´effettivo controllo fosse di Giulio Andreotti, come conferma Ezio Cartotto, ex dirigente democristiano che con Dell´Utri partecipò alla fondazione di Forza Italia. Interpellato da Pinotti e Gümpel, Dario Azzaretto racconta: «Andreotti è stato per la mia famiglia un grande amico e lo è tuttora», tanto che per anni ha trascorso le vacanze nella loro villa in Costa Azzurra.
Ma i misteri della Rasini, passata negli anni Ottanta anche per le mani dell´imprenditore andreottiano Nino Rovelli, non sono finiti qui. Dietro c´erano tre fiduciarie basate in Liechtenstein e amministrate dal gentiluomo di Sua Santità e gran croce dell´Ordine papale di San Gregorio Herbert Batliner, re dell´offshore, gnomo degli gnomi plurinquisito, che nel 2006 regalò un organo del valore di 730 mila euro a papa Ratzinger.
C´era anche Berlusconi in quelle tre fiduciarie? «Non mi pare - risponde Dario Azzaretto - che Berlusconi o parenti di Berlusconi o persone vicine a Berlusconi avessero partecipazioni in società che si potevano riferire alla banca». Le sue operazioni con la Rasini - aggiunge - avvenivano tramite Armando Minna, membro del collegio dei sindaci e amministratore di alcune holding berlusconiane registrate come saloni di bellezza e parrucchieri.
Ufficialmente è nel 1975, quando i primi inquilini già abitano a Milano 2, che nasce la Fininvest. Ma la ricerca certosina degli autori dell´Unto del signore la retrodata di almeno un anno, quando una Fininvest Ltd-Grand Cayman compare tra le società partecipate da Capitalfin, controllata a sua volta dal Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e dall´Istituto per le Opere di Religione.
Ciò che coincide con quanto dichiarato dal figlio del banchiere piduista trovato morto a Londra nel 1982 sui soldi misteriosi con cui venne costituita la Fininvest. Carlo Calvi racconta tra l´altro che il padre, in una riunione del dicembre 1976 alle Bahamas cui era presente anche il cardinal Marcinkus, lo prese sottobraccio e gli sussurrò: «Finanzieremo le attività televisive di Silvio Berlusconi».
Storia antica, ma significativa del vero miracolo compiuto da Berlusconi: quello di avere sempre con sé il Vaticano, nonostante la sua storia personale. Al punto, diventato presidente del Consiglio, da dividere l´Italia tra due sovranità che si contendono il paese: quella della Chiesa e quella del declinante Stato laico.
Racconta ancora Cartotto: «Dell´Utri mi invitò a una convention di Publitalia a Montecarlo. Arrivammo nel principato con l´aereo aziendale. Su quell´aereo c´eravamo io, il professor Torno e monsignor Gianfranco Ravasi. Sono convinto che Berlusconi abbia cominciato a pensare all´ipotesi di scendere in campo nell´autunno del 1992, proprio in occasione di quella convention. Silvio fece un discorso nel quale rilevava che il clima politico si stava facendo pesante. Disse che gli amici perdevano potere, che i nemici ne conquistavano e l´azienda doveva attendersi momenti difficili».
Decisa infine la «discesa in campo», i rapporti col Vaticano divennero quasi un´ossessione: «Posso dire di aver avuto un piccolo ruolo anche io», vanta Cartotto: «Organizzai un incontro tra Bertone e Aldo Brancher, un ex sacerdote che ora è uno degli uomini più importanti di Forza Italia, quando il cardinale non conosceva ancora il gruppo berlusconiano. Poi Brancher lasciò il passo a Letta soprattutto nel momento in cui Bertone divenne segretario di Stato». Il cardinale Silvio Oddi, per trent´anni prefetto della Congregazione per il clero, assolse prontamente il Berlusconi politico dal peccato del primo divorzio. Il cardinale Camillo Ruini avallò.
Il 30 giugno 2008, tre settimane dopo l´incontro Ratzinger - Berlusconi, il governo confeziona il disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche che prevede una disciplina ad hoc per gli ecclesiastici. Se si intercetta un prete bisognerà avvertire il suo vescovo, se si intercetta il vescovo il segretario di Stato vaticano. E se si intercetta il papa? Opzione non prevista.

l'Unità 2.6.09
L’allora e l'adesso di Gobetti
Le lettere alla moglie Ada colpiscono perché danno un’idea del vuoto morale e politico che ricorda l’oppressione umana di oggi
di Giovanni Nucci


Leggendo le lettere scritte per la morte di Piero Gobetti alla moglie Ada («L’autunno delle libertà», appena uscito da Bollati Boringhieri), ne viene una strana commozione. Lo «strazio» di Don Sturzo; la «perdita definitiva di possibilità» di cui parla Angelo Tasca; o Gaetano Salvemini a cui «pare di aver perduto una radice nella vita... vorrei gridare furiosamente il mio dolore, e non posso»; o il «ramoscello di edera che abbiamo staccato oggi dalla tomba del suo povero Piero» e che Dolores Prezzolini manderà appunto ad Ada Gobetti qualche mese dopo la morte di Piero.
Colpiscono e commuovono perché danno un’idea del vuoto, morale e politico, che lasciò Gobetti in un momento di grande oppressione del paese (morì nel febbraio del 1926, in esilio, a Parigi). Ma se la commozione va per empatia, forse è perché stiamo vivendo una simile oppressione umana e culturale, antropologica, prima di tutto. E perché Gobetti continua a mancare. D’altronde aveva capito così bene l’allora da farlo calzare perfettamente con l’adesso. Quando parlava, ad esempio, del fascismo in Italia come di un’«indicazione di infanzia perché sogna il trionfo della facilità, della fiducia, dell’entusiasmo», e lo definiva «l’autobiografia di una nazione». Il che suggerirebbe che quell’autobiografia non si è conclusa, anzi si protrae. Il gioco è semplice, basta prendere La rivoluzione liberale nella finalmente nuova edizione che Einaudi ha pubblicato un anno fa (ottima l’introduzione di Flores d’Arcais), e fare qualche sostituzione: intendere l’adesso con l’allora, sostituire (per dirla con Gadda) «chillo fetente d’ ’o balcone ’e palazzo Chigge» con quello di adesso: uno vale l’altro. (Le parentesi siano d’aiuto) Gobetti diventa, anche citandone una minima parte, illuminante.
«A (Mussolini) manca il senso squisitamente moderno dell’ironia, non comprende la storia se non per miti, gli sfugge la finezza critica dell’attività creativa che è dote centrale del grande politico. (...) Ha bisogno di un mondo in cui al condottiero non si chieda di essere un politico. Lottare per una idea, elaborare una lotta, un pensiero, è un lusso, una seccatura: (Mussolini) è abbastanza intelligente per piegarvisi, ma gli basterebbe la lotta pura e semplice senza i tormenti della critica moderna. Solo gli ingenui si sono potuti stupire dei suoi recenti amori con la Chiesa cattolica. Nessuno è più lontano di (Mussolini) dallo spirito dello Stato laico e dalla vecchia Destra degli Spaventa. Egli non ha nulla di religioso, sdegna il problema come tale, non sopporta la lotta col dubbio; ha bisogno di una fede per non doverci più pensare, per essere il braccio temporale di una idea trascendentale. (...) In un consesso internazionale di impenetrabili l’inferiorità di (Mussolini), attore più che artista, tributo più che statista, è palese poiché egli non sa che specchiarsi nella propria enfasi. (...) (Mussolini) è a suo agio soltanto quando parla al buon popolo e ne ascolta i desideri e lo rimbrotta con fiero cipiglio per le sue monellerie. (...) Tuttavia restano notevoli le attitudini di (Mussolini) a conservare il potere tra un popolo entusiasta e desideroso di svaghi, che egli conosce benissimo e cui appresta quotidianamente sorprese.
(...) Il mussolinismo è dunque un risultato assai più grave del fascismo stesso perché ha confermato nel popolo l’abito cortigiano, lo scarso senso della propria responsabilità, il vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex macchina la propria salvezza. La lotta politica in regime mussoliniano non è facile: non è facile resistergli perché egli non resta fermo a nessuna coerenza, a nessuna posizione, a nessuna distinzione precisa ma è pronto a tutti i trasformismi».
Carlo Rosselli -oggi voliamo alti!- scrisse ad Ada che «Piero Gobetti è ormai una divisa, un programma di vita. Sono certo che tra dieci, vent’anni, quando ciò che ci opprime e ci umilia sarà crollato egli sarà ricordato come uno dei più nobili ed efficaci precursori». Lo fu talmente da esserlo ancora adesso, dopo novant’anni. Forse vale la pena che le nuove e future classi dirigenti che vogliano reagire, partano da lì. (Ed anche le vecchie, magari per illuminarsi su certe loro incomprensioni del fenomeno che stiamo vivendo). Lui stesso, Gobetti, chiudendo il suo libro sembrava volerli spronare: «Dovrà ineluttabilmente l’Italia rimanere condannata dalla sua inferiorità economica a questi costumi anacronistici e cortigiani? O le forze della nuova iniziativa popolare e di ceti dirigenti incompromessi riusciranno a dare il tono alla nostra storia futura?».

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Corriere della Sera 2.6.09
Vent'anni fa la strage
Gli studenti di piazza Tienanmen furono coraggiosi, non avventati
di Ian Buruma


Ci si sente raggelare al pensiero che esattamente vent’anni dopo il massacro di piazza Tienanmen sono pochissimi i giovani della Repubblica Popolare Cinese ad avere un’idea di quanto accadde in quell’occasione. Molti cittadini disarmati furono trucidati dalle truppe dell’Esercito di Liberazione cinese il 4 giugno 1989, e non solo nelle vicinanze di piazza Tienanmen, ma in tutte le città della Cina. Per la maggior parte non erano studenti, come quelli che avevano dato avvio alle manifestazioni pacifiche contro corruzione e autocrazia, bensì semplici operai, quella classe sociale che vede proprio nel partito comunista il suo difensore. I giovani non lo sanno, perché i genitori hanno preferito tacere, sia per evitare grane a se stessi e ai loro figli, sia perché l’argomento non viene mai sfiorato dai media ufficiali cinesi: è tabù. I siti web che menzionano gli avvenimenti del 1989 vengono chiusi. Le mail intercettate. E coloro che insistono ancora a parlarne in pubblico sono spesso arrestati.
Zhao Ziyang era il segretario generale del partito comunista nel 1989. Sebbene assai poco incline a idee democratiche, le sue simpatie tuttavia erano per gli studenti scesi in piazza. E siccome si opponeva ai membri più intransigenti del suo stesso governo, venne condannato agli arresti domiciliari fino alla morte, sopravvenuta nel 2005. Le sue memorie sono state fatte uscire di nascosto dal Paese incise su cassette, camuffate come registrazioni dell’Opera di Pechino, e di recente pubblicate in inglese e in cinese. Ovviamente, la loro distribuzione in Cina è vietata. Il libro di Zhao è destinato ad aprire nuovi dibattiti su quali insegnamenti trarre dal «4 giugno». Sono dibattiti necessari, e sarebbe auspicabile che si svolgessero in Cina. Una forte corrente di pensiero, emersa subito dopo i massacri nel 1989, sostiene che i leader studenteschi più radicali si comportarono sventatamente.
Avrebbero dovuto sapere che era impossibile sottrarsi a una repressione violenta. Nel provocare il regime, gli studenti fecero deragliare ogni possibilità di riforme politiche graduali, che i loro mentori più anziani, e più moderati, avevano cautamente avviato. I sostenitori di questa tesi spesso aggiungono che, inoltre, la Cina non era ancora pronta per la democrazia. E le manifestazioni di piazza non erano certo il sistema migliore per vederla realizzata. Anzi, i leader studenteschi radicali non avevano un’idea esatta della democrazia, né più né meno dei leader comunisti, oggetto delle loro critiche. La vita nella capitale, e in molte altre città cinesi, fu gravemente sconvolta. Il governo cinese usò la mano pesante, certo, ma aveva il dovere di riportare ordine nelle strade. Se i leader studenteschi avessero davvero voluto rovesciare il governo, e con metodi violenti, questa teoria sarebbe assai convincente. Ma non esistono prove che gli studenti avessero queste mire. I manifestanti non reclamavano altro che libertà di parola, dialogo con il governo, sindacati indipendenti. In retrospettiva, è facile dire che le manifestazioni erano destinate a essere soffocate nel sangue. Se la storia non si ripete mai esattamente, esistono tuttavia dei modelli ricorrenti. Non bastano i cortei a far cadere un regime, occorre l’intervento di altri scossoni politici, talvolta del tutto imprevisti. Quando i tedeschi dell’Est protestarono contro i loro autocrati comunisti nel 1989, nessuno sapeva a che cosa sarebbero andati incontro. Non pochi furono i dirigenti di partito che invocarono lo spiegamento dei carri armati, proprio come i compagni di Pechino. Ma quando Gorbaciov si rifiutò di approvare il giro di vite nella Repubblica Democratica tedesca, i sollevamenti popolari andarono a sommarsi alle inefficaci manovre del governo e insieme contribuirono a dare la spallata decisiva al Muro. Gli studenti sudcoreani che affollavano le strade di Seul nel 1986 non ce l’avrebbero fatta, da soli, a rovesciare la dittatura militare. I ragazzi di piazza Tienanmen non potevano sapere che cosa stava accadendo all’interno del regime blindato della Cina. L’approccio conciliante di Zhao Ziyang risultò perdente. Gli intransigenti, che si rifiutarono di cedere il monopolio del potere, riportarono la vittoria.
Se avesse prevalso Zhao, gli studenti si sarebbero ritirati? Difficilmente.
Ad ogni modo, non spettava agli studenti, né agli operai che li appoggiavano, schierarsi con questa o quella fazione del governo. Altro non chiedevano che un po’ più di libertà. E questa dovrebbe essere la lezione principale da trarre da quei giorni primaverili a Pechino, a Shanghai, a Guangzhou e in molte altre città: i cinesi hanno il diritto, come tutti gli altri popoli, di esprimersi liberamente, senza timore dell’arresto, di votare i propri leader, e di vedere che la legge è rispettata da tutti, a cominciare dai politici. Il 4 giugno 1989 migliaia di cinesi persero la vita per aver chiesto molto meno. Il modo migliore per ricordarli è riaffermare il loro diritto a quelle libertà che milioni di cittadini danno per scontate, sia in Occidente che in molti Paesi asiatici. Il modo peggiore è puntare il dito contro un manipolo di studenti che si ostinò a reclamare quel diritto, fino a che non fu troppo tardi.
traduzione di Rita Baldassarre

il Riformista 2.6.09
Diario italiano di quei giorni d'orrore a Pechino
di Ilaria Maria Sala


Sangue. Ce ne era tanto per le strade e gente che piangeva. Madri che chiedevano ai soldati perché avessero sparato contro i ragazzi, militari impiccati e poi bruciati dalla folla inferocita e addolorata. Il 4 giugno, nella piazza simbolo del regime, si consumò il massacro di migliaia di studenti.

Nell'anno accademico 1988-1989 ero iscritta alla Normale di Pechino dove studiavo cinese. Le manifestazioni studentesche cominciarono il 17 aprile, con la morte di Hu Yaobang, leader riformista, e durarono fino al 3 giugno: notte in cui l'esercito cinese cominciò a sparare sui dimostranti.
3 giugno, 1989 - Il centro di Pechino è ancora occupato, il governo rifiuta il dialogo, e molti sono stanchi dello stallo, dell'atmosfera ormai pesante sulla città. L'incertezza è forte: i soldati sono qui da due settimane e mezzo, seduti senza fare niente, si guardano intorno confusi e accaldati, affatto minacciosi, ragazzini messi lì da qualche scriteriato. Alcuni nuovi movimenti di truppe appaiono sospetti, e oggi c'è molta tensione nell'aria. C'è chi dice che i soldati stiano andando via, ma non si capisce se sia vero: dicono che è stato dato l'ordine di dare il cambio a questi soldati, che hanno passato troppo tempo in città e non possono eseguire i nuovi ordini che sarebbero stati dati. Non c'è modo di sapere se sia vero, ma gli studenti non vogliono andare via: hanno sofferto troppo, e non riescono a credere che il governo sia così crudele.
I soldati che sono in città dal 17 maggio hanno ascoltato turbati gli studenti che gli dicevano perché manifestano, hanno accettato con un po' di impaccio il cibo e le bevande che gli venivano portate dalle nonne della città, e hanno preso i giornali dei primi di maggio, quando i giornalisti avevano deciso di non censurarsi più e si schieravano dalla parte delle manifestazioni. Gli studenti erano venuti in tutti i dormitori, anche da noi studenti stranieri, a chiedere copie di quotidiani di quei giorni perché i militari potessero leggere la vera versione dei fatti, quella scritta prima della legge marziale. Ma tre giorni fa ci sono stati degli arresti: undici persone delle "Tigri Volanti", i motociclisti che fanno la staffetta facendo la spola fra la piazza e la periferia della città per riportare ogni movimento sospetto agli studenti. Adesso non c'è nessuno che possa dare notizie accurate. Qualche tassista ha deciso di sostituire le Tigri Volanti, ma sono intercettati e fermati.
La piazza ormai puzza. È occupata da settimane e per quanto facciano per tenere pulito, la folla è troppa, molti sono accampati nelle tende blu portate in dono dai sostenitori di Hong Kong. Gli studenti di Pechino la notte tornano nei campus e di giorno scendono a Tiananmen, ma sono meno di prima. Ai confini della piazza, c'è la tenda con il quartiere generale degli operai. Sono andata a pranzo con la mia compagna di stanza. Appena sedute siamo state interrogate dalla cameriera: vuole sapere come stanno «i nostri studenti», se abbiamo notizie degli spostamenti di truppe, appena ha finito il turno andrà in piazza e dice: «tai kelian». Poverini.
Questa sera le cose sono peggiorate improvvisamente. Si sente dire che alcuni operai, in periferia, sono stati picchiati: oggi? Ieri? Nessuno lo conferma o lo nega, la città ora è davvero nervosa, non si sa a cosa credere. All'Università di nuovo ci stringiamo intorno alla radio ascoltando la Bbc. Ma anche la voce del loro corrispondente, James Miles, questa sera è concitata. Andiamo a letto preoccupati.
4 giugno, 1989 - Sono le quattro e mezza. Siamo stati svegliati dalle sirene e dalle ambulanze, e dal suono in lontananza degli spari. Fuori è buio, ma dalla nostra Università, la Normale di Pechino, quella più vicina al centro, si vede il grande viale che porta in città e che per settimane è stato una passerella delle manifestazioni di centinaia di migliaia di studenti. Di nuovo davanti ai cancelli ci sono migliaia di persone, uscite in fretta: alcuni in pigiama, altri hanno fatto in tempo a vestirsi. Molti vanno verso la piazza, altri cercano di fermarli: l'esercito sta sparando, e tanti pensano di poterli andare ad affrontare e fermarli. Cantano l'Internazionale, e continuano a scandire che «l'Esercito del Popolo non può uccidere il popolo!». Invece sembra di sì.
Dalla piattaforma sul tetto dell'edificio appena spunta l'alba guardando verso il centro città si vedono delle colonne di fumo. Scendo, vado fuori, e sono circondata da persone: alcuni piangono, tanti gridano. Ci spostiamo per far passare un autobus che sta entrando nell'Università, dicono che vada verso la clinica; le porte sono ancora aperte e vedo che è pieno di feriti e sangue sul pavimento. Alcuni non si muovono, altri guardano fisso sconvolti, una donna nella folla piange e grida che hanno ucciso gli studenti. Un uomo con del sangue sulla faccia mi si avvicina e vuole che prenda dei proiettili che ha raccolto da per terra per farli vedere «nel tuo Paese», dice che il mondo deve sapere che cosa stanno facendo qui, agli studenti disarmati. Un altro gli dice di metterli via subito, che è pericoloso, per me, per loro, per tutti. Si guardano sconsolati, la folla di gente che esce dalle case con lo shock sul volto è sempre più grande, poi c'è un momento di silenzio: vedo dei camion con i soldati che si avvicinano alla nostra Università. Sei, pieni di soldati. La folla si apre per lasciarli passare, gridando: «cosa avete fatto? Come avete potuto uccidere i nostri studenti? Cosa avete fatto?» Un soldato si alza in piedi, e si toglie la cintura di proiettili che ha intorno al corpo, e la dà alla gente che ha circondato il camion.
Poi, dà loro anche la pistola. Ha le guance bagnate di lacrime. Anche gli altri si alzano, e consegnano le armi. Le persone le prendono, altri applaudono, molti piangono. Uno studente prende una bandiera rossa e si arrampica sul cofano del camion: resta in piedi e indica di andare verso le altre Università. Ancora applausi, ancora pianti. Un mio amico mi trova e mi dice: «Vieni, ti prego, accompagnami a cercare mia sorella, è in piazza. Non spareranno sugli stranieri». Andiamo, in bici. Pechino sembra ribaltata: barricate, carri armati bruciati, sangue, un soldato bruciato impiccato da un ponte, gente che si affretta a portare in ospedale dei feriti, gli spari che continuano in lontananza.

Repubblica Milano 2.6.09
La famiglia secondo il ribelle Bellocchio
di Mario Serenellini


La Cineteca Italiana presenta all´Oberdan nove film del maestro reduce da Cannes
Uno sguardo critico e crudele sulla istituzione domestica, vista come cellula malata della nostra società

«Esistono vari tipi di pazzia. Quella che a me, muovendomi nel mondo dell´arte, interessa, è la pazzia dell´indifferenza. Credo che non esista pazzia peggiore di quella dell´uomo indifferente, che si è costruito una corazza caratteriale di tale spessore da non essere più disposto a rimettersi in gioco». Già trent´anni fa, su "Positif", Marco Bellocchio annunciava, senza saperlo, il film di oggi, Vincere, parabola di vera follia – l´indifferenza di un uomo di potere, il Mussolini interpretato da Filippo Timi, affrancato da ogni regola – che s´inventa le finte follie di moglie e figlio, per annientarne la credibilità e, persino, l´esistenza.
Il film, purtroppo negletto a Cannes, è il tacito tarlo ispiratore della selezione di nove titoli che la Cineteca Italiana mette in rassegna all´Oberdan, da domani al 1° luglio, col titolo "La famiglia secondo Marco Bellocchio", tema cardine e costante dell´intera cinematografia del regista piacentino, alle soglie dei suoi sempre giovani e sempre ribelli 70 anni.
Da I pugni in tasca (il 7 e il 21) a Il regista di matrimoni (il 20 e il 1°), lo sguardo critico e crudele sulla istituzione domestica, vista come cellula malata della società, è il filo conduttore del più tenace e coerente cinema-"contro" (insieme con quello di Pasolini e, forse, di Bene) che abbia attraversato l´Italia a partire dagli anni ´60.
Oasi apparentemente più tenui in questo percorso, due dei documentari che Bellocchio ha girato su di sé e la sua famiglia, Vacanze in Val Trebbia dell´80 e l´emozionante Sorelle del 2006. Radiografia delle radici, ritorno, anni dopo, sui luoghi natali (Bobbio, in provincia di Piacenza), entrambi (proiettati il 21) risvegliano i germi da cui s´è sviluppata la ricerca e l´esistenza del regista («non documentari ma film sulla famiglia, non necessariamente la mia, dato che io e gli altri diventiamo personaggi», ha chiarito Bellocchio): dove non a caso rispuntano immagini di Pugni in tasca, «perché richiamavano quelle appena girate, scene parallele anche dopo tanti anni trascorsi».
Nel resto del suo cinema, la famiglia, focolaio e scatenamento di malattia, è il nido di nevrosi che porta una madre a allontanarsi dal figlio da poco partorito (in La balia, dal diletto Pirandello, il 4 e il 7) o il teatro di un violento scontro, e della sua cruenta rappresentazione, tra un Marat-Sade di collegio e uno Zéro de conduite ancor più ideologico, in Nel nome del padre (il 3, alle 19, e il 6).
Ma è forse in Salto nel vuoto (il 20 e 26), con due attori stupefacenti come Michel Piccoli e Anouk Aimée, entrambi premiati a Cannes 1980 per la migliore interpretazione, che Bellocchio scava ancor più a fondo nella vacuità colpevole, ricattatoria e, alla fine, assassina del microcosmo famigliare, visto come luogo di costrizione psicologica e di graduale imposizione della follia, insomma, di potere e sopraffazione, come avverrà trent´anni dopo, in forma più dilatata e politica, in Vincere.

La Sicilia 2.6.09
Bellocchio, il nuovo modo di «Vincere»
di Nerina Spadaro


"Vincere" sta andando bene al botteghino. I dati di quest'ultimo weekend non sono ancora noti, ma il film di Marco Bellocchio, reduce dal festival di Cannes, solo pochi giorni fa era al quarto posto per incassi. Dopo "Angeli e Demoni", "Una notte al museo 2" e "San Valentino di sangue", ma prima di "Star Trek", "X Men" e "17 again".
Quando un film d'autore, e di un autore considerato difficile come Bellocchio, pur in assenza di premi raggiunge buoni risultati commerciali, questo significa fra l'altro che parecchi affezionati dei divani televisivi hanno deciso di muoversi da casa.
Che ad attirarli sia stato il rumore della stampa per questa nuova opera di un maestro giunto alla vecchiaia, oppure la prospettiva di vedere una storia d'epoca che può avere legami con il presente, o semplicemente il titolo e un buon lancio pubblicitario, in ogni caso gli habitués della fiction si saranno trovati davanti a qualcosa di completamente inedito. Un po' come persone abituate a nutrirsi di scatolette, piene di coloranti e aromi artificiali, e che a un tratto hanno l'opportunità di fare un ricco pasto con ingredienti di altissima qualità.
Se però consideriamo le cose da un punto di vista più ampio di quello della banalità televisiva, se pensiamo cioè alla spropositata quantità di immagini che ogni giorno comunque ci colpisce, dalla tv in chiaro, dal digitale terrestre, dal satellite, dai dvd, dai computer e ovviamente dai megaschermi delle multisale, ecco che la scelta di Bellocchio, la scelta cioè di misurarsi con il consumo di massa delle immagini, fa addirittura l'effetto di un colpo di frusta.
Certo, già altri autori, stranieri e italiani, hanno in qualche modo accettato la necessità, per "arrivare" a un pubblico ormai saturo, di trovare nuove e più estreme formule espressive. Ma qui, di fronte alla maestosità di un'opera che secondo l'ormai celebre commento di Variety, "toglie il respiro", si ha proprio l'impressione che un artista possa quasi tutto.
E infatti è come se Bellocchio, con questo suo "Vincere", dopo aver fatto silenzio intorno a sé, impartisse una lezione a quanti insistono sulla necessità di seguire l'esempio americano. Quale esempio? Quello dei film "forti", capaci appunto di perforare la corazza di un pubblico in perenne overdose di immagini.
Eccolo allora, il film forte, il film capace di perforare la nostra corazza sensoriale. Ma che diversamente dai blockbuster perfora anche il nostro torpore mentale, la nostra indifferenza di pubblico assuefatto alla dimensione televisiva, o tutt'al più a quella dei cinepanettoni e cinecocomeri.
Uno struggente mélo (come lo ha definito Aldo Fittante), un poema dark (come lo ha definito Roberto Silvestri). Ma attraverso il quale, e nonostante la nostra pigrizia, siamo costretti a interessarci di origini del fascismo, di futurismo, di psichiatria. E perfino di storia del cinema.
nerina.spadaro@alice.it