giovedì 4 giugno 2009

il Riformista 5.6.09
Visto da Gaza parla Ahmed Youssef, il ministro degli esteri di Hamas
«Ieri sepolta per sempre l'era di Bush»
di Alessandra Cardinale


«Con il messaggio di ieri Obama ha definitivamente sepolto l'era Bush. Ora si apre un nuovo capitolo tra l'America e il mondo arabo e musulmano». Ahmed Youssef, ministro degli Esteri di Hamas e consigliere politico di Ismail Haniyeh, usa parole come «fantastico», «positivo», «storico», per descrivere il discorso che Obama ieri ha pronunciato all'Università del Cairo e ha fatto recapitare una missiva al Presidente americano congratulandosi per la significativa apertura verso il mondo arabo. La grande incognita è però la stessa da sempre: quando Hamas deciderà di riconoscere Israele. E la risposta è a suo modo sempre ambigua «quando Israele riconoscerà uno stato palestinese».
Ai microfoni di Al Jazeera ha detto che il discorso di Barack Obama le ha evocato quelli pronunciati da Martin Luther King. Le parole del Presidente americano cosa significano per il mondo arabo?
Il discorso di Obama rimarrà nella storia delle relazioni tra Usa e mondo arabo. Ieri il Presidente americano ha fatto capire che l'epoca Bush è finita, che le parole minacciose e la dottrina del terrore sono il percorso sbagliato da seguire. Da oggi si apre una nuova stagione per noi e per voi nella quale verranno costruite le fondamenta per un rapporto solido e solidale. Noi abbiamo tutte le intenzioni di lavorare con il Presidente Obama e con quegli stati arabi che si dimostreranno volenterosi a riprendere in mano seriamente la pace nel Medio Oriente.
Nessuna riserva dunque?
Noi come popolo palestinese vorremmo che le promesse e le belle dichiarazioni vengano messe in pratica il prima possibile soprattuto per quanto riguarda il congelamento e la rimozione delle colonie ebraiche in CisGiordania. Su questo tema chiave ci aspettiamo che Obama faccia pressioni sul governo israeliano. Di fatto i primi passi mossi dal Presidente americano sono stati quelli giusti.
Ieri lei ha rivolto un messaggio al Presidente Obama in cui ha scritto di aver apprezzato la sua apertura verso il mondo arabo e ha aggiunto che Hamas si impegnerà per il conseguimento della soluzione giusta. Qual è la soluzione giusta?
La soluzione giusta per noi è il ritorno ai confini precedenti alla guerra del 1967, quindi il riconoscimento di uno Stato Palestinese con la CisGiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme capitale. È probabile che per raggiungere questo obiettivo, nonostante le ottime premesse contenute nel discorso di ieri, ci vorranno altri venti anni. Saranno le generazioni future a decidere in che tipo di Stato vorranno vivere.
Obama ha però detto che Hamas deve riconoscere Israele.
Questa è ancora una terra occupata. Prima che qualcuno chieda ai palestinesi di riconoscere qualcosa d'altro, noi dovremmo avere un nostro stato indipendente e libero. Si viola il diritto internazionale quando si vuole obbligare un popolo che vive da oltre 60 anni sotto occupazione di riconoscere l'occupante. Mi auguro che il Presidente Obama, esperto di diritto internazionale, conosca questa regola.
Ministro lei è considerato un moderato. I membri più fondamentalisti del suo gruppo vedono di buon occhio la posizione del Presidente americano?
Quel che credo è che la maggior parte dei palestinesi vuole smettere di soffrire, vuole che venga posto fine all'assedio a Gaza e spera di tornare a vivere nella propria terra. Vuole pace, sicurezza e prosperità per la regione. Questo è quello che credo.

il Riformista 5.6.09
La nuova forza di Barack Obama
di Nicola Zingaretti, presidente della Provincia di Roma


Caro direttore, il discorso di Obama all'Università del Cairo è stato di una forza intellettuale ed emotiva straordinaria, per profondità di visione e per forza evocativa. Una forza che restituisce fiducia nella capacità della politica di incidere sulla storia e sui processi globali. Un discorso forte per i contenuti, certo: dalla richiesta di immediato stop degli insediamenti israeliani in Cisgiordania alla riaffermazione del diritto del popolo palestinese ad uno Stato - chiamato giustamente per la prima volta semplicemente "Palestina" e non "futuro stato palestinese" -, dall'impegno a lottare contro ogni stereotipo negativo sull'Islam a quello di porre rimedio ad ogni "fonte di tensione", dall'Iraq all'Afghanistan. Ma la forza di questo discorso è dovuta soprattutto alla capacità di prospettare una visione più alta e una via oltre i conflitti che dilaniano il medioriente e che inaspriscono i rapporti tra Islam ed occidente. Il messaggio implicito è, infatti, semplice ma dirompente: la nuova Amministrazione Usa guarda ai mussulmani e agli arabi considerandoli un vero interlocutore, cui guardare con rispetto. Lo segnalo a molti nostrani propagatori di intolleranza: si tratta di un cambiamento culturale rivoluzionario rispetto al paternalismo di Bush, che con l'intervento in Iraq e la dottrina del "cambio di regime" imposto dall'esterno presupponeva il fatto che all'interno non vi fossero energie sufficienti per farlo, e che magari gli arabi in quanto mussulmani fossero incapaci di democrazia politica. La rivoluzione di Obama è racchiusa in questo nocciolo di assoluta semplicità. È finito il tempo dello scontro di civiltà, della competizione aggressiva fra le grandi tradizioni culturali che cozzano e cercano di primeggiare. Inizia il tempo di una collaborazione paritaria e necessaria tra le diverse culture, una nuova fase nella quale l'Occidente guarda all'Islam non solo con rispetto, ma come ad un interlocutore naturale per aprire nuovi spazi ai diritti e alla democrazia e per migliorare il mondo. Un messaggio che è rafforzato da un'estrema chiarezza strategica: il realismo politico torna una nobile dottrina, e liberandosi dalle trivialità della sola politica quotidiana si eleva dal mero pragmatismo ed ambisce a proporre una visione del mondo permeata di nuova idealità.

il Riformista 5.6.09
L'Europa trema
Il folletto xenofobo si insidia nelle urne
di Anna Mazzone


Voto di protesta. Gli estremisti e i populisti sono più forti che mai. Dalla Svezia alla Grecia, passando per i Paesi dell'Est. La crisi economica sottrae consensi ai partiti tradizionali. Questa volta l'astensionimo sarà alle stelle e i "paria" della destra potrebbero conquistare seggi a Strasburgo.

«Gli europei hanno combattuto in tutta la loro storia per poter dire la loro. Questa generazione ha la fortuna di poter fare qualcosa che le generazioni precedenti potevano solo sognare». È pregno di retorica il discorso che José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, ha pronunciato ieri in occasione dei venti anni dalle elezioni polacche che portarono alla vittoria di Solidarnosc e all'inizio dello sbriciolamento dell'impero Sovietico. Retorica, certo, ma anche molta tensione nelle parole di Barroso, alla vigilia di una tornata elettorale che non fa presagire nulla di buono, anzi. Così il presidente della Commissione di Bruxelles ha pensato di fare un ultimo, accorato appello ai 375 milioni di elettori chiamati alle urne in questi giorni. Ieri il valzer elettorale è stato aperto da Gran Bretagna e Olanda. Oggi prosegue nella Repubblica Ceca e nel fine settimana in tutti gli altri Stati membri.
Non sono elezioni come quelle del 2004. Questo è sotto gli occhi di tutti. Da una parte, il tasso degli astensionisti potrebbe raggiungere vette stellari, dall'altra i partiti populisti e l'estrema destra potrebbero fare il colpo grosso e aggiudicarsi quei seggi a Strasburgo che gli permetterebbero di diventare il megafono di istanze razziste e xenofobe. Il rischio questa volta è più che mai consistente. Sul fronte sondaggi, è uscito ieri quello della London School of Economics (Lse) e del Trinity College. Secondo i loro dati, il prossimo Parlamento Ue dovrebbe rimanere saldamente in mano al partito Popolare (Ppe), che però accuserebbe un'erosione, passando dal 37 al 35%. Aumenterebbe il distacco con i socialisti del Pse, che ormai sono in caduta libera a cominciare dal Regno Unito, dove il Labour di Gordon Brown è dato ai minimi storici ed è staccato dai Tory di Cameron di circa 22 punti percentuali, passando per Francia, Germania e Spagna, dove un acciaccato Zapatero assiste giorno dopo giorno a un'emorragia di consensi nei confronti del partito Socialista. In totale, l'insieme delle forze del centro destra dovrebbe attestarsi al 43%, il centro sinistra al 39%. E riguardo alla presidenza della Commissione, i numeri sono impietosi con Barroso: non piace praticamente a nessuno e totalizza un mediocre 8% di pareri favoreli alla sua rielezione, che probabilmente, però, avverrà, tanto per confermare l'enorme gap che esiste tra quello che vuole la gente e quello che preferisce il "palazzo" europeo.
La crisi globale, l'impoverimento progressivo del ceto medio, la scarsa (o nulla) capacità reattiva di un'Europa imbrigliata nei bizantinismi della sua burocrazia, uniti alla fiducia ormai pari allo zero che i cittadini nutrono nei confronti di chi li governa a tutti i livelli, dalle assemblee locali a quelle nazionali ed europee, creano una miscela propulsiva per i partiti estremisti, che fanno del populismo il loro vessillo. La Lega in Italia domenica potrebbe passare dal 5% del 2004 al 10-12%. Il British National Party (Bnp) potrebbe conquistare un seggio, cosa che solo fino a qualche mese fa era del tutto impensabile. In Olanda "spopolano" - è proprio il caso di dirlo - le idee xenofobe e islamofobe di Geert Wilders, che potrebbe attestarsi al 12% dei consensi e rappresentare la forza più consistente nel Paese dei mulini a vento dopo i Liberali. Per non parlare dei Paesi scandinavi e dei "nuovi arrivati", ossia i Paesi dell'est, come la Bulgaria e la Romania. Lì il populismo trova un terreno fertile, concimato ad arte dal fertilizzante della crisi economica e dell'elevato tasso di disoccupazione. L'assioma è dei più banali: i partiti tradizionali finora non hanno saputo dare risposte adeguate ai problemi. Quindi, la gente è stufa e anche molto arrabbiata. Naziskin e odiatori di professione di ebrei e rom si sfregano le mani.
E se, citando il liberale Isaiah Berlin, il populismo «soffre del complesso di Cenerentola», ossia è difficilmente ingabbiabile in una definizione univoca, dal momento che la scarpetta esiste ma nessuno ancora è riuscito a calzarla alla perfezione, c'è però da dire che ogni Paese ha aggirato l'ostacolo e si è dotato di "scarpette" su misura. In Svezia i populisti Democratici (Sverigedemokraterna), il più ampio gruppo extraparlamentare di Stoccolma, e gli estremisti del National Democrats presentano i loro candidati per la prima volta in una tornata elettorale europea e potrebbero farcela. In Finlandia l'estrema destra è rappresentata dal bizzarro partito Reale Finnico che si professa xenofobo e anti-europeista e che potrebbe conquistare un seggio. La palma d'oro dell'estremismo e della violenza appartiene invece alla Grecia, dove è candidato il partito di ispirazione nazista Alba d'oro, che si contende i voti con un altro ultrà della destra, Georgios Georgiou, il quale ha però buone chance di essere rieletto. Al vento populista non sfugge nemmeno l'isola di Malta, dove è in corsa Norman Lowell, una tragica macchietta nazista di lungo corso, che sogna di entrare in Europa. La Repubblica Ceca, presidente di turno della Ue, è dichiaratamente euro-scettica (tanto per usare un eufemismo) e il suo presidente, Vaclav Klaus, ha recentemente dichiarato che «le elezioni in Ue sono inutili» perchè «contano solo i singoli stati nazionali».
Insomma, mai la retorica di Barroso è stata così preoccupata. E questa volta a ragione.

il Riformista 5.6.09
Saltò il muro in direzione Est
Oggi guida la Sinistra Europea
Lothar Bisky. Incontro con il successore di Bertinotti. Candidato di punta della Linke tedesca, porta in dote una straordinaria biografia.
di Paolo Petrillo


Berlino. Lothar Bisky: co-presidente, insieme ad Oskar Lafontaine, del nuovo partito della sinistra tedesca Die Linke; successore di Fausto Bertinotti alla presidenza di Sinistra Europea e soprattutto capolista di Die Linke alle imminenti elezioni europee. Nato nel 1941 in Pomerania, fuggito con i genitori nello Schleswig-Holstein sotto la spinta dell'avanzante Armata Rossa, Bisky si sposta a 18 anni nella ex Repubblica democratica tedesca (Ddr). Alla politica approda però solo nel 1989, quando il Muro di Berlino è ormai prossimo a cadere. «Solo per caso sono diventato un uomo politico - sorride Bisky, intervistato dal Riformista nella sede berlinese del partito - La mia passione rimane l'insegnamento, e la ricerca scientifica».
Presidente, di solito la gente scappava dalla Ddr per cercare rifugio ad Ovest. Lei invece ha fatto l'opposto.
Ero un bambino quando, nella Germania occidentale, ho conosciuto la povertà dei lavoratori tedeschi. Così ho cominciato presto ad interessarmi della questione sociale, di come fosse possibile cambiare la situazione. A un certo punto - dopo aver letto solo il Manifesto del Partito comunista e niente di più - sono andato nella Ddr. Dove all'inizio mi guardavano con sospetto: ma lo potevo capire e non me la prendevo. Ho iniziato a lavorare come bracciante e così ho potuto prendere la maturità. Questa era una buona cosa nella Ddr, una cosa da difendere: si aveva la possibilità di studiare a prescindere dalle risorse di famiglia. Si doveva alternare lo studio al lavoro manuale, ricco certo non diventavi: era una vita modesta ma si poteva studiare. Ed era quello che volevo.
Così il giovane Bisky si iscrive all'Università di Lipsia, facoltà di Sociologia. Dopo la laurea approfondisce la sociologia dei media e prosegue il percorso accademico. Ricercatore, docente e infine direttore dell'Università di Potsdam per Cinema e Televisione. Era ormai il 1986.
A quei tempi ero già abbastanza critico nei confronti della Ddr. Ero per il socialismo ma volevo anche una radicale democratizzazione sia del partito (Sozialistische Einheitspartei Deutschland, Sed, la forza di governo dell'ex Ddr; ndr) che della società. A metà degli anni '80 cominciò nel Paese una fase di intensa protesta sociale, molto sentita anche dentro le università. I miei studenti ad esempio volevano filmare i profughi della Ddr che scappavano nelle ambasciate della Brd in Cecoslovacchia e in Ungheria. Io ero d'accordo e, da rettore, chiesi le autorizzazioni del caso, ma nessuno ci rispose. Così decidemmo di muoverci ugualmente: gli studenti presero le telecamere e partirono. Cosa che, al tempo, era ancora abbastanza pericolosa.
E Lei, da rettore, non ebbe problemi?
Si, qualcuno sì. Una volta un richiamo scritto. Un'altra volta - perché avevo detto che gli studenti dovevano avere la possibilità di viaggiare liberamente nei Paesi capitalisti - vennero a trovarmi, per parlare, otto signori della Stasi. Niente di troppo grave comunque, anche se bisogna ricordare due cose. Primo, che io ero un leale cittadino della Ddr. Volevo maggior democrazia, non la fine del socialismo. E, secondo, che al di là del controllo e della repressione esercitata dalle autorità, c'era anche la tendenza da parte di molti cittadini ad essere "più realisti del re". Ad esempio: da rettore non ho mai vietato un film, né ho mai radiato uno studente per motivi politici. Era possibile, anche se la maggior parte dei miei colleghi si comportava in modo opposto.
Della Ddr si parla oggi solo in termini di repressione e controllo. Quant'è aderente al vero quest'immagine?
C'era repressione, senza dubbio. Poca democrazia, economia inefficiente, eccesso di controllo e la lista potrebbe continuare. Ma l'immagine che oggi diffonde la Fondazione Adenauer è falsa. Nella Ddr vi erano anche cose positive, come lo Stato sociale, il sistema scolastico, la certezza di un lavoro o dell'assistenza sanitaria. Perché tacere tutto ciò? Ma del resto questo silenzio, calato su tutta l'esperienza della Ddr, è anche una delle ragioni per cui prima il Pds e poi la Linke hanno avuto così tanto successo nei Laender orientali. Fino ad essere oggi il terzo partito a livello nazionale.
Fra poche ore si aprono le urne per le elezioni europee. In Germania si prevede un aumento dell'astensionismo e una riduzione di consensi per i due grandi partiti popolari, Cdu e Spd. A suo avviso, esiste in Germania un problema di calo di fiducia nei confronti della politica?
Senza dubbio. Troppo spesso i partiti fanno il contrario di quanto promesso in campagna elettorale e questo scatena le reazioni dell'elettore. Pensiamo ad esempio all'Spd, che parla di aumento delle pensioni e poi sottoscrive l'accordo per alzare l'età pensionabile a 67 anni. Cosa che - nei fatti - corrisponde a un taglio delle pensioni. In prospettiva, il rischio è che il voto venga preso sempre meno sul serio. Gli elettori danno ormai per scontato una qualche forma di manipolazione. si attendono ormai una manipolazione. Dicono: «Tanto verremo fregati lo stesso». E questa previsione di manipolazione, alla lunga, potrebbe essere fatale per la democrazia.

l’Unità 5.6.09
La grande statua bronzea raffigurante i padri del comunismo verrà tolta dalla piazza
dove fu collocata dal regime della Ddr per consentire la costruzione di nuovi edifici
Berlino sfratta Marx ed Engels
di Gherardo Ugolini


Le effigi di Lenin le hanno tolte subito tutte nelle prime settimane dopo la caduta del Muro. La rimozione più clamorosa fu quella della grande statua in granito che troneggiava fino al novembre 1989 in Leninplatz (oggi piazza Nazioni Unite) e che compare in una memorabile scena del film «Goodbye Lenin!». I nomi delle strade e delle piazze dedicate ad eroi del comunismo tedesco-orientale sono stati cambiati nel giro di pochi anni: Thälmann, Grotewohl, Pieck, Ulbricht non hanno posto nella toponomastica della nuova Berlino riunificata. Del Muro rimangono poche vestigia e un paio d’anni fa anche il Palazzo della Repubblica, sede del parlamento della Ddr, è stato abbattuto per far posto alla progettata ricostruzione dell’antico castello imperiale. E adesso è la volta di Karl Marx e Friedrich Engels, ovvero del monumento di bronzo dedicato ai due padri del movimento comunista che domina il piazzale denominato Marx-Engels-Forum in pieno centro città. Le due grandi statue raffiguranti l’uno accanto all’altro Marx (seduto) e Engels (in piedi) furono realizzate nel 1986 dallo scultore Ludwing Engelhardt e collocate dal regime della Germania Orientale al centro di una piazza alberata che si apre al lato della trafficatissima Unter den Linden, a due passi dalla torre della televisione e da Alexanderplatz. Doveva essere, nelle intenzioni degli architetti del socialismo reale, la celebrazione della vittoria del marxismo per i secoli a venire.
Così non è stato, ma anche dopo la caduta del Muro il monumento di Marx e Engels ha continuato a rappresentare una delle attrazioni più visitate dai turisti. Ma questo non impedirà alle ruspe di abbattere il tutto per trasformare il piazzale in area edificabile. Lì sorgeranno nuove abitazioni, negozi e ristoranti. Secondo le indiscrezioni della stampa tedesca le ruspe entreranno in azione già quest’anno e la nuova colata di cemento dovrebbe estendersi dalla stazione metropolitana di Alexanderplatz fino al fiume Sprea. Non tutti però condividono i nuovi progetti edilizi della municipalità berlinese. «Dopo l’abbattimento del Palazzo della Repubblica questo è un ulteriore tentativo di cancellare l’eredità architettonica della Ddr» ha protestato Philipp Oswalt, direttore del Bauhaus. E si può stare certi che la contestazione avrà un seguito di massa, come già accaduto negli anni passati quando era in discussione la distruzione del Palazzo della Repubblica. Non si tratta solo di patiti dell’ostalgia, attaccati al ricordo dei tempi che furono, ma anche di chi semplicemente vorrebbe che il nuovo volto della metropoli non cancellasse completamente le vestigia del suo passato.
Un ulteriore fronte polemico contro i progetti di edificazione viene dalla “Jewish Claims Conference”, l’associazione che difende gli interessi delle vittime ebraiche dei nazisti e dei loro eredi. C’è la possibilità che si aprano contenziosi per parecchi milioni di dollari. Fino all’avvento della dittatura nazista, infatti, una gran parte dell’area su cui ora sorge il Marx-Engels-Forum apparteneva a cittadini ebrei, che furono espropriati dal regime di Hitler senza mai essere indennizzati.

Repubblica 5.6.09
Dal doppiopetto alla camicia verde
di Gad Lerner


Conferendo in anticipo la guida del prossimo governo regionale veneto alla Lega, Berlusconi compie una scelta di portata strategica. Una (apparente) rinuncia, la sua, dettata nei tempi forse dall´istinto più che dal ragionamento, visto il danno che arreca al Pdl locale nello sprint di fine campagna elettorale. Eppure tale mossa era prevedibile. Bossi è stato per Berlusconi prima un maestro di politica che un alleato. Affermandosi nei territori del Nord come fondatore di una nazione artificiale, egli ha introdotto quel modello di leadership populista che Berlusconi ha saputo poi replicare su vasta scala con le sue armi mediatiche.
L´articolazione futura della destra italiana prevederà dunque il consolidamento di un partito di raccolta nelle regioni settentrionali. In quel partito hanno ritrovato legittimità pulsioni e culture radicate da secoli nei territori settentrionali, non ultima un´antica tradizione reazionaria le cui origini sono ben rintracciabili nell´Italia preunitaria.
L´istinto berlusconiano riconosce tali energie popolari, poco importa se venate di localismo e xenofobia. Mira dunque a incanalarle, allargando la fetta di torta destinata a Bossi, pur sapendo di rendere così croniche le differenze tra la destra italiana e gli altri partiti conservatori europei. Un banale calcolo di marketing elettorale gli preclude la netta separazione osservata da Sarkozy, Merkel, Cameron nei confronti delle loro destre populiste. Perché la sintonia che egli stesso ha instaurato con l´elettorato prevede siano assecondati i comportamenti antisistema. A suo modo, è un po´ leghista anche lui.
Se dunque nel 2010 avremo una Regione Veneto presieduta da Flavio Tosi o Luca Zaia, dopo che già alle elezioni politiche del 2008 la Lega vi aveva raggiunto il Pdl a quota 27%, non sarà solo perché così facendo Berlusconi spera di mantenere il controllo della "sua" Lombardia. L´autonomismo veneto affonda le sue radici in una sorta di Vandea cattolica mai davvero sconfitta né dall´illuminismo né dal Risorgimento, impregnata com´era di diffidenza della terraferma nei confronti del cosmopolitismo veneziano. È vero che senza la guida unificante di Bossi quel movimento sarebbe rimasto marginale. Ma neppure va dimenticato che mentre il leghismo lombardo incorreva nella sconfitta di Malpensa e nelle malversazioni del clientelismo varesotto, al contrario il leghismo veneto esprimeva modelli a loro modo vincenti: dall´autoritarismo trevigiano dello sceriffo Gentilini, all´ordinanza antisbandati del sindaco di Cittadella. Fino alla conquista di Verona, dove l´astro nascente Tosi è riuscito perfino a condizionare la Fondazione bancaria nella vicenda della ricapitalizzazione Unicredit. Da controllori del territorio, gli amministratori della Lega hanno intrapreso la scalata del potere, ma sempre presentandosi come oppositori del sistema fino al limite dell´estremismo nel culto di "sangue e suolo". Ciò spiega perché non potesse esaudirsi l´auspicio di Massimo Cacciari, cioè l´alternativa di un partito territoriale di sinistra in una regione di quasi cinque milioni di abitanti: qui da sempre il localismo è per sua natura conservatore, intessuto di nostalgia e familismo. Per lo stesso motivo Berlusconi dopo quindici anni dà il benservito al presidente Giancarlo Galan e alla sua speranza impossibile di fondare una Forza Italia veneta.
Già provato dalle tensioni dell´autonomismo siciliano, con la crisi della giunta Lombardo, il Popolo della libertà cede ora il passo al Nord. Un partito costruito su misura per obbedire al suo fondatore, è destinato a subire nei territori il consolidamento di organizzazioni militanti e clientelari. Così la destra antisistema si candida a destinataria di una quota cospicua dell´eredità berlusconiana. Colui che dal predellino di San Babila si offriva al popolo come unificatore della destra italiana, con tutta la sua forza proprietaria, si è ritrovato a inseguire per un anno una Lega sapiente nell´erodergli consensi e tormentarlo. Come dimostrano le vicissitudini parlamentari del pacchetto sicurezza e le figuracce internazionali sulle politiche migratorie.
L´apprendista stregone già passato dal doppiopetto alla maglia girocollo rischia ora di essere trascinato a indossare la camicia verde. Come ieri sera, quando ha protestato contro il fatto che nel centro di Milano circolino troppi stranieri; una Milano che «sembra una città africana». Perché la destra italiana sa inglobare ma non sa reprimere le spinte eversive di una società arrabbiata.

Corriere della Sera 5.6.09
Due studiose hanno ricostruito le colpe dei professori favoriti dal fascismo e il disinteresse dello Stato democratico
Leggi razziali, doppia vergogna Ecco chi sfruttò le epurazioni
Espulsi gli ebrei, nel dopoguerra le cattedre non furono «restituite»
di Pierluigi Battista


La seconda epurazione, quella intollerabile perché messa in atto nell’Italia democratica, su­scita ancora reazioni autodifensive. Da Pisa parte la ricerca di una verità troppo a lungo taciuta.

Con l’estromissione degli ebrei a segui­to delle leggi razziali del ’38, l’univer­sità italiana ha conosciuto una dop­pia vergogna. Una, quella più nota an­che se con attenzione tardiva, è l’espulsione nel­­l’Italia fascista (ma il bilancio della «dispensa di servizio» è ancora impreciso) di «96 profes­sori ebrei ordinari e straordinari, 141 professori incaricati, 207 liberi docenti e 4 lettori allonta­nati dalle università, cui si andavano ad affian­care i 727 studiosi ebrei espulsi dalle accade­mie e dalle numerose istituzioni culturali del Paese». L’altra, ancora coperta da un velo di re­ticenza o addirittura di imbarazzata omertà, ri­guarda non l’Italia fascista ma quella democrati­ca che ostacolò il rientro nei ranghi accademici degli ebrei perseguitati. È la «doppia epurazio­ne » di cui scrivono Francesca Pelini e Ilaria Pa­van. «La lacerazione prodotta dalla persecuzio­ne antisemita nel dopoguerra non si rimargi­nò », si legge nel loro libro. Oggi questa doppia lacerazione viene finalmente affrontata senza remore, suscitando molti interrogativi sulla no­stra capacità di fare finalmente i conti con il passato.
Il libro è firmato da due autrici che però non ne sono le coautrici in senso stretto. La prima è Francesca Pelini, una giovane e valente studio­sa di Pisa che ha perso la vita nel 2005 (lo rac­conta nella commossa prefazione Paolo Pezzi­no). L’altra è Ilaria Pavan, che ha ripreso la tesi di laurea dell’amica scomparsa, l’ha ritoccata per darne una veste adatta alla pubblicazione e ha aggiunto una postfazione in cui riassume il senso non solo storiografico del lavoro della Pe­lini.
Ambedue prendono però le mosse dall’epu­razione antiebraica nell’ateneo pisano. Rico­struiscono i profili dei docenti di Pisa costretti ad emigrare, o ad adattarsi a lavori dequalifica­ti, o a cadere nella disperazione della disoccu­pazione. Storie terribili eppure tragicamente si­mili a quelle dei tanti professori italiani (cono­sciute soprattutto grazie ai lavori di Roberto Finzi) che persero cattedre, lavoro, paternità di libri, «sebbene l’esatta dimensione della ferita inferta all’accademia italiana dalle leggi razziali appare ancora oggi lontana». Meno nota è la dimensione dell’acquiescenza e del «complessi­vo silenzio indifferente con cui fu accolta e vis­suta l’espulsione di professori e studenti ebrei dall’accademia». Meno noto è che ci fu «un uni­co dignitoso diniego a succedere al professore ebreo cacciato», quello dello scrittore Massimo Bontempelli, «sino a quel momento fascista convinto e perfettamente integrato, che, chia­mato per chiara fama presso l’ateneo fiorenti­no, rifiutò di coprire l’insegnamento di lettera­tura italiana che era stato sino a quel momento di Attilio Momigliano». Meno noto è che a Pi­sa, nel novembre del ’44, il nuovo prorettore Luigi Russo nel suo discorso d’inaugurazione dell’anno accademico «non menzionò neppure per inciso, in quella prima simbolica occasio­ne, la cancellazione dalla turris eburnea dell’ac­cademia dei colleghi e degli alunni ebrei»: pro­prio l’«antifascista» Russo che nel ’42, scriven­do di Attilio Momigliano, sottolineava ambi­guamente in un momento storico delicatissi­mo «le sue particolari origini semitiche» che «ci possono aiutare a intendere certe attitudini ascetico-contemplatrici della sua mente, la soli­tudine fisica del suo stile e però anche qualche tiepidezza e distanza storica dalla sua opera let­teraria ».
Meno noto ancora è che nel dopoguerra molti docenti che erano subentrati nelle cattedre la­sciate vacanti dagli ebrei espulsi non solo non le restituirono ai loro legittimi titolari, ma si impe­gnarono allo stremo per evitare il reintegro dei colleghi vittime della legislazione razzista. «Nes­sun docente pisano», ha scritto la Pelini, «risultò in qualche modo sanzionato». E soprattutto «dei venti professori ebrei che a Pisa nell’autunno 1938 erano stati sospesi dall’insegnamento, a guerra finita solo cinque poterono tornare — no­minalmente e temporaneamente — a occupare la cattedra forzatamente abbandonata». A quasi dieci anni di distanza il rientro conobbe difficol­tà psicologiche e pratiche. La reintegrazione dei docenti ebrei veniva registrata con estrema fred­dezza dalle autorità accademiche pisane, che af­frontarono la questione con il distaccato stile bu­rocratico di chi doveva risolvere una complicata e molesta incombenza. Inoltre si trattava di risar­cire i docenti con gli stipendi non corrisposti ne­gli anni dell’allontanamento forzato. Per di più la distanza fisica aveva impedito ai docenti ebrei di avanzare nei gradini della scala accademica proficuamente percorsi dai colleghi che ne aveva­no usurpato il posto.
Rientrò il giurista Renzo Bolaffi, che poi però decise di abbandonare definitivamente la carrie­ra universitaria dopo che gli era stato negato il ruolo di professore ordinario. Rientrò dal Ve­nezuela, dove aveva lavorato presso una impresa di olii minerali, Bruno Paggi, che però conobbe talmente tanti ostacoli burocratici da consigliar­ne il trasferimento presso l’ospedale Santa Chia­ra di Pisa: dove morì, appena cinquantenne, nel 1951.
Conobbe una seconda persecuzione burocrati­ca l’otorinolaringoiatra Aldo Lopez, cui venne ne­gato persino il dovuto pagamento degli stipendi arretrati. E analoghi soprusi vennero inflitti al chirurgo Giorgio Millul e al medico legale Emdin Naftul. Il fisico Giulio Racah e Renzo Toaff scelse­ro alla fine Israele come loro nuova e definitiva patria. Non ebbero possibilità di scegliere altri docenti ebrei espulsi nel 1938: Enrica Calabresi, arrestata dai nazisti e morta suicida nel 1944; Raf­faello Menasci, arrestato a Roma nella retata del 16 ottobre del 1943 e deporta­to ad Auschwitz; Ciro Raven­na, ordinario di Chimica agraria, condotto nel campo di Fossoli e poi ucciso ad Au­schwitz.
Ma la lacerazione non fu sanata con la riconquista del­la democrazia. I professori ebrei trovarono spesso la strada sbarrata. Gli usurpato­ri non rinunciarono alle loro carriere abusive. Scrive la Pavan che la «comunità accademica ita­liana non ha avvertito l’urgenza di pronunciare autocritiche, neppure autocritiche di rito» e solo nel 1998, primo in Italia, l’ateneo bolognese «sen­tì il bisogno di ricordare con una lapide» l’igno­minia delle leggi razziali attuate «nel silenzio ac­quiescente della comunità scientifica».

l’Unità 5.6.09
È solo una bozza. Ma come le altre poi è stata confermata
Verso la privatizzazione dello studio, si parla di esperti
Licei, ecco la riforma
Meno ore delle scuole medie
di Maristella Iervasi


Si faranno 27 ore, tre in meno dell’orario oggi in vigore
Non ci sono novità, solo conferme per la scuola. Ieri è stata pubblicata la bozza di Riforma dei Licei. Saranno tagliate tre ore sull’attuale orario scolastico. I Licei avranno meno ore delle medie.

Dopo i tecnici e i professionali ecco il sistema dei Licei della Gelmini. Sei indirizzi che consentono l’accesso all’Università e una materia non linguistica studiata in inglese all’ultimo anno. Latino non per tutti. Allo scientifico-tecnologico scompare per far posto all’informatica, la chimica e la biologia. E sempre qui compare una materia calderone: storia e geografia avrà un voto unico. In altre sezioni si accorpano matematica e fisica. Non solo. I percorsi liceali sono ufficialmente 6 ma di fatto saranno 12 attraverso le opzioni/facoltative dell’offerta formativa. Soprattutto, però, a fare la differenza sarà il biennio: un tempo scuola più corto della scuola media: 27 ore, 3 in meno di oggi; 31 ore settimanali solo nel triennio del Classico. Tutti i bienni dei licei saranno rigorosamente differenziati, quasi a voler scoraggiare gli studenti a cambiare percorso in corso d’opera per incertezza. Insomma, un riordino dei licei che ha un solo obiettivo: rientrare nei tagli al personale previsti dal duetto Tremonti-Gelmini che il movimento dell’Onda ha fatto slittare al 2010-2011: si comincierà dalle prime e seconde classi.
La riforma dei licei
Il provvedimento andrà al Consiglio dei ministri in prima lettura, poi parere Commissioni parlamentari e Conferenza Stato-Regioni. percorsi in 2+2+1, cioè due bienni e un quinto anno. L’orario annuale e comprensivo della quota riservata alle Regioni che hanno voce sui piani di studio.
Le critiche dei sindacati
Mimmo Pantaleo, segretario della Flc-Cgil: «Avanza l’idea dell’aziendalizzazione. La differenzazione dei percorsi non produrrà pari opportunità di apprendimento». E qualche distinguo lo pone anche la Uil: «Siamo contrari a far partire la riforma nelle prime e seconde classi - spiega il segretario generale Massimo Di Menna -. E l’avvio dei licei musicali è ancora poco chiaro».
Scientifico-tecnologico
In questo liceo viene previsto anche anche un indirizzo tecnologico. Nel provvedimento di 16 articoli che per tutti esplicita piani di studio, tabelle e quadri orari, questo indirizzo è configurato come opzione. Il modello di liceo tecnologico della Moratti?
Economico-sociale
È una delle novità introdotte al fianco del liceo delle Scienze umane. Al posto del Latino discipline di diritto e economia.
Liceo Classico
Nelle precedenti bozze solo con questo diploma si poteva accedere all’Università.
Musicale-coreutico
Lo voleva anche la Moratti. In prima batttua 40 le sezioni musicali e 10 di liceo coreutico. Altre saranno subordinate all’esistenza di risorse e convenzioni con i corservatori e Accademie.
Linguistico
Gli studenti a conclusione del percorso di studio devono essere in grado di comunicare in 3 lingue diverse»,. Una materia non linguistica si insegna in inglese.
Artistico
Tre gli indirizzi previsti: arti figurative, architettura/design/ambiente e audivisivo/multimedia/scenografia.

il Riformista 5.6.09
Abusi sessuali e lavori forzati
La schiavitù non è finita
di Alessandro Leogrande


REPORTAGE. Einaudi pubblica "Schiavi contemporanei" di E. Benjamin Skinner. Un'inquietante inchiesta sul traffico e lo sfruttamento di esseri umani nel mondo. Dall'Africa all'Occidente, oggi il numero delle vittime è il più alto di sempre. E nonostante crescano le denunce, in meno del 10% dei casi si arriva a una condanna.

Oggi nel mondo ci sono più schiavi di quanti ve ne fossero prima della Guerra di Secessione, più che in qualsiasi altra epoca del passato. Ci sono schiavi del lavoro forzato. Ci sono schiavi del sesso, o meglio "schiave del sesso" perché nella quasi totalità sono donne, e sono le ultime tra gli ultimi. Vi sono schiavi per debito, e schiavi bambini. Sono milioni. Da questo assunto inquietante muove il corposo reportage di E. Benjamin Skinner Schiavi contemporanei. Un viaggio nella barbarie, ora tradotto in italiano per Einaudi, dopo essere uscito negli Usa all'inizio del 2008 con il titolo A Crime So Monstrous.
Skinner ha viaggiato per cinque anni dalle Americhe all'Africa, e dall'Europa al sub-continente indiano, per concludere che un nuovo fronte abolizionista, che attraversi i paesi e i continenti, è quanto mai necessario. Testimonia in prima persona come sia possibile acquistare per pochi dollari bambini poveri ad Haiti o, per poche migliaia di euro, donne costrette a prostituirsi nelle periferie di Bucarest o nei villaggi della Moldavia. Racconta la schiavitù che si tramanda di generazione in generazione nell'India più povera (spesso perché non si è in grado di saldare un vecchissimo debito di modesta entità). Incontra le vittime e i loro aguzzini. Narra di chi è riuscito a ribellarsi e a gridare la sua storia, ma anche di chi non ce l'ha fatta, venendo sommerso da un incredibile intreccio di degrado e violenza. Il mondo che descrive con viva partecipazione non è un cumulo di detriti del passato, bensì una componente sempre più vasta (e inquietante) del panorama socio-economico globale. La schiavitù, uno dei crimini più orrendi, rende economicamente. Quanto a profitti, il traffico internazionale di esseri umani è secondo solo al traffico di droga, e le nuove mafie - i nuovi imprenditori dello schiavismo - hanno fiutato l'affare.
«Uno schiavo», scrive Skinner, «è una persona costretta a lavorare con l'inganno e sotto la minaccia della violenza, senza compenso all'infuori di quanto necessario alla sua sopravvivenza». Ma sarebbe errato considerare tutto questo una cancrena del Sud del mondo, che si alimenta e riproduce al di fuori dei confini dell'Occidente, e che quindi - in buona sostanza - non ci riguarda.
Sarebbe sbagliato per almeno due motivi. Il primo è che un mondo in cui c'è anche un solo schiavo è un mondo infame: pertanto è giusto esercitare pressioni su tutti gli Stati, potenti e meno potenti, in cui questo crimine ancora esiste. Il secondo è che la riduzione in schiavitù (e non solo delle schiave del sesso) è una pratica si sta pericolosamente allargando all'interno delle società occidentali. Skinner racconta in pagine raccapriccianti come si esercita il controllo totalitario sul corpo e sulle menti delle migliaia di donne romene o moldave che in questi anni sono state costrette a prostituirsi nelle nostre città. Ma l'inquietante novità è che la schiavitù si ripresenta nella nostra società anche sotto forma di lavoro forzato: tra i nuovi braccianti come nel silenzio della servitù domestica. Non riguarda tutto il mondo dell'immigrazione, e neanche tutto il mondo dell'immigrazione "irregolare", ma un suo sotto-insieme specifico (appena una settimana fa, a Rosarno, tre imprenditori agricoli sono stati arrestati con l'accusa di riduzione in schiavitù di lavoratori africani).
Contro il nuovo schiavismo si sta organizzando un nuovo fronte antischiavista. Uno dei protagonisti di Schiavi contemporanei è John Miller, una stramba figura di repubblicano anti-reaganiano che ha diretto per anni l'Ufficio per il monitoraggio e la guerra al traffico di esseri umani di Washington e che si è battuto strenuamente perché tale lotta divenisse uno dei primi temi nell'agenda politica. Skinner descrive ampiamente il dibattito americano sulle nuove schiavitù, come questo si sia orientato dopo le leggi anti-tratta promulgate da Clinton nel 2000, e - nel farlo - coglie un punto essenziale.
Sotto l'autorità del neocon Michael Horowitz (dalle cui posizioni Miller si è poi discostato) si è creata una strana alleanza tra conservatori cristiani e alcune associazioni femministe che ha orientato la lotta antischiavista unicamente sul fronte "prostituzione" sostenendo, in toni più moralistici che realistici, e più per rafforzare la lotta contro il sesso a pagamento che per sconfiggere le mille metastasi delle nuove servitù, che la schiavitù riguarda unicamente le prostitute, e che ogni prostituta è una «schiava del sesso». Allargando il campo, Skinner racconta come a fianco di questa posizione, sia all'interno del Partito democratico che all'interno dello stesso Ufficio di Miller, se ne sia elaborata un'altra, più articolata.
Per quanto la schiavitù sessuale sia la più visibile, e spesso la più ignominiosa, riguarda meno della metà dei casi. Esiste anche una schiavitù da lavoro, ed essa è strettamente intrecciata al generarsi delle nuove povertà. In questo caso, combattere la tratta richiede altri mezzi, come la capacità ad esempio - oltre che liberare gli schiavi in catene - di generare forme di microcredito. Non solo: le nuove schiavitù si combattono attaccando i trafficanti e gli schiavisti. Per questo sono importanti leggi più precise, e processi più certi. E qui quello che Skinner racconta, e le riflessioni che avanza, valgono per gli Stati Uniti come per l'Italia.
Anche in Italia, con la legge 228 del 2003, è stato riformulato il reato di riduzione in schiavitù, secondo un'accezione molto simile a quella proposta da Skinner in questo libro: facendo leva sull'idea di costrizione fisica e psicologica, sull'inganno e sull'assenza del benché minimo pagamento. Anche da noi, come negli Usa, le denunce per riduzione in schiavitù si sono moltiplicate. Ma il sentiero giuridico è più che accidentato: in meno del 10% dei casi si riesce ad arrivare al rinvio a giudizio, e in una percentuale ancora più bassa a una sentenza di condanna in primo grado. Questo ci dice non solo che è difficile incastrare i nuovi schiavisti, perché è difficile provare un reato che spesso avviene nell'ombra, e su scala trans-nazionale, ma che è di estrema importanza proteggere le vittime dalle minacce dei loro aguzzini per garantire loro la possibilità di denunciarli. È fondamentale far intravedere alle vittime un altro orizzonte di vita, un diverso reinserimento sociale, perché altrimenti il rischio di ricadere nello stesso girone da cui si è miracolosamente usciti diventa elevato.

l’Unità 5.6.09
Sguardi persiani
Sotto il velo c’è una testa per comandare
di Elena Doni


Le figlie di Shahrazad. Anna Vanzan racconta l’evoluzione del pensiero femminile iraniano: una finestra aperta sulla vita delle donne persiane tra le timide riforme dello scià, le restrizioni di Khomeini e le riaperture di Khatami

In «Figlie di Sharazad» l’autrice cita numerose scrittrici iraniane. Ecco una breve bibliografia
Di Sharnush Parsipur sono reperibili in italiano «Donne senza uomini» (Aiep, 2000) e «Tuba e il senso della notte» (Tranchida, 2000).
Le scrittrici citate da Anna Vanzan sono antologizzate nel volume «Parole svelate» (Imprimitur, 1998)
«Lo specchio e la rosa. Antologia di poetesse sufi», a cura di Anna Vanzan (San Marco dei Giustiniani, 2003).

Un libro dopo l’altro - con in più qualche buon film - procede la scoperta del Vecchio Mondo, in particolare di quello islamico. E sgomenta la nostra ignoranza di un contesto culturale ricchissimo sul quale, fino a ora, abbiamo chiuso gli occhi. Né è mai stato possibile aprirli sulla metà femminile di quel mondo: che invece ha avuto scrittrici di rilievo, con il valore aggiunto di farci comprendere l’evoluzione di un paese che spesso ci è apparso incomprensibile.
A farci conoscere la straordinaria e antica vitalità della produzione letteraria delle donne iraniane è oggi Anna Vanzan, studiosa dell’università di Milano e della Iulm, con Figlie di Shahrazad (Mondadori, pag. 210, euro 18). Nome non casuale quello di Shahrazad: la mitica eroina delle Mille e una notte «aveva letto, libri, annali e leggende, imparato a memoria le opere dei poeti e studiato la filosofia e le scienze». Furono dunque intelligenza, cultura e fantasia a permetterle di sopravvivere notte dopo notte, salvando così anche centinaia di giovani donne dalla crudeltà del sultano.
La domanda di scolarizzazione è stata infatti la principale rivendicazione delle femministe iraniane del Novecento, attraverso giornali e riviste ma anche organizzando loro stesse corsi di alfabetizzazione. Oggi il numero delle studentesse universitarie iraniane supera quello dei maschi e i testi letterari scritti da donne sono più numerosi di quelli degli uomini. Il libro della Vanzan è una porta spalancata su un mondo che fino dal XIV secolo ha avuto letterate al tempo stesso anche donne di potere: Padeshah Khatun, governatrice di una regione, orgogliosamente dichiarava «sotto il mio velo ho una testa adatta al comando».
IL PENSIERO FEMMINILE
Più interessante per noi è l’evoluzione del pensiero femminile iraniano negli ultimi 40 anni: le donne iraniane parteciparono con entusiasmo ai moti contro lo scià, che aveva concesso il voto alle donne ma aveva anche abolito un gran numero di associazioni femminili indipendenti; aveva varato un diritto di famiglia più attento alle donne (un uomo non poteva prendere una seconda moglie senza il consenso della prima) ma conservava poi intatti molti privilegi maschili. Molte donne aderirono così in un primo momento alla rivoluzione islamica per poi sentirsene tradite: Khomeini reinstaurò la poligamia, escluse le donne alla carriera di giudice, proibì l’uso dei contraccettivi. Con l’avvento al potere di Khatami, prima ministro della Cultura e poi presidente della Repubblica islamica, i lacci del regime si allentarono. Negli anni ‘90 l’Iran si è trovato con una popolazione giovanissima, desiderosa di vivere come i coetanei occidentali, con ragazze altamente scolarizzata, e che pretende lavoro e riconoscimento dalla società. Nonostante l’alternarsi di relativa libertà e restrizioni la presenza delle donne sulla scena pubblica è oggi incontestabile: «È una nuova generazione che non rimane segregata in casa e cambia le regole col proprio comportamento», dice Anna Vanzan.
Tra gli strumenti di sopravvivenza c’è il «femminismo islamico», ora diffuso in tutti i paesi musulmani ma nato in Iran proprio all’inizio degli anni novanta. Consiste nell’affermare che il Corano contiene principi di equità di genere e di giustizia sociale permettendo alle donne di reclamare diritti senza uscire dalla cornice islamica. Da percorsi ideologici diversi è nata una straordinaria produzione femminile letteraria, ma anche teatrale e cinematografica, che non si può non ammirare.
Di questa vitalità, dal ribollire di iniziative delle figlie di Shahrazad - che appunto vinse la sua battaglia con l’intelligenza e la cultura - traccia un panorama Anna Vanzan. Includendo, tra l’altro, lodi per chi, come Marjane Satrapi autrice del fumetto (o graphic novel) Persepolis, percorre strade totalmente nuove.

Terra 5.6.09
Sinistra, fatti più umana La sinistra si occupi anche di realtà umana
di Mariopaolo Dario


In un convegno di psichiatria all’Aula magna dell’università di Roma, tenutosi alcuni anni fa, mi aveva colpito, tra le tante, una relazione che proponeva che aiutare gli altri è l’idea che distingue la specie umana.
Si ipotizzava che quello che ci fa umani è il muoversi di fronte alla difficoltà, alla malattia dell’altro per prendersene cura, per tentare di curare. A un’ipotesi così delineata si potrebbe obiettare che nell’uomo è il sentimento religioso che lo porta ad aiutare gli altri. Noi preferiamo
sostenere che, invece, aiutare gli altri è nella natura della specie umana. Possibilità di aiutare che non significa soltanto sollievo dalla sofferenza, ma una ricerca per eliminare la sofferenza
perché il male, concetto inventato dalla religione, ha come conseguenza un’impossibilità di aiutare gli altri. Esiste solo la malattia che può essere curata.
Poi, alle primarie delle idee al teatro Eliseo di Roma del dicembre 2008 ho ascoltato le parole di una giovane studentessa.
Questa giovane studentessa, con l’entusiasmo di chi vuole essere protagonista della costruzione della propria vita e di una nuova società, con le parole del suo discorso proponeva una parola che ormai da molto tempo non si sente più negli incontri della sinistra: utopia.
Non solo, parlava anche di uguaglianza, libertà e identità.
I primi due termini si sono contrapposti nella storia della sinistra non riuscendo a trovare una sintesi. Il terzo termine, identità, è divenuto, dopo il Sessantotto, portatore di verità autoritarie da combattere.
Ora è arrivato il tempo di dirsi che il tentativo di rinnovare la società, e in particolare la sinistra, iniziato nella metà degli anni Sessanta come movimento mondiale, con gli anni Ottanta è fallito.
Certo, è fallito perché erano cambiate le condizioni strutturali dello scontro tra capitale e lavoro per cui ci si incamminava verso la società di consumatori, mentre la sinistra rimaneva strabicamente rivolta a esaminare la realtà con categorie concettuali obsolete. Il rinnovamento è fallito perché in quel grande movimento hanno prevalso le idee, le utopie e gli slanci che sembravano nuovi ma che in realtà erano vecchi perché parlavano di un’idea della specie umana in cui la soggettività, cioè la specifica identità dell’uomo, non era distinguibile, specificabile.
L’emarginazione sociale era la chiave di lettura di tutte le realtà umane, sociali e culturali, regalando così al campo avversario la ricerca dell’identità, che da destra non poteva che essere riproposizione di stereotipi autoritari e discriminatori.
Invece la sinistra nasce e si caratterizza come utopica e comunitaria alla ricerca del senso della realtà umana come realtà sociale, legata quindi alla qualità dei rapporti interumani.
Ecco che diventa vitale che la sinistra si occupi di realtà umana, altrimenti, come già accaduto storicamente, resterà imbrigliata in una visione amministrativa e caritatevole della politica in cui il disincanto e i falsi miti del successo personale diventano imbattibili.
Ecco che diventa vitale che la sinistra passi dall’analisi delle condizioni strutturali al rendersi conto che quella che un tempo si chiamava sovrastruttura, cioè le idee che muovono gli atti delle persone, sono non solo effetto ma causa di cambiamenti sociali.
Sapere della realtà umana, interrogarsi sui temi della nascita, del rapporto tra l’uomo e la donna, della sofferenza, della malattia, della morte, non rappresenta uno sterile esercizio filosofico ma è l’essenza stessa di una sinistra del Ventunesimo secolo.
Interrogarsi, infine, sul dilemma della malattia mentale, come essa si instaura e diventa ostacolo allo sviluppo personale e sociale del soggetto, non è soltanto compito della ricerca psichiatrica.
Questo interrogarsi impone una ricerca sull’essenza stessa dell’uomo e delle sue possibilità utopiche e creative, o viceversa sul fallimento di queste possibilità. Se la sinistra non recepisce la sfida culturale e scientifica che tali temi ci impongono, nonostante noi stessi, rischia di ammalarsi per lungo tempo del virus della subalternità che renderà impossibile far evidenziare quella parola, utopia, che caratterizzava il primo socialismo.
E che, oggi, ritrova le ragioni del suo essere più attuale che mai.

Terra 5.6.09
La Bce lascia i tassi fermi all’1%
di Luca Bonaccorsi


I cenni di una ripresa, che non c’è, citati dal governatore Jean-Claude Trichet per giustificare
la scelta. In realtà pesano le polemiche con la Germania sulle politiche di espansione “quantitativa” del credito

La Banca centrale europea ha lasciato i tassi invariati all’1% nella sua riunione di ieri. La decisione era largamente attesa e non ha provocato reazioni di rilievo nei mercati.
Eppure le polemiche sulla politica monetaria europea, che i governi si stanno rimandando da giorni, un loro peso lo hanno avuto. Il primo appello a “tirare” il freno a mano della politica monetaria era giunto da Axel Weber, il presidente della Bundesbank, ed era stato ripreso il 2 giugno dal cancelliere tedesco Angela Merkel. Obiettivo delle critiche tedesche non è la politica dei tassi, ma quella “quantitativa”, ovvero l’acquisto di titoli dalle banche. Le polemiche, infatti, avevano seguito le intenzioni, annunciate dal governatore Trichet, di comprare obbligazioni sul mercato. Gli acquisti di titoli privati da parte della Bce hanno come obiettivo quello di liberare i bilanci delle banche da prodotti che non hanno gran mercato in questi mesi e di iniettare liquidità aggiuntiva nel sistema. Secondo fonti ben informate l’opposizione tedesca a maggio aveva ottenuto due risultati: ridurre l’ammontare dei titoli da comprare da 125 a 60 miliardi, e restringere il tipo di prodotti da acquisire ai soli “covered bond”, ovvero le obbligazioni garantite da mutui immobiliari o da crediti verso le amministrazioni pubbliche. Il piano di per sé è modestissimo (60 miliardi sono circa lo 0,6% del Pil Ue) se paragonato agli acquisti di Usa e Gran Bretagna che superano il 10% del Pil, eppure è bastato a sollevare le critiche tedesche. Non sono servite a molto le difese da parte di altri governi europei. Il pericolo più grande è che l’offensiva tedesca si traduca in un messaggio al mercato: l’espansione monetaria è finita. Trichet nella conferenza stampa di ieri ha citato, a sostegno della decisione di lasciare i tassi invariati, i segni di ripresa economica. Di quali segni di ripresa parlino Trichet e Weber, e di quali rischi inflazionistici non è chiaro. L’economia europea è tuttora afflitta da una recessione profonda e la disoccupazione galoppa. Le banche europee poi, secondo le stime del Fondo monetario, hanno ancora nei bilanci centinaia di miliardi di carta straccia. Se è vero che il Fmi non ha azzeccato una previsione negli ultimi 25 anni, c’è comunque da supporre che le stime pubblicate non siano totalmente arbitrarie. Sarebbe stato certo più utile tenere viva l’aspettativa che ulteriori tagli sono ancora possibili. L’evoluzione della recessione dirà se la prudenza dell’Eurotower è prematura.

Terra 5.6.09
Non ti voltare. In Laguna è secessione
“Fare mondi” secondo Birnbaum. Con le sculture di luce di Pape e le utopie di Gowda
di Simona Maggiorelli


A Venezia scoppia la protesta contro il padiglione della “patria”
di Beatrice e Buscaroli che si dichiarano figli della destra. In risposta
nasce un contro padiglione Italia

La 53esima Biennale di Venezia, diretta da Daniel Birnbaum, è aperta dal 7 giugno al 22 novembre. Partecipano 77 Paesi, fra i quali, per la prima volta, il Gabon e gli Emirati Arabi. Ma la novità è anche la presenza in Laguna della Palestina. Leoni d’oro alla carriera a Yoko Ono e John Baldessarri.

Era già nell’aria. Il Contro padiglione Italia annunciato da un gruppo di artisti di vaglia come Liliana Moro, Luca Trevisan e altri, in certo modo, era atteso. Fin da quando, all’indomani della sua nonima a curatore del Padiglione Italia della 53esima Biennale di Venezia, Luca Beatrice disse che la sua Collaudi (titolo scelto in omaggio a Marinetti) era figlia di questo governo e della cultura di destra.
Affermazioni mai smentite e che ora, vedendo le scelte operate da Beatrice con la Buscaroli possiamo dire che descrivano bene la loro mostra. Dal 7 giugno i visitatori del Padiglione si troveranno davanti una parata di tardo futuristi e di epigoni di una pesante arte figurativa novecentesca.
Eccezion fatta per le fini sperimentazioni di Sissi nella mostra di B & B (alias Beatrice e Buscaroli) troviamo inverate quelle parole d’ordine che il curatore aveva scandito mesi fa in conferenza stampa: ritorno alla pittura da cavalletto, alla bellezza in senso classico (e marmoreo) e alla «cosalità dell’arte» contro l’effimero delle installazioni...
Girate le spalle al Padiglione italico seguendo il consiglio dei “secessionisti” che intitolano la propria mostra Non voltarti adesso, per uscire dall’oppressivo tenebrismo di Chia e seguaci, basta fare una passeggiata fra le proposte provenienti dai Paesi Arabi e dall’Oriente: arte astratta, videoarte, scultura, non di rado in un interessante métissage fra tradizione e innovazione. Sulla strada aperta da Ida Gianelli nel 2007 con due soli nomi per l’Italia, i padiglioni di Spagna, Inghilterra e Usa puntano su un solo artista, con nomi come Barcelo’, McQueen e Neuman, Si tiene su una cifra limpida, poetica, ma anche un po’ minimale, invece, la mostra Fare mondi di Birnbaum che punta sulle raffinate “sculture di luce” di Pape ( foto in alto), sui primi multipli di Fahlström, le visioni utopiche di Sheela Gowda e - a sorpresa - su un maestro come Pistoletto che, in versione” luddista”, frammenta i suoi quadri specchianti.

Terra 5.6.09
L’arte è femmina
A Roma un trittico di personali di artiste emergenti ma dal segno già maturo. Formecolore di Elena Bonuglia. Acqualuce di Monica Di Brigida. E Spaziocolore di Susanne Portmann
di Simona Maggiorelli


Non inganni il titolo leggero, Passavo di qua, la mostra ospitata dall’Associazione culturale abitanti di Trastevere sabato 6 e domenica 7 giugno offre la possibilità di conoscere più da vicino il lavoro di tre artiste giovani ma dalla forte diversissime fra loro: Elena Bonuglia, Monica Di Brigida e Susanne Portmann. Una iniziativa nata dal dialogo fra tre donne, cresciute artisticamente in città diverse e che una comune ricerca su un nuovo modo di fare immagini ha fatto incontrare a Roma Ha un talento straordinariamente poliedrico la svizzera Susanne Portmann: scrittrice dalla lingua icastica e poetica, quando dipinge gioca con il respiro del colore creando per assonanze timbriche e contrapposizioni, forme astratte, vive e vitali, come in movimento. Forme magiche e sempre diverse che nel complesso dell’opera di Portmann sembrano articolare un misterioso vocabolario femminile, che ha segni brillanti negli oli, sensibili e delicati negli acquerelli, arcaici e primitivi nei tessuti dipinti, che curiosamente in una artista del Nord ci fanno ritrovare l’eco di certi segni geometrici con cui le tessitrici berbere rendono unici i propri tappeti. Lavora, all’opposto, a partire dalla realtà oggettiva Monica Di Brigida. Ma attraverso l’obiettivo, riuscendo “magicamente” a scovare l’invisibile delle cose, angoli di poesia lungo una strada bagnata, oggetti che sotto le gocce di pioggia perdono i loro freddi contorni per diventare epifanie e immagini di un vissuto interiore, “Non luoghi” come un gazometro o un ponte di periferia, nelle sue stampe, diventano intense pitture, regalando alla fotografia una fantasia che il mezzo non possiede. È il calore dello sguardo dell’artista a compiere il miracolo. Sperimenta tecniche e materiali diversi, poveri o preziosi (dall’argento al legno), la pitto-scultrice Elena Bonuglia, mescolando la tradizione antica della cartapesta con suggestioni colte dalla pittura materica e dalle avanguardie del ’900. Tanto che le sue pitture stratificate e quasi carnali riescono ad avere lo spessore e la profondità di bassorilievi. Appuntamento il 6 e il 7 in via della Penitenza 35 a Roma, dalle 19 alle 23.

il Riformista 5.6.09
Il principe e la sua corte di ciambellani e specchi
di Pier Luigi Celli


I rapporti tra il principe e la sua corte sono stati, storicamente, molto complessi. Si danno, nei secoli, casi non sporadici di principi non particolarmente intelligenti né brillanti, a riprova che non era condizione essenziale possedere qualità culturali o strumentazione concettuale sofisticate per occupare posizioni cui si accedeva per linea dinastica o per evenienze traumatiche (rivolte, tradimenti, guerre di palazzo etc.). Ma quasi sempre, a compensare una carenza di visione o la qualità di discernimento e di valutazione, il principe poteva disporre di una corte in cui i ruoli importanti erano ricoperti da uomini di sicura preparazione, magari di derivazione ecclesiastica: non sempre affidabili, certo, ma sicuramente in grado di guidare gli eventi e di occuparsi degli affari correnti dello Stato. Illuminante, a questo proposito, potrebbe essere la rilettura delle vicende del Delfino di Francia, Carlo, incoronato a Reims sull'onda delle gesta di Giovanna D'Arco, e dei suoi dialoghi con l'arcivescovo e il gran ciambellano La Tremouille, così come raccontati da Bernard Shaw in "Santa Giovanna".
Quando poi le carenze al vertice non erano rilevanti e il principe poteva disporre di risorse personali all'altezza del compito, con ogni probabilità l'impegno e l'adesione "istituzionale" della corte poteva rilassarsi, e avveniva così che la qualità media dei suoi interpreti si abbassava: fiorivano tentazioni direttamente opportunistiche, si sviluppavano competenze adattive, con la propensione a sfruttare vantaggi senza rischiare contrapposizioni o alzate di ingegno.
È sempre esistita, comunque, una dialettica, favorita anche dal fatto che, quasi sempre, l'età metteva il principe nelle condizioni di aver bisogno di qualcuno più anziano e più esperto, custode in genere delle tradizioni consolidate in anni di servizio attivo e di avveduta navigazione in contesti normalmente turbolenti.
Oggi, spesso, la situazione è capovolta. Il "principe", se guardiamo in casa nostra, ha un'età ragguardevole se paragonata a quella dei principi di un tempo. Non avendo un'eredità dinastica da rivendicare e non avendo un tracciato di carriera canonico, è arrivato al vertice relativamente tardi. Ciò gli ha consentito di non essere condizionato dai rituali istituzionali e di aver accumulato competenze che non sono tutte e solo funzionali all'esercizio di un mestiere specifico; abilitandolo a poter contare su punti di vista divergenti rispetto alla tradizione del posto, e non di rado spiazzanti.
Chi sale al vertice in età non più giovane, oltre all'ansia da prestazione e all'incubo del tempo da recuperare, mette in campo l'astuzia di adottare modalità di azione, comportamenti, relazioni, difficilmente omologabili. Deve, necessariamente, farsi inseguire. Con una conseguenza: sa, da subito, che le regole in uso, proprio perché tarate su condizioni tradizionalmente diverse, non giocano per lui; e quindi ha bisogno di circondarsi di gente che lo segua sul suo terreno, un po' assecondandolo, un po' giustificandolo. Molto dipendendone.
La nuova corte sarà necessariamente più giovane e meno strutturata di quelle storiche, così da non porre in essere condizionamenti "di tradizione"; possibilmente con provenienze eterogenee, non competitive, e soprattutto ben consapevole della benevolenza che le è toccata in sorte. È così che si formano squadre e singoli la cui competenza, quando esiste, è relegata a questioni specifiche, quelle più noiose e inevitabili, senza possibilità reale di attingere il livello dove si esercitano le strategie di governo o dove prendono forma le visioni che plasmano le modalità di esercizio del potere.
Se il principe è espressione di un'astuzia che ha navigato a lungo, sbarcando infine su lidi persino imprevedibili, sua sarà la responsabilità definitiva di regolare se stesso e di imporsi agli altri a modo suo. Gli altri restano inevitabilmente complementari, fungibili; rappresentazioni da esibire all'occasione. Vere e proprie commodities che il mercato oggi offre in abbondanza. Una corte di recitanti, le cui qualità personali sono l'ultimo dei problemi. Ciò che importa è che non siano minaccianti.
Eppure le corti così formate sono, alla lunga, la vera debolezza del "principe". E non tanto perché non aggiungono sapere e intelligenza alla compagnia, rendendo precarie le soluzioni alle crisi inevitabili e risultando inadatti ad assumersi rischi che andrebbero condivisi, ma perché non saranno mai in grado di dirgli dove sbaglia né di salvaguardarlo da se stesso. È la condanna di chi presume di interpretare in solitario i destini di tutta una nazione - "principe" senza alternative - cortocircuitando ogni struttura intermedia, per legare destini e poteri a un mandato che, col passare del tempo, diviene sempre più autoreferenziale e anche più cieco.
Così il "principe" moderno ha bisogno di una "corte-specchio", in grado di correggere le sue deformazioni di immagine, ma non di rimandare temi che sollevino turbamento o pongano interrogativi. Che sia fatta di mediocri è persino plausibile, visto il carattere residuo dei compiti che le toccano.
E questo senza voler mancare di rispetto alla serietà di molti; cortigiane comprese.

il Riformista 5.6.09
Racconto la strategia che palazzo Chigi vede dietro le mosse del capo di News Corp e dei suoi giornali
Berlusconi teme il piano coordinato di Murdoch+CdB
di Stefano Feltri


Predatori. Il giornale dello Squalo attacca il Caimano sulla vicenda Noemi, mentre da mesi si consuma una battaglia meno appariscente ma più cruenta sul destino degli assetti televisivi e, forse, di Telecom. A luglio si decide il rapporto Rai-Sky.

Ieri Silvio Berlusconi è stato intervistato da Sky Tg24. È stata la prima visita agli studi milanesi della tv di Rupert Murdoch. Solo una normale tappa del tour pre-elettorale, spiegano da palazzo Chigi. Ma c'è la tentazione di leggere in questa mossa una nuova puntata del confronto, a volte duro a volte diplomatico, che da mesi vede impegnati Berlusconi e Murdoch. «Spero non sia così, l'apparenza è come dice lei», ha risposto Berlusconi alla giornalista che gli chiedeva se quello che è successo negli ultimi mesi indichi l'ostilità di Murdoch: a dicembre il governo aumenta l'Iva sulle pay tv (cosa che incide soprattutto sul business di Sky, perché Mediaset premium ha un modello di business meno soggetto al peso dell'Iva) e Sky lancia una campagna per contrastare il provvedimento. Poi, quando il presidente del Consiglio è più fragile, alla vigilia delle elezioni e nel pieno della questione Noemi, uno dei giornali più prestigiosi del gruppo Murdoch, il londinese Times, lo infilza un giorno sì e uno no con i suoi editoriali. E diventa la sponda internazionale di Repubblica e delle sue dieci domande senza risposta sul rapporto tra Berlusconi e la ragazza di Casoria. Questa, almeno, è la ricostruzione del capo del governo.
Ma la storia è più complessa, riguarda la Rai, i satelliti, la Telecom, persino Fiorello che lascia la Rai per Sky e Berlusconi che cerca, invano, di dissuaderlo. Lo scontro si alimenta di rumors diffusi dai giornali, Repubblica in testa. Rupert Murdoch è noto per essere interventista in politica. L'episodio più famoso è la fumata rossa in prima pagina del conservatore Sun che segnò l'endorsement, secondo alcuni decisivo, del tabloid britannico a favore di Tony Blair alla sua prima candidatura. Negli anni Sessanta in Australia sostenne John McEwen del Country party, con il giornale The Australian, poi nei Settanta passò al Labor Party di Gough Whitlam. In America la sua Fox News è il punto di riferimento dei conservatori e dei neocon nell'era George Bush, ma questo non impedisce a Murdoch di organizzare raccolte fondi a favore di Hillary Clinton e, in seguito, di schierarsi apertamente a favore di Barack Obama («È fantastico»).
C'è chi vede nella campagna del Times contro Berlusconi un'operazione analoga, affidata però - e sarebbe la prima volta - non a un giornale del Paese in cui Murdoch vuole agire ma esterno. E soprattutto affidata a un giornale che fino all'altro ieri era non ostile a Berlusconi, anche perché è una testata vicina ai conservatori.
Le fonti aziendali di Sky Italia smentiscono qualunque forma di complotto: se fosse un'operazione voluta dall'alto, si sarebbero scatenate tutte le testate di News corp, a partire dal Wall Street Journal fino a Sky Tg24. E per ora questo non è successo.
Ma c'è la tempistica, che indica come la durezza degli attacchi si intensifichi mentre - in parallelo - crescono le tensioni imprenditoriali tra il gruppo di Murdoch e le aziende di Berlusconi. Il momento che alcuni osservatori hanno individuato come quello della svolta è mercoledì scorso, il 27 maggio. Quel giorno si tiene un vertice importante per i nuovi assetti del sistema televisivo italiano: il numero uno di Sky Italia, Tom Mockridge, incontra Mauro Masi, direttore generale della Rai che fino alla sua nomina, il due aprile, faceva il segretario generale della presidenza del Consiglio, cioè di Berlusconi. I due devono discutere della permanenza dei canali Rai sulla piattaforma di Sky, non scontata visto che la televisione pubblica sta approntando la propria piattaforma insieme a Mediaset, di Berlusconi. L'incontro va male, la Rai vorrebbe oltre il doppio di quello che propone Sky. E intanto il tempo passa, il 31 luglio scadrà l'obbligo per la Rai di concedere i canali a Murdoch, con il risultato che dal primo agosto i clienti della pay tv potrebbero non vedere più i canali della tivù di Stato sulla loro piattaforma. Pochi giorni dopo, il primo giugno, arriva l'editoriale non firmato del Times che fin dal titolo vuole indicare che, dopo le critiche già mosse nelle settimane precedenti, si entra in una fase diversa: «Cade la maschera del clown». Berlusconi è definito «un buffone sciovinista», c'è un esplicito invito agli elettori italiani a ricordarsi della vicenda Noemi alle urne, sabato e domenica. Il giorno dopo il Times pubblica un intervento della professor Terence Kealey che spiega perché «ci sono ragioni scientifiche per cui le ragazzine preferiscono un uomo più anziano come compagno e si aspettano che sia pelato». Kealey, che i capelli li ha solo sulle tempie, si dilunga sul trapianto pilifero di Berlusconi e sulla sua interpretazione.
All'orizzonte del conflitto Berlusconi-Murdoch c'è il futuro delle trasmissioni televisive, e la piattaforma che vincerà la gara del futuro. I due avversari si marcano stretto sulla pay-tv con l'esordio di Mediaset premium, si guardano in cagnesco per quanto succederà sul digitale terrestre (dove Murdoch ha al momento dei vincoli) e vigilano sul terzo fronte, il più costoso dal punto di vista degli investimenti, l'Iptv, la tv via Internet. E qui c'è un delicatissimo terreno di scontro, la questione Telecom. Telefonica, il partner spagnolo della società amministrata da Franco Bernabé, valuta l'ipotesi di una fusione che metterebbe a rischio l'italianità della Telecom e della sua rete. Se Telefonica si prende Telecom e la sua rete, Murdoch potrebbe cercare un accordo preferenziale con gli spagnoli per veicolare sul telefono i contenuti che produce con Fox e Sky. Nascerebbe una media company che potrebbe essere molto più pericolosa per Mediaset di quanto non sia l'attuale piattaforma satellitare (secondo alcune stime il mercato italiano della pay-tv è quasi saturo). Del resto è la stessa Mediaset che da anni coltiva progetti analoghi su Telecom. Negli ultimi mesi questo intreccio è stato seguito con dovizia di dettagli da Claudio Tito, giornalista di Repubblica molto informato di quello che succede a Palazzo Chigi: proprio lui aveva riacceso il dibattito sulla rete Telecom a gennaio con un articolo in cui si ipotizzavano scenari di conquista dell'ex colosso telefonico italiano. Seguirono settimane di polemiche, interviste di Piersilvio Berlusconi e Angelo Rovati (ex consigliere prodiano che da anni si interessa alla rete telefonica). E qualcuno ipotizzò che l'improvviso feeling tra Repubblica e lo Squalo Murdoch potesse nascondere progetti di quest'ultimo anche sul giornale di Carlo De Benedetti, che in quei giorni stava lasciando le cariche operative nelle sue holding (ma conservando i poteri sull'editoria).
In questo momento, per la verità, la situazione finanziaria della News Corp non è tale da permettere grandi progetti di espansione. Colpito dalla crisi, il gruppo ha attraversato un pessimo 2008. «I giornali perdono soldi e anche Murdoch dovrà decidere quanto a lungo potrà sopportarne i bilanci in rosso, la pay tv regge ai tempi di crisi, perché chi già rinuncia a cinema e teatro non vuole privarsene, e la tv via cavo in America non va benissimo», spiega Marco Gambaro, docente di Economia delle comunicazione alla Statale di Milano. Ma nel primo trimestre del 2009, con incassi di 7,72 miliardi (comunque in calo del 16 per cento rispetto a un anno prima), Murdoch ha detto che «il peggio è passato». Anche perché il film premio Oscar "Slumdog Millionaire" si è rivelato una miniera tale da sostenere quasi da solo la divisione film del gruppo, cresciuti dell'otto per cento. E se davvero il peggio della crisi è passato per News Corp, forse ora Berlusconi ha qualche ragione in più per preoccuparsi. Difficile dire se davvero c'è un piano coordinato tra Murdoch e De Benedetti, di sicuro c'è un gioco di sponda. Non è un complotto, perché Murdoch gioca le sue carte a viso aperto, ma la battaglia - cruenta - continuerà.

Liberazione 4.6.09
Perché serve un garante per la salute mentale
di Giuseppe Crosio


Caro direttore, premesso che i manicomi non sono stati chiusi realmente, e che solo in Campania resistono, minacciati da nessuno, gli Ospedali psichiatrici giudiziari di Napoli e di Aversa, è facile rilevare che quando la salute mentale sul territorio non funziona mille piccoli e invisibili manicomi si trasferiscono nelle case dei pazienti psichiatrici e dei loro familiari. A nessuno verrebbe in mente di far funzionare un reparto chirurgico senza sala operatoria, ferri chirurgici e quant'altro. Invece risulta del tutto naturale lasciare le Unità operative di salute mentale sul territorio senza centri diurni, forniti non di qualche strumentazione ipertecnologica, ma di una mensa e di laboratori dove accogliere e curare i pazienti, e prepararli ad un lavoro compatibile con le loro condizioni. Nessuno lascerebbe un pronto soccorso senza la possibilità di effettuare delle analisi di laboratorio, tuttavia nessuno ritiene stravagante non attrezzare il centro crisi nelle Unità operative di salute mentale, in presenza soprattutto di una drammatica carenza di posti letto ospedalieri nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura, che provocano la sistematica deportazione dei pazienti in crisi in presidi molto lontani dai luoghi di provenienza. I pazienti e i loro familiari sono abbandonati a loro stessi, ed è necessario rimarcare le loro ingiuste sofferenze. Si è dissolta nel nulla la proposta di legge per l'istituzione di un Garante per la tutela dei sofferenti psichici elaborata in Campania nel lontano ottobre del 1996 (progetto n.2592 Camera dei Deputati) a Napoli da un gruppo di psichiatri, giuristi, operatori della salute mentale, familiari dei sofferenti psichici, ispirato da Sergio Piro, uno dei padri della salute mentale in Italia e in Europa. Aveva raccolto le firme di deputati prestigiosi di tutte le forze politiche creando un vero e proprio schieramento trasversale (tra gli altri oltre il primo firmatario, Siniscalchi, Cossutta, Nappi, Vozza, F. Colombo, Veltri, Melandri, Mancuso, Del Barone, Ruberti, Barbieri, Boato, M.Fumagalli,Taradash). La perdita della egemonia culturale della psichiatria legata alla legge 180 ha portato ad una eclissi della tensione etico-politica nella salute mentale che perdura oramai da molti anni, ed ha condotto ad una progressiva disarticolazione dei servizi territoriali. Nella sanità pubblica, gli operatori della salute mentale stanno ai loro colleghi come i sofferenti psichici stanno agli altri pazienti normali: temuti ed emarginati. I pazienti psichiatrici e loro familiari, ma anche gli operatori della salute mentale sono da tempo politicamente orfani, e culturalmente minoritari… Il movimento napoletano legato alle battaglie per la legge 180 e alla psichiatria alternativa che si è riconosciuto nella figura di Sergio Piro, psichiatra e intellettuale europeo, aspetta un segnale di ripresa delle grandi lotte in difesa della salute mentale. I comunisti napoletani intendono garantire il diritto alla salute e all'inserimento lavorativo dei sofferenti psichici, il sostegno alle loro famiglie, il contrasto a una visione meramente custodialistica della malattia mentale e del conseguente disagio sociale, ignorato dai media se non in presenza delle tristemente annunciate "tragedie della follia". Per fare questo si batteranno a Napoli e in Campania per l'istituzione di un Garante per la salute mentale, premessa ineludibile per la ripresa a livello nazionale ed europeo della difesa di coloro che, sotto la spinta della sanità privata e delle multinazionali del farmaco, stanno tornando ad essere, nell'indifferenza generale, gli ultimi della terra.
Repubblica 4.6.09
Omissioni e sottomissioni
di Giuseppe D’Avanzo


Berlusconi dice a Porta a porta che tornerebbe alla festa di compleanno di Casoria. Il premier finge di non capire, e non stupisce. Come non meraviglia che, in un servizio pubblico radiotelevisivo addomesticato, non c´è voce che gli replichi che la questione non è la partecipazione a una festa di compleanno, né tantomeno il luogo in cui si è svolta – una degradata periferia metropolitana – ma la frequentazione che un uomo di 73 anni, chiamato alla guida del paese, ha intrattenuto con una minorenne.
Quando è nato quel rapporto? Come? Quale natura ha assunto nel corso del tempo?
L´ultima volta che lo si vide seduto nelle poltrone bianche del talk show – un mese fa, era il 5 maggio – il capo del governo volle affrontare la questione nei dettagli. Ne profuse a piene mani. Gli bruciava l´accusa di Veronica Lario: «Frequenta minorenni». Il Cavaliere lo escluse: non frequento minorenni, sono andato a quella festa – disse e giurò – per discutere con il padre della ragazza delle candidature delle europee di due personalità del Pdl meridionale perché – spiegò – l´amicizia con il padre della ragazza era antica e politica.
La ricostruzione era palesemente falsa. Con il passare dei giorni la natura politica dell´amicizia del Cavaliere con il padre della ragazza è stata dimenticata. Da Berlusconi, dal padre della ragazza, da osservatori che è difficile definire ostinati. Il presidente del Consiglio mette insieme in fretta una nuova versione: conosco i genitori della ragazza e in tre, quattro occasioni ho incontrato anche la ragazza, sempre in loro presenza.
Si scopre che non è vero. La ragazza è sola quando il capo del governo la invita a Villa Madama e poi, in Sardegna, a Villa Certosa per dieci giorni a cavallo del Capodanno 2009. La rivelazione viene dall´ex-fidanzato della ragazza e il premier è costretto a smentire se stesso ammettendo di aver avuto accanto la ragazza, senza i genitori. Il ragazzo racconta di più: il presidente del Consiglio in un pomeriggio dell´autunno 2008 telefonò alla minorenne, ne elogiò il «viso angelico», la invitò a conservare la «purezza». Così un uomo anziano, a capo di un governo e abusando del suo potere, entrò nella vita di una minorenne sorpresa, quel pomeriggio, a fare i compiti.
Pur intimidito, minacciato, preso in trappola, il povero ragazzo non ha mai negato questi suoi ricordi proclamando sempre di «aver detto soltanto la verità». C´era e c´è materia per proporre qualche domanda a Silvio Berlusconi. Repubblica lo ha fatto e oggi il premier dice che «non c´è niente a cui rispondere» perché ha «risposto all´unica domanda che si poteva fare a un presidente del Consiglio e cioè che non c´era nulla che mi avrebbe impedito di andare alla festa». Era quella la domanda?
Ora, è sorprendente che nello stesso studio, dinanzi allo stesso conduttore, probabilmente dinanzi allo stesso pubblico, il presidente del Consiglio racconti un´altra storia a fronte delle due menzogne che, in pubblico e giurando, ha inflitto all´opinione pubblica: non è vero che non frequenta minorenni (ha dovuto ammetterlo dinanzi all´evidenza e alle confessioni della ragazza); non è vero che è volato a Napoli per discutere con il padre della ragazza di politica (come ha dovuto ammettere egli stesso come il padre della ragazza).
Si può concludere che Berlusconi sia un bugiardo. Molti non si sorprenderanno di questa conclusione. Dovremmo invece tutti sorprenderci delle omissioni e delle sottomissioni che accolgono le bugie di Berlusconi. Si comprende come i media controllati direttamente e indirettamente dal presidente del Consiglio si occupino d´altro aggredendo con una campagna di calunnie tutti coloro che si arrischiano a ricordare le contraddizioni delle versioni, via via, messe insieme dal premier. Non si comprende, al contrario, come i media che definiscono se stessi indipendenti non tengano conto di quel che ascoltano e leggono omettendo di raccontare ai propri lettori anche soltanto una – una, almeno – delle pasticciate incoerenze del premier.
Si scorge di peggio al capitolo "sottomissione". Un settimanale, house organ di Casa Berlusconi, spedisce un redattore da un fotografo che, si sa, ha delle immagini «interessanti» scattate illegalmente all´interno di Villa Certosa e legalmente all´aeroporto di Olbia (dove aerei di Stato trasportano musici e ballerine che renderanno allegre le serata a Punta Lada). Il fotografo avvia una trattativa che è una finta trattativa perché serve soltanto a segnalare all´avvocato del premier (Niccolò Ghedini) l´esistenza di quelle foto e a consentirgli di averne in mano qualche esemplare, di chiedere il sequestro di tutte con un atto di urgenza. L´avvocato avrebbe dovuto presentare la sua richiesta alla magistratura di Tempio Pausania, ma a Ghedini quell´ufficio non garba. Già gli ha dato torto in un´altra occasione. Quello stesso fotografo aveva immortalato cinque ragazze sedute sulle gambe del premier e quella magistratura aveva chiesto l´archiviazione per il ficcanaso. Niente Tempo Pausania, allora. Ghedini presenta la sua richiesta urgente di sequestro alla procura di Roma che, con la velocità della luce, la concede salvo poi dichiararsi incompetente e spedire il fascicolo a Tempio Pausania. La manovra ha il suo esito positivo per Berlusconi. Quelle foto non potranno essere pubblicate (oggi, dice che sono pubblicabili: e allora perché chiederne il sequestro?). Non finisce qui. La procura della Capitale decide di vagliare se c´è abuso di ufficio o peculato nei voli di Stato utilizzati da musici e ballerine. In via prioritaria si dovrebbe accertare se a bordo di quei voli non ci fossero ministri, ciambellani di governo o addirittura il capo del governo. Una rapida scorsa ai "piani di volo" avrebbe consentito di levarsi la curiosità perché, se a bordo c´era quel giorno, per quel volo, un ministro o il presidente del consiglio, sarebbe difficile ipotizzare l´abuso di ufficio o il peculato. La presenza di "estranei" agli affari di Stato sarebbe certo impropria, ma da un punto di vista penale quale potrebbe essere il reato se non c´è aggravio per l´erario? La procura, solitamente lesta come un plantigrado, decide di muoversi con la rapidità di un velociraptor e, a tre giorni da un voto, iscrive Silvio Berlusconi nel registro degli indagati. La mossa, inutile da un punto processuale (il premier si è fabbricato l´impunità) ma necessaria come oggi ci spiegherà qualche toga lambiccando nel minuto, sarà vantaggiosa soltanto per il presidente del Consiglio che, da giorni, invoca un provvedimento della magistratura per rispolverare il vecchio armamentario del complotto mediatico-giudiziario che tanta fortuna gli porta nelle competizioni elettorali.
Tiriamo una conclusione per nulla allegra. Berlusconi, a quanto pare, può mentire come meglio crede. Pare che abbia il diritto di farlo. In modo incondizionato. Chi dovrebbe ricordargli che c´è un limite, anche alla nostra credulità, omette di farlo. Altri si sottomettono alle sue strategie consentendogli di uscire dall´angolo imbarazzante in cui s´era cacciato da solo. È questa l´Italia di oggi? Vedete del gossip in questa storia o anche la trama fragile di una democrazia senza contrappesi?

Repubblica 4.6.09
La paura torna a Tienanmen alta tensione vent´anni dopo
Pechino blindata. Hillary: "Liberate i dissidenti"
Zhang Xianling, una delle madri: "Il dolore resta vivo nel più profondo del cuore"


L´ordine regna a Pechino, ma l´ombra di Tienanmen ossessiona ancora il regime. Nel ventesimo anniversario del massacro ieri una cappa di silenzio è calata su tutta la Cina: blindata la piazza dove i carriarmati soffocarono la protesta democratica, censurati i giornali e i siti Internet, arrestati i dissidenti. Una dura protesta è venuta da Washington. La più forte presa di posizione dall´avvento dell´Amministrazione Obama è stata affidata a Hillary Clinton. «Una Cina che ha fatto enormi progressi economici e aspira a una leadership globale - ha dichiarato il segretario di Stato - deve affrontare apertamente gli eventi più bui del suo passato, deve dire la verità sui morti, i detenuti, gli scomparsi, per imparare la lezione e per sanare le ferite». La Clinton ha chiesto al governo di Pechino di «rilasciare tutti coloro che ancora scontano le pene». Sono 30 i prigionieri politici che non hanno finito di pagare per la loro colpa: aver creduto nel sogno di libertà che nella primavera del 1989 mobilitò gli studenti e fece vacillare la presa del partito comunista.
L´atteso anniversario è stato vissuto come una giornata ad altissima tensione. Furgoni di polizia erano appostati a tutti gli angoli di Piazza Tienanmen, agenti e pattuglie militari rafforzate controllavano gli ingressi, perquisivano i passanti, impedivano alle tv straniere di riprendere il quadrilatero più celebre di tutto il paese. Il silenzio-stampa era stato imposto già da settimane a tutti i media nazionali, proibito ogni riferimento alla tragedia del 4 giugno. Ieri si è aggiunto un giro di vite eccezionale contro i mezzi d´informazione stranieri. La censura si è abbattuta sui siti Internet di Cnn e Bbc, oscurando ogni riferimento al 1989. I blackout hanno colpito Twitter, Youtube, la posta Hotmail e gli archivi fotografici online di Flickr. Non sono stati risparmiati i giornali stranieri, nonostante la loro limitata diffusione: le copie dell´International Herald Tribune circolavano solo dopo che una mano anonima aveva strappato la pagina con un articolo sul Dalai Lama.
Ma nonostante sia un "non evento", di cui la propaganda ha cancellato ogni traccia nella memoria ufficiale, ieri il regime ha temuto qualche gesto individuale, proteste o testimonianze di ricordo. Ne hanno fatto le spese i più noti intellettuali dissidenti. Qi Zhiyong, che perse una gamba negli scontri del 4 giugno, è stato sequestrato dalla polizia e portato lontano da Pechino. Sotto scorta lo scrittore Yu Jie, che ha dichiarato: «Il 4 giugno non è stato dimenticato ma la gente ha paura di parlare». Wu Gaoxing è stato arrestato sabato sera vicino Shanghai: non gli hanno perdonato la lettera aperta che aveva rivolto pochi giorni fa al presidente Hu Jintao chiedendo la fine delle vessazioni contro gli ex-detenuti politici. "Anche se non siamo più in prigione - ha scritto Wu - il solo diritto che ci resta è quello di aspettare la morte". A nome delle vittime della repressione militare ha parlato ieri la 72enne Zhang Xianling, fondatrice dell´associazione delle Madri di Tienanmen: "Il dolore rimane vivo nel luogo più profondo dei nostri cuori".
È palpabile il terrore dei dirigenti comunisti di fare i conti con il passato, di rivelare il bilancio delle vittime, e di aprire un dibattito sull´89. Le autorità accademiche di Pechino e Shanghai hanno ricevuto precise direttive per sorvegliare anche i movimenti degli studenti stranieri. Perfino Hong Kong e Macao, le due isole dotate di statuto autonomo dove vige una libertà di espressione, hanno chiuso le frontiere agli esuli dell´89 che tentavano di rientrare per l´anniversario. Ed è proprio un padre spirituale di Hong Kong ad aver lanciato un verdetto severo. Il cardinale cattolico Zen Ze-kiun, che a Hong Kong ha speso una vita per difendere i diritti umani, ha ammonito i dirigenti cinesi a spezzare questa congiura del silenzio. «Vent´anni dopo - ha dichiarato Zen - il regime rimane dispotico e corrotto. Ancora deve rispondere dell´orrendo crimine commesso. Quel massacro non era inevitabile e non ha portato nulla di buono. Il sistema politico è oppressivo, la corruzione dilaga, l´informazione è censurata, la ricchezza ha beneficiato una minoranza. Se avesse prevalso la linea del dialogo di Zhao Ziyang (l´allora segretario del partito che voleva le riforme democratiche, ndr), la storia sarebbe stata migliore per i cinesi». I dirigenti comunisti sono riusciti a imporre nel senso comune il loro revisionismo sull´89: l´intervento armato come un male minore, che ha garantito l´ordine e la stabilità, consentendo un ventennio di boom economico. Ogni altra versione non ha diritto di parola.
(f. ramp.)

Repubblica 4.6.09
All´ospedale San Martino recintato il giardino per le passeggiate dei pazienti
Genova, la gabbia dei malati di mente
di Marco Preve


GENOVA. All´ospedale san Martino di Genova un modo di dire diventa realtà. «Questa è davvero una gabbia da matti, ma non è una battuta, e per rispetto alla loro dignità noi lì dentro i pazienti non ce li portiamo», sbotta l´infermiere del reparto.

La rivolta degli infermieri "Per la loro dignità lì dentro non ce li portiamo"
Soprannominato "lo zoo", lo spazio è chiuso da un´inferriata verde alta due metri

Il casus belli è un´aiuola di circa sei metri di diametro, con dentro una palma e un pino marittimo, circondata da una recinzione di ferro dipinta di verde, alta due metri: il parco esterno per i ricoverati della clinica psichiatrica universitaria. Alla richiesta del primario Filippo Gabrielli di dotare il padiglione di uno spazio all´aperto, ricreativo e terapeutico, dove i pazienti potessero fumare liberamente, la risposta dell´ospedale è stata quella di creare il "recinto", la "gabbia" o ancora lo "zoo" come lo hanno soprannominato medici e infermieri, considerato che l´aiuola si trova su un lato del viale dove passano, durante la giornata, centinaia di dipendenti della cittadella ospedaliera, parenti di ricoverati, fornitori.
Gianni Orengo, direttore sanitario del San Martino, spiega che «si tratta di una soluzione provvisoria in attesa del trasferimento del reparto in un padiglione dotato di un parco; per altro l´aiuola deve essere attrezzata con panchine e tavolini. Mi rendo conto che non è la sistemazione ottimale, ma a fronte delle richieste il nostro ufficio tecnico ci ha lavorato parecchio e meglio davvero non si poteva fare. Quanto agli infermieri troveremo con loro una soluzione».
Sono stati gli infermieri, infatti, rifiutandosi di scortare i pazienti nel recinto, a far scoppiare il caso che è stato denunciato on line da Giovanna Profumo sul sito Oli (Osservatorio Ligure sull´Informazione).
«Quell´area, con quella recinzione, non permette di garantire il rispetto della dignità della persona, ecco perché i nostri colleghi hanno preso questa decisione» spiega Carmelo Gagliano, presidente della sezione genovese dell´Ipasvi, il collegio degli infermieri professionali. «Oltre a questo aspetto, di solidarietà umana - aggiunge Gagliano - a nostro parere non risponde ai criteri di sicurezza previsti dal progetto e soprattutto quel contesto non favorisce quella finalità terapeutica che, attraverso spazi comuni per uomini e donne, mira al ritorno ad una vita normale. Gli infermieri del reparto comunque continueranno a far uscire e accompagnare dove possibile i pazienti».
Che poi vuol dire quella sorta di zona franca tra l´entrata e l´androne della clinica tra la macchinetta dei caffè e il muretto davanti all´ingresso. Il problema è complesso perché si tratta di pazienti che, almeno nella fase acuta devono essere seguiti, alcuni hanno subito ricoveri coatti, possono essere violenti, e sono quasi tutti fumatori incalliti, compulsivi. «Ma la risposta non può essere quella di un recinto esposto al pubblico - commenta Paolo Pescetto dell´Associazione famiglie ammalati psichici - . Purtroppo, nonostante medici e infermieri stupendi, ci ritroviamo con scelte assurde come queste».

il Riformista 4.6.09
Euro-sinistrati
E il Pd rischia d'essere primo tra i socialisti
Il sorpasso del gambero. Tale è la disfatta generale che Franceschini potrebbe portare la truppa più numerosa nel nuovo eurogruppo progressista, ribattezzato per accogliere i democrat italiani
di Stefano Cappellini


Oggi gli inglesi possono chiudere l'era del New Labour
Progressisti a rischio. Ovunque i partiti socialisti sono in difficoltà. In Italia allarme astensione. Adriano Sofri respinge il «voto utile». Ma Prodi accorre in aiuto di Dario: andate alle urne.

Oggi gli elettori inglesi saranno i primi a recarsi alle urne per il rinnovo del Parlamento europeo e per un importante turno amministrativo. Le previsioni sono di un tracollo dei laburisti, che potrebbe anche provocare la fine anticipata della legislatura. Ma tira una brutta aria per tutta la sinistra europea, sia quella d'opposizione sia quella di governo. La crisi ha eroso il consenso dei socialisti spagnoli e dei socialdemocratici tedeschi. In questo quadro il Pd non fa eccezione. Ieri Romano Prodi ha lanciato un appello per il voto al partito di Franceschini, ma la lista degli astensionisti e di chi volta le spalle ai democratici si allunga sempre più. Ultimo in ordine tempo Adriano Sofri, che annuncia il voto per Sinistra e Libertà.
Gli inglesi e i socialisti francesi viaggiano sotto il 20 per cento, i socialdemocratici tedeschi sono quotati al 27 per cento, più o meno come i democratici di Franceschini. Gli unici che stanno meglio, i socialisti spagnoli, rischiano comunque di essere sorpassati dai popolari e investiti dalla crisi, che nel paese di Zapatero sta intaccando pesantemente la crescita impetuosa degli ultimi anni. Naturalmente, pesa anche un ricambio fisiologico in questa ondata di sconfitte. L'era laburista va a chiudersi dopo tre mandati ricchi di soddisfazioni e anche le rivoluzioni più profonde sono destinate, prima o poi, a esaurire la loro spinta e lasciare spazio all'alternanza. Ma è impossibile non vedere che lo scacco del New Labour è lo scacco strategico di tutto il fronte socialista e democratico. Dopo essere stato il faro ideologico della sinistra anni Novanta, il partito di Tony Blair oggi, coi suoi guai e le sue divisioni, ne racconta al meglio l'ingolfamento.
Il modello blairiano - un mix di moderatismo e forte riformismo sociale, caratterizzato dall'abbandono di ogni tabù sul ruolo del mercato e dell'iniziativa privata e dalla volontà di sfondare elettoralmente al centro - è stato l'ultimo grande esempio di internazionalismo. In Germania si è presentato al governo con l'etichetta del Nuovo Centro di Gerard Schroeder, in Spagna ha ispirato le fortunate ricette economiche di Zapatero, in Italia è arrivato in forma compiuta col discorso del Lingotto di Walter Veltroni, insuperato esempio di blairismo puro ma, purtroppo, tragicamente fuori tempo massimo.
Nel frattempo, infatti, è cambiato il mondo. Finita l'era delle vacche grasse, della fiducia nelle virtù autoregolatrici del mercato, la sinistra non sa più dove andare a parare. La crisi economica ha stravolto tutti i paradigmi recenti e soprattutto, lungi dall'orientarsi a sinistra, gli strati sociali morsi dalla crisi hanno messo proprio la sinistra sul banco degli imputati. Come uscirne dunque? Chi immaginava che l'elezione di Barack Obama negli Stati Uniti avrebbe fatto levare vento nuovo anche da queste parti è smentito dai fatti. E se le urne castigheranno la sinistra è anche perché nessuna formazione pare aver trovato la ricetta per uscire dalle secche.
Provare a rilanciare una versione riveduta e corretta della Terza via? E come, se nemmeno la credibilità del più celebrato ministro del Tesoro degli ultimi vent'anni basta a convincere gli inglesi che una nuova stagione di governo laburista è la migliore risposta alla bufera economica? Flirtare con il populismo e con il crescente sentimento di anticapitalismo? C'è chi è tentato persino da questa soluzione (tra le mozioni del recente congresso socialista francese ce n'era una collocabile a sinistra di Bertinotti), ma su questo terreno partono avanti, ancora più che le formazioni della sinistra radicale e comunista, movimenti identitari come il British National Party in Gran Bretagna o la Lega in Italia. Riscoprire le virtù dello statalismo e dimostrare che il ritorno alla mano pubblica in economia non è solo necessità ma anche virtù? Ammesso e non concesso che sia la strada giusta, la sinistra arriva di nuovo in ritardo, come già accadde all'inizio degli Ottanta con la rivoluzione liberista di Reagan e Thatcher, ruminata e assimilata con un decennio di differita. I capi di governo e di Stato della destra hanno infatti già anticipato o cavalcato la crisi per riposizionarsi abilmente al centro della scena e del dibattito accademico. Un filo robusto lega il dirigismo sarkoziano, il solidarismo merkeliano e l'antimercatismo tremontiano. Il pallino delle politiche neo-keynesiane oggi è in mano alla destra. E, in ogni caso, la tragedia della sinistra perdente degli anni Zero è che rischia di diventare ostaggio di uno scontro al ribasso tra nostalgici: quelli dell'era blairiana contro quelli dell'era pre-blairiana.
La situazione del Pd è un altro specchio perfetto dei tempi. La «soluzione tecnica» adottata da Franceschini per evitare che gli eurodeputati democratici tornino a sedersi su banchi separati a Strasburgo - l'adesione al gruppo del Pse ribattezzato però "Alleanza dei socialisti e dei democratici" - incontra l'ostilità netta di un pezzo di partito per il quale questa della collocazione europea non è una faccenda che può risolversi con un cambio onomastico. E non è un mistero che un pezzo del partito sia pronto a scindersi e tuffarsi in avventure neocentriste qualora al congresso di ottobre Pierluigi Bersani dovesse conquistare la segreteria su una piattaforma sinistrorsa e filo-sindacale.
La partita, in Italia come nel resto del continente, appare sempre più giocata tra chi vuol provare a rifondare la sinistra sulle vecchie fondamenta e chi ritiene che occorra abbattere i vecchi recinti e costruire su terreni vergini. Di certo, sulle macerie del voto europeo non sarà riedificare.

il Riformista 4.6.09
Valdo, lo Spini nel fianco del Pd spaventa Renzi
Vendetta. «A Firenze - dice l'ex ministro - mi sono sempre preso delle soddisfazioni. Come quando Craxi mi mise tredicesimo in lista e stravinsi con oltre 19mila preferenze».
di Tommaso Labate


Firenze. V per Valdo Spini. V per vendetta. L'ex vicesegretario del (vecchio) Psi ha rotto con i (nuovi) socialisti del Ps e cucito con la Rifondazione comunista di Paolo Ferrero, i Verdi e i Repubblicani europei. Quindi ha scelto come simbolo il giglio rosso contornato di viola che rimanda all'amore calcistico della città. Ora, forte di sondaggi che lo danno al di sopra del 10%, si prepara a rovinare il giocattolo del democratico Matteo Renzi, l'enfant prodige del Pd in salsa gigliata che senza la sua presenza in campo sarebbe pressoché certo di diventare sindaco di Firenze già domenica sera, al primo turno. E invece no. La partita è tutta da giocare. Il Pd franceschiniano "vede" la vittoria immediata nell'ormai ex fortino rosso. Eppure ancora non la tocca. Perché in mezzo c'è Valdo, l'angelo vendicatore di se stesso.
«Nella mia città - dice Spini - mi sono sempre preso grandi soddisfazioni. Alle elezioni dell'87, Craxi pensò di "uccidermi" facendo la lista della Camera in ordine alfabetico. A me toccò il posto numero 13», ben lontano dal capolista Lelio Lagorio. Finì male, sia per Lagorio, che dovette accontentarsi della seconda posizione (17mila preferenze), sia per Bettino, che fu costretto a digerire i 19mila e passa voti con cui Spini dominò la sfida nell'allora circoscrizione Firenze-Pistoia.
V per vendetta. V per Valdo Spini. Dopo un nuovo, burrascoso, divorzio dagli eredi del Psi («Chissà come ci si sente a essere sostenuti da chi, come Ferrero, chiama sprezzantemente i socialisti "epigoni di Craxi"», gli ha mandato a dire ancora ieri il giovane segretario del Ps fiorentino, Tommaso Ciuffoletti), l'ex ministro attende l'ultima rivincita. È sceso in campo con un appello sottoscritto anche da Alfredo Martini, ex ct della nazionale italiana di ciclismo, e da Narciso Parigi, il cantante simbolo di oltre mezzo secolo fiorentino (oltre che interprete di Oh Fiorentina, inno ufficiale della squadra di calcio). Quindi ha costruito la tela della compagine "Spini per Firenze", in cui militano - in barba ai malumori dei vecchi compagni - il figlio di Nello Rosselli, il regista Alberto, e il nipote di Tristano Codignola, il ricercatore Tommaso. «Ho ricostruito il Partito d'Azione», ride Spini.
Nel suo mirino c'è soprattutto Renzi. «Ha detto che chi vota per me vota per Berlusconi? Ma è ridicolo. Se andassi al ballottaggio con il candidato del Pdl vincerei io, non Giovanni Galli». E ancora: «Renzi è bravo soltanto a distribuire schiaffi. È cresciuto con Lapo Pistelli e ora l'ha scaricato. Era nemico giurato di Leonardo Domenici e ora ha chiuso l'accordo con lui. La verità è che teme la mia candidatura. C'è ancora un 17% di indecisi tra me e lui». È il gioco della campagna elettorale, certo. Ma basta nominargli il candidato sindaco del Pd e l'ex ministro parte a raffica: «Renzi è soltanto un ragazzo aggressivo». «Pensi che D'Alema è venuto a Firenze per dire che bisognava aprire al dialogo con me in vista del probabile ballottaggio. E sa cosa ha fatto dopo Renzi? Ha detto che col sottoscritto non vuole avere nulla a che fare. Peggio per lui».
Se l'avventura del compagno V. è diventata un caso, molto lo si deve alla latitanza del candidato del Pdl, Giovanni Galli. L'ex portiere del Milan, a sentire i tanti malpancisti del centrodestra, si sta limitando al compitino. Persino Berlusconi, che pure ieri l'altro è venuto a Firenze (malvolentieri), si è rifiutato di tirargli la volata. Sia chiaro: nessuno ce l'ha con Galli, personaggio molto rispettato in città, anche dalla sinistra. Il problema, sempre a sentire le medesime fonti, starebbe nell'ultimo capitolo della sfida fratricida tra due pezzi da novanta del giro del Cavaliere: Paolo Bonaiuti e Denis Verdini. Di certo, in questa storia, c'è che "il portavoce" spingeva per la candidatura a sindaco di Gabriele Toccafondi, giovane parlamentare fiorentino del Pdl, molto gradito agli ambienti cattolici della città e quindi in grado di insistere sul bacino elettorale di Renzi. Al contrario l'"uomo macchina" del partito unico è stato l'esponente che di più si è speso per la nomination di Galli. Oggi, a pochi giorni dal voto, a Firenze circolano con sempre maggiore insistenza - alimentate off the record anche da una parte del Pd - voci di un "soccorso azzurro" al giovane Matteo. Un modo per gettare fango su Verdini? Oppure la strategia per ridimensionare, anche in vista del congresso del Pd, la portata della possibile vittoria del "giovane" Renzi? Chissà. Anche Valdo Spini strizza l'occhio al demone del sospetto. «Io non credo ai complotti. Ma è dimostrato che circa 3.500 elettori del Pdl hanno votato per Renzi alle primarie del centrosinistra. Per cui...».
Dal genere grottesco la storia della candidatura Galli ha sconfinato nel giallo. Qualche settimana fa, infatti, l'Ansa ha ricevuto e messo in rete un comunicato in cui il giovane deputato berlusconiano Alessio Bonciani rassegnava le dimissioni da coordinatore del Pdl fiorentino. «Qualcuno dei cosiddetti big del Pdl diceva che stavolta Firenze sarebbe stata la battaglia della Toscana», si leggeva nell'incipit del testo. Poche righe più sotto, Galli veniva liquidato come «candidato al di fuori dal comune». Morale? Tre ore dopo Bonciani contattava l'agenzia di stampa, che nel frattempo aveva avuto tutte le conferme del caso, smentendo le dimissioni e chiamando in causa un fantomatico hacker che avrebbe forzato la sua e-mail personale. Tre ore, malignano ancora oggi a Firenze, segnate da più d'una telefonata sull'asse Palazzo Grazioli-Firenze. (1. continua)

il Riformista 4.6.09
Era la stampa bellezza, i piani-tagli dei grandi giornali
Analisi. Piccola ricognizione nel mondo dei quotidiani, il primo a essere messo in discussione dalla crisi.
di Gianmaria Pica


Mentre la crisi economica continua, resta l'editoria il primo settore in cui si procede alla ristrutturazione delle imprese. Con i ricavi pubblicitari in calo del 26 per cento nel quadrimestre gennaio-aprile 2009 - rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso - e con i quotidiani in contrazione del 23 per cento, i piani tagli dei grandi giornali italiani iniziano a prendere forma.
L'Unità
Oggi alla redazione del quotidiano diretto da Concita De Gregorio viene sottoposto il piano di organizzazione del lavoro, cioè una lista in cui per ogni giornalista viene associato il giorno di cassa integrazione. Lo scorso 28 maggio, il cdr - organo sindacale interno alla redazione - dell'Unità, con le associazioni di stampa territoriali e la Fnsi, ha ratificato al ministero del Lavoro l'accordo con la Nuova iniziativa editoriale (la società editrice del quotidiano che fa capo a Renato Soru) per il piano di ristrutturazione e l'avvio dello stato di crisi. Tradotto, significa che è applicabile l'ipotesi della cassa integrazione. Il cdr del giornale fondato da Antonio Gramsci, con un comunicato della scorsa settimana, ha fatto sapere che «ritiene impraticabile l'ipotesi di un'organizzazione della cassa integrazione a rotazione su base oraria» perché «rischierebbe tra l'altro di incrinare quello spirito di coesione solidale indispensabile per affrontare le difficili sfide cui la redazione è chiamata»: cioè l'accordo raggiunto tra la redazione e la proprietà che fissa a 17 unità il numero degli esuberi. Da quanto risulta al Riformista, il numero dei giorni di cassa integrazione a cui saranno chiamati singolarmente i 67 giornalisti dell'Unità sono 6. Per il 24 giugno è previsto per il quotidiano anche una ricapitalizzazione da 4 milioni di euro: iniezione di liquidità da parte di una fondazione con a capo l'imprenditore romano Raffaele Ranucci. Per il momento sarebbero stati raccolti solo 2 milioni di euro.
Corriere della Sera
Dopo che il direttore del primo quotidiano italiano, Ferruccio de Bortoli, ha ritenuto inaccettabile il piano ristrutturazione presentato dall'editore Rcs Mediagroup - tagli alla redazione del 25 per cento (90 giornalisti) per un risparmio di almeno 200 milioni di euro - ha presentato alla proprietà la sua controproposta. Prevede la chiusura anticipata del quotidiano alle 22.30, con un risparmio sul lavoro notturno. La riduzione della foliazione di quattro pagine per il quotidiano e per il Corriere Economia, di due pagine invece per il Corriere Salute. Tagli alle sedi all'estero: si passerà da quattro a tre giornalisti in America e da due a uno a Bruxelles. Per quanto riguarda il personale, l'obiettivo avanzato da de Bortoli è arrivare entro la fine del 2011 a una riduzione di organico più contenuta rispetto all'ipotesi avanzata dall'azienda: tagliare la redazione di 51 unità. Per quanto riguarda le ferie il direttore del Corriere ha proposto lo smaltimento di una parte di quelle arretrate e il pagamento al 50 per cento qualora non si riuscisse a consumarle: «Lo smaltimento ferie - dice de Bortoli - può essere uno strumento utile di accompagnamento ai pensionamenti anticipati». De Bortoli si è impegnato anche a un taglio dei collaboratori del 30 per cento (costi che scenderebbero dagli 12,8 a 9,5 milioni di euro all'anno). Inoltre de Bortoli prevede il passaggio al lavoro al web di tutti i giornalisti senza costi aggiuntivi. Rcs non ha ritenuto sufficiente la proposta di de Bortoli e i redattori sono in attesa di essere convocati dal cdr per discutere dei sei giorni di sciopero proclamati.
La Repubblica
Sembra che il quotidiano del gruppo l'Espresso abbia, grazie al lavoro sul caso Noemi, aumentato le copie - fanno sapere fonti vicine alla società editoriale - di «alcune decine di migliaia di copie». Manca l'ufficialità. Dagli ultimi dati di diffusione disponibili - quelli di febbraio 2009 - Repubblica ha venduto rispetto all'anno scorso circa 82 mila copie in meno. A giorni è previsto un incontro tra il cdr e l'editore per fare il punto della situazione economica del quotidiano e concordare assieme al corpo redazionale un piano di recupero. Alcuni osservatori dicono sarà «piuttosto soft, rispetto a quello degli altri quotidiani».
La Stampa
Il cdr del quotidiano di Torino oggi incontrerà la proprietà (John Elkann) per discutere del piano a cui sarà sottoposto il corpo redazionale. Si parla di circa di circa 40 tagli tra prepensionamenti volontari ed esodi incentivati (i redattori della Stampa sono circa 240). Il nuovo direttore, Mario Calabresi, ha iniziato a riorganizzare la redazione: Umberto La Rocca lascia l'incarico di vicedirettore vicario per assumere quello di inviato-editorialista; Cesare Martinetti assume la carica di vicedirettore (l'assemblea di redazione si riunirà oggi per esprimere il voto di gradimento al nuovo vicedirettore); Mattia Feltri, così come aveva chiesto al precedente direttore del giornale Giulio Anselmi, torna a scrivere con la nomina di inviato e - anche a causa di un incidente causato dalla pubblicazione di un articolo di Marco Belpoliti in cui si attaccava Vittorio Feltri - abbandona la carica di capo della redazione romana. Sarà sostituito da Paolo Mastrolilli. La tensione in redazione è alta.
Il Messaggero
Oggi il comitato di redazione del quotidiano romano incontra la proprietà per discutere del piano di riduzione costi che prevede 48 esuberi. Nel primo trimestre del 2009, il quotidiano di via del Tritone ha totalizzato 1,2 milioni di perdita. Alla luce di questi dati, l'editore del Messaggero, Caltagirone, ha presentato alla Fieg il piano tagli da 48 esuberi e la chiusura di alcune redazioni locali (per esempio Civitavecchia e San Benedetto del Tronto). Il cdr ha rifiutato il piano dell'editore e ha consegnato alla proprietà un documento di 12 pagine con i conti 2000-2007: periodo nel quale il Messaggero ha totalizzato utili complessivi per 277 milioni di euro: «Una cifra enorme - dice al Riformista il cdr del Messaggero - rispetto alla perdita di 1,2 milioni (l'equivalente di un piccolo appartamento al centro di Roma)». Secondo il cdr del quotidiano di Caltagirone, «48 esuberi sono troppi: corrispondono a un quarto del corpo redazionale».

il Riformista 4.6.09
Una fiction sui disturbi psichiatrici
Arriva Gallagher, il nuovo dr House che ricovera in tv i matti di L.A.
di Stefano Ciavatta


INTERVISTA. Una fiction sui disturbi psichiatrici, girata a Bogotà per ridurre i costi, sugli schermi in contemporanea per prevenire la pirateria online. Il protagonista Chris Vance è un giovane medico dai metodi innovativi, più vicino ai pazienti del temibile Laurie. Successo scontato? «La sfida è fare intrattenimento parlando di malattia mentale». Le grandi narrazioni di oggi si guardano in salotto? «Sì, ma niente sostituisce un libro».
«Human flesh, human flesh!» strilla di colpo un uomo battendosi con una mano il petto. «Sono reale, sono fatto di carne umana!» urla lo sconosciuto in preda alle allucinazioni, brandendo uno sgabello per allontanare gli uomini della sicurezza che sembrano farglisi intorno con gli occhi rossi e la lingua biforcuta. Siamo nella sala d'aspetto di Mental, la nuova serie tv che debutta oggi su Fox (ore 22, canale 110 di Sky): non è luminosa come quella del dottor House, nè frenetica come il pronto soccorso di E.R. C'è invece un'atmosfera da imbarco carontesco, un rumoroso affollamento fatto di storie di disturbi mentali e di ingranaggi intaccati, tutti in fila. «Sono anche io come te» dice un altro sconosciuto in fila, mettendosi al suo fianco, nudo pure lui- «oggi non sei più da solo». È la rassicurazione che seda gli animi, intanto si affronta la solitudine. E poi, cosa fare con mostri della psiche? Combattere ora? «No, viviamo un altro giorno, proviamo a lottare domani insieme» dice l'inaspettato alleato. L'uomo al fianco è in realtà il dr. Jack Gallagher, psichiatra giovane e avvezzo a metodi di cura anticonvenzionali, appena nominato direttore del dipartimento di salute mentale del Warthon Memorial Hospital di Los Angeles.
Lo intepreta Chris Vance, che il Riformista ha incontrato a Londra, pronto a debuttare stasera in Europa come nel resto del mondo in contemporanea. È una delle due novità della serie: una strategia di marketing per aumentare la visibilità ma anche per tentare di prevenire la pirateria online. Poi, complice la crisi di Hollywood, c'è la scelta low budget di aver girato la serie a Bogotà in Colombia. Per ora in Usa la prima puntata di Mental, andata in onda il 26 maggio, ha avuto il terzo diascolto della serata. Il medical drama è una certezza per gli ascolti in tv. Qui si parla però di psichiatria, un argomento delicato. Qual è la differenza a livello di scrittura e interpretazione? Lo chiediamo a Vance.
«La psichiatria è una scienza relativamente giovane e in realtà della mente umana sappiamo ancora poco, e Mental parla proprio di questo. È questa la differenza tra la serie e dagli altri medical drama ma è anche la sua difficoltà, non è facile mantenere un equilibrio l'intrattenimento e temi così delicati. Per gli autori la sfida è molto forte, fare intrattenimento parlando di fobie, di malattia mentale, di temi che sono tabù ancora oggi, cercando di non cadere nel tragico, nel ridicolo, o peggio nel derisorio. Quello del disagio mentale è un tema molto delicato, ognuno di noi ha un amico, un parente, che ha avuto o ha problemi del genere e non è affatto facile parlarne, figuriamoci scriverne per la tv.
La stampa americana tira in ballo "Dr House". L'handicap di House simboleggia una inquietudine del personaggio. Qui, c'è un volto rassicurante, un'aria atletica. Cosa nasconde il dr. Gallagher?
La differenza fondamentale tra i due è nel modo che hanno di trattare il prossimo, pazienti o colleghi che siano. Il dottor Gallagher al contrario di House cerca di arrivare alle sue conclusioni entrando in contatto empatico con la gente, cerca di capire. Jack è sempre anche molto attento al suo stato mentale, che non è perfettamente stabile, in fondo lo teme.
Gli sceneggiatori si sono basati su teorie o studi particolari? Avete dei consulenti?
Certo, abbiamo psichiatri, medici e farmacologi che ci fanno da consulenti. Quasi tutte le sceneggiature sono basate su casi reali, ovviamente riadattate con licenza poetica per renderle più interessanti e dare una cifra di intrattenimento. Vedrete un episodio straordinario su una gravidanza isterica tratto da una storia vera. Mental è un dramma, non è un documentario su un vero medico che usa terapie alternative, quindi fare usare a Jack solo terapie alternative sarebbe stato sbagliato, come dire che tutto il resto della medicina è inutile. Lui è comunque un personaggio innovativo, sicuramente Jack è uno che rifiuta i protocolli standardizzati, non acceta che che per ogni diagnosi ci sia un unico modo possibile di procedere e pensa che per ogni paziente vada trovata una terapia ad hoc. Rifiuta le categorie, le diagnosi a senso unico. Se ad un paziente viene diagnosticata la schizofrenia non è detto che la cura debba essere la stessa che ha funzionato per altri schizofrenici prima. Prima cerca di entrare nella mente dei suoi pazienti, e poi parte da lì per trovare la giusta terapia.
Il "New Yorker" in particolare dice che c'è qualcosa di "Patch Adams" in Gallagher. Sotto il sorriso benevolo, c'è qualcosa di sovversivo. Cosa ne pensa?
Sicuramente hanno delle affinità. Se avessi un qualsiasi tipo di disordine mentale mi affiderei ad un medico alla patch Adams o alla Jack Gallagher, un medico che cerca di capire chi sono i suoi pazienti, che esplora le diverse strade e possibilità. Vorrei sapere tutto quello che il mio medico pensa e decide di farmi.
Anche Hugh Laurie è inglese come lei, anche lui recita in un medical drama. C'è un'invasione britannica nelle cliniche di Hollywood?
Non credo che ci sia un'invasione, siamo solo due inglesi che interpretano due medici in due serie tv.
Qui a Londra un attore block buster come Jude Law va in scena con "Hamlet". Che importanza ha la vostra formazione teatrale?
Rispondo a titolo personale. Cedo che un attore che viene dal teatro abbia una maggiore sensibilità rispetto al pubblico, sa comunicare con il proprio pubblico, ha avuto il privilegio di sperimentarne le reazioni dal vivo come avviene a teatro. Lavorare di fronte a una telecamera è tutta un'altra cosa, ma se hai lavorato di fronte al pubblico è più facile mantenere quel tipo di sensibilità di fronte al pubblico. Immagino sempre che ci sia gente di fronte a me e invece c'è solo la telecamera.
Per Michael Crichton E.R. doveva rappresentare un ideale di pronto soccorso sanitario. Quasi una serie tv politica. L'approccio del dr. Gallagher può rappresentare un'ideale terapia?
Non ne so abbastanza di disagio mentale per potere affermare che Jack rappresenti un medico ideale e in ogni caso non penso che sia un personaggio scritto come ideale.
Cosa vuol dire per un attore andare in onda in tutto il pianeta contemporaneamente, dall'America al Sudamerica? Una soluzione per contrastare la pirateria?
Questo fatto mi fa sentire un privilegiato, ma io mi sento un privilegiato ogni volta che ottengo una parte e mi rendo contro che sono una persona che fa il mestiere che gli piace. Quello della pirateria e dei download illegali è un problema molto serio oggi, toglie ossigeno al mercato abbassandone la qualità. Sta seriamente mettendo a rischio il futuro della produzione televisiva, soprattutto quella di qualità.
Mental è stato girato a Bogotà per esigenze economiche. Ne ha risentito la produzione? Come è andata?
Quella delle serie tv americane è una vera è propria industria basata su ritmi e modelli produttivi rodatissimi ed estremamente efficienti. I professionisti colombiani con cui abbiamo lavorato erano abituati ad altri ritmi, abbiamo avuto una fase di rodaggio un po' faticosa ma poi è stato come se avessimo girato a Los Angeles o in qualunque altra parte del mondo.
C'è un elemento fantasy nella serie tv. Ha un motivo preciso nella narrazione?
Sicuramente c'è un elemento di genere. Nel primo episodio c'è un escamotage tecnico, spero il più verosimile possibile, per dare un'idea di quello che può esserci nella mente di uno schizofrenico e raccontarlo attraverso la tv.
Oramai le serie tv sono le nuove grandi narrazioni. E i libri?
Penso che sia vero e che molto sia dipeso dalla tecnologia audiovisiva che negli ultimi anni è diventata disponibile per tutti in tutto il mondo o quasi, oggi chiunque può avere esperienze di qualità cinematografica nel salotto di casa propria e questo ha fatto sì che gli standard produttivi della tv si alzassero. Insomma si è creato un circolo virtuoso che ha fatto anche crescere gli standard di scrittura e recitazione. In ogni caso, almeno per me, l'emozione che ti può dare un libro che ti coinvolge e che ti fa pensare e immaginare cose, che ti lascia la possibilità di dare la tua interpretazione delle vicende narrate, non può essere sostituita da nulla.

il Riformista 4.6.09
Massenzio inscena, il coma festivaliero della nostra poesia
di Carlo Carabba


CRISI. Domani al Festival delle Letterature recitano i poeti. Ma ormai il genere è sempre più chiuso in se stesso, impigliato da troppi manifesti elitari ed ignorato dai media. Così, i bardi aumentano e i lettori crollano.

«"Qual è oggi l'utilità o la funzione della poesia?" La domanda si rivela non meno urgente per il fatto di essere posta in tono provocatorio da tanti babbei o soddisfatta con risposte apologetiche da tanti sciocchi». Nei sessantuno anni che ci separano da quel 1948 in cui Robert Graves scriveva queste parole, l'urgenza della domanda non è certo diminuita. Assediata da tardoavanguardie, cattivi maestri e accademici antiaccademici la poesia ha vacillato sotto i colpi delle possibili risposte, formule spaventose secondo cui la poesia deve «abitare un non luogo», «svelare l'infondatezza ontologica del reale», «creare un'antilingua che rovesci il linguaggio ordinario e comune», slogan nel migliore dei casi incomprensibili, nel peggiore orribilmente sbagliati.
Non stupisce se, date queste premesse, i lettori più assennati si sono ritratti. Convinti dalla propaganda degli esperti hanno dimenticato che la poesia differisce per forma e non per natura dal romanzo, il cui godimento maggiore risiede nella vaghezza arbitraria ma generalmente concorde dei gusti di chi legge. Già, chi legge. Perché per fare un libro ci vogliono in fondo tre cose: lo stesso libro, un autore e un lettore. E una delle caratteristiche peculiari della seconda metà del Novecento è stata il progressivo assottigliarsi dei lettori di poesia, fin quasi alla loro estinzione.
Una delle conquiste più lampanti delle avanguardie poetiche è stata la rottura con un apparato tradizionale fatto di versi codificati, sonetti e altre forme chiuse. Quello che parve ai più come un trionfo, il superamento delle pastoie di astrusi codici sillabici, proprio come in pittura si rinunciava all'imperativo del realismo, fu all'origine di numerosi equivoci e di una filiazione paradossale.
Da un lato poeti che si proclamavano eredi diretti e legittimi degli audaci esploratori verbali delle avanguardie hanno esteso il concetto di critica alla tradizione e alla sintassi e alla significazione. Le loro poesie così non avevano metro, non avevano grammatica e non avevano senso, in un folle volo verso il vuoto che può esser frutto di letture filosofiche mal digerite o di un nichilismo metafisico mascherato da progressismo. Dall'altro c'è stata una fioritura di una poesia assolutamente antisperimentale, spontanea e impressionistica, che si limita a registrare lo stato d'animo, il ricordo o l'orizzonte visivo di chi scrive senza il minimo contributo di pensiero.
Le poesie dell'una e dell'altra categoria avevano la medesima capacità di privare il lettore di ogni soddisfazione, lasciandolo a pensare stordito e infastidito «questa roba la scrivevo pure io», come ha denunciato Alfonso Berardinelli, critico intelligente e lucido delle storture di molta poesia contemporanea.
La controprova sta nell'incremento esponenziale degli autori di poesia, simmetrico alla diminuzione dei suoi lettori. Tra riviste specializzate, circoli appositi, blog e un numero inquantificabile di case editrici piccole o minuscole (molte delle quali a pagamento) l'Italia è invasa dai poeti, la maggior parte dei quali non riescono a farsi leggere che da amici e conoscenti. Sarebbe presuntuoso pensare che il talento e il genio troveranno comunque il modo di venire alla ribalta, temo più probabile che molti dei migliori poeti degli ultimi anni resteranno a margine, chiusi nei propri cassetti o in plaquette che regalano a Natale.
Di fronte a questo ambiente ostile e disgregato, alla selva di concorsi e serate di slampoetry, è comprensibile la reazione di molti autori di poesia che, come fecero a suo tempo gli uomini delle caverne, cercano il conforto e la protezione della comunità, riunendosi in scuole e correnti.
Così, senza un pubblico, senza spazi sulla stampa generalista o in altri media, troppo spesso il canone poetico è dettato dagli specialisti, che, ragionando con la logica della scuola, escludono dal Parnaso chiunque sfugga alle loro imposizioni. Da qui l'abbondanza di dichiarazioni programmatiche di poetica che, con ritardo imperdonabile, continuano a essere in voga tra poeti più o meno laureati. Tali manifesti possono avere un elevatissimo valore estetico ed intellettuale, un valore solo individualmente pratico (possono ispirare la poetica di un singolo, mai di tutti) e mai possono divenire vincolanti, a meno di non volere escludere dalla famiglia della letteratura grandissimi autori che contravvengono al gusto o ai dettami del momento. Così per far spazio a Eliot si lascia fuori Keats, per far spazio a Quasimodo Gozzano, per Sanguineti si lascia fuori tutto il resto. Certe poesie, schiacciate dalla teoria, hanno sul lettore lo stesso effetto annichilatorio che ha la visione di alcuni mostri dell'architettura razionalista, progettati senza tenere conto di chi avrebbe dovuto abitarli.
Domani al Festival della Letteratura di Massenzio va, per la seconda volta, in scena una serata dedicata alla poesia. La scelta, quest'anno come per la scorsa edizione, è bella, e tra le rovine leggeranno molti poeti a me cari.
Ma sarà stato vano se gli spettatori non sentiranno il bisogno di percorrere la strada che dall'ascolto porta alla lettura, dalle luci del palco a quella, fioca, della propria camera da letto. I poeti devono riuscire a superare la soddisfazione della reciproca stima e avere il coraggio di cercare un pubblico che, a sua volta, abbia voglia di affidarsi ai loro versi, o, per dirla con Saba, «il desiderio dolce e vano d'immettere la mia dentro la calda vita di tutti».
Senza lettori, la poesia è una specie in via d'estinzione e la sua vita, tra festival e "giornate mondiali della poesia", una vita da riserva.

Liberazione 3.6.09
La Cina da Mao a Tienanmen
di Lidia Menapace


E' una icona antichissima, quella che mostra Davide, fornito solo della fionda come fosse un ragazzo dell'Intifada, aver ragione del gigantesco Golia, immagine stessa della forza bruta. E quell'icona si perpetua e viene ripresa anche in alcune famose foto del recente passato: chi può dimenticare la ragazzina vietnamita sottile piccola fiera, che tiene prigioniero, quasi al guinzaglio, un gigantesco soldato americano? E chi non ricorda lo studente leggero sfottente che danza allegro e senza paura davanti a un gigantesco carrarmato cinese nella enorme piazza Tien an Men? Come vorrei che a questa galleria di persone che credono più nella ragione che nella forza, nella giustizia che nelle armi si potesse aggiungere anche l'icona di Rachel Carrie! Ma davanti al suo corpo il carrarmato israeliano non si fermò!
Certamente la rivoluzione cinese e la Cina comunista sono state speranze vive per molti e molte di noi, soprattutto per alcune caratteristiche specifiche di grande prospettiva: il modello di industrializzazione che non punta sull'industria pesante, ma su quella che produce beni di uso comune e aiuta a sollevare ogni giorno un po' il livello di vita del popolo; l'internazionalismo pratico che afferma non potersi né volere in Cina puntare su un miglioramento delle condizioni di vita del popolo, una volta raggiunto il minimo vitale («un pugno di riso al giorno per tutti e tutte, un paio di sandali per ogni paio di piedi, una casa su tutte le teste») fino a che non si potesse procedere insieme agli altri popoli poveri;
Lidia Menapace
L'attenzione alla questione di genere che portò Mao a discutere con le donne che protestarono quando disse che erano la "seconda" metà del cielo, e quando si corresse che erano "l'altra" metà del cielo, placandosi solo quando si abituò a dire che le donne erano, come gli uomini, "una" metà del cielo: segno della piena comprensione di quanto sia importante il liguaggio come simbolo del reale.
Ma non solo questo: perché tutti e tutte potessero uscire dall'analfabetismo Mao fece trascrivere il cinese scontentando i Mandarini che lo rimproverarono di uccidere le straordinarie sfumature e sottigliezze e raffinatezze della lingua cinese per apprendere la quale nelle scuole mandarine si imparava a dipingere per l'appunto 10.000 segni. Mai un povero contadino sarebbe riuscito ad arrivare al "merito" necessario. Uguale senso della giustizia di classe mostrò verso la tradizionale medicina cinese, inventando i "medici dai piedi scalzi", preparati a sovvenire ai principali problemi igienico-sanitari della popolazione (ad esempio a non tagliare un cordone ombelicale con forbici non sterili o arrugginite). Al termine di questi processi culturali disse che secondo lui - al contrario di quanto diceva il proverbio - «i mandarini puzzano e i contadini no» e che uno sarebbe stato un vero intellettuale comunista quando avesse sentito "puzzare i mandarini".
Esprime qui un disprezzo e giudizio greve sulla antichissima cultura cinese che lo indusse anche a misure repressive verso gli intellettuali, e fu l'inizio di un processo di degrado della libertà che arriva fino alla piazza Tien an Men e alle lotte studentesche.
Quella della lotta contro la cultura borghese e il privilegio del sapere è una delle scelte più delicate e difficili, quando si produce dopo una rottura rivoluzionaria e vi è l'obbligo di sottoporre ad attento vaglio tutto il passato.
La Rivoluzione culturale fu di certo la più rischiosa e mal finita parte della Rivoluzione cinese e resta a noi il compito di definire la scelta culturale, prima fra tutte le libertà "sovrastrutturali".
E dalla Rivoluzione cinese perciò molto resta comunque da studiare, capire, imitare anche nelle sue innovazioni, ma restano anche molti problemi irrisolti e penso che lo studente che sfida il carrarmato rappresenti tutto ciò in modo straordinario e limpido: la libertà di parola, insegnamento, ricerca è il più sicuro indicatore della democrazia reale, e si tratta di libertà senza aggettivi, libertà religiosa per poter dire no a qualsiasi infrazione della laicità, libertà di studio per poter dire no alla riedizione dei mandarini nostrani, libertà di innovazione, quando i simboli che invadono ancora la Cina di bandiere rosse, stelle rosse, falci e martelli non corrispondono più a una vera libertà, quando si vede che i poveri vengono lasciati indietro e il lusso brilla nelle metropoli delle Repubblica popolare cinese. I simboli sono straordinari veicoli di senso, fino a quando non diventano riti solenni, ma vuoti e assomigliano a quelli che si celebrano nelle cerimonie religiose.

Liberazione 3.6.09
Detenzione finché dura la "pericolosità sociale", abbandono, contenzione
Ospedali psichiatrici giudiziari di Aversa e Napoli. Un viaggio nella sofferenza incarcerata
di Giusto Catania


L'uomo accovacciato nel corridoio mostra una ferita profonda nella testa, pochi denti gialli e indossa abiti invernali, anche se siamo in piena estate. P. ha 37 anni, ma ne mostra 50, soffre di anoressia, vive in una cella che è un letamaio ed è un internato dell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa. La nostra visita parlamentare termina qui, ma l'orrore per le storie e i visi che abbiamo incontrato è appena cominciato. Una settimana fa abbiamo visitato anche l'Ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli, all'interno del carcere di Secondigliano. Anche qui storie di disagio mentale, povertà e di uomini dimenticati.
Negli Ospedali psichiatrici giudiziari (ve ne sono sei in tutta Italia) entrano i sofferenti psichici che hanno commesso un reato. Poiché non sono capaci di intendere sono condannati non ad una pena, ma ad una misura di sicurezza. La differenza è che la misura di sicurezza può essere prorogata fino a che dura la pericolosità sociale. E quindi avviene queste persone anche se hanno commesso un reato minore scontano decine di anni di questi che sono, a tutti gli effetti, carceri, tanto è vero che dipendono dal Ministero della Giustizia.
V., un uomo di circa 50 anni ci mostra il suo foglio processuale. La sua misura di sicurezza è terminata da un mese, ma al momento la data del riesame non è stata ancora fissata. «Ma dove siamo - grida - in Italia o che?». Non ha notizie, da nessuno, nemmeno dal suo avvocato. Molti degli internati sono stati difesi da avvocati di ufficio. A Napoli un internato, che ha scontato già due anni per un furto, è stato addirittura denunciato dal suo avvocato perché insolvente. «Con che lo pago? - ci dice - mentre con una mano si tiene un pantalone consumato e sporco, tenuto su solo da un filo di spago». Ad Aversa visitiamo la sezione che è detta "Staccata", tristemente celebre per i suicidi e i letti di contenzione. Quello che abbiamo visto, ancora ora ci fa rabbrividire. Centinaia di uomini, in celle spoglie e sporche, che, in piena mattinata, giacciono nei loro letti sudici. Qualcuno si aggira nei corridoi, i più sono accovacciati, con in mano l'immancabile sigaretta. Al momento della nostra visita nell'Opg di Aversa, 270 internati, non è presente un solo psichiatra. La direttrice spiega che con la riforma della sanità penitenziaria la competenza è ora delle Asl. Ma qui vi sono solo due infermieri a reparto. Alcuni di loro, 12 sui 46 di tutta la struttura, da mesi non percepiscono stipendio e sono preoccupati per il loro futuro lavorativo. Il personale infermieristico e parasanitario è evidentemente sottostimato rispetto alle esigenze e opera in condizioni di precarietà. Ciò pregiudica ulteriormente la già ridotta capacità di assistenza sanitaria perché non si può lavorare in queste condizioni.
Da ogni cella si affacciano visi che sembrano quelli dei malati dei manicomi civili chiusi da Basaglia. Ma qui la riforma non è mai arrivata. Le condizioni di detenzione non rispettano quanto previsto dalla legge. A Napoli, molti internati non hanno nulla in cella, né sedie, né tavolo, né sgabello e nemmeno il televisore. A parte il passeggio, il resto della giornata i circa cento internati la trascorrono chiusi in cella. Verifichiamo, poi, che è ancora utilizzata la pratica della coercizione, quella di legare ad un letto, anche per giorni, il sofferente durante una crisi. Nel 1982 lo denunciava Alberto Manacorda, psichiatra democratico, in un suo libro sui manicomi giudiziari. Dopo 27 anni, secondo il libro inchiesta di Dario Stefano Dell'Aquila, ancora si registrano centinaia di casi di contenzione, in alcuni occasioni prolungati per settimane. Decidiamo di verificare direttamente.
A Napoli chiediamo di vedere la stanza di coercizione. C'è un momento di imbarazzo, poi ci conducono in una stanza vuota, alla parete un grande disegno. Un letto, decisamente sudicio, fa bella mostra di sé al centro della stanza. Ai piedi e alla testa sono saldati i moschettoni che servono per le cinghie di coercizione. Gli psichiatri mi rassicurano che quel letto non è utilizzato, se non raramente. Non ci basta. Verifichiamo il registro di contenzione, e scopriamo che quel letto è stato utilizzato più volte e per più persone. Ci chiediamo cosa ci sia di terapeutico nel legare una persona che ha una crisi psichica. Ad Aversa invece, da qualche mese, hanno levato i vecchi letti di contenzione. La direttrice ne è giustamente orgogliosa. Qui la riforma della sanità penitenziaria ha almeno prodotto un effetto. E però un internato, non visto, ci dice che non li legano più là, ma che adesso usano le fascette, cioè li legano ai letti con le lenzuola. Ci rechiamo in quella che era la vecchia stanza di coercizione. E' qui che troviamo P. che ripete che lui non mangia, che ha bisogno dei suoi integratori alimentari.
Prima di lui, nei corridoi di una struttura che è la stessa da oltre un secolo e che mostra tutti i suoi limiti strutturali, incontriamo decine di storie, impossibile raccontarle tutte. Un internato mostra la sentenza del magistrato di sorveglianza che dichiara terminata la sua pericolosità sociale, ma che proroga la misura di sicurezza perché non vi sono altre strutture residenziali protette dove accoglierlo. In questa condizioni è circa la metà degli internati di questo posto. Mentre ripercorriamo il corridoio, dalle celle spunta un uomo con la barba bianca lunga e incolta. Ci dicono che ha commesso un reato grave, di sangue e che gli psichiatri hanno detto che è socialmente pericoloso. Non abbiamo motivo di dubitarne, se non fosse che quest'uomo ha 84 (ottantaquattro) anni e che, forse, sarebbe possibile trovare soluzioni alternative alla reclusione.
Gli infermieri ci mostrano il loro spogliatoio a cielo aperto, un cerchio di armadietti all'interno di una tromba di scale. Leggiamo stupore nei loro occhi, perché di parlamentari che passino di qui non se ne vedono molti (l'unico che ricordano è Francesco Caruso). Del resto, ci ricorda uno di loro, «gli internati non votano» e a denunciare certe cose ci si fanno solo nemici. Non sapremmo che rispondere, se non che in questi posti sono rinchiusi uomini che avrebbero avuto diritto ad un'assistenza psichiatrica e che invece, assieme alle loro famiglie, si sono trovati completamente soli. Per questo è importante essere qui, durante una campagna elettorale così importante e impegnativa. La battaglia per la chiusura di questi posti non è ideologica, ma corrisponde ad una precisa posizione culturale. La convinzione profonda, cioè, che chi come noi esercita la propria militanza contro ogni forma di esclusione, ha il dovere etico e politico di cominciare la propria lotta da luoghi come questi, dove si incarcera il disagio e si imprigionano i diritti.

Liberazione 3.6.09
In libreria "Devi augurarti che la strada sia lunga", il saggio-intervista dell'ex segretario con Armeni e Gagliardi
Caccia allo stalinismo nascosto: Bertinotti racconta il suo Prc
di Maria R. Calderoni


Cercasi stalinista disperatamente. E lui lo ha cercato dappertutto, anche sotto l'Arco di Tito, anche con il visore a raggi infrarossi, ma vigliacca se ne ha trovato uno. Tanto che dopo il comizio-tranchant di Livorno, in quel 21 gennaio 2001, stesso luogo e stessa data della nascita del Partito comunista italiano, quello vero, del '21, nessuno si accorse di niente, il Prc non fece una mossa e lui ne sentì lo smacco. Nessuno stalinista saltò fuori, se c'era, dormiva. Racconta Fausto Bertinotti medesimo, con parole sue, nel libro-intervista scritto a sei mani (con Rina Gagliardi e Ritanna Armeni) che è appena uscito - Devi augurarti che la strada sia lunga , Ponte alle Grazie, pag. 208, euro 14 - e che ne ripercorre dall'inizio alla fine la vicenda politica e umana: «La svolta di Livorno (quella sua, del 2001, beninteso, ndr ), pur importante, non precipitò in un cambiamento del partito, dell'organizzazione, della divisione del lavoro e dei ruoli. Il partito nella sostanza non cambiò». Però il seme gettato ha dato i suoi frutti, tanto che tre anni dopo, dice sempre lui stesso, «quando fu costituito il Partito della Sinistra europea e ne divenni presidente, il passo più applaudito del mio discorso fu quello in cui dissi che non dovevamo andare verso il futuro senza una rottura con lo stalinismo chiara e irrevocabile».
Gliene sia dato atto. L'intervista lunga oltre 200 pagine, è in gran parte questo, la narrazione del titanico sforzo compiuto per liberare il partito, di cui nel 1994 era diventato improvvisamente segretario (per chiamata diretta di Cossutta), da quel dna comunista che lo inficiava e lo minava nel profondo. Invisibile ma ingombrante. Il titanico sforzo iniziato, appunto, a Livorno quel fatale 21 gennaio 2001, quando per la prima volta «spiego che noi dobbiamo fare i conti fino in fondo con la storia del movimento operaio del Novecento. Dobbiamo fare i conti con gli errori, le tragedie e gli orrori di questa storia. Pronuncio la parola "orrori" e sento che essa è già una rottura».
Praticamente una mission , che lui, Bertinotti, si carica sulle spalle, novello Cireneo, dal momento che «il Pci aveva trattato in modo elitario e paternalistico lo stalinismo presente nelle sue file e diffuso tra i militanti». Ciò che Rifondazione non poteva permettersi, in quanto «nel Prc avrebbe potuto avere effetti devastanti». Perciò «quel discorso è stato un momento importante nella storia di Rifondazione comunista».
Doveva incominciare tutta un'altra storia, insomma. E così fu. Quella degli "errori e orrori" diventa un leit motiv, la magnifica ossessione del segretario Prc: folgorato sulla via dall'Angelus Novus di Benjamin, quello che vola con la testa girata all'indietro, non conosce più un minuto di tregua, sulla traccia dello stalinismo nascosto dentro il Prc. Incomincia un rutilante caleidoscopio, immaginifico e altisonante, che cattura e lascia a bocca aperta, che frasi, che parole, che rappresentazioni. Nel libro si ritrovano tutte, le abbiamo diligentemente segnate: contaminazione, rottura estetica, innovazione-innovazione, scelta eretica, deriva moderata, partito estremo ma non estremista, desistenza, mossa del cavallo, big bang, reinvenzione, balzo della tigre, rovesciamento dell'attesa, de-ritualizzazione del rito, ribaltamento, revisionismo e metarevisionismo di sinistra («capace di far entrare la critica dello stalinismo nel Dna di Rifondazione comunista»), risveglio della bestia, combinato disposto che potrei definire diabolico, necessità di un'operazione chirurgica («una operazione profonda di cultura politica»), riprodurre il trauma.
Insomma, il demone lo sospinge, il passo successivo è ovvio. Ci vuole un'"altra" Rifondazione: è questa l'idea, questo il progetto spinto cui ora lavora accanitamente e con grande fervore visionario il segretario del Prc: che oltretutto è affabulatore, elegante, salottiero al punto giusto e buca il video.
Oltre , è la nuova parola bertinottiana. Oltre . «Con il nuovo partito si può incrinare e distruggere l'idea del monolite che contiene e dirige tutto», retaggio della storia novecentesca; oltre , basta con la militanza di partito «che conferiva una superiorità etica e politica». Adesso è l'era dei movimenti, del movimento dei movimenti, della idea altromondista. Della parabola "Rincominciamo da Genova"; della nuova fascinazione della non-violenza con tanto di costruzione ideologica e filosofica; del ripudio della presa del potere e della lotta per la vittoria («questo sostantivo mi dà un leggero imbarazzo per il suo alone semantico militare», sic); della «trasformazione delle cose che si intreccia strettamente con la autotrasformazione dei soggetti». Pur anche «della liberazione collettiva che sposta in avanti il conflitto». Insomma, occorre «far rivivere in noi la leggenda della Fenice, quella che risorge dalle proprie ceneri». Per cui, chiaro: «Il partito come l'abbiamo conosciuto, il nostro partito, non basta più, bisogna cambiare i modi, le forme, le pratiche del far politica».
E venne il V congresso, quello al taglione di Venezia; e venne il misero governo Prodi; e l'azzardo Arcobaleno, col disastro del 14 aprile 2008. Fine dell'Utopia siglata Fausto Bertinotti. Ma no. Va bene, a malincuore, ammette di aver sbagliato; con la mera storia dell'Arcobaleno, «non ho chiesto di votarci in nome della nostra identità storica. Ho fatto un tentativo un po' acrobatico dicendo agli elettori e alle elettrici: non votateci per quello che siamo stati o per quello che siamo oggi, ma per quello che possiamo essere».
Il tentativo «un po' acrobatico» fu bocciato e dolorosamente: ma Fausto Bertinotti si tira fuori. No. Perché «noi - lui e con lui il nuovo gruppo dirigente uscito dal congresso di Venezia - ci sforzavamo di rappresentare una discontinuità e invece apparivamo prigionieri di una continuità negativa con il nostro passato che ha vanificato ogni tentativo e ogni promessa». Sinistra sconfitta, «non siamo stati credibili», ma la colpa sta altrove. Sta, pensate un po', a Praga. «Quarant'anni fa lì in Cecoslovacchia è morta una storia grande che coinvolge tutta la sinistra anticapitalista del Novecento».
Pindarico come sempre (e anche «un po' acrobatico»...), Fausto Bertinotti si fa assolvere dalla Storia: Rifondazione, per colpa di Praga, non poteva farcela. E quindi «bisogna prendere atto fino in fondo della irreversibilità della crisi di questa sinistra, per come l'abbiamo conosciuta e vissuta».
Però,però... «Abbiamo avuto due sinistre. Non ne abbiamo più nessuna. Dobbiamo provare a ricostruirne una».
Da Bertinotti a Bertinotti. Tocchiamo ferro.