domenica 7 giugno 2009

Il Sole 24 Ore Domenica 7.6.09







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Terra 7.6.09












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l’Unità 7.6.09
Parlar male di Berlusconi
La strage di notizie è già in atto se si pensa ai molti giornali che non hanno pubblicato le immagini indecenti del premier alla parata
di Furio Colombo


Perché non possiamo non dirci antiberlusconiani, qualunque sia il risultato elettorale (che speriamo largamente democratico, nel senso politico, nel senso di antifascista, nel senso che Marco Pannella ha ridato alla abusata parola)? La ragione si esprime in pochi punti.
1. L’ideologia, ovvero il patrimonio di idee e di visioni che Berlusconi ha trovato abbandonati sul terreno quando è “ sceso in campo”, non c’entra. Questo non è un governo di destra. Non c’è il decoro e il senso delle istituzioni della Destra di Gianfranco Fini, né la concitazione aggressiva e xenofoba della Lega Nord che - in tante diverse incarnazioni - avvelena il clima morale e politico di mezza Europa. Berlusconi non è né Fini né Bossi. È solo se stesso. Un signore ricco, furbo, non intelligente ma svelto, svincolato dal peso della buona reputazione e ricoperto dal manto - tutto teatrale però efficace - del successo populista. Non c’è nulla prima di Berlusconi, nulla che gli assomigli. Non ci sarà nulla dopo di lui (certo non il devoto Bondi). Abbiamo a che fare con un caso unico in Europa e raro nella storia. Non è raro il leader squilibrato. È rara una così vasta sottomissione delle cosiddette classi dirigenti.
2. È vero (cito ancora Marco Pannella) che malgoverno e malaffare hanno a lungo lavorato insieme in Italia ben prima dell’uomo di Arcore. Ma sono confortato dal grido di allarme del leader radicale che, invece di scusarsi per l’antiberlusconismo dichiara, col consueto coraggio, che c’è un vero e imminente pericolo di fascismo e che la persecuzione delle persone segue, non precede, la strage di notizie. Questa strage è già in atto se pensate ai molti grandi giornali che non hanno osato pubblicare le immagini di comportamento indecente del premier alla parata del 2 giugno. Più ancora, se si ricorda a che punto estremo di manifestazione e di denuncia i nonviolenti Pannella e Bonino sono dovuti arrivare per rompere il silenzio.
3. Chiunque può avere, per un periodo, un ministro inutile come Brunetta; un capo dell’Economia impegnato a scrutare un altro orizzonte, non quello vero, come Tremonti; un finto ministro dell’Istruzione come la Gelmini (memorabile l’invenzione del 6 rosso) di cui si ricorderanno solo il tailleur alla Mary Poppins, gli occhiali e i tagli poderosi alla scuola pubblica. Ma nessuno ha avuto e continua ad avere per quindici anni un uomo troppo ricco, non nel pieno controllo del suo comportamento pubblico (la vivacità eccessiva certe volte lo aiuta, certe volte lo sputtana) e preoccupato solo di se stesso, immagine, donne (nei limiti e con la pena dell’età), e finti progetti, uno o due al giorno, annunciati e poi buttati, in un delirio di applausi che - ci siano o non ci siano gli oppositori - ad un certo punto cesserà di colpo.
4. Berlusconi siede sul groviglio dell’immondizia, del terremoto, della crisi economica senza governare. Tutte le sue leggi sono ritorsioni, punizioni, vendette, volute e votate per interesse aziendale o personale o tributo a un partito feudatario, come il disumano e incivile «pacchetto sicurezza», vero best seller di condanne nel mondo civile laico e religioso. In particolare non si registra una legge o misura o azione o strategia anticrisi che non sia una esortazione all’ottimismo e al consumo. La parola d’ordine del non-governo Berlusconi è «lavorare di più», ammonimento diretto non si sa a chi, date le cifre continuamente in crescita della disoccupazione. Lo dice mentre lo affianca la neoministro del Turismo Brambilla, di cui non si sa nulla, eccetto il colore vistoso dei capelli, e che non può far nulla in un Paese che affoga nell’immondizia e nel cemento. Infatti, nel frattempo, incombe sulla Toscana l’immensa colata di cemento detta «Spaccamaremma», l’inutile autostrada destinata a isolare la regione italiana più celebre al mondo dal suo mare (la colata di asfalto e cemento corre lungo le spiagge). E incombe su tutto il Paese il «piano casa». È un singolare condono preventivo che autorizza ciascuno al peggio, senza autorizzazioni, senza controlli, senza regole. Ma questo è il cuore del discorso. Berlusconi, da solo, siede sul Paese. Come se non bastasse lancia una frase squilibrata al giorno. L’ultima è “troppi negri a Milano”, nell’anno, nel giorno, nell’ora dello straordinario discorso al Cairo di Barack Obama, primo Presidente afro-americano degli Stati Uniti. Sua moglie - che deve averci pensato molto - ci dice che non sta bene. Alcuni italiani lo ammirano perché è ricco e sono sicuri che non usa aerei di Stato per ballerine di flamenco e chitarristi personali. Altri - come Pannella - vedono e dicono chiaro il pericolo. In Italia manca l’ossigeno delle notizie vere. Il piede sul tubo è quello di Berlusconi.

l’Unità 7.6.09
Fiestas e foto «pikante»
Così lo vedono all’estero
di Federica Fantozzi


I giornali esteri non li legge nessuno, nemmeno le popolazioni di quei Paesi». È la frase un tantino generica ma chiara con cui Berlusconi ha liquidato l’eco mondiale del Papi-gate. Che però non accenna a spegnersi: inconsapevoli della propria scarsa diffusione, giornali e siti di tutto il mondo, da Time al Bangkok Post, dalla Voz de Galizia a Wales Online, affrontano l’argomento. E persino su Al Jazeera online appaiono, sia pure molto piccole, le foto dei topless a Villa Certosa acquistate dal Paìs.
Malvisto dagli altri. Sotto questo titolo Internazionale raccoglie un grappolo di feroci articoli, con commento di Marc Lazar: «L’affermazione di Berlusconi può essere considerata il trionfo dei difetti dell’Italia e degli italiani: la scarsa coscienza civile, la mancanza di tradizione democratica, la prevalenza degli interessi particolari sui collettivi». The Independent vaglia le ipotesi su Noemi «figlia, amante o elemento decorativo alle feste... sogno proibito di un 72enne con problemi alla prostata» e teme che la festa del G8 potrà essere rovinata: «Berlusconi sta scoprendo a sue spese che non può manovrare la stampa estera come quella italiana». Il Times denuncia «un pagliaccio sciovinista... che frequenta donne con 50 anni meno di lui», un «anziano casanova» che «umilia la moglie». Citando la gaffe di Frattini che «ha infelicemente cercato di aiutarlo facendo notare che in Italia l’età del consenso scatta a 14 anni».
La tedesca Faz ironizza: non solo principe rinascimentale ma Giove che scese dall’Olimpo per incontrare «quell’ochetta di Leda» facendo infuriare Giunone. Bagnasco invita a occuparsi della propria coscienza? «Ma così non scopriremo mai se è successo qualcosa». Per la spagnola Vanguardia il Cavaliere è «un marpione che porta in giro il suo corpo plurioperato» con «la coscienza rifatta col botulino come la sua faccia».
Sultani e flamenco. Le Monde spiega come «la vita privata di Silvio ha occultato la campagna elettorale... Ama comportarsi come un sultano facendo venire nella sua villa ogni tipo di persone utili al suo divertimento». The Guardian dà risalto alla presenza dell’ex premier ceco Topolanek nudo che «ha trasformato uno scandalo italiano in uno internazionale». A corredo, la foto di due anziani milanesi che si passano la copia del Paìs ridendo. E «Foto in topless a casa Berlusconi» è il titolo del Times of India come del sito malese The Star.
«No spice thank you». Niente rapporti piccanti, siamo anglosassoni. Il settimanale Usa Time sbertuccia la vicenda di «nudità e seminudità da piscina» dove le immagini di per sé non sono scandalose, «si potrebbero vedere in infinite ville lungo il Mediterraneo», ma «il contesto è tutto». Tra soap opera pubblica e gossip bollente: «Gli italiani - come noi - non possono smettere di guardare». E l’occhio di un veterano dei paparazzi ad alto rischio, Zappadu, ha immortalato ospiti di rango in mezzo a «un contingente di ragazze». Così, mentre Topolanek grida al fotomontaggio, il quotidiano ceco Hospodarske Noviny scrive che «si è trovato a fare da alibi a un donnaiolo». El Mundo online titola: «Italia in piena polemica per le foto delle fiestas di Berlusconi». «Fotos pikante» strilla la Bild. Sul Mirror la smorfia del premier: «Giura di dimettersi se ha mentito». The Australian: «Silvio dice: foto nude ma innocenti».

l’Unità 7.6.09
La bioetica e il diritto
di Luigi Manconi, Andrea Boraschi


Lunghe e faticose battaglie hanno affermato, nella nostra cultura, l’idea di “maternità consapevole”. Lontani come siamo dal veder tradotta quella istanza in forme mediche e di welfare consolidate e diffuse, che garantiscano pienamente la donna, oggi vediamo che i confini della bioetica chiamano in causa anche il diritto maschile a una scelta genitoriale cosciente.
Il Tribunale di Vigevano ha respinto la richiesta di una donna di accedere alla procreazione medicalmente assistita per avere un figlio dal marito, ricoverato in coma alla fondazione Maugeri di Pavia. La richiesta era stata sollecitata dal padre dell’uomo, in qualità di tutore; ed è stata rigettata in virtù del fatto che, dalle testimonianze raccolte, non è stato possibile - a parere dei giudici – ricostruire la chiara volontà dell’uomo di diventare padre.
Una seconda questione la solleva Chiara Lalli, con grande lucidità, nel suo blog. Ha a che vedere con la legge 40 e con i recenti pronunciamenti della Corte Costituzionale nel merito di alcuni passaggi di quella normativa. In particolare, la caduta dell’obbligo a «un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre», rende possibile crioconservare quegli embrioni che non vengono usati al primo tentativo; o tutti quelli prodotti se, per qualche ragione, il medico ritenesse opportuno rimandare l’impianto. Ovviamente nelle procedure di fecondazione assistita è contemplato il consenso informato e la possibilità, per entrambi gli aspiranti genitori, di revocare la loro volontà; ma, qui sta la bizzarria, ciò è possibile solo fino alla fecondazione dell’ovulo (e non, come in pressoché tutte le altre legislazioni, fino all’impianto dell’embrione). Lalli ci propone l’ipotesi di una coppia – Anna e Mario - che si rivolge a un centro per la fecondazione producendo 7 embrioni; 2 vengono utilizzati per un primo e inutile tentativo, gli altri 5 conservati per un secondo intervento che si rende necessario procrastinare. Nel lasso di tempo che separa quel primo tentativo da quello a venire i due interrompono la loro relazione; ma stante la legge italiana Anna ha diritto all’impianto degli embrioni, anche contro il volere di Mario che non può più ritirare il suo consenso. E ciò in direzione perfettamente contraria a quanto stabilito dalla Corte di Strasburgo riguardo a una controversia simile: una donna inglese si era rivolta a quella Corte invocando l’articolo 2 della Convenzione per la protezione dei diritti umani, domandando che si estendesse la tutela del “diritto alla vita” agli embrioni di cui chiedeva l’impianto contro il volere dell’uomo. I giudici respinsero la sua richiesta.
Scrivere a: info@italiarazzismo.it

Corriere della Sera 7.6.09
L’abbandono delle Biblioteche nazionali
4,5 milioni di euro annui per la gestione complessiva di roma e Firenze
100 milioni annui per la gestione di Parigi
A Roma e Firenze 14 milioni di volumi, come a Parigi Ma l’Italia stanzia venti volte meno per la gestione
di Paolo Di Stefano


Deposito legale Gli editori devono inviare alle due Centrali copia della produzione: 60 mila novità l’anno
Prestito Servizio solo al mattino, mentre in Francia sale aperte fino a sera E si pensa di superare l’eredità ottocentesca scegliendo un’unica sede

Le cifre, nella loro brutalità, dico­no già molto. E confrontando, a titolo di esempio, gli stanziamen­ti dello Stato italiano per le due Bibliote­che nazionali centrali, di Roma e Firen­ze, con quelli francesi per la famosa Bi­bliothèque Nationale (BnF) di Parigi, si rimane interdetti. Il rapporto è di circa uno a venti: per la sola gestione, 4.5 mi­lioni all’anno da noi contro i cento milio­ni francesi. Eppure, quanto a dotazioni, i due istituti italiani nel loro complesso equivalgono a quello parigino. Siamo at­torno ai 12-14 milioni di «unità biblio­grafiche ». Ma è sulla questione del per­sonale che si sono concentrate le più re­centi polemiche italiane dovute alla mi­nacciata (e in parte già realizzata) chiu­sura di alcuni servizi al pubblico delle nostre due maggiori biblioteche: meno di 500 impiegati tra Roma e Firenze, 2600 a Parigi. Un rapporto di 1 a 5.
Per capirci qualcosa nel dedalo delle biblioteche italiane è necessario un bre­ve excursus storico. Che Paolo Traniello, docente di Biblioteconomia a Roma 3 e autore di numerosi saggi sull’argomen­to, ha ben chiaro: «Con l’Unità le varie biblioteche esistenti furono assorbite nell’amministrazione statale e oggi la si­tuazione è rimasta quella ottocentesca». Bisogna distinguere due grandi gruppi: le biblioteche pubbliche dello Stato e le biblioteche gestite dagli enti locali, che sono diverse migliaia e la cui consisten­za varia, dalla Sormani di Milano alle mi­nuscole realtà rionali, in netta crescita. Le statali, che fanno riferimento al mini­stero dei Beni culturali, sono 36, tra cui istituti di grandissimo pregio (dalla Brai­dense alla Marciana, all’Angelica): «No­ve — ricorda Traniello — portano anco­ra sulla carta la definizione di nazionali, perché svolgevano funzione nazionale nei rispettivi stati preunitari e diverse so­no le biblioteche universitarie, che si tro­vano negli antichi atenei, da Pavia a Pa­dova a Pisa».
Sono due, invece, le Nazionali a tutti gli effetti, ovvero le Nazionali centrali, quella di Firenze, che nacque nel 1861, e quella di Roma, fondata nel 1875. Che co­sa significa «a tutti gli effetti»? Significa che hanno compiti che le altre non han­no: conservare l’intero patrimonio bi­bliografico italiano (i libri e i periodici, oltre al ricchissimo tesoro dei fondi anti­chi), acquisire e catalogare le nuove pub­blicazioni (un flusso di 50-60 mila novi­tà librarie e circa 300 mila numeri di te­state all’anno), informare il pubblico at­traverso bollettini completi. Per le nuo­ve acquisizioni vige in Italia il diritto di deposito legale, per cui l’editore è tenu­to a inviare alle due Centrali copia delle sue produzioni. Insomma, le Biblioteche nazionali rappresentano, come ovunque nel mondo, la cultura del Paese, la custo­discono e la tramandano alle generazio­ni future. «Il numero abnorme di biblio­teche statali — precisa Traniello — è un gravame notevole sulle spalle dell’ammi­nistrazione, specie per il personale, che assorbe la gran parte degli stanziamen­ti ».
Nasce da qui il recente casus belli. Se da una parte le entrate per la gestione so­no state decimate, è anche vero che da un decennio circa gli impiegati dei due istituti sono progressivamente diminui­ti (quasi dimezzati), e i direttori faticano a mantenere gli stessi orari di servizio al pubblico. Così, dopo Roma, anche Firen­ze ha deciso che da luglio chiuderà la di­stribuzione pomeridiana, a differenza di quel che accade a Parigi, dove il servizio funziona fino alle otto di sera, domenica compresa. Due giganti moribondi e ab­bandonati. L’ultima preoccupazione dei politici, in questo momento. Anche se le due Nazionali ospitano quotidianamen­te studenti, ricercatori, studiosi: sui 700 mila in totale.
Forse sarebbe una passo avanti se l’anomalia italiana della doppia Naziona­le fosse rivista: in fondo negli altri Paesi ne basta una. Ida Antonia Fontana dirige la sede di Firenze: «È difficile razionaliz­zare un sistema così stratificato. Anche in Germania ci sono una sede centrale a Francoforte, una distaccata a Lipsia e una sezione audiovisiva a Berlino. Cadu­to il Muro, i vari Stati dell’Est misero a disposizione enormi finanziamenti per costruire bellissime biblioteche naziona­li: in Croazia, in Estonia… Erano la dimo­strazione fisica dell’indipendenza». E da noi? «Si potrebbe dire che Roma, dove confluirono i fondi dei conventi e dei monasteri soppressi, è la biblioteca del­la cultura religiosa, mentre Firenze è la cultura civile. Come si fa a riunirle?».
La direttrice Fontana risale piuttosto a una «scellerata» legge del ’79 per met­tere a fuoco i problemi attuali: «Si riem­pirono di organici i cosiddetti giacimen­ti culturali, facendo pervenire giovani in esubero, e da allora non sono più state fatte assunzioni». Il risultato è che il per­sonale è invecchiato, e negli ultimi tredi­ci anni sono andati via 150 impiegati senza essere sostituiti: «La loro esperien­za e i loro saperi sono andati perduti e non sono stati trasmessi a nessuno, gli ultimi lavoratori hanno sui sessant’an­ni… Così si è creata una cesura incolma­bile nel passaggio di competenze e si so­no prodotti problemi quotidiani urgenti per mancanza di persone che possano fa­re anche i lavori pesanti richiesti da una struttura come la nostra, nei cui magaz­zini arrivano tra i 70 e i cento pacchi al giorno». Il risultato è un arretrato preoc­cupante nella catalogazione: 150 mila vo­lumi e la metà delle 15 mila testate in ar­rivo continuo.
C’è poi il capitolo informatico: le sche­de digitali da compilare, un sistema SBN che offre informazioni online su un cata­logo unico nazionale, il «Tesaurus» da implementare ogni sei mesi, la consape­volezza che le schede elettroniche sono più deperibili della carta. Resta il sospet­to che si possa verificare uno spreco di energie se Roma e Firenze catalogano gli stessi volumi: «Già adesso le due biblio­teche interagiscono — osserva Fontana — e presto andranno ad agire come po­lo unico, in modo che la catalogazione nostra serva a Roma e viceversa. In futu­ro Roma dovrebbe lavorare soprattutto sulla fruizione e noi sulla catalogazio­ne ». Anche Traniello ritiene inutile un’eventuale riduzione a una sola Nazio­nale ma dice: «Potrebbero trasformarsi in una sola struttura pur mantenendo le due sedi: la cosa più importante è che le altre biblioteche vengano trasferite agli enti locali e le universitarie alle rispetti­ve università, in modo da sgravare il mi­nistero. È la formula adottata con succes­so in Spagna, dove la gestione di trenta biblioteche è passata alle comunità auto­nome ».
Sulla enorme sproporzione finanzia­ria rispetto agli altri paesi insiste Osval­do Avallone, da sei anni direttore della Biblioteca nazionale di Roma. Avallone lamenta la riduzione del personale da 400 a 280 unità: «Andando avanti così fra dieci anni non ci sarà più nessuno e la trasmissione di saperi si perderà del tutto». Se dovesse parlare con il mini­stro competente? «Chiederei il ripristino delle risorse che c’erano nel 2001, in mo­do da recuperare la piena funzionalità della Biblioteca. Come funzionario pos­so solo dire che a differenza dell’Alitalia noi rappresentiamo la vera identità na­zionale, la memoria storica, le radici, il presente e il futuro». Si ricade sulle col­pe della politica. Con un’avvertenza: «La tradizione di insensibilità per le bibliote­che è una costante di tutti i governi, sen­za eccezioni».

Corriere della Sera 7.6.09
La filologa Maria Luisa Meneghetti
«All’estero più rispetto del pubblico La British Library, a misura d’uomo»


Per uno studioso la Biblioteca Nazionale è una seconda casa. Per un filologo, poi... Maria Luisa Me­neghetti, che insegna appunto Filologia romanza all’Università di Milano e che è stata di recente visi­ting professor alla Sorbona, lo sa bene. Ha frequen­tato le biblioteche di mezzo mondo abbastanza per fare un paragone affidabile con quelle italiane. Pri­mo punto, la questione degli orari d’apertura, fino a tarda sera all’estero (spesso compresi sabato e do­menica), fino al tardo pomeriggio in Italia. Secon­do, il numero di posti a disposizione: «Da noi, biso­gna cercare di arrivare in anticipo al mattino per assicurarsi un tavolo, a Parigi lo puoi persino pre­notare il giorno prima». Terzo punto, le attese e la quantità di libri di libera consultazione. La nuova Bibliothèque Nationale de France, intitolata a Mit­terrand, ha numerosi corridoi 250 metri per 30 con scaffalature in cui i libri sono raggiungibili dai let­tori senza bisogno di compilare schede e dunque senza attese snervanti. «È l’idea di servizio che manca in Italia. Un esempio? La Nazionale di Pari­gi, che nella vecchia sede sta facendo dei lavori di rinnovamento, ogni settimana manda agli studiosi un bollettino per informarli sui codici antichi che non sono immediatamente disponibili».
Ma a questo proposito non siamo solo noi ad avere evidenti magagne. La vicinanza con l’Italia de­ve aver contagiato anche la Santa Sede, se è vero che la Biblioteca Vaticana, che per un filologo ro­manzo è anche più che una seconda casa, è chiusa dal luglio 2007 per lavori di ristrutturazione e chis­sà quando riaprirà. «Come dicevo, la vecchia sede della Nazionale di Parigi, in rue Richelieu — ricor­da Maria Luisa Meneghetti — sta facendo lavori si­mili, ma senza chiudere un solo giorno». Per non parlare delle biblioteche inglesi e di quelle america­ne: «La nuova British Library è una struttura anche fisicamente molto gradevole, concepita a dimensio­ne umana. Negli Stati Uniti persino a Urbana, nell’Il­linois, c’è una biblioteca straordinaria, moderna, aggiornata, ricchissima, con una cura, un’attenzio­ne, un rispetto del pubblico che noi possiamo solo sognarci».

Corriere della Sera 7.6.09
La curatrice Antonella Agnoli
«Templi pensati solo per studio e ricerca. Meglio aprirli alla voglia di incontrarsi»


«Le piazze del sapere» sono le biblioteche pub­bliche. Ed è anche il titolo di un libro di Antonella Agnoli, appena uscito per Laterza. L’autrice ha pro­gettato e avviato la biblioteca San Giovanni di Pesa­ro, di cui è stata direttore scientifico fino al marzo 2008. Un esempio all’avanguardia. E da più di un anno collabora al restyling dei cosiddetti «Idea Sto­re » di Londra (nuove strutture per giovani tra bi­blioteca e svago) e a numerosi altri progetti in Ita­lia. Si parte da un concetto molto semplice: la bi­blioteca pubblica, a lungo ignorata dagli ammini­­stratori pur offrendo i suoi servizi a tante medie, piccole e minuscole realtà comunali e rionali, «può diventare un luogo aperto a gruppi e associazioni, un centro di riflessione e condivisione dei saperi» per sottrarre lo spazio urbano alle sirene del consu­mo e del commercio. Insomma, la biblioteca intesa come crocevia sociale oltre che culturale, «luogo di coesione». Il fruitore vi troverà non il manoscritto antico, come nelle biblioteche nazionali, ma «Il Co­dice da Vinci» e l’ultima novità di narrativa.
«È un’idea che non piace a tutti, — dice Agnoli — perché in Italia pesa ancora il concetto di biblio­teca come luogo di conservazione pensato esclusi­vamente per lo studio, la lettura, le ricerche. Alcuni bibliotecari sostengono persino che Internet non dovrebbe neanche esserci in biblioteca, mentre se­condo me il computer può attirare non lettori e cre­are nuove forme di accesso e di relazione». Intanto però, in Italia, nonostante i soliti apocalittici, non mancano le esperienze interessanti, specie nel Cen­tro e nel Nord: oltre a Pesaro, la biblioteca Salabor­sa di Bologna, la Civica di Vimercate, la Panizzi di Reggio Emilia, quella nuovissima di Paderno Du­gnano (Milano), quelle di Cologno Monzese, di Trento, di Modena eccetera. Gli esempi migliori vengono dal Nord Europa. Antonella Agnoli ricor­da i casi di Helsinki, Rotterdam, Amsterdam ma po­trebbe continuare. Strutture architettoniche nuove e confortevoli, dove quel che conta è «la panchina o la poltrona giusta» per assecondare gli stati d’ani­mo e la voglia di incontrarsi. E non certo solo negli orari d’ufficio e nei giorni feriali.

Corriere della Sera 7.6.09
Alain Touraine «Gli americani non hanno avuto conflitti religiosi»
«Gli Usa e la Francia laici in modo diverso»


PARIGI — Stati Uniti e Francia han­no fatto la storia della democrazia e dei diritti dell’uomo. Ma in fatto di li­bertà e pratica religiosa le concezioni sono diverse, come emerso dagli inter­venti di Barack Obama e Nicolas Sarkozy. Obama: «Chi vuole portare il velo può farlo». Sarkozy: «I funzionari pubblici non devono avere segni visi­bili di appartenenza religiosa».
In pratica, il divieto francese riguar­da soltanto lo spazio pubblico, ma le implicazioni di ordine sociale e politi­co sono più ampie. «Le differenze so­no fondamentali e per certi aspetti pa­radossali », spiega Alain Touraine, pro­fessore di sociologia a Parigi, ex mem­bro della commissione Stasi, il gruppo di saggi che contribuì alla legge sulla laicità francese, un testo che proibisce l’ostentazione di simboli religiosi in luoghi pubblici e garantisce la «neutra­lità » dello Stato repubblicano.
In che senso Usa e Francia sono di­versi su questo terreno?
«Le differenze nascono dalla Storia dei due Paesi. La dichiarazione d’indi­pendenza degli Stati Uniti gettò le basi per un ordinamento laico della società americana e per una rigorosa separa­zione delle autorità civili da quelle reli­giose. In sintesi, i legami sociali e per­sonali sono prevalenti, nel rispetto di tutte le origini etniche e culturali. Que­sta separazione si è affermata più tardi in Francia, è stata rafforzata dalla Rivo­luzione, è diventata la strada per eman­cipare la formazione delle classi diri­genti dall’influenza della Chiesa. Co­me si ricorderà gli ordini vennero abo­liti e molti religiosi vennero espulsi. Per il posto della religione nella socie­tà si creò una situazione non molto di­versa da quella prodottasi in seguito nei regimi comunisti. La legge del 1905 fu un compromesso che mise fi­ne a un clima di guerra civile che dura­va da 150 anni. Quella più recente, qua­si un secolo dopo, è stata dettata dalla necessità di ribadire i fondamenti del­lo Stato repubblicano da una deriva 'comunitaristica' (cioè di appartenen­za alle varie comunità chiuse), accen­tuata dalla situazione complicata delle banlieue. Occorreva riaffermare la neu­tralità della sfera pubblica. Anche in di­fesa delle donne, spesso obbligate a se­guire le tradizioni religiose del gruppo di appartenenza. Non va dimenticato che la Francia è stata contraria anche all’introduzione del concetto di radici cristiane nella costituzione europea».
Negli Usa invece...
«È il paradosso della storia. I legami fra politica ed etica sono divenuti sem­pre più importanti e rafforzano gli ide­ali della società americana. Sul dollaro c’è scritto 'in God we trust'. Il presi­dente giura sulla Bibbia, Bush andò in guerra pensando che Dio fosse dalla parte degli Stati Uniti. E Obama oggi dice cose che un presidente francese non potrebbe mai dire. Tuttavia, il le­game fra politica e religione è di natu­ra sociologica. La dichiarazione di Oba­ma riflette una storia che non è fatta di conflitti religiosi. Ciò che unisce gli americani è l’adesione ai diritti sanciti dalla Costituzione e l’integrazione nel mercato del lavoro. Tutto il resto — re­ligione, origine etnica, lingua, cultura, nazionalità, tradizioni — viene dopo. Per questo si affermano sia il diritto in­dividuale, sia il diritto delle comuni­tà ».
Differenze fondamentali, dunque.
«Fino a un certo punto. La Francia, l’Europa in generale, gli Stati Uniti so­no società occidentalizzate e sempre più laiche. In Europa il tema della sepa­razione dello Stato dalla Chiesa affon­da nei secoli. D’altra parte, per effetto delle immigrazioni, la questione delle tradizioni religiose ritorna d’attualità ed è di difficile soluzione. C’è poi un paradosso francese: affermiamo la lai­cità, ma il comunitarismo si rafforza per altre vie, economiche e sociali. Nel­le periferie, i gruppi etnici tendono ad affermare la propria identità religiosa e culturale».

Corriere della Sera 7.6.09
I suoi scritti postumi su Lévinas
Benny Lévy, l’anti-nichilista
di Bernard-Henry Lévy


Un Socrate ebreo che mette a nudo la propria parola

Come parlare di Dio do­po Nietzsche? Come parlarne, due secoli dopo la Critica kantia­na, filosoficamente? Logos o Talmud? Linguaggio greco o ebraico? E se la pratica della fi­losofia fosse, prima di tutto, un’arte del palinsesto? Cosa pensare, in tal caso, della scrit­tura sepolta che i filosofi degni di questo nome instancabil­mente correggono? Cos’è un de­bito? Perché la gratitudine, nel­l’ordine del pensiero, vale più della fedeltà? Cosa deve Lévi­nas a Sartre? E Sartre a Lévinas? Come mai toccò a un certo Pier­re Victor, che ancora non era ri­diventato Benny Lévy, farsi agente di collegamento fra i due?
Cos’è un maestro? Cosa ispi­ra di più, in un pensiero, il con­catenamento delle sue ragioni o il suo soffio? Se la risposta è, come sembra, il soffio, come non concludere che le grandi dottrine sono sempre letteral­mente ansimanti? Che la lettu­ra è, anche, respirazione? Che una buona lettura è dunque o una questione di soffio o, al contrario, di asfissia? Che si ha torto, nella storia delle opere, di tenere a mente soltanto ciò che è compiuto, i testi riusciti, le piste seguite fino in fondo e che sfociano in concetti ben for­mati? Infatti, sono almeno al­trettanto interessanti, ricchi di senso e di posterità, gli abboz­zi, gli appunti abbandonati, gli umili tremolii dei testi, le stroz­zature, gli scarti che il pensiero allontana da sé per avanzare.
Che ne è del volto: il visibile dei tratti o una traccia che sva­nisce? Cosa voleva dire, Lévi­nas, quando confidava a Derri­da: me ne infischio dell’etica, m’interessa soltanto la santità? E quando confidava a uno dei suoi discepoli: tutta la filosofia del mondo può riassumersi nel­la sola e unica proposizione del­la Repubblica, quella in cui Pla­tone stabilisce che il Bene è al di là dell’Essere? Sono queste, fra molte altre, alcune delle do­mande che attraversano Lévi­nas: Dieu et la philosophie (Ver­dier), un libro postumo di Ben­ny Lévy che — come altri testi che seguiranno e che la vedova Léo Lévy sta sistemando con una precisione nella pietà che suscita ammirazione — è nato dal seminario che tenne a Gerusalemme negli ultimi anni della sua troppo breve vita.
La stampa quasi non ne parla, ed è un peccato. Poiché le 470 pagine del libro non sono soltanto la migliore introduzio­ne al luminoso pensiero di co­lui — Lévinas — che fu il no­stro maestro comune, ma an­che un’opera di filosofia viven­te firmata Benny Lévy, un no­me di cui ancora non si è misu­rato il peso specifico che ha avuto nel secolo. Parlo natural­mente del XX secolo. Il secolo di ferro e di sangue, l’età delle tenebre che ha visto spegnersi, di volta in volta e insieme, i lu­mi della Ragione, la fede nella Filosofia e la fiducia in una Sto­ria che dovrebbe dare senso al­le nostre vite.
Quella di Benny Lévy è un’opera rara, essenzialmente orale, dove un Socrate ebreo mette a nudo la propria vivida parola strofinandola con quella della compagnia di discepoli che lo scortarono nella sua ulti­ma avventura. E dove nell’ardo­re di questa interlocuzione, lun­go le ventitré sedute di una pu­rificazione dell’intelligenza e dello spirito, nell’ardore di una scalata verso l’essenziale e ver­so l’Unico, il cui solo veicolo era l’«accanimento nelle paro­le », affila, arrota, martella la la­ma delle proprie risposte a quello che non chiamava nichi­lismo, ma gli assomigliava sin­golarmente.
Superare il nichilismo? Scon­giurarne l’impasse? Liberarse­ne? Tentare di comprendere quali siano i mezzi (teorici, pra­tici) di cui disponiamo quando decidiamo di non rassegnarci ai pensieri deboli, pietosamen­te moralizzanti, minimi, che pretendono di portare un rime­dio alla devastazione? I miei let­tori cominciano a saperlo: ai miei occhi, questo è più che mai l’unico compito che sia vali­do per il pensiero. Ebbene, og­gi li informo che avranno diffi­coltà a trovare, nel mezzo di questo cammino, nella foresta oscura che è l’ignoranza con­temporanea e dove, come dice il Poeta, la retta via sembra per­duta, miglior guida e miglior conforto dei libri occultati di Benny Lévy.
(Traduzione di Daniela Maggioni)

il Riformista 7.6.09
La Pietà sfregiata
L'arrivo di Satana in un presagio
Sacri indizi. Fu Paolo VI a dire che il fumo del Demonio era entrato nelle fessure del tempio di Dio. Un segno lo insospettì. Altri fatti lo convinsero. Questo e molto altro in una biografia del «Papa amletico» in uscita per Mondadori.
di Paolo Rodari


29 giugno 1972. Omelia nella festa dei santi Pietro e Paolo: «Ho la sensazione che da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio. C'è il dubbio, l'incertezza, la problematica, l'inquietudine, l'insoddisfazione, il confronto. Non ci si fida della Chiesa… Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza… Crediamo in qualche cosa di preternaturale (il Diavolo) venuto nel mondo proprio a turbare, per soffocare, i frutti del Concilio Ecumenico e per impedire che la Chiesa prorompesse nell'inno di gioia di aver riavuto in pienezza la coscienza di sé».
15 novembre 1972. Udienza generale: «Uno dei bisogni maggiori della Chiesa è la difesa da quel male che chiamiamo Demonio. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa… Esce dal quadro dell'insegnamento biblico ed ecclesiastico chi si rifiuta di riconoscerla esistente… È il nemico numero uno, è il tentatore per eccellenza. Sappiamo che questo essere oscuro e conturbante esiste davvero e con proditoria astuzia agisce ancora: è il nemico occulto che semina errori e sventure nella storia umana». 3 febbraio 1977. Udienza generale: «Non è meraviglia se la Scrittura acerbamente ci ammonisce che "tutto il mondo giace sotto il potere del Maligno"».
Siamo agli sgoccioli del pontificato di Paolo VI. Papa Giovanni Battista Montini ripete, quasi ossessivamente, un solo concetto: la Chiesa è sotto l'attacco di Satana, il tentatore, un essere oscuro realmente esistente. Parole, quelle di Montini, ricordate in uno degli ultimi capitoli d'una biografia in uscita per Mondadori (Le Scie) e firmata dal vaticanista del Giornale Andrea Tornielli: Paolo VI. L'audacia di un papa (pp.728, euro 28). Una biografia basata su documenti inediti scovati in archivi ancora non esplorati. Una biografia che in uno dei suoi punti più avvincenti, proprio di Satana tratta. O meglio, del perché il successore del popolarissimo Giovanni XXIII e insieme predecessore del grande Giovanni Paolo II, Paolo VI appunto - «Paolo mesto», «Papa amletico», come lo ribattezzarono - si trovò a parlare più volte del Diavolo, avvertendone la presenza nel marasma post conciliare.
Perché questo continuo riferirsi a Satana? Tutto iniziò il 21 maggio 1972. Un episodio grave: un geologo australiano di origini ungheresi, instabile di mente, Laszlo Toth, dopo aver eluso la sorveglianza si arrampica sulla Pietà di Michelangelo e la sfigura con quindici colpi. La Pietà subisce danni seri ma non irreparabili. Montini, tuttavia, è sconvolto. Percepisce l'attentato come un segno, un presagio. Fu da quel mese di maggio che cominciò a parlare della presenza di Satana nella Chiesa.
Ne parlò anche in colloqui privati. Utili per capire come, al di là dell'episodio della Pietà, quando parlava del demonio Montini pensasse a fatti precisi, a circostanze concrete che la sua Chiesa stava attraversando nel difficilissimo periodo dell'immediato post Concilio.
Anzitutto la crisi dei preti: in molti abbandonavano l'abito: «Satana agisce - disse al vescovo Bernardo Citterio -. Non è possibile arrivare a tanta malvagità senza l'influsso di una forza prenaturale che insidia l'uomo e lo rovina».
Quindi il problema degli abusi liturgici: «Parlando di Satana - rivelò il cardinale Virgilio Noè - Montini pensava a tutti quei preti che della santa messa facevano paglia in nome della creatività»: persone «possedute da vanagloria e dalla superbia del Maligno».
Fu alla fine del 1975 che Paolo VI prese una decisione clamorosa. Rimosse - senza promuoverlo - uno dei protagonisti della riforma liturgica del post Concilio: l'arcivescovo Annibale Bugnini, spostato dalla curia romana direttamente in Iran, come pro nunzio. Allontanato senza preavviso. Bugnini si convinse che venne spostato a motivo di una vera e propria congiura imbastita su documenti che riportavano una sua presunta appartenenza massonica. Era un momento particolare per la curia romana: lotte sotterranee, combattute a suon di dossier, si sprecavano. Ma, a conti fatti, Bugnini non comprese il vero motivo dell'allontanamento: non tanto il contenuto del dossier, quanto, come disse l'allora segretario di Stato Jean-Marie Villot, il fatto «che nella riforma liturgica alcune cose vennero nascoste al Papa».
Erano anni difficili. Il Satana di Montini sembrava davvero presente un po' ovunque: preti in aperto contrasto con la Chiesa e il Papa. Una riforma liturgica che lo stesso Paolo VI non riuscì a gestire come probabilmente avrebbe voluto. Il referendum abrogativo della legge sul divorzio che lacerò il mondo cattolico: Montini si accorse d'incanto della massiccia secolarizzazione in atto. La rottura con l'arcivescovo tradizionalista Marcel Lefebvre. La sospensione a divinis dell'abate di San Paolo fuori le Mura, Giovanni Franzoni. Le accuse al Papa d'aver avuto una relazione con l'attore teatrale Paolo Carlini mosse dallo scrittore omosessuale francese Roger Peyrefitte. E poi le voci intorno alle possibili dimissioni proprio del Pontefice. Lo stesso Paolo VI, nel 1976, «meditò seriamente di dimettersi», scrive Tornielli. Non lo fece. E chissà se se ne penti quando, poco dopo, nel 1978, a pochi mesi dalla morte, dovette attraversare uno dei casi più devastanti nella storia della Repubblica italiana: il rapimento e la morte di Aldo Moro: «Tra i brigatisti coinvolti nel rapimento - spiega Tornielli - c'era il figlio di un dipendente del Vaticano dal Papa ben conosciuto, del quale aveva celebrato il matrimonio».
Come se non bastasse, un altro pesante macigno sul cuore. In Italia si sta per arrivare all'approvazione della legge sull'aborto. Montini è particolarmente colpito dalle voci di dissenso sull'argomento che si sollevano all'interno della Chiesa: articoli in favore di un ammorbidimento della dottrina cattolica antiabortista vengono pubblicati dalla rivista dei gesuiti francesi Études, mentre in Italia è il gruppo di padre Ernesto Balducci ad affermare che non si può imporre alla donna di generare contro la sua volontà.
Dopo l'introduzione del divorzio in Italia, una scossa che aveva dimostrato come il paese fosse cambiato, la messa in discussione del valore inviolabile della vita nascente amareggia profondamente il Pontefice, le cui condizioni di salute si vanno visibilmente deteriorando. Per Montini è l'inizio della fine. Apparentemente sembra la vittoria del Demonio, di quel Demonio il cui fumo era già precedentemente entrato nel tempio di Dio, attraverso una qualche fessura.

l’Unità 7.6.09
Fare Mondi
Mummie e visioni a Venezia, ecco una Biennale bifronte
di Renato Barilli


Confesso che ero partito col proposito di elevare l’ennesima denuncia contro la supremazia oggi accordata ai cosiddetti ««curators», a detrimento degli storici e critici dell’arte, nel condurre le grandi rassegne internazionali: figure preoccupate più che altro di rispettare un albo di Gotha di presenze già acquisite, e assai poco di prendere per mano i visitatori nel tentativo di fargli comprendere che cosa sta succedendo nell’arte. E Daniel Birnbaum, il direttore della 53ma Biennale di Venezia, da questo punto di vista è un super-curatore, svedese di origine ma con solida entratura nella New York della rivista principe, Art forum, che a sua volta è alla testa di una sorta di aesthetical correctness da difendere coi denti.
Criptico o ovvio il titolo che Birnbaum ha dato globalmente alla sua Biennale, quel «fare mondi», che appunto è ovvio se visto dalla parte degli artisti, cui spetta per diritto di proporre ciascuno un proprio mondo, mentre l’organizzatore delle rassegne dovrebbe andare a scoprire i mondi altrui, e soprattutto illustrarli a chi sta dall’altra parte. Dei due contenitori classici che spettano da tempo al direttore delle Biennali, uno, il Padiglione centrale dei Giardini, risponde in pieno a questa qualifica, sotto la regia di Birnbaum si presenta davvero come un’arca di valori stabiliti, non tutti esaltanti.
A cominciare da John Baldessari, il quasi ottantenne artista statunitense a cui è stato dato il Leon d’oro alla carriera, ma è figura di serie B, ben altri sarebbero i campioni statunitensi da riconoscere, e infatti il premiato se l’è cavata trasformando la facciata del Padiglione in una specie di cartolina turistica di specie Pop, senza l’aiuto di quelle scritte concettuali che in genere rendono più vivace il suo lavoro.
Invece ben dato l’alto Leon d’oro alla carriera, a Yoko Ono, inesausta sperimentatrice che si è lasciata sempre trasportare dal movimento detto per antonomasia Fluxus. Poi vengono tanti altri cadaveri nell’armadio, magari anche giusti, ma della cui evocazione non si avvertiva un bisogno particolare: Oyvind Fahlström, magnifico antagonista europeo ai fastigi della Pop statunitense, il nostro Gino De Domenicis, già peraltro ricordato in tante altre Biennali, e qui fatto oggetto di un omaggio abborracciato, tanto da indurre la proprietaria dell’opera, Lia Rumma, a chiederne il ritiro. E non sapeva, Birnbaum che il gruppo giapponese Gutai aveva avuto di recente a Milano una giusta ripresentazione? E c’era bisogno di rinnovare le glorie un po’ polverose di Palermo, o di Matta-Clark, o del duo Gilbert & George, o di Wolfgang Tillmans?
Fa poi tenerezza il ricordo rivolto a Cadere, morto precocemente, che era stato quasi una mascotte, un piccolo evento segnaletico, grazie alle sue mazze multicolori con cui scorazzava nelle varie mostre ufficiali. Qui ora le incontriamo quasi in ogni sala, quasi a costituire una guida ottica, una sigla di riconoscimento.
Insomma, citazioni, omaggi d’obbligo, senza alcun tentativo di andare a vedere se da quegli esempi siano partiti filoni di ricerca ancora attuali e utili. In mezzo, ci stanno anche le novità, in qualche caso assai stimolanti, si vedano, nel vestibolo le ragnatele, o i soffioni giganteschi dell’argentino Tomas Saracino, o il bel teatro delle ombre del tedesco Hans-Peter Feldmann. Ma che ci fanno queste visioni solleticanti nel regno delle mummie, delle vecchie glorie spente e inanimate?
Però, devo ammetterlo, se ci si sposta all’Arsenale, tutto cambia, sarà merito della magia del posto, degli antri misteriosi a un tempo ma massimamente fungibili delle Corderie, il più bel luogo espositivo del mondo, certo è che qui compare lo spettacolo, aperto da quel magnifico istrione che è Michelangelo Pistoletto, i cui specchi non sono una citazione mortuaria del suo passato, in quanto li rivisita, li va a infrangere a colpi di mazza, ricavandone belle ragnatele di casualità. E al suo seguito ci sono davvero i giovani, convenuti da tutte le parti del pianeta.
In un maxivideo il messicano Héctor Zamora fa scorre nel cielo di Venezia uno sciame di dirigibili, come tanti UFO allarmanti; l’indiana Sheela Gowda intreccia un passato atavico e tribale con una speranza di futuro industriale, ovvero dei veri capelli sottratti a tante povere donne vanno a fasciare i parafanghi di automobili, pegno di uno sviluppo futuro del paese. Dal medesimo motivo delle auto il tedesco Thoma Bayrle trae suggestive carte da parato, con un testa-coda, per cui l’irreprensibile design supertecnico diviene una preziosa filigrana decorativa. La russa Anya Zhould fa uscir fuori dalle pareti dei tondini metallici distorti, inquieti, quasi a uncinare lo spazio. Le africane Moshekwa Langa e Pascale Marthine Thayou accumulano i loro mercatini, pletorici, pittoreschi, invadenti, ma tanto efficaci.
E finalmente ci sono anche ottime presenze italiane, le immagini video di Grazia Toderi, come sempre misteriche, cosmiche, o invece gli indecifrabili innesti grafici, tra l’organico e l’inorganico, di Simone Berti.

Repubblica 7.7.09
Václav Havel: "Io, rivoluzionario riluttante"
di Nicola Lombardozzi


Vent´anni fa, sulla scia del crollo del Muro e dei regimi comunisti europei, Praga conobbe la sua "Rivoluzione di velluto", senza spargimento di sangue. L´uomo che ne fu al centro, lo scrittore Václav Havel, che poi ricoprì per tre volte la carica di presidente, rievoca per noi i giorni cruciali in cui una folla disarmata scrisse la Storia
Io non aspiravo a cariche politiche Mi sono sentito come in teatro quando sei un attor giovane e si scopre che non ci sono più gli interpreti principali. E allora che fa l´attor giovane? Sale sul palcoscenico e dà il meglio di sé

PRAGA. Birra gelata alle dieci del mattino. L´ideale per ripensare al passato, tirare qualche bilancio, scacciare qualche rimpianto. Václav Havel sorseggia piano, ritorna a una mattina di novembre di vent´anni fa. Faceva freddo. La Letna, la collina sulla Moldava di fronte al vecchio ghetto ebraico, era piena come nessuno l´aveva mai vista, «nemmeno nelle adunate di partito del Primo maggio». Dicono fossero in trecentomila, «ma a noi interessava di più contare gli altri, i soldati, la polizia, quelle truppe speciali che ci avevano già ucciso un sogno ventun anni prima. Anche allora avrebbero potuto scatenare la violenza, chiudere la pratica con qualche carica, magari nel sangue. E poi spiegare tutto al mondo attraverso i giornali e la tv di regime così abili nel manipolare la verità, la storia stessa. Certo, la gente era tanta e l´entusiasmo cresceva. Mai visti tanti giovani. Studenti, apprendisti operai, forse anche militari in licenza. Disarmati però, e lo gridavamo forte: Máme holé ruce! Abbiamo le mani nude. Urlavamo contro i comunisti, contro il governo del segretario generale Gustáv Husák, che sicuramente ci stava osservando lassù dal Castello. E quelle finestre che sembravano chiuse facevano paura. Era appena crollato il Muro a Berlino, erano successe cose epocali in Polonia, in Ungheria, ma dal Castello poteva ancora partire un ordine e la nostra speranza sarebbe stata spazzata via. Insomma lo spettro del ´68 era ancora lì sopra di noi».
L´ordine non arrivò. L´entusiasmo della folla cresceva, gli agenti antisommossa rimanevano al loro posto indifferenti. Qualcuno sembrava perfino lanciare sguardi di solidarietà a quei coetanei che si sbracciavano dalla parte opposta della barricata. «Forse era solo suggestione, vedevamo le cose come volevamo che fossero. Ma fu lì che ci rendemmo conto che era fatta. Improvvisamente, senza un comando, senza un perché, il nostro slogan cambiò: Soudruzi, koncime! È finita compagni! È finita. Venne fuori spontaneo, dal cuore e non fu più mai smentito. Il traguardo era raggiunto, e questa volta non saremmo più tornati indietro».
Il resto è l´epopea della Rivoluzione di velluto, il corteo di fiaccole e cori che si sposta nella sera a piazza Venceslao - quella del sacrificio di Jan Palach - la folla che invoca Hável. Lo scrittore dissidente, scarcerato qualche giorno prima, che prende la parola tra applausi e urla di gioia. Cita Palach, Dubcek, e poi gli amici arrestati con lui e prima di lui. La gente piange di gioia, canta e balla fino all´alba per le stesse strade dove i tank di Mosca avevano cancellato nel sangue la Primavera del ´68. E la voce della folla comincia a lanciare un altro messaggio ma questa volta senza rabbia, con toni gioiosi da festa allo stadio: Hável na Hrad! Havel al Castello. È di fatto l´acclamazione popolare alla presidenza della Repubblica, che arriverà ufficialmente solo qualche settimana dopo.
Ma l´autocelebrazione non fa parte del personaggio. Hável se ne accorge, interrompe il racconto, riacquista l´aria da intellettuale timido e un po´ svagato che è il suo marchio di fabbrica nelle apparizioni pubbliche. «Che dovevo fare? Io non aspiravo, non ho mai aspirato, a cariche politiche, non ho fondato partiti né tantomeno creato ideologie. Mi sono sentito come in teatro quando sei un attor giovane e si scopre che non ci sono più gli interpreti principali. In quel momento cadeva un blocco di potere, finiva un´epoca. Sulla scena servivano politici democratici. E dove li trovavi i politici democratici nella Cecoslovacchia del 1989? Insomma era la classica situazione storica in cui i grandi cambiamenti politici possono essere fatti solo dai non politici. E allora che fa l´attor giovane? Sale sul palcoscenico e dà il meglio di sé».
Su quella notte di gloria e di lacrime di commozione i retroscena si sprecano. Husák, si disse, aveva chiesto il parere di Gorbaciov prima di lanciare l´ordine tanto temuto di sedare la rivolta. Il Cremlino aveva risposto in maniera molto diversa che nel ´68, invitando i compagni cèchi a non mettersi contro il popolo e a trattare un´uscita di scena più indolore possibile. Hável riconosce il ruolo importante di Gorbaciov, ma non gli riesce proprio di considerarlo l´artefice del crollo sovietico. «Non voglio sminuire il suo ruolo. La glasnost e la perestrojka hanno avviato un processo che ha distrutto l´impero sovietico, questo è certo. Ma non credo che le mire di Gorbaciov si spingessero a tanto. Mi è sembrato come un cuoco che vuol fare uscire un po´ di vapore da una pentola a pressione. Ha sollevato di un tantino il coperchio, ma questo gli è sfuggito di mano ed è volato via. Insomma, voleva solo dare un po´ di respiro ai popoli oppressi, ma questi sono andati avanti da soli e molto al di là delle sue previsioni. Se non lo avesse fatto lui, prima o poi lo avrebbe fatto qualcun altro. In ogni caso è stato bravo a non cedere mai alla tentazione di usare le maniere forti. Ha evitato spargimenti di sangue e di questo dobbiamo essergli grati».
Adesso Václav Havel, dopo tre mandati da presidente (prima della Cecoslovacchia, poi della Repubblica Ceca dopo la scissione consensuale con Bratislava), non è del tutto soddisfatto di come sono andate le cose. Lui nega, minimizza com´è nel suo stile, ma c´è uno spot che si vede molto in questi giorni per le tv e per i cinema cechi che la dice lunga. Pubblicizza le manifestazioni per il ventennale della Rivoluzione e lo interpreta lui stesso vestito da medico, anzi da ostetrico. Porta in una nursery una nidiata di neonati dormienti. Li sveglia con un battito delle mani e dice: «Siete nati vent´anni fa. Adesso datevi da fare, tocca a voi».
Forse i giovani del 2009 non le sembrano all´altezza di quelli dell´89? «No, semmai è un invito a prendere l´iniziativa, anche politica. Non credo che tra le generazioni ci siano differenze genetiche. Ognuna ha più o meno la stessa percentuale di intelligenza, di idiozia, di cultura, di senso di responsabilità. Ma questi giovani, che non hanno vissuto il nostro passato, sono più leggeri di noi, non devono sopportare quel peso che ci imponeva il regime comunista, quella totale mancanza di fiducia in noi stessi che ci paralizzava, quell´assurdo ma profondo complesso di inferiorità nei confronti dell´Occidente».
E a questi giovani lei vorrebbe chiedere di più? «Li vorrei più impegnati. Proprio l´altro giorno ho tenuto una conferenza davanti a milleduecento studenti universitari. Tante domande, tanto interesse, ma quando ho chiesto: chi di voi vuole fare politica attiva?, hanno alzato la mano appena in tre. D´altra parte è un momento così in tutto il mondo. I nostri giovani, dei paesi ex comunisti intendo, danno per scontate quelle che sono state conquiste epocali. Siamo nella Ue, nella Nato, abbiamo una democrazia parlamentare, libera stampa e libera opinione, alla frontiera non ci viene nemmeno chiesto di rallentare… A loro sembra tutto ovvio, ma non è stato così facile. Però non sono pessimista, sento che i valori morali ci sono, che l´impegno prima o poi verrà, che la nuova generazione riuscirà a soppiantare la nostra. Io mi ripeto sempre che solo le nuove leve possono fare cambiamenti importanti, nel bene o nel male. E mi ripasso mentalmente questa tabella: 1918, Cecoslovacchia indipendente; 1938, Patto di Monaco e sottomissione al nazismo; 1948, golpe comunista; 1968, la nostra Primavera finita nel sangue; 1989, la Rivoluzione di velluto. Insomma la cadenza è sempre quella di una generazione».
E che cambiamenti si aspetta? «Vorrei meno miopia, meno tecnocraticismo. I politici della vecchia guardia pensano solo al prossimo turno elettorale. Occorre tornare a guardare più lontano, a scadenze di almeno cinquant´anni e questo solo i giovani possono farlo». E intanto, mentre si pensa al futuro, il passato, ogni tanto, ritorna: gli ex comunisti vincono spesso le elezioni nei Paesi dell´ex Patto di Varsavia, anche a Praga i partiti che hanno reclutato figure quasi dimenticate di comunisti di un tempo, volano nei sondaggi. Hável non sembra preoccupato, gli pare una reazione quasi inevitabile: «La libertà è faticosa. Molta gente, sotto il regime, si era abituata all´idea che lo Stato pensasse a tutto e ti seguisse dalla culla alla tomba. Orribile sì, ma dava un senso di falsa sicurezza che ad ogni difficoltà ti scopri a rimpiangere. A chi non ha voglia o coraggio di prendere iniziative i comunisti offrono una ricetta facile facile e, riconosco, molto tentatrice: di te si occuperà lo Stato, non hai bisogno di preoccuparti e nemmeno di pensare. Quando ero Presidente mi rinfacciavano i senzatetto nelle periferie. C´è povertà, mi dicevano. Ma non era vero. Lo sviluppo economico era assai migliore di prima. La verità è che i senzatetto non si erano mai visti prima per il semplice motivo che lavorare era obbligatorio. Chi si rifiutava, andava in galera. Sono stato in carcere e ne ho conosciute di persone di quel tipo».
Troppo facile Presidente, non vorrà dire che non si sono compiuti errori in questi vent´anni di libertà? «Ma certo che se ne sono fatti. Ci siamo trovati, e altri Paesi molto più di noi, davanti a turbolenze che non ci saremmo mai aspettati e che abbiamo gestito con difficoltà. E poi la storia non è finita, come aveva predetto qualcuno, con la caduta del Muro. Adesso ci sono nuovi pericoli che prima non pensavamo nemmeno esistessero: i terrorismi, il disastro climatico, le diseguaglianze sociali. Per questo io aspetto una nuova leva di politici che si prepari a ragionare in grande». Sembra l´identikit di Obama. La sua elezione ha portato molto entusiasmo e non solo in America. In fondo un presidente nero alla Casa Bianca era impensabile più o meno come vent´anni fa un dissidente carcerato insediato nel castello di Praga. Sorride, finisce la sua birra. «Sì, il paragone regge. Ma nessuno può fare miracoli. Ho incontrato da poco Obama: mi è sembrato simpatico, intelligente e soprattutto capace di ascoltare. Cosa che i politici non fanno quasi mai. Ma con affetto gli ho detto di guardarsi dall´eccessivo entusiasmo dei suoi sostenitori. Ho visto che in Europa in molti lo considerano come un nuovo Mosè… In politica, quando ci si aspetta troppo, si passa bruscamente all´avversione e addirittura all´odio se qualcosa non va per il verso giusto. Mi sono preso la soddisfazione di dare un consiglio al fenomeno del momento, ma credo che lo avesse già capito da solo».

venerdì 5 giugno 2009

Repubblica 6.6.09
Biotestamento, duemila italiani lo hanno già
L’iniziativa di due associazioni: "Compilate la dichiarazione". Ecco chi ha risposto
di Maria Novella de Luca

Consapevoli, decisi. Informati sulle possibilità e i limiti della Scienza. In quella fascia d´età in cui si guarda al dopo e ci si interroga. Con la paura di perdere lucidità, dignità, autonomia. Oltre duemila italiani, esattamente 2053, nei giorni più duri del caso Englaro, mentre il Parlamento si affannava a varare una legge oggi incagliata alla Camera, hanno deciso di scrivere il proprio testamento biologico. Grazie all´iniziativa di due associazioni, "A buon diritto" presieduta da Luigi Manconi, e "Luca Coscioni", che hanno messo a disposizione sui loro siti i moduli delle "Dichiarazioni anticipate di trattamento", in centinaia hanno indicato nel dettaglio come vorrebbero continuare a vivere, o morire invece con dignità. I risultati sono sorprendenti per la loro precisione, e per l´informazione che sottendono, come se il grande dibattito bioetico, così difficile nelle aule parlamentari, fosse invece già concreto e reale nella vita delle persone.
Eccolo dunque il ritratto di questa avanguardia che ha già compilato il proprio testamento biologico. Sono in maggioranza donne (il 55,72% contro il 44,28% di uomini) in un´età compresa tra i 50 e i 70 anni, e vivono per lo più nelle regioni del Centro-Nord. Scelgono di sapere e di sapere tutto. Spezzando così una radicata prassi per cui al malato è meglio nascondere la propria situazione, soprattutto se questa è seria. L´87% dei firmatari dei biotestamenti afferma infatti di voler «essere informato sul proprio stato di salute e sulle aspettative di vita, anche in presenza di malattie non guaribili». Ancora più netta è la scelta sull´alimentazione e l´idratazione in presenza di «malattia allo stadio terminale o stato permanente di incoscienza». Il 98,73%, cioè la totalità, respinge entrambi i trattamenti. Respinge cioè il cardine della legge sul biotestamento approvata nel marzo scorso al Senato, che ritiene invece obbligatorie l´alimentazione e l´idratazione artificiale. Un punto delicato. E infatti la paura che le proprie dichiarazioni non vengano eseguite deve essere forte se nei formulari il 93,81% sceglie comunque di nominare un fiduciario «che si impegni a garantire il rispetto delle volontà espresse nel testamento». Molto chiara anche la decisione sulla sospensione o meno delle cure. L´86% ha indicato che queste siano interrotte «se il loro risultato fosse il mantenimento in uno stato di incoscienza senza possibilità di recupero». Ciò che emerge dalla lettura di questi moduli (ma la raccolta è appena iniziata) è una distanza siderale tra le scelte dei cittadini e la legge in discussione. Una legge nata sull´onda emotiva della tragedia di Eluana Englaro, per fermare la sentenza che avrebbe permesso ai medici di staccare il sondino alla giovane donna in stato vegetativo da 17 anni. Le cose sono poi andate diversamente, Eluana è morta prima che la legge venisse approvata. Il divario però resta netto. Perché dice che gli italiani vogliono l´autodeterminazione. Sul proprio corpo, sulla propria salute e sulla propria morte.

Repubblica 6.6.09
Quando fu spenta la democrazia
risponde Corrado Augias

Caro Augias, ho letto giorni fa una lettera del professor Lucio Villari nella quale si ricordavano certi accadimenti del fascismo. Ci si può infatti chiedere perché certi sistemi politici che si ispirano a principi di libertà e democrazia si siano, nel corso del Novecento, degradati o siano stati sostituiti da sistemi autoritari con l'aiuto degli strumenti e dei poteri che la libertà e la democrazia avevano creato. Il regime fascista, giunto al potere nell'ottobre del 1922, ci ha messo quattro- cinque anni per smantellare gli istituti dello Stato liberale, le sue magistrature, le libertà dei cittadini. Le leggi che hanno instaurato il potere autoritario (e personale) del fascismo sono infatti state varate nel 1926-1927. Le censure continue e infine la soppressione dei giornali dell'opposizione o non graditi al governo avvennero tra il 1925 e il 1926. Accusati, tra l'altro, di mancanza di rispetto al capo del governo e di ostacolo alla sua attività. Idem per i partiti, le associazioni politiche, le autonomie locali e alla fine per tutte le libertà che la Costituzione di allora (lo "Statuto" del 1848) garantiva abbastanza bene. Queste decisioni furono prese con leggi e decreti approvati dalla Camera dove per alcuni anni fu resa impossibile la funzione dei partiti di opposizione, anche con l'avallo di giuristi e studiosi di diritto, di avvocati, di intellettuali e artisti di varia estrazione.
Lettera firmata

Anche le dittature hanno bisogno di tempo per assestare i loro colpi finali, prima è necessario che l'opinione pubblica venga lungamente ammorbidita e conciata, proprio come si fa con le pelli per poterle "lavorare" meglio. Quando è diventata sufficientemente duttile è più facile far aderire l'opinione comune alle forme volute, o imposte. Su Repubblica di ieri Aldo Schiavone ha scritto una cosa illuminante. Ha detto che contro la bolla di stanchezza e di indifferenza che sembra attraversare l'elettorato di centro-sinistra è necessario far ricorso non al cuore, ma alla ragione. La sinistra è famosa per aver sempre avuto molto (troppo) cuore. Adesso sembra proprio il caso di metterlo da parte e non solo perché quel cuore spesso s'è sbagliato, ma anche perché la deriva populista del paese, martellato per anni da una schiacciante propaganda, "conciato" a dovere, ha ormai raggiunto una soglia di pericolo di cui l'indifferenza è un sintomo. Anni fa, prima di essere condannato, Cesare Previti minacciava: «Dopo le elezioni non faremo prigionieri». Frase rozza, da capomanipolo. Adesso l'avvertimento è più sottile, ma non meno minaccioso: «Dopo le elezioni sistemeremo molte cose». La ragione dice che astenersi o buttare via il voto seguendo il proprio cuore è un lusso che non possiamo permetterci. A meno di non voler essere "sistemati". O "conciati".

Repubblica 6.6.09
Plath-Hughes
Vita intima delle coppie letterarie
di Nadia Fusini

Scrivere la storia delle relazioni celebri è ormai un genere. Da Roth a Kureishi L´ultimo caso è la biografia Plath-Hughes
C´è chi ha scelto di raccontare in forma di romanzo
Ted, marito di Sylvia, per le donne fu come Barbablù

Suo marito è il titolo. Suo, di chi? Di Sylvia Plath. Cioè a dire: Ted Hughes. L´ironia politically correct di Diane Middlebrook si chiarisce nel sottotitolo, che recita: Ted Hughes e Sylvia Plath. Ritratto di un matrimonio (trad. Anna Ravano, Mondadori, pp.383, € 22). L´ambizione dell´autrice – che ha al suo attivo clamorosi successi, come la biografia della poetessa Anne Sexton - è qui di arrivare a scrivere la biografia di un matrimonio esplosivo, che a suo modo di vedere alimentò con le lingue di fiamma ustionanti la poesia di entrambi i contraenti il patto sacro.
E deve aver imparato con l´esperienza come attirare l´attenzione di un certo pubblico, che per muoversi in direzione di un libro deve subire forti scosse. D´altra parte la vita intima delle coppie celebri è oramai diventato un genere letterario. La storia madre è ovviamente quella tra Arthur Miller e Marilyn Monroe, che il commediografo ha generosamente descritto in Svolte, la mia vita (Mondadori). Ma l´elenco è lungo e comprende le memorie dei protagonisti, che non disdegnano anche la traduzione romanzata. E spesso funziona: come è capitato alla figlia di Bernard-Henry Levy, Justine, autrice di Niente di grave (Frassinelli) in cui racconta l´abbandono subito da parte di Rafhaël Enthoven rimasto sedotto da Carla Bruni. Ora andrà letta la traduzione italiana di Attachment: Isabel Fonseca, in forma letteraria, rivela i dolori del matrimonio con Martin Amis. Della gallerista Millet e della sua vita sessuale sappiamo ogni particolare, l´attrice Claire Bloom ci ha svelato Philip Roth in Leaving a Doll´s House, descrivendo le follie e le amarezze del loro matrimonio. Infine Hanif Kureishi: Nell´intimità racconta senza pudore l´ex moglie Tracey Scoffield.
Così anche in questo caso, nella coppia tragica per eccellenza, Plath-Hughes, il libro impressiona. Diane Middlebrook vuole arrivare a scoprire il segreto di una ‘vita´. E qui le ‘vite´ che ha di fronte sono due, per un breve tempo si fanno una, e poi di nuovo si separano. E´ la storia triste e normale di tanti amori, di tanti sogni che a una certa età si condividono con un uomo, con una donna... Progetti e sogni che si frantumano contro gli scogli dell´ esistenza quotidiana, svelandoci come ci eravamo sbagliati su una certa persona, o su noi stessi.
Solo che nel caso della poetica coppia, con la fine del matrimonio uno dei due si schianta. Va in pezzi. O meglio, si scaraventa non contro chi l´ha abbandonata sola con due bambini eccetera eccetera, ma si toglie di mezzo. E forse dei due poeti a togliersi di mezzo è il più ispirato. Il più indimenticabile creatore di lingua e ritmi. L´altro, il sopravvissuto, continua a vivere e a fare del male. Un´altra donna amante ripete il gesto della prima, questa volta portando con sé nell´asfissia del gas anche la figlia. E lui, suo marito continua a vivere. Come Barbablù attira nel suo castello donne di molte diverse specie. Come fa?
Questo libro a suo modo lo spiega. Ci sono molte cose che sapevamo, e ci sono altre che non sapevamo, e non siamo affatto sicuri di voler sapere; tipo che Ted emanava un forte odore di sudore, quando faceva l´amore. Perdonate la rima, anche se in realtà ci sta bene: suggerisce come sia nell´odore che nell´amore di Ted ci fosse qualcosa di tossico. Almeno a sentire Diane Middlebrook. Però quelle che non volevamo sapere e ora sappiamo finiscono per modificare il nostro rapporto di ammirazione nei confronti di suo marito. Conosciamo, ad esempio, la carta astrale di Ted (Leone ascendente Cancro). Non è un segreto che dalla carta astrale il tenebroso Ted derivasse molte informazioni sulla vita a venire e quella passata. Lui credeva a un sacco di cose; se non proprio di magia nera, era praticante di un folklore da contadino new age. Queste credenze Middlebrook riporta con fedeltà, tesa com´è a scoprire che cosa motivò questi due bravi giovani "a dedicarsi proprio alla poesia, accettando l´inevitabile lunga attesa del successo."
Sincera la domanda sgorga a p. 128. La biografa è convinta che c´erano già a quei tempi, negli anni Cinquanta, "altre attività remunerative aperte ai giovani creativi"; perché andarsi a fissare con l´idea di fare il poeta? Ora chi si fa una domanda del genere io personalmente non credo potrà mai capire che cos´è la poesia, né quel che muove la vita di un poeta. Né tantomeno chi di poesia muore, come Sylvia. Quanto a suo marito non lo so. Forse Diane Middlebrook lo capisce. Sa senz´altro descrivere come si accuccia nel successo. "E´ possibile che la posizione di Poeta Laureato abbia dato a Hughes la sicurezza necessaria per completare un´automitologia organica che giustificasse la sua vocazione di poeta-sciamano". Sì, forse. Sempre Middlebrook ci informa che Philip Larkin invece declinò l´onore. Era troppo ‘impoetico´ per quello.

Repubblica 6.6.09
Compie cent’anni "Il capitale finanziario" di Hilferding
Quando la finanza divora l’economia
di Lucio Villari

Il testo è un classico del pensiero politico L´autore scomparve nel nulla in una cella della Gestapo

Rudolf Hilferding scomparve nel nulla in un giorno del 1941 in Francia, in una prigione della Gestapo. Nel nulla, significa che non si sa se fu ucciso o se, come il suo conterraneo Walter Benjamin, si sia suicidato per sottrarsi al nazismo. Era riuscito a fuggire dalla Germania nel 1933, rifugiandosi in Svizzera. Tenuto d´occhio dalla polizia tedesca, decise nel 1938 di trasferirsi a Parigi. Dopo la sconfitta militare della Francia nel giugno l940 e la creazione del governo collaborazionista di Vichy, Hilferding capì che l´unica via di scampo era la fuga negli Stati Uniti. Recatosi a Marsiglia per imbarcarsi su una nave di linea, fu arrestato da agenti di Vichy e consegnato ai nazisti. Interrogato e torturato, è probabile che il suo fisico - aveva sessantaquattro anni - non abbia retto.
Non è rimasta testimonianza della sua fine. L´accanimento del governo nazista nei suoi confronti si spiega con il fatto che egli era uno dei pochi oppositori a non essere riuscito a far perdere le proprie tracce nel flusso imponente dell´emigrazione politica tedesca verso l´America rooseveltiana. Per quanto ormai solo e inerme, Hilferding era pur sempre un simbolo vagante di un tempo di libertà e di democrazia che gli esponenti della nuova Germania volevano far dimenticare. Nel 1909, esattamente cent´anni fa, aveva pubblicato un´opera che si può considerare un classico del pensiero economico e politico del Novecento, Il capitale finanziario. Fino al 1933 era stato una figura centrale della politica e dell´economia tedesca ed era riconosciuto come uno dei maggiori studiosi marxisti. Era stato ministro delle finanze in vari governi della repubblica di Weimar ed esponente di primo piano della parte moderata del partito socialdemocratico. Ora, mentre le armate tedesche erano vittoriose su tutti i fronti d´Europa, veniva inghiottito dal silenzio.
Nato a Vienna nel 1877, Hilferding apparteneva a quel tempo dell´Europa borghese e socialista di fine Ottocento e del primo Novecento quando gli studi sulle società contemporanee, il confronto con la modernizzazione industriale, i partiti politici che si ispiravano a un liberalismo critico e a un socialismo riformatore, parevano confluire in quel contrastato rigoglio filosofico e politico che come un fiume senza argini scorreva in Europa e in Russia lambendo gli Stati Uniti d´America.
La sua formazione e la sua adolescenza furono tedeschi e in Germania, dove si era trasferito con la famiglia, Hilferding rappresentò quell´avanguardia di sociologi e filosofi (da Rathenau alla Scuola di Francoforte) indagatori del loro tempo che fiorirono a Weimar. Come socialista rappresentò il conflitto tra chi credeva nell´evoluzione pacifica della lotta di classe e nel binomio democrazia–socialismo (era questa la Seconda Internazionale), e chi credeva nel socialismo come superamento della democrazia borghese, come comunismo, (era la Terza Internazionale di Lenin e del colpo di stato dell´ottobre l917 in Russia). Hilferding accettava lo spirito del Marx perplesso nei confronti della rivoluzione proletaria e, specie dopo il fallimento della Comune di Parigi nel l871, più incline a una via democratica e parlamentare al socialismo. Hilferding aveva l´idea di una democrazia dove il socialismo e il marxismo fossero parti essenziali del governo amministrativo e della crescita sociale di un sistema sociale capitalistico e "borghese". Questa ipotesi sarà per decenni il tormento irrisolto di gran parte della sinistra politica europea, ma, per restare nel campo dell´economia, fu assimilata da Schumpeter e in parte dallo stesso Keynes, da Joan Robinson e, in anni più vicini a noi, da Paul Sweezy e Paul Baran, dai nostri Caffè e Sylos Labini e da pochi altri. È tuttora un metodo aperto e operante, ad esempio, nelle Università americane.
Marx aveva indagato il capitalismo di metà Ottocento, occorreva ora studiarlo in un Novecento che esordiva con soggetti e oggetti nuovi. Agli inizi di un fantastico e moderno Novecento andavano snidati i segreti dell´egemonia di un capitalismo che appariva vitale e sostanzialmente inattaccabile dalle lotte operaie. Dal capitalismo dei padroni delle ferriere era germinato, grazie anche al petrolio, alla chimica e all´elettricità, il capitalismo delle società per azioni, delle banche, degli "affari" regolati e controllati dai nuovissimi e veloci strumenti del telegrafo, del telefono, della radio.
È quanto fece Hilferding in Il capitale finanziario. Era il 1909 e il capitalismo americano ed europeo scontavano una gravissima crisi finanziaria e bancaria (simile in parte a quella che stiamo vivendo) esplosa nel l907. È intorno a questa crisi (l´impianto dell´opera e la sua struttura erano già chiare nel 1905, l´anno in cui era comparsa negli Stati Uniti la critica Teoria dell´Impresa di Thorstein Veblen) che Hilferding scrisse la "continuazione" del Capitale di Marx. Nella prefazione Hilferding dettò parole sorprendenti per la loro attualità: «La caratteristica del Capitalismo "moderno" è data da quei processi di concentrazione che, da un lato, si manifestano nel "superamento della libera concorrenza", mediante la formazione di cartelli e trusts, e, dall´altro, in un rapporto sempre più stretto fra capitale bancario e capitale industriale. In forza di tale rapporto, il capitale assume (...) la forma di capitale finanziario, che rappresenta la sua più alta e più astratta forma fenomenica. Lo schema mistico che vela in genere i rapporti capitalistici raggiunge qui il massimo della impenetrabilità».
Il capitale finanziario "penetrò" in quel capitalismo, ne tolse il velo mistico e fu subito al centro di dibattiti e riflessioni che solo la prima guerra mondiale, scoppiata cinque anni dopo, interruppe. Ancora nel 1916 Lenin fece sue le tesi dell´avversario Hilferding immaginando però (e sbagliando) che quel capitale finanziario fosse la fase suprema ma ultima del capitalismo e che aprisse perciò la strada alla rivoluzione proletaria. L´opera di Hilferding non lo autorizzava a questo, anche se Il capitale finanziario si chiudeva con queste inquietanti parole: «Il capitale finanziario è la più compiuta realizzazione della dittatura dei magnati del capitale. Ma appunto perciò la dittatura dei capitalisti che dominano uno Stato entra in contrasto sempre più aspro con gli interessi capitalistici degli altri Stati. Nello scontro violento degli inconciliabili interessi, la dittatura dei magnati del capitale si rovescia, infine, nella dittatura del proletariato».

Corriere della Sera 6.6.09
Lo scrittore israeliano commenta la storica giornata del Cairo
«Altro che discorso ingenuo Ha parlato al cuore di tutti»
Amos Oz: Netanyahu dovrà ideare qualcosa di nuovo
intervista di Francesco Battistini

GERUSALEMME — Rapito. «Que­st’uomo ha superato tutte le aspettati­ve ». Epico. «Ho sentito toni storici». Ri­voluzionario. «Mi aspettavo che aggre­disse la questione palestinese, ma qui sta accelerando i tempi».

Nella sua casa di Arad, per una volta Amos Oz ha chiuso le luminose vetrate sul magnifico Negev che l’incantano prima di scrivere e, giovedì, ha aperto la piccola finestra televisiva che di soli­to è il disincanto della realtà. Il giorno dopo, se n’è fatto un’idea definitiva: «È stato un grande discorso. Uno di quelli che restano nella storia. Obama lo sapeva e infatti ha dato i toni e i con­tenuti che ci si aspettano da un presi­dente americano. Mi ha impressionato per la capacità di dosare tutti gli ele­menti. Ha dato un’impressione di gran­dezza, altro che discorso ingenuo e naif. È volato sopra le piccole dispute politiche, sopra le rivendicazioni del­l’ultima settimana. Ha allargato l’oriz­zonte. È stato un componimento mol­to ben armonizzato in cui ha lasciato spazio al cuore. Ha parlato col cuore: ai musulmani, agli ebrei, agli arabi. Con equilibrio. Dimostrando uno studio molto profondo di ciò che unisce e ciò che divide».

Se dopo il Cairo, dice un sondaggio appena sfornato, il 53% degl’israeliani ha paura dell’uomo nero venuto da Chicago — «sarà un problema per Isra­ele » —, Oz sta con l’altro 47. Lui che si cambiò il nome da Klausner in Oz, che vuole dire forza, è convinto che «un ri­sultato è possibile perché la forza, Oba­ma, ce l’ha. La volontà, anche. Sono le due cose che servono a un leader». Lo scrittore non si sente turbato dalla «gaffe» che perfino Avigdor Lieber­man rinfaccia al presidente Usa, l’aver paragonato la Shoah alla tragedia pale­stinese: «Io l’ho seguito con cura. Sta­mattina me lo sono anche riletto passo passo. Obama non ha fatto nessun pa­rallelo fra la Shoah e la Nakba palesti­nese. Lui ha ricordato all’Iran, e l’ha ri­fatto nei lager tedeschi, che l’Olocau­sto non può essere negato, perché que­sto è un delitto contro l’umanità. Ma ha detto anche a Israele che non si può negare la sofferenza dei palestinesi. Non ha paragonato due tragedie, ha pa­ragonato due negazioni. Queste accu­se nascondono altro. Che ci sono due tipi d’israeliani: chi vuole vivere in pa­ce coi vicini arabi e tornare ai confini prima del 1967, chi vuole che resti tut­to com’è».

Raccontano che Netanyahu alla fi­ne non l’abbia presa malissimo. Che s’aspettava peggio: «Non mi ha preso a mazzate da baseball», avrebbe com­mentato.

«Meno male che ci crede. Netan­yahu ora dovrà inventarsi qualcosa. Non può più tergiversare, deve dire chiaramente con chi sta. Vuole ridiscu­tere i confini del 1967 o no? Prima che all’America, deve dirlo agl’israeliani. Il problema è che non ho affatto idea di che cosa risponderà. Non ce l’ho io e, quel che è peggio, temo non ce l’abbia neanche lui. Serve una risposta in tem­pi brevi, però. Qui ormai si ragiona per settimane. Non so se ci sarà un terre­moto politico in Israele. Tutto può ac­cadere, adesso».

Piccolo retrosce­na. Dopo il discorso ufficiale, in una sala dell’università cairo­ta, Obama ha convo­cato sei giornalisti per un'intervista. C’erano un israelia­no, una palestinese, un egiziano, un sau­dita, un malese e un indonesiano. Aveva invitato anche un si­riano e un libanese sciita, ma questi due hanno rifiutato: allora l’asse del ma­le c’è ancora?

«Qualcuno confonde il dialogo con la debolezza. Sul fronte palestinese, per esempio, mi sembra sia piuttosto chia­ro che Obama abbia deciso di lasciar fuori Hamas, finché non riconosce lo Stato d’Israele. Della rappresentanza politica, ricevendolo pure a Washin­gton, ha investito Abu Mazen. Anche con l’Iran, Obama vuole evitare ogni fronte polemico. La sua strategia è evi­tare ogni accenno alla forza, almeno per adesso. In altre occasioni, l’ha già detto: volete o no un dialogo? Non mi sembra che ci sia stata una risposta ne­gativa e immediata. Ha risposto Hezbol­lah, e male. Ma Hezbollah non è l’Iran. Bisogna aspettare. Certo, non c’è da es­sere ottimisti. E se l’Iran risponderà in modo negativo, è chiaro che l’approc­cio cambierà. Ma il suo è stato un di­scorso ufficiale. Solenne. E merita una risposta ufficiale. Altrettanto solenne».

il Riformista 6.6.09
«Un amico vero»
Ma Obama d'Arabia spacca Israele
di Anna Momigliano

GERUSALEMME. Uno spartiacque con il passato. Ma se il laburista ben Meir al "Riformista" esalta «chi finalmente vuole portarci la vera pace», negli ambienti conservatori le parole dell'americano suonano come un presagio della fine della la special relationship tra i due Paesi. E per Bibi si avvicina il momento delle scelte.

«Finalmente qualcuno che vuole portarci una pace vera!». Il laburista Yehuda ben Meir, esperto di sicurezza nazionale presso l'Università di Tel Aviv ed ex parlamentare, è semplicemente entusiasta del discorso del presidente americano al Cairo. «Ma vi rendete conto di quello che ha fatto?», dice al Riformista. «Ha parlato davanti a una platea musulmana di Shoà, badando bene a ricordare i sei milioni di vittime. È una cosa importantissima, perché sappiamo che nel mondo arabo si parla poco di Olocausto, e che in molti ridimensionano i fatti». Ben Meir è tra coloro che, nella sinistra israeliana, vedono nel discorso al Cairo una conferma del fatto che Obama è «un vero amico di Israele», come scriveva ieri Gideon Levy sul quotidiano progressista Haaretz.
Un'opinione non condivisa, in realtà, dalla componente più conservatrice del governo di Gerusalemme e, in un certo senso, anche da alcuni progressisti. Quella parte della sinistra israeliana che si sta convincendo (a torto o a ragione) che il discorso di Obama segna uno spartiacque nella storia delle relazioni israelo-americane. La fine (nel bene o nel male), o se non altro una modifica, di quella special relationship che rendeva automatica la coincidenza degli interessi di Washington con quelli di Gerusalemme: «È una rivoluzione strategica» scriveva un altro commentatore di Haaretz, Aluf Benn. «Durante l'era Bush, Israele era il più stretto alleato dell'America nella guerra al terrorismo, con libertà d'azione contro i palestinesi, Hezbollah e la Siria». E adesso, invece? «Con Obama - sostiene Benn - Israele deve sottoporsi a una rieducazione, e dovrà nuovamente provare la sua dedizione agli interessi statunitensi in Medio Oriente». Ben Meir, invece, rimanda le preoccupazioni al mittente: «Ma se lo stesso Obama ha ribadito, e per giunta davanti a un pubblico arabo, che la special relationship è indistruttibile!». Testualmente: «Sono ben noti i solidi rapporti che legano Israele e Stati Uniti. Si tratta di un vincolo infrangibile, che ha radici in legami culturali che risalgono indietro nel tempo, nel riconoscimento che l'aspirazione a una patria ebraica è legittimo e ha anch'esso radici in una storia tragica, innegabile».
Quanto poi ai contenuti specifici su israeliani e palestinesi, Ben Meir dice di «non vedere tutta questa differenza» con Bush: «Obama ha parlato di due Stati per due popoli e di Roadmap, gli stessi concetti di Bush». Solo che «ha parlato con toni diversi, da uomo che di secondo nome fa Hussein e che è cresciuto in un Paese musulmano come l'Indonesia. Perché dovrebbe essere un male?». Se gli fanno notare le aperture del presidente americano a Hamas, Ben Meir risponde: «Che ha detto Obama di così sconvolgente? Che Hamas gode di sostegno tra alcuni palestinesi? Che piaccia o no, è un dato di fatto. Oggi come oggi Hamas è un'organizzazione terrorista. Obama ha detto che, se vuole essere riconosciuta, deve rinunciare al terrorismo e riconoscere il diritto di Israele a esistere».
E le colonie? «Una piccola parte del governo che sarà scontenta, ma l'attuale esecutivo è composto in maggioranza da uomini di buon senso, più che disponibili ad incontrarlo». Infatti il premier Benyamin Netanyahu invece non commenta, ma fonti vicine al suo esecutivo ieri riportavano che sarebbe disposto a venire incontro alle richieste di Obama sul congelamento degli insediamenti.
Sul fronte più conservatore si registra qualche malumore. Il ministro delle Infrastrutture Uzi Landau (Yisrael Beiteinu) non ha gradito i riferimenti a uno Stato palestinese, «cioè uno stato iraniano». Il direttore del Jerusalem Post David Horowitz invece ha promosso alcuni aspetti del discorso di Obama, ma ne ha bocciato altri: «È stato commuovente ascoltare il presidente raccontare al mondo musulmano della relazione indistruttibile dell'America col nostro Paese (…) ed è stato bello sentirlo mettere in chiaro che l'iniziativa di Pace della Lega araba era un punto di partenza, ma non la fine delle responsabilità dei Paesi arabi». Eppure «è stato meno incoraggiante il passaggio dedicato all'Iran, notevolmente breve». E ancora: «Il suo attribuire in parti uguali la responsabilità del fallimento del processo di pace tra arabi e israeliani, visto da qui è fastidioso». Infatti: «La maggior parte degli israeliani, dopo avere visto le proposte super-generose di Ehud Olmert derise da Abu Mazen, vorrebbe chiedergli: di chi è la colpa?».


Corriere della Sera 6.6.09
Scoperta in Germania la più antica (35 mila anni) figura di donna
La Venere degli antenati è una statuetta a luci rosse
Ha grandi forme. Prima l’arte preferiva l’animale
di Viviano Domenici

Una statuetta femminile d’avorio trovata dagli archeo­logi in una grotta della Ger­mania sud-occidentale s’è ag­giudicata in questi giorni un paio di primati assoluti: si tratta del più antico esempio di arte figurativa datato con certezza (circa 35.000 anni); è la prima donna della storia dell’arte a mostrarsi tutta nu­da. E infatti ha suscitato un certo scandalo. Le sue forme presentano caratteri sessuali molto accentuati e gli archeo­logi riconoscono che l’opera «è letteralmente carica di energia sessuale e le sue for­me focalizzano l’attenzione sulla sua sessualità esplicita, quasi aggressiva».

La stessa rivista Nature, che ha pubblicato l’annuncio della scoperta, ha azzardato l’espressione pin-up nella di­dascalia della foto del reper­to. Autori del ritrovamento sono gli archeologi dell’Uni­versità di Tubinga, diretti dal professor Nicholas Conard, che da anni scavano nella grotta di Hohle Fels, vicino a Ulm, località della Germania sud-occidentale, non lontano dalla frontiera francese.

La scultura è caratterizzata da seni così esagerati da sem­brare caricaturali, e da una vulva particolarmente volu­minosa e vistosamente esibi­ta. Le mani, incise con linee sottili, sono appoggiate sul ventre, mentre quasi tutta la superficie del corpo è solcata da linee geometriche che po­trebbero indicare una pittura corporale o un esteso tatuag­gio. Al posto della testa c’è una protuberanza forata attra­verso la quale doveva passare un laccio per appenderla, for­se come pendente di una col­lana.

La figura è stata ricompo­sta con sei frammenti ritrova­ti a circa venti metri dall’in­gresso della grotta, e a tre me­tri di profondità, all’interno di uno strato di terreno ricco di ceneri e carboni che indica il luogo di bivacco del grup­po di cacciatori paleolitici.

Alla piccola scultura man­cano parte della spalla e della gamba sinistra, che gli arche­ologi sperano di recuperare proseguendo le ricerche.

La Venere di Hohle Fels, che ben ventotto datazioni del radiocarbonio effettuate su campioni prelevati nello strato in cui era inglobata hanno datato nel periodo che va dai 31.000 ai 40.000 anni fa, precede di almeno 5000 anni le celebri statuette fem­minili conosciute come «Ve­neri paleolitiche» rinvenute dai Pirenei alla Russia.

Questa datazione e i cano­ni stilistici del reperto indica­no che fu realizzato da un cac­ciatore appartenente ai primi gruppi di Homo Sapiens che colonizzarono l’Europa, pro­venendo dall’Africa, quando nel nostro continente viveva ancora l’Uomo di Neandertal. Secondo lo scopritore, «questo oggetto cambia radi­calmente la nostra visione delle origini dell’arte paleoliti­ca che, finora, era incentrata su immagini di animali o di ibridi uomo-animale».

La scoperta di Hohle Fels ha anche un’altra valenza: raf­forza l’ipotesi che all’origine delle piccole Veneri preistori­che, oltre alle più sottili moti­vazioni simboliche collegabi­li all’idea della fecondità, vi si­ano inequivocabili pulsioni sessuali.

La tradizionale ritrosia de­gli archeologi a vedere in que­ste opere l’espressione dei più profondi istinti dell’uo­mo, è comunque destinata a capitolare, almeno di fronte ai reperti della grotta tedesca che, oltre alla Venere, a picco­li flauti fatti con ossa di uccel­li e un’elegante figuretta in avorio che rappresenta un uc­cello in volo, ha restituito an­che un pene di pietra di circa 19 centimetri.

L’oggetto è scolpito in ma­niera naturalistica e presenta una superficie perfettamente levigata e lucida che, secondo l’archeologo Nicholas Co­nard, fa ipotizzare uno specifi­co utilizzo in ambito sessua­le, forse correlato a rituali atti a stimolare la fecondità della natura.

Al posto della testa c'è una protuberanza forata: forse veniva usata come pendente di una collana In avorio di mammut

E’ stata scolpita in avorio di mammut, è alta solo 6 centimetri e presenta caratteri femminili molto sviluppati: il ritrovamento nella caverna di Hohle Fels. L’opera precede di almeno 5000 anni le celebri statuette di donna conosciute come le «Veneri paleolitiche», rinvenute dai Pirenei alla Russia

l’Unità 6.6.09
De Pisis. Una questione di corpi
di Renato Barilli

I lavori degli ultimi anni dell’artista
La predilezione per la natura morta
La figura umana come disturbo

Il Museo Morandi di Bologna ospita una dozzina di dipinti e una decina di disegni risalenti agli ultimi anni di attività di Filippo De Pisis (1896-1956), prodotti quando l’artista aveva lasciato Parigi ed era andato a vivere tra Venezia e Milano, chiudendo poi la sua esistenza in una casa di cura nei pressi del capoluogo lombardo. Il tutto nasce nel quadro di una giusta collaborazione tra il Museo petroniano e il vicino Palazzo dei Diamanti di Ferrara, città natale di De Pisis, ma al di là della correttezza del rapporto istituzionale, che vede una selezione di opere grafiche di Morandi entrare nello scambio, qualcuno potrebbe chiedersi se tra i nostri due maestri del primo Novecento ci fosse davvero una affinità stilistica. Ebbene, sì, assai più di quanto potrebbe apparire a prima vista, del resto non dimentichiamo che entrambi avevano partecipato al grande evento della nascita della Metafisica, a Ferrara, nel 1917, quando De Pisis era appena ventenne, e ne avevano tratto una lezione indelebile per quanto riguarda i valori compositivi. Un dipinto è prima di tutto un’architettura di piani, una questione di corpi che vadano strategicamente ad occupare lo spazio. E in fondo, i due si trovavano d’accordo che questa occupazione plastica dello spazio dovesse avvenire, prima di tutto, con le nature morte, poi coi paesaggi e solo meno bene con le figure umane, il cui protagonismo funziona da elemento di disturbo. Ma certo, i due imboccavano poi vie alquanto diverse, Morandi si valeva di corpi densi, massicci, raccolti in sé, laddove il suo più giovane collega distribuiva nello spazio delle superfici agili, quasi invisibili, trasparenti, evidenziate solo dagli orli, dalle sagomature esterne. Ma questa sventagliata di piani, sicura, articolata, abilmente costruita, nei dipinti di De Pisis c’è sempre, e dovrebbe salvarlo dall’accusa di cadere in un postimpressionismo svagato e occasionale, tutto dedito ai brevi impulsi del momento. O meglio, il Ferrarese fu senza dubbio un virtuoso delle pennellate agili, vergate come rapidi segni stenografici, ma queste erano condotte per saggiare la resistenza delle superfici invisibili, un po’ come fanno i muratori quando tracciano degli sgorbi sui vetri per far capire che ci sono, nonostante la loro trasparenza.
UN’INFINITÀ DI PIANI
Perché allora le nature morte prevalgono, nella produzione di De Pisis? Ma proprio perché consentono un’infinita di piani, dati dai tavolini carichi di ninnoli, dai quadri e quadretti appesi alle pareti, dagli infissi di porte e finestre. Anche se pure i cornicioni e i davanzali dei palazzi nelle vedute urbane porgono buoni appigli di questa natura, e perfino gli abeti che si ergono dritti, aguzzi, a scandire le vedute dolomitiche. Mentre la figura umana assorbe troppa attenzione su di sé, non si innesta abilmente in una gabbia di coordinate, annaspa nel vuoto, ed è forse l’unica occasione tematica che lascia la pennellata depisisiana a fare i conti con la sua improvvisazione, spavalda ma di corto respiro.

Filippo De Pisis, Il ritorno in patria, Bologna, Museo Morandi, A cura di Fabrizio D’Amico Fino al 19 luglio Catalogo: Edisai

Terra 5.6.09
L’epopea reggae di due gemellini rasta in Emilia
di Simona Maggiorelli

Letteratura migrante. In larga parte autobiografico, Due volte è un travolgente romanzo di formazione di due bimbi di colore in fuga da un orfanotrofio delle suore. Scanzonato, ironico, ma soprattutto ad alto tasso di poesia

Lo scrittore Gangbo: «In Italia i media occultano la vera realtà di vita degli stranieri. Che non sono criminali o clandestini. Si continua a negare la presenza di nuovi italiani»

I dreadlock da rasta sono il loro orgoglio. Ma sono anche il bersaglio preferito delle forbici delle suore. Perché «portare i capelli lunghi fino alla scuola è da bambine». Ma i due gemellini, David e Daniel, non si arrendono facilmente. E, fra fughe da messa e cotte da paura, nell’orfanotrofio emiliano dove sono stati lasciati costruiscono tutto un loro mondo di giochi e di fantasia che procede al ritmo contagioso della musica reggae. Un mondo dove i colori della bandiera giamaicana diventano “scudo magico” contro la tristezza dell’abbandono e antidoto allo squallore di camerate di luci e neon e crocifissi. Non che il dolore non abiti il loro mondo. Ma i due irresistibili ragazzini protagonisti del romanzo Due volte (edizioni e/o) sanno come tenerlo a bada raccontando storie e inventandosi sempre nuove avventure. Da soli o con i robot comprati di nascosto e subito sequestrati dalle suore. Ingaggiando proverbiali partite di calcio o immaginando rocamboleschi piani di fuga. Fino a quando nel mondo di Daniel entra quella bambina dagli occhi dolci e tristi che trema al pensiero di dover trovare a casa, “dall’orco”. Dietro le mura di casa di Agata si avverte una voragine di violenza, una tragica vicenda di abusi che lo scrittore Jadelin Mabiala Gangbo ci fa cogliere in tutta la sua tragicità attraverso linguaggio potente delle fiabe, affidandoci allo sguardo del piccolo Daniel e di Agata, che non hanno perso la tenerezza. è il piccolo grande miracolo di questo sorprendente libro scritto per immagini, poetico, ironico, disarmante. Di fatto un romanzo di formazione in senso classico, ma anche un picaresco spaccato di vita in provincia. Come suo fratello gemello, Gangbo la provincia nostrana l’ha conosciuta sulla pelle e oggi racconta: «Due volte si basa su esperienze autobiografiche. Io e mio fratello siamo nati in Benin ma siamo cresciuti fra Imola e Bologna». E anche se l’Emilia Romagna, fino agli anni 80 e 90, è stata fra le più culturalmente vive «non mancano le chiusure verso gli stranieri. Colpisce - sottolinea Gangbo - il modo in cui i giornali parlano degli stranieri. I media continuano a trasmetterne un’immagine distorta. Non parlano dello straniero che fa una vita normale, studia, lavora. Si parla dello straniero come criminale o come clandestino, con i soliti esperti italiani chiamati a rapporto per commentare casi drammatici. Insomma - conclude Gangbo - in Italia c’è una precisa volontà di occultamento della realtà dello straniero. Una tendenza che ha messo radici. E che non si può ignorare: si continua a negare la presenza di nuovi italiani». Gangbo da qualche tempo vive a Londra e nel formulare il suo pensiero mette a confronto due mondi: «In Inghilterra la riflessione sul multiculturalismo è molto avanzata. I media, gli intellettuali ma anche le persone mediamente colte non si sognerebbero mai di dire cose razzi- ste. Vige il politically correct, anche se poi la tensione fra neri e bianchi in certi quartieri si avverte chiaramente». Il fenomeno della letteratura inglese scritta da immigrati, però, da decenni è non solo accettata, ma in cima alle classifiche. Basta pensare al caso Kureishi o a quello di Zadie Smith. Anche in Italia - il caso dello stesso Gangbo ne è la riprova - immigrati e figli di immigrati, oppure stranieri che hanno scelto di scrivere nella lingua di Dante, stanno largamente contribuendo alla nuova letteratura italiana, ma il fenomeno dal punto di vista dell’attenzione del pubblico resta ancora sotto traccia. «Manca ancora - chiosa Gangbo - la consapevolezza della piega nuova che potrebbero prendere la letteratura, il cinema, la musica se venisse accettata la mescolanza tra culture diverse.