Repubblica 8.6.09
Il plebiscito mancato
di Massimo Giannini
«Vincere», era l´imperativo categorico che Silvio Berlusconi aveva imposto a se stesso e alla sua coalizione, in un voto che per lui contava «più per l´Italia che per l´Europa». «Vincere», nascondendo sotto una montagna di preferenze i vizi privati (le veline, le minorenni, le feste di compleanno o di Capodanno) e i pubblici tabù (la sentenza Mills, i voli di Stato, le critiche della stampa estera). Ebbene, forse il «Conducator» ha vinto, ma di sicuro il Pdl non ha stravinto.
E il suo rivale Dario Franceschini ha perso, ma di sicuro il Pd non ha straperso.
Se lo spoglio notturno delle schede confermerà le prime proiezioni, il premier si aggiudica queste elezioni europee, ma senza riuscire nel clamoroso «sfondamento» che aveva sognato. Questa è la vera, grande sorpresa di questo voto. A dispetto del feroce trionfalismo del Cavaliere e del truce benaltrismo dei suoi giornali, forse «la ricreazione non è ancora finita». Forse sull´immagine del «pagliaccio sciovinista» (come l´ha definito con un eccesso di sprezzo il Times) il caso Noemi ha pesato eccome. Forse sul profilo del suo esecutivo i problemi dettati dall´impoverimento nelle condizioni delle famiglie e dall´imbarbarimento dei rapporti tra alleati (non solo con il leghismo padano di Bossi ma anche con quello siciliano di Lombardo) hanno pesato eccome.
Per tracciare un bilancio definitivo della nuova geografia politica del voto occorrerà aspettare il risultato delle amministrative che si conoscerà solo oggi. Ma qualche riflessione generale è già possibile. Il Cavaliere incassa tutt´al più una stentata conferma del Plebiscito ottenuto un anno fa. Ha trasformato anche questo voto europeo in un referendum sulla sua persona. Ha affrontato la campagna elettorale in condizioni difficilissime, tra scandali politici, forzature istituzionali e disastri economici. L´«ordalia» su Berlusconi, nel Paese narcotizzato dalla propaganda e impaurito dalla crisi, sembra non aver funzionato come doveva.
Per capire perché, bisogna partire dal dato delle politiche 2008. Il Pdl partiva dal 37,4% del 13 aprile. In un anno e mezzo, con una recessione devastante e un riformismo inconcludente, il «partito del Presidente» è accreditato dalle prime proiezioni Rai di un 35%: 2,4 punti in meno delle politiche. Allo stato attuale, resta lontano anni luce dal pirotecnico 45% cui il presidente del Consiglio aveva più volte aspirato. Insieme alla Lega, non arriva affatto allo storico Rubicone di ogni contesa elettorale repubblicana: il 50% dei voti. Il centrodestra, in altre parole, mantiene più o meno le sue posizioni. Anzi, perde perfino qualcosa: Pdl e Lega, insieme, facevano il 45,7% alle politiche, mentre ora si fermerebbero al 44,6%. La distanza tra Pdl e Pd, che alle politiche era di 4,2 punti, si allarga, ma non diventa abissale come i leader della maggioranza auspicavano. Non solo. Se i dati definitivi fossero quelli delle prime proiezioni, persino il derby interno al centrodestra finirebbe male per il premier. Il Carroccio è in crescita, dall´8,3 delle politiche al 9,6% delle europee. Avanza in tutto il Nord. A sua volta, come il Popolo delle Libertà nel resto d´Italia, forse non sfonda tempestosamente gli argini del Po. Ma il Senatur guadagna quanto gli basta, soprattutto in Veneto e forse anche in Lombardia, per battere cassa in una delle prossime cene di Arcore, e per rilanciare la «Questione Settentrionale» a un Pdl che si caratterizza sempre di più come partito merdionale.
Il centrosinistra registra una prevedibile sconfitta, ma evita la temuta disfatta. Il Pd partiva dal 33,2% delle politiche, e arretra al 26,8% secondo le prime proiezioni. È uno smottamento grave, oggettivo. Ma non è una Caporetto, se si pensa che i sondaggi dell´autunno, quando Veltroni gettò la spugna, davano i democratici al 22%. Franceschini non può esultare. Ma può non disperare. Il congresso di ottobre, in queste condizioni, non è ancora un allegro battesimo, ma non è più una cerimonia funebre. Qualcosa si può ancora costruire, tra i calcinacci e non tra le macerie. Se a questo risultato si aggiunge il bottino accumulato da Di Pietro, che veleggia al 7,9% rispetto al 4,4 delle politiche, si ha la sensazione che l´opposizione sia ancora in campo. Pd e Idv, che nel 2008 avevano cumulato un 37,6%, oggi si attesterebbero al 35,6%. Anche in questo caso, 2 punti in meno rispetto alle politiche.
Il calo dell´affluenza alle urne è vistoso: almeno 6 punti in più rispetto alle ultime europee. Se i dati della notte saranno confermati, è chiaro che la «sindrome dell´abbandono» ha colpito non solo gli elettori dell´opposizione (come temevano i leader del Pd) ma anche gli elettori della maggioranza (evidentemente disgustati dal Casoria-gate, che qualche effetto deve pure averlo avuto in queste scelte di non voto). La radicalizzazione dello scontro elettorale, stavolta, ha penalizzato il centrodestra in misura più che proporzionale rispetto al centrosinistra. Certo, si è tradotta anche in un´ulteriore polarizzazione del voto. Ancora una volta, dal panorama politico spariscono le ali estreme: nessuno, né a destra né a sinistra, raggiunge il quorum. E ci sarebbe da ragionare a lungo, in questo caso, sul «voto utile» e sulla pulsione minoritaria dei «duri e puri» che, per non rinunciare alla testimonianza, rinunciano alla maggioranza. Ancora una volta l´elettorato non premia le ambizioni «terzaforziste» di Casini: l´Udc, secondo le proiezioni, guadagnerebbe appena lo 0,8% sulle politiche. Poco, per chi spera di ricostruire un centro che condizioni il gioco politico con la strategia andreottiana dei due forni.
Se questo fosse davvero il panorama politico che esce dalle urne, i contraccolpi per il governo, anche se non devastanti, si faranno sentire. Le riforme, buone o cattive, si allontaneranno definitivamente. La competizione interna all´alleanza crescerà, insieme alla fibrillazione politica e all´inazione pratica. L´Italia si conferma spaccata a metà. Si ripropone la frattura tra un Nord-Sud in mano al centrodestra e un Centro in mano al centrosinistra. Ma la profezia di Tremonti si avvera solo in parte: è vero che «questo resta un Paese fondamentalmente di centrodestra», ma è anche vero che il centrosinistra non è ancora condannato a diventare solo «una Lega dell´Appennino». Il Muro di Arcore resta in piedi. Ma le crepe non mancano. Un´altra Italia, forse, è ancora possibile.
m.gianninirepubblica.it
Repubblica 8.6.09
Il leader radicale: "Ce l’abbiamo fatta malgrado l’isolamento, si potrebbe ripartire da Rnp e Sole che ride"
Pannella: "Un risultato straordinario la Rosa nel pugno è pronta a risorgere"
di Carmelo Lopapa
ROMA - Scavalcare il muro insormontabile del 4 per cento era un sogno e nulla più. Ne erano consapevoli. Ma a notte fonda, quando le proiezioni diventano dati consolidati, nel fortino storico dei radicale di Largo Argentina a Roma, è quasi festa. «Straordinario, compagni, il risultato della campagna di lotta è stato straordinario». Marco Pannella siede nella saletta di Radio Radicale e confessa: «Sono felice». Veri o verosimili che siano le proiezioni che si succedono, comunque è rinato. Rinvigorito. Resuscitato. Gongola, quando alle 23,30 Vespa spara da Porta a porta una prima proiezione che li darebbe a un insperato 3,1. Poi, via via i dati "veri" dalle sezioni li attesteranno attorno al 2,5-2,6.
Il pendolo continua a oscillare nella notte, ma Emma Bonino tira le somme: «Comunque vada c´è una nostra tenuta politica, soprattutto se si considera che non ci siamo presentati in una coalizione allargata e che veniamo da una competizione antidemocratica. Ora siamo pronti a rilanciare la Rosa nel pugno a fine giugno. Ci sentiamo rafforzati: se pensavano di liberarsi di noi, hanno fallito». Quel che conta è aver cacciato via lo spettro del tonfo, dello zero virgola, «con una campagna fatta con 350 mila euro che neanche un consigliere comunale...».
La sala grande della sede radicale è presto annebbiata dalla consueta nuvola gonfiata dalle troppe sigarette. Pannella saluta sereno l´Europarlamento, non ne fa un problema di cifre e guarda già avanti. «Il nostro bilancio di questa campagna è straordinario. Delle cifre faremo tesoro, non sarà sconfitta o trionfo. Contano soprattutto le 1.400 dichiarazioni di voto di compagni di sinistra che hanno deciso di votare radicale. I nostri sono voti di democrazia. Strappati alla partitocrazia». Marco sta meglio ma porta i segni della battaglia. Lo sciopero della fame e della sete per rivendicare lo spazio dovuto ai radicali su tv e radio lo ha provato. Ma non abbattuto. Ora si dice pronto alla nuova sfida. «Dal 26 giugno, con l´assemblea di Chianciano, torneremo alla Rosa nel pugno e al Sole che ride». A mezzanotte Marco Cappato si prende lo sfizio di attaccare in diretta Bruno Vespa: «Fosse stato per lei, saremmo stati sotto lo zero». E il conduttore: «Ma avete avuto il 7 per cento degli spazi tv, più di Di Pietro e Udc?» Poi lo scontro si accende e Vespa saluta: «Arrivederci Cappato». Il direttore di Radio Radicale Massimo Bordin fa un´analisi a freddo. Più che positiva. «Dobbiamo tenere conto delle condizioni di difficoltà estrema con cui il partito si è misurato, lo sbarramento al 4 per cento avrebbe significato 1,5 milioni di elettori. La Rosa nel pugno, giusto per capire, nel 2006 aveva preso 900 mila voti e sembrava un discreto risultato». E poi, «questa volta siamo andati da soli». Rita Bernardini, reduce dal voto al carcere di Rebibbia, sorride. «Sappiamo in che condizione non democratica viviamo in Italia, siamo partiti col 3 per cento degli italiani che sapeva appena dell´esistenza della lista e abbiamo quasi raggiunto il 3. Ora non ci fermeremo qui». In Parlamento stanno ancora in gruppo col Pd. Ma quella sembra già acqua passata. L´appuntamento è a fine mese a Chianciano, con l´assemblea per rilanciare l´alleanza con socialisti, verdi «e chiunque ci stia». E per ricominciare una nuova avventura.
Corriere della Sera 8.6.09
Pannella pensa già al futuro «Ricominciamo con i Verdi»
«Sono nel nostro Dna. Noi radicali? Più vivi di prima»
di Fabrizio Roncone
ROMA — Mezzanotte. Il voto del Partito Radicale continua a galleggiare: parte dall’1,8% e arriva al 3,0%. Una forbice larga, ma - in qualche modo - credibile. L’anziano capo dai capelli bianchi e lunghi, il volto solcato da rughe profonde, le labbra carnose annerite dall’ultimo mozzicone di sigaro toscano, si alza con calma il bello è che Marco Pannella appare di nuovo alto nel suo chicchissimo blazer blu, appare possente, otto chili recuperati dall’ultimo tremendo sciopero della sete deciso per riuscire ad apparire in tv: è chiaro che se qualcuno pensava di essersi sbarazzato di questo leone della politica italiana, sbagliava i suoi miseri calcoli - insomma il vecchio leone si alza, e sorride, e il suo sorriso è, da sempre, un ghigno di sfida e di arroganza, di scherno e di speranza.
«Beh... dovevamo morire... e invece, come dicono i numeri, siamo vivi. Abbastanza vivi. E dico di più: in fondo, beh, siamo gli stessi della Rosa nel Pugno: cento per cento liberali, laici, socialisti.... Con, da questa notte, uno sguardo interessato al ' Sole che ride', che è un nostro antico e prezioso simbolo ». Uno sguardo ai verdi, che nel voto del resto d’Europa paiono andare piuttosto bene? «Ai verdi, sì. Sono, si sa, nel nostro Dna. A patto, s’intende, che siano anti-staminali, anti-Ogm...».
Ci guarda tutti negli occhi, uno ad uno. Ha questo, di strepitoso, Pannella: se non stai attento, ti ipnotizza. Diventi radicale, gli dai ragione su tutto. Anche adesso, per dire: sull’analisi, a caldo, di questo voto europeo (il trucco è tenere lo sguardo basso, e prendere appunti).
«Ci avevano fatto sparire dalle televisioni. Un campagna elettorale al buio. Nera. Nessuno sapeva che io ed Emma Bonino ci candidavamo con una lista». Finché non è ricorso al solito, collaudato stratagemma. «Lo sciopero della sete». Appunto. «Lei ne parla come se fosse una protesta di routine: ma io, a 79 anni, ci rischio la pelle». Il suo volto, da Michele Santoro, ad Annozero. «Pelle e ossa. Lo so. Però ora sto meglio. Misuro la pressione corporea quattro volte al giorno, e mi pare stia nei limiti. L’unica cosa che non va, è il rimpianto». Per cosa? «Hanno fatto passare la mia protesta come se, in fondo, protestassi per me, o per i radicali. Invece protestavo per voi, per tutti. Per la democrazia di questo Paese». È bello, dopo tanti volontari stenti di protesta, vederlo divorare una doppia porzione di tiramisù, due ciambelline. E poi vuotare una bottiglia di chinotto. Ma non mangia, né beve, nervosamente. E poi fuma pure poco (rispetto alla venti sigarette che si accende, di solito, in un’ora). Attesa dei risultati rilassata, in una trattoria di piazza Sant’Eustachio, centro storico, cielo azzurro, basso, delizioso. Con i turisti che passano, e lo salutano. Quello che vuol farsi la foto. Quell’altra che gli passa la madre al telefonino. Arriva una signora: «L’ho vista l’altra sera, onorevole, al Tg1... beh, mi ha convinta... e un’ora fa sono andata, e l’ho votata ». Poi un mucchio di dichiarazioni di voto: un ristoratore che coltiva lenticchie in Umbria, a Colfiorito, una ragazza, uno studente, due tipe sui tacchi a spillo; poi, ancora, il lungo elenco di appelli che mentre Pannella parla al telefono con il suo storico medico, il professor Claudio Santini - «no, credimi, Claudio, mi sento bene...» da Radio Radicale, il direttore Massimo Bordin manda in diretta: ci sono Marco Bellocchio e Raffaele La Capria, Piero Melograni e i fratelli Bennato (Edoardo ed Eugenio), Franco Battiato e Alberto Bevilacqua, Sergio Castellitto e Piero Chiambretti.
«Li scriverai tutti? Guarda che è un elenco lungo...». Non tutti. «Va bene, allora dico cosa provo». Ecco, cosa? «Siamo l’unica entità politica che, comunque sia andato questo voto, è destinata ad esistere. Non so il Pd di Franceschini. E, a questo punto, non oso immaginare il Pdl di Berlusconi...». Già, Berlusconi. «Temo che, dipendesse dagli italiani, sarebbe finita come in un qualsiasi dittatura sudamericana. Ma poi c’è la pressione internazionale, ci sono i giornali stranieri...».
l’Unità 8.6.09
«Non c’è stata la cancellazione politica dei radicali»
di Jolanda Bufalini
Un applauso a via di Torre Argentina quando arriva la proiezione che da i radicali fra l’1,8 e il 3,1%. «C’è serenità - dice Emma Bonino - per un risultato raggiunto con 350mila euro e l’assoluta mancanza di regole della democrazia» Un risultato, aggiunge, «che resterà per il dopo». «Non c’è stata la cancellazione politica», conferma Marco Cappato. Il segretario radicale è a via di Torre Argentina a Roma, per lo spoglio dei risultati, è lì che alle 22 arrivano Emma Bonino e Marco Pannella che, dai microfoni di radio radicale ringrazia i 1400 intellettuali, artisti, scienziati e gente comune che hanno fatto dichiarazione di voto comportandosi «come i vecchi partigiani nel ventennio fascista». Era iniziata con solo tre persone su cento a conoscenza dell’esistenza delle liste radicali. Poi la protesta eclatante dello sciopero della fame e della sete di Marco Pannella, l’appello del capo dello Stato e, finalmente, la protesta del vecchio leader radicale è riuscita a bucare gli schermi: la voce impastata, la lingua secca che rendevano l’eloquio per una volta asciutto. Il volto emaciato che creava ansia negli spettatori.
Battaglia di legalità
«Abbiamo fatto una campagna sulla legalità e sulla democrazia». Cappato non si fa la minima illusione sulla possibilità di saltare l’asticella troppo alta del 4%: «Siamo partiti dallo 0.8, dunque è più che improbabile».
Quanto al quadro nel resto del continente, affluenza al minimo e l’affermarsi di forze nazionaliste e xenofobe, «quando le opportunità storiche non vengono colte, allora prevale la chiusura, la demagogia, la destra reazionaria». L’opportunità non colta è quella dell’Europa federale «per governare i problemi, dall’immigrazione alla crisi globale». L’Italia non fa eccezione, «sul solco della tendenza europea, ma anche per i contenuti della una campagna elettorale». «La rissa partitocratica - sostiene Cappato - c’è sempre stata in Italia per il voto europeo ma questa volta si è andati oltre». «Intendiamoci - dice - è importante parlare di Noemi». Ma il Casoria-gate non avrebbe dovuto sostituire tutto il resto.
Repubblica 8.6.09
Vendola-Ferrero, testa a testa nel derby rosso
Sinistra radicale in ripresa: i due partiti vicini al 3% ma niente quorum
La diaspora penalizza Rifondazione e Sl: non eleggono eurodeputati ma insieme ce l'avrebbero fatta
di Umberto Rosso
ROMA - Sognavano un big bang, la "grande esplosione" politica teorizzata negli ultimi tempi soprattutto da Fausto Bertinotti per la rinascita di una nuova sinistra. Invece, secondo le prime proiezioni, "Sinistra e libertà" viaggia attorno al due e mezzo, con la consolazione di essere vicini ai rivali di Rifondazione (3,4) che puntavano invece sull'unità dei comunisti. Insieme, sono in ripresa e ce l'avrebbero fatta. «Che errore quella scissione di Vendola», attacca perciò all´una della notte Ferrero. «Il nostro dato è in crescita – è la replica di Gennaro Migliore – speriamo ancora di farcela». Ma i sogni "divisi" sembrano tornare amaramente nel cassetto. L´ex presidente della Camera, sia pure fra molti dubbi che l´hanno portato a chiamarsi fuori dalla campagna elettorale (ha solo appoggiato l´eurodeputato uscente Musacchio, vendoliano) ne aveva parlato ancora alcuni giorni fa con i compagni più vicini: il progetto di una nuova, grande sinistra attraverso una maxi-scomposizione politica, a partire dal Pd. Dalle urne però avrebbero dovuto materializzarsi alcuni segnali-chiave. Per cominciare, un exploit di "Sinistra e libertà", con il superamento dell´asticella del quattro per cento. Un esito che Nichi Vendola in base a qualche sondaggio di un paio di giorni fa aveva pure accarezzato. Con la "simil" alleanza arcobaleno, con i Verdi, i socialisti, sinistra democratica, e una spruzzata di nomi di richiamo, da Dario Vergassola a Moni Ovadia. Puntando, in ogni caso, a mettere a segno un risultato simile a quello incassato dai fratelli-coltelli di Rifondazione, la casa madre lasciata pochi mesi fa dai ribelli in mezzo a mille rancori politici e personali. «La sinistra con il torcicollo», l´ha sbeffeggiata il governatore della Puglia in campagna elettorale, ad indicare il passatismo di Ferrero. Che, nel quartier generale di Rifondazione, alla quarta proiezione però ci crede ancora, «continuiamo ad andare avanti, vedremo alla fine se arriverà la sorpresa». Con quella voglia matta di dimostrare con un voto in più «la malafede dei vendoliani, subalterni al Pd, tanto che quasi ovunque si sono presentati alle amministrative nelle liste di Franceschini, mentre al contrario noi del Prc ci siamo presentati da soli».
Non che tutto sia filato liscio, nella lista comunista. Con una telefonata alla vigilia dello scrutinio che ha molto irritato Ferrero: Diliberto lo ha informato che non avrebbe aspettato i primi risultati insieme agli altri big della lista, nella sede di via del Policlinico, ma nel proprio ufficio. «Verrò a tarda sera, se le cose si mettono bene...». Un modo, hanno subito sospettato i rifondaroli, per mettere le mani avanti e tenersele libere in caso di insuccesso. Ma, in una sorta di drammatica par condicio all´interno della sinistra radicale, anche il progetto di un "partito dei comunisti" minaccia di saltare in aria dopo l´esito del voto. Addio non soltanto al big bang per la rinascita della sinistra, che vorrebbe lasciarsi alle spalle la falce e martello. Ma, al pari di Bertinotti, anche l´appello di Pietro Ingrao e di altri nomi storici che si sono spesi per il voto alla lista comunista, rischia di cadere nel vuoto. Anche perché, per entrambe le squadre, viene a cadere il presupposto chiave di ogni progetto: la stangata al Pd. Nei piani di Vendola un´implosione dei democratici avrebbe appunto fornito la scintilla per rimettere in moto il quadro, magari con una gestione affidata al tandem Bersani-D´Alema. Così come, con un risultato favorevole alla gestione Franceschini, la linea dura anti-Pd di Ferrero dimostra di non aver sfondato.
Corriere della Sera 8.6.09
Le due sinistre al 6% ma restano fuori
I calcoli su 1,2-1,5 milioni di preferenze. Alle europee 2004 Rifondazione ottenne 1,7 milioni di voti Ingrao Ingrao: la sinistra si presenta purtroppo divisa a queste elezioni E non è certo un bene
Vendola: rischio naftalina. Ferrero: l’avevo detto a Nichi, serviva una lista unitaria
di Dino Martirano
ROMA — «Dillo col quorum, un voto utile per ridare futuro alla sinistra, ai lavoratori, ai movimenti, agli immigrati,...». A urne chiuse, l’appello lanciato da Rifondazione comunista e dai Comunisti italiani si scontra subito con i numeri, implacabili, delle prime proiezioni: la lista «falce e martello» sfiora il 3,3%, sotto la fatidica soglia di sbarramento del 4%. Peggio è andata agli ultimi arrivati, Sinistra e Libertà di Nichi Vendola e Claudio Fava, che strappano un 3,2%: un risultato comunque inutile per mandare anche un solo deputato a Strasburgo. Unica consolazione, la somma delle due formazioni ribalta quel risultato negativo del 3,1% registrato un anno fa alle Politiche del 2008 dalla lista unitaria Sinistra arcobaleno.
Europa addio, dunque, per le due formazioni della sinistra radicale che hanno deciso di correre separate, disperdendo forze e rinfocolando vecchi rancori. In Via del Policlinico, sede del Prc, Paolo Ferrero ha il volto scuro quando si presenta davanti alle telecamere: «Siamo sul bob», dice per concedersi qualche ora prima di certificare la sconfitta. Poi la stoccata ai cugini di SL: «Insieme avremmo superato il 4%, lo dicono questi primi dati e invece con la scelta della scissione Vendola ha imboccato un’altra strada. Speriamo che per il futuro Sinistra e Libertà cambi orientamento ». Ferrero dice questo mentre l’aria che si respira in Viale del Policlinico è mesta: ci sono il regista Citto Maselli, l’ex senatore Giovanni Russo Spena, l’ex fuoriuscito dai Ds Cesare Salvi e qualche decina di militanti. Nessuno ha voglia di commentare i dati.
Ma l’accusa lanciata da Ferrero rimbalza subito nel quartier generale di SL in via Napoleone III, dove Nichi Vendola non ha voglia di prendere lezioni dal Prc, il suo ex partito: «E’ inutile piangere a babbo morto. Io ho fatto un congresso su questo e l’ho perso. Io, a viso aperto, ho sempre sostenuto che bisognava mettere in piedi un cantiere unitario. Loro, invece, dovevano fare il partitino iperideologico nel quale non sono riusciti neanche a mettere dentro tutti i comunisti». Conclude Vendola che rivendica di aver costruito in poche settimane una formazione capace di tenere testa a un partito, Rifondazione, ben strutturato da decenni: «Quando prevale l’opzione ideologica credo che ci si scavi da soli una fossa nella quale poi si rischia di precipitare dentro».
Alle Europee del 2004 Rifondazione aveva il 6,1% (1.971.700 voti), i verdi il 2,5% (800.502) e il PdcI il 2,4% (783.710). Alle politiche del 2008, la crisi era addirittura profonda con la Sinistra arcobaleno che non superava il 3,1% (1.124.418) e che non eleggeva un solo parlamentare. Oggi, insieme, la lista falce e martello e Sinistra e Libertà metterebbero insieme un dignitoso 6,5%. Ma rispetto a un passato non troppo remoto due domande sono d’obbligo: dove sono finiti tutti quei voti? Li ha rastrellati l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro oppure la voragine dell’astensionismo ha fatto danni gravi alla sinistra radicale più che al Pd?
l’Unità 8.6.09
Comunisti e vendoliani si fermano sotto il quorum
di Andrea Carugati
Risultato magro soprattutto per Sinistra e Libertà stando ai primi esiti, comunque del tutto parziali. Non oltre il 3%. Per i comunisti un’oscillazione sempre ben al di sotto del 4%. L’operazione è fallita.
La grande paura in casa di Sinistra e libertà finisce alle 23, con la prima proiezione di Sky: quel 3% riporta in vita il gruppo di Vendola e Fava, dopo che gli istant poll della Sette delle 22 avevano fatto precipitare la temperatura nella nuova sede dietro la stazione Termini: quella forchetta tra 1 e 3%, nettamente dietro i “cugini” di Rifondazione, faceva temere un esito catastrofico. E invece no.
Applausi di incoraggiamento
Applausi e pacche sulle spalle, e poi ancora festa quando arriva Nichi Vendola pochi minuti dopo. Anche perché Sky fa volare Sl sopra il listone Prc-Pdci, e la conferma arriva anche dalla prima proiezione Rai che porta la nuova lista di sinistra al 3,3% contro il 3 dei diretti rivali. Certo, entrambe le formazioni sono chiaramente fuori dall’Europarlamento. Ma a questo punto della serata è quasi un tema secondario. Franco Giordano gira per il piccolo appartamento con il cellulare in mano: “A Bologna in alcune sezioni siamo sopra l’8%, i dati reali sono ancora meglio”. Piu’ cauto Claudio Fava, che vede in quel 3,3 la conferma delle sue aspettative: “Sono vent’anni che faccio campagne elettorali, ho visto così tanta passione in questi giorni..non potevo avere avuto delle percezioni così sbagliate”. A mezzanotte il quorum del 4% è ancora un sogno.
Ma c’è ancora chi ci spera. E Fava scaccia via il fanstama di quel primo exit, che lo aveva fatto imprecare contro il direttore della società Ipr: ”Mannaggia a quel dottor Noto!”. E adesso? “Il progetto va avanti, Sl deve diventare un grande partito, è questo che ci chiedono i nostri elettori”, dice Fava. Giordano gli dà ragione: “Dobbiamo ricostruire la sinistra in Italia, e abbiamo appena cominciato”. Roberto Musacchio, europarlamentare uscente, non si dà pace: “Peccato per il quorum, vorrà dire che tornerò a Bruxelles tutte le settimane ugualmente...”.
Paolo Cento ritrova il sorriso: “A me basta sapere chi si compra la Roma”. Poi si fa serio: “Tra noi i radicali e il Prc c’è un’area a sinistra del Pd che sfiora il 10%: dobbiamo fare una proposta unitaria a tutte queste forze”.
Prudenza
In casa di Rifondazione c’è più prudenza. Il segretario Ferrero parla di una “scissione deleteria”. “Se non ci fosse stata oggi commenteremmo risultati ben diversi”, dice rivolto al gruppo di Vendola. Diliberto non è con lui a via del Policlicnico: ha preferito aspettare i risultati nella sede del suo Pdci. Segnale che il matrimonio tra i due comunismi rischia di durare davvero poco. Anche perché quel 3% per i due partiti è un risultato modesto: nel 2004, sommati, avevano preso l’8,5%. E anche al netto della scissione dei vendoliani il calo è sensibile. E poi a via del Policlino la serata ha avuto un andamento inverso: il primo exit lasciava aperta la possibilità del quorum, con quella forchetta che si allargava fino al 4%. Le proiezioni, invece, hanno spento ogni speranza. Anche in casa del Prc, però, i numeri consentono di evitare retromarce: “Il nostro progetto politico va avanti”, giura Ferrero. Pentiti di aver corso divisi? “Assolutamente no”, gli risponde Fava. “Noi non siamo un cartello elettorale. Siamo nati da due mesi e andremo avanti per anni, nonostante lo sbarramento che ci hanno imposto”.
Repubblica 8.6.09
Luciana Castellina: serve un nuovo soggetto fuori dai partiti
"Un’altra occasione buttata ma ora basta marciare divisi"
In Italia la politica è diventata una cosa piccola, piccola Si è ridotta alla presentazione delle liste
Diciamolo una volta per tutte: lo scioglimento del Pci per il nostro Paese è stata una vera e propria sciagura
ROMA - Voce storica della nuova sinistra, parlamentare di lungo corso e firma nobile del manifesto, Luciana Castellina prima del voto aveva lanciato il suo appello. Anzi, ci aveva provato convocando una serie di appuntamenti. «Serviva una lista sganciata dai partiti, per dare spazio a personalità e esponenti della sinistra senza che necessariamente si identificassero in uno specifica forza. Per cominciare a dar vita ad un nuovo soggetto».
Invece, nulla di fatto. Vendola da una parte, Ferrero dall´altra. E, secondo i primi risultati, niente quorum per nessuno dei due.
«L´appello purtroppo non è stato raccolto. Perché in Italia la politica è diventata una cosa piccola piccola, che si riduce solo alla presentazione delle liste, alla presenza in Parlamento».
Stiamo parlando di casta anche a sinistra, di autorefenzialità?
«No, non la metterei così. Quelli di Sinistra e libertà, anzi, hanno lasciato posti che avevano. Altri poi hanno pure abbandonato una comoda situazione all´interno del Pd. No, è una questione più complicata. Non c´è voglia di fare i conti con il passato, di aprire un processo di lunga data. E poi, c´è la situazione specifica della campagna elettorale».
E cioè?
«Sinistra e libertà, alla quale va tutta la mia simpatia, è un simbolo nuovo, sconosciuto, senza la falce e martello, senza mezzi e senza visibilità in tv. Con una proposta di novità davvero apprezzabile. Cosa che Rifondazione non è stata in grado di esprimere».
Dovrebbero, alla luce dei risultati di adesso, ricominciare a parlarsi?
«Serve una sinistra unita, non c´è dubbio, ma nuova. Nel nostro paese ormai politicamente c´è il vuoto. La politica si fa in tv, è di lor signori, dei ceti medi colti. Serve un soggetto nuovo, che abbia coraggio. A cominciare dal dire chiaro e forte una volta per tutte che lo scioglimento del Pci per il nostro paese è stata una vera e propria sciagura».
Ma c´è ancora spazio nel nostro paese per una sinistra che, se appare in lieve ripresa, non riesce a non essere litigiosa?
«Quando vado all´estero, sempre mi chiedono del paradosso che è capitato al nostro paese. La nazione con la sinistra storicamente più forte che è finita nelle mani di Berlusconi, delle veline, del gossip. Berlusconi, purtroppo, almeno una sua "ideologia" ce l´ha».
Però, per far nascere una nuova sinistra, si puntava sull´implosione del Pd, che invece tiene. Giochi finiti?
«Ma no, queste sono schiocchezze. Il Pd è un partito dell´establishment».
(u. r.)
Corriere della Sera 8.6.09
L’intervista Asor Rosa
La Lista Comunista ha parole d’ordine senza rispondenza con la realtà
Il punto è saper inventare una sinistra che sia riformista e al tempo stesso radicale
«I leader irragionevoli Così si sono suicidati»
di Paolo Conti
ROMA — «Nulla di sorprendente... il classico suicidio annunciato, al quale nessuno ha cercato di porre rimedio facendo appello alla ragione». Alberto Asor Rosa si definisce «uno dei tanti italiani che si sentono radicati in una sinistra politicamente non rappresentata ». Niente male per un ex direttore di «Rinascita» che ora commenta i primi dati, nemmeno sconsolato quanto ti aspetteresti, che registrano il mancato quorum sicuramente di «Sinistra e libertà » e probabilmente della Lista Comunista.
Un suicidio di che tipo, Asor Rosa?
«Lo è da due punti di vista. Uno più limitato e banale consiste nel fatto che i due gruppi sono andati separatamente al voto senza nemmeno compiere un calcolo minimale. Ovvero che insieme sarebbero riusciti a ottenere un quorum sicuro, garantendo a ogni componente la sopravvivenza. E poi suicidio perché né l’uno né l’altro gruppo hanno affrontato di petto il vero nodo: cioè cosa voglia dire una sinistra moderna, avanzata, responsabile, dotata di consenso nella società in cui ci troviamo a vivere».
Lei pensa, professore, che questo genere di sinistra rivolga il suo sguardo al passato?
«Qui i discorsi si separano. Non c’è dubbio che la Lista Comunista guardi decisamente al passato, ipotizzando parole d’ordine e prospettive di lotta che non hanno più alcuna rispondenza con la realtà. L’altro gruppo, al contrario, si è limitato a riproporre un’alleanza di forze non riconducibili al Pd, senza pensare che tutto ciò non è più sufficiente per un’alternativa credibile».
A questo punto bisogna arrivare a una definizione: quale caratteristiche deve avere una sinistra capace di decodificare la contemporaneità?
«Io ci ho provato, quattro o cinque anni fa, ipotizzando la possibilità di una fusione tra i diversi elementi della sinistra alternativa su un programma innovativo. E ci proviamo con i Comitati di difesa dell’ambiente che nascono dal basso su programmi più circostanziati. Il punto focale è saper inventare una sinistra riformista e al tempo stesso radicale, che non cerchi la fuga dal sistema ma ne progetti un totale cambiamento. I modelli non sono certo più quelli del passato, bisogna inventarli o studiarli in giro per il mondo».
E il successo dell’Idv?
«Io considero il dipietrismo una variante trasgressiva di una cultura dominante fondata sullo slogan, sulla protesta, sulla denuncia fine a se stessa. Il fatto che abbia riscosso il successo che si pensava, per me non è un fatto positivo ».
In quanto, invece, all’affermazione della Lega? Qui ritorna il discorso sul radicamento nel territorio, molto forte per Bossi, molto in crisi per il Pd...
«Si è detto, fino a sazietà, negli ultimi quindici anni come sia aumentato il peso dell’autoreferenzialità all’interno della sinistra. Il suo ceto dirigente è diventato autonomo e sufficiente rispetto al cosiddetto radicamento sociale, un autentico tradimento delle più profonde e lontane radici della sinistra. Per invertire questa rotta occorre che la sinistra e soprattutto il Pd si rimettano in discussione. Rinuncino a ragionare in termini di pura autosufficienza e autosopravvivenza. Atteggiamento che ci ha portato in questo vicolo cieco...».
l’Unità 8.6.09
Intervista a Massimo Salvadori
«La gauche ha perso identità e valori. Sconfitta annunciata»
di Umberto De Giovannangeli
Ci troviamo di fronte a un dato, quello dell’astensione, che ci dice chiaramente che la maggioranza degli europei non ha ritenuto di dover partecipare all’elezione di quello che dovrebbe essere sentito come la più importante istituzione democratica dell’Europa comunitaria». Parte da qui il nostro colloquio con il professor Massimo Salvadori, tra i più autorevoli storici e scienziati della politica italiani.
Professor Salvadori, come leggere politicamente l’astensione record in Europa per l’elezione dell’Europarlamento?
«Evidentemente si è ritenuto che la politica dell’Ue sia sostanzialmente appannaggio, o comunque condizionata in maniera decisiva, dei governi dei singoli Paesi, troppe volte dimostratisi incapaci di raggiungere intese comuni sulle grandi questioni che attengono alla vita dei 27 Stati che formano l’Unione. La conseguenza di ciò è che, per un verso, il Parlamento europeo è sentito come poco determinante, e, per l’altro verso, si ha la diffusa convinzione che se sono i governi nazionali a prevalere, l’Unione Europea finisce per essere di fatto vissuta come una entità superflua, certo poco incisiva. A ciò si aggiunga che molti governi nazionali trasmettono il messaggio negativo. Demotivante, che è la burocrazia di Bruxelles in molti casi a impedire agli Stati nazionali di trovare idonee soluzioni a molti dei più importanti problemi. Insomma, chi semina, nei fatti, il vento della delegittimazione, finisce poi per raccogliere la tempesta dell’astensionismo di massa».
Una tempesta che dalla Francia alla Spagna, dalla Germania alla Gran Bretagna, sembra travolgere soprattutto i partiti socialisti e socialdemocratici.
«Qui mi permetto un’autocitazione. Circa due mesi fa ho scritto un articolo, dal titolo “I silenzi della socialdemocrazia”, nel quale osservavo il fatto davvero sorprendente che di fronte alla gravissima crisi economia scoppiata nell’autunno del 2008, i partiti socialisti dimostravano una sorprendente incapacità di proporre delle loro soluzioni. Il che testimoniava uno stato avanzato di afasia politica e culturale».
Un tracollo annunciato…
«I partiti socialisti e socialdemocratici hanno dato di sé una immagine, reale, di cronica debolezza che ha contribuito a determinare il distacco popolare dalle istituzioni democratiche europee. E in una situazione d’incertezza come l’attuale, questo non può che avere come conseguenza la delegittimazione della sinistra in quanto tale. Una sinistra che ha perduto la propria identità anche in conseguenza del fatto che partiti come il Labour di Blair o la Spd di Schroeder, avevano cavalcato l’avventurismo speculativo delle oligarchie finanziarie che hanno messo in ginocchio l’economia mondiale, mentre il Ps francese offriva lo spettacolo deprimente di un partito dilaniato dalle rivalità personali. La sinistra socialista e socialdemocratica europea non ha trasmesso il senso dei valori di una battaglia autonoma condotta sotto le sue bandiere - un tema su tutti, quello della sicurezza, dove è emersa la subalternità politica e culturale alle destre - né è stata portatrice di una idea alta e innovativa della politica, o di una visione progressiva e coinvolgente dell’Europa, tanto meno ha mostrato un volto incisivo o ha proposto leadership credibili, autorevoli».
Repubblica 8.6.09
L’onda conservatrice
A Strasburgo popolari ancora in testa, sinistra a picco
Il successo dell´estrema destra xenofoba dall´Olanda alla Finlandia
di Andrea Bonanni
Bruxelles. Avanza Sarkozy. La Merkel tiene. Crolla Gordon Brown e perde anche Zapatero. L´estrema destra nazionalista, che coniuga xenofobia e anti-europeismo miete successi un po´ ovunque. L´Europa della crisi e delle grandi paure guarda a destra. Tranne che in alcuni piccoli paesi periferici (Grecia, Danimarca, Slovacchia) i socialisti non sembrano più capaci di intercettare le attese e le speranze degli elettori.
In Francia, ma anche in Belgio, in Olanda, i verdi emergono come potenziali leader delle sinistre. Le elezioni europee, segnate da un nuovo record di astensione (solo il 43 per cento dei 388 milioni di elettori è andato a votare) forse non cambieranno sostanzialmente gli equilibri di seggi nell´emiciclo del Parlamento di Strasburgo, ma disegnano rivolgimenti profondi sia nella destra sia nella sinistra del Continente.
La destra sembra meglio attrezzata per far fronte alla sfida della crisi. Il Ppe si conferma il primo gruppo parlamentare europeo, e guadagna seggi, ben oltre la soglia dei 250. Il Partito socialista resta il secondo gruppo del Parlamento, ma perde un sostanziale numero di seggi. La proiezioni gli attribuiscono tra 155 e 165 deputati. Anche aggiungendo quelli del Pd italiano, i socialisti resterebbero al di sotto della soglia di 200 parlamentari. Il calo socialista è in parte compensato dalla sensibile crescita dei verdi, che rimangono il quarto gruppo politico e dall´estrema sinistra, che tiene e anzi guadagna qualche seggio, nonostante la probabile débacle di queste forze in Italia. I liberali rimangono il terzo gruppo politico europeo e dovrebbero riportare in parlamento un´ottantina di deputati confermando il proprio ruolo di ago della bilancia tra lo schieramento di destra e quello di sinistra. I partiti chiaramente di destra e ostili all´integrazione europea, registrano consistenti successi i molti Paesi (Olanda, Austria, Ungheria, Gran Bretagna) e, benché divisi in due gruppi parlamentari, porteranno a Strasburgo una cinquantina di deputati.
Ma, dietro questa apparente scarsa mobilità degli schieramenti di partito, si intravede un profondo cambiamento del panorama politico europeo. La destra moderata riesce paradossalmente a incassare su due fronti: dove è al governo, come in Francia, in Italia, in Germania, vince il messaggio di forza tranquilla, in grado di intercettare e calmare le paure dell´elettorato. Là dove è all´opposizione, come in Spagna o in Gran Bretagna, incassa invece il dividendo del voto di protesta che fa pagare alle forze di governo lo scotto della crisi economica.
Quella del partito socialista a livello europeo, prima ancora che una crisi politica sembra una crisi di linguaggio: una afasia nei confronti del proprio elettorato tradizionale e di quello potenzialmente nuovo. La dimostrazione maggiore viene dalla Francia, dove i verdi di Daniel Cohn-Bendit, con un enorme balzo in avanti, si trovano a un solo punto di distanza dai socialisti in pieno tracollo. Lo stesso si registra in Belgio, dove il partito Ecolo incalza i socialisti valloni bastonati dagli scandali e dalla crisi economica.
Il risultato paradossale è che se il Pd, che ha rifiutato l´identificazione con il Pse a livello europeo, dovesse decidere di apparentarsi a Strasburgo con il gruppo socialista, quella italiana finirebbe per essere probabilmente la delegazione parlamentare più forte insieme con quella tedesca.
L´altro dato particolarmente significativo è il successo dell´estrema destra xenofoba e antieuropea in Olanda, in Gran Bretagna, in Austria, in Ungheria, perfino in Finlandia. Qui la paura per le trasformazioni sociali accelerate dalla crisi economica, che ha generalmente premiato la destra moderata, si trasforma in rabbia, in ostilità, nella disperata rivendicazione di un «ordine» morale e razziale. E dovrebbe far riflettere come questo tipo di deliri xenofobi e razzisti si coniughino regolarmente con una profonda ostilità al progetto europeo che costituisce in molti casi l´unico effettivo argine contro derive ultra-nazionaliste e anti-democratiche.
Con questi risultati, che confermano sostanzialmente la distribuzione delle forze politiche nell´emiciclo di Strasburgo, dovrebbero cadere anche gli ultimi potenziali ostacoli alla riconduzione di José Manuel Barroso alla presidenza della Commissione europea. Unanimemente designato per una riconferma dai capi di governo che aderiscono al Ppe, Barroso ha ottenuto anche il sostegno dei primi ministri socialisti di Gran Bretagna, Spagna e Portogallo (tutti e tre sconfitti a queste elezioni). Pare difficile che il nuovo Parlamento possa negargli la fiducia quando, alla sua prima sessione in luglio dovrà votarne la riconferma. Il crollo del Labour in Gran Bretagna, e il generale arretramento dei socialisti in Europa, potrebbe invece porre qualche problema alla candidatura di Tony Blair come primo presidente della Ue, qualora entrasse in vigore il Trattato di Lisbona. Ma è probabile che il Pse, che rimane comunque il secondo partito europeo, rivendichi quella poltrona per un Proprio esponente. E, in questo caso, quale candidato risulterebbe meno "socialista" e più gradito alle destre che l´ex premier britannico?
Corriere della Sera 8.6.09
Ultra destra e populisti scuotono il Continente
Premiate le formazioni estreme e gli anti-europeisti. Scontri in piazza a Manchester
di Luigi Offeddu
BRUXELLES — La carica è iniziata. Viene da lontano, e dovrà galoppare ancora per molto tempo: ma la carica dei partiti e movimenti di estrema destra per giungere al cuore della politica europea, è iniziata.
Nell’Europarlamento che si riunirà per la prima volta il 14 luglio, vi saranno vari loro rappresentanti, in qualche caso saranno pattuglie ben agguerrite e probabilmente troveranno terreni di intesa e di convergenza con altri gruppi: ancora 5 anni fa, nessuno lo avrebbe previsto.
La carica ha avuto un’avanguardia, giovedì 4 giugno, ed è stata quella guidata dal populista olandese Geert Wilders, e dal suo «Partito della Libertà». Ha vinto a man bassa nel suo Paese e anche se non ha raggiunto quel 21% accreditatogli dai sondaggi ha sfiorato però il 17%. Morale: nel nuovo Parlamento, Wilders e i suoi avranno 4 seggi, e in Olanda sono già ora il secondo partito per numero di voti. Il primo punto del loro programma è già stato annunciato e non potrebbe essere più chiaro: «La Turchia non entrerà nell’Europa, per almeno un milione di anni». Alla vigilia del voto, Wilders contava su un alleato sicuro, e cioè sui belgi fiamminghi del partito Vlaam Belang, ma per questi le elezioni sono andate male: nessun problema, però, poiché gli altri ultranazionalisti fiamminghi, quelli dell’altro partito di destra «Nva», sono andati bene e quindi potranno riempire le falle.
Dove invece l’ultra destra ha vinto a man bassa, e senza esitazioni, è in Ungheria: qui il Fidesz, Fronte della destra moderata, è arrivato addirittura al 67% (si parla di dati parziali) ma l’ultradestra di Jobbik si avvia a conquistare il 14,7%, molto al di sopra delle aspettative. In Francia, il vecchio Le Pen non ha saputo approfittare fino in fondo del crollo socialista, ma dovrebbe avere comunque 3 seggi all’Europarlamento, mentre avrà forse un seggio il movimento anti-europeista Libertas, fondato dal milionario irlandese Declan Ganley (che però non avrebbe raggiunto i risultati sperati nel suo Paese natale). In Gran Bretagna, l’avanzata dell’ultradestra ha avuto un segno tangibile con la prova elettorale del British National Party: gli exit-poll, poco prima di mezzanotte, dicono che dovrebbe avere conquistato un seggio all’Europarlamento. E se fosse così, sarebbe la prima volta in assoluto nella storia politica inglese. La novità ha avuto un riflesso immediato anche nelle piazze: nella notte, a Manchester, centinaia di nazionalisti del Bnp sono scesi in strada per festeggiare e si sono scontrati violentemente con manifestanti del fronte opposto.
E ieri notte c’era tensione anche ad Atene, dove i militanti del gruppo Laos si preparavano ugualmente a festeggiare per le strade: sembra che abbiano avuto il 7% dei voti, un risultato al di là delle aspettative. In Bulgaria, ha vinto il centrodestra del movimento Gerb (26,15%) ma è andata bene anche l’ultradestra nazionalista del gruppo Ataka, consolidatasi al 10-12% e pronta a ritentare il colpaccio alle politiche, in luglio. In Slovacchia, i nazionalisti del partito Sns conquisteranno quasi certamente un seggio. E nella Repubblica Ceca, i nazionalisti dello SSo, o Partito dei liberi cittadini. In Polonia, sta cantando vittoria anche il Partito dei Kaczynski, ma i dati sono ancora troppo parziali per capire se hanno ragione a festeggiare. Nessun dubbio, invece, in Austria: la destra estrema rappresentata da Fpö e Bzö raddoppia, arrivando al 18%, ed è rafforzata anche dal successo ottenuto dall’euroscettico indipendente Hans-Peter Martin. Chissà che cosa avrebbe detto oggi, se fosse stato ancora fra i vivi, il visionario Jörg Haider.
Repubblica 8.6.09
il lato oscuro di Orwell riflesso nel romanzo
L´autore sosteneva che ‘la voglia di fascismo' non è mai morta Serpeggia ovunque
il celebre libro uscì nel 1949, sessant’anni fa
di Tommaso Pincio
Sleale e specialista dell´inganno, l´autore era capace di bassezze. Un po´ del famigerato Grande Fratello albergava in lui come anche in ciascuno di noi
È evidentissima la somiglianza con Hitler e Stalin del protagonista, Winston Smith
Sessant´anni. Tanti ne ha ormai il libro più noto di George Orwell. Dall´8 giugno 1949, data della sua prima apparizione, 1984 non ha mai smesso di vendere e parlare alle coscienze. Di pochi giorni fa è l´uscita di 1Q84, nuovo romanzo di Murakami Haruki, anche lui sessanta primavere quest´anno. La pronuncia inglese della lettera Q suona come kyuu, «nove» in giapponese. È un palese tributo, l´ultima delle innumerevoli tracce che il Grande Fratello dissemina da più di mezzo secolo nel nostro immaginario.
Attribuire il segreto del suo planetario successo alla prefigurazione di un mondo di occhi elettronici che sbirciano costantemente nella vita delle persone sarebbe un errore. Negli anni Cinquanta il segreto veniva individuato nell´avvento della Guerra Fredda. Uno sbaglio anche quello. Diversamente, infatti, la caduta del Muro avrebbe dovuto invecchiarlo un po´. Invece è ancora qui, più attuale che mai, e tutto lascia credere che sopravvivrà anche all´era dei reality show.
Nemmeno il valore letterario pare essere una spiegazione sufficiente, tant´è che alcuni hanno persino messo in dubbio si tratti di un capolavoro. Umberto Eco, per esempio, sostenne a suo tempo che lo stile «non supera quello di un buon romanzo d´azione», aggiungendo che le Carré avrebbe saputo far di meglio, dal punto di vista della tecnica narrativa. Un´opinione simile fu espressa pure nell´immediatezza dell´uscita: il recensore dello Spectator sentenziò che 1984, seppure degno di nota, era un fallimento sia come satira che come thriller. Nemmeno la celebrata preveggenza orwelliana è stata al riparo da critiche. Un guru della fantascienza, Isaac Asimov, ha rimproverato allo scrittore di non essere stato capace di prevedere novità quali il computer e l´hard rock.
Qualunque sia il segreto di 1984, va dato atto a Fredric Warburg, editor e amico di Orwell, di averne intuito all´istante le potenzialità. Gli bastò una scorsa al manoscritto per capire di avere in mano qualcosa di grosso. L´entusiasmo fu tale che non seppe resistere alla tentazione di fantasticare sui possibili modi di convertire 1984 in una macchina da soldi. Considerò persino di lanciarlo come un romanzo dell´orrore affinché ne venisse tratto un film. Una simile idea suona oggi quasi blasfema, ma è meno bislacca di quel che sembra.
Sebbene venga spesso descritto come un uomo estremamente posato e razionale, Orwell aveva i suoi lati oscuri. Storie di fantasmi e magia nera lo avevano affascinato sin da giovane. Una volta confidò a un amico di avere adottato uno pseudonimo per evitare che i nemici usassero il suo nome anagrafico - Eric Arthur Blair - per qualche maleficio. Lo stesso 1984 ha un che di gotico e notturno, un cuore di tenebra solo in parte riconducibile alla previsione di un governo dispotico e malefico che distorce la verità, ricorre alla dilazione e obnubila il popolo.
È infatti possibile leggere il romanzo anche da una prospettiva diversa da quella meramente politica. È possibile leggerlo come la triste e paurosa parabola di Winston Smith, un uomo sulla soglia della mezza età che dopo anni di rinunce e silente sottomissione si illude di rinascere a nuova vita grazie all´amore per una ragazza, la lasciva Julia del Reparto Finzione. La storia finisce in tragedia, perché l´uomo rientrerà nei ranghi nel modo più orribile che si possa immaginare: rinnegando se stesso e il fatto di essere mai stato innamorato.
All´apparenza il cattivo della situazione è il famigerato Grande Fratello. La descrizione che Orwell fornisce in apertura sembra evocare personaggi tristemente noti: «un uomo di circa quarantacinque anni, con grossi baffi neri e lineamenti rudi ma non sgradevoli». La somiglianza con Hitler e, meglio ancora, con Stalin è fin troppo evidente. Ma siamo certi che fosse davvero questa l´intenzione? Anche Orwell vantava una discreta somiglianza con il Grande Fratello. Aveva baffi e lineamenti rudi. Ma soprattutto: compì quarantacinque anni proprio nel 1948 ovvero mentre portava a compimento il libro. Se a ciò aggiungiamo che il titolo ribalta l´anno corrente, il dubbio di avere davanti il riflesso di uno specchio è più che lecito.
Resta solo da capire perché mai lo scrittore avrebbe inteso identificarsi nell´eminenza oscura del suo romanzo. Il fatto è che Orwell era un uomo passionale, contraddittorio e capace di inaspettate bassezze. Un «adorabile egoista», come qualcuno lo ha definito. Se adottò uno pseudonimo non fu soltanto per proteggersi dalla magia nera, ma anche perché era uno specialista dell´inganno. Ripeteva che «la buona prosa è come il vetro di una finestra», ma nella vita non si comportava con altrettanta trasparenza. Evitava di far incontrare gli amici così da mostrarsi a ognuno con una faccia diversa. Teneva la famiglia all´oscuro di ciò che faceva. Si serviva del riserbo per celare i veri sentimenti. Era spesso sleale nelle relazioni sessuali. Senza contare la discussa lista di giornalisti e scrittori «cripto-comunisti» compilata per il Foreign Office.
Tutti noi ricordiamo le tremende torture cui viene sottoposto Winston Smith nelle pagine finali di 1984. Ciò nonostante nel modo in cui giunge a rinnegare il suo amore c´è qualcosa che trascende i carnefici. Si ha come l´impressione che questo Smith, questo piccolo uomo qualunque, non aspetti altro che una buona scusa per soffocare il lumicino di dignità e verità che per breve tempo gli ha rischiarato l´animo. È una sensazione che lascia atterriti, con un vuoto d´indicibile orrore. Orwell sosteneva che «la voglia di fascismo» non è mai morta del tutto, serpeggia dove meno te l´aspetti. Può contagiare chiunque, perché chiunque, se messo alle strette, può sacrificare gli affetti più cari e i principî più irrinunciabili. Forse, perciò, il vero segreto del romanzo, più che nel monito politico, risiede nella sua cupa riflessione sulla natura umana, su quel lato debole e nero da cui nessuno può dirsi immune, quel pizzico di Grande Fratello che alberga in chiunque, in Orwell come in ciascuno di noi.
Corriere della Sera 8.6.09
Quando Thomas Mann giustificò Buchenwald
di Pierluigi Battista
Chissà se a Obama, giorni fa in visita a Buchenwald, hanno raccontato la storia di Jorge Semprun. Dello spagnolo Semprun, preso dalla Gestapo in Francia. Deportato a Buchenwald. Poi dirigente della sinistra antifranchista con il nome di battaglia Federico Sanchez. Espulso dal Partito comunista per «deviazionismo» nel 1964 assieme a Fernando Claudin. Scrittore e sceneggiatore. E se a Obama, che ha pronunciato un solenne «mai più Buchenwald», hanno ricordato ciò che Semprun scrisse di Thomas Mann in visita a Weimar nel 1949: quel Thomas Mann, faro della cultura democratica, che aveva giustificato senza imbarazzo la riapertura del lager di Buchenwald voluta dalle autorità comuniste nella zona tedesca controllata dai sovietici.
Buchenwald non era stato concepito come un campo di sterminio sul modello Auschwitz. Ma i prigionieri dei nazisti, compagni di sventura di Semprun, morivano come mosche, fucilati per un nonnulla. I forni crematori sempre in funzione non bastavano, e dopo molti anni sono state ritrovate nella collina di faggi fosse comuni piene di resti umani senza nome. In quegli stessi boschi Goethe, di casa nella vicina Weimar, un paio di secoli prima veniva a conversare con Eckermann. Per questo Thomas Mann era a Weimar: per celebrarvi, invitato dai dirigenti comunisti che di lì a poco avrebbero dato vita alla Ddr, il genio di Goethe. E per dimostrare al mondo che solo nella Germania sotto la tutela dell’Armata Rossa avrebbe potuto rivivere la grande tradizione della cultura tedesca sfigurata dal nazismo. Ma Semprun ricorda che in quella zona stava rivivendo un’altra istituzione ereditata dal nazismo. I cancelli di Buchenwald, come quelli del lager hitleriano di Sachsenhausen dove erano stati uccisi 250 mila deportati, erano di nuovo aperti nel silenzio imbarazzato dell’opinione pubblica internazionale. Vi erano rinchiusi alcuni criminali nazisti ma la maggior parte dei prigionieri nei lager redivivi (quello di Sachsenhausen era stato ribattezzato dagli aguzzini del Nkvd «Stazione Z») era composta da cosiddetti «elementi antisociali», «vagabondi», «nemici dello Stato», dissidenti, «borghesi», ex soldati sovietici catturati dai nazisti in guerra e destinati, come «disertori» e «traditori », a finire i loro giorni nel Gulag.
Chissà se Obama è a conoscenza che l’appello «mai più Buchenwald» non fu preso in considerazione né dai comunisti, né da Thomas Mann che prima della conferenza su Goethe condannò senza appello non già chi aveva riaperto Buchenwald ma chi vi era rinchiuso, «persone colpevoli di aperto ostruzionismo nei confronti del nuovo Stato, che era pertanto necessario isolare». Chissà se Thomas Mann, così spudoratamente schierato con i carcerieri, si vergognò di quelle parole servilmente adulatorie, che Jorge Semprun, prigioniero a Buchenwald, non avrebbe mai perdonato.
Corriere della Sera 8.6.09
Quegli dei troppo umani che non avevano la verità
La collera di Posidone, le vendette di Zeus, l’ansia di Afrodite
di Luciano Canfora
La visione più fondata, quando si parla del mito greco, è quella che pone l’accento sulla unità del flusso mitografico e mitologico nell’area mesopotamico-mediterranea. Erodoto ne è consapevole, quando scrive che «quasi tutte le denominazioni degli dei vennero in Grecia dall’Egitto » (II, 50). E precisa che solo pochi nomi (Posidone, Themis, Dioscuri, Era, Nereidi, Cariti e pochi altri) fanno eccezione: ma, secondo la tradizione egizia cui Erodoto presta fede, anche tali nomi trassero i Greci dall’esterno, in particolare dai «Pelasgi». Su tale provenienza, che rinvia ad una unità culturale mediterranea, Erodoto si sofferma a lungo.
Né gli è ignota la tradizione relativa ai viaggi «d’istruzione» in Egitto compiuti da grandi figure della grecità arcaica quale Ecateo. Nesso di «apprendistato» nei confronti dell’antico Egitto che Platone enfatizzerà nel Crizia indicando in Solone un tramite illustre, e approdando alla celebre formulazione secondo cui i Greci sarebbero stati i «fanciulli» del mondo mediterraneo, riscopritori recenti di una sapienza antichissima.
Nei primi libri di Diodoro di Sicilia, il quale scriveva al tempo di Cesare, tale filiazione dall’Egitto trova una sistemazione quasi manualistica. Ed è notevole come secoli più tardi esponenti del pensiero cristiano si siano appropriati di questo luogo comune bene attestato nella cultura greca per capovolgerlo polemicamente e presentare i Greci (cioè i rappresentanti per eccellenza della cultura pagana) come plagiari rispetto a più autorevoli e più antiche culture. Accusa che fa un certo effetto da parte di chi così largamente risentiva dell’eredità greca e orientale come, per l’appunto, il cristianesimo. La mitologia cristiana, dunque, nel suo denso e alquanto confuso tessuto sincretistico, chiude il cerchio di questa storia di una religiosità di lunghissima durata incominciata molto prima dei Greci, e ramificatasi poi in moltissimi rivoli, eresie ed islamismo inclusi. Collocare dunque i Greci come un «inizio» è operazione moderna, che ha una salda tradizione alle spalle ma che va intesa per l’appunto come una proiezione moderna, come il risultato dell’«idea di passato» che i moderni occidentali hanno costruito (e che rischiano talvolta di dimenticare frastornati da un’idea banale e incolta di modernità). Ben scrive dunque Giulio Guidorizzi nell’Introduzione a Il mito greco (vol. I, Meridiani Mondadori, da pochi giorni in libreria, pp. 1.526, e 55): «I miti greci hanno un carattere archetipico, perché presentano nella loro essenzialità gli elementi originari del racconto sacro»: purché sia chiaro che quello è, per dirla alla maniera degli scolastici, un inizio per noi piuttosto che un inizio in sé. A ragion veduta, poi, Guidorizzi delinea la continuità pagano-cristiana quando osserva che «malgrado tutto i miti greci restano vivi sotto la superficie (...) pronti a manifestarsi appena qualcuno li cerca». Egli lo dice in senso soprattutto estetico-emotivo e letterario, ma si potrebbe integrare tale intuizione in termini più propriamente storico- religiosi tenendo d’occhio il fenomeno della continuità ed il principio non contraddetto secondo cui soprattutto nel mondo delle religioni e delle credenze, che coinvolgono masse sterminate di persone, nulla è totalmente nuovo.
Vi è però una peculiarità della religione greca ed è l’assenza dell’«unico libro» cui attingere «la verità». Assenza salvifica perché ha reso possibile la grande libertà con cui il patrimonio mitico è stato trattato per esempio dal teatro tragico ateniese. L’assenza di una casta di scribi o di sacerdoti-teologi gravata del compito di tutelare l’ortodossia ha contribuito a rendere meno vincolante quel patrimonio. Una conseguenza di ciò è anche il fatto che, nel mondo greco, non accade che sia solo un determinato genere di testi a trattare del mito. Ed è probabilmente in ciò la causa del fenomeno più interessante: tra i moderni la religione greca non attrae soltanto gli specialisti di tradizioni religiose ma anche studiosi lontanissimi da tale bisogno mentale. Il che non accade sempre nel caso delle altre tradizioni.
Una situazione del genere «avvicina» gli dei agli uomini. Li avvicina non solo dal punto di vista dell’interventismo continuo degli dei nelle cose umane (si pensi alla cura ad personam che gli dei omerici riservano a questo o a quell’altro «combattente» di grido: invece si disinteressano delle masse...), ma anche dal punto di vista delle loro vicissitudini e dei loro comportamenti in quanto dei. Fu una bella trovata quella di Marcel Detienne e Giulia Sissa di dedicare un libro (edito da Laterza, in Italia) alla «vita quotidiana degli dei greci». Agli dei greci può succedere infatti di ricevere una ferita se si immischiano troppo in una battaglia tra esseri umani. È il caso della divina Afrodite, madre ansiosa di Enea, la quale accorre a difenderlo dal brutale Diomede e da costui viene malmenata e ferita ai polsi, nel quinto libro dell’Iliade. Per non parlare delle risse, passioni, sofferenze, stanchezze di cui questi dei sono partecipi, pur immortali. Nel libro XV dell’Iliade, Iris, messaggera di Zeus, si reca da Posidone per trasmettergli l’ordine perentorio di Zeus di non intervenire attivamente a favore degli Achei. «Se non darai retta al comando — gli dice — verrà lui a combatterti quaggiù». Posidone, furibondo, rievoca che le tre parti del mondo erano state tirate a sorte tra i tre figli di Crono, e a lui era toccato «il mare canuto», a Zeus «il cielo fra le nuvole e l’etere», mentre la terra doveva essere «comune». Dunque qui Zeus sta forzando la mano, ma Posidone, pur mentre si sottomette, dichiara che nel cuore gli sta entrando «dolore tremendo» e comunque manda a dire a Zeus che, se Troia si salverà, deve sapere che tra loro ci sarà «insanabile collera » (si legga questo brano, di straordinaria importanza, nel volume di cui qui discorriamo, alle pp. 55-56).
Qui sorge un vero problema teologico. Quali sono i rapporti di forza tra queste due divinità all’apparenza pari? Perché Zeus si giova della sua prevalente forza? E viola un diritto? Questo problema era, a ben vedere, complementare dell’altro (che affaticherà, senza che una soluzione venga fuori, il pensiero cristiano): perché gli dei non impediscono il male, il trionfo del male, perché consentono il dolore e la sofferenza del giusto? Per i cristiani il problema è insolubile (o solubile con qualche sofisma intorno al male a fin di bene). Per i Greci dell’epoca arcaica la risposta era dura, non consolante, ma era comunque una risposta: anche tra gli dei vige la legge del più forte, legge che — al di là della retorica consolatoria — regna dovunque tra gli umani. Lo dicono gli Ateniesi ai Meli, nel celebre «dialogo del carnefice con la vittima» nel quinto libro della Storia tucididea, onde togliere ai Meli ogni illusione: «noi riteniamo che, a quanto si sa tra gli dei, ma certamente tra gli uomini, in forza di una necessità ( hypo physeos anankaias), chi è più forte comanda. Non siamo noi ad aver stabilito questa norma, né siamo i primi ad attenerci ad essa; l’abbiamo trovata che c’era già e la lasceremo in eredità a chi verrà dopo, per sempre ». La «insanabile collera» che Posidone promette al fratello sopraffattore sembra implicare che i rapporti di forza tra le due potenti divinità potrebbero un domani cambiare. E certo Troia, pur così cara a Zeus, non si salvò.
l’Unità 8.6.09
La Repubblica Popolare lancia un piano per la salute
L’investimento 124 miliardi di dollari da spendere nel giro di tre anni
La grande muraglia dell’assistenza medica in Cina
di Pietro Greco
Si chiama Cina in Salute 2020. E ha un obiettivo piuttosto ambizioso: cambiare il sistema sanitario cinese, basato sulle assicurazioni private, assicurando il diritto alla salute 1,3 miliardi di persone.
Per Cina in Salute 2020 il governo di Pechino nei giorni scorsi ha stanziato 850 miliardi di renminbi: qualcosa come 124 miliardi di dollari, al cambio ufficiale. Da spendere entro i prossimi tre anni per iniziare a allestire 29.000 nuovi centri medici locali e di 2.000 nuovi ospedali di contea; a formare e a valutare 1.370.000 medici che opereranno nei più sperduti villaggi e 160.000 medici che opereranno a livello di comunità più allargate; produrre in proprio e di distribuire almeno 300 tipologie di «farmaci essenziali», il cui elenco verrà elaborato probabilmente sulla base delle indicazioni dell’Organizzazione mondiale di sanità.
Il progetto, davvero titanico, serve a rimuovere un paradosso: quello di un paese che si dice comunista e ha un sistema sanitario fondato sulle assicurazioni private (analogo a quello americano) che consente ai ricchi di curarsi ed esclude i poveri. Il progetto ha anche una natura congiunturale: gli investimenti per costruire il welfare sanitario rientrano nel «pacchetto anticrisi» e servono a impedire che la recessione internazionale eroda il tasso di crescita dell’economia cinese. Il progetto serve a rendere più razionale la gestione della salute di una popolazione enorme con una varietà di problemi medici da far tremare i polsi: come, per esempio, salvaguardare la salute di 300 milioni di fumatori, di 177 milioni di persone con ipertensione, di centinaia di migliaia di ammalati di Aids.
Gli squilibri
Il progetto di realizzare un sistema sanitario a copertura universalistica simile a quello che abbiamo in Europa serve, soprattutto, a risolvere il più grave problema della sanità cinese: la disuguaglianza di accesso alla cure mediche.
Qualche numero ce ne dà una misura: nella provincia più ricca, quella di Shangai, l’aspettativa di vita alla nascita supera, ormai, i 78 anni ed è vicina a quella di un europeo o di un giapponese. Nelle provincie rurali più povere dell’interno, non va oltre i 65 anni e si avvicina a quella della Russia e degli altri grandi paesi dell’Asia continentale. Nelle provincie più sviluppate la mortalità infantile è cinque volte minore che nelle provincie più arretrate. In città la malnutrizione infantile è tre volte inferiore alle campagne. Ma in città vivono ormai 140 milioni di persone che in pochi anni si sono trasferite dalla campagna e non hanno protezione sanitaria alcuna.
Anche Obama ha annunciato di voler riformare il sistema sanitario degli Stati Uniti, conferendogli un maggior carattere universalistico. Per una coincidenza che forse non è tale, le due massime economie al mondo nelle medesime settimane hanno deciso di abbandonare un modello, insostenibile socialmente ed economicamente, fondato sull’idea di salute come un bene di mercato da conquistare, per abbracciare il welfare sanitario che abbiamo in Europa, più equo e meno costoso, fondato sull’idea che la salute è un diritto inalienabile dell’uomo.
Repubblica 8.6.09
Madrid. Matisse 1917-1941
Museo Thyssen-Bornemisza. Dal 9 giugno
La mostra ripercorre l'attività creativa del maestro francese, attraverso ottanta opere, dipinti, sculture e disegni, che documentano l'evoluzione della sua tavolozza brillante, contrastata, armonica e il progredire della sua arte verso un continuo decantamento dello stile e affinamento formale. L'esposizione, curata da Tomàs Llorens, prende in considerazione un arco temporale compreso tra il 1917, data in cui l'artista firma un nuovo contratto con la galleria Bernheim Jeune di Parigi, e il 1941, anno in cui decide di trasferirsi a Nizza. Il percorso espositivo, che segue un ordine cronologico e tematico al tempo stesso (da quello della finestra, spesso associata alla musica, ai paesaggi, alle figure in un interno e al nudo femminile fino alle nature morte), raccoglie capolavori come Interno con custodia di violino del 1918-19 (Museum of Modern Art di New York), Odalisca con sedia turca del 1927-28 (Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris) e Natura morta con donna addormentata del 1939-40 (National Gallery di Washington).
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
domenica 7 giugno 2009
Il Sole 24 Ore Domenica 7.6.09
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Terra 7.6.09
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l’Unità 7.6.09
Parlar male di Berlusconi
La strage di notizie è già in atto se si pensa ai molti giornali che non hanno pubblicato le immagini indecenti del premier alla parata
di Furio Colombo
Perché non possiamo non dirci antiberlusconiani, qualunque sia il risultato elettorale (che speriamo largamente democratico, nel senso politico, nel senso di antifascista, nel senso che Marco Pannella ha ridato alla abusata parola)? La ragione si esprime in pochi punti.
1. L’ideologia, ovvero il patrimonio di idee e di visioni che Berlusconi ha trovato abbandonati sul terreno quando è “ sceso in campo”, non c’entra. Questo non è un governo di destra. Non c’è il decoro e il senso delle istituzioni della Destra di Gianfranco Fini, né la concitazione aggressiva e xenofoba della Lega Nord che - in tante diverse incarnazioni - avvelena il clima morale e politico di mezza Europa. Berlusconi non è né Fini né Bossi. È solo se stesso. Un signore ricco, furbo, non intelligente ma svelto, svincolato dal peso della buona reputazione e ricoperto dal manto - tutto teatrale però efficace - del successo populista. Non c’è nulla prima di Berlusconi, nulla che gli assomigli. Non ci sarà nulla dopo di lui (certo non il devoto Bondi). Abbiamo a che fare con un caso unico in Europa e raro nella storia. Non è raro il leader squilibrato. È rara una così vasta sottomissione delle cosiddette classi dirigenti.
2. È vero (cito ancora Marco Pannella) che malgoverno e malaffare hanno a lungo lavorato insieme in Italia ben prima dell’uomo di Arcore. Ma sono confortato dal grido di allarme del leader radicale che, invece di scusarsi per l’antiberlusconismo dichiara, col consueto coraggio, che c’è un vero e imminente pericolo di fascismo e che la persecuzione delle persone segue, non precede, la strage di notizie. Questa strage è già in atto se pensate ai molti grandi giornali che non hanno osato pubblicare le immagini di comportamento indecente del premier alla parata del 2 giugno. Più ancora, se si ricorda a che punto estremo di manifestazione e di denuncia i nonviolenti Pannella e Bonino sono dovuti arrivare per rompere il silenzio.
3. Chiunque può avere, per un periodo, un ministro inutile come Brunetta; un capo dell’Economia impegnato a scrutare un altro orizzonte, non quello vero, come Tremonti; un finto ministro dell’Istruzione come la Gelmini (memorabile l’invenzione del 6 rosso) di cui si ricorderanno solo il tailleur alla Mary Poppins, gli occhiali e i tagli poderosi alla scuola pubblica. Ma nessuno ha avuto e continua ad avere per quindici anni un uomo troppo ricco, non nel pieno controllo del suo comportamento pubblico (la vivacità eccessiva certe volte lo aiuta, certe volte lo sputtana) e preoccupato solo di se stesso, immagine, donne (nei limiti e con la pena dell’età), e finti progetti, uno o due al giorno, annunciati e poi buttati, in un delirio di applausi che - ci siano o non ci siano gli oppositori - ad un certo punto cesserà di colpo.
4. Berlusconi siede sul groviglio dell’immondizia, del terremoto, della crisi economica senza governare. Tutte le sue leggi sono ritorsioni, punizioni, vendette, volute e votate per interesse aziendale o personale o tributo a un partito feudatario, come il disumano e incivile «pacchetto sicurezza», vero best seller di condanne nel mondo civile laico e religioso. In particolare non si registra una legge o misura o azione o strategia anticrisi che non sia una esortazione all’ottimismo e al consumo. La parola d’ordine del non-governo Berlusconi è «lavorare di più», ammonimento diretto non si sa a chi, date le cifre continuamente in crescita della disoccupazione. Lo dice mentre lo affianca la neoministro del Turismo Brambilla, di cui non si sa nulla, eccetto il colore vistoso dei capelli, e che non può far nulla in un Paese che affoga nell’immondizia e nel cemento. Infatti, nel frattempo, incombe sulla Toscana l’immensa colata di cemento detta «Spaccamaremma», l’inutile autostrada destinata a isolare la regione italiana più celebre al mondo dal suo mare (la colata di asfalto e cemento corre lungo le spiagge). E incombe su tutto il Paese il «piano casa». È un singolare condono preventivo che autorizza ciascuno al peggio, senza autorizzazioni, senza controlli, senza regole. Ma questo è il cuore del discorso. Berlusconi, da solo, siede sul Paese. Come se non bastasse lancia una frase squilibrata al giorno. L’ultima è “troppi negri a Milano”, nell’anno, nel giorno, nell’ora dello straordinario discorso al Cairo di Barack Obama, primo Presidente afro-americano degli Stati Uniti. Sua moglie - che deve averci pensato molto - ci dice che non sta bene. Alcuni italiani lo ammirano perché è ricco e sono sicuri che non usa aerei di Stato per ballerine di flamenco e chitarristi personali. Altri - come Pannella - vedono e dicono chiaro il pericolo. In Italia manca l’ossigeno delle notizie vere. Il piede sul tubo è quello di Berlusconi.
l’Unità 7.6.09
Fiestas e foto «pikante»
Così lo vedono all’estero
di Federica Fantozzi
I giornali esteri non li legge nessuno, nemmeno le popolazioni di quei Paesi». È la frase un tantino generica ma chiara con cui Berlusconi ha liquidato l’eco mondiale del Papi-gate. Che però non accenna a spegnersi: inconsapevoli della propria scarsa diffusione, giornali e siti di tutto il mondo, da Time al Bangkok Post, dalla Voz de Galizia a Wales Online, affrontano l’argomento. E persino su Al Jazeera online appaiono, sia pure molto piccole, le foto dei topless a Villa Certosa acquistate dal Paìs.
Malvisto dagli altri. Sotto questo titolo Internazionale raccoglie un grappolo di feroci articoli, con commento di Marc Lazar: «L’affermazione di Berlusconi può essere considerata il trionfo dei difetti dell’Italia e degli italiani: la scarsa coscienza civile, la mancanza di tradizione democratica, la prevalenza degli interessi particolari sui collettivi». The Independent vaglia le ipotesi su Noemi «figlia, amante o elemento decorativo alle feste... sogno proibito di un 72enne con problemi alla prostata» e teme che la festa del G8 potrà essere rovinata: «Berlusconi sta scoprendo a sue spese che non può manovrare la stampa estera come quella italiana». Il Times denuncia «un pagliaccio sciovinista... che frequenta donne con 50 anni meno di lui», un «anziano casanova» che «umilia la moglie». Citando la gaffe di Frattini che «ha infelicemente cercato di aiutarlo facendo notare che in Italia l’età del consenso scatta a 14 anni».
La tedesca Faz ironizza: non solo principe rinascimentale ma Giove che scese dall’Olimpo per incontrare «quell’ochetta di Leda» facendo infuriare Giunone. Bagnasco invita a occuparsi della propria coscienza? «Ma così non scopriremo mai se è successo qualcosa». Per la spagnola Vanguardia il Cavaliere è «un marpione che porta in giro il suo corpo plurioperato» con «la coscienza rifatta col botulino come la sua faccia».
Sultani e flamenco. Le Monde spiega come «la vita privata di Silvio ha occultato la campagna elettorale... Ama comportarsi come un sultano facendo venire nella sua villa ogni tipo di persone utili al suo divertimento». The Guardian dà risalto alla presenza dell’ex premier ceco Topolanek nudo che «ha trasformato uno scandalo italiano in uno internazionale». A corredo, la foto di due anziani milanesi che si passano la copia del Paìs ridendo. E «Foto in topless a casa Berlusconi» è il titolo del Times of India come del sito malese The Star.
«No spice thank you». Niente rapporti piccanti, siamo anglosassoni. Il settimanale Usa Time sbertuccia la vicenda di «nudità e seminudità da piscina» dove le immagini di per sé non sono scandalose, «si potrebbero vedere in infinite ville lungo il Mediterraneo», ma «il contesto è tutto». Tra soap opera pubblica e gossip bollente: «Gli italiani - come noi - non possono smettere di guardare». E l’occhio di un veterano dei paparazzi ad alto rischio, Zappadu, ha immortalato ospiti di rango in mezzo a «un contingente di ragazze». Così, mentre Topolanek grida al fotomontaggio, il quotidiano ceco Hospodarske Noviny scrive che «si è trovato a fare da alibi a un donnaiolo». El Mundo online titola: «Italia in piena polemica per le foto delle fiestas di Berlusconi». «Fotos pikante» strilla la Bild. Sul Mirror la smorfia del premier: «Giura di dimettersi se ha mentito». The Australian: «Silvio dice: foto nude ma innocenti».
l’Unità 7.6.09
La bioetica e il diritto
di Luigi Manconi, Andrea Boraschi
Lunghe e faticose battaglie hanno affermato, nella nostra cultura, l’idea di “maternità consapevole”. Lontani come siamo dal veder tradotta quella istanza in forme mediche e di welfare consolidate e diffuse, che garantiscano pienamente la donna, oggi vediamo che i confini della bioetica chiamano in causa anche il diritto maschile a una scelta genitoriale cosciente.
Il Tribunale di Vigevano ha respinto la richiesta di una donna di accedere alla procreazione medicalmente assistita per avere un figlio dal marito, ricoverato in coma alla fondazione Maugeri di Pavia. La richiesta era stata sollecitata dal padre dell’uomo, in qualità di tutore; ed è stata rigettata in virtù del fatto che, dalle testimonianze raccolte, non è stato possibile - a parere dei giudici – ricostruire la chiara volontà dell’uomo di diventare padre.
Una seconda questione la solleva Chiara Lalli, con grande lucidità, nel suo blog. Ha a che vedere con la legge 40 e con i recenti pronunciamenti della Corte Costituzionale nel merito di alcuni passaggi di quella normativa. In particolare, la caduta dell’obbligo a «un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre», rende possibile crioconservare quegli embrioni che non vengono usati al primo tentativo; o tutti quelli prodotti se, per qualche ragione, il medico ritenesse opportuno rimandare l’impianto. Ovviamente nelle procedure di fecondazione assistita è contemplato il consenso informato e la possibilità, per entrambi gli aspiranti genitori, di revocare la loro volontà; ma, qui sta la bizzarria, ciò è possibile solo fino alla fecondazione dell’ovulo (e non, come in pressoché tutte le altre legislazioni, fino all’impianto dell’embrione). Lalli ci propone l’ipotesi di una coppia – Anna e Mario - che si rivolge a un centro per la fecondazione producendo 7 embrioni; 2 vengono utilizzati per un primo e inutile tentativo, gli altri 5 conservati per un secondo intervento che si rende necessario procrastinare. Nel lasso di tempo che separa quel primo tentativo da quello a venire i due interrompono la loro relazione; ma stante la legge italiana Anna ha diritto all’impianto degli embrioni, anche contro il volere di Mario che non può più ritirare il suo consenso. E ciò in direzione perfettamente contraria a quanto stabilito dalla Corte di Strasburgo riguardo a una controversia simile: una donna inglese si era rivolta a quella Corte invocando l’articolo 2 della Convenzione per la protezione dei diritti umani, domandando che si estendesse la tutela del “diritto alla vita” agli embrioni di cui chiedeva l’impianto contro il volere dell’uomo. I giudici respinsero la sua richiesta.
Scrivere a: info@italiarazzismo.it
Corriere della Sera 7.6.09
L’abbandono delle Biblioteche nazionali
4,5 milioni di euro annui per la gestione complessiva di roma e Firenze
100 milioni annui per la gestione di Parigi
A Roma e Firenze 14 milioni di volumi, come a Parigi Ma l’Italia stanzia venti volte meno per la gestione
di Paolo Di Stefano
Deposito legale Gli editori devono inviare alle due Centrali copia della produzione: 60 mila novità l’anno
Prestito Servizio solo al mattino, mentre in Francia sale aperte fino a sera E si pensa di superare l’eredità ottocentesca scegliendo un’unica sede
Le cifre, nella loro brutalità, dicono già molto. E confrontando, a titolo di esempio, gli stanziamenti dello Stato italiano per le due Biblioteche nazionali centrali, di Roma e Firenze, con quelli francesi per la famosa Bibliothèque Nationale (BnF) di Parigi, si rimane interdetti. Il rapporto è di circa uno a venti: per la sola gestione, 4.5 milioni all’anno da noi contro i cento milioni francesi. Eppure, quanto a dotazioni, i due istituti italiani nel loro complesso equivalgono a quello parigino. Siamo attorno ai 12-14 milioni di «unità bibliografiche ». Ma è sulla questione del personale che si sono concentrate le più recenti polemiche italiane dovute alla minacciata (e in parte già realizzata) chiusura di alcuni servizi al pubblico delle nostre due maggiori biblioteche: meno di 500 impiegati tra Roma e Firenze, 2600 a Parigi. Un rapporto di 1 a 5.
Per capirci qualcosa nel dedalo delle biblioteche italiane è necessario un breve excursus storico. Che Paolo Traniello, docente di Biblioteconomia a Roma 3 e autore di numerosi saggi sull’argomento, ha ben chiaro: «Con l’Unità le varie biblioteche esistenti furono assorbite nell’amministrazione statale e oggi la situazione è rimasta quella ottocentesca». Bisogna distinguere due grandi gruppi: le biblioteche pubbliche dello Stato e le biblioteche gestite dagli enti locali, che sono diverse migliaia e la cui consistenza varia, dalla Sormani di Milano alle minuscole realtà rionali, in netta crescita. Le statali, che fanno riferimento al ministero dei Beni culturali, sono 36, tra cui istituti di grandissimo pregio (dalla Braidense alla Marciana, all’Angelica): «Nove — ricorda Traniello — portano ancora sulla carta la definizione di nazionali, perché svolgevano funzione nazionale nei rispettivi stati preunitari e diverse sono le biblioteche universitarie, che si trovano negli antichi atenei, da Pavia a Padova a Pisa».
Sono due, invece, le Nazionali a tutti gli effetti, ovvero le Nazionali centrali, quella di Firenze, che nacque nel 1861, e quella di Roma, fondata nel 1875. Che cosa significa «a tutti gli effetti»? Significa che hanno compiti che le altre non hanno: conservare l’intero patrimonio bibliografico italiano (i libri e i periodici, oltre al ricchissimo tesoro dei fondi antichi), acquisire e catalogare le nuove pubblicazioni (un flusso di 50-60 mila novità librarie e circa 300 mila numeri di testate all’anno), informare il pubblico attraverso bollettini completi. Per le nuove acquisizioni vige in Italia il diritto di deposito legale, per cui l’editore è tenuto a inviare alle due Centrali copia delle sue produzioni. Insomma, le Biblioteche nazionali rappresentano, come ovunque nel mondo, la cultura del Paese, la custodiscono e la tramandano alle generazioni future. «Il numero abnorme di biblioteche statali — precisa Traniello — è un gravame notevole sulle spalle dell’amministrazione, specie per il personale, che assorbe la gran parte degli stanziamenti ».
Nasce da qui il recente casus belli. Se da una parte le entrate per la gestione sono state decimate, è anche vero che da un decennio circa gli impiegati dei due istituti sono progressivamente diminuiti (quasi dimezzati), e i direttori faticano a mantenere gli stessi orari di servizio al pubblico. Così, dopo Roma, anche Firenze ha deciso che da luglio chiuderà la distribuzione pomeridiana, a differenza di quel che accade a Parigi, dove il servizio funziona fino alle otto di sera, domenica compresa. Due giganti moribondi e abbandonati. L’ultima preoccupazione dei politici, in questo momento. Anche se le due Nazionali ospitano quotidianamente studenti, ricercatori, studiosi: sui 700 mila in totale.
Forse sarebbe una passo avanti se l’anomalia italiana della doppia Nazionale fosse rivista: in fondo negli altri Paesi ne basta una. Ida Antonia Fontana dirige la sede di Firenze: «È difficile razionalizzare un sistema così stratificato. Anche in Germania ci sono una sede centrale a Francoforte, una distaccata a Lipsia e una sezione audiovisiva a Berlino. Caduto il Muro, i vari Stati dell’Est misero a disposizione enormi finanziamenti per costruire bellissime biblioteche nazionali: in Croazia, in Estonia… Erano la dimostrazione fisica dell’indipendenza». E da noi? «Si potrebbe dire che Roma, dove confluirono i fondi dei conventi e dei monasteri soppressi, è la biblioteca della cultura religiosa, mentre Firenze è la cultura civile. Come si fa a riunirle?».
La direttrice Fontana risale piuttosto a una «scellerata» legge del ’79 per mettere a fuoco i problemi attuali: «Si riempirono di organici i cosiddetti giacimenti culturali, facendo pervenire giovani in esubero, e da allora non sono più state fatte assunzioni». Il risultato è che il personale è invecchiato, e negli ultimi tredici anni sono andati via 150 impiegati senza essere sostituiti: «La loro esperienza e i loro saperi sono andati perduti e non sono stati trasmessi a nessuno, gli ultimi lavoratori hanno sui sessant’anni… Così si è creata una cesura incolmabile nel passaggio di competenze e si sono prodotti problemi quotidiani urgenti per mancanza di persone che possano fare anche i lavori pesanti richiesti da una struttura come la nostra, nei cui magazzini arrivano tra i 70 e i cento pacchi al giorno». Il risultato è un arretrato preoccupante nella catalogazione: 150 mila volumi e la metà delle 15 mila testate in arrivo continuo.
C’è poi il capitolo informatico: le schede digitali da compilare, un sistema SBN che offre informazioni online su un catalogo unico nazionale, il «Tesaurus» da implementare ogni sei mesi, la consapevolezza che le schede elettroniche sono più deperibili della carta. Resta il sospetto che si possa verificare uno spreco di energie se Roma e Firenze catalogano gli stessi volumi: «Già adesso le due biblioteche interagiscono — osserva Fontana — e presto andranno ad agire come polo unico, in modo che la catalogazione nostra serva a Roma e viceversa. In futuro Roma dovrebbe lavorare soprattutto sulla fruizione e noi sulla catalogazione ». Anche Traniello ritiene inutile un’eventuale riduzione a una sola Nazionale ma dice: «Potrebbero trasformarsi in una sola struttura pur mantenendo le due sedi: la cosa più importante è che le altre biblioteche vengano trasferite agli enti locali e le universitarie alle rispettive università, in modo da sgravare il ministero. È la formula adottata con successo in Spagna, dove la gestione di trenta biblioteche è passata alle comunità autonome ».
Sulla enorme sproporzione finanziaria rispetto agli altri paesi insiste Osvaldo Avallone, da sei anni direttore della Biblioteca nazionale di Roma. Avallone lamenta la riduzione del personale da 400 a 280 unità: «Andando avanti così fra dieci anni non ci sarà più nessuno e la trasmissione di saperi si perderà del tutto». Se dovesse parlare con il ministro competente? «Chiederei il ripristino delle risorse che c’erano nel 2001, in modo da recuperare la piena funzionalità della Biblioteca. Come funzionario posso solo dire che a differenza dell’Alitalia noi rappresentiamo la vera identità nazionale, la memoria storica, le radici, il presente e il futuro». Si ricade sulle colpe della politica. Con un’avvertenza: «La tradizione di insensibilità per le biblioteche è una costante di tutti i governi, senza eccezioni».
Corriere della Sera 7.6.09
La filologa Maria Luisa Meneghetti
«All’estero più rispetto del pubblico La British Library, a misura d’uomo»
Per uno studioso la Biblioteca Nazionale è una seconda casa. Per un filologo, poi... Maria Luisa Meneghetti, che insegna appunto Filologia romanza all’Università di Milano e che è stata di recente visiting professor alla Sorbona, lo sa bene. Ha frequentato le biblioteche di mezzo mondo abbastanza per fare un paragone affidabile con quelle italiane. Primo punto, la questione degli orari d’apertura, fino a tarda sera all’estero (spesso compresi sabato e domenica), fino al tardo pomeriggio in Italia. Secondo, il numero di posti a disposizione: «Da noi, bisogna cercare di arrivare in anticipo al mattino per assicurarsi un tavolo, a Parigi lo puoi persino prenotare il giorno prima». Terzo punto, le attese e la quantità di libri di libera consultazione. La nuova Bibliothèque Nationale de France, intitolata a Mitterrand, ha numerosi corridoi 250 metri per 30 con scaffalature in cui i libri sono raggiungibili dai lettori senza bisogno di compilare schede e dunque senza attese snervanti. «È l’idea di servizio che manca in Italia. Un esempio? La Nazionale di Parigi, che nella vecchia sede sta facendo dei lavori di rinnovamento, ogni settimana manda agli studiosi un bollettino per informarli sui codici antichi che non sono immediatamente disponibili».
Ma a questo proposito non siamo solo noi ad avere evidenti magagne. La vicinanza con l’Italia deve aver contagiato anche la Santa Sede, se è vero che la Biblioteca Vaticana, che per un filologo romanzo è anche più che una seconda casa, è chiusa dal luglio 2007 per lavori di ristrutturazione e chissà quando riaprirà. «Come dicevo, la vecchia sede della Nazionale di Parigi, in rue Richelieu — ricorda Maria Luisa Meneghetti — sta facendo lavori simili, ma senza chiudere un solo giorno». Per non parlare delle biblioteche inglesi e di quelle americane: «La nuova British Library è una struttura anche fisicamente molto gradevole, concepita a dimensione umana. Negli Stati Uniti persino a Urbana, nell’Illinois, c’è una biblioteca straordinaria, moderna, aggiornata, ricchissima, con una cura, un’attenzione, un rispetto del pubblico che noi possiamo solo sognarci».
Corriere della Sera 7.6.09
La curatrice Antonella Agnoli
«Templi pensati solo per studio e ricerca. Meglio aprirli alla voglia di incontrarsi»
«Le piazze del sapere» sono le biblioteche pubbliche. Ed è anche il titolo di un libro di Antonella Agnoli, appena uscito per Laterza. L’autrice ha progettato e avviato la biblioteca San Giovanni di Pesaro, di cui è stata direttore scientifico fino al marzo 2008. Un esempio all’avanguardia. E da più di un anno collabora al restyling dei cosiddetti «Idea Store » di Londra (nuove strutture per giovani tra biblioteca e svago) e a numerosi altri progetti in Italia. Si parte da un concetto molto semplice: la biblioteca pubblica, a lungo ignorata dagli amministratori pur offrendo i suoi servizi a tante medie, piccole e minuscole realtà comunali e rionali, «può diventare un luogo aperto a gruppi e associazioni, un centro di riflessione e condivisione dei saperi» per sottrarre lo spazio urbano alle sirene del consumo e del commercio. Insomma, la biblioteca intesa come crocevia sociale oltre che culturale, «luogo di coesione». Il fruitore vi troverà non il manoscritto antico, come nelle biblioteche nazionali, ma «Il Codice da Vinci» e l’ultima novità di narrativa.
«È un’idea che non piace a tutti, — dice Agnoli — perché in Italia pesa ancora il concetto di biblioteca come luogo di conservazione pensato esclusivamente per lo studio, la lettura, le ricerche. Alcuni bibliotecari sostengono persino che Internet non dovrebbe neanche esserci in biblioteca, mentre secondo me il computer può attirare non lettori e creare nuove forme di accesso e di relazione». Intanto però, in Italia, nonostante i soliti apocalittici, non mancano le esperienze interessanti, specie nel Centro e nel Nord: oltre a Pesaro, la biblioteca Salaborsa di Bologna, la Civica di Vimercate, la Panizzi di Reggio Emilia, quella nuovissima di Paderno Dugnano (Milano), quelle di Cologno Monzese, di Trento, di Modena eccetera. Gli esempi migliori vengono dal Nord Europa. Antonella Agnoli ricorda i casi di Helsinki, Rotterdam, Amsterdam ma potrebbe continuare. Strutture architettoniche nuove e confortevoli, dove quel che conta è «la panchina o la poltrona giusta» per assecondare gli stati d’animo e la voglia di incontrarsi. E non certo solo negli orari d’ufficio e nei giorni feriali.
Corriere della Sera 7.6.09
Alain Touraine «Gli americani non hanno avuto conflitti religiosi»
«Gli Usa e la Francia laici in modo diverso»
PARIGI — Stati Uniti e Francia hanno fatto la storia della democrazia e dei diritti dell’uomo. Ma in fatto di libertà e pratica religiosa le concezioni sono diverse, come emerso dagli interventi di Barack Obama e Nicolas Sarkozy. Obama: «Chi vuole portare il velo può farlo». Sarkozy: «I funzionari pubblici non devono avere segni visibili di appartenenza religiosa».
In pratica, il divieto francese riguarda soltanto lo spazio pubblico, ma le implicazioni di ordine sociale e politico sono più ampie. «Le differenze sono fondamentali e per certi aspetti paradossali », spiega Alain Touraine, professore di sociologia a Parigi, ex membro della commissione Stasi, il gruppo di saggi che contribuì alla legge sulla laicità francese, un testo che proibisce l’ostentazione di simboli religiosi in luoghi pubblici e garantisce la «neutralità » dello Stato repubblicano.
In che senso Usa e Francia sono diversi su questo terreno?
«Le differenze nascono dalla Storia dei due Paesi. La dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti gettò le basi per un ordinamento laico della società americana e per una rigorosa separazione delle autorità civili da quelle religiose. In sintesi, i legami sociali e personali sono prevalenti, nel rispetto di tutte le origini etniche e culturali. Questa separazione si è affermata più tardi in Francia, è stata rafforzata dalla Rivoluzione, è diventata la strada per emancipare la formazione delle classi dirigenti dall’influenza della Chiesa. Come si ricorderà gli ordini vennero aboliti e molti religiosi vennero espulsi. Per il posto della religione nella società si creò una situazione non molto diversa da quella prodottasi in seguito nei regimi comunisti. La legge del 1905 fu un compromesso che mise fine a un clima di guerra civile che durava da 150 anni. Quella più recente, quasi un secolo dopo, è stata dettata dalla necessità di ribadire i fondamenti dello Stato repubblicano da una deriva 'comunitaristica' (cioè di appartenenza alle varie comunità chiuse), accentuata dalla situazione complicata delle banlieue. Occorreva riaffermare la neutralità della sfera pubblica. Anche in difesa delle donne, spesso obbligate a seguire le tradizioni religiose del gruppo di appartenenza. Non va dimenticato che la Francia è stata contraria anche all’introduzione del concetto di radici cristiane nella costituzione europea».
Negli Usa invece...
«È il paradosso della storia. I legami fra politica ed etica sono divenuti sempre più importanti e rafforzano gli ideali della società americana. Sul dollaro c’è scritto 'in God we trust'. Il presidente giura sulla Bibbia, Bush andò in guerra pensando che Dio fosse dalla parte degli Stati Uniti. E Obama oggi dice cose che un presidente francese non potrebbe mai dire. Tuttavia, il legame fra politica e religione è di natura sociologica. La dichiarazione di Obama riflette una storia che non è fatta di conflitti religiosi. Ciò che unisce gli americani è l’adesione ai diritti sanciti dalla Costituzione e l’integrazione nel mercato del lavoro. Tutto il resto — religione, origine etnica, lingua, cultura, nazionalità, tradizioni — viene dopo. Per questo si affermano sia il diritto individuale, sia il diritto delle comunità ».
Differenze fondamentali, dunque.
«Fino a un certo punto. La Francia, l’Europa in generale, gli Stati Uniti sono società occidentalizzate e sempre più laiche. In Europa il tema della separazione dello Stato dalla Chiesa affonda nei secoli. D’altra parte, per effetto delle immigrazioni, la questione delle tradizioni religiose ritorna d’attualità ed è di difficile soluzione. C’è poi un paradosso francese: affermiamo la laicità, ma il comunitarismo si rafforza per altre vie, economiche e sociali. Nelle periferie, i gruppi etnici tendono ad affermare la propria identità religiosa e culturale».
Corriere della Sera 7.6.09
I suoi scritti postumi su Lévinas
Benny Lévy, l’anti-nichilista
di Bernard-Henry Lévy
Un Socrate ebreo che mette a nudo la propria parola
Come parlare di Dio dopo Nietzsche? Come parlarne, due secoli dopo la Critica kantiana, filosoficamente? Logos o Talmud? Linguaggio greco o ebraico? E se la pratica della filosofia fosse, prima di tutto, un’arte del palinsesto? Cosa pensare, in tal caso, della scrittura sepolta che i filosofi degni di questo nome instancabilmente correggono? Cos’è un debito? Perché la gratitudine, nell’ordine del pensiero, vale più della fedeltà? Cosa deve Lévinas a Sartre? E Sartre a Lévinas? Come mai toccò a un certo Pierre Victor, che ancora non era ridiventato Benny Lévy, farsi agente di collegamento fra i due?
Cos’è un maestro? Cosa ispira di più, in un pensiero, il concatenamento delle sue ragioni o il suo soffio? Se la risposta è, come sembra, il soffio, come non concludere che le grandi dottrine sono sempre letteralmente ansimanti? Che la lettura è, anche, respirazione? Che una buona lettura è dunque o una questione di soffio o, al contrario, di asfissia? Che si ha torto, nella storia delle opere, di tenere a mente soltanto ciò che è compiuto, i testi riusciti, le piste seguite fino in fondo e che sfociano in concetti ben formati? Infatti, sono almeno altrettanto interessanti, ricchi di senso e di posterità, gli abbozzi, gli appunti abbandonati, gli umili tremolii dei testi, le strozzature, gli scarti che il pensiero allontana da sé per avanzare.
Che ne è del volto: il visibile dei tratti o una traccia che svanisce? Cosa voleva dire, Lévinas, quando confidava a Derrida: me ne infischio dell’etica, m’interessa soltanto la santità? E quando confidava a uno dei suoi discepoli: tutta la filosofia del mondo può riassumersi nella sola e unica proposizione della Repubblica, quella in cui Platone stabilisce che il Bene è al di là dell’Essere? Sono queste, fra molte altre, alcune delle domande che attraversano Lévinas: Dieu et la philosophie (Verdier), un libro postumo di Benny Lévy che — come altri testi che seguiranno e che la vedova Léo Lévy sta sistemando con una precisione nella pietà che suscita ammirazione — è nato dal seminario che tenne a Gerusalemme negli ultimi anni della sua troppo breve vita.
La stampa quasi non ne parla, ed è un peccato. Poiché le 470 pagine del libro non sono soltanto la migliore introduzione al luminoso pensiero di colui — Lévinas — che fu il nostro maestro comune, ma anche un’opera di filosofia vivente firmata Benny Lévy, un nome di cui ancora non si è misurato il peso specifico che ha avuto nel secolo. Parlo naturalmente del XX secolo. Il secolo di ferro e di sangue, l’età delle tenebre che ha visto spegnersi, di volta in volta e insieme, i lumi della Ragione, la fede nella Filosofia e la fiducia in una Storia che dovrebbe dare senso alle nostre vite.
Quella di Benny Lévy è un’opera rara, essenzialmente orale, dove un Socrate ebreo mette a nudo la propria vivida parola strofinandola con quella della compagnia di discepoli che lo scortarono nella sua ultima avventura. E dove nell’ardore di questa interlocuzione, lungo le ventitré sedute di una purificazione dell’intelligenza e dello spirito, nell’ardore di una scalata verso l’essenziale e verso l’Unico, il cui solo veicolo era l’«accanimento nelle parole », affila, arrota, martella la lama delle proprie risposte a quello che non chiamava nichilismo, ma gli assomigliava singolarmente.
Superare il nichilismo? Scongiurarne l’impasse? Liberarsene? Tentare di comprendere quali siano i mezzi (teorici, pratici) di cui disponiamo quando decidiamo di non rassegnarci ai pensieri deboli, pietosamente moralizzanti, minimi, che pretendono di portare un rimedio alla devastazione? I miei lettori cominciano a saperlo: ai miei occhi, questo è più che mai l’unico compito che sia valido per il pensiero. Ebbene, oggi li informo che avranno difficoltà a trovare, nel mezzo di questo cammino, nella foresta oscura che è l’ignoranza contemporanea e dove, come dice il Poeta, la retta via sembra perduta, miglior guida e miglior conforto dei libri occultati di Benny Lévy.
(Traduzione di Daniela Maggioni)
il Riformista 7.6.09
La Pietà sfregiata
L'arrivo di Satana in un presagio
Sacri indizi. Fu Paolo VI a dire che il fumo del Demonio era entrato nelle fessure del tempio di Dio. Un segno lo insospettì. Altri fatti lo convinsero. Questo e molto altro in una biografia del «Papa amletico» in uscita per Mondadori.
di Paolo Rodari
29 giugno 1972. Omelia nella festa dei santi Pietro e Paolo: «Ho la sensazione che da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio. C'è il dubbio, l'incertezza, la problematica, l'inquietudine, l'insoddisfazione, il confronto. Non ci si fida della Chiesa… Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza… Crediamo in qualche cosa di preternaturale (il Diavolo) venuto nel mondo proprio a turbare, per soffocare, i frutti del Concilio Ecumenico e per impedire che la Chiesa prorompesse nell'inno di gioia di aver riavuto in pienezza la coscienza di sé».
15 novembre 1972. Udienza generale: «Uno dei bisogni maggiori della Chiesa è la difesa da quel male che chiamiamo Demonio. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa… Esce dal quadro dell'insegnamento biblico ed ecclesiastico chi si rifiuta di riconoscerla esistente… È il nemico numero uno, è il tentatore per eccellenza. Sappiamo che questo essere oscuro e conturbante esiste davvero e con proditoria astuzia agisce ancora: è il nemico occulto che semina errori e sventure nella storia umana». 3 febbraio 1977. Udienza generale: «Non è meraviglia se la Scrittura acerbamente ci ammonisce che "tutto il mondo giace sotto il potere del Maligno"».
Siamo agli sgoccioli del pontificato di Paolo VI. Papa Giovanni Battista Montini ripete, quasi ossessivamente, un solo concetto: la Chiesa è sotto l'attacco di Satana, il tentatore, un essere oscuro realmente esistente. Parole, quelle di Montini, ricordate in uno degli ultimi capitoli d'una biografia in uscita per Mondadori (Le Scie) e firmata dal vaticanista del Giornale Andrea Tornielli: Paolo VI. L'audacia di un papa (pp.728, euro 28). Una biografia basata su documenti inediti scovati in archivi ancora non esplorati. Una biografia che in uno dei suoi punti più avvincenti, proprio di Satana tratta. O meglio, del perché il successore del popolarissimo Giovanni XXIII e insieme predecessore del grande Giovanni Paolo II, Paolo VI appunto - «Paolo mesto», «Papa amletico», come lo ribattezzarono - si trovò a parlare più volte del Diavolo, avvertendone la presenza nel marasma post conciliare.
Perché questo continuo riferirsi a Satana? Tutto iniziò il 21 maggio 1972. Un episodio grave: un geologo australiano di origini ungheresi, instabile di mente, Laszlo Toth, dopo aver eluso la sorveglianza si arrampica sulla Pietà di Michelangelo e la sfigura con quindici colpi. La Pietà subisce danni seri ma non irreparabili. Montini, tuttavia, è sconvolto. Percepisce l'attentato come un segno, un presagio. Fu da quel mese di maggio che cominciò a parlare della presenza di Satana nella Chiesa.
Ne parlò anche in colloqui privati. Utili per capire come, al di là dell'episodio della Pietà, quando parlava del demonio Montini pensasse a fatti precisi, a circostanze concrete che la sua Chiesa stava attraversando nel difficilissimo periodo dell'immediato post Concilio.
Anzitutto la crisi dei preti: in molti abbandonavano l'abito: «Satana agisce - disse al vescovo Bernardo Citterio -. Non è possibile arrivare a tanta malvagità senza l'influsso di una forza prenaturale che insidia l'uomo e lo rovina».
Quindi il problema degli abusi liturgici: «Parlando di Satana - rivelò il cardinale Virgilio Noè - Montini pensava a tutti quei preti che della santa messa facevano paglia in nome della creatività»: persone «possedute da vanagloria e dalla superbia del Maligno».
Fu alla fine del 1975 che Paolo VI prese una decisione clamorosa. Rimosse - senza promuoverlo - uno dei protagonisti della riforma liturgica del post Concilio: l'arcivescovo Annibale Bugnini, spostato dalla curia romana direttamente in Iran, come pro nunzio. Allontanato senza preavviso. Bugnini si convinse che venne spostato a motivo di una vera e propria congiura imbastita su documenti che riportavano una sua presunta appartenenza massonica. Era un momento particolare per la curia romana: lotte sotterranee, combattute a suon di dossier, si sprecavano. Ma, a conti fatti, Bugnini non comprese il vero motivo dell'allontanamento: non tanto il contenuto del dossier, quanto, come disse l'allora segretario di Stato Jean-Marie Villot, il fatto «che nella riforma liturgica alcune cose vennero nascoste al Papa».
Erano anni difficili. Il Satana di Montini sembrava davvero presente un po' ovunque: preti in aperto contrasto con la Chiesa e il Papa. Una riforma liturgica che lo stesso Paolo VI non riuscì a gestire come probabilmente avrebbe voluto. Il referendum abrogativo della legge sul divorzio che lacerò il mondo cattolico: Montini si accorse d'incanto della massiccia secolarizzazione in atto. La rottura con l'arcivescovo tradizionalista Marcel Lefebvre. La sospensione a divinis dell'abate di San Paolo fuori le Mura, Giovanni Franzoni. Le accuse al Papa d'aver avuto una relazione con l'attore teatrale Paolo Carlini mosse dallo scrittore omosessuale francese Roger Peyrefitte. E poi le voci intorno alle possibili dimissioni proprio del Pontefice. Lo stesso Paolo VI, nel 1976, «meditò seriamente di dimettersi», scrive Tornielli. Non lo fece. E chissà se se ne penti quando, poco dopo, nel 1978, a pochi mesi dalla morte, dovette attraversare uno dei casi più devastanti nella storia della Repubblica italiana: il rapimento e la morte di Aldo Moro: «Tra i brigatisti coinvolti nel rapimento - spiega Tornielli - c'era il figlio di un dipendente del Vaticano dal Papa ben conosciuto, del quale aveva celebrato il matrimonio».
Come se non bastasse, un altro pesante macigno sul cuore. In Italia si sta per arrivare all'approvazione della legge sull'aborto. Montini è particolarmente colpito dalle voci di dissenso sull'argomento che si sollevano all'interno della Chiesa: articoli in favore di un ammorbidimento della dottrina cattolica antiabortista vengono pubblicati dalla rivista dei gesuiti francesi Études, mentre in Italia è il gruppo di padre Ernesto Balducci ad affermare che non si può imporre alla donna di generare contro la sua volontà.
Dopo l'introduzione del divorzio in Italia, una scossa che aveva dimostrato come il paese fosse cambiato, la messa in discussione del valore inviolabile della vita nascente amareggia profondamente il Pontefice, le cui condizioni di salute si vanno visibilmente deteriorando. Per Montini è l'inizio della fine. Apparentemente sembra la vittoria del Demonio, di quel Demonio il cui fumo era già precedentemente entrato nel tempio di Dio, attraverso una qualche fessura.
l’Unità 7.6.09
Fare Mondi
Mummie e visioni a Venezia, ecco una Biennale bifronte
di Renato Barilli
Confesso che ero partito col proposito di elevare l’ennesima denuncia contro la supremazia oggi accordata ai cosiddetti ««curators», a detrimento degli storici e critici dell’arte, nel condurre le grandi rassegne internazionali: figure preoccupate più che altro di rispettare un albo di Gotha di presenze già acquisite, e assai poco di prendere per mano i visitatori nel tentativo di fargli comprendere che cosa sta succedendo nell’arte. E Daniel Birnbaum, il direttore della 53ma Biennale di Venezia, da questo punto di vista è un super-curatore, svedese di origine ma con solida entratura nella New York della rivista principe, Art forum, che a sua volta è alla testa di una sorta di aesthetical correctness da difendere coi denti.
Criptico o ovvio il titolo che Birnbaum ha dato globalmente alla sua Biennale, quel «fare mondi», che appunto è ovvio se visto dalla parte degli artisti, cui spetta per diritto di proporre ciascuno un proprio mondo, mentre l’organizzatore delle rassegne dovrebbe andare a scoprire i mondi altrui, e soprattutto illustrarli a chi sta dall’altra parte. Dei due contenitori classici che spettano da tempo al direttore delle Biennali, uno, il Padiglione centrale dei Giardini, risponde in pieno a questa qualifica, sotto la regia di Birnbaum si presenta davvero come un’arca di valori stabiliti, non tutti esaltanti.
A cominciare da John Baldessari, il quasi ottantenne artista statunitense a cui è stato dato il Leon d’oro alla carriera, ma è figura di serie B, ben altri sarebbero i campioni statunitensi da riconoscere, e infatti il premiato se l’è cavata trasformando la facciata del Padiglione in una specie di cartolina turistica di specie Pop, senza l’aiuto di quelle scritte concettuali che in genere rendono più vivace il suo lavoro.
Invece ben dato l’alto Leon d’oro alla carriera, a Yoko Ono, inesausta sperimentatrice che si è lasciata sempre trasportare dal movimento detto per antonomasia Fluxus. Poi vengono tanti altri cadaveri nell’armadio, magari anche giusti, ma della cui evocazione non si avvertiva un bisogno particolare: Oyvind Fahlström, magnifico antagonista europeo ai fastigi della Pop statunitense, il nostro Gino De Domenicis, già peraltro ricordato in tante altre Biennali, e qui fatto oggetto di un omaggio abborracciato, tanto da indurre la proprietaria dell’opera, Lia Rumma, a chiederne il ritiro. E non sapeva, Birnbaum che il gruppo giapponese Gutai aveva avuto di recente a Milano una giusta ripresentazione? E c’era bisogno di rinnovare le glorie un po’ polverose di Palermo, o di Matta-Clark, o del duo Gilbert & George, o di Wolfgang Tillmans?
Fa poi tenerezza il ricordo rivolto a Cadere, morto precocemente, che era stato quasi una mascotte, un piccolo evento segnaletico, grazie alle sue mazze multicolori con cui scorazzava nelle varie mostre ufficiali. Qui ora le incontriamo quasi in ogni sala, quasi a costituire una guida ottica, una sigla di riconoscimento.
Insomma, citazioni, omaggi d’obbligo, senza alcun tentativo di andare a vedere se da quegli esempi siano partiti filoni di ricerca ancora attuali e utili. In mezzo, ci stanno anche le novità, in qualche caso assai stimolanti, si vedano, nel vestibolo le ragnatele, o i soffioni giganteschi dell’argentino Tomas Saracino, o il bel teatro delle ombre del tedesco Hans-Peter Feldmann. Ma che ci fanno queste visioni solleticanti nel regno delle mummie, delle vecchie glorie spente e inanimate?
Però, devo ammetterlo, se ci si sposta all’Arsenale, tutto cambia, sarà merito della magia del posto, degli antri misteriosi a un tempo ma massimamente fungibili delle Corderie, il più bel luogo espositivo del mondo, certo è che qui compare lo spettacolo, aperto da quel magnifico istrione che è Michelangelo Pistoletto, i cui specchi non sono una citazione mortuaria del suo passato, in quanto li rivisita, li va a infrangere a colpi di mazza, ricavandone belle ragnatele di casualità. E al suo seguito ci sono davvero i giovani, convenuti da tutte le parti del pianeta.
In un maxivideo il messicano Héctor Zamora fa scorre nel cielo di Venezia uno sciame di dirigibili, come tanti UFO allarmanti; l’indiana Sheela Gowda intreccia un passato atavico e tribale con una speranza di futuro industriale, ovvero dei veri capelli sottratti a tante povere donne vanno a fasciare i parafanghi di automobili, pegno di uno sviluppo futuro del paese. Dal medesimo motivo delle auto il tedesco Thoma Bayrle trae suggestive carte da parato, con un testa-coda, per cui l’irreprensibile design supertecnico diviene una preziosa filigrana decorativa. La russa Anya Zhould fa uscir fuori dalle pareti dei tondini metallici distorti, inquieti, quasi a uncinare lo spazio. Le africane Moshekwa Langa e Pascale Marthine Thayou accumulano i loro mercatini, pletorici, pittoreschi, invadenti, ma tanto efficaci.
E finalmente ci sono anche ottime presenze italiane, le immagini video di Grazia Toderi, come sempre misteriche, cosmiche, o invece gli indecifrabili innesti grafici, tra l’organico e l’inorganico, di Simone Berti.
Repubblica 7.7.09
Václav Havel: "Io, rivoluzionario riluttante"
di Nicola Lombardozzi
Vent´anni fa, sulla scia del crollo del Muro e dei regimi comunisti europei, Praga conobbe la sua "Rivoluzione di velluto", senza spargimento di sangue. L´uomo che ne fu al centro, lo scrittore Václav Havel, che poi ricoprì per tre volte la carica di presidente, rievoca per noi i giorni cruciali in cui una folla disarmata scrisse la Storia
Io non aspiravo a cariche politiche Mi sono sentito come in teatro quando sei un attor giovane e si scopre che non ci sono più gli interpreti principali. E allora che fa l´attor giovane? Sale sul palcoscenico e dà il meglio di sé
PRAGA. Birra gelata alle dieci del mattino. L´ideale per ripensare al passato, tirare qualche bilancio, scacciare qualche rimpianto. Václav Havel sorseggia piano, ritorna a una mattina di novembre di vent´anni fa. Faceva freddo. La Letna, la collina sulla Moldava di fronte al vecchio ghetto ebraico, era piena come nessuno l´aveva mai vista, «nemmeno nelle adunate di partito del Primo maggio». Dicono fossero in trecentomila, «ma a noi interessava di più contare gli altri, i soldati, la polizia, quelle truppe speciali che ci avevano già ucciso un sogno ventun anni prima. Anche allora avrebbero potuto scatenare la violenza, chiudere la pratica con qualche carica, magari nel sangue. E poi spiegare tutto al mondo attraverso i giornali e la tv di regime così abili nel manipolare la verità, la storia stessa. Certo, la gente era tanta e l´entusiasmo cresceva. Mai visti tanti giovani. Studenti, apprendisti operai, forse anche militari in licenza. Disarmati però, e lo gridavamo forte: Máme holé ruce! Abbiamo le mani nude. Urlavamo contro i comunisti, contro il governo del segretario generale Gustáv Husák, che sicuramente ci stava osservando lassù dal Castello. E quelle finestre che sembravano chiuse facevano paura. Era appena crollato il Muro a Berlino, erano successe cose epocali in Polonia, in Ungheria, ma dal Castello poteva ancora partire un ordine e la nostra speranza sarebbe stata spazzata via. Insomma lo spettro del ´68 era ancora lì sopra di noi».
L´ordine non arrivò. L´entusiasmo della folla cresceva, gli agenti antisommossa rimanevano al loro posto indifferenti. Qualcuno sembrava perfino lanciare sguardi di solidarietà a quei coetanei che si sbracciavano dalla parte opposta della barricata. «Forse era solo suggestione, vedevamo le cose come volevamo che fossero. Ma fu lì che ci rendemmo conto che era fatta. Improvvisamente, senza un comando, senza un perché, il nostro slogan cambiò: Soudruzi, koncime! È finita compagni! È finita. Venne fuori spontaneo, dal cuore e non fu più mai smentito. Il traguardo era raggiunto, e questa volta non saremmo più tornati indietro».
Il resto è l´epopea della Rivoluzione di velluto, il corteo di fiaccole e cori che si sposta nella sera a piazza Venceslao - quella del sacrificio di Jan Palach - la folla che invoca Hável. Lo scrittore dissidente, scarcerato qualche giorno prima, che prende la parola tra applausi e urla di gioia. Cita Palach, Dubcek, e poi gli amici arrestati con lui e prima di lui. La gente piange di gioia, canta e balla fino all´alba per le stesse strade dove i tank di Mosca avevano cancellato nel sangue la Primavera del ´68. E la voce della folla comincia a lanciare un altro messaggio ma questa volta senza rabbia, con toni gioiosi da festa allo stadio: Hável na Hrad! Havel al Castello. È di fatto l´acclamazione popolare alla presidenza della Repubblica, che arriverà ufficialmente solo qualche settimana dopo.
Ma l´autocelebrazione non fa parte del personaggio. Hável se ne accorge, interrompe il racconto, riacquista l´aria da intellettuale timido e un po´ svagato che è il suo marchio di fabbrica nelle apparizioni pubbliche. «Che dovevo fare? Io non aspiravo, non ho mai aspirato, a cariche politiche, non ho fondato partiti né tantomeno creato ideologie. Mi sono sentito come in teatro quando sei un attor giovane e si scopre che non ci sono più gli interpreti principali. In quel momento cadeva un blocco di potere, finiva un´epoca. Sulla scena servivano politici democratici. E dove li trovavi i politici democratici nella Cecoslovacchia del 1989? Insomma era la classica situazione storica in cui i grandi cambiamenti politici possono essere fatti solo dai non politici. E allora che fa l´attor giovane? Sale sul palcoscenico e dà il meglio di sé».
Su quella notte di gloria e di lacrime di commozione i retroscena si sprecano. Husák, si disse, aveva chiesto il parere di Gorbaciov prima di lanciare l´ordine tanto temuto di sedare la rivolta. Il Cremlino aveva risposto in maniera molto diversa che nel ´68, invitando i compagni cèchi a non mettersi contro il popolo e a trattare un´uscita di scena più indolore possibile. Hável riconosce il ruolo importante di Gorbaciov, ma non gli riesce proprio di considerarlo l´artefice del crollo sovietico. «Non voglio sminuire il suo ruolo. La glasnost e la perestrojka hanno avviato un processo che ha distrutto l´impero sovietico, questo è certo. Ma non credo che le mire di Gorbaciov si spingessero a tanto. Mi è sembrato come un cuoco che vuol fare uscire un po´ di vapore da una pentola a pressione. Ha sollevato di un tantino il coperchio, ma questo gli è sfuggito di mano ed è volato via. Insomma, voleva solo dare un po´ di respiro ai popoli oppressi, ma questi sono andati avanti da soli e molto al di là delle sue previsioni. Se non lo avesse fatto lui, prima o poi lo avrebbe fatto qualcun altro. In ogni caso è stato bravo a non cedere mai alla tentazione di usare le maniere forti. Ha evitato spargimenti di sangue e di questo dobbiamo essergli grati».
Adesso Václav Havel, dopo tre mandati da presidente (prima della Cecoslovacchia, poi della Repubblica Ceca dopo la scissione consensuale con Bratislava), non è del tutto soddisfatto di come sono andate le cose. Lui nega, minimizza com´è nel suo stile, ma c´è uno spot che si vede molto in questi giorni per le tv e per i cinema cechi che la dice lunga. Pubblicizza le manifestazioni per il ventennale della Rivoluzione e lo interpreta lui stesso vestito da medico, anzi da ostetrico. Porta in una nursery una nidiata di neonati dormienti. Li sveglia con un battito delle mani e dice: «Siete nati vent´anni fa. Adesso datevi da fare, tocca a voi».
Forse i giovani del 2009 non le sembrano all´altezza di quelli dell´89? «No, semmai è un invito a prendere l´iniziativa, anche politica. Non credo che tra le generazioni ci siano differenze genetiche. Ognuna ha più o meno la stessa percentuale di intelligenza, di idiozia, di cultura, di senso di responsabilità. Ma questi giovani, che non hanno vissuto il nostro passato, sono più leggeri di noi, non devono sopportare quel peso che ci imponeva il regime comunista, quella totale mancanza di fiducia in noi stessi che ci paralizzava, quell´assurdo ma profondo complesso di inferiorità nei confronti dell´Occidente».
E a questi giovani lei vorrebbe chiedere di più? «Li vorrei più impegnati. Proprio l´altro giorno ho tenuto una conferenza davanti a milleduecento studenti universitari. Tante domande, tanto interesse, ma quando ho chiesto: chi di voi vuole fare politica attiva?, hanno alzato la mano appena in tre. D´altra parte è un momento così in tutto il mondo. I nostri giovani, dei paesi ex comunisti intendo, danno per scontate quelle che sono state conquiste epocali. Siamo nella Ue, nella Nato, abbiamo una democrazia parlamentare, libera stampa e libera opinione, alla frontiera non ci viene nemmeno chiesto di rallentare… A loro sembra tutto ovvio, ma non è stato così facile. Però non sono pessimista, sento che i valori morali ci sono, che l´impegno prima o poi verrà, che la nuova generazione riuscirà a soppiantare la nostra. Io mi ripeto sempre che solo le nuove leve possono fare cambiamenti importanti, nel bene o nel male. E mi ripasso mentalmente questa tabella: 1918, Cecoslovacchia indipendente; 1938, Patto di Monaco e sottomissione al nazismo; 1948, golpe comunista; 1968, la nostra Primavera finita nel sangue; 1989, la Rivoluzione di velluto. Insomma la cadenza è sempre quella di una generazione».
E che cambiamenti si aspetta? «Vorrei meno miopia, meno tecnocraticismo. I politici della vecchia guardia pensano solo al prossimo turno elettorale. Occorre tornare a guardare più lontano, a scadenze di almeno cinquant´anni e questo solo i giovani possono farlo». E intanto, mentre si pensa al futuro, il passato, ogni tanto, ritorna: gli ex comunisti vincono spesso le elezioni nei Paesi dell´ex Patto di Varsavia, anche a Praga i partiti che hanno reclutato figure quasi dimenticate di comunisti di un tempo, volano nei sondaggi. Hável non sembra preoccupato, gli pare una reazione quasi inevitabile: «La libertà è faticosa. Molta gente, sotto il regime, si era abituata all´idea che lo Stato pensasse a tutto e ti seguisse dalla culla alla tomba. Orribile sì, ma dava un senso di falsa sicurezza che ad ogni difficoltà ti scopri a rimpiangere. A chi non ha voglia o coraggio di prendere iniziative i comunisti offrono una ricetta facile facile e, riconosco, molto tentatrice: di te si occuperà lo Stato, non hai bisogno di preoccuparti e nemmeno di pensare. Quando ero Presidente mi rinfacciavano i senzatetto nelle periferie. C´è povertà, mi dicevano. Ma non era vero. Lo sviluppo economico era assai migliore di prima. La verità è che i senzatetto non si erano mai visti prima per il semplice motivo che lavorare era obbligatorio. Chi si rifiutava, andava in galera. Sono stato in carcere e ne ho conosciute di persone di quel tipo».
Troppo facile Presidente, non vorrà dire che non si sono compiuti errori in questi vent´anni di libertà? «Ma certo che se ne sono fatti. Ci siamo trovati, e altri Paesi molto più di noi, davanti a turbolenze che non ci saremmo mai aspettati e che abbiamo gestito con difficoltà. E poi la storia non è finita, come aveva predetto qualcuno, con la caduta del Muro. Adesso ci sono nuovi pericoli che prima non pensavamo nemmeno esistessero: i terrorismi, il disastro climatico, le diseguaglianze sociali. Per questo io aspetto una nuova leva di politici che si prepari a ragionare in grande». Sembra l´identikit di Obama. La sua elezione ha portato molto entusiasmo e non solo in America. In fondo un presidente nero alla Casa Bianca era impensabile più o meno come vent´anni fa un dissidente carcerato insediato nel castello di Praga. Sorride, finisce la sua birra. «Sì, il paragone regge. Ma nessuno può fare miracoli. Ho incontrato da poco Obama: mi è sembrato simpatico, intelligente e soprattutto capace di ascoltare. Cosa che i politici non fanno quasi mai. Ma con affetto gli ho detto di guardarsi dall´eccessivo entusiasmo dei suoi sostenitori. Ho visto che in Europa in molti lo considerano come un nuovo Mosè… In politica, quando ci si aspetta troppo, si passa bruscamente all´avversione e addirittura all´odio se qualcosa non va per il verso giusto. Mi sono preso la soddisfazione di dare un consiglio al fenomeno del momento, ma credo che lo avesse già capito da solo».
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Terra 7.6.09
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l’Unità 7.6.09
Parlar male di Berlusconi
La strage di notizie è già in atto se si pensa ai molti giornali che non hanno pubblicato le immagini indecenti del premier alla parata
di Furio Colombo
Perché non possiamo non dirci antiberlusconiani, qualunque sia il risultato elettorale (che speriamo largamente democratico, nel senso politico, nel senso di antifascista, nel senso che Marco Pannella ha ridato alla abusata parola)? La ragione si esprime in pochi punti.
1. L’ideologia, ovvero il patrimonio di idee e di visioni che Berlusconi ha trovato abbandonati sul terreno quando è “ sceso in campo”, non c’entra. Questo non è un governo di destra. Non c’è il decoro e il senso delle istituzioni della Destra di Gianfranco Fini, né la concitazione aggressiva e xenofoba della Lega Nord che - in tante diverse incarnazioni - avvelena il clima morale e politico di mezza Europa. Berlusconi non è né Fini né Bossi. È solo se stesso. Un signore ricco, furbo, non intelligente ma svelto, svincolato dal peso della buona reputazione e ricoperto dal manto - tutto teatrale però efficace - del successo populista. Non c’è nulla prima di Berlusconi, nulla che gli assomigli. Non ci sarà nulla dopo di lui (certo non il devoto Bondi). Abbiamo a che fare con un caso unico in Europa e raro nella storia. Non è raro il leader squilibrato. È rara una così vasta sottomissione delle cosiddette classi dirigenti.
2. È vero (cito ancora Marco Pannella) che malgoverno e malaffare hanno a lungo lavorato insieme in Italia ben prima dell’uomo di Arcore. Ma sono confortato dal grido di allarme del leader radicale che, invece di scusarsi per l’antiberlusconismo dichiara, col consueto coraggio, che c’è un vero e imminente pericolo di fascismo e che la persecuzione delle persone segue, non precede, la strage di notizie. Questa strage è già in atto se pensate ai molti grandi giornali che non hanno osato pubblicare le immagini di comportamento indecente del premier alla parata del 2 giugno. Più ancora, se si ricorda a che punto estremo di manifestazione e di denuncia i nonviolenti Pannella e Bonino sono dovuti arrivare per rompere il silenzio.
3. Chiunque può avere, per un periodo, un ministro inutile come Brunetta; un capo dell’Economia impegnato a scrutare un altro orizzonte, non quello vero, come Tremonti; un finto ministro dell’Istruzione come la Gelmini (memorabile l’invenzione del 6 rosso) di cui si ricorderanno solo il tailleur alla Mary Poppins, gli occhiali e i tagli poderosi alla scuola pubblica. Ma nessuno ha avuto e continua ad avere per quindici anni un uomo troppo ricco, non nel pieno controllo del suo comportamento pubblico (la vivacità eccessiva certe volte lo aiuta, certe volte lo sputtana) e preoccupato solo di se stesso, immagine, donne (nei limiti e con la pena dell’età), e finti progetti, uno o due al giorno, annunciati e poi buttati, in un delirio di applausi che - ci siano o non ci siano gli oppositori - ad un certo punto cesserà di colpo.
4. Berlusconi siede sul groviglio dell’immondizia, del terremoto, della crisi economica senza governare. Tutte le sue leggi sono ritorsioni, punizioni, vendette, volute e votate per interesse aziendale o personale o tributo a un partito feudatario, come il disumano e incivile «pacchetto sicurezza», vero best seller di condanne nel mondo civile laico e religioso. In particolare non si registra una legge o misura o azione o strategia anticrisi che non sia una esortazione all’ottimismo e al consumo. La parola d’ordine del non-governo Berlusconi è «lavorare di più», ammonimento diretto non si sa a chi, date le cifre continuamente in crescita della disoccupazione. Lo dice mentre lo affianca la neoministro del Turismo Brambilla, di cui non si sa nulla, eccetto il colore vistoso dei capelli, e che non può far nulla in un Paese che affoga nell’immondizia e nel cemento. Infatti, nel frattempo, incombe sulla Toscana l’immensa colata di cemento detta «Spaccamaremma», l’inutile autostrada destinata a isolare la regione italiana più celebre al mondo dal suo mare (la colata di asfalto e cemento corre lungo le spiagge). E incombe su tutto il Paese il «piano casa». È un singolare condono preventivo che autorizza ciascuno al peggio, senza autorizzazioni, senza controlli, senza regole. Ma questo è il cuore del discorso. Berlusconi, da solo, siede sul Paese. Come se non bastasse lancia una frase squilibrata al giorno. L’ultima è “troppi negri a Milano”, nell’anno, nel giorno, nell’ora dello straordinario discorso al Cairo di Barack Obama, primo Presidente afro-americano degli Stati Uniti. Sua moglie - che deve averci pensato molto - ci dice che non sta bene. Alcuni italiani lo ammirano perché è ricco e sono sicuri che non usa aerei di Stato per ballerine di flamenco e chitarristi personali. Altri - come Pannella - vedono e dicono chiaro il pericolo. In Italia manca l’ossigeno delle notizie vere. Il piede sul tubo è quello di Berlusconi.
l’Unità 7.6.09
Fiestas e foto «pikante»
Così lo vedono all’estero
di Federica Fantozzi
I giornali esteri non li legge nessuno, nemmeno le popolazioni di quei Paesi». È la frase un tantino generica ma chiara con cui Berlusconi ha liquidato l’eco mondiale del Papi-gate. Che però non accenna a spegnersi: inconsapevoli della propria scarsa diffusione, giornali e siti di tutto il mondo, da Time al Bangkok Post, dalla Voz de Galizia a Wales Online, affrontano l’argomento. E persino su Al Jazeera online appaiono, sia pure molto piccole, le foto dei topless a Villa Certosa acquistate dal Paìs.
Malvisto dagli altri. Sotto questo titolo Internazionale raccoglie un grappolo di feroci articoli, con commento di Marc Lazar: «L’affermazione di Berlusconi può essere considerata il trionfo dei difetti dell’Italia e degli italiani: la scarsa coscienza civile, la mancanza di tradizione democratica, la prevalenza degli interessi particolari sui collettivi». The Independent vaglia le ipotesi su Noemi «figlia, amante o elemento decorativo alle feste... sogno proibito di un 72enne con problemi alla prostata» e teme che la festa del G8 potrà essere rovinata: «Berlusconi sta scoprendo a sue spese che non può manovrare la stampa estera come quella italiana». Il Times denuncia «un pagliaccio sciovinista... che frequenta donne con 50 anni meno di lui», un «anziano casanova» che «umilia la moglie». Citando la gaffe di Frattini che «ha infelicemente cercato di aiutarlo facendo notare che in Italia l’età del consenso scatta a 14 anni».
La tedesca Faz ironizza: non solo principe rinascimentale ma Giove che scese dall’Olimpo per incontrare «quell’ochetta di Leda» facendo infuriare Giunone. Bagnasco invita a occuparsi della propria coscienza? «Ma così non scopriremo mai se è successo qualcosa». Per la spagnola Vanguardia il Cavaliere è «un marpione che porta in giro il suo corpo plurioperato» con «la coscienza rifatta col botulino come la sua faccia».
Sultani e flamenco. Le Monde spiega come «la vita privata di Silvio ha occultato la campagna elettorale... Ama comportarsi come un sultano facendo venire nella sua villa ogni tipo di persone utili al suo divertimento». The Guardian dà risalto alla presenza dell’ex premier ceco Topolanek nudo che «ha trasformato uno scandalo italiano in uno internazionale». A corredo, la foto di due anziani milanesi che si passano la copia del Paìs ridendo. E «Foto in topless a casa Berlusconi» è il titolo del Times of India come del sito malese The Star.
«No spice thank you». Niente rapporti piccanti, siamo anglosassoni. Il settimanale Usa Time sbertuccia la vicenda di «nudità e seminudità da piscina» dove le immagini di per sé non sono scandalose, «si potrebbero vedere in infinite ville lungo il Mediterraneo», ma «il contesto è tutto». Tra soap opera pubblica e gossip bollente: «Gli italiani - come noi - non possono smettere di guardare». E l’occhio di un veterano dei paparazzi ad alto rischio, Zappadu, ha immortalato ospiti di rango in mezzo a «un contingente di ragazze». Così, mentre Topolanek grida al fotomontaggio, il quotidiano ceco Hospodarske Noviny scrive che «si è trovato a fare da alibi a un donnaiolo». El Mundo online titola: «Italia in piena polemica per le foto delle fiestas di Berlusconi». «Fotos pikante» strilla la Bild. Sul Mirror la smorfia del premier: «Giura di dimettersi se ha mentito». The Australian: «Silvio dice: foto nude ma innocenti».
l’Unità 7.6.09
La bioetica e il diritto
di Luigi Manconi, Andrea Boraschi
Lunghe e faticose battaglie hanno affermato, nella nostra cultura, l’idea di “maternità consapevole”. Lontani come siamo dal veder tradotta quella istanza in forme mediche e di welfare consolidate e diffuse, che garantiscano pienamente la donna, oggi vediamo che i confini della bioetica chiamano in causa anche il diritto maschile a una scelta genitoriale cosciente.
Il Tribunale di Vigevano ha respinto la richiesta di una donna di accedere alla procreazione medicalmente assistita per avere un figlio dal marito, ricoverato in coma alla fondazione Maugeri di Pavia. La richiesta era stata sollecitata dal padre dell’uomo, in qualità di tutore; ed è stata rigettata in virtù del fatto che, dalle testimonianze raccolte, non è stato possibile - a parere dei giudici – ricostruire la chiara volontà dell’uomo di diventare padre.
Una seconda questione la solleva Chiara Lalli, con grande lucidità, nel suo blog. Ha a che vedere con la legge 40 e con i recenti pronunciamenti della Corte Costituzionale nel merito di alcuni passaggi di quella normativa. In particolare, la caduta dell’obbligo a «un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre», rende possibile crioconservare quegli embrioni che non vengono usati al primo tentativo; o tutti quelli prodotti se, per qualche ragione, il medico ritenesse opportuno rimandare l’impianto. Ovviamente nelle procedure di fecondazione assistita è contemplato il consenso informato e la possibilità, per entrambi gli aspiranti genitori, di revocare la loro volontà; ma, qui sta la bizzarria, ciò è possibile solo fino alla fecondazione dell’ovulo (e non, come in pressoché tutte le altre legislazioni, fino all’impianto dell’embrione). Lalli ci propone l’ipotesi di una coppia – Anna e Mario - che si rivolge a un centro per la fecondazione producendo 7 embrioni; 2 vengono utilizzati per un primo e inutile tentativo, gli altri 5 conservati per un secondo intervento che si rende necessario procrastinare. Nel lasso di tempo che separa quel primo tentativo da quello a venire i due interrompono la loro relazione; ma stante la legge italiana Anna ha diritto all’impianto degli embrioni, anche contro il volere di Mario che non può più ritirare il suo consenso. E ciò in direzione perfettamente contraria a quanto stabilito dalla Corte di Strasburgo riguardo a una controversia simile: una donna inglese si era rivolta a quella Corte invocando l’articolo 2 della Convenzione per la protezione dei diritti umani, domandando che si estendesse la tutela del “diritto alla vita” agli embrioni di cui chiedeva l’impianto contro il volere dell’uomo. I giudici respinsero la sua richiesta.
Scrivere a: info@italiarazzismo.it
Corriere della Sera 7.6.09
L’abbandono delle Biblioteche nazionali
4,5 milioni di euro annui per la gestione complessiva di roma e Firenze
100 milioni annui per la gestione di Parigi
A Roma e Firenze 14 milioni di volumi, come a Parigi Ma l’Italia stanzia venti volte meno per la gestione
di Paolo Di Stefano
Deposito legale Gli editori devono inviare alle due Centrali copia della produzione: 60 mila novità l’anno
Prestito Servizio solo al mattino, mentre in Francia sale aperte fino a sera E si pensa di superare l’eredità ottocentesca scegliendo un’unica sede
Le cifre, nella loro brutalità, dicono già molto. E confrontando, a titolo di esempio, gli stanziamenti dello Stato italiano per le due Biblioteche nazionali centrali, di Roma e Firenze, con quelli francesi per la famosa Bibliothèque Nationale (BnF) di Parigi, si rimane interdetti. Il rapporto è di circa uno a venti: per la sola gestione, 4.5 milioni all’anno da noi contro i cento milioni francesi. Eppure, quanto a dotazioni, i due istituti italiani nel loro complesso equivalgono a quello parigino. Siamo attorno ai 12-14 milioni di «unità bibliografiche ». Ma è sulla questione del personale che si sono concentrate le più recenti polemiche italiane dovute alla minacciata (e in parte già realizzata) chiusura di alcuni servizi al pubblico delle nostre due maggiori biblioteche: meno di 500 impiegati tra Roma e Firenze, 2600 a Parigi. Un rapporto di 1 a 5.
Per capirci qualcosa nel dedalo delle biblioteche italiane è necessario un breve excursus storico. Che Paolo Traniello, docente di Biblioteconomia a Roma 3 e autore di numerosi saggi sull’argomento, ha ben chiaro: «Con l’Unità le varie biblioteche esistenti furono assorbite nell’amministrazione statale e oggi la situazione è rimasta quella ottocentesca». Bisogna distinguere due grandi gruppi: le biblioteche pubbliche dello Stato e le biblioteche gestite dagli enti locali, che sono diverse migliaia e la cui consistenza varia, dalla Sormani di Milano alle minuscole realtà rionali, in netta crescita. Le statali, che fanno riferimento al ministero dei Beni culturali, sono 36, tra cui istituti di grandissimo pregio (dalla Braidense alla Marciana, all’Angelica): «Nove — ricorda Traniello — portano ancora sulla carta la definizione di nazionali, perché svolgevano funzione nazionale nei rispettivi stati preunitari e diverse sono le biblioteche universitarie, che si trovano negli antichi atenei, da Pavia a Padova a Pisa».
Sono due, invece, le Nazionali a tutti gli effetti, ovvero le Nazionali centrali, quella di Firenze, che nacque nel 1861, e quella di Roma, fondata nel 1875. Che cosa significa «a tutti gli effetti»? Significa che hanno compiti che le altre non hanno: conservare l’intero patrimonio bibliografico italiano (i libri e i periodici, oltre al ricchissimo tesoro dei fondi antichi), acquisire e catalogare le nuove pubblicazioni (un flusso di 50-60 mila novità librarie e circa 300 mila numeri di testate all’anno), informare il pubblico attraverso bollettini completi. Per le nuove acquisizioni vige in Italia il diritto di deposito legale, per cui l’editore è tenuto a inviare alle due Centrali copia delle sue produzioni. Insomma, le Biblioteche nazionali rappresentano, come ovunque nel mondo, la cultura del Paese, la custodiscono e la tramandano alle generazioni future. «Il numero abnorme di biblioteche statali — precisa Traniello — è un gravame notevole sulle spalle dell’amministrazione, specie per il personale, che assorbe la gran parte degli stanziamenti ».
Nasce da qui il recente casus belli. Se da una parte le entrate per la gestione sono state decimate, è anche vero che da un decennio circa gli impiegati dei due istituti sono progressivamente diminuiti (quasi dimezzati), e i direttori faticano a mantenere gli stessi orari di servizio al pubblico. Così, dopo Roma, anche Firenze ha deciso che da luglio chiuderà la distribuzione pomeridiana, a differenza di quel che accade a Parigi, dove il servizio funziona fino alle otto di sera, domenica compresa. Due giganti moribondi e abbandonati. L’ultima preoccupazione dei politici, in questo momento. Anche se le due Nazionali ospitano quotidianamente studenti, ricercatori, studiosi: sui 700 mila in totale.
Forse sarebbe una passo avanti se l’anomalia italiana della doppia Nazionale fosse rivista: in fondo negli altri Paesi ne basta una. Ida Antonia Fontana dirige la sede di Firenze: «È difficile razionalizzare un sistema così stratificato. Anche in Germania ci sono una sede centrale a Francoforte, una distaccata a Lipsia e una sezione audiovisiva a Berlino. Caduto il Muro, i vari Stati dell’Est misero a disposizione enormi finanziamenti per costruire bellissime biblioteche nazionali: in Croazia, in Estonia… Erano la dimostrazione fisica dell’indipendenza». E da noi? «Si potrebbe dire che Roma, dove confluirono i fondi dei conventi e dei monasteri soppressi, è la biblioteca della cultura religiosa, mentre Firenze è la cultura civile. Come si fa a riunirle?».
La direttrice Fontana risale piuttosto a una «scellerata» legge del ’79 per mettere a fuoco i problemi attuali: «Si riempirono di organici i cosiddetti giacimenti culturali, facendo pervenire giovani in esubero, e da allora non sono più state fatte assunzioni». Il risultato è che il personale è invecchiato, e negli ultimi tredici anni sono andati via 150 impiegati senza essere sostituiti: «La loro esperienza e i loro saperi sono andati perduti e non sono stati trasmessi a nessuno, gli ultimi lavoratori hanno sui sessant’anni… Così si è creata una cesura incolmabile nel passaggio di competenze e si sono prodotti problemi quotidiani urgenti per mancanza di persone che possano fare anche i lavori pesanti richiesti da una struttura come la nostra, nei cui magazzini arrivano tra i 70 e i cento pacchi al giorno». Il risultato è un arretrato preoccupante nella catalogazione: 150 mila volumi e la metà delle 15 mila testate in arrivo continuo.
C’è poi il capitolo informatico: le schede digitali da compilare, un sistema SBN che offre informazioni online su un catalogo unico nazionale, il «Tesaurus» da implementare ogni sei mesi, la consapevolezza che le schede elettroniche sono più deperibili della carta. Resta il sospetto che si possa verificare uno spreco di energie se Roma e Firenze catalogano gli stessi volumi: «Già adesso le due biblioteche interagiscono — osserva Fontana — e presto andranno ad agire come polo unico, in modo che la catalogazione nostra serva a Roma e viceversa. In futuro Roma dovrebbe lavorare soprattutto sulla fruizione e noi sulla catalogazione ». Anche Traniello ritiene inutile un’eventuale riduzione a una sola Nazionale ma dice: «Potrebbero trasformarsi in una sola struttura pur mantenendo le due sedi: la cosa più importante è che le altre biblioteche vengano trasferite agli enti locali e le universitarie alle rispettive università, in modo da sgravare il ministero. È la formula adottata con successo in Spagna, dove la gestione di trenta biblioteche è passata alle comunità autonome ».
Sulla enorme sproporzione finanziaria rispetto agli altri paesi insiste Osvaldo Avallone, da sei anni direttore della Biblioteca nazionale di Roma. Avallone lamenta la riduzione del personale da 400 a 280 unità: «Andando avanti così fra dieci anni non ci sarà più nessuno e la trasmissione di saperi si perderà del tutto». Se dovesse parlare con il ministro competente? «Chiederei il ripristino delle risorse che c’erano nel 2001, in modo da recuperare la piena funzionalità della Biblioteca. Come funzionario posso solo dire che a differenza dell’Alitalia noi rappresentiamo la vera identità nazionale, la memoria storica, le radici, il presente e il futuro». Si ricade sulle colpe della politica. Con un’avvertenza: «La tradizione di insensibilità per le biblioteche è una costante di tutti i governi, senza eccezioni».
Corriere della Sera 7.6.09
La filologa Maria Luisa Meneghetti
«All’estero più rispetto del pubblico La British Library, a misura d’uomo»
Per uno studioso la Biblioteca Nazionale è una seconda casa. Per un filologo, poi... Maria Luisa Meneghetti, che insegna appunto Filologia romanza all’Università di Milano e che è stata di recente visiting professor alla Sorbona, lo sa bene. Ha frequentato le biblioteche di mezzo mondo abbastanza per fare un paragone affidabile con quelle italiane. Primo punto, la questione degli orari d’apertura, fino a tarda sera all’estero (spesso compresi sabato e domenica), fino al tardo pomeriggio in Italia. Secondo, il numero di posti a disposizione: «Da noi, bisogna cercare di arrivare in anticipo al mattino per assicurarsi un tavolo, a Parigi lo puoi persino prenotare il giorno prima». Terzo punto, le attese e la quantità di libri di libera consultazione. La nuova Bibliothèque Nationale de France, intitolata a Mitterrand, ha numerosi corridoi 250 metri per 30 con scaffalature in cui i libri sono raggiungibili dai lettori senza bisogno di compilare schede e dunque senza attese snervanti. «È l’idea di servizio che manca in Italia. Un esempio? La Nazionale di Parigi, che nella vecchia sede sta facendo dei lavori di rinnovamento, ogni settimana manda agli studiosi un bollettino per informarli sui codici antichi che non sono immediatamente disponibili».
Ma a questo proposito non siamo solo noi ad avere evidenti magagne. La vicinanza con l’Italia deve aver contagiato anche la Santa Sede, se è vero che la Biblioteca Vaticana, che per un filologo romanzo è anche più che una seconda casa, è chiusa dal luglio 2007 per lavori di ristrutturazione e chissà quando riaprirà. «Come dicevo, la vecchia sede della Nazionale di Parigi, in rue Richelieu — ricorda Maria Luisa Meneghetti — sta facendo lavori simili, ma senza chiudere un solo giorno». Per non parlare delle biblioteche inglesi e di quelle americane: «La nuova British Library è una struttura anche fisicamente molto gradevole, concepita a dimensione umana. Negli Stati Uniti persino a Urbana, nell’Illinois, c’è una biblioteca straordinaria, moderna, aggiornata, ricchissima, con una cura, un’attenzione, un rispetto del pubblico che noi possiamo solo sognarci».
Corriere della Sera 7.6.09
La curatrice Antonella Agnoli
«Templi pensati solo per studio e ricerca. Meglio aprirli alla voglia di incontrarsi»
«Le piazze del sapere» sono le biblioteche pubbliche. Ed è anche il titolo di un libro di Antonella Agnoli, appena uscito per Laterza. L’autrice ha progettato e avviato la biblioteca San Giovanni di Pesaro, di cui è stata direttore scientifico fino al marzo 2008. Un esempio all’avanguardia. E da più di un anno collabora al restyling dei cosiddetti «Idea Store » di Londra (nuove strutture per giovani tra biblioteca e svago) e a numerosi altri progetti in Italia. Si parte da un concetto molto semplice: la biblioteca pubblica, a lungo ignorata dagli amministratori pur offrendo i suoi servizi a tante medie, piccole e minuscole realtà comunali e rionali, «può diventare un luogo aperto a gruppi e associazioni, un centro di riflessione e condivisione dei saperi» per sottrarre lo spazio urbano alle sirene del consumo e del commercio. Insomma, la biblioteca intesa come crocevia sociale oltre che culturale, «luogo di coesione». Il fruitore vi troverà non il manoscritto antico, come nelle biblioteche nazionali, ma «Il Codice da Vinci» e l’ultima novità di narrativa.
«È un’idea che non piace a tutti, — dice Agnoli — perché in Italia pesa ancora il concetto di biblioteca come luogo di conservazione pensato esclusivamente per lo studio, la lettura, le ricerche. Alcuni bibliotecari sostengono persino che Internet non dovrebbe neanche esserci in biblioteca, mentre secondo me il computer può attirare non lettori e creare nuove forme di accesso e di relazione». Intanto però, in Italia, nonostante i soliti apocalittici, non mancano le esperienze interessanti, specie nel Centro e nel Nord: oltre a Pesaro, la biblioteca Salaborsa di Bologna, la Civica di Vimercate, la Panizzi di Reggio Emilia, quella nuovissima di Paderno Dugnano (Milano), quelle di Cologno Monzese, di Trento, di Modena eccetera. Gli esempi migliori vengono dal Nord Europa. Antonella Agnoli ricorda i casi di Helsinki, Rotterdam, Amsterdam ma potrebbe continuare. Strutture architettoniche nuove e confortevoli, dove quel che conta è «la panchina o la poltrona giusta» per assecondare gli stati d’animo e la voglia di incontrarsi. E non certo solo negli orari d’ufficio e nei giorni feriali.
Corriere della Sera 7.6.09
Alain Touraine «Gli americani non hanno avuto conflitti religiosi»
«Gli Usa e la Francia laici in modo diverso»
PARIGI — Stati Uniti e Francia hanno fatto la storia della democrazia e dei diritti dell’uomo. Ma in fatto di libertà e pratica religiosa le concezioni sono diverse, come emerso dagli interventi di Barack Obama e Nicolas Sarkozy. Obama: «Chi vuole portare il velo può farlo». Sarkozy: «I funzionari pubblici non devono avere segni visibili di appartenenza religiosa».
In pratica, il divieto francese riguarda soltanto lo spazio pubblico, ma le implicazioni di ordine sociale e politico sono più ampie. «Le differenze sono fondamentali e per certi aspetti paradossali », spiega Alain Touraine, professore di sociologia a Parigi, ex membro della commissione Stasi, il gruppo di saggi che contribuì alla legge sulla laicità francese, un testo che proibisce l’ostentazione di simboli religiosi in luoghi pubblici e garantisce la «neutralità » dello Stato repubblicano.
In che senso Usa e Francia sono diversi su questo terreno?
«Le differenze nascono dalla Storia dei due Paesi. La dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti gettò le basi per un ordinamento laico della società americana e per una rigorosa separazione delle autorità civili da quelle religiose. In sintesi, i legami sociali e personali sono prevalenti, nel rispetto di tutte le origini etniche e culturali. Questa separazione si è affermata più tardi in Francia, è stata rafforzata dalla Rivoluzione, è diventata la strada per emancipare la formazione delle classi dirigenti dall’influenza della Chiesa. Come si ricorderà gli ordini vennero aboliti e molti religiosi vennero espulsi. Per il posto della religione nella società si creò una situazione non molto diversa da quella prodottasi in seguito nei regimi comunisti. La legge del 1905 fu un compromesso che mise fine a un clima di guerra civile che durava da 150 anni. Quella più recente, quasi un secolo dopo, è stata dettata dalla necessità di ribadire i fondamenti dello Stato repubblicano da una deriva 'comunitaristica' (cioè di appartenenza alle varie comunità chiuse), accentuata dalla situazione complicata delle banlieue. Occorreva riaffermare la neutralità della sfera pubblica. Anche in difesa delle donne, spesso obbligate a seguire le tradizioni religiose del gruppo di appartenenza. Non va dimenticato che la Francia è stata contraria anche all’introduzione del concetto di radici cristiane nella costituzione europea».
Negli Usa invece...
«È il paradosso della storia. I legami fra politica ed etica sono divenuti sempre più importanti e rafforzano gli ideali della società americana. Sul dollaro c’è scritto 'in God we trust'. Il presidente giura sulla Bibbia, Bush andò in guerra pensando che Dio fosse dalla parte degli Stati Uniti. E Obama oggi dice cose che un presidente francese non potrebbe mai dire. Tuttavia, il legame fra politica e religione è di natura sociologica. La dichiarazione di Obama riflette una storia che non è fatta di conflitti religiosi. Ciò che unisce gli americani è l’adesione ai diritti sanciti dalla Costituzione e l’integrazione nel mercato del lavoro. Tutto il resto — religione, origine etnica, lingua, cultura, nazionalità, tradizioni — viene dopo. Per questo si affermano sia il diritto individuale, sia il diritto delle comunità ».
Differenze fondamentali, dunque.
«Fino a un certo punto. La Francia, l’Europa in generale, gli Stati Uniti sono società occidentalizzate e sempre più laiche. In Europa il tema della separazione dello Stato dalla Chiesa affonda nei secoli. D’altra parte, per effetto delle immigrazioni, la questione delle tradizioni religiose ritorna d’attualità ed è di difficile soluzione. C’è poi un paradosso francese: affermiamo la laicità, ma il comunitarismo si rafforza per altre vie, economiche e sociali. Nelle periferie, i gruppi etnici tendono ad affermare la propria identità religiosa e culturale».
Corriere della Sera 7.6.09
I suoi scritti postumi su Lévinas
Benny Lévy, l’anti-nichilista
di Bernard-Henry Lévy
Un Socrate ebreo che mette a nudo la propria parola
Come parlare di Dio dopo Nietzsche? Come parlarne, due secoli dopo la Critica kantiana, filosoficamente? Logos o Talmud? Linguaggio greco o ebraico? E se la pratica della filosofia fosse, prima di tutto, un’arte del palinsesto? Cosa pensare, in tal caso, della scrittura sepolta che i filosofi degni di questo nome instancabilmente correggono? Cos’è un debito? Perché la gratitudine, nell’ordine del pensiero, vale più della fedeltà? Cosa deve Lévinas a Sartre? E Sartre a Lévinas? Come mai toccò a un certo Pierre Victor, che ancora non era ridiventato Benny Lévy, farsi agente di collegamento fra i due?
Cos’è un maestro? Cosa ispira di più, in un pensiero, il concatenamento delle sue ragioni o il suo soffio? Se la risposta è, come sembra, il soffio, come non concludere che le grandi dottrine sono sempre letteralmente ansimanti? Che la lettura è, anche, respirazione? Che una buona lettura è dunque o una questione di soffio o, al contrario, di asfissia? Che si ha torto, nella storia delle opere, di tenere a mente soltanto ciò che è compiuto, i testi riusciti, le piste seguite fino in fondo e che sfociano in concetti ben formati? Infatti, sono almeno altrettanto interessanti, ricchi di senso e di posterità, gli abbozzi, gli appunti abbandonati, gli umili tremolii dei testi, le strozzature, gli scarti che il pensiero allontana da sé per avanzare.
Che ne è del volto: il visibile dei tratti o una traccia che svanisce? Cosa voleva dire, Lévinas, quando confidava a Derrida: me ne infischio dell’etica, m’interessa soltanto la santità? E quando confidava a uno dei suoi discepoli: tutta la filosofia del mondo può riassumersi nella sola e unica proposizione della Repubblica, quella in cui Platone stabilisce che il Bene è al di là dell’Essere? Sono queste, fra molte altre, alcune delle domande che attraversano Lévinas: Dieu et la philosophie (Verdier), un libro postumo di Benny Lévy che — come altri testi che seguiranno e che la vedova Léo Lévy sta sistemando con una precisione nella pietà che suscita ammirazione — è nato dal seminario che tenne a Gerusalemme negli ultimi anni della sua troppo breve vita.
La stampa quasi non ne parla, ed è un peccato. Poiché le 470 pagine del libro non sono soltanto la migliore introduzione al luminoso pensiero di colui — Lévinas — che fu il nostro maestro comune, ma anche un’opera di filosofia vivente firmata Benny Lévy, un nome di cui ancora non si è misurato il peso specifico che ha avuto nel secolo. Parlo naturalmente del XX secolo. Il secolo di ferro e di sangue, l’età delle tenebre che ha visto spegnersi, di volta in volta e insieme, i lumi della Ragione, la fede nella Filosofia e la fiducia in una Storia che dovrebbe dare senso alle nostre vite.
Quella di Benny Lévy è un’opera rara, essenzialmente orale, dove un Socrate ebreo mette a nudo la propria vivida parola strofinandola con quella della compagnia di discepoli che lo scortarono nella sua ultima avventura. E dove nell’ardore di questa interlocuzione, lungo le ventitré sedute di una purificazione dell’intelligenza e dello spirito, nell’ardore di una scalata verso l’essenziale e verso l’Unico, il cui solo veicolo era l’«accanimento nelle parole », affila, arrota, martella la lama delle proprie risposte a quello che non chiamava nichilismo, ma gli assomigliava singolarmente.
Superare il nichilismo? Scongiurarne l’impasse? Liberarsene? Tentare di comprendere quali siano i mezzi (teorici, pratici) di cui disponiamo quando decidiamo di non rassegnarci ai pensieri deboli, pietosamente moralizzanti, minimi, che pretendono di portare un rimedio alla devastazione? I miei lettori cominciano a saperlo: ai miei occhi, questo è più che mai l’unico compito che sia valido per il pensiero. Ebbene, oggi li informo che avranno difficoltà a trovare, nel mezzo di questo cammino, nella foresta oscura che è l’ignoranza contemporanea e dove, come dice il Poeta, la retta via sembra perduta, miglior guida e miglior conforto dei libri occultati di Benny Lévy.
(Traduzione di Daniela Maggioni)
il Riformista 7.6.09
La Pietà sfregiata
L'arrivo di Satana in un presagio
Sacri indizi. Fu Paolo VI a dire che il fumo del Demonio era entrato nelle fessure del tempio di Dio. Un segno lo insospettì. Altri fatti lo convinsero. Questo e molto altro in una biografia del «Papa amletico» in uscita per Mondadori.
di Paolo Rodari
29 giugno 1972. Omelia nella festa dei santi Pietro e Paolo: «Ho la sensazione che da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio. C'è il dubbio, l'incertezza, la problematica, l'inquietudine, l'insoddisfazione, il confronto. Non ci si fida della Chiesa… Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza… Crediamo in qualche cosa di preternaturale (il Diavolo) venuto nel mondo proprio a turbare, per soffocare, i frutti del Concilio Ecumenico e per impedire che la Chiesa prorompesse nell'inno di gioia di aver riavuto in pienezza la coscienza di sé».
15 novembre 1972. Udienza generale: «Uno dei bisogni maggiori della Chiesa è la difesa da quel male che chiamiamo Demonio. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa… Esce dal quadro dell'insegnamento biblico ed ecclesiastico chi si rifiuta di riconoscerla esistente… È il nemico numero uno, è il tentatore per eccellenza. Sappiamo che questo essere oscuro e conturbante esiste davvero e con proditoria astuzia agisce ancora: è il nemico occulto che semina errori e sventure nella storia umana». 3 febbraio 1977. Udienza generale: «Non è meraviglia se la Scrittura acerbamente ci ammonisce che "tutto il mondo giace sotto il potere del Maligno"».
Siamo agli sgoccioli del pontificato di Paolo VI. Papa Giovanni Battista Montini ripete, quasi ossessivamente, un solo concetto: la Chiesa è sotto l'attacco di Satana, il tentatore, un essere oscuro realmente esistente. Parole, quelle di Montini, ricordate in uno degli ultimi capitoli d'una biografia in uscita per Mondadori (Le Scie) e firmata dal vaticanista del Giornale Andrea Tornielli: Paolo VI. L'audacia di un papa (pp.728, euro 28). Una biografia basata su documenti inediti scovati in archivi ancora non esplorati. Una biografia che in uno dei suoi punti più avvincenti, proprio di Satana tratta. O meglio, del perché il successore del popolarissimo Giovanni XXIII e insieme predecessore del grande Giovanni Paolo II, Paolo VI appunto - «Paolo mesto», «Papa amletico», come lo ribattezzarono - si trovò a parlare più volte del Diavolo, avvertendone la presenza nel marasma post conciliare.
Perché questo continuo riferirsi a Satana? Tutto iniziò il 21 maggio 1972. Un episodio grave: un geologo australiano di origini ungheresi, instabile di mente, Laszlo Toth, dopo aver eluso la sorveglianza si arrampica sulla Pietà di Michelangelo e la sfigura con quindici colpi. La Pietà subisce danni seri ma non irreparabili. Montini, tuttavia, è sconvolto. Percepisce l'attentato come un segno, un presagio. Fu da quel mese di maggio che cominciò a parlare della presenza di Satana nella Chiesa.
Ne parlò anche in colloqui privati. Utili per capire come, al di là dell'episodio della Pietà, quando parlava del demonio Montini pensasse a fatti precisi, a circostanze concrete che la sua Chiesa stava attraversando nel difficilissimo periodo dell'immediato post Concilio.
Anzitutto la crisi dei preti: in molti abbandonavano l'abito: «Satana agisce - disse al vescovo Bernardo Citterio -. Non è possibile arrivare a tanta malvagità senza l'influsso di una forza prenaturale che insidia l'uomo e lo rovina».
Quindi il problema degli abusi liturgici: «Parlando di Satana - rivelò il cardinale Virgilio Noè - Montini pensava a tutti quei preti che della santa messa facevano paglia in nome della creatività»: persone «possedute da vanagloria e dalla superbia del Maligno».
Fu alla fine del 1975 che Paolo VI prese una decisione clamorosa. Rimosse - senza promuoverlo - uno dei protagonisti della riforma liturgica del post Concilio: l'arcivescovo Annibale Bugnini, spostato dalla curia romana direttamente in Iran, come pro nunzio. Allontanato senza preavviso. Bugnini si convinse che venne spostato a motivo di una vera e propria congiura imbastita su documenti che riportavano una sua presunta appartenenza massonica. Era un momento particolare per la curia romana: lotte sotterranee, combattute a suon di dossier, si sprecavano. Ma, a conti fatti, Bugnini non comprese il vero motivo dell'allontanamento: non tanto il contenuto del dossier, quanto, come disse l'allora segretario di Stato Jean-Marie Villot, il fatto «che nella riforma liturgica alcune cose vennero nascoste al Papa».
Erano anni difficili. Il Satana di Montini sembrava davvero presente un po' ovunque: preti in aperto contrasto con la Chiesa e il Papa. Una riforma liturgica che lo stesso Paolo VI non riuscì a gestire come probabilmente avrebbe voluto. Il referendum abrogativo della legge sul divorzio che lacerò il mondo cattolico: Montini si accorse d'incanto della massiccia secolarizzazione in atto. La rottura con l'arcivescovo tradizionalista Marcel Lefebvre. La sospensione a divinis dell'abate di San Paolo fuori le Mura, Giovanni Franzoni. Le accuse al Papa d'aver avuto una relazione con l'attore teatrale Paolo Carlini mosse dallo scrittore omosessuale francese Roger Peyrefitte. E poi le voci intorno alle possibili dimissioni proprio del Pontefice. Lo stesso Paolo VI, nel 1976, «meditò seriamente di dimettersi», scrive Tornielli. Non lo fece. E chissà se se ne penti quando, poco dopo, nel 1978, a pochi mesi dalla morte, dovette attraversare uno dei casi più devastanti nella storia della Repubblica italiana: il rapimento e la morte di Aldo Moro: «Tra i brigatisti coinvolti nel rapimento - spiega Tornielli - c'era il figlio di un dipendente del Vaticano dal Papa ben conosciuto, del quale aveva celebrato il matrimonio».
Come se non bastasse, un altro pesante macigno sul cuore. In Italia si sta per arrivare all'approvazione della legge sull'aborto. Montini è particolarmente colpito dalle voci di dissenso sull'argomento che si sollevano all'interno della Chiesa: articoli in favore di un ammorbidimento della dottrina cattolica antiabortista vengono pubblicati dalla rivista dei gesuiti francesi Études, mentre in Italia è il gruppo di padre Ernesto Balducci ad affermare che non si può imporre alla donna di generare contro la sua volontà.
Dopo l'introduzione del divorzio in Italia, una scossa che aveva dimostrato come il paese fosse cambiato, la messa in discussione del valore inviolabile della vita nascente amareggia profondamente il Pontefice, le cui condizioni di salute si vanno visibilmente deteriorando. Per Montini è l'inizio della fine. Apparentemente sembra la vittoria del Demonio, di quel Demonio il cui fumo era già precedentemente entrato nel tempio di Dio, attraverso una qualche fessura.
l’Unità 7.6.09
Fare Mondi
Mummie e visioni a Venezia, ecco una Biennale bifronte
di Renato Barilli
Confesso che ero partito col proposito di elevare l’ennesima denuncia contro la supremazia oggi accordata ai cosiddetti ««curators», a detrimento degli storici e critici dell’arte, nel condurre le grandi rassegne internazionali: figure preoccupate più che altro di rispettare un albo di Gotha di presenze già acquisite, e assai poco di prendere per mano i visitatori nel tentativo di fargli comprendere che cosa sta succedendo nell’arte. E Daniel Birnbaum, il direttore della 53ma Biennale di Venezia, da questo punto di vista è un super-curatore, svedese di origine ma con solida entratura nella New York della rivista principe, Art forum, che a sua volta è alla testa di una sorta di aesthetical correctness da difendere coi denti.
Criptico o ovvio il titolo che Birnbaum ha dato globalmente alla sua Biennale, quel «fare mondi», che appunto è ovvio se visto dalla parte degli artisti, cui spetta per diritto di proporre ciascuno un proprio mondo, mentre l’organizzatore delle rassegne dovrebbe andare a scoprire i mondi altrui, e soprattutto illustrarli a chi sta dall’altra parte. Dei due contenitori classici che spettano da tempo al direttore delle Biennali, uno, il Padiglione centrale dei Giardini, risponde in pieno a questa qualifica, sotto la regia di Birnbaum si presenta davvero come un’arca di valori stabiliti, non tutti esaltanti.
A cominciare da John Baldessari, il quasi ottantenne artista statunitense a cui è stato dato il Leon d’oro alla carriera, ma è figura di serie B, ben altri sarebbero i campioni statunitensi da riconoscere, e infatti il premiato se l’è cavata trasformando la facciata del Padiglione in una specie di cartolina turistica di specie Pop, senza l’aiuto di quelle scritte concettuali che in genere rendono più vivace il suo lavoro.
Invece ben dato l’alto Leon d’oro alla carriera, a Yoko Ono, inesausta sperimentatrice che si è lasciata sempre trasportare dal movimento detto per antonomasia Fluxus. Poi vengono tanti altri cadaveri nell’armadio, magari anche giusti, ma della cui evocazione non si avvertiva un bisogno particolare: Oyvind Fahlström, magnifico antagonista europeo ai fastigi della Pop statunitense, il nostro Gino De Domenicis, già peraltro ricordato in tante altre Biennali, e qui fatto oggetto di un omaggio abborracciato, tanto da indurre la proprietaria dell’opera, Lia Rumma, a chiederne il ritiro. E non sapeva, Birnbaum che il gruppo giapponese Gutai aveva avuto di recente a Milano una giusta ripresentazione? E c’era bisogno di rinnovare le glorie un po’ polverose di Palermo, o di Matta-Clark, o del duo Gilbert & George, o di Wolfgang Tillmans?
Fa poi tenerezza il ricordo rivolto a Cadere, morto precocemente, che era stato quasi una mascotte, un piccolo evento segnaletico, grazie alle sue mazze multicolori con cui scorazzava nelle varie mostre ufficiali. Qui ora le incontriamo quasi in ogni sala, quasi a costituire una guida ottica, una sigla di riconoscimento.
Insomma, citazioni, omaggi d’obbligo, senza alcun tentativo di andare a vedere se da quegli esempi siano partiti filoni di ricerca ancora attuali e utili. In mezzo, ci stanno anche le novità, in qualche caso assai stimolanti, si vedano, nel vestibolo le ragnatele, o i soffioni giganteschi dell’argentino Tomas Saracino, o il bel teatro delle ombre del tedesco Hans-Peter Feldmann. Ma che ci fanno queste visioni solleticanti nel regno delle mummie, delle vecchie glorie spente e inanimate?
Però, devo ammetterlo, se ci si sposta all’Arsenale, tutto cambia, sarà merito della magia del posto, degli antri misteriosi a un tempo ma massimamente fungibili delle Corderie, il più bel luogo espositivo del mondo, certo è che qui compare lo spettacolo, aperto da quel magnifico istrione che è Michelangelo Pistoletto, i cui specchi non sono una citazione mortuaria del suo passato, in quanto li rivisita, li va a infrangere a colpi di mazza, ricavandone belle ragnatele di casualità. E al suo seguito ci sono davvero i giovani, convenuti da tutte le parti del pianeta.
In un maxivideo il messicano Héctor Zamora fa scorre nel cielo di Venezia uno sciame di dirigibili, come tanti UFO allarmanti; l’indiana Sheela Gowda intreccia un passato atavico e tribale con una speranza di futuro industriale, ovvero dei veri capelli sottratti a tante povere donne vanno a fasciare i parafanghi di automobili, pegno di uno sviluppo futuro del paese. Dal medesimo motivo delle auto il tedesco Thoma Bayrle trae suggestive carte da parato, con un testa-coda, per cui l’irreprensibile design supertecnico diviene una preziosa filigrana decorativa. La russa Anya Zhould fa uscir fuori dalle pareti dei tondini metallici distorti, inquieti, quasi a uncinare lo spazio. Le africane Moshekwa Langa e Pascale Marthine Thayou accumulano i loro mercatini, pletorici, pittoreschi, invadenti, ma tanto efficaci.
E finalmente ci sono anche ottime presenze italiane, le immagini video di Grazia Toderi, come sempre misteriche, cosmiche, o invece gli indecifrabili innesti grafici, tra l’organico e l’inorganico, di Simone Berti.
Repubblica 7.7.09
Václav Havel: "Io, rivoluzionario riluttante"
di Nicola Lombardozzi
Vent´anni fa, sulla scia del crollo del Muro e dei regimi comunisti europei, Praga conobbe la sua "Rivoluzione di velluto", senza spargimento di sangue. L´uomo che ne fu al centro, lo scrittore Václav Havel, che poi ricoprì per tre volte la carica di presidente, rievoca per noi i giorni cruciali in cui una folla disarmata scrisse la Storia
Io non aspiravo a cariche politiche Mi sono sentito come in teatro quando sei un attor giovane e si scopre che non ci sono più gli interpreti principali. E allora che fa l´attor giovane? Sale sul palcoscenico e dà il meglio di sé
PRAGA. Birra gelata alle dieci del mattino. L´ideale per ripensare al passato, tirare qualche bilancio, scacciare qualche rimpianto. Václav Havel sorseggia piano, ritorna a una mattina di novembre di vent´anni fa. Faceva freddo. La Letna, la collina sulla Moldava di fronte al vecchio ghetto ebraico, era piena come nessuno l´aveva mai vista, «nemmeno nelle adunate di partito del Primo maggio». Dicono fossero in trecentomila, «ma a noi interessava di più contare gli altri, i soldati, la polizia, quelle truppe speciali che ci avevano già ucciso un sogno ventun anni prima. Anche allora avrebbero potuto scatenare la violenza, chiudere la pratica con qualche carica, magari nel sangue. E poi spiegare tutto al mondo attraverso i giornali e la tv di regime così abili nel manipolare la verità, la storia stessa. Certo, la gente era tanta e l´entusiasmo cresceva. Mai visti tanti giovani. Studenti, apprendisti operai, forse anche militari in licenza. Disarmati però, e lo gridavamo forte: Máme holé ruce! Abbiamo le mani nude. Urlavamo contro i comunisti, contro il governo del segretario generale Gustáv Husák, che sicuramente ci stava osservando lassù dal Castello. E quelle finestre che sembravano chiuse facevano paura. Era appena crollato il Muro a Berlino, erano successe cose epocali in Polonia, in Ungheria, ma dal Castello poteva ancora partire un ordine e la nostra speranza sarebbe stata spazzata via. Insomma lo spettro del ´68 era ancora lì sopra di noi».
L´ordine non arrivò. L´entusiasmo della folla cresceva, gli agenti antisommossa rimanevano al loro posto indifferenti. Qualcuno sembrava perfino lanciare sguardi di solidarietà a quei coetanei che si sbracciavano dalla parte opposta della barricata. «Forse era solo suggestione, vedevamo le cose come volevamo che fossero. Ma fu lì che ci rendemmo conto che era fatta. Improvvisamente, senza un comando, senza un perché, il nostro slogan cambiò: Soudruzi, koncime! È finita compagni! È finita. Venne fuori spontaneo, dal cuore e non fu più mai smentito. Il traguardo era raggiunto, e questa volta non saremmo più tornati indietro».
Il resto è l´epopea della Rivoluzione di velluto, il corteo di fiaccole e cori che si sposta nella sera a piazza Venceslao - quella del sacrificio di Jan Palach - la folla che invoca Hável. Lo scrittore dissidente, scarcerato qualche giorno prima, che prende la parola tra applausi e urla di gioia. Cita Palach, Dubcek, e poi gli amici arrestati con lui e prima di lui. La gente piange di gioia, canta e balla fino all´alba per le stesse strade dove i tank di Mosca avevano cancellato nel sangue la Primavera del ´68. E la voce della folla comincia a lanciare un altro messaggio ma questa volta senza rabbia, con toni gioiosi da festa allo stadio: Hável na Hrad! Havel al Castello. È di fatto l´acclamazione popolare alla presidenza della Repubblica, che arriverà ufficialmente solo qualche settimana dopo.
Ma l´autocelebrazione non fa parte del personaggio. Hável se ne accorge, interrompe il racconto, riacquista l´aria da intellettuale timido e un po´ svagato che è il suo marchio di fabbrica nelle apparizioni pubbliche. «Che dovevo fare? Io non aspiravo, non ho mai aspirato, a cariche politiche, non ho fondato partiti né tantomeno creato ideologie. Mi sono sentito come in teatro quando sei un attor giovane e si scopre che non ci sono più gli interpreti principali. In quel momento cadeva un blocco di potere, finiva un´epoca. Sulla scena servivano politici democratici. E dove li trovavi i politici democratici nella Cecoslovacchia del 1989? Insomma era la classica situazione storica in cui i grandi cambiamenti politici possono essere fatti solo dai non politici. E allora che fa l´attor giovane? Sale sul palcoscenico e dà il meglio di sé».
Su quella notte di gloria e di lacrime di commozione i retroscena si sprecano. Husák, si disse, aveva chiesto il parere di Gorbaciov prima di lanciare l´ordine tanto temuto di sedare la rivolta. Il Cremlino aveva risposto in maniera molto diversa che nel ´68, invitando i compagni cèchi a non mettersi contro il popolo e a trattare un´uscita di scena più indolore possibile. Hável riconosce il ruolo importante di Gorbaciov, ma non gli riesce proprio di considerarlo l´artefice del crollo sovietico. «Non voglio sminuire il suo ruolo. La glasnost e la perestrojka hanno avviato un processo che ha distrutto l´impero sovietico, questo è certo. Ma non credo che le mire di Gorbaciov si spingessero a tanto. Mi è sembrato come un cuoco che vuol fare uscire un po´ di vapore da una pentola a pressione. Ha sollevato di un tantino il coperchio, ma questo gli è sfuggito di mano ed è volato via. Insomma, voleva solo dare un po´ di respiro ai popoli oppressi, ma questi sono andati avanti da soli e molto al di là delle sue previsioni. Se non lo avesse fatto lui, prima o poi lo avrebbe fatto qualcun altro. In ogni caso è stato bravo a non cedere mai alla tentazione di usare le maniere forti. Ha evitato spargimenti di sangue e di questo dobbiamo essergli grati».
Adesso Václav Havel, dopo tre mandati da presidente (prima della Cecoslovacchia, poi della Repubblica Ceca dopo la scissione consensuale con Bratislava), non è del tutto soddisfatto di come sono andate le cose. Lui nega, minimizza com´è nel suo stile, ma c´è uno spot che si vede molto in questi giorni per le tv e per i cinema cechi che la dice lunga. Pubblicizza le manifestazioni per il ventennale della Rivoluzione e lo interpreta lui stesso vestito da medico, anzi da ostetrico. Porta in una nursery una nidiata di neonati dormienti. Li sveglia con un battito delle mani e dice: «Siete nati vent´anni fa. Adesso datevi da fare, tocca a voi».
Forse i giovani del 2009 non le sembrano all´altezza di quelli dell´89? «No, semmai è un invito a prendere l´iniziativa, anche politica. Non credo che tra le generazioni ci siano differenze genetiche. Ognuna ha più o meno la stessa percentuale di intelligenza, di idiozia, di cultura, di senso di responsabilità. Ma questi giovani, che non hanno vissuto il nostro passato, sono più leggeri di noi, non devono sopportare quel peso che ci imponeva il regime comunista, quella totale mancanza di fiducia in noi stessi che ci paralizzava, quell´assurdo ma profondo complesso di inferiorità nei confronti dell´Occidente».
E a questi giovani lei vorrebbe chiedere di più? «Li vorrei più impegnati. Proprio l´altro giorno ho tenuto una conferenza davanti a milleduecento studenti universitari. Tante domande, tanto interesse, ma quando ho chiesto: chi di voi vuole fare politica attiva?, hanno alzato la mano appena in tre. D´altra parte è un momento così in tutto il mondo. I nostri giovani, dei paesi ex comunisti intendo, danno per scontate quelle che sono state conquiste epocali. Siamo nella Ue, nella Nato, abbiamo una democrazia parlamentare, libera stampa e libera opinione, alla frontiera non ci viene nemmeno chiesto di rallentare… A loro sembra tutto ovvio, ma non è stato così facile. Però non sono pessimista, sento che i valori morali ci sono, che l´impegno prima o poi verrà, che la nuova generazione riuscirà a soppiantare la nostra. Io mi ripeto sempre che solo le nuove leve possono fare cambiamenti importanti, nel bene o nel male. E mi ripasso mentalmente questa tabella: 1918, Cecoslovacchia indipendente; 1938, Patto di Monaco e sottomissione al nazismo; 1948, golpe comunista; 1968, la nostra Primavera finita nel sangue; 1989, la Rivoluzione di velluto. Insomma la cadenza è sempre quella di una generazione».
E che cambiamenti si aspetta? «Vorrei meno miopia, meno tecnocraticismo. I politici della vecchia guardia pensano solo al prossimo turno elettorale. Occorre tornare a guardare più lontano, a scadenze di almeno cinquant´anni e questo solo i giovani possono farlo». E intanto, mentre si pensa al futuro, il passato, ogni tanto, ritorna: gli ex comunisti vincono spesso le elezioni nei Paesi dell´ex Patto di Varsavia, anche a Praga i partiti che hanno reclutato figure quasi dimenticate di comunisti di un tempo, volano nei sondaggi. Hável non sembra preoccupato, gli pare una reazione quasi inevitabile: «La libertà è faticosa. Molta gente, sotto il regime, si era abituata all´idea che lo Stato pensasse a tutto e ti seguisse dalla culla alla tomba. Orribile sì, ma dava un senso di falsa sicurezza che ad ogni difficoltà ti scopri a rimpiangere. A chi non ha voglia o coraggio di prendere iniziative i comunisti offrono una ricetta facile facile e, riconosco, molto tentatrice: di te si occuperà lo Stato, non hai bisogno di preoccuparti e nemmeno di pensare. Quando ero Presidente mi rinfacciavano i senzatetto nelle periferie. C´è povertà, mi dicevano. Ma non era vero. Lo sviluppo economico era assai migliore di prima. La verità è che i senzatetto non si erano mai visti prima per il semplice motivo che lavorare era obbligatorio. Chi si rifiutava, andava in galera. Sono stato in carcere e ne ho conosciute di persone di quel tipo».
Troppo facile Presidente, non vorrà dire che non si sono compiuti errori in questi vent´anni di libertà? «Ma certo che se ne sono fatti. Ci siamo trovati, e altri Paesi molto più di noi, davanti a turbolenze che non ci saremmo mai aspettati e che abbiamo gestito con difficoltà. E poi la storia non è finita, come aveva predetto qualcuno, con la caduta del Muro. Adesso ci sono nuovi pericoli che prima non pensavamo nemmeno esistessero: i terrorismi, il disastro climatico, le diseguaglianze sociali. Per questo io aspetto una nuova leva di politici che si prepari a ragionare in grande». Sembra l´identikit di Obama. La sua elezione ha portato molto entusiasmo e non solo in America. In fondo un presidente nero alla Casa Bianca era impensabile più o meno come vent´anni fa un dissidente carcerato insediato nel castello di Praga. Sorride, finisce la sua birra. «Sì, il paragone regge. Ma nessuno può fare miracoli. Ho incontrato da poco Obama: mi è sembrato simpatico, intelligente e soprattutto capace di ascoltare. Cosa che i politici non fanno quasi mai. Ma con affetto gli ho detto di guardarsi dall´eccessivo entusiasmo dei suoi sostenitori. Ho visto che in Europa in molti lo considerano come un nuovo Mosè… In politica, quando ci si aspetta troppo, si passa bruscamente all´avversione e addirittura all´odio se qualcosa non va per il verso giusto. Mi sono preso la soddisfazione di dare un consiglio al fenomeno del momento, ma credo che lo avesse già capito da solo».