martedì 9 giugno 2009

l’Unità 9.6.09
Effetto Noemi, Silvio perde due milioni di elettori
130mila preferenze in meno, il premier sotto i 4 milioni che aveva pronosticato
E ora il Pdl accusa: «Non ha fatto campagna elettorale». Salteranno i coordinatori regionali
di Natalia Lombardo


Meno 130mila preferenze nella roccaforte del Nord. In totale hanno scritto Silvio sulla scheda 2 milioni 706mila 791 elettori, ma l’obiettivo era superare i 3 milioni. Dall’effetto Noemi al partito che non c’è.

Quel «boomerang» formato Noemi che sperava tornasse sul Pd, è invece ricaduto addosso a Berlusconi, che ha anche perso circa 130mila preferenze nella roccaforte del Nord. In totale hanno scritto Silvio sulla scheda 2.706.791 elettori, ma l’obiettivo era superare i 3 e andare verso i 4 milioni, «basato sul 40% previsto dai sondaggi», spiega il pidiellino Lupi. Ma il boomerang made in Casoria (definito nel Pdl «fattore esogeno») ha rivelato una crepa nel partitoche ancora non c’è: a livello territoriale salterà qualche testa di coordinatore regionale. In Sicilia, penalizzata da Lombardo e dalle risse in tv tra Micchiché, Alfano e il coordinatore Castiglione; in Sardegna dove «Cappellacci sorretto da Berlusconi senza dire una parola ha vinto», spiega un deputato sardo, «e ora che il premier non è venuto ha vinto la sinistra».
Berlusconi affronterà la pratica coordinatori, scegliendo le persone giuste al di là del bilancino 70-30 tra Fi e An. Pratica rimandata a dopo le europee. A seguire anche il «triumvirato» Verdini, La Russa e del fantasmatico Bondi sarà rivisto (e Scajola aspetta sul fiume...). C’è poi la competizione con la Lega, che ha aumentato il suo potere di ricatto sul governo. Gli uomini dell’ex An sono infastiditi dall’assiste elettorale dato da Berlusconi a Bossi, confermato ieri sera ad Arcore anche con Maroni e Calderoli. E la Gelmini
A parte un giretto all’Università «liberale» di Lesmo, Berlusconi è rimasto a Arcore in contatto con i suoi. Formalmente «sereno», certo non contento e deluso dallo smacco sulle preferenze, si consola con la crescita di 4 eurodeputati (da 25 a 29) il «raddoppio sul Pd». La rivincita è sulle amministrative, infatti soltanto oggi, dopo aver messo le bandierine sulle caselle delle regioni «rosse» espugnate (Umbria e Marche, Pdl primo partito), parlerà.
Il partito che non c’è
Sono in molti, già dalla notte della delusione elettorale, a dire che «Berlusconi non ha fatto campagna elettorale» e questo è dato, nel Pdl stesso, come uno dei fattori che ha provocato l’astensionismo. L’unico, tra i parlamentari vicini al premier ad averlo previsto è Piero Testoni.
È proprio questa una delle crepe rivelate dal boomerang: se il Capo non scende in campo in prima persona, il partito non lo segue. Perché non c’è. Un parlamentare dell’area degli ex An constata la «fragilità del partito soprattutto in periferia», dove uno scollamento tra il radicamento territoriale di An che si vede penalizzata e i dirigenti dell’ex Forza Italia che vivono sugli allori della berlusconimania. Domenica notte Silvio si sarebbe lamentato di essere il solo a «tirare la carretta». Ma stavolta la carretta l’ha tirata soprattutto per sé, cercando di virare a suo favore il ventaccio dello scandalo uscito dal vaso di Pandora (da Noemi ai festini a Villa Certosa ai voli di Stato). Quella che un autorevole esponente del Pdl chiama «il peccato di presunzione», andare gli ultimi tre giorni solo in tre piazze dove si votava per le amministrative: Bari, Firenze e Milano. Oppure «volersi porre come l’uomo di Stato che si occupa di G8 e di Abruzzo non ha funzionato. se fosse andato anche al Sud la gente si sarebbe sentita motivata a votare», e pergiunta in Sicilia l’Europa è lontana. E molti ammettono di aver dormito sugli allori di governo.
È più o meno ciò che ha detto La Russa a caldo. Lui sì che «è sceso in campo», il ministro della Difesa ha girato l’Italia in lungo in largo (con l’areo di Stato facendo coincidere comizi con celebrazioni e parate). E ieri lo si vedeva plasticamente comandare i «colonnelli» (in percentuale maggiore ex An) a Via de l’Umiltà. Raggiante ringrazia per essere il «secondo dopo Berlusconi» per preferenze (223.428); fa capire che il calo è colpa dell’effetto «endogeno» Noemi, quel «processo gossipparo e giudiziario» al quale ha retto Berlusconi. E lancia un avviso alla Lega: «D’ora in poi patti chiari e amicizia lunga, se si decide di fare campagna elettorale insieme, non è che ci si vanta per sé dei meriti del governo. Sennò, ognuno per sé, anche se non lo auspico». Insomma, La Russa manda un segnale a Berlusconi: ti sei illuso. io no. E il suo pizzetto melistofelico che si sarebbe tagliato se si fosse raggiunto il 40 per cento, è salvo.

Repubblica 9.6.09
La crepa
di Ezio Mauro


L´onda lunga di destra che spazza il Paese si è arrestata domenica sera, quando si sono aperte le urne del voto europeo. Un appuntamento che arriva appena un anno dopo il trionfo berlusconiano alle politiche, con una maggioranza schiacciante, e al culmine di un ciclo in cui il sistema di potere dominante ha sprigionato la sua massima potenza. In un giorno, quella macchina da guerra si è arrestata, nel momento esatto in cui il leader chiedeva e profetizzava il potere assoluto, con il 45 per cento dei voti per sé e l´alleanza con la Lega oltre il 50. Questa era la soglia politicamente sacra, la seconda presa del potere in un anno, la misura che trasforma il consenso in adesione, il governo in comando e il comando in dominio.
Tutto questo non è avvenuto. Ecco perché il Cavaliere tace da due giorni, nonostante nello spoglio delle amministrative, ieri, l´onda si stia richiudendo, con la destra che porta via pezzi interi di Nord trainata dal boom della Lega, conquista Napoli, si incunea nelle regioni rosse, con un Pd in calo ovunque e fortemente indebolito. Delle 51 province che aveva conquistato nel 2004 (solo 8 erano andate al centrodestra) il Pd ne tiene al primo turno appena 15, la destra ne conquista 25, altre 19 vanno al ballottaggio.
La destra italiana rimane dunque fortissima, pesantemente insediata nel territorio, rivitalizzata - e non solo al Nord - dall´energia elettorale e politica del partito di Bossi. Ma se il Pd nella grande sfida delle europee perde 4 milioni di voti, che sono tantissimi, il Pdl ne perde quasi tre milioni (2,8), e inaspettatamente. Si può dunque vincere, come Berlusconi ha fatto, e nello stesso tempo vedere con preoccupazione la grande crepa che si è aperta all´improvviso nel gigantesco monumento equestre che il Cavaliere stava erigendo a se stesso, simbolo perenne dell´alleanza tra il Capo e il suo popolo.
Bisogna partire da qui, dalla sorpresa psico-politica di un Paese che non si consegna mani e piedi al suo incantatore, convinto di averlo sedotto dopo la conquista. Certo, il premier può consolarsi con la netta sconfitta del Pd che cala precipitosamente di 7 punti. Ma proprio da questo dato nasce una domanda che non si può eludere: di fronte al calo fortemente annunciato del Pd e mentre le sinistre battono in ritirata in tutta Europa, come mai in Italia la destra non se ne avvantaggia, ma anzi perde due milioni di voti, per di più senza che sia suonato un allarme, come un vuoto che si allarga all´improvviso in un meccanismo di consenso che si pensava garantito?
Oltre la soglia dei numeri, che parlano chiaro, c´è in politica una soglia simbolica che parla all´immaginario dei cittadini. Nei due principali partiti l´ultimo anno aveva fissato destini rovesciati. Per il Pd si profetizzava la polverizzazione, lo schianto, la sicura scissione (annunciata pubblicamente proprio dal Cavaliere), dunque la fine dell´avventura cominciata meno di due anni fa con Veltroni. Per il Pdl, al contrario, si annunciava lo sfondamento, con una crescita capace di portare la destra oltre la maggioranza assoluta, in modo da poter cambiare la Costituzione da sola, senza più impacci e condizionamenti. «Il Pdl è al 46 per cento», aveva garantito il premier il 6 maggio. «Siamo sopra il 40 per cento e quindi siamo il partito più forte del Ppe», aveva aggiunto il 16 maggio. «Alle europee l´obiettivo è molto più del 40 per cento e i sondaggi ci danno al 45» aveva spiegato il 23 maggio. «Gli ultimi sondaggi parlano di un Pdl al 43-45 e io sono certo che sarà così», aveva concluso il 30 maggio.
Non è andata così, e il Pdl ruzzola dieci punti più in basso della profezia, perdendo il 2,1 per cento rispetto alle politiche. Soprattutto, si infrange il mito dell´invulnerabilità del Capo, condannato a vincere sempre, dopo la riconquista che lo ha riconsacrato premier nel 2008. La vulnerabilità del Cavaliere era già emersa chiaramente con il volto della paura nell´ultimo mese, sotto l´urto dello scandalo nato dal "ciarpame politico", cioè dalle veline candidate per amicizia e non per merito politico, secondo una denuncia che ha fatto il giro del mondo. Questo scandalo ha portato alla luce altri casi collegati e controversi, da Noemi ai voli di Stato, alle feste in Sardegna, alle fotografie bloccate dalla magistratura. Tutto ciò è diventato un vero e proprio affare internazionale, commentato e giudicato (negativamente) dalla stampa europea e americana, tanto che persino i giornali italiani se ne sono dovuti occupare di rimbalzo. Le contraddizioni del Cavaliere nei suoi affannosi racconti, le diverse versioni messe in campo l´una dopo l´altra, le bugie accumulate inspiegabilmente e mai spiegate, gli insulti a Repubblica e ai giornali stranieri hanno semplicemente minato la credibilità del premier agli occhi dei cittadini, e anche dei suoi elettori.
La crepa si è aperta qui, nel rapporto di fiducia tra un leader e la sua gente, tra un Capo del governo e il Paese, e ha prodotto quella reazione di disincanto molto prima del previsto: con buona pace dei maestrini che per conformismo invitavano a parlare di ben altri problemi (pur di non parlare di questo), come se la menzogna del potere non fosse il problema principale nel rapporto tra la politica e la pubblica opinione, come l´America insegna. Ciò che troppi non hanno voluto capire, e le televisioni hanno attentamente occultato, lo hanno però capito i cittadini: e lo aveva probabilmente ben compreso il Cavaliere, se rivediamo gli ultimi frenetici giorni della campagna elettorale, dove Casoria sembrava aver sostituito Arcore nella geografia simbolica del berlusconismo.
Tutto ciò è costato consenso, in termini politici e addirittura personali. Nel calcolo delle preferenze, il Cavaliere pigliatutto che aveva sfiorato i tre milioni di voti sul suo nome nel 1994 e nel 1999, e aveva promesso di superare questa volta la soglia, si è fermato a quota 2 milioni e settecentomila. Mancano almeno 250 mila preferenze, e in una democrazia carismatica e populista non è un dato da poco.
La crepa dunque è aperta: ma non avvantaggia il Pd. I democratici sono giunti all´appuntamento con il voto logorati da un anno avventuroso, da risultati sempre critici, dal cambio traumatico non solo di un leader, ma del primo segretario, il fondatore. Le due anime assistono guardinghe ad ogni mossa di Franceschini, lo tengono in equilibrio precario, invece di fondersi si misurano a vicenda quotidianamente. Invece di sommarsi si depotenziano nei veti reciproci. Invece di fondare un nuovo riformismo guardano alle vecchie eredità, che non abbandonano per paura e per calcolo cinico. Piuttosto di lasciare spazio ai giovani (Debora Serracchiani, che ha scalato il partito da sola, ha superato nelle preferenze il capolista arrivato da Roma nel Nordest e persino Berlusconi) si stringono nella vecchia foto di famiglia dell´apparato, sempre uguale a se stessa. Così il partito soffoca appena nato e non decolla, mentre dovrebbe essere liberato per prendere il largo, affidato a forze nuove, con i vecchi capi che garantiscono un deposito di esperienza e di tradizione.
E tuttavia, non si può far finta di non sapere che la vera partita del Pd era il "Primum vivere". Per il rotto della cuffia, dopo un anno disastroso, i democratici hanno salvato la pelle, chi pensava a scissioni deve rimandare il progetto a qualche occasione più conveniente, e lo strumento partito c´è. Malandato, arrugginito, ma in qualche modo c´è. È addirittura a disposizione di chi ci crede, di chi ha voglia di reinterpretarlo inventandolo, rendendolo partecipato, contendibile, aperto, e insieme presente nel Paese, insediato, consapevole della sua identità di sinistra, moderna, europea e occidentale: però sinistra, dunque chiaramente e fortemente alternativa alla destra realizzata che Berlusconi mette in campo ogni giorno.
Un partito di questo tipo può mettere in movimento l´intera area di opposizione. Aiutare la sinistra radicale a dare un valore ai voti ancora una volta dispersi, radunandoli dentro un contenitore politico con una leadership capace di parlare ad una fetta di sinistra; ingaggiare con Di Pietro, dopo la sua clamorosa ascesa, una sfida di responsabilità di fronte ai problemi del Paese, perché l´antiberlusconismo è anche questo; chiedere a Casini, dopo il buon risultato della sua corsa autonoma, di scegliersi un destino politico e culturale riconoscibile e riconosciuto. Solo in questo modo le opposizioni possono diventare un´alternativa. La crepa dimostra che si può contendere l´Italia a Berlusconi, senza lasciargli tregua sulla sua credibilità in crisi, incalzandolo con ciò che gli manca: una politica per il Paese. Un Paese in cui si sta rompendo il lungo incantesimo del Cavaliere.

Corriere della Sera 9.6.09
Il voto locale offre la vera dimensione dei rapporti di forza
di Massimo Franco


La battuta d’arresto del Pdl ridimensionata dal calo vistoso del centrosinistra al massimo, rifaranno i conti al proprio interno.

Peruna manciata di ore, la battuta d’arresto del Pdl ha velato la sconfitta del centrosinistra alle europee. Le attese di un’affermazione clamorosa del governo, alimentate da Silvio Berlusconi, hanno permes­so al partito di Dario Franceschini di additare lo scarto fra quelle ambizioni e la realtà. La soglia psicologica del 40 per cento dei voti, mancata ampiamente dal presidente del Con­siglio, ha nascosto quella che sotto voce il Pd si era ripropo­sto di raggiungere: fra il 27 ed il 28, comunque ben sotto il 33,2 del 2008. Non solo: il panorama di macerie offerto da gran parte della sinistra europea ha contribuito al sollievo del Pd, deciso ad accreditarsi come uno dei grandi superstiti del 6 e 7 giugno. E da questo punto di vista lo è.
Ma il calo dei suoi consensi, non compensato del tutto dal successo dell’Idv di Antonio Di Pietro, sta emergendo nelle sue dimensioni reali. A renderlo vistoso è la geografia politi­ca che lentamente affiora dalle amministrative celebrate in­sieme alle europee: un quadro a dir poco in chiaroscuro, tale da ridimensionare gli entusiasmi sulla tenuta del progetto del Pd. I primi risultati trasmet­tono l’immagine di una ragnate­la di interessi e nomenklature locali, nella quale non esistono più rendite di posizione: per il fronte berlusconiano, ma so­prattutto per i suoi avversari che detenevano da decenni il potere in alcune zone del Paese. Oltre tutto, il centrosinistra partiva da posizioni di forza, che dopo cinque anni appaiono intaccate; ed accentuano la sen­sazione di uno smottamento progressivo nelle giunte. Alcuni dei feudi governati storica­mente dall’Unione prodiana mostrano smagliature. Il richia­mo di quello che la Lega ha definito «laburismo padano» spiega come mai il centrodestra si infiltri in Emilia Romagna e Toscana, conquistando consensi in classi sociali finora mo­nopolio della sinistra. In realtà come l’Umbria, regione di «giunte rosse», il Pdl fa registrare un successo imprevisto. E i dati diffusi ieri dall’«Istituto Carlo Cattaneo» di Bologna of­frono uno spaccato impietoso dei nuovi rapporti di forza.
Dicono che alle europee il Pd ha perso oltre 2,1 milioni di voti rispetto al 2004 (-21 per cento), e 4,1 milioni nel con­fronto con le politiche dell’anno scorso. Il partito di France­schini risponde ricordando che non contano solo i numeri, ma la tentazione berlusconiana di trasformare la consultazio­ne in un referendum su di sé: un’operazione risoltasi in «una musata», secondo l’espressione colorita di Piero Fassi­no. Si aggiunge che lo stesso Pdl perde circa 3 milioni di voti sulle politiche; e si fa presente che nel 2008 c’erano in lista col Pd anche alcuni esponenti radicali. Ma lo scambio di ac­cuse fra i due maggiori partiti tende ad interpretare con lenti bipolari una situazione dalla quale il bipolarismo esce un po’ indebolito.
La vittoria parallela della Lega e dell’Idv rende il problema delle alleanze particolarmente acuto. Bossi è fondamentale per la strategia berlusconiana: tanto più in vista delle regio­nali del prossimo anno. Il fatto che il ministro Roberto Calde­roli dica che i voti leghisti «si pesano e non si contano» anti­cipa la trattativa per la presidenza di alcune regioni del nord: sebbene riveli l’ammissione del mancato sorpasso sul Pdl in Veneto. Per il Pd, in parallelo, non solo rimane cruciale l’inte­sa con Di Pietro. Si ripropone anche il rompicapo di un colle­gamento con l’estrema sinistra. Per tutti, rimane l’incognita del ruolo dell’Udc centrista di Pier Ferdinando Casini, per ora paga di avere aumentato i voti su una linea difficile. Ep­pure, i due schieramenti non sembrano sul punto di romper­si.

Corriere della Sera 9.6.09
Il dormiveglia dopo il sollievo per una sconfitta a metà
Quello che il Pd non vuole vedere
di Paolo Franchi


Può darsi che, di fronte ai ro­vesci elettorali dei socialisti in Europa, molti dirigenti del Pd (a cominciare ovviamente da quelli che del Pse non hanno mai voluto far parte e tanto meno lo vogliono oggi) abbiano tirato un sospiro di sollievo. Pensando che il netto calo del Pd è in fondo poca cosa rispetto ai tracolli del New Labour, della Spd, del Ps francese. E magari sorridendo all’idea che, se entrasse a far parte del gruppo parlamentare socialista europeo, magari altrimenti denominato, il Pd ne sarebbe, paradosso dei paradossi, la componente nazionale più forte.
Può darsi. Ma, se così fosse, farebbero bene a uscire il prima possibile da questo stato di dormiveglia politico e intellettuale. È vero, il Pd può legittimamente compiacersi di avere allontanato da sé i peggiori incubi della vigilia, e insomma di aver evitato il rischio drammatico di finire letteralmente schiantato.
Ma i motivi di soddisfazione iniziano e finiscono qui. Il Pd non è, e nemmeno intende essere, né socialista né socialdemocratico, e non solo per l’opposizione, strenua quanto comprensibile, di alcune sue componenti, in primo luogo quelle di provenienza democristiana, a risolversi a un simile passo. Eppure la sua sconfitta (perché perdere in un anno sette punti in percentuale, da che mondo è mondo, è una sconfitta, spiegabilissima, certo, ma non per questo meno pesante) è ugualmente una variante nazionale del disastro della sinistra riformista europea. Un po’ tutti i principali leader socialisti e socialdemocratici riconoscono che, all’origine della disfatta, c’è prima di tutto la vistosa incapacità di prospettare risposte di qualche respiro e di qualche efficacia a una crisi che minaccia in primo luogo il presente e il futuro dei lavoratori, dei ceti medi, dei giovani, e insomma di quella parte grande della società che a lungo la socialdemocrazia, dal governo e persino dall’opposizione, a lungo ha cercato, e con successo, di rappresentare e di tutelare, e che adesso, spaventati, le volgono le spalle e scelgono la destra, spesso preferendo quella razzista e xenofoba a quella moderata. Vero.
Ma, se è questo il peccato, non si capisce esattamente come potrebbe mai fare, il Pd, a reputarsene indenne; di che cosa dovrebbe occuparsi, nel prossimo futuro, se non di dannarsi l’anima per mettere a fuoco idee, proposte, programmi, e insomma una cultura politica rinnovata che lo guarisca, sempre che sia possibile, da una simile, prolungata afasia; e con chi potrebbe farlo se non, in primo luogo, con quelle forze della sinistra riformatrice vecchia e nuova che in Europa soffrono del medesimo male. Non c’è dubbio: il socialismo europeo è ai suoi minimi storici. Ma forse sarebbe anche il caso di ricordare quante volte, nella sua lunga storia, è stato dato per morto; e quante volte ha trovato una via originale per risorgere. C’è poi, naturalmente, un aspetto tutto italiano della questione. Il Pd tira il fiato non solo perché, in un modo o nell’altro, l’ha scampata, ma pure perché Silvio Berlusconi, invece di trionfare, segna il passo. Bene. Ma il suo 33% delle elezioni politiche si è ridotto, in una prova in cui era impossibile fare appello al voto utile, al 26: Antonio Di Pietro ha incassato quello che si proponeva di incassare, la sinistra-sinistra, anche se né i neocomunisti né Sinistra e Libertà ce l’hanno fatta a superare il muro del 4%, ha dimostrato di esserci ancora, Marco Pannella ed Emma Bonino se ne sono andati per la loro strada, il discreto successo dell’Udc testimonia che, al centro, non si passa, i successi della Lega in Emilia, e non solo in Emilia, ci parlano di un blocco sociale, politico e anche culturale che scricchiola, o peggio. Se le cose stanno così, è davvero difficile immaginare che, vinta la battaglia per la sopravvivenza, il Pd possa pensare di espandersi fino a diventare da solo, domani o dopodomani, un partito, almeno in potenza, di maggioranza, come sognavano, e forse sognano ancora, i sacerdoti del bipartitismo che, al suo interno, fanno affidamento sul referendum: si ripropone, ineludibile e difficilissimo, quel problema delle alleanze che, dopo il triste fallimento dell’Unione, si era pensato, sulla scorta di un’indebita euforia, di poter archiviare. Tutte queste, dicono, sono questioni che affronterà il congresso. Giusto. Ma forse sarebbe il caso di cominciare a parlarne subito. Sempre che non sia già tardi.

il Riformista 9.6.09
Il Pd regge ma è appeso ai ballottaggi per non diventare la Lega dell'Appennino


AMMINISTRATIVE. Il partito di Franceschini evita di essere spazzato via, ma se non vince qualcosa al secondo turno si scoprirà rintanato nelle roccheforti del Centro. E nelle Marche è smottamento.

Si partiva da un cappotto targato Pd che guidava gran parte delle province andate al voto. Difficile dire dove si arriverà alla fine ma, nonostante la provvisorietà di molti dati, sembra comunque si possa già dire che non ci sarà un altro cappotto, questa volta targato Pdl. Il Pd, infatti, non viene spazzato via dal voto amministrativo, così come non è avvenuto neppure in occasione delle elezioni europee.
Il Pd, anzi, sembra difendersi. Tanto che, nella serata di ieri, l'ex segretario dei Ds, Piero Fassino, poteva dichiarare che «siamo ancora ai dati parziali, ma dal quadro che sta emergendo ci arriva un dato da guardare con interesse». Questo perché, spiega Fassino, «una quindicina di province sono confermate al centrosinistra al primo turno, altre 15 vanno al ballottaggio» e questo, osserva l'esponente democrat, «conferma il consolidamento del Pd e l'arretramento del Pdl rispetto alle politiche dell'anno scorso».
Già, perché seppure deve fare i conti con molte difficoltà al nord e qualche sconfitta davvero pesante - quella della provincia di Napoli, su tutte, anche per gli scenari che questa potrebbe aprire, ma In Campania si profila un tonfo anche a Salerno e Avellino - altrove le cose sono andate diversamente. Conferma al primo turno Bologna, elegge al primo turno anche il presidente della provincia di Firenze, strappa il ballottaggio a Milano e anche a Torino e Alessandria, non perde la Puglia dove si tornerà a votare tra due settimane anche per altre province. Riesce ad andare al secondo turno anche a Belluno, in Veneto. E tutto, in un quadro che vede reggere il partito di Dario Franceschini sia in Toscana che in Emilia Romagna. Anche in Umbria le cose non sono andate male - e, anzi, le amministrative sembrano ribaltare il risultato delle europee - mentre il voto è andato maluccio nell'ultima delle regioni rosse, le Marche, dove il Pd subisce un importante sorpasso a Macerata.
Se il Pd "tiene", per così dire, e dunque i democrat utilizzano toni comunque piuttosto prudenti, nel centrodestra c'è invece chi finisce per esultare. È il caso del portavoce del Pdl Daniele Capezzone secondo il quale in serata stava «prendendo forma un successo nettissimo del centrodestra». Ed è il caso anche del capogruppo alla Camera della Lega, Roberto Cota che giudica «i dati delle amministrative ancora migliori rispetto alle europee». «Dove ci sono nostri candidati - spiega - l'alleanza va benissimo e in molti casi si vince al primo turno». Ciò significa, ha detto parlando dei rapporti col Pdl, che «la forza della Lega è un valore aggiunto per tutta la coalizione e quindi - ha concluso - anche per il governo». Roberto Calderoli, invece, rispondendo a chi gli chiedeva lumi sulla posizione della Lega in caso di ballottaggio a Milano, spiegava: «Dobbiamo ancora decidere». Insomma, se ne dovrà parlare, magari intrecciando i discorso con quello relativo al referendum elettorale. E si parlerà anche della presidenza del Veneto, ha detto ancora Calderoli, perché «è una anomalia che nessuna regione sia governata dalla Lega. Con il radicamento territoriale che abbiamo, è evidente che c'è un peso specifico diverso dal semplice numero dei voti. Questo lo sa benissimo chi conosce la legge elettorale».
Molto parziale, ancora nella serata di ieri, era il dato relativo alle comunali, tanto che, intorno alle 20, uno dei pochi dati certi era quello relativo alla affluenza al voto, in generale superiore a quello fatto registrare dalle europee che si è fermato al 67%: 70,5% per le provinciali, 76,7% per le comunali. Già dal pomeriggio c'era però un comune che poteva festeggiare il proprio sindaco. Si trattava di Morterone, in provincia di Lecco, dove ha trionfato, con il 64,5%, Antonella Invernizzi, sostenuta da una lista civica. Ma qui lo spoglio era facile, trattandosi del più piccolo comune, con i suoi 33 aventi diritto al voto. Spoglio senza sorprese anche a Grondona, in provincia di Alessandria, dove è stato eletto sindaco Mario Sassi con 299 voti, ovvero il 100% delle preferenze, essendo l'unico candidato. Meno prevedibile l'expolit di Adolfo Moroni, nuovo sindaco di Fano Adriano in provincia di Teramo, che ha sfiorato il 96% dei voti, un voto davvero bulgaro che non lascia margini di incertezza. Per eliminare quelli sulla sorte di molte altre amministrazioni andate al rinnovo, invece, si tratterà di aspettare due settimane.

il Riformista 9.6.09
I radicali sono fuori e i vescovi esultano
di Paolo Rodari


VOTO CATTOLICO. Difficile dire se il caso Noemi abbia spostato i credenti dal Pdl alla Lega e all'Udc. La Chiesa non commenta ma osserva (senza dispiacersene) l'esclusione della lista Bonino-Pannella.

La Chiesa italiana, tanto più il Vaticano, ha tenuto rispetto alle elezioni europee un profilo bassissimo. Nessun commento, nessuna indicazione, non soltanto di voto ma pure d'indirizzo generale. Lo stesso presidente dei vescovi italiani, il cardinale Angelo Bagnasco, ha fatto la propria parte, durante l'assemblea generale dell'episcopato chiusasi pochi giorni fa, per smorzare ogni polemica attorno alle politiche sulla sicurezza portate avanti dal governo e, insieme, circa la questione morale e il caso Noemi: niente battute fuori luogo, niente spinte per questo o quel partito.
Un profilo, quello della Chiesa italiana, tenuto basso anche ieri, immediatamente dopo il voto, nonostante, dietro le quinte, vi sia chi esulti. Per cosa? Per l'uscita di scena dallo scenario europeo dei radicali. Questi, per colpa dello sbarramento al quattro per cento, non ce l'hanno fatta. E viste le campagne che da Bruxelles il pur piccolo contingente radicale promuoveva - con cascate italiane - in favore d'una rivoluzione antropologica non certo apprezzata da vescovi e prelati, la loro "scomparsa" non dispiace.
La questione morale ha spinto una parte dell'elettorato cattolico dal Pdl verso la Lega e l'Udc? Difficile rispondere. Certo è che il low profile dell'istituzione Chiesa può aver giovato in questo senso. L'elettore cattolico, sensibile alle parole dei vescovi, si è senz'altro sentito in questa tornata elettorale più libero. E, quindi, può aver scelto in coscienza di non votare per Berlusconi e di indirizzarsi sulla Lega e sull'Udc. Ma, a conti fatti, sembra poca roba. Probabilmente, se vi fosse stata una campagna massiccia della Cei, promossa attraverso le varie associazioni cattoliche, attorno alla questione sicurezza, all'immigrazione, la Lega avrebbe preso meno voti. Quanto all'Udc, è probabile che alcuni voti gli siano arrivati da alcuni degli elettori cattolici che alle scorse politiche avevano votato per il Pd: dirimente la vicenda Eluana Englaro. Ma anche qui è molto difficile azzardare ipotesi.
I movimenti e le associazioni cattoliche avevano in diversi partiti dei propri rappresentanti. Il ciellino Mario Mauro (Pdl) ha fatto la sua parte in Lombardia. Bene è andato anche Carlo Casini, presidente del Movimento per la Vita e a Magdi Allam. Meno bene ad altri cattolici doc i quali, di per sé, avrebbero dovuto portare parecchi voti: Gianluigi Gigli, presidente della Federazione internazionale delle associazioni dei medici cattolici (scalzato da Tiziano Motti) e Luca Marconi di area Rinnovamento nello Spirito.
Se la Chiesa, in generale, mantiene un basso profilo nel commentare i risvolti politici della tornata elettorale, qualche giudizio è stato espresso comunque, in particolare sul bollettino dei vescovi italiani, il Sir e sulla Radio Vaticana. Sono due le preoccupazioni sentite: una per il forte astensionismo, l'altra per l'affermazione di forze xenofobe in molti paesi dell'Ue: «Serve una seria riflessione sull'aumento dell'astensionismo e dell'euroscetticismo», ha scritto il Sir. E ancora: «Il primo compito che avranno i neodeputati sarà quello di un'analisi serrata del problema, per non arrivare ancora tra cinque anni a domandarsi i motivi del peso del "deficit democratico" sulla costruzione comunitaria».
A esprimere preoccupazione per «l'avanzata della destra xenofoba in Olanda, Ungheria, Austria e Gran Bretagna» è sulla Radio Vaticana l'Osservatore Permanente della Santa Sede presso il Consiglio d'Europa: monsignor Aldo Giordano. Ma anche da lui non mancano allarmismi per l'astensionismo record: «Questo denuncia la mancata coscienza del ruolo che l'Europa dovrebbe avere e potrebbe avere per le sfide mondiali - ha detto - Solo un'Europa più unita e più stabile può affrontare le grandi domande del mondo e del ruolo che l'Europa ha per la vita concreta locale dei singoli cittadini».
Sull'astensionismo, fa il titolo in prima pagine anche l'Osservatore Romano: "Vince l'Europa dell'astensionismo" scrive il giornale diretto da Gian Maria Vian.

l’Unità 9.6.09
Comunisti e Sinistra e libertà divisi anche sul futuro
Mano tesa del Pd a Vendola
di Simone Collini


Ferrero propone di costruire un «polo di sinistra alternativo al Pd». Vendola: «Il cantiere di SL non chiude». Soro lancia un appello al governatore pugliese: «Avviamo un confronto per un progetto di governo condiviso».

Due milioni di voti e zero eurodeputati. Colpa della scissione decisa da Nichi Vendola, accusa Paolo Ferrero. Colpa del rifiuto del segretario di Rifondazione comunista di fare una lista unitaria, contrattacca il governatore della Puglia. Ma tanto il primo quanto il secondo sanno benissimo che il 3,4% incassato dalla lista Prc-Pdci e il 3,1% ottenuto da Sinistra e libertà difficilmente si sarebbero potuti sommare. Per il semplice motivo che i progetti politici sottesi dalle due liste divergono fortemente. Come dimostra anche la strategia che hanno in mente Ferrero e Vendola per non mandare del tutto persi quei due milioni di voti.
Il segretario di Rifondazione oggi proporrà alla Direzione del partito di «riunificare tutte le forze disponibili a costruire un polo di sinistra» dalle caratteristiche ben precise: deve essere «autonomo rispetto al Pd», fare opposizione a governo e Confindustria e l’unità dei comunisti deve essere il primo passo da compiere, non l’obiettivo da raggiungere. Ferrero, che già alla vigilia era scettico circa la strategia sostenuta da Oliviero Diliberto di riunificare Pdci e Prc, dopo questo risultato elettorale si è convinto ancora di più che l’unità comunista non paga. Quanto al segretario del Pdci, si è chiuso in un silenzio che la dice lunga sul suo stato d’animo. Quello che però sottolinea con le persone con cui ha parlato è piuttosto chiaro: in tutte e cinque le circoscrizioni a ottenere più preferenze sono candidati del Pdci.
Il cantiere di Vendola
Si tengono alla larga dalla competizione comunista quelli di Sinistra e libertà. Vendola giudica positivamente il 3,1% incassato: «Il cantiere è aperto e non lo chiuderemo. La sinistra del futuro non può essere una mummia di ciò che è stata». Al governatore della Puglia piacerebbe fissare un’assemblea costituente già a luglio, ma non si possono bruciare le tappe col rischio di perdere pezzi. E il Partito socialista è in bilico. Bobo Craxi ha già detto che i socialisti «devono avere tutto il tempo di riflettere» e di andare a congresso. E l’appello di Marco Pannella a rilanciare la Rosa nel pugno impensierisce più d’uno, dentro Sinistra e libertà.
Il rapporto col Pd
Viene invece giudicato positivamente il fatto che dopo essere stati a lungo snobbati dal Pd, ora i promotori di Sinistra e libertà vengono invitati dal partito di Franceschini ad aprire assieme «un nuovo cantiere nel Pd», come scrive Giovanna Melandri in una lettera pubblicata oggi su L’Altro, o più realisticamente ad avviare «un confronto per verificare - come dice Antonello Soro - la possibile condivisione di un progetto di governo». Confronto «improbabile», dice invece il capogruppo del Pd alla Camera, con Ferrero.

Repubblica 9.6.09
L’amarezza dell’ex segretario di Prc. Il Pd tende la mano a Sl: torniamo al confronto
Bertinotti e la guerra a sinistra: abbiamo sprecato il 6% di voti
Ma il partito di Vendola rischia già di perdere pezzi: verdi e socialisti tentati da Pannella
di Umberto Rosso


ROMA - Meglio il «cantiere» della sinistra, come propone ora Nichi Vendola? Oppure un «polo» con tutte le forze antagoniste al Pd, come piacerebbe a Paolo Ferrero? Dietro le formule si nascondono progetti molto diversi l´uno dall´altro ma la lezione del 6 e 7 giugno forse potrebbe disinnescare qualcosa nella guerra dentro la sinistra radicale. Si rimettono in moto esili canali di dialogo, alimentati soprattutto dagli ex bertinottiani rimasti con Ferrero. Ci spera soprattutto proprio Fausto Bertinotti, che in campagna elettorale ha invano indossato i panni del pontiere in nome dell´unità, e molto amareggiato adesso di fronte ad un esito che aveva largamente previsto: zero europarlamentari, a dispetto di una ripresa della sinistra che (sommata insieme) torna a viaggiare sul sei e mezzo. E la lettura del voto, ha confidato l´ex presidente della Camera, conferma che una strada per il rilancio si è aperta. Il Pd perde molti voti, si schiude la possibilità di un rimescolamento delle carte politiche, e il dissenso ha preso la via dell´Idv solo per mancanza di alternative. Intanto, un milione di voti perduti dall´Arcobaleno l´anno scorso, è tornato a casa (diviso fra Sl e Prc, che in tutto ne incassano due milioni). Ma è tutt´altro che scontata la strategia per utilizzare il ritrovato tesoretto elettorale.
La prima offerta, quasi a sorpresa, arriva giusto dal Pd. L´ha lanciata il capogruppo Antonello Soro, «torniamo al confronto, per verificare nei prossimi mesi se è possibile sottoscrivere un programma comune di governo». Un invito circoscritto ai soli vendoliani però, «il partito di Ferrero è troppo chiuso». Proposta rilanciata oggi, sulla prima pagina dell´Altro, con una lettera aperta a Vendola firmata da Giovanna Melandri: «Riprendiamo a parlarci, da subito». Il partito di Franceschini insomma tende ufficialmente la mano. Il governatore della Puglia prepara a stretto giro la risposta, e non sbatterà la porta. Per Vendola in queste elezioni hanno perso in tre, «il bipolarismo, Berlusconi e il Pd», ma con i democratici l´idea è di lanciare un confronto-scontro, «una sfida aperta, senza rinchiudersi in un ghetto identitario». Un siluro alla Lista dei comunisti di Ferrero e Diliberto. Il segretario di Rifondazione mette in pista infatti un progetto unitario in altra chiave, chiama a raccolta «a partire da coloro che hanno dato vita alla lista anticapitalista e comunista, tutte le forze disponibili a costruire un polo di sinistra, autonomo dal centrosinistra». Dove, appunto, emergono i concetti di fedeltà al comunismo e lo scontro col Pd. «Il nostro progetto di unità dei comunisti – avverte Claudio Grassi, ago della bilancia nel Prc – non cambia».
Però, mentre da un lato arrivano le offerte di dialogo di Franceschini, dall´altro Sinistra e libertà rischia di perdere già qualche pezzo per strada. La sirena Pannella, forte del risultato incassato, si fa sentire sui socialisti e anche sui verdi presenti nel cartello vendoliano. La proposta è di costruire insieme un nuovo polo laico e ambientalista. Il leader del Ps Nencini non pare del tutto insensibile all´idea, e comincia ad avvertire Sl: sbagliato aprire un cantiere per mettere insieme tutto ciò che si muove a sinistra del Pd, «Sinistra e libertà è e deve restare un polo riformista».

Corriere della Sera 9.6.09
Ferrero-Vendola, lite anche sulle alleanze
Il Prc: ricostruire l’opposizione al Pdl. Ma Sinistra e Libertà apre al Pd
di Dino Marirano


La soglia del 4% Unico punto in comune: l’accusa ai partiti maggiori per il «furto di tre milioni di voti»

ROMA — Il Partito democra­tico già strizza l’occhio a Sini­stra e Libertà di Niki Vendola e Claudio Fava e pianta paletti in­valicabili per chiarire, se ce ne era bisogno, che in futuro non ci sarà alcun tipo di alleanza con i comunisti di Paolo Ferre­ro e Oliviero Diliberto. Il gior­no dopo il mancato supera­mento della soglia di sbarra­mento del 4%, le due sinistre che hanno messo insieme più di due milioni di voti, fanno i conti con le strategie da segui­re per non disperdere un capi­tale politico capace di rappre­sentare più del 6 per cento dei voti pur non esprimendo al­cun eurodeputato.
Divise su tutto, le due forma­zioni della sinistra condivido­no però l’accusa contro Pd e Pdl di aver organizzato con la soglia di sbarramento «il furto di tre milioni di voti»: sì 3 mi­lioni perché, sommando an­che il risultato dei radicali, a tanto ammonta il totale dei vo­ti espressi dalla liste che non hanno superato l’asticella del 4%. «E’ un furto politico senza precedenti», attacca Claudio Fava di SL chiedendo al Pd an­che un chiarimento «sul refe­rendum elettorale capace di da­re tutto il potere ai partiti mag­giori e a Berlusconi».
«Lo sbarramento esiste in tutte le democrazie europee ma io al posto loro mi interro­gherei sulla scelta tra fare testi­monianza o governare l’Italia», ribatte il capogruppo del Pd Antonello Soro. E così, davanti al quesito, le strade delle due sinistre si dividono ancora una volta: la lista «falce e martello» di Rifondazione e PdcI chiama a raccolta il polo anticapitali­sta e antiberlusconiano per un cartello nettamente autonomo dal Pd. Sinistra e Libertà, inve­ce, pur chiedendo rispetto e pa­ri dignità, già si predispone, co­me annuncia la verde Loreda­na De Petris, per la «ricostru­zione di un nuovo centro sini­stra » e anche, secondo l’analisi del bertinottiano Gennaro Mi­gliore, «per un dialogo aperto con il Pd».
Però l'iniziativa politica nel giorno del dopo elezioni è tut­ta di Antonello Soro che per il Pd parla un linguaggio diretto: «Se Sinistra e libertà non vuole limitarsi a esser un partito di testimonianza deve aprire e un confronto con il Pd per vedere se è possibile costruire un’inte­grazione o un coordinamento» mentre « con un partito come Rifondazione che mantiene al­ta la bandiera dell’identità e della testimonianza è impossi­bile che si ritrovi». Lusinghe a parte, Soro fa riferimento ai prossimi appuntamenti eletto­rali (le regionali del 2010) «di tipo coalizionale» ma la forma­zione di Vendola e Fava non gradisce quel concetto dell’«in­tegrazione » che potrebbe tan­to assomigliare a un’annessio­ne.
In casa comunista - dove og­gi la direzione formalizzerà la «proposta di riunificare tutte le forze disponibili a costruire un polo di sinistra, autonomo dal centrosinistra e impegnato da subito a costruire la più va­sta opposizione a Berlusconi e alla Confindustria» — Ferrero sconta le titubanze di Diliberto anche se poi tutti e due tifano per il fallimento di Sinistra e li­bertà. Evidenziando che in ca­sa di Vendola e di Fava già avanzano il guastatore Angelo Bonelli (verdi) e il riformista Ricardo Nencini (socialisti): il primo chiede che gli ambienta­listi vadano da soli per «parla­re a 360 gradi ai cittadini e non solo agli elettori di sinistra»; il secondo pone come condizio­ne per rimanere dentro SL, la presa di distanze da Ferrero e da Diliberto.
Divise su tutto, dunque, le due sinistre. Ma non sull’anali­si del voto che, come ammette l’ex senatore del Prc Giovanni Russo Spena, «è andato parti­colarmente male in Veneto e in Lombardia dove la Lega ha fatto il pieno anche nei quartie­ri popolari».

Corriere della Sera 9.6.09
Parlato: la gauche pensa alle bibite, non sa capire dove va la società
intervista di Maurizio Caprara


ROMA — Bibite. I dirigenti della sinistra italiana prendono bibite, invece di cercare di capire di quale malattia sono affetti e quali medicine servirebbero. A dirlo in questa intervista è Valentino Parlato, uno dei fondatori del manifesto, una delle firme più scanzonate del quotidiano comunista senza che il suo disincanto lo renda indifferente ai destini della sua parte politica.
Negli «attivi» delle sezioni del Partito comunista italiano e dei gruppi della sinistra rivoluzionaria l’ordine del giorno classico era: «La situazione politica attuale e i nostri compiti». Dopo le europee, come riassumerebbe la prima e le sue indicazioni sul 'che fare'?
«La sinistra esce sconfitta dalle elezioni. Con una malattia così grave occorre una diagnosi. Va rifatta l’analisi della società italiana per vedere come è cambiata. Lei parlava delle sezioni di partito. Ma oggi dove sono? Ne ha più la Lega.
E questi prendono bibite».
Bibite?
«Ai miei tempi organizzavamo convegni. Ci chiedevamo: come cambia il capitalismo? Si discuteva, litigava, ma tutti con l’obiettivo di capire che accadeva. Adesso si cerca la trovata di propaganda per prendere voti. Un po’ tutti imitano Berlusconi. Più bravo di loro, in queste invenzioni».
A chi dà la colpa della sconfitta?
«C’è un dato storico. Abbiamo spesso dimenticato il 1989. La fine dell’Urss, con tutti i suoi mali e con le speranze che aveva incarnato, ha comportato un cambiamento del clima storico. Si sono liquidati i partiti comunisti, oggi tocca ai socialdemocratici».
Altre cause?
«Ci si è disonorati dicendo 'Abbiamo sbagliato', non 'Questo tentativo è andato male'. E come se dopo la Rivoluzione francese, dato che era arrivato Napoleone, si fosse detto: 'Abbiamo sbagliato a fare la Rivoluzione'».
Colpe di dirigenti ne ravvisa?
«Con tutta l’amicizia, penso ad Achille Occhetto per la Bolognina (la svolta che portò poi dal Pci al Pds, ndr). Enrico Berlinguer aveva riconosciuto che si era 'esaurita la spinta propulsiva' della Rivoluzione d’Ottobre. Si trattava di inventarsi un’altra spinta, non di accomodarsi all’esistente».
Non crede che quella svolta andasse compiuta prima? E guardi che il partito di Occhetto scese al 19,1%. Il Pd supera il 25% con gli ex democristiani.
«Occhetto aveva il capitale del Pci.Poi fu dissipato».
Non è stato bizzarro che alle europee si presentassero «Sinistra e libertà» da un parte e Rifondazione più i Comunisti italiani dall’altra se soltanto uniti avrebbero raggiunto il quorum?
«Sì, un assurdo. Micropolitica. Era una stupidaggine la scissione di Rifondazione, voluta da Nichi Vendola e Fausto Bertinotti, e si sarebbe dovuto riflettere sulla sconfitta dell’Arcobaleno nel 2008. Erano insieme, e persero tutti».

il Riformista 9.6.09
La sinistra non passa e riprende a litigare
Gauche. Sinistra e Libertà perde pezzi: Verdi sull'orlo della scissione. Ferrero accusa Vendola di aver provocato il nuovo disastro. C'è chi spinge per l'unità, ma non è aria.
di Mattia Salvatore


La frammentazione della sinistra deve cessare, dicono. Ma nei fatti sono più divisi che mai. Quasi incompatibili, il rapporto col Pd è il nodo da sciogliere. Rifondazione e Pdci, con la lista anticapitalista ancorata al 3,4 per cento, e Sinistra e Libertà, ferma al 3,1, non raggiungendo alle europee la soglia del 4, vanno incontro a un'ennesima bocciatura ed esclusione dalle istituzioni. Ma non tutto, per loro, è da buttare: rispetto alle politiche dello scorso anno quando insieme nel simbolo dell'Arcobaleno prendevano un misero 3,1 ci sono segnali incoraggianti. Senza scissioni e litigi interni, forse, lo sbarramento sarebbe stato superato. Il tema dell'unità, quindi, torna di moda.
A lanciarla entrambe le liste. Per il vendoliano doc Gennaro Migliore «bisogna puntare a costruire un cantiere aperto che sappia parlare a quel 10 per cento di forze a sinistra del Pd e di Di Pietro». Un appello rivolto quindi non solo ai "cugini" di Rifondazione ma anche ai radicali. «Le culture comuniste, socialiste e ambientaliste - continua - devono convivere nella stessa casa. Dobbiamo lanciare una proposta politica di qualità». Ovvio che punto di partenza per la costituzione del cantiere deve essere il rilancio di Sinistra e Libertà. Se infatti nella lista anticapitalista c'è sconforto per non aver raggiunto la soglia, nella nuova formazione si festeggia per il risultato ottenuto: «Senza soldi, organizzazione e con un simbolo ai più sconosciuto - spiegano - abbiamo ottenuto un dato soddisfacente».
Si discute però sulla forma che Sl dovrebbe assumere. L'esponente di Sd Claudio Fava da tempo spinge per «una fase costituente per un grande partito della sinistra italiana, radicato nel paese, aperto a chi non si accontenta di testimoniare o di celebrare il passato». Poi sferra un duro attacco al Pd reo, inserendo lo sbarramento alle europee, «di aver rapinato tre milioni di elettori del centrosinistra, il 10% dei votanti, un furto politico senza precedenti». Più timidi sulla forma partito i Verdi, che al proprio interno hanno una situazione sempre più delicata. La minoranza, capeggiata da Angelo Bonelli, mal sopporta questa alleanza elettorale e pochi istanti dopo il voto è tornato alla carica annunciando la morte di Sl e chiedendo a gran voce la «costruzione di una forza ecologista del terzo millennio che parli a 360 gradi ai cittadini e non solo agli elettori di sinistra». Preludi di una battaglia per il prossimo congresso del Sole che Ride che si terrà a luglio. Perché la maggioranza, guidata da Grazia Francescato, non vuol sapere di abbandonare il progetto esprimendosi, ora, in maniera favorevole all'idea di cantiere delle sinistre.
Un soggetto «autonomo dal Pd ma che si pone il problema del dialogo coi democratici - affermano dentro Sl - Cercare di porre le basi per un nuovo centrosinistra». Progetto, questo, che non interessa a Rifondazione che della totale indipendenza dal Pd fa un suo cavallo di battaglia. Il Prc «avanza la proposta di riunificare, a partire da coloro che hanno dato vita alla lista anticapitalista e comunista, tutte le forze disponibili a costruire un polo di sinistra, autonomo dal centrosinistra e impegnato da subito a costruire la più vasta opposizione alle politiche del governo Berlusconi e di Confindustria». Sinistra Critica e il Partito dei Lavoratori di Marco Ferrando saranno i primi contatti, tra i quali non ci saranno sicuramente i «liberisti» dei radicali. Lontana al momento l'idea di partito unico col Pdci, progetto promosso da una parte del Prc (quella che fa capo a Claudio Grassi, uomo forte della segreteria) e non da Paolo Ferrero che sa così, con "l'unità dei comunisti", di perdersi il pezzo dei bertinottiani rimasti nel momento della scissione. Proprio loro si compiacciono dell'idea di «federazione delle sinistre» e attaccano gli amici vendoliani per la loro proposta. «Dobbiamo costruire un'alternativa di società - dice Augusto Rocchi - Come si fa se si nasce sotto il cappello del Pd?». «E poi - aggiunge con ironia - perché includere Pannella e non Di Pietro?». Per Ferrero non si è superato lo sbarramento perché «c'è stata una scissione di troppo». La sinistra sembra destinata a proseguire su binari paralleli.

l’Unità 9.6.09
«La sinistra si rinnovi, in Europa è morta la socialdemocrazia»
Il sociologo francese: «Come è stato detto per il comunismo nell’89
«Oggi possiamo dire che quel modello ha subito un crollo irreversibile
Basta guardare al passato, bisogna superare l’arcaismo dei socialisti»
Intervista ad Alain Touraine di Umberto De Giovannangeli


Così come nell’89 parlammo di morte del comunismo, oggi, alla luce dei risultati elettorali, possiamo parlare di “morte” del modello socialdemocratico». A sostenerlo è uno dei più autorevoli e affermati sociologi europei: il professor Alain Touraine, Directeur d’études all’École des Hautes études en sciences sociales di Parigi.
Professor Touraine, come leggere queste elezioni europee?
«In primo luogo possiamo dire che mai come in questo caso, è lecito parlare di elezioni davvero “europee”, perché hanno evidenziato due tendenze generali: l’affermazione delle destre e il crollo irreversibile del modello socialdemocratico».
L’Europa guarda a destra.
«Purtroppo è così. Si tratta di un fenomeno pressoché generalizzato, con l’eccezione della Svezia, rafforzato da spinte di estrema destra, come in Austria e in Italia con il successo della Lega di Bossi, la cui base sociale è simile a quella dei partiti fascisti. Vi è un pericolo nuovo in Europa, con una destra tradizionale incalzata dall’estrema destra. In Francia, la situazione è un po’ diversa, nel senso che il successo considerevole di Nicolas Sarkozy – che non può essere ricondotto solo ai buoni risultati ottenuti nel semestre di presidenza dell’Ue – ha permesso di porre un argine alla risalita dell’estrema destra. Per restare ancora alla Francia, un fenomeno sorprendente è anche il crollo del centro di Francois Bayrou».
E sul fronte opposto?
«Il dato più importante è che a distanza di vent’anni dal crollo del comunismo, assistiamo al crollo della socialdemocrazia. Si tratta di una caduta spettacolare, irreversibile, che rimette in discussione un modello. Per restare alla Francia: Martine Aubry (segretaria generale del Psf,ndr.) è stata praticamente assente per tutta la campagna elettorale. Se Ségolène Royal avesse guidato il partito, probabilmente avrebbe ottenuto un risultato migliore. La Francia è paradigmatica di una crisi di leadership che investe tutte le forze della sinistra in Europa, il cui tracollo va anche legato alla rottura con i ceti popolari. In Germania, un altro Paese chiave per l’Europa, l’indebolimento della Spd non è stato riequilibrato da una vittoria della Linke che aveva cercato il sostegno delle grandi organizzazioni sindacali».
Cosa c’è di altro ancora nel tracollo delle forze socialiste e socialdemocratiche europee?
«C’è l’esaurimento del modello socialdemocratico; c’è l’incapacità di formare leadership autorevoli, in sintonia con i tempi; c’è l’indeterminatezza nella definizione degli obiettivi da raggiungere. Credo di non esagerare se utilizzo il termine di “morte” della socialdemocrazia, così come nel 1989 si è potuto parlare, a ragione, di morte del comunismo».
A destra. Perché?
«La storia c’insegna che nei momenti di forte crisi, il voto si orienta verso gli estremi, e in queste elezioni soprattutto verso destra».
Che situazione si prospetta?
«Una situazione tesa, densa di pericoli. Perché è difficile pensare che si possa uscire da una crisi economica e sociale destinata a proseguire almeno fino al 2011, senza troppi danni. Purtroppo la sinistra non ha saputo offrire risposte adeguate finendo così per far parte di un mondo in via di estinzione».
In Francia si è assistito al successo dei Verdi di Daniel Cohn Bendit.
«In un contesto in cui non le forze tradizionali mostrano di essere prigioniere di una visione angusta e sorpassata, Cohn Bendit – ex icona del ’68 che ha saputo però riproporsi sulla scena politica con una immagine rinnovata – ha saputo proporre un grande tema concreto e al tempo stesso fortemente simbolico: l’ecologia. E questo in risposta a ciò che io chiamo l’arcaismo dei socialisti. Il successo dei Verdi, non solo in Francia, può essere considerato la risposta politica alla crisi profonda che colpisce le forze socialiste e socialdemocratiche europee. Una sinistra nuova non può guardare al passato se vuole tornare a vincere. Quel passato è morto. Ed è importante che su quelle “ceneri” possano sorgere formazioni politiche in grado di offrire risposte innovative ad un bisogno di cambiamento che non è venuto meno».
Come leggere l’altro dato “europeo” di questa tornata elettorale: il minimo storico di partecipazione?
«Anche questo dato è da considerare caratteristico dei periodi di crisi, nei quali i cittadini manifestano scetticismo se non ostilità verso le istituzioni. Un atteggiamento peraltro molto fondato se si considera il ruolo inesistente delle istituzioni europee di fronte alla grave crisi economica che attraversiamo. Basta pensare al ruolo passivo di Barroso (presidente della Commissione europea, ndr.) mentre negli Stati Uniti, Barack Obama si è impegnato in prima persona per rimettere in moto l’economia del Paese».
In ultimo, l’Italia. Al centro dei riflettori europei per gli scandali che hanno coinvolto il premier Berlusconi.
«In realtà, gli scandali sembravano essere una peculiarità dei partiti socialisti. Basti pensare allo squasso politico in Gran Bretagna che ha investito il Labour. E anche in Francia avvengono cose abbastanza inquietanti in termini di immoralità pubblica. Per venire all’Italia, il Paese non sta affatto bene. C’è un premier che si comporta in un modo vergognoso, cercando di imporre le proprie “verità” attraverso il controllo dei grandi mezzi di comunicazione. In qualsiasi altro Paese europeo democratico, un simile comportamento avrebbe fatto perdere consensi o determinato la fine di una carriera politica. In Italia non è così. L’Italia appare come un Paese relativamente isolato e ripiegato su se stesso. Il risultato non è brillante e denota una incapacità di rinnovamento. Il dato elettorale più eclatante è il successo della Lega che userà questa vittoria per condizionare ulteriormente l’azione del governo in termini di chiusura su questioni cruciali come la sicurezza e l’immigrazione».

l’Unità 9.6.09
Fini tace ma i finiani no
«Il Pdl va organizzato»


Lui, il presidente della Camera, non commenta, anzi nemmeno si fa fotografare al seggio: per «riservatezza», dice, chissà. I suoi, invece, si lanciano in severe analisi sul partito da «riorganizzare». Analisi al limite di una indicibile soddisfazione. Una «modesta vittoria del Pdl», si auguravano del resto alcuni finiani alla vigilia del voto, «il miglior risultato che ci si potesse aspettare», commentano dopo il 35,3 per cento delle urne. Non si tratta di «remare contro» il neopartito di Fi e An, questo no: «Sarebbe autolesionista». Piuttosto, si tratta di salutare lo scampato pericolo di un Berlusconi «stravincente». E cogliere l’occasione della «modesta vittoria» per lavorare a un Pdl che «non viva solo di luce riflessa».
«Organizzare il partito, su base territoriale» è infatti la parola d’ordine sia di finiani come Fabio Granata e sia di fondazioni vicine come Farefuturo. Scopo primario, «contenere l’euforia leghista» e smetterla d’essere la «fotocopia» del Carroccio. In Pdl alternativo alla Lega, con obiettivi opposti ma con la stessa sapienza organizzativa, del resto, è proprio quello che ha in mente Fini. E mentre alla Camera i suoi scaldano i motori, il presidente s’è apparecchiato una settimana all’altezza della sua istituzionale trasversalità. Convegno sul lavoro con Amato e Marcegaglia, commemorazione di Enrico Berlinguer con Alfredo Reichlin. E, per finire, incontro con Gheddafi. Promosso ancora da Italianieuropei, ma anche da Medidea di Giuseppe Pisanu. Una new entry, nell’orizzonte finiano.

l’Unità 9.6.09
Da Parigi «Dany» guida l’onda verde sull’Europa
di Marina Mastroluca


In crescita in tutto il continente, all’europarlamento il gruppo sale da 43 a 52 seggi
No a Barroso Cohn-Bendit: «In contatto con i socialisti per formare una maggioranza»
Voglia di Verdi. L’exploit francese di Europe Ecologie del sessantottino Cohn-Bendit guida una tendenza generale. E già si cerca una nuova maggioranza all’europarlamento per evitare il bis di Barroso.

«Le Dany boom» titolava ieri Liberation. Dove Dany è l’ex sessantottino Daniel Cohn-Bendit e il boom è l’esplosione elettorale dei suoi Verdi di Europe Ecologie, catapultati sotto i riflettori dal voto europeo. Terzo partito ad un soffio dai socialisti, distanti appena 35.000 preferenze, il 16,2% su scala nazionale con punte del 20,8 nell’Ile de France, quando nel 2004 non avevano che il 7,5%. Un terremoto politico. A Strasburgo i verdi francesi spediranno una nutrita pattuglia di eurodeputati, passando da sei a 14, lo stesso numero dei navigati Grunen tedeschi. E Cohn-Bendit già si sente chiedere se si candiderà alle prossime presidenziali francesi. «Ho parlato con il presidente del partito socialista europeo per cercare di costruire una maggioranza», dice tenendo ferma la barra sulla Ue. Obiettivo, liquidare il capitolo Barroso. Il voto europeo, dice, è stato «il d day della politica ecologica».
ECCEZIONE ITALIANA
Non è solo l’euforia del momento. In un’Europa che diserta le urne e vira a destra, la sorpresa francese solo in parte annunciata dai sondaggi guida una tendenza: i Verdi crescono un po’ in tutta la Ue e rafforzano la loro presenza all’Europarlamento, con l’eccezione dell’Italia rimasta a guardare. Come gruppo avevano 43 seggi del 2004, oggi sono a 52, a dispetto della riduzione complessiva delle poltrone (da 751 a 736).
È un successo spesso di piccoli passi, come in Germania dove i Verdi strappano qualche decimale e un seggio in più all’Europarlamento, confermandosi terzo partito e riducendo le distanze con una Spd falcidiata e una Cdu in flessione. Nella Gran Bretagna del Labour in picchiata, gli ambientalisti salgono al 13,3 e prendono 5 seggi. I Verdi crescono - e di molto - anche in Belgio, che in controtendenza con il resto del continente vede la destra xenofoba in netto calo: in Vallonia raddoppiano i consensi, arrivando al 18,5%, a Bruxelles superano il 20. In Olanda ottengono tre seggi, in Grecia solo uno ma è una prima assoluta, come per la Romania. In Portogallo la confederazione comunisti e ecologisti è quarto partito e sfiora l’11 per cento. È al quarto posto anche il verde Mp in Svezia che quasi raddoppia passando dal 6 al 10,8% e incassa un doppio seggio, mentre fa un salto in avanti anche il Finlandese Vihr, che prende due seggi. Nel piccolo Lussemburgo il partito ecologista incassa quasi il 2% in più ma si deve accontentare del seggio che già aveva nel 2004.
LINGUAGGIO NUOVO
Una piccola rivoluzione, che parla spesso una lingua nuova. Là dove la crisi ha messo a nudo i limiti di un sistema economico che per funzionare deve produrre sempre di più, inghiottendo risorse e petrolio, i Verdi ragionano di economia sostenibile, energie alternative, di prodotti a chilometri zero, di democrazia decentrata, di diritti. Un altro modo di leggere il mondo, che sembra più in sintonia con una parte crescente dell’elettorato europeo. «Gli europei hanno accettato la visione dell’Europa di domani proposta dagli ecologisti - ha detto Cohn-Bendit -. Questo risultato è in opposizione al successo delle forze distruttive verso l’Europa, come gli euroscettici e l’estrema destra».

l’Unità 9.6.09
Choc a Londra per la vittoria del British National Party dichiaratamente razzista
Il caso Ungheria Sfiora il 15% il partito paramilitare Jobbik; nel mirino rom e comunisti
Contro ebrei turchi e Corano
Il plotone dell’ultra destra
di Marco Mongello


Il plotone dei partiti xenofobi e razzisti inquieta l’Europa il giorno dopo il verdetto delle urne. L’onda nera è stata minore delle previsioni ma dalla Gran Bretagna all’Ungheria scatta l’allarme.

Vogliono bandire il Corano, combattere gli ebrei, rom e comunisti, liberare il proprio Paese dalla «dittatura europea» e restituire «l'Occidente in mani cristiane». È il plotone dei nuovi eurodeputati dei partiti dell'estrema destra che si accinge a marciare su Strasburgo.
A conti fatti alle elezioni europee la temuta ondata di partiti fascisti e xenofobi è stata minore del previsto e in alcuni casi, come in Francia e in Belgio, i partiti dell'estrema destra sono pure in calo. In molti altri Paesi però, soprattutto dell'Est e del Nord Europa, i risultati sono allarmanti.
Il primo ad attirare l'attenzione è stato il Partito per la Libertà (Pvv) dell'olandese Geert Wilders che, scandendo slogan contro l'Islam, la Turchia e il Corano, è riuscito ad ottenere il 17% . Al nord fa anche scalpore il 10% strappato dal finlandese Timo Soini con il suo Perussuomalaiset, il partito dei Veri Finlandesi, che chiede di uscire dall'Ue e fermare l'immigrazione. Con 130.000 preferenze Timo Soini è stato il politico più votato in Finlandia. Nella multietnica Gran Bretagna poi è stato un vero e proprio choc il risultato del dichiaratamente razzista British National Party, che manderà ben due rappresentati a Strasburgo. Mentre in Austria l'Fpoe del defunto Jorg Haider ha ottenuto più del 13% e due seggi, raddoppiando i consensi del 2004.
Nell'Est Europa il primato spetta al partito paramilitare ungherese Jobbik, che sfiorando il 15% ha preso tre seggi. «L'Ungheria è stata venduta», ha dichiarato il leader Gabor Vona, «i nemici da combattere sono le multinazionali, gli ebrei, i rom ed i comunisti». A Bucarest festeggiano i militanti del Partito della Grande Romania per l'8,47% di voti e i due seggi, di cui uno andrà al discusso presidente del partito, Corneliu Vadim Tudor. In Bulgaria i nazionalisti anti-rom sono arrivati all'11,72% e in Slovacchia il partiti xenofobo Sns ha conquistato il suo primo eurodeputato.
Il partito di Le Pen
In Polonia e Repubblica Ceca però i partiti dell'estrema destra sono rimasti al di sotto delle previsioni e i fiamminghi del Vlaams Belang hanno perso uno dei loro tre seggi al Parlamento europeo, mentre il Front National francese di Jean-Marie Le Pen sono passati da 7 a 3 eurodeputati.
Ora fervono i lavori per cercare di formare un gruppo politico come il vecchio Uen (Unione per l'Europa delle Nazioni), andato in pezzi nel 2007 tra i litigi. Ma la colorata compagine di questa volta lascia presagire che le cose saranno anche più difficili. «In alcuni casi questi movimenti sono fenomeni nuovi», ha spiegato Mario Incerti, ricercatore del think tank brussellese Centre for European Policy Studies, «il Pvv olandese ad esempio non vuole essere assimilato a questi gruppi di estrema destra». Comunque, ha rassicurato Incerti, «in genere questi partiti sono marginalizzati dal resto delle forze politiche e alla fine non riescono a capitalizzare i voti presi, anche perché spesso invocano politiche irrealizzabili». Il loro successo, ha concluso, è dovuto ad «un voto di protesta contro crisi economica e ritardi dell'Ue nelle politiche dell'immigrazione».

l’Unità 9.6.09
«Il voto agli ultrà preoccupa ma meno della Lega in Italia»
Il militante antirazzista di origine indiana: «In tempi di crisi l’immigrazione da risorsa diventa un problema»
Colloquio con l’eurodeputato Claude Moraes di M. Mon.


L'affermazione del British National Party in Gran Bretagna preoccupa, ma la questione dell'estrema destra non è un problema come in altri Paesi europei e «non è neanche vicino ai livelli dell'Italia» dove dei partiti estremisti siedono nella coalizione di Governo. Lo afferma l'eurodeputato laburista britannico Claude Moraes. Immigrato in Gran Bretagna dall'India a 6 anni, Moraes si è occupato da sempre dei problemi di razzismo e nel 1999 è stato il primo rappresentante della circoscrizione londinese appartenente ad una minoranza etnica ad essere eletto al Parlamento europeo. Alle ultime elezioni europee, nonostante il pessimo risultato dei laburisti, Moraes è stato rieletto per la terza volta.
«La conquista di due seggi a Strasburgo da parte del Bnp preoccupa ma non bisogna esagerare sulla sua affermazione», ha spiegato all'Unità. «In realtà il partito dell'estrema destra britannica ha cavalcato la rabbia degli elettori per lo scandalo dei rimborsi, la recessione e l'euroscetticismo».
Il fatto che fino ad oggi la Gran Bretagna non ha avuto dei partiti estremisti come gli altri Paesi «è dovuto al sistema di voto maggioritario dove le posizioni estreme non hanno spazio, e se ora emerge il Bnp è perché a partire dal 1999 per le elezioni europee anche noi abbiamo adottato un sistema proporzionale».
Secondo l'eurodeputato, alla base «c'è anche la questione dell'immigrazione, che quando l'economia va bene è una risorsa ma quando c'è la recessione è una minaccia». Tuttavia, ha concluso Moraes, il problema inglese «non è neanche vicino ai livelli dell'Italia dove un partito di origine fascista, anche se modernizzato, e la Lega Nord fanno parte della coalizione di Governo».

l’Unità 9.6.09
L’Europa va a destra «padroni in casa propria»


Un panorama procelloso è quello che il voto europeo ci consegna. La crisi economica, gli squilibri demografici, i grandi flussi migratori e, su un piano diverso ma infine coincidente, il declino del modello socialista e socialdemocratico di welfare: tutto ciò porta i popoli europei a scelte di corrusca autodifesa. «Padroni a casa propria» non è più, o solo, lo slogan cupo di tutti i leghismi: diventa una sorta di strategia geopolitica. L’immigrazione ne è il bersaglio. Così, come si legge nei giornali di ieri, i 27 «vanno a destra».
Il dato più preoccupante è quello dell'Olanda, dove il partito islamofobico, PVV (partito per la libertà) di Geert Wilders, ha ottenuto il 17% dei voti, il 10,9% in più rispetto al 2006. Il leader del PVV è noto per aver diretto un cortometraggio violentemente anti-islamico: Fitna, che paragona l'Islam al fascismo alla cui diffusione (nel timore di un nuovo caso “vignette danesi”), il governo si era opposto, un anno fa. Il voto olandese non è l'unico che preoccupa: in Gran Bretagna si registra il risultato del 27% per i Conservatori di David Cameron e del 17% per il partito euroscettico UK Independent Party (UKip). In Austria, la Fpoe (liberal nazionalisti), ottiene il 12,9% (più 6,6% rispetto al 2004). Grande vittoria dell'estrema destra anche in Portogallo e in Ungheria, dove Jobbik ha ottenuto il 14,77% dei voti. In Finlandia, poi, si assiste ad una forte ascesa di nazionalisti ed euroscettici: True Finns, formazione che chiede un freno all'immigrazione e all'integrazione comunitaria, ottiene il 9,8% (dallo 0.5% del 2004). E, infine, la Lega Nord in Italia raggiunge il 10,2% diventando il terzo partito del paese. Meteo: tempo da lupi.

l’Unità Firenze 9.6.09
Il Pd arretra soprattutto a Firenze, meno 9% e Livorno, meno 10%
di Vladimiro Frulletti


Pd primo, ma perde 300mila voti
Giù anche il Pdl, meno 100mila
Male a Firenze e Livorno

I democratici pagano il forte astensionismo, il voto utile che torna alle formazioni di sinistra, e la concorrenza dell’Idv. Berlusconi va indietro, ma diventa il primo partito a Grosseto, Lucca e Massa Carrara.

Il Pd sotto la soglia, psicologicamente importante, del 40%. Pdl in discesa, rispunta la sinistra cosiddetta radicale, raddoppia Di Pietro, esplode la Lega Nord, mantiene la sua forza l’Udc. Pd e centrosinistra però riconquistano la provincia di Firenze e quelle di Siena, Pisa, Livorno e Pistoia (e questa vittoria non era scontata) e il comune di Livorno. Ma vanno al ballottaggio alle province di Prato, Arezzo, Grosseto; al comune di Firenze e a quello di Prato. Ecco cosa è successo nelle urne della Toscana.
Il rosso e l’azzurro
Tanto che Antonio Floridia, direttore dell’osservatorio elettorale della Regione, se dovesse colorare la Toscana darebbe oramai uno sfondo azzurro Pdl alle province di Lucca, Grosseto e Massa Carrara (dove c’è stato però il successo del Pd sul Pdl a Massa città, e il boom, 14%, delle liste della sinistra), manterrebbe un rosso vivo alle province di Firenze, Siena, Livorno e Pisa, mentre Pistoia, Arezzo e Prato («è l’unica realtà dove il Pdl cresce rispetto alle politiche» fa notare) sono da considerare «oramai contendibili» perché centrosinistra e centrodestra hanno forze equivalenti. Insomma «la geografia politica della Toscana sta cambiando - aggiunge Floridia - il che non è detto che sia un male per la sinistra». Peso rilevante l’ha avuto ovviamente l’astensione. Alle europee sono andati a votare solo 7 toscani su 10, inevitabilmente questa disaffezione ha presentato il conto a diversi protagonisti.
Pd in calo
Primo fra tutti il Pd, che in un anno (dalle politiche 2008) perde più di 300mila voti. Aveva oltre 1milione e centomila voti (46,8%), ne ha presi poco più di 805mila (38,7%), 8% in meno. E nel 2004 Uniti nell’Ulivo (Ds, più Margherita, più Sdi) contò oltre 915mila voti, pari al 41,7%. Un calo che lascia l’amaro in bocca in casa democratica. Il meno 8% è dovuto, dicono, soprattutto ai brutti risultati di Firenze, dove il Pd perde il 9%, e Livorno, dove la caduta è del 10%. Altrimenti nelle tabelline ci sarebbe stato un meno 6%. Non lontano dal trend nazionale. La consolazione invece riguarda il fatto che è la Toscana, assieme all’Emilia, uno dei pochi posti dove il Pd è più forte del Pdl dopo che anche Umbria e Marche Il partito berlusconiano è arrivato primo. Ma dove sono andati a finire questi voti democratici? Floridia parla di «contraccolpo al voto utile». E divide in rivoli in uscita dal Pd in varie direzioni. Il primo, consistente, è quello dei delusi che non è andato a votare. Poi i radicali che alle politiche stavano nel Pd hanno preso il 2,6 (54mila voti) e a Firenze più del 5%. In parte sono andati a Di Pietro che da i quasi 83mila voti delle politiche balza a oltre 141mila (dal 3,55 al 6,8%).
Effetto Staino
Ma il resto è tornato a sinistra. «È stato un voto più libero - spiega Floridia -, e c’è stato pure un voto utile per le formazioni di sinistra per aiutarle a superare lo sbarramento del 4% un modo alla Staino (il disegnatore del Pd candidato con Sinistra e Libertà) per mandare al Pd un messaggio di sinistra». Socialisti e Sinistra Arcobaleno avevano il 6,6% alle politiche (circa 133mila voti). Oggi Prc-Pdci e sinistra e Libertà sono all8,6% (più di 180mila voti). «Il che porrà al Pd anche in Toscana - riflette Floridia - la necessità di riflettere sulle alleanze». E in vista delle regionali del prossimo anno già si calcola che il Pd non potrà fare a meno nè dell’Idv, né di Sinistra e Libertà. Insieme avrebbero circa 1milione di voti (Martini fu eletto superando appunto il milione di voti). L’area comunista (Prc più Pdci, più Pcl) ha 130mila voti, mentre tutto il centrodestra (Udc compresa) arriva a 879mila, nel 2005 ne aveva 678mila.
Giù Berlusconi, su Bossi
Il che vuol dire che non c’è stata trasmigrazione di voti verso destra. Infatti il Pdl perde quasi 100mila voti rispetto alle politiche. E solo a Prato segna un più 1,8%. Altrove sono solo segni meno. A destra semmai l’exploit è della Lega Nord che raddoppia i propri consensi e che oramai col suo 4,32% in Toscana vale (come peso elettorale) l’Udc e supera Sinistra e Libertà che poteva contare sull’alleanza di Socialisti, Verdi, vendoliani e Sinistra democratica. Un campanello d’allarme che molti legano anche alla recente approvazione da parte della Regione della legge sugli immigrati che ha fatto scatenare a destra una campagna violentemente xenofoba.
A Prato, tanto per citare il dato di una realtà dove la presenza di immigrati (soprattutto cinesi) è rilevante Bossi è al 6,2%, in provincia di Lucca è al 6%, ha il 5% nell’aretino. Anche se poi i suoi punti di forza si registrano in Lunigiana, Garfagnana e fino al Casentino. Tanto che Floridia la definisce «Lega appenninica», ma fa notare anche che a suo avviso si tratta di un voto di protesta e cita il dato della Destra di Storace. 2,9% alle politiche (68mila voti), 0,4% questa volta: 60mila voti in meno. È la Lega al contrario dai 48mila voti del 2008 passa ai quasi 90mila di oggi.

l’Unità Firenze 9.6.09
Spini (all’8%) manda Renzi al ballottaggio con Galli
di Osvaldo Sabato


Ornella De Zordo ferma al 4%, Mario Razzanelli è al 3,3%, Marco Carraresi al 2,15% e il grillino Bonafede all’1,8%. In Comune il Pd supera il 35%, il Pdl è al 20,3%, Italia dei valori al 2,8% e la Lega all’1,3%.

Tutto rimandato al ballottaggio. Solo tra due settimane si saprà chi tra Matteo Renzi e Giovanni Galli sarà il nuovo sindaco di Firenze. Anche se il candidato del centro sinistra parte con un vantaggio superiore ai sedici punti. Infatti in 249 sezioni scrutinate su 361, Matteo Renzi è a quota 47,95% con 67.947 voti di preferenza. Nettamente più indietro è Giovanni Galli con il 31,75% pari a 44.994 voti. Ancora più distaccato, quindi escluso dal ballottaggio, è l’ex parlamentare Valdo Spini che con l’8,34% incassa 11.817 consensi. L’altra candidata sindaco della sinistra, Ornella De Zordo, nelle sezioni scrutinate tocca il 4% tondo con 5.663 voti. Mario Razzanelli, l’antitramvia per eccellenza, non va oltre il 3,34% con 4.716 preferenze. Il candidato sindaco dell’Udc di Casini, Marco Carraresi, con 3.048 voti è al 2,15%. Il grillino Alfonso Bonafede marca l’1,87% con 1.578 voti. Alla estrema sinistra la candidata sindaco del Partito Comunista dei Lavoratori, Cristina Lascialfari, prende solo lo 0,32% racchiuso in 268 voti. Superata da Paolo Poggi, in corsa come sindaco per la lista di destra Popolo Città Nazione, che incassa lo 0,32% con 268 voti.
I VOTI ALLE LISTE
I risultati provvisori delle liste vedono il Pd come primo partito in 249 sezioni fiorentine su 361. Il partito democratico a Firenze è al 35,49 con 44.010 voti; 2,84% per l’Italia dei Valori, le liste di Renzi (Facce Nuove e lista Renzi) sommano 7,35. Sempre nella coalizione di centro sinistra i comunisti fiorentini ottengono 1185 voti (0,96%%), 2.805 Sinistra per Firenze (2,26%). Nel centro destra a sostegno di Galli, il Pdl è al 20,32% con 25.200 voti, la Lega non supera i 1667 voti. L’alleanza di Spini registra un 3,91% della federazione dei Verdi e Repubblicani Europei, Rifondazione Comunista e i Comunisti Italiani hanno 3.462 (2,53%), Sinistra per la Costituzione 643 voti (0,47%). La lista civica di Ornella De Zordo “Perunaltracittà” ha 5030 voti (3,68). L’Unione di Centro di Marco Carraresi è al 2,33% con 3182 voti. Il comitato dei cittadini di Razzanelli porta a casa 4498 voti (3,29%). La lista civica di Beppe Grillo.it ottiene 2659 voti (1,94%). La destra Fiamma Tricolore 1048 voti (0,77%) e infine il Partito Comunista dei Lavoratori 379 voti (0,28%). Questi i dati provvisori. A pesare sul risultato inferiore alle aspettative, per Renzi, dunque, è stata la buona affermazione di due candidati sindaco di sinistra: Valdo Spini (appoggiato da Verdi, Prc e Pdci), che è all'8,44% e Ornella De Zordo (Perunaltracittà), che è accreditata al 4,02%.
Renzi ha comunque assicurato che al secondo turno non farà «accordicchi con nessuno», nè con le forze che appoggiano Spini e la De Zordo, nè con l'Udc, il cui candidato sindaco Marco Carraresi è al 2,18%. Ora la vera partita per la conquista di Palazzo Vecchio. «Renzi è scontento del risultato e dice che andremo al ballottaggio? È la prima volta che mi trovo d’accordo con lui». Questo il giudizio dell’ ex calciatore che si prepara così al ballottaggio. «Renzi - aggiunge - ha potuto contare su una campagna elettorale lunga un anno: nonostante ciò non è riuscito a spuntarla, come sosteneva. E soprattutto i fiorentini hanno deciso di interrompere la continuità con Domenici».

Repubblica 9.6.09
Renzi fallisce il colpo ma poi si riprende: "Ora mi metto ben bene a spalare di nuovo"
La sbandata all’ultima curva del bimbo che mangia i comunisti
"Ho questa immagine dell’arrogantello Voglio scrollarmela di dosso"
di Antonello Caporale


FIRENZE - Il bambino che mangia i comunisti, calembour elettorale assai fortunato, s´è fermato all´ultimo boccone. Al trentaquattrenne Matteo Renzi, un velocista in fatto di parole e di voti, la sinistra fiorentina ha presentato il conto intimandogli il fermo tecnico e la procedura del ballottaggio, altre due settimane di preghiere e parole. "Raga, sono un po´ deluso però ci si mette ben bene a spalare di nuovo".
I raga, cioè i cronisti accorsi al comitato elettorale, vergano la incipiente delusione: «Mi aspettavo il 48 in verità, siamo di due punti sotto ma molto meglio dello schieramento che sostenne Leonardo Domenici l´altra volta».
Avrà da chiedere i voti a Valdo Spini, figlio di Giorgio, eterno politico fiorentino che questa volta ha raccolto intorno al suo nome tutta la diffidenza che incute questo Renzi, giovane ma già così spigliato, così convinto di dove sia il bene e il male. Persuaso che nella vita bisogna fare più che pensare. Presuntuoso nel suo perfetto gessato blu, come egli stesso molto amabilmente ammette: «Ho questa immagine dell´arrogantello, del saccente. Voglio scrollarmela di dosso e andrò a mani nude, casa per casa a convincere la gente a darmi il voto. Tutto posso fare tranne che patti con i partiti. Con questi patti la vita della giunta Domenici è stata un inferno. Io ho cento cose da fare subito, ho un programma impegnativo capisci? O me o Giovanni».
Renzi è easy: una sua lista si chiama "Con Matteo", il suo sfidante è "Giovanni", i giornalisti "raga". Veloce con i pensieri e forte della sua convinzione: malgrado tutto i comunisti, che lo odiano assai, al ballottaggio avranno da scegliere tra lui e la poltrona di casa. Lo sfidante, l´ex portiere del Milan e della Fiorentina, un uomo candido che nessuno mai ha sentito incuriosirsi di politica, al quale nemmeno per sbaglio gli è capitato di dire una parola, una sola, fosse anche "piove, governo ladro".
L´ha chiamato Silvio Berlusconi in extremis, trasferendolo dai commenti mediaset al calcio della domenica nei dintorni di palazzo Vecchio. Galli, forte del suo 32 per cento assicura che al ballottaggio si trasformerà, "sarò un diavolo, solo non vorrei che tutto quest´altro tempo di battage elettorale noi venissimo a noia ai cittadini". Renzi, stupito: "Diavolo lui? E´ così buono".
Firenze comunque strattona il suo bambino e gli impone di ripassare bene i compiti. Spavaldo lo è e quando riuscì ad imporre all´elefante comunista fiorentino il suo nome fu preso dall´euforia e chiamò l´Italia a conoscerlo. Si fece subito riconoscere. Ci sono giovani e giovani. Lui, bravissimo naturalmente. Dario Franceschini, il segretario del suo partito, "un vicedisastro".
Adesso forse dovrà chiedere al vicedisastro di farsi una passeggiatina in città e persuadere, convincere, ammorbidire i recalcitranti. "Mi è giunta voce che in due sezioni due candidati del Pd hanno proposto il voto disgiunto", annota Matteo.
Ecco i nemici in casa, compagni coltelli, ecco i futuri consiglieri con i quali il concretista Renzi dovrà fare i conti per imporre nei primi cento giorni cento realizzazioni.
Dopo l´era non proprio fortunata di Leonardo Domenici, sindaco mai amato (e infatti alle europee la città si è scordata di lui liquidandogli pochi e indispensabili consensi) arriva, è pressocchè certo, il bambino-prodigio.
Non ci fosse stato Valdo Spini, che attesta le sue preferenze poco al di sotto del dieci per cento (che arrivano al quindici con l´aggiunta dell´altra lista della sinistra radicale), il galoppo verso il Municipio sarebbe stato inarrestabile. Invece Matteo all´ultimo boccone s´è lasciato cadere le posate in terra.
Tutto da rifare.

Corriere della Sera 9.6.09
Il candidato della sinistra
Spini decisivo: ora Franceschini deve mettere ordine
intervisa a Valdo Spini di A. Gar.


FIRENZE — Valdo Spini, ex socialista, ex Ds, ex ministro con Amato e Ciampi: lei potrebbe finire sul banco degli imputati. «Io? E perché mai?».
Come candidato sindaco, appoggiato da Rifondazione, Verdi, Comunisti italiani e altri, ha superato l’8% e ha spedito Matteo Renzi al ballottaggio.
«La mia candidatura risale a novembre. Nessuno mi ha mai cer­cato, da allora. E Renzi dopo le primarie di febbraio ha coltivato il sogno dell’autosufficienza».
Se l’avessero cercata, per un accor­do?
«Avrei guardato con attenzione i pro­grammi ».
Invece, cosa è accaduto?
«Da parte di Renzi c’è stata grande ag­gressività. Non ha ascoltato neanche D’Alema».
Cosa aveva detto, D'Alema?
«D’Alema è venuto a Firenze per soste­nere Renzi e ha pronunciato un discorso positivo. Ha definito 'legittima la candi­datura di un vecchio compagno come Val­do Spini', e ha aggiunto: 'Spero che lui e Renzi lavorino assieme'. Mi è dispiaciuto per il 'vecchio', ma è chiaro che parlava in vista del ballottaggio».
E Renzi come ha reagito?
«Più avanti, ha detto che votare per me era come votare per Berlusconi. Solo schiaffetti, schiaffi e schiaffoni».
Le sue liste e quella 'movimentista' della De Zordo hanno mandato Renzi al ballottaggio. La De Zordo ha rifiutato patti con Renzi. Cosa succede adesso?
«Renzi ha detto che non farà 'accordicchi' con nessuno, tanto meno con me. Ma io penso che il Pd, il suo partito, dovrebbe avere qualcosa da dire in proposito».
Che cosa?
«Io ho un atteggiamento fermo e tuttavia positivo, di apertura. Rappresento da una parte la società civile, dall’altra un certo risor­gimento della sinistra. Credo di meritare attenzione anche dai ver­tici del Pd, a Roma».
Si sta rivolgendo direttamente a Franceschini?
«Io credo che il Pd, anche a fronte delle difficoltà nazionali che attraversa, dovrebbe cogliere le possibilità di dialogo. Non posso­no lasciare tutto nelle mani di Matteo Renzi. Avranno qualcosa da dire anche loro...».
Si offre anche per partecipare al governo di Firenze?
«Questo è un discorso successivo. Si vedrà».
Renzi ha commesso errori in campagna elettorale?
«So che molti elettori hanno utilizzato il voto disgiunto: Pd e Spini sindaco. Elettori di sinistra che non ce l'hanno fatta a votare il cattolico Renzi. Sono stato protagonista di una vignetta di Stai­no. La figlia chiede a Bobo: 'Papà è vero che vai a cena da Valdo Spini?'. E Bobo: 'Sì, da quando è nato il Pd mi manca un po’ di laicità'».
Renzi potrebbe aver perso a sinistra, ma recuperato a destra?
«Questo è ciò che viene chiamato 'effetto lombrico'. Ma temo che abbia funzionato in modo diseguale: più voti persi che guada­gnati. Ora io offro la possibilità di ricucire a sinistra. Vogliono dav­vero buttarla via?».

l’Unità 9.6.09
Libano, Hezbollah sconfitti. Ricomincia la primavera
di Umberto De Giovannangeli


Il Libano ha scelto. Con il voto. Senza violenze. E ha decretato la vittoria della coalizione filo-occidentale «14 Marzo» che ha conquistato 71 dei 128 seggi nel Parlamento unicamerale.

La «Primavera di Beirut» non è sfiorita. Il suo volto è quello di Nayla Tueni, classe 1982, la più giovane donna ad entrare nel Parlamento libanese, vincitrice come indipendente nella coalizione filo-occidentale dell'aspra battaglia elettorale del distretto cristiano di Beirut: il padre di Nayla, Gibran Tueni, è stato per anni editore del quotidiano an Nahar, negli ultimi anni su posizioni contrarie alla tutela siriana in Libano, e per questo ucciso in un attentato nel 2005.
AVVERTIMENTI
«Non ci sono né vincitori, né vinti. Ha vinto il Libano», ha detto quando i risultati erano ormai chiari Saad Hariri, il leader sunnita della coalizione 14 Marzo che ha il sostegno dei Paesi occidentali e di quelli arabi moderati e che ora appare in pole position per l'incarico di primo ministro. Di fatto un’apertura all'opposizione guidata dal movimento sciita Hezbollah, che ha il sostegno di Siria e Iran e il cui leader, così come diversi suoi esponenti, avevano prospettato, in ogni caso, la formazione di un governo di unità nazionale. Sayyed Hassan Nasrallah, leader Hezbollah si è complimentato in tv con i vincitori: «Accettiamo i risultati».
Walid Jumblatt, il leader druso alleato di Hariri, si è più esplicitamente già detto a favore, ma ha anche già messo le mani avanti: l’opposizione non può avere diritto di veto nell'esecutivo. Allo stesso tempo, è subito tornato alla carica con l’esplosiva questione dell'arsenale di Hezbollah. Armi che, ha detto, «dovrebbero essere incorporate nell'esercito». Ma un deputato di Hezbollah, Mohammad Raad, ha subito replicato, avvertendo che «la maggioranza non deve mettere in questione la nostra legittimità come partito di resistenza e quella delle nostre armi». Proprio per avere l'accesso al governo con diritto di veto e per difendere la sua identità di «resistenza», Hezbollah ha scatenato nel maggio del 2008 un’offensiva a Beirut che ha causato oltre 60 morti.
EQUILIBRI PRECARI
In tarda mattinata, il ministro degli interni Ziad Baroud ha diffuso i dati ufficiali secondo cui Hariri e alleati avranno nel nuovo parlamento 71 seggi su 128. Appena uno in meno rispetto all’assemblea uscente. Ma i dati - oltre all'affluenza record del 54% - mostrano anche che Hezbollah e Amal rimangono incontestati campioni della comunità sciita, avendo eletto tutti i loro candidati nella parte Sud e Est del Paese. Così come mostrano che l'alleato cristiano di Hezbollah, Michel Aoun, ha perso a Beirut e Zahle, grande città cattolica nella valle della Bekaa. Ha stravinto però nelle circoscrizioni del Monte Libano e rimane il più potente esponente della comunità cristiana. «Le elezioni hanno mantenuto lo status quo tra maggioranza e opposizione» osserva il presidente del Parlamento uscente, Nabih Berri, che con il suo movimento sciita Amal è uno stretto alleato di Hezbollah e che probabilmente verrà confermato a capo della nuova assemblea.
Sollievo e auguri
Uno status quo che però sembra soddisfare molti. Congratulazioni ai vincitori sono arrivate rapidamente dal Cairo e da Riad, ma anche da Roma, da Parigi e da Washington, dove il presidente Barack Obama ha affermato che le elezioni hanno dimostrato «il desiderio di sicurezza e prosperità dei libanesi». Gli Usa, garantisce Obama, «continueranno a sostenere un Libano indipendente e sovrano e impegnato per la pace».

l’Unità 9.6.09
La procura concentra l’indagine su 5 viaggi svolti tra fine maggio e giugno 2008
All’epoca era in vigore la direttiva Prodi, che chiedeva il pagamento di quote per ogni ospite
Voli di Stato: Ghedini rivela i nomi di quattro ospiti
di B. DI G.


Primi nomi degli ospiti dei voli di Stato sotto la lente della magistratura. L’avvocato del premier parla di artisti invitati alla festa di Topolanek. Il Codacons chiede l’intervento della Corte dei Conti.

Nella «Caporetto di Olbia», quel 24 maggio che portò il cantante Mariano Apicella in Sardegna su un volo della presidenza del consiglio, spuntano nuovi nomi. Ad «approfittare» del passaggio aereo pagato dai contribuenti furono anche altre persone. Per esempio «la cantante Maria Adelina, l'attore Antonio Murro, il pianista Danilo Mariani e l'onorevole Valentini». È l’onorevole Niccolò Ghedini a fornire la prima lista, anche in veste di legale del premier. L’inchiesta della procura su quei voli, infatti, va avanti. Sotto la lente dei magistrati 5 voli sospetti e dieci ospiti da identificare. La procura si concentra sul periodo tra maggio e giugno del 2008, periodo in cui Silvio Berlusconi era già a Palazzo Chigi, ma era ancora in vigore il regolamento restrittivo su quei voli imposto dal governo Prodi. L’ex primo ministro aveva imposto il pagamento di quote extra per gli estranei ospitati su quei voli.
artisti
L’onorevole/avvocato Ghedini spiega a Repubblica.it che quel 24 maggio il giorno in cui furono scattare le foto che hanno fatto aprire l'inchiesta, «a bordo di quell'aereo c'erano diversi artisti che dovevano partecipare allo spettacolo organizzato quella sera per il soggiorno dell'ex ministro ceco Topolanek». Non appena si diffondono i nomi, sui blog parte una sorta di caccia all’artista, del tipo: «Maria Adelina? E chi è?». Insomma, gli ospiti non si iscrivono nelle schiere delle celebrità. Tra quei nomi, poi, anche quello di Valentino Valentini, deputato del Pdl e in passato nella segreteria di Palazzo Chigi. Forse è l’unico che a buon diritto utilizza l’aereo di Stato. Ghedini precisa che i passeggeri «non sono costati un soldo in più al contribuente». Ma è davvero così?
costi
Ci pensa il Codacons a far sorgere qualche dubbio. L’associazione dei consumatori, infatti, chiede l’intervento della Corte dei Conti sull’intera vicenda. «La normativa Prodi - spiega Carlo rienzi, presidente dell’associazione - chiedeva un contributo di 300 euro per i voli nazionali, 600 per voli in Europa e 900 per tutti gli altri, voli obbligando anche a versare tali somme sul c/c postale della presidenza. I relativi importi dovevano essere riassegnati all’Aeronautica militare. Ma c'è di più: la stessa direttiva prevedeva che giornalisti e collaboratori ammessi ai voli di Stato avrebbero dovuto provvedere con propri mezzi al trasporto da e per gli aeroporti di partenza e destinazione». Tutte disposizioni cancellate dall’articolo 5 della direttiva Berlusconi, di cui il Codacons chiede la sospensione.
In queste ore il procuratore della Repubblica di Roma Giovanni Ferrara, il procuratore aggiunto Achille Toro ed i sostituti Ilaria Calò, Giuseppe Saieva e Simona Maisto, stanno esaminando le migliaia di foto sequestrate al fotoreporter Antonello Zappadu per identificare gli ospiti del premier a Villa Certosa che hanno usufruito dei voli. Entro questa settimana il fascicolo sarà trasmesso al collegio competente per i reati ministeriali con le richieste della procura. Contemporanemente sarà trasmesso alla procura di Tempio Pausania il fascicolo per violazione della privacy e truffa, che vede indagato Zappadu per le foto scattate all'interno di Villa Certosa.

l’Unità 9.6.09
La teoria della relatività in rima funziona bene lo stesso?
di Pietro Greco


La forza delle rappresentazioni scientifiche, da Galilei a Einstein, ha affascinato poeti, scrittori e stimolato i filosofi. Ma anche le opere d’arte e letterarie possono parlare alla maniera della scienza.

Su Einstein si sa tutto, o quasi. Ma forse non è molto noto un esempio di «traduzione» della teoria della relatività in linguaggio letterario. Un poeta-filosofo come Paul Valéry, che apprezzò e conobbe Einstein, tentò nel 1924 di scrivere un poema su Einstein, come risulta da un appunto dei suoi Cahiers, che riporta anche la testimonianza diretta fornita da Jérôme Franel, matematico suo amico e docente di Einstein a Zurigo.
Valéry non si propone un generico poema sull’opera di Einstein, ma una vera e propria messa in versi della formulazione del calcolo differenziale assoluto, quel complesso strumento matematico che fu necessario per la definizione della teoria della relatività generale e che impegnò a lungo lo stesso Einstein. L’ipotesi, fallita, testimonia la figuratività astratta della poetica di Valéry e la sua idea del rapporto stretto tra purezza poetica e rigore matematico. Molto più efficace fu il rapporto tra la teoria della relatività e la filosofia del ’900.
Si può riconoscere un circolo virtuoso tra pensiero scientifico e filosofico: lo stesso Einstein dichiara che la riflessione filosofica di Hume e di Mach lo stimolò nell’elaborazione della teoria della relatività, mentre la filosofia della scienza ha fatto tesoro del pensiero scientifico di Einstein per rinnovare o abbandonare i modelli gnoseologici tradizionali, di impostazione prevalentemente positivistica e neokantiana.
Tramite la lettura dell’opera scientifica di Einstein filosofi di solide competenze fisiche, come Ernst Cassirer e Gaston Bachelard e, nell’ambito del nascente empirismo logico, Moritz Schlick (allievo del teorico dei quanti, Max Planck) e Hans Reichenbach (uno dei cinque allievi del primo corso di Einstein sulla teoria della relatività all’Università di Berlino nel 1919), danno avvio all’epistemologia del ’900, uno tra i settori più rilevanti della filosofia contemporanea. La comparsa del termine «epistemologia» agli inizi del ’900 non è causale: indica l’emergere di una nuova specializzazione filosofica che mette in gioco insieme le competenze degli scienziati militanti e dei filosofi della scienza. Le teorie fisiche di Einstein favoriscono la nascita dell’epistemologia contemporanea, sia apportando nuovi concetti al sapere filosofico (basti pensare alla critica della simultaneità e allo spazio-tempo), sia favorendo la limitazione del campo della filosofia della scienza all’analisi dei contenuti e dei criteri di validità delle teorie scientifiche. La corrispondenza, non casuale, tra la nascita dell’epistemologia e quella della teoria della relatività appare la migliore espressione del circolo virtuoso innescato dalla teoria della relatività e dell’impatto che essa ha avuto nel più vasto panorama della filosofia novecentesca della scienza.
ANNUNCIO SUGLI ASTRI
La produzione di nuova conoscenza scientifica ha, spesso, una forza tale da determinare cambiamenti di paradigma anche in contesti culturali in apparenza molto lontani. È il caso, per esempio, delle novità astronomiche in cui si imbatte Galileo nel 1609, quattrocento anni fa, quando punta il cannocchiale e vede «cose mai viste prima». La portata scientifica e anche filosofica di quelle osservazioni è enorme e in questi mesi se ne parla diffusamente. Meno noti, forse, gli effetti sulla letteratura. Galileo, infatti, pubblica i risultati delle sue prime osservazioni in un libretto, il Sidereus Nuncius, uscito dalla tipografia Baglioni a Venezia il 12 marzo 1610, che costituisce il prototipo di un genere letterario nuovo, il report scientifico. Un genere in cui i fatti sono raccontati in maniera ordinata, con una prosa asciutta, essenziale, in modo che «tutto sia comprensibile a tutti». Nulla del genere si era mai visto prima, in letteratura. Con quel nuovo genere letterario Galileo raggiunge una capacità espressiva così alta da indurre Italo Calvino a eleggerlo a «scrittore più grande della letteratura italiana». Un giudizio sostanzialmente condiviso da Giacomo Leopardi.
Le vicende di Einstein e di Galileo, dunque, dimostrano quanto artificiosa sia quella separazione tra «le due culture» denunciata, esattamente 50 anni fa, dallo scienziato inglese C. P. Snow e ormai diventata un luogo comune. Il più infondato dei luoghi comuni.
Sarebbe pertanto augurabile che anche l’attuale filosofia della scienza fosse attenta alle trasformazioni della fisica-matematica, discutendo ad esempio sul significato epistemologico della teoria delle superstringhe e della supersimmetria, nel contesto di un presunto superamento della divaricazione tra modelli discreti della meccanica quantistica e continui della fisica relativistica, tanto discussa e criticata da Einstein.
E sarebbe auspicabile che la letteratura italiana tornasse, come proponeva Italo Calvino, a coltivare la sua «vocazione profonda» per la filosofia della natura. La scienza potrebbe così avere, come voleva Bachelard, «la filosofia che si merita», e la cultura letteraria, filosofica e scientifica ritroverebbe, se non punti di unione, almeno efficaci momenti di traduzione e di contaminazione, per il bene della democrazia.

Repubblica 9.6.09
La scimmia sorrise prima dell´uomo
di Elena Dusi


In una foresta africana 16 milioni di anni fa risuonò lo scoppio di ilarità di un primate
Una studiosa dell´università di Portsmouth ricostruisce i suoni di oranghi e gorilla

La prima risata risuonò in una foresta africana sedici milioni di anni fa. Cosa ci fosse da essere allegri quel giorno resterà per sempre un mistero. Di certo però a ridere per primi non furono gli uomini, ma i loro antenati primati. Come conferma uno studio pubblicato su Current Biology, quando mostrano i denti e soffiano corrugando le guance, le scimmie esprimono felicità e gioia di stare insieme, esattamente come noi. E visto che percorrendo a ritroso la storia evolutiva di oranghi, gorilla e scimpanzé, si finisce in una foresta africana di 10-16 milioni di anni fa, proprio quello dev´essere stato lo scenario del primo scoppio di ilarità.
Alla conclusione, la primatologa Davila Ross dell´università di Portsmouth, è arrivata dopo aver fatto il solletico sul collo, sotto i piedi e le ascelle a 22 esemplari di 4 specie diverse di primati e a tre cuccioli d´uomo. Dopo aver registrato più di 800 risate diverse, ha confrontato i suoni emessi da oranghi, gorilla, scimpanzé, bonobo e bambini e li ha posizionati lungo una linea che rappresenta la storia delle varie specie. A specie vicine dal punto di vista evolutivo, ha notato, corrispondono modi di ridere simili. Specie distanti dal punto di vista evolutivo esprimono invece la loro ilarità con suoni e gesti meno sovrapponibili.
Il fatto che l´albero genealogico della risata coincida con quello dell´evoluzione, indica secondo i ricercatori inglesi che sghignazzare è un costume legato alla nostra storia da molti milioni di anni. Ma vuol dire anche che il fenomeno è più antico dell´uomo, e non esiste soluzione di continuità fra il nostro modo di esprimere allegria e quello degli altri primati. «In effetti, basta guardarli per capire che dietro alle loro espressioni facciali c´è il riso» dice Elisabetta Visalberghi, primatologa e dirigente di ricerca del Consiglio nazionale delle ricerche. «Gli scimpanzé sono capaci di ridere anche da soli, mentre si rotolano. Ma tutte le altre scimmie hanno bisogno di essere in compagnia e in un contesto di gioco. Fra loro, a differenza degli umani, il riso non è contagioso. Ma il fenomeno riguarda sia i cuccioli che gli adulti e dall´espressione facciale si intuisce chiaramente che nasce da un sentimento di allegria e dalla voglia di giocare».
Anche se il ridere umano e quello dei primati ha le stesse radici, secondo Davila Ross, negli ultimi cinque milioni di anni l´evoluzione ha portato rapidamente la nostra specie a sviluppare un suono più ritmato e composto rispetto a quello delle scimmie. Negli uomini la vibrazione delle corde vocali avviene a frequenze e ritmi più regolari rispetto a gorilla, oranghi e scimpanzé. I nostri cugini in un salotto buono darebbero l´impressione di essere davvero sguaiati con i loro suoni simili a grugniti. Mentre la nostra specie ride solo espirando, le scimmie riescono a farlo anche mentre ingoiano aria, dando al loro sghignazzare un ritmo sincopato e ansimante.
Ma se fare il solletico a un cucciolo di scimmia dà vita a esperimenti scientifici pieni di allegria, meno agevole sarà proseguire la linea di ricerca intrapresa alla Washington State University da Jaak Panksepp. Il ricercatore americano ha infatti scoperto che anche i topi ridono quando giocano o vengono solleticati. Il loro squittio di ilarità è troppo acuto per essere percepito dal nostro orecchio, ma conferma che l´esperienza del ridere andrebbe ben oltre la famiglia di uomini e scimmie e nascerebbe da un circuito ancestrale del cervello. La scoperta, potrebbe aprire le porte poi a nuovi studi sul senso dell´umorismo di topi, primati e altri animali.