L’analisi dei flussi di Swg rivela l’attrazione delle posizioni più radicali sui democratici
È in pareggioil saldo tra Pdl e Lega Nord. Il peso dell’astensione sulle due coalizioni
Ottocentomila voti del Pd sono andati a Di Pietro
La sinistra radicale. Un terzo dei voti ottenuti dai due partiti è arrivato da ex del Pd
di G.M.B.
Sono state le astensioni (quasi 7 milioni di votanti in meno rispetto al 2008) a decidere le elezioni. Hanno inciso molto più dei passaggi di voti tra i due schieramenti. Che, a sorpresa, hanno favorito il centrosinistra.
Alle elezioni politiche erano più di 12 milioni. Un anno dopo - cioè alle Europee - sono diventati 8 milioni: 4 milioni in meno. Ma per capire le dimensione dell'emorragia di voti del Partito democratico, bisogna tener presente che gli elettori «entrano» ed «escono». I 4 milioni in meno sono dunque il risultato della somma algebrica tra queste entrate e queste uscite.
L'analisi dei flussi elettorali svolta dall'istituto di ricerche di opinione Swg offre una fotografia precisa del «bilancio elettorale» dei partiti ed è anche una guida preziosa per ragionare sulle possibili alleanze oltre che per individuare i temi politici ai quali sono maggiormente sensibili gli elettori.
Il dato più appariscente conferma un’impressione diffusa. E cioè che la sirena che ha più attrae i transfughi democratici è il partito di Di Pietro. In effetti è stato così: dalle politiche del 2008 alle Europee di sabato e domenica, 939.000 elettori sono passati dal Pd all'Italia dei valori. Il processo inverso è stato compiuto da 149.000 elettori.
Notevole anche l'emorragia democratica a favore delle formazioni della sinistra radicale, con un rapporto analogo (6 a 1) tra le «uscite» e le «entrate»: hanno votato per Rifondazione comunista e per il Pdci 294.000 ex elettori del Pd, e altri 342.000 hanno scelto Sinistra e libertà. Se si considera che la sinistra radicale alle Europee ha ottenuto poco meno di 2 milioni di voti, si ha quest'altro dato significativo: un terzo del suo elettorato è stato costituito da transfughi democratici.
Complessivamente, gli elettori del Pd passati ad altre formazioni di centrosinistra e di sinistra (vanno aggiunti altri 56.000 che hanno votato formazioni minori dell'area e i 224.000 che hanno scelto i radicali) sono stati tra il 2008 e 2009 quasi 2 milioni (esattamente 1.855.000). A compiere il percorso inverso sono stati 240.000.
Secondo lo studio della Swg è stato consistente, anche se non paragonabile a quello appena descritto, il passaggio di elettori del Pd a formazioni del centrodestra e del centro: hanno votato per il Popolo della libertà o per la Lega Nord, 265.000 dei democratici del 2008. E altri 198.000 sono passati all'Unione di centro. Se a questi si aggiungono i 24.000 che hanno optato per altre formazioni minori del centro o del centrodestra, si ha un totale di quasi 500.000 elettori (esattamente 487.000). A compiere il percorso inverso sono stati 319.000.
Riassumendo. Per ogni 8 elettori del Pd passati tra il 2008 e il 2009 ad altre formazioni del centro sinistra, uno ha compiuto il percorso inverso. Per ogni 2 democratici andati al centrodestra, uno si è spostato nel modo opposto.
Risultato evidente
A voler utilizzare questi dati per calibrare la linea politica, il risultato è evidente: il Pd ha perso una parte considerevole dei suoi voti a favore delle formazioni che hanno sostenuto le posizioni più radicali e «antiberlusconiane». Ma la causa più profonda dell'emorragia dei voti è stata un'altra ancora: l'astensionismo. Se, infatti, quasi due milioni di elettori democratici sono andati verso altri partiti del centrosinistra e mezzo milione si è orientato sul centrodestra, sono stati quasi tre milioni (esattamente 2.838.000, il 23,2% degli elettori del 2008) a restare a casa. Un numero enorme, neanche lontanamente compensato da quei 339.000 elettori che alle Politiche si erano astenuti e alle Europee hanno votato Pd.
Lo stesso fenomeno ha colpito, in misura leggermente minore, il Popolo delle Libertà. Il 18,3% del suo intero elettorato del 2008 non è tornato alle urne. Si tratta di quasi 2 milioni e mezzo di persone (esattamente 2.497.000). Tra le forze della stessa area, è stata la Lega Nord a erodere maggiormente l’elettorato di Berlusconi (ha portato via 533.000 voti) ma, alla fine, il saldo è quasi in pareggio perché sono stati 433.000 gli elettori leghisti che dal 2008 al 2009 sono passati al Pdl. Un dato che darà forza agli argomenti di chi, nel Popolo delle libertà, contestata l’appiattimento di Berlusconi sulle tematiche care a Umberto Bossi.
l’Unità 10.6.09
Indagine del Censis
Così i tg influenzano gli elettori
Il Pdl straripa sul tubo catodico
L’indagine del Censis sui media che condizionano il voto. I notiziari hanno la meglio anche sui programmi d’approfondimento, sui quotidiani e su Internet. Berlusconi non a caso ha invaso sia Rai che Mediaset (anche monologhi di 47 minuti). Inascoltate le denunce di Agcom.
I telegiornali orientano il voto dei cittadini. La maggioranza di governo domina i telegiornali, con Berlusconi che registra punte di presenza tra il 60% e il 75% degli spazi televisivi. La maggioranza incassa più voti dell’opposizione.
Il sillogismo si evince dalla lettura combinata dei dati sull’informazione elettorale forniti ieri dal Censis e sulla presenza dei politici in tv resi noti dall’Agcom per il periodo tra il 29 aprile e l’8 maggio. «Stavolta non è un complotto internazionale - commenta Beppe Giulietti di “Articolo 21” - Il Censis ha detto una cosa nota a tutti. In un Paese in cui il premier è proprietario di Mediaset e controlla indirettamente la Rai, non può non influenzare anche il diritto di voto degli italiani». Giulietti ricorda anche la lunga «passerella» di Berlusconi all’Aquila tra i terremotati: «Vedo una scomparsa graduale del principio della par condicio».
Squilibrio elettorale. Il Censis infatti ha diffuso i numeri post-elettorali: la tv resta il principale mezzo per formarsi un’opinione sulla politica, il 69,3% degli elettori ha scelto attraverso le notizie e i commenti trasmessi dai tg (dato che sale al 78,7% tra i pensionati e al 74,1% tra le casalinghe). In secondo luogo, il 30,6% degli elettori si affida ai programmi di approfondimento («Porta a Porta, Matrix e simili»). I giornali - prosegue il Censis - sono determinanti per il 25,4% degli elettori (soprattutto istruiti e nelle grande città). Marginali le conversazioni con familiari e amici (19%) e il web (2,3%).
Molto interessanti in questo quadro sono le rilevazioni dell’Agcom, l’autorità di garanzia per le comunicazioni che pure coprono un periodo (29 aprile-8 maggio) precedente al clou della campagna elettorale e all’ultima tornata di nomine di Viale Mazzini decise da Berlusconi a Palazzo Grazioli. Emerge «uno squilibrio a favore della maggioranza in tutte le reti, eccetto il Tg3».
Sulle reti del Biscione, Tg4 e Tg5 violano la par condicio dedicando rispettivamente il 74% e il 60% dei loro spazi a PdL e Lega «con particolare concentrazione su governo e premier». Studio Aperto durante la prima decade di maggio è sbilanciato a favore delle forze politiche maggiori. Tg2 e La 7 sono sbilanciati a favore del governo rispettivamente del 62% e 67%. Il Tg1, secondo l’Agcom, «mantiene costantemente oltre il 50% del tempo antenna (cioè la copertura complessiva tra notizie e interviste, ndr) dedicato alla maggioranza contro il 25-30% all’opposizione.
Multata Rete4. Ne è scaturito un richiamo generale «a un maggior equilibrio tra tutte le liste in competizione» con l’adozione di uno «specifico ordine di riequilibrio» a carico di Rete4. Tutto ciò è servito? Non pare.
Dalla Cnn a Videolina il vicepresidente della Vigilanza Giorgio Merlo ha denunciato, alla vigilia del voto, «la presenza ossessiva e costante di Berlusconi in tv». Rete4 è stata multata di 180mila euro per l’inosservanza del provvedimento dell’Autorità. Il capo del governo non si è fatto mancare niente: “Porta a Porta”, “Matrix”, Cnn, Canale Italia, Odeon, T9, Videolina, RadioRai, Radiomontecarlo, Radio Anch’io, Rtl.
il Riformista 10.6.09
Dibattito surreale
Ha vinto la destra in Italia e in Europa
di Biagio De Giovanni
Il centrosinistra sembra voler giocare la solita carta attendista e speranzosa nella provvidenza che aiuta i migliori: prima o poi si romperanno al loro interno. Quando avverrà? Attesa inutile, il Governo durerà per il tempo previsto
Ma la sua vittoria è indubitabile, e ora può essere misurata anche sul risultato delle elezioni amministrative sulle quali è ancor più difficile la contestazione: milioni di cittadini in carne e ossa passano da una amministrazione all'altra, con la destra che penetra perfino in confini fino a ieri corazzati.
Quali sono i criteri di valutazione politica per argomentare questa tesi? Anzitutto quelli che riguardano il risultato europeo complessivo, su cui la riflessione c'è stata (Franco Venturini sul Corriere della Sera, ad esempio), ma non ha ancora conquistato la meritata centralità. Dappertutto o quasi, in Europa, la destra avanza, ("a destra tutta!", è lecito citarsi?) e la sinistra perde pezzi consistenti del suo elettorato anche tradizionale. E ciò in presenza di quella crisi che, secondo ritornanti schemi ideologici di matrice assai vecchia (Ah! il vecchio economicismo di ritorno, condito sempre da un po' di provvidenzialismo storico che non guasta!), avrebbe dovuto velocemente rovesciare le tendenze, e riaccreditare una sinistra convinta di possedere, su quel terreno, le risposte giuste e il decisivo terreno di aggregazione. È un tema da non abbandonare, anzi da approfondire appena si saranno spenti i fuochi più o meno fatui del dibattito post-elettorale. Fra l'altro, ampliare lo sguardo oltre i confini d'Italia, e immergersi in quella crisi di dimensioni sicuramente non congiunturali, può aiutare lo stesso dibattito della sinistra italiana a raccogliere i cocci di visioni del mondo obsolete, e reimmergersi in quelle società che, a sinistra (e "a centrosinistra"), mostrano di non sapere più che cosa sia. La fine, sperabile, della sinistra dei salotti (romani e "repubblicani", dei gossip e del moralismo) e il ritorno alle cose e al popolo e alla realtà e alle idee: figli di Machiavelli non di D'Avanzo: ha ragione Piero Ostellino!
Tema sul quale bisognerà riflettere è l'effetto di questo voto sulla dinamica e i caratteri delle politiche europee e sullo stesso significato della sua integrazione. A parte pur significative presenze euroscettiche, che non mi pare abbiano superato un certo limite e che comunque indicano qualcosa, sarebbe un errore immaginare che questa destra sia semplicemente antieuropea. Non è così. Essa però si colloca in una visione critica del vecchio cosmopolitismo di sinistra da "siamo tutti cittadini del mondo", attenta alle nuove insicurezze, ai confini, alle identità, alle protezioni, al ritorno forte della nazione e delle sovranità, e così via… Un mescolamento di temi, per dir così, di destra e di sinistra, in una commistione da cui sta sgorgando una nuova identità che mostra di aver compreso il carattere stanco ed esaurito di vecchi stilemi e distinzioni.
Il voto italiano è in pieno in questa congiuntura. E anche lo spostamento di voti dal Pdl alla Lega si comprende bene in questo quadro. Su questo punto il centrosinistra sembra voler giocare la solita carta attendista e speranzosa nella provvidenza che aiuta i migliori: prima o dopo, si romperanno al loro interno. Mi domando: quando avverrà, sulla Turchia magari? Ma che interesse potrebbe avere la Lega a spingere il confronto interno alla coalizione oltre un certo punto, proprio quella Lega che per ottenere il federalismo fiscale ha abbassato i toni del confronto presentando un volto più moderato dei suoi stessi compagni di cordata? Inutile, secondo me, l'attesa. Il Governo durerà per il tempo previsto.
È a sinistra che l'aumento esponenziale del partito di Di Pietro può porre problemi di difficilissima soluzione per la definizione di un progetto alternativo. Come si farà ad avere un progetto comune con il partito dei Di Pietro e dei De Magistris? Con la parola d'ordine: contro il fascismo (o nazismo, come piace) e piduismo della destra? Dopo questo voto, la questione delle alleanze per il centrosinistra si fa drammatica, e conferma quella prognosi che vede una sua rivincita su tempi assai lunghi e problematici.
Ma non voglio concludere questo mio ultimo intervento (in rubrica) su una nota dissolvente. Se la crisi della sinistra chiama l'Europa, e si estende a essa, è anche allargando lo sguardo che si potrà iniziare a ricostruire qualcosa. La politica non è fatta di assoluti, questo lo abbiamo imparato. Rinascerà, per la sinistra, dal relativo, da una nuova capacità di comprensione del mondo. Auguri di buon lavoro.
PS. A proposito: lo avrete già capito. "Il filosofo" cui è intitolata la rubrica è il mio amatissimo gatto.
il Riformista 10.6.09
Cercasi modo nuovo di essere sinistra
Offresi due milioni
di Ritanna Armeni
Tanti sono i voti delle liste della sinistra radicale, le uniche che hanno aumentato il consenso in termini assoluti. Non sono rappresentate in Europa, ma ci sono
Quando si parla della sinistra radicale spesso si usano toni ironici o di sufficienza. E, naturalmente, questi toni si diffondono se le forze suddette, come è avvenuto, perdono, cioè non riescono a raggiungere quel quorum del 4 per cento che la legge elettorale prevede per poter eleggere un membro del Parlamento europeo.
Va da sé che ritengo questo atteggiamento adottato da molti assolutamente sbagliato. E non solo perché intrinsecamente antidemocratico (non ci si cura del fatto che centinaia di migliaia di cittadine e cittadini non sono rappresentati in Europa) ma perché la sufficienza e l'ironia non aiutano, anzi impediscono di capire alcuni spostamenti elettorali e politici non irrilevanti. Non aiutano a capire ad esempio che i due partiti della sinistra radicale sono gli unici ad aver aumentato i loro voti in termini assoluti e consistenti. Circa 800.000 elettori, che alle politiche si erano perduti nell'astensione o erano stati fagocitati da un Pd che puntava all'autosufficienza, sono tornati da dove erano partiti. Un fatto su cui riflettere, mi pare. In casa del Pd, innanzitutto, ma, in generale, fra coloro che sono attenti ai cambiamenti degli umori politici.
Non solo. È utile come si fa per altre forze politiche, pesare questi voti e non solo contarli. Perché, dopo il conteggio anche il peso politico ha la sua importanza. Basta pensare al calo di 2 punti percentuali alle europee del Pdl. Assai poco importante se i voti si contassero solamente, ma di grande significato politico se ha indotto non pochi osservatori a parlare di crepa del potere berlusconiano, di crisi, di crollo del mito della infallibilità del premier.
Ora quei 2 milioni di voti dati a Sinistra e libertà e Rifondazione comunista-Pdci, sono significativi. Come lo sono quelli dati ai Radicali. Perché chi li ha espressi o la maggioranza di essi, era consapevole che il quorum non sarebbe stato raggiunto o che era molto improbabile. Pure ha votato in quel modo, perché voleva segnalare una presenza, un insieme di culture non rappresentate da altri, per alcuni anche un'irriducibilità. Cittadini illusi? Inutili? Ci andrei cauta, e non solo perché mi seccherebbe essere annoverata fra le inutilità del Paese, ma perché questa irriducibilità o inutilità, più o meno nelle proporzioni in cui è presente in Italia, c'è anche in altri Paesi europei, gli stessi in cui abbiamo assistito, proprio nelle ultime elezioni a una crisi verticale e profonda dei partiti socialisti e socialdemocratici.
Fatta questa premessa, non si può sfuggire alla domanda che qualunque persona di buon senso e senza preconcetti si pone: e allora che si fa? Si continua con questa testimonianza, visto che questo è il sistema elettorale che è stato scelto? Si prosegue con questo andirivieni fra il voto utile e il voto di testimonianza o si tenta un percorso nuovo? Anche in questo caso il buon senso suggerirebbe la seconda strada, quella di uno scarto, della mossa del cavallo, dell'audacia.
Essa, a mio parere consiste innanzitutto nella rinuncia alla scorciatoia di cui già alcuni dirigenti di queste formazioni parlano, ovvero a costruire un partito o a insistere nella continuazione della sua esistenza. Non perché non ci sia bisogno a sinistra di un forte radicamento, di legami stretti e di antenne nella società ma perché è evidente che, per limiti storici, culturali e forse personali di questa parte della sinistra, l'obiettivo di un partito significa continuare nelle scissioni, nelle recriminazioni, nella impotenza. E nella sconfitta. Così è stato finora e niente - proprio niente - fa pensare che qualcosa possa cambiare nel futuro. Il fatto che oltre 2 milioni di persone abbiano votato a sinistra, non significa non vedere l'entità della sconfitta e i limiti dei gruppi dirigenti che non hanno saputo evitarla. Se oggi essi esercitassero una generosità che pure possiedono dovrebbero decidere di nuotare nel mare aperto della società e delle forme politiche già esistenti o altre, nuove, da inventare. Nelle ore immediatamente successive alle elezioni si è parlato di un avvicinamento al Pd di un apertura di dialogo, alcuni giornali hanno anche ipotizzato un ingresso di questo o di quel dirigente (di Nichi Vendola in particolare) nel Pd. Non so se sia vero e non mi scandalizzerei né di questo né del suo contrario. Non so neppure se sia vero che una parte del Pd, in particolare Massimo D'Alema, agevolerebbe un processo di questo tipo. Mi pare certo invece che oggi la differenza fra radicalità e riformismo non è più quella del passato, del '900 per intenderci, che anche le riforme possono essere molto radicali e che ciò che sembrava far parte del regno dell'utopia e quindi era compreso solo da un'elité (ad esempio le battaglie ecologiche per la salvezza del pianeta, la consapevolezza del processo di svalorizzazione e di marginalità cui è sottoposto il lavoro, l'insofferenza per il crescere delle disuguaglianze, gli effetti della globalizzazione, il ruolo pubblico nell'economia, la cultura della pace) oggi possa conquistare settori importanti della società ed essere il lievito di una cultura riformista. E credo anche che le proposte politiche, se sono effettivamente tali, esprimono cioè un cambiamento possibile, possano essere vissute e portate avanti anche in contenitori che non sono stati costruiti in prima persona. Senza parlare di ingressi, nuove divisioni, ennesime scissioni, il compito di questa sinistra è quello di costruire forme fluide di confronto, tessere nuovi legami e intrecci anche inediti, come in altre parti d'Europa sta già avvenendo. Senza paure, senza accuse, ma esercitando ogni giorno un modo nuovo di essere di sinistra. Non è impossibile.
Repubblica 10.6.09
L’ex ministro (234mila consensi) ha surclassato il vecchio leader (fermo a quota 80mila)
Nel derby radicale Bonino batte Pannella
ROMA - Si fa presto a dire Pannella. Radicali sempre più trascinati dall´ex ministro, oggi vice presidente del Senato: Emma Bonino ha sfondato.
Sfondato il muro dei 234 mila voti, raccogliendo da sola un terzo del pacchetto di consensi dell´intero partito radicale, comunque insufficiente a strappare un seggio a Strasburgo. Il fatto è che stavolta Emma ha fatto boom anche nel senso che ha surclassato, suo malgrado, Marco Pannella. Il guru di sempre si è fermato a quota 80 mila. Lei, più di tre volte tanto. Alla riunione a porte chiuse di due giorni fa, quando il responso delle urne è stato passato ai raggi x nella sede di Largo Argentina, nessuno si è sognato di far notare la cosa. Massima riconoscenza al leader di sempre, che stavolta ha pure rischiato la vita con un interminabile sciopero fame-sete, trascinandosi in tv in condizioni preoccupanti pur di rivendicare gli spazi dovuti. Però «il risultato dice una sola cosa - fa notare un dirigente - che la linea movimentista forse non paga fino in fondo, i nostri elettori apprezzano molto anche quella più istituzionale». Anche se poi la Bonino ha pure occupato la sede Rai.
Marco, neanche a dirlo, si dice felicissimo per i voti di entrambi (Emma è subito volata in Congo con Nessuno tocchi Caino). Alcuni risultati nel dettaglio però raccontano che nel Nord Ovest la Bonino è a 71 mila voti, Pannella a 17 mila, che nel Nord Est, lei a 48 mila, lui a 11 mila. Nel Centro, Emma 61 mila, Marco 22 mila. «Solo» il doppio a Sud e Isole. «Hanno convissuto bene, continueranno a farlo, diversi ma complementari - taglia corto una pontiera come Rita Bernardini - Lei raccoglie nel ceto medio, lui tra i giovani. Non cambierà nulla».
Repubblica 10.6.09
Il Pd esule in casa
di Ilvo Diamanti
Dalla sicurezza alla legalità con Bossi e Di Pietro vince il modello populista
Dalle urne esce indebolito Berlusconi, non la sua coalizione
Cambia il rapporto tra territorio e politica. Così la sinistra utopica diventa atopica
Il Pdl si conferma un partito network: questa è la sua forza ma anche la sua debolezza
Come avviene puntualmente da 15 anni, anche queste elezioni sono state affrontate come un referendum. L´unico ammissibile, in Italia, oggi. Pro o contro Berlusconi.Il quale, a differenza delle ultime occasioni, questa volta ha perduto. E ha condizionato, in questo modo, la lettura del voto. Tuttavia, dalla consultazione esce sconfitto lui, ma non il centrodestra. Non certo la Lega. Ma lo stesso Pdl, per una volta, se l´è cavata meglio del suo leader. Come hanno confermato le elezioni amministrative. Nell´insieme, questa consultazione conferma un profondo mutamento dei rapporti fra politica, società e territorio, che investe entrambi gli schieramenti. Ne forniscono una raffigurazione plastica ed esemplare la Lega e l´Idv. I vincitori di queste elezioni. Non solo perché hanno guadagnato peso elettorale, in valori assoluti e percentuali, rispetto alle precedenti elezioni politiche ed europee. Ma perché, inoltre, si sono rafforzati rispetto agli alleati. Si tratta di partiti molto diversi, ma con alcuni tratti comuni. Anzitutto, i temi che hanno imposto all´agenda politica, in campagna elettorale.
In primo luogo: la sicurezza. Anche se la interpretano in modo alternativo. La Lega: come reazione alla "paura degli altri e del mondo", all´inquietudine prodotta dal cambiamento. È la "Lega degli uomini spaventati", che organizza le ronde: la comunità locale in divisa per difendersi dagli immigrati e dalla criminalità comune. L´Idv, invece, punta sulla domanda di legalità. Rivendica l´eredità della stagione di Tangentopoli, impersonata da Antonio Di Pietro. Sostiene i magistrati. Esercita un´opposizione intransigente. A Berlusconi. A ogni mediazione sui temi della giustizia. Per questo motivo nel 2006 si oppose - unica, non a caso, con la Lega - all´indulto.
Entrambi i partiti usano, in diverso modo e in diverso grado, uno stile populista: per linguaggio e comunicazione. Esprimono, tuttavia, valori molto diversi. E seguono modelli opposti: dal punto di vista organizzativo e nel rapporto con la società e il territorio. La Lega è un partito "territoriale". Nordista per geografia e identità. Impiantato su una base di volontari e militanti diffusa e persistente. L´Idv è, invece, un "partito senza territorio", orientato su questioni "nazionali". Con un elettorato proiettato, semmai, nel Centro-Sud. Dal punto di vista organizzativo, è ancora largamente fluido e sradicato. D´altronde, ha conosciuto un successo rapido e recente. Fino a oggi, la sua identità si è confusa con quella del leader.
I diversi modelli espressi dai due partiti riflettono uno slittamento del rapporto fra politica e territorio, già segnalato. La sinistra utopica sta diventando atopica. Non solo l´Idv. Anche il Pd vede il proprio terreno sfaldarsi. Erede dei partiti di massa, il Pci e le correnti democristiane di sinistra, fino a ieri non era riuscito a scavalcare i confini delle zone rosse, dove però era saldamente insediato. Oggi, non più. Anche le zone rosse stanno diventando rosa. Segnate, qui e là, da alcune macchie di verde. Il Pd è il partito più forte solo in Emilia Romagna e in Toscana. Nelle Marche e perfino in Umbria è superato dal Pdl. Città e province tradizionalmente di sinistra scricchiolano. A Firenze e Bologna il Pd non è riuscito a imporre il suo candidato al primo turno. Delle 50 province dove governava, fino a pochi giorni fa, fin qui ne ha riconquistate solo 14 e 15 le ha già perdute. Delle 27 città capoluogo che amministrava fino a pochi giorni, il centrosinistra, al primo turno, ne ha mantenute sette mentre sei le ha cedute al centrodestra. Il quale sta piantando radici diffuse e profonde. Non solo la Lega. Nonostante l´insuccesso personale di Berlusconi, anche il Pdl ha dimostrato un buon grado di resistenza elettorale. Soprattutto nel Nord, dove ha sopportato lo scontro con la Lega. Per la prima volta, infatti, i due alleati non si sono cannibalizzati reciprocamente. Ha, inoltre, tenuto anche nelle regioni del Centro mentre ha perduto largamente nel Sud. Soprattutto in Sicilia, sua roccaforte. Dove ha pagato lo scontro con la Lega Sud di Lombardo. Suo alleato, fino a ieri. E forse di nuovo domani. Perché il Pdl, come prima Forza Italia, è un partito network. Aggrega soggetti politici e gruppi di potere radicati. Ciò lo rende forte e al tempo stesso vulnerabile. Esposto alle tensioni tra gli alleati, ai conflitti tra le diverse componenti locali. Il problema vero del centrodestra è che questa molteplicità di radici ha un solo, unico ceppo a cui attaccarsi. Una sola antenna, un solo volto attraverso cui comunicare insieme. Berlusconi. Risorsa. Ma anche limite. Come in questa occasione.
Il centrosinistra però, asserragliato nei suoi confini, oggi deve affrontare la minaccia che viene da Nord. La Lega (centro) Nord in questa elezione si è sviluppata soprattutto nelle regioni rosse. In Emilia Romagna e nelle Marche. Che hanno una struttura sociale ed economica molto simile a quella del Nordest e della provincia del Nord. Territorio di piccole imprese globalizzate, investito da flussi migratori estesi. La Lega Nord è riuscita a entrare nel territorio della sinistra usando il linguaggio della paura e del localismo. Un linguaggio che non ha confini, ma serve a crearli. Fra le province dove è cresciuta maggiormente, rispetto alle politiche, ci sono Reggio Emilia, Modena, Forlì, Prato, Parma, Pesaro-Urbino. Ciò solleva una questione che va oltre il voto europeo e amministrativo. Riguarda il Pd. Angosciato da una sorta di "sindrome della scomparsa", ha accolto il risultato delle europee con sollievo. Quasi come un successo. L´esito del primo turno delle amministrative, tuttavia, ne ha ribadito il disagio. Perché il Pd fatica a riconoscersi nella terra dei suoi padri. D´altra parte, per questo è sorto: per superare i confini della propria identità. Al di là delle regioni di cui si sente prigioniero. Ma ora è disorientato. Insidiato dall´Idv, in ambito nazionale, fra gli elettori di opinione che chiedono "opposizione" e parole chiare. Minacciato nelle proprie roccaforti dalla Lega. Che usa il territorio come arma e come bandiera. Anche il Pd, come molti dei suoi elettori, si sente un po´ esule a casa propria.
l’Unità 10.6.09
Prc, Ferrero rimette il mandato
Vendola ai democrat: troppi nodi aperti
Sl: «Speriamo che il Pd salvi la pelle, ma sotto non si sa cosa ci sia»
di Simone Collini
Lo aveva detto alla vigilia del voto che se la lista Prc-Pdci non avesse raggiunto il 4%, gli organismi dirigenti avrebbero deciso «cosa fare» e che il suo ruolo sarebbe stato «legato a queste decisioni»: «Non faccio il segretario per volere del Signore». Ora che la lista comunista è uscita dalle urne con il 3,4%, Paolo Ferrero non solo è stato di parola, ma ha battuto sul tempo eventuali operazioni insidiose. Il leader di Rifondazione comunista si è presentato alla Direzione del partito con la proposta di «riunificare tutte le forze disponibili a costruire un polo di sinistra autonomo rispetto al Pd», ampiamente annunciata. E poi a sorpresa ha rimesso il suo mandato e quello della segreteria nelle mani del Comitato politico nazionale. Un rischio calcolato. È infatti scontato che il “parlamentino” Prc, convocato sabato e domenica per esaminare il risultato elettorale, riconfermerà la fiducia a Ferrero.
Nuova segreteria per il Prc
Il passaggio - giustificato a via del Policlinico con la volontà di garantire un dibattito il più possibile libero e aperto - permette a Ferrero da un lato di incassare una nuova investitura, dall’altro di nominare una nuova segreteria. Quella attuale è infatti composta di soli esponenti della maggioranza congressuale di Chianciano. Ora Ferrero vuole andare a una gestione unitaria del partito, coinvolgendo anche i bertinottiani che non hanno seguito Vendola nella scissione. Che però giudicano un errore l’abbraccio col Pdci e chiedono con più forza di costruire una federazione di tutte le forze a sinistra del Pd. Ferrero, che oggi incontrerà Oliviero Diliberto per dar vita al coordinamento Prc-Pdci, vuole coinvolgerli nella gestione del partito e «superare la logica delle correnti», che rischia di danneggiare il Prc nella competizione che si è aperta (dopo che nessuno dei due ha staccato l’altro al voto) con Sinistra e libertà.
Dialogo Pd-Vendola
Nichi Vendola non sta a guardare. Per il governatore della Puglia il risultato ottenuto segna «l’inaugurazione del cantiere della nuova sinistra italiana»: «Un soggetto politico neonato, spesso oscurato mediaticamente, con un rodaggio di poche settimane, ha raggiunto quel 3,1% che è un risultato importante, segno di una domanda di sinistra che vive, sia pure dispersa e frustrata, nel nostro Paese». Vendola oggi incontrerà gli altri promotori della lista e chiederà di non chiuderlo, questo cantiere. Grazia Francescato assicura che i Verdi saranno della partita, mentre si aspetta di sapere l’esito della riunione della segreteria del Partito socialista, che sembra tentato dal richiamo di Pannella a rilanciare la Rosa nel pugno.
L’altra incognita è se ci saranno degli sviluppi nel rapporto col Pd, dopo l’appello a lavorare insieme per un nuovo progetto di governo lanciato da Antonello Soro (dopo consultazione con Dario Franceschini). Se il leader di Sd Claudio Fava risponde al capogruppo del Pd alla Camera che è «irrispettoso» parlare di «integrazione come fossimo immigrati», Vendola evita di polemizzare ma chiede al Pd di «entrare prima di tutto nel merito dei problemi, discutere di contenuti perché ci sono troppi nodi non sciolti». Vendola vuole discutere col Pd di quelle che lui giudica «parole d’ordine chiare» per la sinistra: «Laicità dello Stato, scuola pubblica, sicurezza del lavoro e sul lavoro, tutela dell’ambiente, diritti civili, sociali e umani». E poi, dice Vendola in una lettera di risposta a Giovanna Melandri pubblicata su L’Altro di oggi «il Pd ha subìto una dura sconfitta, sarebbe letale se, per la seconda volta dopo le politiche del 2008, tentasse ancora di rimuoverla. È auspicabile che comunque porti a casa la pelle, ma sotto quella pelle nessuno sa ancora cosa ci sia».
Repubblica 10.6.09
La legge del bavaglio
di Giuseppe D’Avanzo
L´agenda delle priorità di Silvio Berlusconi continua ad essere ad personam. Quindi, che la ricreazione continui, con buona pace di Emma Marcegaglia. Sostegno alle imprese e a chi perde il lavoro? Possono attendere. Per la bisogna sono sufficienti, al premier, un paio di bubbole nel tempio di cartapesta di Porta a porta (4 giugno): «Oggi non c´è nessuno che perdendo il lavoro non venga aiutato dallo Stato. C´è la cassa integrazione per i precari, così come per i lavoratori a progetto».
Il Cavaliere diventa meno fantasioso quando si muove nel suo interesse. Teme le intercettazioni (non si sa mai, con quel che combina al telefono) e paventa le cronache come il diavolo l´acqua santa. Si muove con molta concretezza, in questi casi. Prima notizia post-elettorale, dunque: il governo impone la fiducia alla Camera e oggi sarà legge il disegno che diminuisce l´efficacia delle investigazioni, cancella il dovere della cronaca, distrugge il diritto del cittadino di essere informato. Con buona pace (anche qui) della sicurezza dei cittadini di un Paese che forma il 10 per cento del prodotto interno lordo nelle pieghe del crimine, le investigazioni ne usciranno assottigliate, impoverite. L´ascolto telefonico, ambientale, telematico da mezzo di ricerca della prova si trasforma in strumento di completamento e rafforzamento di una prova già acquisita. Un optional, per capirci. Un rosario di adempimenti, motivazioni, decisioni collegiali e nuovi carichi di lavoro diventeranno sabbia in un motore già arrugginito avvicinando la machina iustitiae al limite di saturazione che decreta l´impossibilità di celebrare il processo, un processo (appare sempre di più questo il cinico obiettivo "riformatore" del governo). Ancora. Soffocare in sessanta giorni il limite temporale degli ascolti (un´ulteriore stretta: si era parlato di tre mesi) «vanifica gli sforzi investigativi delle forze dell´ordine e degli uffici di procura», come inutilmente ha avvertito il Consiglio superiore della magistratura,
Sistemata in questo modo l´attività d´indagine, il lavoro non poteva dirsi finito se anche l´informazione, il diritto/dovere di cronaca, non avesse pagato il suo prezzo. Con un tratto di penna la nuova legge estende il regime che oggi regola gli atti giudiziari coperti dal segreto anche agli atti non più coperti dal segreto «fino alla conclusioni delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell´udienza preliminare». Prima di questo limite «sarà vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, della documentazione e degli atti delle conversazioni telefoniche anche se non più coperti dal segreto».
Si potrà dire che si indaga su una clinica privata abitata da medici ossessionati dal denaro che operano i pazienti anche se non è necessario. Non si potrà dire qual è quell´inferno dei vivi e quanti e quali pasticci hanno organizzato accordandosi al telefono. Lo si potrà fare soltanto a udienza preliminare conclusa (forse). Con i tempi attuali della giustizia italiana dopo quattro o sei anni. In alcuni patologici casi, dopo dieci.
Addio al giornalismo come servizio al lettore e all´opinione pubblica. Addio alle cronache che consentono di osservare da vicino come funzionano i poteri, lo Stato, i controlli, le autorità, la società. È vero, in alcuni casi l´ostinazione a raccontare le opacità del potere ha convinto il giornalismo ad andare oltre i confini del codice penale violando il segreto. È il suo mestiere, in fondo, perché la libertà di stampa è nata nell´interesse dei governati e non dei governanti e quindi non c´è nessuna ragione decorosa per non pubblicare documenti che raccontano alla pubblica opinione - ricordate un governatore della Banca d´Italia? - come un´autorità di vigilanza protegge (o non protegge) il risparmio e il mercato.
Naturalmente violare la legge, anche se in nome di un dovere professionale, significa accettarne le conseguenze. È proprio sulle conseguenze di violazioni (finora comunemente accettate) che la legge del governo lascia cadere un maglio sulla libertà di stampa. I cronisti che violeranno la consegna del silenzio saranno sospesi per tre mesi dall´Ordine dei giornalisti (sarà questa la vera punizione) e subiranno una condanna penale da sei mesi a tre anni di carcere (che potrà trasformarsi in sanzione pecuniaria, però). Ma non è questo che conta davvero, mi pare. Che volete che sia una multa, se si è fatto un lavoro decente?
La trovata del governo che cambia radicalmente le regole del gioco è un´altra. È la punizione economica inflitta all´editore che, per ogni «omesso controllo», potrà subire una sanzione pecuniaria (incarognita nell´ultimo testo) da 64.500 a 465mila euro. Come dire che a chi non tiene la bocca cucita su quel che sa - e che i lettori dovrebbero sapere - costerà milioni di euro all´anno la violazione della "consegna del silenzio", cifre ragguardevoli e, in molti casi, insostenibili per un settore che non è in buona salute. L´innovazione legislativa - l´abbiamo già scritto - sposta in modo subdolo e decisivo la linea del conflitto. Era esterna e impegnava alla luce del sole la redazione, l´autorità giudiziaria, i lettori. Diventa interna e vede a confronto, in una stanza chiusa, le redazioni e le proprietà editoriali. La trovata trasferisce il conflitto nel giornale. L´editore ha ora un suo interesse autonomo a far sì che il giornale non pubblichi più quelle cronache. Si portano così le proprietà a intervenire direttamente nei contenuti del lavoro redazionale. Le si sollecita, volente o nolente, a occuparsi della materia informativa vera e propria, sindacando gli atti dei giornalisti. Il governo, nel progetto inviato al Parlamento, pretende addirittura che l´editore debba adottare «misure idonee a favorire lo svolgimento dell´attività giornalistica nel rispetto della legge e a scoprire ed a eliminare tempestivamente situazioni di rischio». È evidente che solo attraverso un controllo continuativo e molto interno dell´attività giornalistica è possibile «scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio». Di fatto, l´editore viene invitato a entrare nel lavoro giornalistico e a esprimere un sindacato a propria tutela.
Ecco dunque i frutti intossicati della legge che oggi sarà approvata, senza alcuna discussione, a Montecitorio: la magistratura avrà meno strumenti per proteggere il Paese dal crimine e gli individui dall´insicurezza quotidiana; si castigano i giornalisti che non tengono il becco chiuso anche se sanno come vanno le cose; si punisce l´editore spingendolo a mettere le mani nella fattura del giornale. E quel che conta di più, voi - cari lettori - non conoscerete più (se non a babbo morto) le storie che spiegano il Paese, i comportamenti degli uomini che lo governano, i dispositivi che decidono delle vostre stesse vite. Sono le nuove regole di una "ricreazione" che non finisce mai.
Repubblica 10.6.09
Il futuro è scritto: si prepara il sorpasso femminile tra i camici bianchi
Il medico sarà sempre più donna
di Cinzia Sasso
Pediatria, genetica e neuropsichiatria infantile le specialità preferite
Più maschi in pensione: tra quindici anni le donne saranno la maggioranza
IL FUTURO della medicina è donna. Dimenticate il dottor Manson, l´eroe della Cittadella di Cronin che ha fatto piangere intere generazioni; e anche il dottor Kildare, quello della serie americana degli anni ‘60. Piuttosto pensate a E. R., ma immaginatelo in grande.
Via i protagonisti maschili: tra dieci anni in camice bianco - annuncia uno studio del British Medical Journal che il Times di Londra rilancia - ci saranno in maggioranza dottoresse. E non succederà solo in Gran Bretagna: «Anche qui - dice Amedeo Bianco, il presidente della Fnmoceo, la Federazione del medici - la professione cambierà sesso». Ci vorrà qualche anno di più, ma tra quindici anni anche il Servizio sanitario nazionale italiano, così come il National Health Service britannico, diventerà un feudo al femminile. Entro il 2024 almeno 183 mila professionisti andranno in pensione e saranno rimpiazzati da nuove leve: «Stando al trend delle iscrizioni alla facoltà di Medicina - aggiunge Bianco - il destino è segnato: la gran parte saranno donne».
Il sorpasso, del resto, è già nei numeri: tra i laureati del 2007, le laureate in medicina sono state il 65,2 per cento; la media nazionale delle matricole nel 2007-2008 vede un 63 per cento di ragazze; addirittura in certe facoltà - ad esempio a quella della Statale di Milano - le studentesse raggiungono il 73 per cento. Ma sfogliando i dati del ministero dell´Università, non c´è praticamente sede dove le ragazze non siano maggioranza: da Ancona (367 contro 135) a Bari (482 contro 331); da Bologna (463 e 236) a Brescia (516 e 240); ma anche a Cagliari (115 e 50), Catania (89 e 60) e Napoli (277 contro 157). Il quadro si modifica quando i neo dottori scelgono la specialità: e allora ecco che le donne raggiungono il 58,6 per cento a neuropsichiatria infantile, il 48 a pediatria, il 48,7 a genetica e solo un 4,5 a cardiochirurgia.
Ornella Cappelli, presidente dell´Associazione nazionale donne medico, la vede così: «Credo che le donne siano oggi le più numerose perché la medicina non paga più. Fare il dottore non è più una professione di prestigio e allora gli uomini si danno ad altro». Secondo la dottoressa Cappelli, che è uno dei pochi dirigenti donna del settore sanità, la femminilizzazione spinta della professione nasconde alcune insidie: «Se i medici donne saranno il 70 per cento, non va bene perché mancheranno i chirurghi. Da noi, a Parma, c´è stata solo quest´anno la prima iscritta alla specialità di cardiochirurgia». Può essere allora che il futuro sia quello di dover importare chirurghi dall´estero, come da tempo accade in Uk. Il più grande amore londinese di Lady Diana, ad esempio, era proprio un chirurgo indiano.
I problemi di conciliazione tra i ruoli familiari e quello professionale sono evidenti: secondo Maurizio Benato, vice della Fnomceo, «un terzo delle donne medico sono single o separate», percentuale quasi tripla rispetto ai medici: «Il fatto è - dice - che la professione medica non lascia spazio alla vita privata, è totalizzante, non certo a misura di donna». Non solo ricerche, anche esperienze: Laura Spreafico ha cominciato a fare il chirurgo al Niguarda: «Dopo un po´ - racconta - il mio primario mi ha detto: sei una donna, dove vuoi andare? E così, siccome ho messo al mondo tre figli, ho cambiato: addio all´ospedale, faccio il chirurgo estetico nel mio studio privato».
Repubblica 10.6.09
Gaspar Miklos Tamàs, padre del dissenso e voce critica dell’Ungheria: "Vivo sotto minaccia"
"Sta nascendo qui a Budapest il nuovo fascismo europeo"
di Andrea Tarquini
Gli ultrà urlano "Heil Hitler" sotto casa mia, le tranquille signore borghesi riconoscendomi dicono che vorrebbero tanto vedermi impiccato
BUDAPEST - «Sì, la democrazia è in pericolo. In tutta Europa o quasi, ma l´Ungheria è un caso estremo». Ecco il monito di Gaspar Miklos Tamàs, padre del dissenso sotto il comunismo, filosofo e docente, forse la massima voce critica del paese. Perseguitato dal vecchio regime, oggi subisce minacce quasi quotidiane. «Una volta un gruppo di ultrà mi ha salutato sotto casa gridando "Heil Hitler", ma è normale che signore cinquantenni, tranquille borghesi cattoliche, o eleganti giovani yuppies, riconoscendomi mi dicano che dovrei essere impiccato. A ogni intervista a media stranieri mi accusano di calunniare la patria».
Professor Tamàs, lei parla dunque di gravi pericoli?
«Sì. Quando vediamo democrazie con grandi tradizioni come Francia o Regno Unito prigioniere di paranoie xenofobe, o la sinistra italiana che sembra sparire, cosa ci possiamo aspettare dall´Ungheria che ha vissuto quasi sempre sotto dittature o autoritarismo?».
Qual è la radice della crisi ungherese?
«La prima vera democrazia qui fu creata solo nel 1989 e coincise col collasso economico. Il primo risultato percepito dalla gente fu la perdita di 2 milioni di posti di lavoro. Nel nordest fame e miseria sono da terzo mondo. La catastrofe economica coesiste con una mentalità tipica dell´est: la gente vuole che lo Stato diriga, provveda, dia sicurezza. Ci sentiamo traditi dal mondo nuovo, e lo siamo. Anch´io ho rinnegato me stesso: sono stato liberale per una vita, ora sono marxista. Vorrei più libertà e giustizia. I miei compatrioti hanno altri desideri».
Quali?
«Il sistema democratico non ha riconoscimento né legittimazione, neanche i più onesti leader dei partiti democratici vi credono. Povertà, crimine, sono problemi reali. La gente allora prende in mano la legge: ecco la Guardia magiara, un secondo Stato. Ecco i sindaci delle regioni povere che si arrogano il diritto di negare il sussidio ai rom o ai poveri disoccupati».
Vede un futuro di fascismo?
«Il futuro ne avrà una dose un po´ più forte del presente. La destra estrema è giovane. Jobbik è nato come organizzazione studentesca. Quasi un ‘68 a rovescio: la paura del declassamento sociale, la competizione con i più poveri per i magri aiuti statali, spingono i giovani a rivolte ed estremismo. Non capiscono che l´oppressione per alcuni diventa poi l´oppressione di tutti».
Torna il fascismo del passato?
«È un fascismo diverso. Non hanno bisogno di militarismo, di sogni di guerra o idee totalitarie. È un fascismo difensivo, non offensivo, quindi più attraente. Non passeggero, può radicarsi. Non gli serve un partito unico, esprime il panico della middle class, introduce una lotta di classe dall´alto contro i più deboli. Simile agli anni Venti è l´odio verso la libertà. E per i perdenti. È un problema acuto in tutto l´Est: qui il capitalismo democratico, per cui lottai per decenni, ha fallito. Le maggioranze a Est ritengono che prima dell´89 si stesse meglio. Tutti sapevano di non essere liberi. Ma il sistema garantiva stabilità, società proletarie, plebee, ma quasi senza crimine, egalitarie nella cultura e non solo nell´economia. E non avevano come valore costitutivo il disprezzo per i deboli».
Corriere della Sera 10.6.09
L’etnia non conta, quando fa comodo
di Gian Antonio Stella
Cè anche Mario Balotelli tra gli africani che girano per la stazione Centrale e piazza Duomo e fanno sembrare Milano a Silvio Berlusconi «una città africana»? Sarebbe divertente saperlo. Nato a Palermo da una coppia di immigrati ghanesi ma adottato e cresciuto da una famiglia bresciana, «Supemario» ha sempre vissuto in Italia, è di lingua madre italiana, non sa una parola della lingua che parlavano i signori Barwuah che lo hanno messo al mondo, parla con un accento bresciano e sarebbe stato titolare in tutte le nazionali giovanili italiane se non fosse diventato italiano, dopo un tormentone burocratico, solo il 12 agosto 2008, al compimento dei 18 anni.
Nell’Egitto meridionale, verso il Sudan, hanno trovato un cippo di confine risalente al XIX secolo a.C.: «Frontiera sud. Questo confine è stato posto nell’anno VIII del Regno di Sesostris III, Re dell’Alto e Basso Egitto, che vive da sempre e per l’eternità. L’attraversamento di questa frontiera via terra o via fiume, in barca o con mandrie, è proibita a qualsiasi negro, con la sola eccezione di coloro che desiderano oltrepassarla per vendere o acquistare in qualche magazzino ». Insomma: il negro stia alla larga, ma se viene per businness, si accomodi pure... Un concetto ripreso quattro millenni dopo da quel geniale istrione di Ruud Gullit, uno dei tantissimi «negri» (da Frank Rijkaard a Edgar Davids, da Ronaldinho a Ronaldo, da Cafu a Serginho, da Dida a Clarence Seedorf...) importati a Milano dal Cavaliere che sul calcio è di larghissime vedute multietniche.
Disse appunto, un giorno, il grande Gullit: «Se sei miliardario e giochi nel Milan sei anche un po’ meno negro». Sempre lì si torna: chi è lo «straniero »? Viene in mente l’infame battuta di Karl Lueger, leader del partito cristiano sociale e borgomastro di Vienna a cavallo tra ’800 e ’900, che arrivò a conquistare il 70% dei voti dei concittadini (prova provata che la democrazia non è automaticamente garanzia di civismo) con una grande efficienza gestionale unita a una volgare demagogia antisemita. Ammiratissimo da Adolf Hitler, Lueger diceva ridendo: «Sono io a decidere chi è ebreo e chi no». Tu mi servi? Nessuna obiezione razziale. Non mi servi? Stai alla larga, giudeo.
Anche i peggiori razzisti dei Paesi che accolsero gli immigrati italiani si regolavano così con noi. Basti rivedere le vignette pubblicate sul libro «Wop» di Salvatore J. LaGumina, dove i nostri nonni venivano visti come scimmioni negroidi. O rileggere il libro edito dal Saggiatore con gli studi statunitensi sul razzismo anti-italiano dal titolo: «Gli italiani sono bianchi?». O ricordare che uno dei soprannomi dati per decenni agli italiani in America, soprattutto negli Stati razzisti del Sud, fu «Guinea». E sapete con quale soprannome fu a lungo marchiato il quartiere degli italiani a Londra? «Abissinia».
l’Unità Lettere 10.6.09
Le tracce del genoma
Le agenzie di stampa battono l’ennesima esternazione anti-scientifica del Papa e alcuni giornali la riprendono: «Ogni uomo ha nel suo genoma la traccia di Dio-amore e della Trinità». Viene da ribattere, con una certezza altrettanto indimostrabile, che nel Dna dell’essere umano siano individuabili consistenti tracce di libertà! Sono quelle che lo fanno vivere oltre la sopravvivenza, pensare con la sua testa, amare con la sua mente-corpo e “sentire” ciò che è sano e ciò che è malato in se stesso e negli altri esseri umani. Con il proprio genoma e con il proprio cervello, senza subire il lavaggio costante e annichilente da parte di chi lo vede malato e peccatore dai tempi dei tempi.
Paolo Izzo
l’Unità Lettere 10.6.09L’equazione Martina
Per cercare di capire come stanno veramente le cose da una decina d'anni mi regolo in questo modo: di tutto ciò che sento dire dall'attuale premier o dai suoi portavoce penso che sia vero l’esatto contrario. A tale teoria mancava un riscontro oggettivo che ora però è in mio possesso. Il 9 maggio ai giornalisti il premier dichiarava di avere dalla sua oltre il 75% degli italiani. Finora, su 59.619.290 italiani, lo hanno votato 10.802.713, cioé il 18% il cui contrario fa 82 che è oltre il 75. Mi accingo quindi a esprimere la seguente equazione che chiamerò “equazione di Martina sull’attuale realtà dei fatti”: R=-dB, ove R è appunto la “realtà dei fatti” che è uguale all’opposto delle “dichiarazioni del premier” (dB).
Roberto Martina