giovedì 11 giugno 2009

Repubblica 11.6.09
Intercettazioni, ossessione del Cavaliere tra donne, televisioni e dolci di mafiosi
Quello che sui giornali non leggerete più
di Giuseppe D’Avanzo


Vietato trascrivere anche se un capo Rai chiede silenzio su dati elettorali non graditi al Capo
Quella festa di Capodanno con Craxi e le ragazze di Drive In che non arrivavano più

«Se escono fuori registrazioni lascio questo Paese». Lo disse Berlusconi l´anno scorso, ad Ancona, e così annunciò la sua offensiva contro le intercettazioni. Più che un´offensiva, la distruzione risolutiva di uno strumento d´indagine essenziale per la sicurezza del Paese e del cittadino. «Permetteremo le intercettazioni – disse nelle Marche quel giorno, era aprile – soltanto per reati di terrorismo e criminalità organizzata e ci saranno cinque anni di carcere per chi le ordina, per chi le fa, per chi le diffonde, oltre a multe salatissime per gli editori che le pubblicano».
Come d´abitudine, il Cavaliere la spara grossa, grossissima, consapevole che quel che ha in mente è un obiettivo più ridotto, ma tuttavia adeguato alla volontà di togliere dalla cassetta degli attrezzi della magistratura e delle polizie un arnese essenziale al lavoro. E, dagli strumenti dell´informazione, un utensile che, maneggiato con cura (e non sempre lo è stato), si è dimostrato molto efficace per raccontare le ombre del potere. La possibilità di essere ascoltato nelle sue conversazioni – magari perché il suo interlocutore era sott´inchiesta, come gli è accaduto nei colloqui con Agostino Saccà o, in passato, con Marcello Dell´Utri – è per il Cavaliere un´ossessione, un´ansia, una fobia. Ci è incappato più d´una volta.
Nel Capodanno 1987, alle ore 20,52 dalla villa di Arcore (Berlusconi festeggia con Fedele Confalonieri e Bettino Craxi).
Berlusconi. Iniziamo male l´anno!
Dell´Utri. Perché male?
Berlusconi Perché dovevano venire due [ragazze] di Drive In che ci hanno fatto il bidone! E anche Craxi è fuori dalla grazia di Dio!
Dell´Utri. Ah! Ma che te ne frega di Drive In?
Berlusconi. Che me ne frega? Poi finisce che non scopiamo più! Se non comincia così l´anno, non si scopa più!
Dell´Utri. Va bene, insomma, che vada a scopare in un altro posto!
La conversazione racconta la familiarità tra il tycoon e un presidente del consiglio allora in carica che gli confeziona, per i suoi network televisivi, un decreto legge su misura, poi bocciato dalla Corte Costituzionale.
Già l´anno prima, il giorno di Natale del 1986, il nome di Berlusconi era saltato fuori in un´intercettazione tra un mafioso, Gaetano Cinà, e il fratello di Marcello Dell´Utri, Alberto.
Cinà. Lo sai quanto pesava la cassata del Cavaliere?
Dell´Utri. No, quanto pesava, quattro chili?
Cinà. Sì, va be´! Undici chili e ottocento!
Dell´Utri. Minchione! E che gli arrivò, un camion gli arrivò?
Cinà. Certo, ho dovuto far fare una cassa dal falegname, altrimenti si rompeva!
Perché un mafioso di primo piano come Cinà si prendesse il disturbo di regalare un monumento di glassa al Cavaliere rimane ancora un enigma, ma documenta quanto meno il tentativo di Cosa Nostra di ingraziarselo.
Al contrario, è Berlusconi che sembra promettere un beneficio ad Agostino Saccà, direttore di RaiFiction quando, il 6 luglio 2007, gli dice: «Io sai che poi ti ricambierò dall´altra parte, quando tu sarai un libero imprenditore, mi impegno a … eh! A darti un grande sostegno». Che cosa chiedeva il premier? Il favore di un ingaggio per una soubrette utile a conquistare un senatore e mettere sotto il governo Prodi. O magari...
Ancora uno stralcio:
Saccà. Lei è l´unica persona che non mi ha mai chiesto niente, voglio dire…
Berlusconi. Io qualche volta di donne… e ti chiedo… per sollevare il morale del Capo (ridendo).
E in effetti, con molto tatto, Berlusconi chiede di sistemare o per lo meno di prendere in considerazione questa o quella attrice. Qualcuna «perché sta diventando pericolosa».
È l´ascolto di queste conversazioni, disvelatrici dei rapporti con una politica corrotta, con il servizio pubblico televisivo in teoria concorrente, addirittura con poteri criminali, che il premier vuole rendere da oggi irrealizzabile per la magistratura e vietato alla pubblicazione, anche la più rispettosa della privacy.
Per scardinare, nell´opinione pubblica, la convinzione che gli ascolti telefonici, ambientali, telematici servano e non siano soltanto una capricciosa bizzarria di toghe intriganti e sollazzo indecente per cronisti ficcanaso, Berlusconi ha costruito nel tempo una narrazione dove si sprecano numeri iperbolici ed elaborate leggende. Dice: «Si parla di 350 mila intercettazioni, è un fatto allucinante, inaccettabile in una democrazia». Fa dire al suo ministro di Giustizia che gli italiani intercettati sono addirittura «30 milioni» mentre sono 125 mila le utenze sotto ascolto (le utenze telefoniche, non gli italiani intercettati). Alla procura di Milano, per fare un esempio, su 200 mila fascicoli penali all´anno, le indagini con intercettazioni restano sotto il 3 per cento (6136).
Altra bubbola del ministro è che gli ascolti si "mangiano" il 33 per cento del bilancio della giustizia mentre invece sfiorano soltanto il 3 per cento di quel bilancio (per la precisione il 2,9 per cento, 225 milioni di costo contro i 7 miliardi e mezzo del bilancio annuale della giustizia). Senza dire che, per inerzia del governo, lo Stato paga al gestore telefonico 26 euro per ogni tabulato, 1,6 euro al giorno per intercettare un telefono fisso, 2 euro al giorno per in cellulare e 12 per un satellitare e l´esecutivo non ha tentato nemmeno di ottenere dalle compagnie telefoniche un pagamento a forfait o tariffe agevolate in cambio della concessione pubblica (accade all´estero).
Nonostante questa inerzia, le intercettazioni si pagano da sole, anche con una sola indagine. Il caso di scuola è l´inchiesta Antonveneta. Costo dell´indagine, 8 milioni di euro. Denaro incassato dallo Stato con il patteggiamento dei 64 indagati, 340 milioni. Il costo di un anno di intercettazioni e avanza qualche decina di milioni da collocare a bilancio, come è avvenuto, per la costruzione di nuovi asili.
Comunque la si giri e la si volti, questa legge serve soltanto a contenere le angosce del premier e dei suoi amici, a proteggere le loro relazioni e i loro passi, a salvaguardare il malaffare dovunque sia diffuso e radicato. Per il cittadino che chiede sicurezza e vuole essere informato di quel accade nel Paese è soltanto una sconfitta che lo rende più debole, più indifeso, più smarrito.
Se la legge dovesse essere confermata così com´è al Senato, i pubblici ministeri potranno chiedere di intercettare un indagato soltanto quando hanno già ottenuto quei «gravi indizi di colpevolezza» che giustificherebbero il suo arresto. E allora che bisogno c´è delle intercettazioni? Forse è davvero la morte della giustizia penale, come scrive l´associazione magistrati. Certo, è l´eclissi di un segmento rilevante dell´informazione. Da oggi si potranno soltanto proporre dei "riassuntini" dell´inchiesta e delle prove raccolte. Non si potrà pubblicare più alcun documento, nessun testo di intercettazione.
La cronaca, queste cronache del potere, però, non sono soltanto il racconto di imprese delittuose. Non deve esserci necessariamente un delitto, una responsabilità penale in questi affreschi. Spesso al contrario possono rendere manifesto e pubblico soltanto un disordine sociale, un dispositivo storto che merita di essere raccontato quanto e più di un delitto perché, più di un delitto, attossica l´ordinato vivere civile.
Immaginate che ci sia un dirigente della Rai che, in una sera elettorale, chiama al telefono un famoso conduttore e gli chiede di lasciar perdere con gli exit poll che danno un risultato molesto per «il Capo». Immaginate che il dirigente Rai per essere più convincente con il conduttore spiega che quello è «un ordine del Capo». Non c´è nulla di penale, è vero, ma davvero è inutile, irrilevante raccontare ai telespettatori che la scena somministrata loro, quella sera, era truccata?
Bene, ammesso che questa sia stata una conversazione intercettata recentemente in un´inchiesta giudiziaria, non la leggerete più perché l´ossessione del premier, diventata oggi legge dello Stato, la vieta. Chi ci guadagna è soltanto chi ha il potere. Chi deve giudicarlo non ne avrà più né gli strumenti né l´occasione.

Corriere della Sera 11.6.09
L’intervista. La moglie di Mousavi, candidato anti-Ahmadinejad
«Lotto con mio marito per i diritti delle donne»
Zahra vuole essere la prima first lady iraniana
di Andrea Nicastro


TEHERAN — La donna che potrebbe diven­tare la prima first lady iraniana dopo Farah Diba ha il volto tirato di una 58enne poco truccata, in campagna elettorale da tre mesi. Gli occhi piccoli, orientali luccicano appena da sotto il chador nero, ma la voce è pronta, agile, come le sue risposte, capaci di dribbla­re i nodi più insidiosi. I fiori rossi del rusarì (il foulard) sono l’unica nota di colore che si concede. In una sfida tra monumenti del regi­me teocratico, come sono queste elezioni pre­sidenziali iraniane, anche quelle roselline de­vono essere state soppesate con cura. Saran­no troppo audaci per i conservatori? Troppo mortificanti per i riformisti? La soluzione è nel moderato conformismo che caratterizza l’offerta elettorale del marito.
Eppure Zahra Rahnavard è stata l’unica donna rettore universitario dell’Iran. È scul­trice, saggista, ex consigliere governativa. È passata dalla minigonna al velo quando, ven­tenne, incrociò uno degli ideologi della rivo­luzione, il filosofo Ali Shariati. Oggi è soprat­tutto la moglie dell’ex premier Mir Hossein Mousavi, ma negli anni 70 era lei la più famo­sa tra i due. Mousavi è uscito dopo due decen­ni dalla naftalina per diventare il principale rivale del presidente Ahmadinejad. Ed è lei il suo asso nella manica. Se l’architetto ex pre­mier è riuscito a riaccendere le speranze del popolo riformista orfano del presidente Kha­tami, non è per le sue (evanescenti) promes­se o per un carisma che non c’è, ma piutto­sto per questa moglie straordinaria tanto per quel che pensa l’Occidente di una don­na col chador, quanto a confronto con altre figure pubbliche del­l’universo musulma­no.
«Io e Mousavi abbia­mo le stesse idee sui diritti delle donne — mette subito in chiaro —. Altrimenti non sa­remmo andati avanti per 40 anni di matri­monio ». Indipenden­te, provocatoria, un ego decisamente soli­do. Con vanità, raccon­ta alle simpatizzanti di come ha conosciuto il marito. «Si è innamo­rato a prima vista, in una mostra di pittura. Dopo 10 giorni mi ha chiesto di sposarlo».
Dottoressa Rahna­vard, lei ha scioccato l’Iran facendo comizi da sola o mano nella mano con suo marito.
«È stata una novità, è vero. Finora le auto­rità evitavano di portare le mogli nei viaggi ufficiali, mentre credo sia un fatto normale sia dal punto di vista religioso che intellettua­le. All’estero potrebbero capirci meglio e le al­tre coppie iraniane potrebbero avere un esempio di collaborazione e confidenza fami­liare ».
Dicono che lei sia la Michelle Obama del­l’Islam.
«Non sono Michelle, mi basta essere me stessa. Di certo ho grande stima di tutte le donne che, nel mondo, riescono ad avere un ruolo attivo nella società».
Di solito, però, nei Paesi islamici alla donna viene chiesto di fare un passo indie­tro.
«Da 30 anni mi occupo della questione femminile e non ho mai sentito tanta atten­zione al tema come ora. In Iran sono donne più della metà dei contadini, un terzo degli operai e il 70 per cento degli universitari. Le donne hanno potenzialità superiori agli uo­mini in molte attività scientifiche e sociali. Ciò di cui noi abbiamo bisogno qui in Iran è un’evoluzione dei diritti civili. Vogliamo eli­minare l’attuale status giuridico che impone alle donne la tutela di un uomo. Le donne de­vono decidere da sole il proprio destino».
In Occidente il velo è il simbolo della sud­ditanza femminile. Lei lo porta.
«L’ho scelto assieme alla fede nel fiore del­la mia gioventù e ne sono orgogliosa. Nel 1975 pubblicai un libro in America dal titolo L’hijab: il messaggio della donna musulma­na.
Il rispetto del velo, dicevo, deve derivare dal convincimento, non da un’ordine. Non ho mai cambiato idea: sono contraria alla tra­sformazione dell’hijab in strumento di op­pressione. Credo fermamente alla libertà di scelta».
La legge iraniana però…
«Infatti la mia è solo un’opinione».
Durante il governo Ahmadinejad oltre 120 donne sono state arrestate per le loro opinioni.
«Il Corano dice di 'non spiare la vita priva­ta altrui'. Perché Mousavi dovrebbe temere le donne quando sua moglie è scesa in cam­po? Se verrà eletto farà di tutto per rispettare i diritti, eliminare le discriminazioni, garanti­re processi giusti e rapidi».
Gli ultimi sono stati anni duri per i diritti civili. Pochi mesi fa, ad esempio, il Parla­mento stava per liberalizzare la poligamia.
«Un altro capolavoro del presidente Ahma­dinejad. Ha presentato due disegni di legge per fortuna entrambi bloccati».
Eppure il Corano lo consentirebbe.
«Dovremo affrontare il tema rispettando i precetti religiosi e la dignità della donna libe­ra, musulmana, iraniana».
Possibile?
«Certo».
Secondo i sondaggi, molte iraniane han­no deciso di votare suo marito perché han­no fiducia in lei. Immagina un ruolo per sé al governo in caso di vittoria?
«Penso che potrei dare il mio contributo come consigliere politico. L’ho già fatto du­rante la presidenza Khatami e potrei rifarlo. Però nella prossima amministrazione dovran­no esserci almeno due o tre ministri donna (oggi non ce n’è nessuna, ndr) tante amba­sciatrici e consiglieri. Chi ha talenti deve po­terli esprimere. Maschio o femmina che sia».
In Iran c’è ancora chi pensa, come alle scorse elezioni, che sia meglio non votare per togliere legittimità al regime.
«Agli astensionisti dico non lasciate il pote­re a chi mente, rovina l’economia, umilia il Paese all’estero, offende la Costituzione. Fate sentire la vostra voce».
Lei ha annunciato querela nei confronti del presidente per aver messo in dubbio le sue credenziali accademiche. Perché Ahma­dinejad l’ha attaccata?
«È lui a dover rispondere, a me resta l’ama­rezza di un presidente che ha messo in ridico­lo la sua carica. Deve chiedere scusa al popo­lo iraniano, alla mia famiglia e a me».

Corriere della Sera 11.6.09
«Atlantico» Gli specialisti potranno esaminare studi e disegni. E le carte usciranno dalla Biblioteca Ambrosiana
Il Codice di Leonardo torna al ’500
Terminata la «sfascicolatura» dei volumi. «I fogli singoli si conservano meglio»
di Armando Torno


Alla fine del ’500 lo scultore Pompeo Leoni radunò i disegni leonardeschi di macchine e altre note di vario argomento, prevalentemente di carattere geometrico.

La raccolta di 1.186 documenti prese il nome di «Codice Atlantico» che venne donata alla Biblioteca Ambrosiana. Tra il 1962 e il ’72 fu divisa in 12 volumi L’intervento
L’attuale «sfascicolatura» dei quaderni in cui erano composti i 12 volumi consente una migliore conservazione dei fogli e una loro maggiore diffusione. Gli specialisti potranno vederli direttamente senza rischio di usurarli. Inoltre, le carte non soffriranno per essere legate senz’aria e si eviterà la formazione della polvere

MILANO — Da pochi giorni nel caveau della Biblioteca Ambrosiana di Milano le benedettine di Viboldo­ne hanno terminato la sfascicolatu­ra del Codice Atlantico di Leonardo. Dopo la notizia di presunte muffe di un paio d’anni fa, il lavoro delle suo­re è subito cominciato, svolgendosi sotto il controllo dell’Istituto Nazio­nale di Patologia del Libro, della Commissione Vinciana e con il so­stegno delle analisi effettuate alla Sapienza di Roma.
I prelievi alle carte hanno escluso aggressioni biologiche. La presenza di macchie nerastre, che fece il giro del mondo, rilevate in alcuni casi non sui disegni del Codice bensì sul supporto cartaceo esterno (che ha una quarantina d’anni), è stata attri­buita a «ingenti quantitativi di mer­curio ».
Il Codice Atlantico è come se tor­nasse alla sua origine, agli anni di fine Cinquecento nei quali Pompeo Leoni, scultore prediletto di Filippo II di Spagna, riuscì a radunare una cinquantina di manoscritti vinciani che variavano dagli «in folio» ai pic­coli taccuini d’appunti. Accanto ai volumi, a quaderni e brogliacci, l’ar­tista possedeva anche circa duemila fogli isolati di varia grandezza, con disegni accurati e rifiniti insieme ad appunti frettolosi e disorganici, nonché a fogli riutilizzati in quanto già scritti da altri.
Per dare unità fisica e omogenei­tà a questo materiale, Leoni lo fissò su due grossi album. In uno riunì i disegni artistici, compresi quelli di anatomia, corredandoli di didasca­lie; da questo volume, divenuto in seguito proprietà della Casa Reale d’Inghilterra, nel secolo XIX ciascun foglio fu staccato, nu­merato e montato sin­golarmente. Attualmen­te vengono citati come i «Fogli di Windsor», prendendo il nome dal castello reale ove sono conservati. Nell’altro, invece, raccolse i dise­gni di macchine e note di vario argomento, pre­valentemente di caratte­re meccanico e geome­trico, costituendo il Codice Atlanti­co, che finì per una donazione in Ambrosiana. Lo stesso fu rubato nel mese di «fiorile» del 1796 da Napo­leone (restituito a Milano dopo il 1815, per intervento di Canova) e dopo qualche soggiorno in tempo di guerra nel caveau della Cassa di Risparmio fu restaurato — questa è la penultima avventura — tra il 1962 e il 1972. In quell’occasione si scelse di dividerlo in 12 volumi.
Pietro C. Marani, uno degli stu­diosi che ha seguito più da vicino la sistemazione del codice per incari­co della Commissione Vinciana, in­segna Storia dell’arte moderna al Po­litecnico di Milano ed è anche presi­dente dell’Ente Raccolta Vinciana. Dichiara: «La sfascicolatura dei qua­derni in cui erano composti i 12 vo­lumi consentirà una migliore con­servazione dei fogli leonardeschi e, attraverso le mostre tematiche, la lo­ro conoscenza e diffusione. Gli spe­cialisti potremmo vederli diretta­mente e le carte non soffriranno per essere legate senza aria; si eviterà inoltre la formazione di polveri».
Marani sottolinea: «Non si pote­vano conservare 1.186 documenti di Leonardo che, dopo il restauro di mezzo secolo fa, erano montati su carta moderna: sfogliandoli si sotto­ponevano a piegatura e ad azione meccanica. Il tempo avrebbe com­promesso il disegno originale e l’usura ne minava la conservazione. Inoltre si trattava di carte di diversa natura e quelle attuali rischiavano di trasmettere dei problemi a quelle originali». Carlo Pedretti, professo­re emerito a Los Angeles, direttore del Centro Studi leonardeschi del­l’Università della California, saluta con gioia questa sfascicolatura: «Benvenuta! L’ho perorata dagli an­ni ’70, quando pubblicai il catalogo a New York del Codice Atlantico e diedi di ogni foglio una scheda. Si sarebbe dovuta fare un’operazione come quella di Windsor, invece si compressero le carte in quei 12 volu­mi correndo notevoli rischi. Anche Federico Zeri si trovò d’accordo con me nel rifiutare quel restauro».
Monsignor Franco Buzzi, l’attua­le prefetto della Biblioteca Ambro­siana, tira un sospiro di sollievo a la­voro finito e confida: «La ricolloca­zione del Codice Atlantico foglio per foglio ci darà modo di favorirne la fruizione integrale a partire dalle prossime esposizioni. Tra pochi giorni daremo l’annuncio ufficiale alla stampa italiana e internazionale dei risultati raggiunti, nonché delle iniziative progettate; per ora posso soltanto dire che si svolgeranno alla Biblioteca Ambrosiana e nella Sacre­stia Monumentale del Bramante, in Santa Maria delle Grazie». Da que­ste parole si può dedurre che il Codi­ce Atlantico uscirà dall’Ambrosiana e comincerà a farsi conoscere diret­tamente. Le domande si moltiplica­no. Quali sistemi di sicurezza, quali programmi? Del resto, qualunque frammento di Leonardo ha un valo­re immenso e dopo gli interessi di Bill Gates — e il successo del polpet­tone Il codice da Vinci — si è ricrea­ta una febbre intorno anche alla più piccola reliquia, giacché decine di miliardari in tutto il mondo sarebbe­ro disposti, pur di averla, a sborsare cifre impensabili. Anche in tempi di crisi.

Il Riformista 11.6.09
La visita di Muammar Gheddafi
Intervista a Del Boca «È una vittoria del governo di Berlusconi»
di An. Maz.


La visita di Muammar Gheddafi ha rinfocolato il dibattito sul colonialismo italiano, la conquista della cosiddetta "quarta sponda". Una scia di sangue che è arrivata sino ai nostri giorni e appuntata sulla giacca militare del Colonnello, quando ieri mattina è atterrato a Ciampino. Quell'immagine in bianco e nero di Omar-al-Mukhtar la dice lunga sul superamento di ogni rancore nei confronti dell'Italia. I morti, si sa, "restano", nonostante il governo italiano abbia chiesto scusa per il passato e versato 5 miliardi di dollari. «Non è solo la foto» dice al Riformista Angelo Del Boca, storico e massimo esperto di colonialismo, autore di A un passo dalla forca per la Baldini e Castoldi Dalai. «Gheddafi ha portato con sè anche i 12 nipoti dei partigiani libici anti-italiani».
Perchè questa provocazione?
Il Colonnello sta lanciando un messaggio chiaro: è vero che voi mi avete dato 5 miliardi di dollari e che io li ho accettati, ma questo non può farmi dimenticare il sangue dei 100mila libici uccisi da voi italiani.
Insomma, la riconciliazione annunciata con la firma del Trattato di Bengasi non c'è ancora?
Ma, io penso che ci sia, perché - intendiamoci - finalmente l'Italia ha spostato una cifra ragguardevole. 5 miliardi di dollari non sono pochi. Però, Gheddafi non voleva solo questo. Quando l'ho intervistato l'ultima volta mi aveva detto che quello che gli dava fastidio era il silenzio delle autorità italiane e il fatto che fino ad allora nessuno avesse dimostrato un pentimento vero per quello che è stato fatto.
Quanto deve essere grande il nostro senso di colpa?
Beh, la nostra presenza in Libia è costata 100mila morti e se teniamo presente che all'epoca i libici erano 800mila, 1 libico su 8 è morto a causa nostra.
Però, Berlusconi a Bengasi e anche dopo ha chiesto scusa
Sì, diciamo che oltre al denaro Berlusconi ha espresso pentimento e senso di disagio per il comportamento dei nostri nonni. Dal punto di vista morale, quindi, che stava molto a cuore a Gheddafi e a tutti i libici, è stato raggiunto un risultato.
Eppure il Colonnello non dimentica...
No, non lo fa. Durante i 40 anni della sua dittatura ha sempre avuto con l'Italia un rapporto di amore e odio. Questo è un viaggio che lo risarcisce molto.
Perchè ora e non prima?
Indubbiamente c'è stato un errore da parte dei nostri uomini di Stato, che hanno trascinato troppo a lungo questa vertenza. C'è stata una responsabilità diretta anche di Giulio Andreotti, che nel 1984 voleva costruire un ospedale a Tripoli e iniziò a mercanteggaire. I libici volevano 1100 letti, l'Italia non ne offriva più di 100. Fu un errore.
Quindi, questo è un successo di Berlusconi?
I 5 miliardi di dollari dati dall'Italia verranno praticamente riassorbiti dalle nostre aziende che faranno affari lì, anche se in 25 anni. Berlusconi, dunque, davanti all'opposizione dimostra una notevole vittoria. Quello che non sono riusciti a fare i governi di centrosinistra, l'ha fatto lui. C'erano state trattative con Prodi, con D'Alema e persino con Dini. Ma l'obiettivo l'ha raggiunto Berlusconi.

l’Unità 11.6.09
Vendola. Discutiamo pure ma Franceschini deve scoprire le sue carte
intervista di Simone Collini


Sono due i problemi. Dar vita a un’iniziativa politica il più possibile convergente contro il governo delle destre. E costruire la sinistra. A valle di questi due processi ci potrà essere la definizione delle alleanze». «A valle», sottolinea il presidente della Puglia Nichi Vendola, dirigente di Sinistra e libertà.
Il Pd vi ha teso la mano: la sua risposta?
«Sono d’accordo ad aprire un’interlocuzione, purché sia franca».
Cosa vuole dire?
«Dobbiamo cominciare a usare le parole per conoscerci e spiegarci, piuttosto che per menarci».
Col Pd?
«Col Pd ma anche con l’Idv, i Radicali, Rifondazione. L’importante è che si entri nel merito dei problemi, si avvii un confronto sulla crisi della società italiana, sulla permeabilità della civiltà europea alle culture più regressive e reazionarie, su come costruire un’alternativa al berlusconismo».
Da dove partire?
«Dobbiamo affrontare di petto e rimuovere i nodi che hanno aggrovigliato le nostre comunicazioni e che talvolta sono stati legati attorno al collo dei soggetti interessati».
Sarebbero?
«La questione sociale, i diritti civili, la sicurezza del e sul lavoro, la laicità dello Stato, che non è né una caricatura né un cimelio risorgimentale da collocare nelle discussioni e che invece riguarda temi come fecondazione assistita o testamento biologico».
Tra i partiti con cui interloquire non ha messo l’Udc, eppure il Pd ipotizza alleanze anche con i centristi.
«Con l’Udc bisogna discutere della costruzione di un’iniziativa politica forte a difesa della democrazia. Ma mi spaventa la discussione di formule alleanzistiche che prescindono dall’approfondimento di merito».
E del rapporto con l’Idv che dice?
«Voglio discutere con franchezza. Il populismo è sempre un pericolo. Anche se agito a fin di bene è una semina avvelenata. Bisogna recuperare fino in fondo la radicalità del tema della legalità, però liberandolo da qualsiasi pulsione giustizialista. Giustizialismo e legalità sono nozioni contraddittorie, il primo talvolta è una violazione della seconda».
Il Prc propone un polo di sinistra autonomo dal Pd. Cosa ne pensa?
«Io voglio dialogare con Rifondazione. Ritengo inservibile ciò che è un residuo nostalgico, la sinistra arcaica è un impedimento alla crescita della sinistra di cui il mondo ha bisogno. Però non tutto quello che sta dentro Rifondazione è riducibile a questo. Ci sono tanti percorsi, tante storie e persone, e anche lì dobbiamo tutti sfidarci sui contenuti».

L’Altro 10.6.09
Caro Pd, proviamoci insieme
Il leader di "Sl" risponde a Giovanna Melandri: "Discutiamo anche su come battere Berlusconi"
di Nichi Vendola


Cara Giovanna, voglio prima di tutto ringraziarti per i toni personalmente affettuosi e politicamente rispettosi che hai usato nei confronti miei e di Sinistra e Libertà. Credo che l`interlocuzione a sinistra che tu proponi sia necessaria, non per noi ma per il Paese, il cui problema oggi è la ricostruzione del campo largo di una opposizione al berlusconismo. Credo anche, però, che questa opposizione al berlusconismo non possa più limitarsi a una critica generica e letteraria. Deve entrare nel merito dei problemi reali. Deve far nascere il profilo di un`alternativa credibile. A fronte di questa crisi durissima, per affrontarla mettendo in campo una concreta alternativa economico-sociale, la sinistra deve prima di tutto fare i conti con le mitologie liberiste e tecnocratiche che per molti anni la hanno attraversata. I nodi strategici sono evidentemente il lavoro e la scuola pubblica, e ciò significa senza mezzi termini lotta contro il precariato e contro il degrado della scuola pubblica, senza indulgere ad atteggiamenti civettanti con la vorace spinta alla privatizzazione dell`istruzione. Ma è un nodo strategico anche la difesa della laicità, che non può essere aggirata con l`alibi dei temi eticamente sensibili senza mai farne oggetto di una franca e aperta battaglia delle idee. Sullo stesso nostro europeismo, anch`esso un nodo dirimente, dobbiamo dire con chiarezza che lo intendiamo nella, sua accezione più "euromediterranea", come ponte per la pace e come incontro di civiltà. E` questo del resto il messaggio che ci arriva dalla stessa presidenza degli Usa, da Barack Obama. Infine, non credo sia più rinviabile la messa a tema, e con la massima urgenza, del problema fondamentale: la qualità e la natura della nostra, democrazia, oggi messa gravemente a rischio dal prosciugarsi della rappresentanza reale, dalle pulsioni razziste e autoritarie, dal tentativo sempre più sfrontato di svuotarla di contenuti. L`istanza egualitaria è sin dalle origini una componente essenziale della nostra Costituzione e del suo spirito più intimo. Ma oggi assistiamo invece proprio a una metodica soppressione di ogni istanza egualitaria, con una conseguente mutazione genetica della nostra stessa democrazia. Se non si entra nel merito di questi temi, tutto resta confinato nel campo delle petizioni del cuore. In queste elezioni, il Pd ha subìto una dura sconfitta. Sarebbe letale se, per la seconda volta dopo le politiche del 2008, tentasse ancora di rimuoverla. E` auspicabile che comunque porti a casa la pelle, ma, sotto quella pelle nessuno sa ancora cosa ci sia. Nell`affrontare i nodi fondamentali, si pone più come un galateo che come il perno di un blocco sociale alternativo. Noi, come Sinistra e Libertà, abbiamo già fatto la scelta di aprire un percorso di ricerca e di iniziare un cammino. Chiediamo a tutti di essere, come noi, attori di un dialogo vero, senza retropensieri. Oggi non si tratta di fare scelte che affrontano prioritariamente il tema di un contenitore. Oggi siamo alla scrittura di una prima bozza di un programma fondamentale per la sinistra. Oggi siamo all`inaugurazione di un cantiere, o forse di più cantieri, in cui avviare con esperienza e con pazienza, la cura di un parto, di un partire, e infine di un partito. Con voi, amici democratici, con Antonio Di Pietro, con il Partito radicale, con Rifondazione comunista, è giunto il tempo di smettere di usare le parole come corpi contundenti. E`questo il tempo di parlarci con sincerità, magari con asprezza, ma con quel comune sentire che è proprio di chi percepisce, persino con dolore, lo scivolamento dell`Italia e dell`Europa verso destra. Quando la sinistra rinuncia a darsi una grande missione e ad avere una grande visione, cede alla tentazione del governismo. Si smarrisce nei labirinti dell`amministrazione. Smette di essere una narrazione collettiva e non si accorge che in una società frammentata i messaggi della destra, anche estrema, possono guadagnare consensi crescenti. E non vale neppure, sulla sponda opposta a quella del governismo, far vivere la. sinistra alla stregua di una cattedra di sociologia della catastrofe, o come un`identità immobile,, un sarcofago in cui conservare la mummia delle nostre glorie passate. Vale invece la sinistra come creazione, come racconto della vita che incrocia l`analisi sociale, come grammatica della libertà e cura della soggettività. Come profezia laica che annuncia la pace e come efficacia di un agire politico che interpella la vita, la sua fragilità, la sua irriducibile potenza. E quindi, cara Giovanna, a presto.

mercoledì 10 giugno 2009

l’Unità 10.6.09
L’analisi dei flussi di Swg rivela l’attrazione delle posizioni più radicali sui democratici
È in pareggioil saldo tra Pdl e Lega Nord. Il peso dell’astensione sulle due coalizioni
Ottocentomila voti del Pd sono andati a Di Pietro
La sinistra radicale. Un terzo dei voti ottenuti dai due partiti è arrivato da ex del Pd
di G.M.B.


Sono state le astensioni (quasi 7 milioni di votanti in meno rispetto al 2008) a decidere le elezioni. Hanno inciso molto più dei passaggi di voti tra i due schieramenti. Che, a sorpresa, hanno favorito il centrosinistra.

Alle elezioni politiche erano più di 12 milioni. Un anno dopo - cioè alle Europee - sono diventati 8 milioni: 4 milioni in meno. Ma per capire le dimensione dell'emorragia di voti del Partito democratico, bisogna tener presente che gli elettori «entrano» ed «escono». I 4 milioni in meno sono dunque il risultato della somma algebrica tra queste entrate e queste uscite.
L'analisi dei flussi elettorali svolta dall'istituto di ricerche di opinione Swg offre una fotografia precisa del «bilancio elettorale» dei partiti ed è anche una guida preziosa per ragionare sulle possibili alleanze oltre che per individuare i temi politici ai quali sono maggiormente sensibili gli elettori.
Il dato più appariscente conferma un’impressione diffusa. E cioè che la sirena che ha più attrae i transfughi democratici è il partito di Di Pietro. In effetti è stato così: dalle politiche del 2008 alle Europee di sabato e domenica, 939.000 elettori sono passati dal Pd all'Italia dei valori. Il processo inverso è stato compiuto da 149.000 elettori.
Notevole anche l'emorragia democratica a favore delle formazioni della sinistra radicale, con un rapporto analogo (6 a 1) tra le «uscite» e le «entrate»: hanno votato per Rifondazione comunista e per il Pdci 294.000 ex elettori del Pd, e altri 342.000 hanno scelto Sinistra e libertà. Se si considera che la sinistra radicale alle Europee ha ottenuto poco meno di 2 milioni di voti, si ha quest'altro dato significativo: un terzo del suo elettorato è stato costituito da transfughi democratici.
Complessivamente, gli elettori del Pd passati ad altre formazioni di centrosinistra e di sinistra (vanno aggiunti altri 56.000 che hanno votato formazioni minori dell'area e i 224.000 che hanno scelto i radicali) sono stati tra il 2008 e 2009 quasi 2 milioni (esattamente 1.855.000). A compiere il percorso inverso sono stati 240.000.
Secondo lo studio della Swg è stato consistente, anche se non paragonabile a quello appena descritto, il passaggio di elettori del Pd a formazioni del centrodestra e del centro: hanno votato per il Popolo della libertà o per la Lega Nord, 265.000 dei democratici del 2008. E altri 198.000 sono passati all'Unione di centro. Se a questi si aggiungono i 24.000 che hanno optato per altre formazioni minori del centro o del centrodestra, si ha un totale di quasi 500.000 elettori (esattamente 487.000). A compiere il percorso inverso sono stati 319.000.
Riassumendo. Per ogni 8 elettori del Pd passati tra il 2008 e il 2009 ad altre formazioni del centro sinistra, uno ha compiuto il percorso inverso. Per ogni 2 democratici andati al centrodestra, uno si è spostato nel modo opposto.
Risultato evidente
A voler utilizzare questi dati per calibrare la linea politica, il risultato è evidente: il Pd ha perso una parte considerevole dei suoi voti a favore delle formazioni che hanno sostenuto le posizioni più radicali e «antiberlusconiane». Ma la causa più profonda dell'emorragia dei voti è stata un'altra ancora: l'astensionismo. Se, infatti, quasi due milioni di elettori democratici sono andati verso altri partiti del centrosinistra e mezzo milione si è orientato sul centrodestra, sono stati quasi tre milioni (esattamente 2.838.000, il 23,2% degli elettori del 2008) a restare a casa. Un numero enorme, neanche lontanamente compensato da quei 339.000 elettori che alle Politiche si erano astenuti e alle Europee hanno votato Pd.
Lo stesso fenomeno ha colpito, in misura leggermente minore, il Popolo delle Libertà. Il 18,3% del suo intero elettorato del 2008 non è tornato alle urne. Si tratta di quasi 2 milioni e mezzo di persone (esattamente 2.497.000). Tra le forze della stessa area, è stata la Lega Nord a erodere maggiormente l’elettorato di Berlusconi (ha portato via 533.000 voti) ma, alla fine, il saldo è quasi in pareggio perché sono stati 433.000 gli elettori leghisti che dal 2008 al 2009 sono passati al Pdl. Un dato che darà forza agli argomenti di chi, nel Popolo delle libertà, contestata l’appiattimento di Berlusconi sulle tematiche care a Umberto Bossi.

l’Unità 10.6.09
Indagine del Censis
Così i tg influenzano gli elettori
Il Pdl straripa sul tubo catodico


L’indagine del Censis sui media che condizionano il voto. I notiziari hanno la meglio anche sui programmi d’approfondimento, sui quotidiani e su Internet. Berlusconi non a caso ha invaso sia Rai che Mediaset (anche monologhi di 47 minuti). Inascoltate le denunce di Agcom.
I telegiornali orientano il voto dei cittadini. La maggioranza di governo domina i telegiornali, con Berlusconi che registra punte di presenza tra il 60% e il 75% degli spazi televisivi. La maggioranza incassa più voti dell’opposizione.
Il sillogismo si evince dalla lettura combinata dei dati sull’informazione elettorale forniti ieri dal Censis e sulla presenza dei politici in tv resi noti dall’Agcom per il periodo tra il 29 aprile e l’8 maggio. «Stavolta non è un complotto internazionale - commenta Beppe Giulietti di “Articolo 21” - Il Censis ha detto una cosa nota a tutti. In un Paese in cui il premier è proprietario di Mediaset e controlla indirettamente la Rai, non può non influenzare anche il diritto di voto degli italiani». Giulietti ricorda anche la lunga «passerella» di Berlusconi all’Aquila tra i terremotati: «Vedo una scomparsa graduale del principio della par condicio».
Squilibrio elettorale. Il Censis infatti ha diffuso i numeri post-elettorali: la tv resta il principale mezzo per formarsi un’opinione sulla politica, il 69,3% degli elettori ha scelto attraverso le notizie e i commenti trasmessi dai tg (dato che sale al 78,7% tra i pensionati e al 74,1% tra le casalinghe). In secondo luogo, il 30,6% degli elettori si affida ai programmi di approfondimento («Porta a Porta, Matrix e simili»). I giornali - prosegue il Censis - sono determinanti per il 25,4% degli elettori (soprattutto istruiti e nelle grande città). Marginali le conversazioni con familiari e amici (19%) e il web (2,3%).
Molto interessanti in questo quadro sono le rilevazioni dell’Agcom, l’autorità di garanzia per le comunicazioni che pure coprono un periodo (29 aprile-8 maggio) precedente al clou della campagna elettorale e all’ultima tornata di nomine di Viale Mazzini decise da Berlusconi a Palazzo Grazioli. Emerge «uno squilibrio a favore della maggioranza in tutte le reti, eccetto il Tg3».
Sulle reti del Biscione, Tg4 e Tg5 violano la par condicio dedicando rispettivamente il 74% e il 60% dei loro spazi a PdL e Lega «con particolare concentrazione su governo e premier». Studio Aperto durante la prima decade di maggio è sbilanciato a favore delle forze politiche maggiori. Tg2 e La 7 sono sbilanciati a favore del governo rispettivamente del 62% e 67%. Il Tg1, secondo l’Agcom, «mantiene costantemente oltre il 50% del tempo antenna (cioè la copertura complessiva tra notizie e interviste, ndr) dedicato alla maggioranza contro il 25-30% all’opposizione.
Multata Rete4. Ne è scaturito un richiamo generale «a un maggior equilibrio tra tutte le liste in competizione» con l’adozione di uno «specifico ordine di riequilibrio» a carico di Rete4. Tutto ciò è servito? Non pare.
Dalla Cnn a Videolina il vicepresidente della Vigilanza Giorgio Merlo ha denunciato, alla vigilia del voto, «la presenza ossessiva e costante di Berlusconi in tv». Rete4 è stata multata di 180mila euro per l’inosservanza del provvedimento dell’Autorità. Il capo del governo non si è fatto mancare niente: “Porta a Porta”, “Matrix”, Cnn, Canale Italia, Odeon, T9, Videolina, RadioRai, Radiomontecarlo, Radio Anch’io, Rtl.

il Riformista 10.6.09
Dibattito surreale
Ha vinto la destra in Italia e in Europa
di Biagio De Giovanni


Il centrosinistra sembra voler giocare la solita carta attendista e speranzosa nella provvidenza che aiuta i migliori: prima o poi si romperanno al loro interno. Quando avverrà? Attesa inutile, il Governo durerà per il tempo previsto
Ma la sua vittoria è indubitabile, e ora può essere misurata anche sul risultato delle elezioni amministrative sulle quali è ancor più difficile la contestazione: milioni di cittadini in carne e ossa passano da una amministrazione all'altra, con la destra che penetra perfino in confini fino a ieri corazzati.
Quali sono i criteri di valutazione politica per argomentare questa tesi? Anzitutto quelli che riguardano il risultato europeo complessivo, su cui la riflessione c'è stata (Franco Venturini sul Corriere della Sera, ad esempio), ma non ha ancora conquistato la meritata centralità. Dappertutto o quasi, in Europa, la destra avanza, ("a destra tutta!", è lecito citarsi?) e la sinistra perde pezzi consistenti del suo elettorato anche tradizionale. E ciò in presenza di quella crisi che, secondo ritornanti schemi ideologici di matrice assai vecchia (Ah! il vecchio economicismo di ritorno, condito sempre da un po' di provvidenzialismo storico che non guasta!), avrebbe dovuto velocemente rovesciare le tendenze, e riaccreditare una sinistra convinta di possedere, su quel terreno, le risposte giuste e il decisivo terreno di aggregazione. È un tema da non abbandonare, anzi da approfondire appena si saranno spenti i fuochi più o meno fatui del dibattito post-elettorale. Fra l'altro, ampliare lo sguardo oltre i confini d'Italia, e immergersi in quella crisi di dimensioni sicuramente non congiunturali, può aiutare lo stesso dibattito della sinistra italiana a raccogliere i cocci di visioni del mondo obsolete, e reimmergersi in quelle società che, a sinistra (e "a centrosinistra"), mostrano di non sapere più che cosa sia. La fine, sperabile, della sinistra dei salotti (romani e "repubblicani", dei gossip e del moralismo) e il ritorno alle cose e al popolo e alla realtà e alle idee: figli di Machiavelli non di D'Avanzo: ha ragione Piero Ostellino!
Tema sul quale bisognerà riflettere è l'effetto di questo voto sulla dinamica e i caratteri delle politiche europee e sullo stesso significato della sua integrazione. A parte pur significative presenze euroscettiche, che non mi pare abbiano superato un certo limite e che comunque indicano qualcosa, sarebbe un errore immaginare che questa destra sia semplicemente antieuropea. Non è così. Essa però si colloca in una visione critica del vecchio cosmopolitismo di sinistra da "siamo tutti cittadini del mondo", attenta alle nuove insicurezze, ai confini, alle identità, alle protezioni, al ritorno forte della nazione e delle sovranità, e così via… Un mescolamento di temi, per dir così, di destra e di sinistra, in una commistione da cui sta sgorgando una nuova identità che mostra di aver compreso il carattere stanco ed esaurito di vecchi stilemi e distinzioni.
Il voto italiano è in pieno in questa congiuntura. E anche lo spostamento di voti dal Pdl alla Lega si comprende bene in questo quadro. Su questo punto il centrosinistra sembra voler giocare la solita carta attendista e speranzosa nella provvidenza che aiuta i migliori: prima o dopo, si romperanno al loro interno. Mi domando: quando avverrà, sulla Turchia magari? Ma che interesse potrebbe avere la Lega a spingere il confronto interno alla coalizione oltre un certo punto, proprio quella Lega che per ottenere il federalismo fiscale ha abbassato i toni del confronto presentando un volto più moderato dei suoi stessi compagni di cordata? Inutile, secondo me, l'attesa. Il Governo durerà per il tempo previsto.
È a sinistra che l'aumento esponenziale del partito di Di Pietro può porre problemi di difficilissima soluzione per la definizione di un progetto alternativo. Come si farà ad avere un progetto comune con il partito dei Di Pietro e dei De Magistris? Con la parola d'ordine: contro il fascismo (o nazismo, come piace) e piduismo della destra? Dopo questo voto, la questione delle alleanze per il centrosinistra si fa drammatica, e conferma quella prognosi che vede una sua rivincita su tempi assai lunghi e problematici.
Ma non voglio concludere questo mio ultimo intervento (in rubrica) su una nota dissolvente. Se la crisi della sinistra chiama l'Europa, e si estende a essa, è anche allargando lo sguardo che si potrà iniziare a ricostruire qualcosa. La politica non è fatta di assoluti, questo lo abbiamo imparato. Rinascerà, per la sinistra, dal relativo, da una nuova capacità di comprensione del mondo. Auguri di buon lavoro.
PS. A proposito: lo avrete già capito. "Il filosofo" cui è intitolata la rubrica è il mio amatissimo gatto.

il Riformista 10.6.09
Cercasi modo nuovo di essere sinistra
Offresi due milioni
di Ritanna Armeni


Tanti sono i voti delle liste della sinistra radicale, le uniche che hanno aumentato il consenso in termini assoluti. Non sono rappresentate in Europa, ma ci sono

Quando si parla della sinistra radicale spesso si usano toni ironici o di sufficienza. E, naturalmente, questi toni si diffondono se le forze suddette, come è avvenuto, perdono, cioè non riescono a raggiungere quel quorum del 4 per cento che la legge elettorale prevede per poter eleggere un membro del Parlamento europeo.
Va da sé che ritengo questo atteggiamento adottato da molti assolutamente sbagliato. E non solo perché intrinsecamente antidemocratico (non ci si cura del fatto che centinaia di migliaia di cittadine e cittadini non sono rappresentati in Europa) ma perché la sufficienza e l'ironia non aiutano, anzi impediscono di capire alcuni spostamenti elettorali e politici non irrilevanti. Non aiutano a capire ad esempio che i due partiti della sinistra radicale sono gli unici ad aver aumentato i loro voti in termini assoluti e consistenti. Circa 800.000 elettori, che alle politiche si erano perduti nell'astensione o erano stati fagocitati da un Pd che puntava all'autosufficienza, sono tornati da dove erano partiti. Un fatto su cui riflettere, mi pare. In casa del Pd, innanzitutto, ma, in generale, fra coloro che sono attenti ai cambiamenti degli umori politici.
Non solo. È utile come si fa per altre forze politiche, pesare questi voti e non solo contarli. Perché, dopo il conteggio anche il peso politico ha la sua importanza. Basta pensare al calo di 2 punti percentuali alle europee del Pdl. Assai poco importante se i voti si contassero solamente, ma di grande significato politico se ha indotto non pochi osservatori a parlare di crepa del potere berlusconiano, di crisi, di crollo del mito della infallibilità del premier.
Ora quei 2 milioni di voti dati a Sinistra e libertà e Rifondazione comunista-Pdci, sono significativi. Come lo sono quelli dati ai Radicali. Perché chi li ha espressi o la maggioranza di essi, era consapevole che il quorum non sarebbe stato raggiunto o che era molto improbabile. Pure ha votato in quel modo, perché voleva segnalare una presenza, un insieme di culture non rappresentate da altri, per alcuni anche un'irriducibilità. Cittadini illusi? Inutili? Ci andrei cauta, e non solo perché mi seccherebbe essere annoverata fra le inutilità del Paese, ma perché questa irriducibilità o inutilità, più o meno nelle proporzioni in cui è presente in Italia, c'è anche in altri Paesi europei, gli stessi in cui abbiamo assistito, proprio nelle ultime elezioni a una crisi verticale e profonda dei partiti socialisti e socialdemocratici.
Fatta questa premessa, non si può sfuggire alla domanda che qualunque persona di buon senso e senza preconcetti si pone: e allora che si fa? Si continua con questa testimonianza, visto che questo è il sistema elettorale che è stato scelto? Si prosegue con questo andirivieni fra il voto utile e il voto di testimonianza o si tenta un percorso nuovo? Anche in questo caso il buon senso suggerirebbe la seconda strada, quella di uno scarto, della mossa del cavallo, dell'audacia.
Essa, a mio parere consiste innanzitutto nella rinuncia alla scorciatoia di cui già alcuni dirigenti di queste formazioni parlano, ovvero a costruire un partito o a insistere nella continuazione della sua esistenza. Non perché non ci sia bisogno a sinistra di un forte radicamento, di legami stretti e di antenne nella società ma perché è evidente che, per limiti storici, culturali e forse personali di questa parte della sinistra, l'obiettivo di un partito significa continuare nelle scissioni, nelle recriminazioni, nella impotenza. E nella sconfitta. Così è stato finora e niente - proprio niente - fa pensare che qualcosa possa cambiare nel futuro. Il fatto che oltre 2 milioni di persone abbiano votato a sinistra, non significa non vedere l'entità della sconfitta e i limiti dei gruppi dirigenti che non hanno saputo evitarla. Se oggi essi esercitassero una generosità che pure possiedono dovrebbero decidere di nuotare nel mare aperto della società e delle forme politiche già esistenti o altre, nuove, da inventare. Nelle ore immediatamente successive alle elezioni si è parlato di un avvicinamento al Pd di un apertura di dialogo, alcuni giornali hanno anche ipotizzato un ingresso di questo o di quel dirigente (di Nichi Vendola in particolare) nel Pd. Non so se sia vero e non mi scandalizzerei né di questo né del suo contrario. Non so neppure se sia vero che una parte del Pd, in particolare Massimo D'Alema, agevolerebbe un processo di questo tipo. Mi pare certo invece che oggi la differenza fra radicalità e riformismo non è più quella del passato, del '900 per intenderci, che anche le riforme possono essere molto radicali e che ciò che sembrava far parte del regno dell'utopia e quindi era compreso solo da un'elité (ad esempio le battaglie ecologiche per la salvezza del pianeta, la consapevolezza del processo di svalorizzazione e di marginalità cui è sottoposto il lavoro, l'insofferenza per il crescere delle disuguaglianze, gli effetti della globalizzazione, il ruolo pubblico nell'economia, la cultura della pace) oggi possa conquistare settori importanti della società ed essere il lievito di una cultura riformista. E credo anche che le proposte politiche, se sono effettivamente tali, esprimono cioè un cambiamento possibile, possano essere vissute e portate avanti anche in contenitori che non sono stati costruiti in prima persona. Senza parlare di ingressi, nuove divisioni, ennesime scissioni, il compito di questa sinistra è quello di costruire forme fluide di confronto, tessere nuovi legami e intrecci anche inediti, come in altre parti d'Europa sta già avvenendo. Senza paure, senza accuse, ma esercitando ogni giorno un modo nuovo di essere di sinistra. Non è impossibile.

Repubblica 10.6.09
L’ex ministro (234mila consensi) ha surclassato il vecchio leader (fermo a quota 80mila)
Nel derby radicale Bonino batte Pannella


ROMA - Si fa presto a dire Pannella. Radicali sempre più trascinati dall´ex ministro, oggi vice presidente del Senato: Emma Bonino ha sfondato.
Sfondato il muro dei 234 mila voti, raccogliendo da sola un terzo del pacchetto di consensi dell´intero partito radicale, comunque insufficiente a strappare un seggio a Strasburgo. Il fatto è che stavolta Emma ha fatto boom anche nel senso che ha surclassato, suo malgrado, Marco Pannella. Il guru di sempre si è fermato a quota 80 mila. Lei, più di tre volte tanto. Alla riunione a porte chiuse di due giorni fa, quando il responso delle urne è stato passato ai raggi x nella sede di Largo Argentina, nessuno si è sognato di far notare la cosa. Massima riconoscenza al leader di sempre, che stavolta ha pure rischiato la vita con un interminabile sciopero fame-sete, trascinandosi in tv in condizioni preoccupanti pur di rivendicare gli spazi dovuti. Però «il risultato dice una sola cosa - fa notare un dirigente - che la linea movimentista forse non paga fino in fondo, i nostri elettori apprezzano molto anche quella più istituzionale». Anche se poi la Bonino ha pure occupato la sede Rai.
Marco, neanche a dirlo, si dice felicissimo per i voti di entrambi (Emma è subito volata in Congo con Nessuno tocchi Caino). Alcuni risultati nel dettaglio però raccontano che nel Nord Ovest la Bonino è a 71 mila voti, Pannella a 17 mila, che nel Nord Est, lei a 48 mila, lui a 11 mila. Nel Centro, Emma 61 mila, Marco 22 mila. «Solo» il doppio a Sud e Isole. «Hanno convissuto bene, continueranno a farlo, diversi ma complementari - taglia corto una pontiera come Rita Bernardini - Lei raccoglie nel ceto medio, lui tra i giovani. Non cambierà nulla».

Repubblica 10.6.09
Il Pd esule in casa
di Ilvo Diamanti


Dalla sicurezza alla legalità con Bossi e Di Pietro vince il modello populista
Dalle urne esce indebolito Berlusconi, non la sua coalizione
Cambia il rapporto tra territorio e politica. Così la sinistra utopica diventa atopica
Il Pdl si conferma un partito network: questa è la sua forza ma anche la sua debolezza

Come avviene puntualmente da 15 anni, anche queste elezioni sono state affrontate come un referendum. L´unico ammissibile, in Italia, oggi. Pro o contro Berlusconi.Il quale, a differenza delle ultime occasioni, questa volta ha perduto. E ha condizionato, in questo modo, la lettura del voto. Tuttavia, dalla consultazione esce sconfitto lui, ma non il centrodestra. Non certo la Lega. Ma lo stesso Pdl, per una volta, se l´è cavata meglio del suo leader. Come hanno confermato le elezioni amministrative. Nell´insieme, questa consultazione conferma un profondo mutamento dei rapporti fra politica, società e territorio, che investe entrambi gli schieramenti. Ne forniscono una raffigurazione plastica ed esemplare la Lega e l´Idv. I vincitori di queste elezioni. Non solo perché hanno guadagnato peso elettorale, in valori assoluti e percentuali, rispetto alle precedenti elezioni politiche ed europee. Ma perché, inoltre, si sono rafforzati rispetto agli alleati. Si tratta di partiti molto diversi, ma con alcuni tratti comuni. Anzitutto, i temi che hanno imposto all´agenda politica, in campagna elettorale.
In primo luogo: la sicurezza. Anche se la interpretano in modo alternativo. La Lega: come reazione alla "paura degli altri e del mondo", all´inquietudine prodotta dal cambiamento. È la "Lega degli uomini spaventati", che organizza le ronde: la comunità locale in divisa per difendersi dagli immigrati e dalla criminalità comune. L´Idv, invece, punta sulla domanda di legalità. Rivendica l´eredità della stagione di Tangentopoli, impersonata da Antonio Di Pietro. Sostiene i magistrati. Esercita un´opposizione intransigente. A Berlusconi. A ogni mediazione sui temi della giustizia. Per questo motivo nel 2006 si oppose - unica, non a caso, con la Lega - all´indulto.
Entrambi i partiti usano, in diverso modo e in diverso grado, uno stile populista: per linguaggio e comunicazione. Esprimono, tuttavia, valori molto diversi. E seguono modelli opposti: dal punto di vista organizzativo e nel rapporto con la società e il territorio. La Lega è un partito "territoriale". Nordista per geografia e identità. Impiantato su una base di volontari e militanti diffusa e persistente. L´Idv è, invece, un "partito senza territorio", orientato su questioni "nazionali". Con un elettorato proiettato, semmai, nel Centro-Sud. Dal punto di vista organizzativo, è ancora largamente fluido e sradicato. D´altronde, ha conosciuto un successo rapido e recente. Fino a oggi, la sua identità si è confusa con quella del leader.
I diversi modelli espressi dai due partiti riflettono uno slittamento del rapporto fra politica e territorio, già segnalato. La sinistra utopica sta diventando atopica. Non solo l´Idv. Anche il Pd vede il proprio terreno sfaldarsi. Erede dei partiti di massa, il Pci e le correnti democristiane di sinistra, fino a ieri non era riuscito a scavalcare i confini delle zone rosse, dove però era saldamente insediato. Oggi, non più. Anche le zone rosse stanno diventando rosa. Segnate, qui e là, da alcune macchie di verde. Il Pd è il partito più forte solo in Emilia Romagna e in Toscana. Nelle Marche e perfino in Umbria è superato dal Pdl. Città e province tradizionalmente di sinistra scricchiolano. A Firenze e Bologna il Pd non è riuscito a imporre il suo candidato al primo turno. Delle 50 province dove governava, fino a pochi giorni fa, fin qui ne ha riconquistate solo 14 e 15 le ha già perdute. Delle 27 città capoluogo che amministrava fino a pochi giorni, il centrosinistra, al primo turno, ne ha mantenute sette mentre sei le ha cedute al centrodestra. Il quale sta piantando radici diffuse e profonde. Non solo la Lega. Nonostante l´insuccesso personale di Berlusconi, anche il Pdl ha dimostrato un buon grado di resistenza elettorale. Soprattutto nel Nord, dove ha sopportato lo scontro con la Lega. Per la prima volta, infatti, i due alleati non si sono cannibalizzati reciprocamente. Ha, inoltre, tenuto anche nelle regioni del Centro mentre ha perduto largamente nel Sud. Soprattutto in Sicilia, sua roccaforte. Dove ha pagato lo scontro con la Lega Sud di Lombardo. Suo alleato, fino a ieri. E forse di nuovo domani. Perché il Pdl, come prima Forza Italia, è un partito network. Aggrega soggetti politici e gruppi di potere radicati. Ciò lo rende forte e al tempo stesso vulnerabile. Esposto alle tensioni tra gli alleati, ai conflitti tra le diverse componenti locali. Il problema vero del centrodestra è che questa molteplicità di radici ha un solo, unico ceppo a cui attaccarsi. Una sola antenna, un solo volto attraverso cui comunicare insieme. Berlusconi. Risorsa. Ma anche limite. Come in questa occasione.
Il centrosinistra però, asserragliato nei suoi confini, oggi deve affrontare la minaccia che viene da Nord. La Lega (centro) Nord in questa elezione si è sviluppata soprattutto nelle regioni rosse. In Emilia Romagna e nelle Marche. Che hanno una struttura sociale ed economica molto simile a quella del Nordest e della provincia del Nord. Territorio di piccole imprese globalizzate, investito da flussi migratori estesi. La Lega Nord è riuscita a entrare nel territorio della sinistra usando il linguaggio della paura e del localismo. Un linguaggio che non ha confini, ma serve a crearli. Fra le province dove è cresciuta maggiormente, rispetto alle politiche, ci sono Reggio Emilia, Modena, Forlì, Prato, Parma, Pesaro-Urbino. Ciò solleva una questione che va oltre il voto europeo e amministrativo. Riguarda il Pd. Angosciato da una sorta di "sindrome della scomparsa", ha accolto il risultato delle europee con sollievo. Quasi come un successo. L´esito del primo turno delle amministrative, tuttavia, ne ha ribadito il disagio. Perché il Pd fatica a riconoscersi nella terra dei suoi padri. D´altra parte, per questo è sorto: per superare i confini della propria identità. Al di là delle regioni di cui si sente prigioniero. Ma ora è disorientato. Insidiato dall´Idv, in ambito nazionale, fra gli elettori di opinione che chiedono "opposizione" e parole chiare. Minacciato nelle proprie roccaforti dalla Lega. Che usa il territorio come arma e come bandiera. Anche il Pd, come molti dei suoi elettori, si sente un po´ esule a casa propria.

l’Unità 10.6.09
Prc, Ferrero rimette il mandato
Vendola ai democrat: troppi nodi aperti
Sl: «Speriamo che il Pd salvi la pelle, ma sotto non si sa cosa ci sia»
di Simone Collini


Lo aveva detto alla vigilia del voto che se la lista Prc-Pdci non avesse raggiunto il 4%, gli organismi dirigenti avrebbero deciso «cosa fare» e che il suo ruolo sarebbe stato «legato a queste decisioni»: «Non faccio il segretario per volere del Signore». Ora che la lista comunista è uscita dalle urne con il 3,4%, Paolo Ferrero non solo è stato di parola, ma ha battuto sul tempo eventuali operazioni insidiose. Il leader di Rifondazione comunista si è presentato alla Direzione del partito con la proposta di «riunificare tutte le forze disponibili a costruire un polo di sinistra autonomo rispetto al Pd», ampiamente annunciata. E poi a sorpresa ha rimesso il suo mandato e quello della segreteria nelle mani del Comitato politico nazionale. Un rischio calcolato. È infatti scontato che il “parlamentino” Prc, convocato sabato e domenica per esaminare il risultato elettorale, riconfermerà la fiducia a Ferrero.
Nuova segreteria per il Prc
Il passaggio - giustificato a via del Policlinico con la volontà di garantire un dibattito il più possibile libero e aperto - permette a Ferrero da un lato di incassare una nuova investitura, dall’altro di nominare una nuova segreteria. Quella attuale è infatti composta di soli esponenti della maggioranza congressuale di Chianciano. Ora Ferrero vuole andare a una gestione unitaria del partito, coinvolgendo anche i bertinottiani che non hanno seguito Vendola nella scissione. Che però giudicano un errore l’abbraccio col Pdci e chiedono con più forza di costruire una federazione di tutte le forze a sinistra del Pd. Ferrero, che oggi incontrerà Oliviero Diliberto per dar vita al coordinamento Prc-Pdci, vuole coinvolgerli nella gestione del partito e «superare la logica delle correnti», che rischia di danneggiare il Prc nella competizione che si è aperta (dopo che nessuno dei due ha staccato l’altro al voto) con Sinistra e libertà.
Dialogo Pd-Vendola
Nichi Vendola non sta a guardare. Per il governatore della Puglia il risultato ottenuto segna «l’inaugurazione del cantiere della nuova sinistra italiana»: «Un soggetto politico neonato, spesso oscurato mediaticamente, con un rodaggio di poche settimane, ha raggiunto quel 3,1% che è un risultato importante, segno di una domanda di sinistra che vive, sia pure dispersa e frustrata, nel nostro Paese». Vendola oggi incontrerà gli altri promotori della lista e chiederà di non chiuderlo, questo cantiere. Grazia Francescato assicura che i Verdi saranno della partita, mentre si aspetta di sapere l’esito della riunione della segreteria del Partito socialista, che sembra tentato dal richiamo di Pannella a rilanciare la Rosa nel pugno.
L’altra incognita è se ci saranno degli sviluppi nel rapporto col Pd, dopo l’appello a lavorare insieme per un nuovo progetto di governo lanciato da Antonello Soro (dopo consultazione con Dario Franceschini). Se il leader di Sd Claudio Fava risponde al capogruppo del Pd alla Camera che è «irrispettoso» parlare di «integrazione come fossimo immigrati», Vendola evita di polemizzare ma chiede al Pd di «entrare prima di tutto nel merito dei problemi, discutere di contenuti perché ci sono troppi nodi non sciolti». Vendola vuole discutere col Pd di quelle che lui giudica «parole d’ordine chiare» per la sinistra: «Laicità dello Stato, scuola pubblica, sicurezza del lavoro e sul lavoro, tutela dell’ambiente, diritti civili, sociali e umani». E poi, dice Vendola in una lettera di risposta a Giovanna Melandri pubblicata su L’Altro di oggi «il Pd ha subìto una dura sconfitta, sarebbe letale se, per la seconda volta dopo le politiche del 2008, tentasse ancora di rimuoverla. È auspicabile che comunque porti a casa la pelle, ma sotto quella pelle nessuno sa ancora cosa ci sia».

Repubblica 10.6.09
La legge del bavaglio
di Giuseppe D’Avanzo


L´agenda delle priorità di Silvio Berlusconi continua ad essere ad personam. Quindi, che la ricreazione continui, con buona pace di Emma Marcegaglia. Sostegno alle imprese e a chi perde il lavoro? Possono attendere. Per la bisogna sono sufficienti, al premier, un paio di bubbole nel tempio di cartapesta di Porta a porta (4 giugno): «Oggi non c´è nessuno che perdendo il lavoro non venga aiutato dallo Stato. C´è la cassa integrazione per i precari, così come per i lavoratori a progetto».
Il Cavaliere diventa meno fantasioso quando si muove nel suo interesse. Teme le intercettazioni (non si sa mai, con quel che combina al telefono) e paventa le cronache come il diavolo l´acqua santa. Si muove con molta concretezza, in questi casi. Prima notizia post-elettorale, dunque: il governo impone la fiducia alla Camera e oggi sarà legge il disegno che diminuisce l´efficacia delle investigazioni, cancella il dovere della cronaca, distrugge il diritto del cittadino di essere informato. Con buona pace (anche qui) della sicurezza dei cittadini di un Paese che forma il 10 per cento del prodotto interno lordo nelle pieghe del crimine, le investigazioni ne usciranno assottigliate, impoverite. L´ascolto telefonico, ambientale, telematico da mezzo di ricerca della prova si trasforma in strumento di completamento e rafforzamento di una prova già acquisita. Un optional, per capirci. Un rosario di adempimenti, motivazioni, decisioni collegiali e nuovi carichi di lavoro diventeranno sabbia in un motore già arrugginito avvicinando la machina iustitiae al limite di saturazione che decreta l´impossibilità di celebrare il processo, un processo (appare sempre di più questo il cinico obiettivo "riformatore" del governo). Ancora. Soffocare in sessanta giorni il limite temporale degli ascolti (un´ulteriore stretta: si era parlato di tre mesi) «vanifica gli sforzi investigativi delle forze dell´ordine e degli uffici di procura», come inutilmente ha avvertito il Consiglio superiore della magistratura,
Sistemata in questo modo l´attività d´indagine, il lavoro non poteva dirsi finito se anche l´informazione, il diritto/dovere di cronaca, non avesse pagato il suo prezzo. Con un tratto di penna la nuova legge estende il regime che oggi regola gli atti giudiziari coperti dal segreto anche agli atti non più coperti dal segreto «fino alla conclusioni delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell´udienza preliminare». Prima di questo limite «sarà vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, della documentazione e degli atti delle conversazioni telefoniche anche se non più coperti dal segreto».
Si potrà dire che si indaga su una clinica privata abitata da medici ossessionati dal denaro che operano i pazienti anche se non è necessario. Non si potrà dire qual è quell´inferno dei vivi e quanti e quali pasticci hanno organizzato accordandosi al telefono. Lo si potrà fare soltanto a udienza preliminare conclusa (forse). Con i tempi attuali della giustizia italiana dopo quattro o sei anni. In alcuni patologici casi, dopo dieci.
Addio al giornalismo come servizio al lettore e all´opinione pubblica. Addio alle cronache che consentono di osservare da vicino come funzionano i poteri, lo Stato, i controlli, le autorità, la società. È vero, in alcuni casi l´ostinazione a raccontare le opacità del potere ha convinto il giornalismo ad andare oltre i confini del codice penale violando il segreto. È il suo mestiere, in fondo, perché la libertà di stampa è nata nell´interesse dei governati e non dei governanti e quindi non c´è nessuna ragione decorosa per non pubblicare documenti che raccontano alla pubblica opinione - ricordate un governatore della Banca d´Italia? - come un´autorità di vigilanza protegge (o non protegge) il risparmio e il mercato.
Naturalmente violare la legge, anche se in nome di un dovere professionale, significa accettarne le conseguenze. È proprio sulle conseguenze di violazioni (finora comunemente accettate) che la legge del governo lascia cadere un maglio sulla libertà di stampa. I cronisti che violeranno la consegna del silenzio saranno sospesi per tre mesi dall´Ordine dei giornalisti (sarà questa la vera punizione) e subiranno una condanna penale da sei mesi a tre anni di carcere (che potrà trasformarsi in sanzione pecuniaria, però). Ma non è questo che conta davvero, mi pare. Che volete che sia una multa, se si è fatto un lavoro decente?
La trovata del governo che cambia radicalmente le regole del gioco è un´altra. È la punizione economica inflitta all´editore che, per ogni «omesso controllo», potrà subire una sanzione pecuniaria (incarognita nell´ultimo testo) da 64.500 a 465mila euro. Come dire che a chi non tiene la bocca cucita su quel che sa - e che i lettori dovrebbero sapere - costerà milioni di euro all´anno la violazione della "consegna del silenzio", cifre ragguardevoli e, in molti casi, insostenibili per un settore che non è in buona salute. L´innovazione legislativa - l´abbiamo già scritto - sposta in modo subdolo e decisivo la linea del conflitto. Era esterna e impegnava alla luce del sole la redazione, l´autorità giudiziaria, i lettori. Diventa interna e vede a confronto, in una stanza chiusa, le redazioni e le proprietà editoriali. La trovata trasferisce il conflitto nel giornale. L´editore ha ora un suo interesse autonomo a far sì che il giornale non pubblichi più quelle cronache. Si portano così le proprietà a intervenire direttamente nei contenuti del lavoro redazionale. Le si sollecita, volente o nolente, a occuparsi della materia informativa vera e propria, sindacando gli atti dei giornalisti. Il governo, nel progetto inviato al Parlamento, pretende addirittura che l´editore debba adottare «misure idonee a favorire lo svolgimento dell´attività giornalistica nel rispetto della legge e a scoprire ed a eliminare tempestivamente situazioni di rischio». È evidente che solo attraverso un controllo continuativo e molto interno dell´attività giornalistica è possibile «scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio». Di fatto, l´editore viene invitato a entrare nel lavoro giornalistico e a esprimere un sindacato a propria tutela.
Ecco dunque i frutti intossicati della legge che oggi sarà approvata, senza alcuna discussione, a Montecitorio: la magistratura avrà meno strumenti per proteggere il Paese dal crimine e gli individui dall´insicurezza quotidiana; si castigano i giornalisti che non tengono il becco chiuso anche se sanno come vanno le cose; si punisce l´editore spingendolo a mettere le mani nella fattura del giornale. E quel che conta di più, voi - cari lettori - non conoscerete più (se non a babbo morto) le storie che spiegano il Paese, i comportamenti degli uomini che lo governano, i dispositivi che decidono delle vostre stesse vite. Sono le nuove regole di una "ricreazione" che non finisce mai.

Repubblica 10.6.09
Il futuro è scritto: si prepara il sorpasso femminile tra i camici bianchi
Il medico sarà sempre più donna
di Cinzia Sasso


Pediatria, genetica e neuropsichiatria infantile le specialità preferite
Più maschi in pensione: tra quindici anni le donne saranno la maggioranza


IL FUTURO della medicina è donna. Dimenticate il dottor Manson, l´eroe della Cittadella di Cronin che ha fatto piangere intere generazioni; e anche il dottor Kildare, quello della serie americana degli anni ‘60. Piuttosto pensate a E. R., ma immaginatelo in grande.

Via i protagonisti maschili: tra dieci anni in camice bianco - annuncia uno studio del British Medical Journal che il Times di Londra rilancia - ci saranno in maggioranza dottoresse. E non succederà solo in Gran Bretagna: «Anche qui - dice Amedeo Bianco, il presidente della Fnmoceo, la Federazione del medici - la professione cambierà sesso». Ci vorrà qualche anno di più, ma tra quindici anni anche il Servizio sanitario nazionale italiano, così come il National Health Service britannico, diventerà un feudo al femminile. Entro il 2024 almeno 183 mila professionisti andranno in pensione e saranno rimpiazzati da nuove leve: «Stando al trend delle iscrizioni alla facoltà di Medicina - aggiunge Bianco - il destino è segnato: la gran parte saranno donne».
Il sorpasso, del resto, è già nei numeri: tra i laureati del 2007, le laureate in medicina sono state il 65,2 per cento; la media nazionale delle matricole nel 2007-2008 vede un 63 per cento di ragazze; addirittura in certe facoltà - ad esempio a quella della Statale di Milano - le studentesse raggiungono il 73 per cento. Ma sfogliando i dati del ministero dell´Università, non c´è praticamente sede dove le ragazze non siano maggioranza: da Ancona (367 contro 135) a Bari (482 contro 331); da Bologna (463 e 236) a Brescia (516 e 240); ma anche a Cagliari (115 e 50), Catania (89 e 60) e Napoli (277 contro 157). Il quadro si modifica quando i neo dottori scelgono la specialità: e allora ecco che le donne raggiungono il 58,6 per cento a neuropsichiatria infantile, il 48 a pediatria, il 48,7 a genetica e solo un 4,5 a cardiochirurgia.
Ornella Cappelli, presidente dell´Associazione nazionale donne medico, la vede così: «Credo che le donne siano oggi le più numerose perché la medicina non paga più. Fare il dottore non è più una professione di prestigio e allora gli uomini si danno ad altro». Secondo la dottoressa Cappelli, che è uno dei pochi dirigenti donna del settore sanità, la femminilizzazione spinta della professione nasconde alcune insidie: «Se i medici donne saranno il 70 per cento, non va bene perché mancheranno i chirurghi. Da noi, a Parma, c´è stata solo quest´anno la prima iscritta alla specialità di cardiochirurgia». Può essere allora che il futuro sia quello di dover importare chirurghi dall´estero, come da tempo accade in Uk. Il più grande amore londinese di Lady Diana, ad esempio, era proprio un chirurgo indiano.
I problemi di conciliazione tra i ruoli familiari e quello professionale sono evidenti: secondo Maurizio Benato, vice della Fnomceo, «un terzo delle donne medico sono single o separate», percentuale quasi tripla rispetto ai medici: «Il fatto è - dice - che la professione medica non lascia spazio alla vita privata, è totalizzante, non certo a misura di donna». Non solo ricerche, anche esperienze: Laura Spreafico ha cominciato a fare il chirurgo al Niguarda: «Dopo un po´ - racconta - il mio primario mi ha detto: sei una donna, dove vuoi andare? E così, siccome ho messo al mondo tre figli, ho cambiato: addio all´ospedale, faccio il chirurgo estetico nel mio studio privato».

Repubblica 10.6.09
Gaspar Miklos Tamàs, padre del dissenso e voce critica dell’Ungheria: "Vivo sotto minaccia"
"Sta nascendo qui a Budapest il nuovo fascismo europeo"
di Andrea Tarquini


Gli ultrà urlano "Heil Hitler" sotto casa mia, le tranquille signore borghesi riconoscendomi dicono che vorrebbero tanto vedermi impiccato

BUDAPEST - «Sì, la democrazia è in pericolo. In tutta Europa o quasi, ma l´Ungheria è un caso estremo». Ecco il monito di Gaspar Miklos Tamàs, padre del dissenso sotto il comunismo, filosofo e docente, forse la massima voce critica del paese. Perseguitato dal vecchio regime, oggi subisce minacce quasi quotidiane. «Una volta un gruppo di ultrà mi ha salutato sotto casa gridando "Heil Hitler", ma è normale che signore cinquantenni, tranquille borghesi cattoliche, o eleganti giovani yuppies, riconoscendomi mi dicano che dovrei essere impiccato. A ogni intervista a media stranieri mi accusano di calunniare la patria».
Professor Tamàs, lei parla dunque di gravi pericoli?
«Sì. Quando vediamo democrazie con grandi tradizioni come Francia o Regno Unito prigioniere di paranoie xenofobe, o la sinistra italiana che sembra sparire, cosa ci possiamo aspettare dall´Ungheria che ha vissuto quasi sempre sotto dittature o autoritarismo?».
Qual è la radice della crisi ungherese?
«La prima vera democrazia qui fu creata solo nel 1989 e coincise col collasso economico. Il primo risultato percepito dalla gente fu la perdita di 2 milioni di posti di lavoro. Nel nordest fame e miseria sono da terzo mondo. La catastrofe economica coesiste con una mentalità tipica dell´est: la gente vuole che lo Stato diriga, provveda, dia sicurezza. Ci sentiamo traditi dal mondo nuovo, e lo siamo. Anch´io ho rinnegato me stesso: sono stato liberale per una vita, ora sono marxista. Vorrei più libertà e giustizia. I miei compatrioti hanno altri desideri».
Quali?
«Il sistema democratico non ha riconoscimento né legittimazione, neanche i più onesti leader dei partiti democratici vi credono. Povertà, crimine, sono problemi reali. La gente allora prende in mano la legge: ecco la Guardia magiara, un secondo Stato. Ecco i sindaci delle regioni povere che si arrogano il diritto di negare il sussidio ai rom o ai poveri disoccupati».
Vede un futuro di fascismo?
«Il futuro ne avrà una dose un po´ più forte del presente. La destra estrema è giovane. Jobbik è nato come organizzazione studentesca. Quasi un ‘68 a rovescio: la paura del declassamento sociale, la competizione con i più poveri per i magri aiuti statali, spingono i giovani a rivolte ed estremismo. Non capiscono che l´oppressione per alcuni diventa poi l´oppressione di tutti».
Torna il fascismo del passato?
«È un fascismo diverso. Non hanno bisogno di militarismo, di sogni di guerra o idee totalitarie. È un fascismo difensivo, non offensivo, quindi più attraente. Non passeggero, può radicarsi. Non gli serve un partito unico, esprime il panico della middle class, introduce una lotta di classe dall´alto contro i più deboli. Simile agli anni Venti è l´odio verso la libertà. E per i perdenti. È un problema acuto in tutto l´Est: qui il capitalismo democratico, per cui lottai per decenni, ha fallito. Le maggioranze a Est ritengono che prima dell´89 si stesse meglio. Tutti sapevano di non essere liberi. Ma il sistema garantiva stabilità, società proletarie, plebee, ma quasi senza crimine, egalitarie nella cultura e non solo nell´economia. E non avevano come valore costitutivo il disprezzo per i deboli».

Corriere della Sera 10.6.09
L’etnia non conta, quando fa comodo
di Gian Antonio Stella


Cè anche Mario Balotelli tra gli africani che girano per la stazione Centrale e piaz­za Duomo e fanno sembrare Milano a Sil­vio Berlusconi «una città africana»? Sa­rebbe divertente saperlo. Nato a Palermo da una coppia di immigrati ghanesi ma adottato e cresciu­to da una famiglia bresciana, «Supemario» ha sempre vis­suto in Italia, è di lingua madre italiana, non sa una parola della lingua che parlavano i signori Barwuah che lo hanno messo al mondo, parla con un accento bresciano e sarebbe stato titolare in tutte le nazionali giovanili italiane se non fosse diventato italiano, dopo un tormentone burocratico, solo il 12 agosto 2008, al compimento dei 18 anni.
Nell’Egitto meridionale, verso il Sudan, hanno trovato un cippo di confine risalente al XIX secolo a.C.: «Frontiera sud. Questo confine è stato posto nell’anno VIII del Regno di Se­sostris III, Re dell’Alto e Basso Egitto, che vive da sempre e per l’eternità. L’attraversamento di questa frontiera via ter­ra o via fiume, in barca o con mandrie, è proibita a qualsia­si negro, con la sola eccezione di coloro che desiderano ol­trepassarla per vendere o acquistare in qualche magazzi­no ». Insomma: il negro stia alla larga, ma se viene per bu­sinness, si accomodi pure... Un concetto ripreso quattro millenni dopo da quel geniale istrione di Ruud Gullit, uno dei tantissimi «negri» (da Frank Rijkaard a Edgar Davids, da Ronaldinho a Ronaldo, da Cafu a Serginho, da Dida a Cla­rence Seedorf...) importati a Milano dal Cavaliere che sul calcio è di larghissime vedute multietniche.
Disse appunto, un giorno, il grande Gullit: «Se sei miliarda­rio e giochi nel Milan sei an­che un po’ meno negro». Sempre lì si torna: chi è lo «stra­niero »? Viene in mente l’infame battuta di Karl Lueger, lea­der del partito cristiano sociale e borgomastro di Vienna a cavallo tra ’800 e ’900, che arrivò a conquistare il 70% dei voti dei concittadini (prova provata che la democrazia non è automaticamente garanzia di civismo) con una grande ef­ficienza gestionale unita a una volgare demagogia antisemi­ta. Ammiratissimo da Adolf Hitler, Lueger diceva ridendo: «Sono io a decidere chi è ebreo e chi no». Tu mi servi? Nes­suna obiezione razziale. Non mi servi? Stai alla larga, giu­deo.
Anche i peggiori razzisti dei Paesi che accolsero gli immi­grati italiani si regolavano così con noi. Basti rivedere le vi­gnette pubblicate sul libro «Wop» di Salvatore J. LaGumi­na, dove i nostri nonni venivano visti come scimmioni ne­groidi. O rileggere il libro edito dal Saggiatore con gli studi statunitensi sul razzismo anti-italiano dal titolo: «Gli italia­ni sono bianchi?». O ricordare che uno dei soprannomi da­ti per decenni agli italiani in America, soprattutto negli Sta­ti razzisti del Sud, fu «Guinea». E sapete con quale sopran­nome fu a lungo marchiato il quartiere degli italiani a Lon­dra? «Abissinia».


l’Unità Lettere 10.6.09
Le tracce del genoma
Le agenzie di stampa battono l’ennesima esternazione anti-scientifica del Papa e alcuni giornali la riprendono: «Ogni uomo ha nel suo genoma la traccia di Dio-amore e della Trinità». Viene da ribattere, con una certezza altrettanto indimostrabile, che nel Dna dell’essere umano siano individuabili consistenti tracce di libertà! Sono quelle che lo fanno vivere oltre la sopravvivenza, pensare con la sua testa, amare con la sua mente-corpo e “sentire” ciò che è sano e ciò che è malato in se stesso e negli altri esseri umani. Con il proprio genoma e con il proprio cervello, senza subire il lavaggio costante e annichilente da parte di chi lo vede malato e peccatore dai tempi dei tempi.
Paolo Izzo
l’Unità Lettere 10.6.09
L’equazione Martina
Per cercare di capire come stanno veramente le cose da una decina d'anni mi regolo in questo modo: di tutto ciò che sento dire dall'attuale premier o dai suoi portavoce penso che sia vero l’esatto contrario. A tale teoria mancava un riscontro oggettivo che ora però è in mio possesso. Il 9 maggio ai giornalisti il premier dichiarava di avere dalla sua oltre il 75% degli italiani. Finora, su 59.619.290 italiani, lo hanno votato 10.802.713, cioé il 18% il cui contrario fa 82 che è oltre il 75. Mi accingo quindi a esprimere la seguente equazione che chiamerò “equazione di Martina sull’attuale realtà dei fatti”: R=-dB, ove R è appunto la “realtà dei fatti” che è uguale all’opposto delle “dichiarazioni del premier” (dB).
Roberto Martina

martedì 9 giugno 2009

l’Unità 9.6.09
Effetto Noemi, Silvio perde due milioni di elettori
130mila preferenze in meno, il premier sotto i 4 milioni che aveva pronosticato
E ora il Pdl accusa: «Non ha fatto campagna elettorale». Salteranno i coordinatori regionali
di Natalia Lombardo


Meno 130mila preferenze nella roccaforte del Nord. In totale hanno scritto Silvio sulla scheda 2 milioni 706mila 791 elettori, ma l’obiettivo era superare i 3 milioni. Dall’effetto Noemi al partito che non c’è.

Quel «boomerang» formato Noemi che sperava tornasse sul Pd, è invece ricaduto addosso a Berlusconi, che ha anche perso circa 130mila preferenze nella roccaforte del Nord. In totale hanno scritto Silvio sulla scheda 2.706.791 elettori, ma l’obiettivo era superare i 3 e andare verso i 4 milioni, «basato sul 40% previsto dai sondaggi», spiega il pidiellino Lupi. Ma il boomerang made in Casoria (definito nel Pdl «fattore esogeno») ha rivelato una crepa nel partitoche ancora non c’è: a livello territoriale salterà qualche testa di coordinatore regionale. In Sicilia, penalizzata da Lombardo e dalle risse in tv tra Micchiché, Alfano e il coordinatore Castiglione; in Sardegna dove «Cappellacci sorretto da Berlusconi senza dire una parola ha vinto», spiega un deputato sardo, «e ora che il premier non è venuto ha vinto la sinistra».
Berlusconi affronterà la pratica coordinatori, scegliendo le persone giuste al di là del bilancino 70-30 tra Fi e An. Pratica rimandata a dopo le europee. A seguire anche il «triumvirato» Verdini, La Russa e del fantasmatico Bondi sarà rivisto (e Scajola aspetta sul fiume...). C’è poi la competizione con la Lega, che ha aumentato il suo potere di ricatto sul governo. Gli uomini dell’ex An sono infastiditi dall’assiste elettorale dato da Berlusconi a Bossi, confermato ieri sera ad Arcore anche con Maroni e Calderoli. E la Gelmini
A parte un giretto all’Università «liberale» di Lesmo, Berlusconi è rimasto a Arcore in contatto con i suoi. Formalmente «sereno», certo non contento e deluso dallo smacco sulle preferenze, si consola con la crescita di 4 eurodeputati (da 25 a 29) il «raddoppio sul Pd». La rivincita è sulle amministrative, infatti soltanto oggi, dopo aver messo le bandierine sulle caselle delle regioni «rosse» espugnate (Umbria e Marche, Pdl primo partito), parlerà.
Il partito che non c’è
Sono in molti, già dalla notte della delusione elettorale, a dire che «Berlusconi non ha fatto campagna elettorale» e questo è dato, nel Pdl stesso, come uno dei fattori che ha provocato l’astensionismo. L’unico, tra i parlamentari vicini al premier ad averlo previsto è Piero Testoni.
È proprio questa una delle crepe rivelate dal boomerang: se il Capo non scende in campo in prima persona, il partito non lo segue. Perché non c’è. Un parlamentare dell’area degli ex An constata la «fragilità del partito soprattutto in periferia», dove uno scollamento tra il radicamento territoriale di An che si vede penalizzata e i dirigenti dell’ex Forza Italia che vivono sugli allori della berlusconimania. Domenica notte Silvio si sarebbe lamentato di essere il solo a «tirare la carretta». Ma stavolta la carretta l’ha tirata soprattutto per sé, cercando di virare a suo favore il ventaccio dello scandalo uscito dal vaso di Pandora (da Noemi ai festini a Villa Certosa ai voli di Stato). Quella che un autorevole esponente del Pdl chiama «il peccato di presunzione», andare gli ultimi tre giorni solo in tre piazze dove si votava per le amministrative: Bari, Firenze e Milano. Oppure «volersi porre come l’uomo di Stato che si occupa di G8 e di Abruzzo non ha funzionato. se fosse andato anche al Sud la gente si sarebbe sentita motivata a votare», e pergiunta in Sicilia l’Europa è lontana. E molti ammettono di aver dormito sugli allori di governo.
È più o meno ciò che ha detto La Russa a caldo. Lui sì che «è sceso in campo», il ministro della Difesa ha girato l’Italia in lungo in largo (con l’areo di Stato facendo coincidere comizi con celebrazioni e parate). E ieri lo si vedeva plasticamente comandare i «colonnelli» (in percentuale maggiore ex An) a Via de l’Umiltà. Raggiante ringrazia per essere il «secondo dopo Berlusconi» per preferenze (223.428); fa capire che il calo è colpa dell’effetto «endogeno» Noemi, quel «processo gossipparo e giudiziario» al quale ha retto Berlusconi. E lancia un avviso alla Lega: «D’ora in poi patti chiari e amicizia lunga, se si decide di fare campagna elettorale insieme, non è che ci si vanta per sé dei meriti del governo. Sennò, ognuno per sé, anche se non lo auspico». Insomma, La Russa manda un segnale a Berlusconi: ti sei illuso. io no. E il suo pizzetto melistofelico che si sarebbe tagliato se si fosse raggiunto il 40 per cento, è salvo.

Repubblica 9.6.09
La crepa
di Ezio Mauro


L´onda lunga di destra che spazza il Paese si è arrestata domenica sera, quando si sono aperte le urne del voto europeo. Un appuntamento che arriva appena un anno dopo il trionfo berlusconiano alle politiche, con una maggioranza schiacciante, e al culmine di un ciclo in cui il sistema di potere dominante ha sprigionato la sua massima potenza. In un giorno, quella macchina da guerra si è arrestata, nel momento esatto in cui il leader chiedeva e profetizzava il potere assoluto, con il 45 per cento dei voti per sé e l´alleanza con la Lega oltre il 50. Questa era la soglia politicamente sacra, la seconda presa del potere in un anno, la misura che trasforma il consenso in adesione, il governo in comando e il comando in dominio.
Tutto questo non è avvenuto. Ecco perché il Cavaliere tace da due giorni, nonostante nello spoglio delle amministrative, ieri, l´onda si stia richiudendo, con la destra che porta via pezzi interi di Nord trainata dal boom della Lega, conquista Napoli, si incunea nelle regioni rosse, con un Pd in calo ovunque e fortemente indebolito. Delle 51 province che aveva conquistato nel 2004 (solo 8 erano andate al centrodestra) il Pd ne tiene al primo turno appena 15, la destra ne conquista 25, altre 19 vanno al ballottaggio.
La destra italiana rimane dunque fortissima, pesantemente insediata nel territorio, rivitalizzata - e non solo al Nord - dall´energia elettorale e politica del partito di Bossi. Ma se il Pd nella grande sfida delle europee perde 4 milioni di voti, che sono tantissimi, il Pdl ne perde quasi tre milioni (2,8), e inaspettatamente. Si può dunque vincere, come Berlusconi ha fatto, e nello stesso tempo vedere con preoccupazione la grande crepa che si è aperta all´improvviso nel gigantesco monumento equestre che il Cavaliere stava erigendo a se stesso, simbolo perenne dell´alleanza tra il Capo e il suo popolo.
Bisogna partire da qui, dalla sorpresa psico-politica di un Paese che non si consegna mani e piedi al suo incantatore, convinto di averlo sedotto dopo la conquista. Certo, il premier può consolarsi con la netta sconfitta del Pd che cala precipitosamente di 7 punti. Ma proprio da questo dato nasce una domanda che non si può eludere: di fronte al calo fortemente annunciato del Pd e mentre le sinistre battono in ritirata in tutta Europa, come mai in Italia la destra non se ne avvantaggia, ma anzi perde due milioni di voti, per di più senza che sia suonato un allarme, come un vuoto che si allarga all´improvviso in un meccanismo di consenso che si pensava garantito?
Oltre la soglia dei numeri, che parlano chiaro, c´è in politica una soglia simbolica che parla all´immaginario dei cittadini. Nei due principali partiti l´ultimo anno aveva fissato destini rovesciati. Per il Pd si profetizzava la polverizzazione, lo schianto, la sicura scissione (annunciata pubblicamente proprio dal Cavaliere), dunque la fine dell´avventura cominciata meno di due anni fa con Veltroni. Per il Pdl, al contrario, si annunciava lo sfondamento, con una crescita capace di portare la destra oltre la maggioranza assoluta, in modo da poter cambiare la Costituzione da sola, senza più impacci e condizionamenti. «Il Pdl è al 46 per cento», aveva garantito il premier il 6 maggio. «Siamo sopra il 40 per cento e quindi siamo il partito più forte del Ppe», aveva aggiunto il 16 maggio. «Alle europee l´obiettivo è molto più del 40 per cento e i sondaggi ci danno al 45» aveva spiegato il 23 maggio. «Gli ultimi sondaggi parlano di un Pdl al 43-45 e io sono certo che sarà così», aveva concluso il 30 maggio.
Non è andata così, e il Pdl ruzzola dieci punti più in basso della profezia, perdendo il 2,1 per cento rispetto alle politiche. Soprattutto, si infrange il mito dell´invulnerabilità del Capo, condannato a vincere sempre, dopo la riconquista che lo ha riconsacrato premier nel 2008. La vulnerabilità del Cavaliere era già emersa chiaramente con il volto della paura nell´ultimo mese, sotto l´urto dello scandalo nato dal "ciarpame politico", cioè dalle veline candidate per amicizia e non per merito politico, secondo una denuncia che ha fatto il giro del mondo. Questo scandalo ha portato alla luce altri casi collegati e controversi, da Noemi ai voli di Stato, alle feste in Sardegna, alle fotografie bloccate dalla magistratura. Tutto ciò è diventato un vero e proprio affare internazionale, commentato e giudicato (negativamente) dalla stampa europea e americana, tanto che persino i giornali italiani se ne sono dovuti occupare di rimbalzo. Le contraddizioni del Cavaliere nei suoi affannosi racconti, le diverse versioni messe in campo l´una dopo l´altra, le bugie accumulate inspiegabilmente e mai spiegate, gli insulti a Repubblica e ai giornali stranieri hanno semplicemente minato la credibilità del premier agli occhi dei cittadini, e anche dei suoi elettori.
La crepa si è aperta qui, nel rapporto di fiducia tra un leader e la sua gente, tra un Capo del governo e il Paese, e ha prodotto quella reazione di disincanto molto prima del previsto: con buona pace dei maestrini che per conformismo invitavano a parlare di ben altri problemi (pur di non parlare di questo), come se la menzogna del potere non fosse il problema principale nel rapporto tra la politica e la pubblica opinione, come l´America insegna. Ciò che troppi non hanno voluto capire, e le televisioni hanno attentamente occultato, lo hanno però capito i cittadini: e lo aveva probabilmente ben compreso il Cavaliere, se rivediamo gli ultimi frenetici giorni della campagna elettorale, dove Casoria sembrava aver sostituito Arcore nella geografia simbolica del berlusconismo.
Tutto ciò è costato consenso, in termini politici e addirittura personali. Nel calcolo delle preferenze, il Cavaliere pigliatutto che aveva sfiorato i tre milioni di voti sul suo nome nel 1994 e nel 1999, e aveva promesso di superare questa volta la soglia, si è fermato a quota 2 milioni e settecentomila. Mancano almeno 250 mila preferenze, e in una democrazia carismatica e populista non è un dato da poco.
La crepa dunque è aperta: ma non avvantaggia il Pd. I democratici sono giunti all´appuntamento con il voto logorati da un anno avventuroso, da risultati sempre critici, dal cambio traumatico non solo di un leader, ma del primo segretario, il fondatore. Le due anime assistono guardinghe ad ogni mossa di Franceschini, lo tengono in equilibrio precario, invece di fondersi si misurano a vicenda quotidianamente. Invece di sommarsi si depotenziano nei veti reciproci. Invece di fondare un nuovo riformismo guardano alle vecchie eredità, che non abbandonano per paura e per calcolo cinico. Piuttosto di lasciare spazio ai giovani (Debora Serracchiani, che ha scalato il partito da sola, ha superato nelle preferenze il capolista arrivato da Roma nel Nordest e persino Berlusconi) si stringono nella vecchia foto di famiglia dell´apparato, sempre uguale a se stessa. Così il partito soffoca appena nato e non decolla, mentre dovrebbe essere liberato per prendere il largo, affidato a forze nuove, con i vecchi capi che garantiscono un deposito di esperienza e di tradizione.
E tuttavia, non si può far finta di non sapere che la vera partita del Pd era il "Primum vivere". Per il rotto della cuffia, dopo un anno disastroso, i democratici hanno salvato la pelle, chi pensava a scissioni deve rimandare il progetto a qualche occasione più conveniente, e lo strumento partito c´è. Malandato, arrugginito, ma in qualche modo c´è. È addirittura a disposizione di chi ci crede, di chi ha voglia di reinterpretarlo inventandolo, rendendolo partecipato, contendibile, aperto, e insieme presente nel Paese, insediato, consapevole della sua identità di sinistra, moderna, europea e occidentale: però sinistra, dunque chiaramente e fortemente alternativa alla destra realizzata che Berlusconi mette in campo ogni giorno.
Un partito di questo tipo può mettere in movimento l´intera area di opposizione. Aiutare la sinistra radicale a dare un valore ai voti ancora una volta dispersi, radunandoli dentro un contenitore politico con una leadership capace di parlare ad una fetta di sinistra; ingaggiare con Di Pietro, dopo la sua clamorosa ascesa, una sfida di responsabilità di fronte ai problemi del Paese, perché l´antiberlusconismo è anche questo; chiedere a Casini, dopo il buon risultato della sua corsa autonoma, di scegliersi un destino politico e culturale riconoscibile e riconosciuto. Solo in questo modo le opposizioni possono diventare un´alternativa. La crepa dimostra che si può contendere l´Italia a Berlusconi, senza lasciargli tregua sulla sua credibilità in crisi, incalzandolo con ciò che gli manca: una politica per il Paese. Un Paese in cui si sta rompendo il lungo incantesimo del Cavaliere.

Corriere della Sera 9.6.09
Il voto locale offre la vera dimensione dei rapporti di forza
di Massimo Franco


La battuta d’arresto del Pdl ridimensionata dal calo vistoso del centrosinistra al massimo, rifaranno i conti al proprio interno.

Peruna manciata di ore, la battuta d’arresto del Pdl ha velato la sconfitta del centrosinistra alle europee. Le attese di un’affermazione clamorosa del governo, alimentate da Silvio Berlusconi, hanno permes­so al partito di Dario Franceschini di additare lo scarto fra quelle ambizioni e la realtà. La soglia psicologica del 40 per cento dei voti, mancata ampiamente dal presidente del Con­siglio, ha nascosto quella che sotto voce il Pd si era ripropo­sto di raggiungere: fra il 27 ed il 28, comunque ben sotto il 33,2 del 2008. Non solo: il panorama di macerie offerto da gran parte della sinistra europea ha contribuito al sollievo del Pd, deciso ad accreditarsi come uno dei grandi superstiti del 6 e 7 giugno. E da questo punto di vista lo è.
Ma il calo dei suoi consensi, non compensato del tutto dal successo dell’Idv di Antonio Di Pietro, sta emergendo nelle sue dimensioni reali. A renderlo vistoso è la geografia politi­ca che lentamente affiora dalle amministrative celebrate in­sieme alle europee: un quadro a dir poco in chiaroscuro, tale da ridimensionare gli entusiasmi sulla tenuta del progetto del Pd. I primi risultati trasmet­tono l’immagine di una ragnate­la di interessi e nomenklature locali, nella quale non esistono più rendite di posizione: per il fronte berlusconiano, ma so­prattutto per i suoi avversari che detenevano da decenni il potere in alcune zone del Paese. Oltre tutto, il centrosinistra partiva da posizioni di forza, che dopo cinque anni appaiono intaccate; ed accentuano la sen­sazione di uno smottamento progressivo nelle giunte. Alcuni dei feudi governati storica­mente dall’Unione prodiana mostrano smagliature. Il richia­mo di quello che la Lega ha definito «laburismo padano» spiega come mai il centrodestra si infiltri in Emilia Romagna e Toscana, conquistando consensi in classi sociali finora mo­nopolio della sinistra. In realtà come l’Umbria, regione di «giunte rosse», il Pdl fa registrare un successo imprevisto. E i dati diffusi ieri dall’«Istituto Carlo Cattaneo» di Bologna of­frono uno spaccato impietoso dei nuovi rapporti di forza.
Dicono che alle europee il Pd ha perso oltre 2,1 milioni di voti rispetto al 2004 (-21 per cento), e 4,1 milioni nel con­fronto con le politiche dell’anno scorso. Il partito di France­schini risponde ricordando che non contano solo i numeri, ma la tentazione berlusconiana di trasformare la consultazio­ne in un referendum su di sé: un’operazione risoltasi in «una musata», secondo l’espressione colorita di Piero Fassi­no. Si aggiunge che lo stesso Pdl perde circa 3 milioni di voti sulle politiche; e si fa presente che nel 2008 c’erano in lista col Pd anche alcuni esponenti radicali. Ma lo scambio di ac­cuse fra i due maggiori partiti tende ad interpretare con lenti bipolari una situazione dalla quale il bipolarismo esce un po’ indebolito.
La vittoria parallela della Lega e dell’Idv rende il problema delle alleanze particolarmente acuto. Bossi è fondamentale per la strategia berlusconiana: tanto più in vista delle regio­nali del prossimo anno. Il fatto che il ministro Roberto Calde­roli dica che i voti leghisti «si pesano e non si contano» anti­cipa la trattativa per la presidenza di alcune regioni del nord: sebbene riveli l’ammissione del mancato sorpasso sul Pdl in Veneto. Per il Pd, in parallelo, non solo rimane cruciale l’inte­sa con Di Pietro. Si ripropone anche il rompicapo di un colle­gamento con l’estrema sinistra. Per tutti, rimane l’incognita del ruolo dell’Udc centrista di Pier Ferdinando Casini, per ora paga di avere aumentato i voti su una linea difficile. Ep­pure, i due schieramenti non sembrano sul punto di romper­si.

Corriere della Sera 9.6.09
Il dormiveglia dopo il sollievo per una sconfitta a metà
Quello che il Pd non vuole vedere
di Paolo Franchi


Può darsi che, di fronte ai ro­vesci elettorali dei socialisti in Europa, molti dirigenti del Pd (a cominciare ovviamente da quelli che del Pse non hanno mai voluto far parte e tanto meno lo vogliono oggi) abbiano tirato un sospiro di sollievo. Pensando che il netto calo del Pd è in fondo poca cosa rispetto ai tracolli del New Labour, della Spd, del Ps francese. E magari sorridendo all’idea che, se entrasse a far parte del gruppo parlamentare socialista europeo, magari altrimenti denominato, il Pd ne sarebbe, paradosso dei paradossi, la componente nazionale più forte.
Può darsi. Ma, se così fosse, farebbero bene a uscire il prima possibile da questo stato di dormiveglia politico e intellettuale. È vero, il Pd può legittimamente compiacersi di avere allontanato da sé i peggiori incubi della vigilia, e insomma di aver evitato il rischio drammatico di finire letteralmente schiantato.
Ma i motivi di soddisfazione iniziano e finiscono qui. Il Pd non è, e nemmeno intende essere, né socialista né socialdemocratico, e non solo per l’opposizione, strenua quanto comprensibile, di alcune sue componenti, in primo luogo quelle di provenienza democristiana, a risolversi a un simile passo. Eppure la sua sconfitta (perché perdere in un anno sette punti in percentuale, da che mondo è mondo, è una sconfitta, spiegabilissima, certo, ma non per questo meno pesante) è ugualmente una variante nazionale del disastro della sinistra riformista europea. Un po’ tutti i principali leader socialisti e socialdemocratici riconoscono che, all’origine della disfatta, c’è prima di tutto la vistosa incapacità di prospettare risposte di qualche respiro e di qualche efficacia a una crisi che minaccia in primo luogo il presente e il futuro dei lavoratori, dei ceti medi, dei giovani, e insomma di quella parte grande della società che a lungo la socialdemocrazia, dal governo e persino dall’opposizione, a lungo ha cercato, e con successo, di rappresentare e di tutelare, e che adesso, spaventati, le volgono le spalle e scelgono la destra, spesso preferendo quella razzista e xenofoba a quella moderata. Vero.
Ma, se è questo il peccato, non si capisce esattamente come potrebbe mai fare, il Pd, a reputarsene indenne; di che cosa dovrebbe occuparsi, nel prossimo futuro, se non di dannarsi l’anima per mettere a fuoco idee, proposte, programmi, e insomma una cultura politica rinnovata che lo guarisca, sempre che sia possibile, da una simile, prolungata afasia; e con chi potrebbe farlo se non, in primo luogo, con quelle forze della sinistra riformatrice vecchia e nuova che in Europa soffrono del medesimo male. Non c’è dubbio: il socialismo europeo è ai suoi minimi storici. Ma forse sarebbe anche il caso di ricordare quante volte, nella sua lunga storia, è stato dato per morto; e quante volte ha trovato una via originale per risorgere. C’è poi, naturalmente, un aspetto tutto italiano della questione. Il Pd tira il fiato non solo perché, in un modo o nell’altro, l’ha scampata, ma pure perché Silvio Berlusconi, invece di trionfare, segna il passo. Bene. Ma il suo 33% delle elezioni politiche si è ridotto, in una prova in cui era impossibile fare appello al voto utile, al 26: Antonio Di Pietro ha incassato quello che si proponeva di incassare, la sinistra-sinistra, anche se né i neocomunisti né Sinistra e Libertà ce l’hanno fatta a superare il muro del 4%, ha dimostrato di esserci ancora, Marco Pannella ed Emma Bonino se ne sono andati per la loro strada, il discreto successo dell’Udc testimonia che, al centro, non si passa, i successi della Lega in Emilia, e non solo in Emilia, ci parlano di un blocco sociale, politico e anche culturale che scricchiola, o peggio. Se le cose stanno così, è davvero difficile immaginare che, vinta la battaglia per la sopravvivenza, il Pd possa pensare di espandersi fino a diventare da solo, domani o dopodomani, un partito, almeno in potenza, di maggioranza, come sognavano, e forse sognano ancora, i sacerdoti del bipartitismo che, al suo interno, fanno affidamento sul referendum: si ripropone, ineludibile e difficilissimo, quel problema delle alleanze che, dopo il triste fallimento dell’Unione, si era pensato, sulla scorta di un’indebita euforia, di poter archiviare. Tutte queste, dicono, sono questioni che affronterà il congresso. Giusto. Ma forse sarebbe il caso di cominciare a parlarne subito. Sempre che non sia già tardi.

il Riformista 9.6.09
Il Pd regge ma è appeso ai ballottaggi per non diventare la Lega dell'Appennino


AMMINISTRATIVE. Il partito di Franceschini evita di essere spazzato via, ma se non vince qualcosa al secondo turno si scoprirà rintanato nelle roccheforti del Centro. E nelle Marche è smottamento.

Si partiva da un cappotto targato Pd che guidava gran parte delle province andate al voto. Difficile dire dove si arriverà alla fine ma, nonostante la provvisorietà di molti dati, sembra comunque si possa già dire che non ci sarà un altro cappotto, questa volta targato Pdl. Il Pd, infatti, non viene spazzato via dal voto amministrativo, così come non è avvenuto neppure in occasione delle elezioni europee.
Il Pd, anzi, sembra difendersi. Tanto che, nella serata di ieri, l'ex segretario dei Ds, Piero Fassino, poteva dichiarare che «siamo ancora ai dati parziali, ma dal quadro che sta emergendo ci arriva un dato da guardare con interesse». Questo perché, spiega Fassino, «una quindicina di province sono confermate al centrosinistra al primo turno, altre 15 vanno al ballottaggio» e questo, osserva l'esponente democrat, «conferma il consolidamento del Pd e l'arretramento del Pdl rispetto alle politiche dell'anno scorso».
Già, perché seppure deve fare i conti con molte difficoltà al nord e qualche sconfitta davvero pesante - quella della provincia di Napoli, su tutte, anche per gli scenari che questa potrebbe aprire, ma In Campania si profila un tonfo anche a Salerno e Avellino - altrove le cose sono andate diversamente. Conferma al primo turno Bologna, elegge al primo turno anche il presidente della provincia di Firenze, strappa il ballottaggio a Milano e anche a Torino e Alessandria, non perde la Puglia dove si tornerà a votare tra due settimane anche per altre province. Riesce ad andare al secondo turno anche a Belluno, in Veneto. E tutto, in un quadro che vede reggere il partito di Dario Franceschini sia in Toscana che in Emilia Romagna. Anche in Umbria le cose non sono andate male - e, anzi, le amministrative sembrano ribaltare il risultato delle europee - mentre il voto è andato maluccio nell'ultima delle regioni rosse, le Marche, dove il Pd subisce un importante sorpasso a Macerata.
Se il Pd "tiene", per così dire, e dunque i democrat utilizzano toni comunque piuttosto prudenti, nel centrodestra c'è invece chi finisce per esultare. È il caso del portavoce del Pdl Daniele Capezzone secondo il quale in serata stava «prendendo forma un successo nettissimo del centrodestra». Ed è il caso anche del capogruppo alla Camera della Lega, Roberto Cota che giudica «i dati delle amministrative ancora migliori rispetto alle europee». «Dove ci sono nostri candidati - spiega - l'alleanza va benissimo e in molti casi si vince al primo turno». Ciò significa, ha detto parlando dei rapporti col Pdl, che «la forza della Lega è un valore aggiunto per tutta la coalizione e quindi - ha concluso - anche per il governo». Roberto Calderoli, invece, rispondendo a chi gli chiedeva lumi sulla posizione della Lega in caso di ballottaggio a Milano, spiegava: «Dobbiamo ancora decidere». Insomma, se ne dovrà parlare, magari intrecciando i discorso con quello relativo al referendum elettorale. E si parlerà anche della presidenza del Veneto, ha detto ancora Calderoli, perché «è una anomalia che nessuna regione sia governata dalla Lega. Con il radicamento territoriale che abbiamo, è evidente che c'è un peso specifico diverso dal semplice numero dei voti. Questo lo sa benissimo chi conosce la legge elettorale».
Molto parziale, ancora nella serata di ieri, era il dato relativo alle comunali, tanto che, intorno alle 20, uno dei pochi dati certi era quello relativo alla affluenza al voto, in generale superiore a quello fatto registrare dalle europee che si è fermato al 67%: 70,5% per le provinciali, 76,7% per le comunali. Già dal pomeriggio c'era però un comune che poteva festeggiare il proprio sindaco. Si trattava di Morterone, in provincia di Lecco, dove ha trionfato, con il 64,5%, Antonella Invernizzi, sostenuta da una lista civica. Ma qui lo spoglio era facile, trattandosi del più piccolo comune, con i suoi 33 aventi diritto al voto. Spoglio senza sorprese anche a Grondona, in provincia di Alessandria, dove è stato eletto sindaco Mario Sassi con 299 voti, ovvero il 100% delle preferenze, essendo l'unico candidato. Meno prevedibile l'expolit di Adolfo Moroni, nuovo sindaco di Fano Adriano in provincia di Teramo, che ha sfiorato il 96% dei voti, un voto davvero bulgaro che non lascia margini di incertezza. Per eliminare quelli sulla sorte di molte altre amministrazioni andate al rinnovo, invece, si tratterà di aspettare due settimane.

il Riformista 9.6.09
I radicali sono fuori e i vescovi esultano
di Paolo Rodari


VOTO CATTOLICO. Difficile dire se il caso Noemi abbia spostato i credenti dal Pdl alla Lega e all'Udc. La Chiesa non commenta ma osserva (senza dispiacersene) l'esclusione della lista Bonino-Pannella.

La Chiesa italiana, tanto più il Vaticano, ha tenuto rispetto alle elezioni europee un profilo bassissimo. Nessun commento, nessuna indicazione, non soltanto di voto ma pure d'indirizzo generale. Lo stesso presidente dei vescovi italiani, il cardinale Angelo Bagnasco, ha fatto la propria parte, durante l'assemblea generale dell'episcopato chiusasi pochi giorni fa, per smorzare ogni polemica attorno alle politiche sulla sicurezza portate avanti dal governo e, insieme, circa la questione morale e il caso Noemi: niente battute fuori luogo, niente spinte per questo o quel partito.
Un profilo, quello della Chiesa italiana, tenuto basso anche ieri, immediatamente dopo il voto, nonostante, dietro le quinte, vi sia chi esulti. Per cosa? Per l'uscita di scena dallo scenario europeo dei radicali. Questi, per colpa dello sbarramento al quattro per cento, non ce l'hanno fatta. E viste le campagne che da Bruxelles il pur piccolo contingente radicale promuoveva - con cascate italiane - in favore d'una rivoluzione antropologica non certo apprezzata da vescovi e prelati, la loro "scomparsa" non dispiace.
La questione morale ha spinto una parte dell'elettorato cattolico dal Pdl verso la Lega e l'Udc? Difficile rispondere. Certo è che il low profile dell'istituzione Chiesa può aver giovato in questo senso. L'elettore cattolico, sensibile alle parole dei vescovi, si è senz'altro sentito in questa tornata elettorale più libero. E, quindi, può aver scelto in coscienza di non votare per Berlusconi e di indirizzarsi sulla Lega e sull'Udc. Ma, a conti fatti, sembra poca roba. Probabilmente, se vi fosse stata una campagna massiccia della Cei, promossa attraverso le varie associazioni cattoliche, attorno alla questione sicurezza, all'immigrazione, la Lega avrebbe preso meno voti. Quanto all'Udc, è probabile che alcuni voti gli siano arrivati da alcuni degli elettori cattolici che alle scorse politiche avevano votato per il Pd: dirimente la vicenda Eluana Englaro. Ma anche qui è molto difficile azzardare ipotesi.
I movimenti e le associazioni cattoliche avevano in diversi partiti dei propri rappresentanti. Il ciellino Mario Mauro (Pdl) ha fatto la sua parte in Lombardia. Bene è andato anche Carlo Casini, presidente del Movimento per la Vita e a Magdi Allam. Meno bene ad altri cattolici doc i quali, di per sé, avrebbero dovuto portare parecchi voti: Gianluigi Gigli, presidente della Federazione internazionale delle associazioni dei medici cattolici (scalzato da Tiziano Motti) e Luca Marconi di area Rinnovamento nello Spirito.
Se la Chiesa, in generale, mantiene un basso profilo nel commentare i risvolti politici della tornata elettorale, qualche giudizio è stato espresso comunque, in particolare sul bollettino dei vescovi italiani, il Sir e sulla Radio Vaticana. Sono due le preoccupazioni sentite: una per il forte astensionismo, l'altra per l'affermazione di forze xenofobe in molti paesi dell'Ue: «Serve una seria riflessione sull'aumento dell'astensionismo e dell'euroscetticismo», ha scritto il Sir. E ancora: «Il primo compito che avranno i neodeputati sarà quello di un'analisi serrata del problema, per non arrivare ancora tra cinque anni a domandarsi i motivi del peso del "deficit democratico" sulla costruzione comunitaria».
A esprimere preoccupazione per «l'avanzata della destra xenofoba in Olanda, Ungheria, Austria e Gran Bretagna» è sulla Radio Vaticana l'Osservatore Permanente della Santa Sede presso il Consiglio d'Europa: monsignor Aldo Giordano. Ma anche da lui non mancano allarmismi per l'astensionismo record: «Questo denuncia la mancata coscienza del ruolo che l'Europa dovrebbe avere e potrebbe avere per le sfide mondiali - ha detto - Solo un'Europa più unita e più stabile può affrontare le grandi domande del mondo e del ruolo che l'Europa ha per la vita concreta locale dei singoli cittadini».
Sull'astensionismo, fa il titolo in prima pagine anche l'Osservatore Romano: "Vince l'Europa dell'astensionismo" scrive il giornale diretto da Gian Maria Vian.

l’Unità 9.6.09
Comunisti e Sinistra e libertà divisi anche sul futuro
Mano tesa del Pd a Vendola
di Simone Collini


Ferrero propone di costruire un «polo di sinistra alternativo al Pd». Vendola: «Il cantiere di SL non chiude». Soro lancia un appello al governatore pugliese: «Avviamo un confronto per un progetto di governo condiviso».

Due milioni di voti e zero eurodeputati. Colpa della scissione decisa da Nichi Vendola, accusa Paolo Ferrero. Colpa del rifiuto del segretario di Rifondazione comunista di fare una lista unitaria, contrattacca il governatore della Puglia. Ma tanto il primo quanto il secondo sanno benissimo che il 3,4% incassato dalla lista Prc-Pdci e il 3,1% ottenuto da Sinistra e libertà difficilmente si sarebbero potuti sommare. Per il semplice motivo che i progetti politici sottesi dalle due liste divergono fortemente. Come dimostra anche la strategia che hanno in mente Ferrero e Vendola per non mandare del tutto persi quei due milioni di voti.
Il segretario di Rifondazione oggi proporrà alla Direzione del partito di «riunificare tutte le forze disponibili a costruire un polo di sinistra» dalle caratteristiche ben precise: deve essere «autonomo rispetto al Pd», fare opposizione a governo e Confindustria e l’unità dei comunisti deve essere il primo passo da compiere, non l’obiettivo da raggiungere. Ferrero, che già alla vigilia era scettico circa la strategia sostenuta da Oliviero Diliberto di riunificare Pdci e Prc, dopo questo risultato elettorale si è convinto ancora di più che l’unità comunista non paga. Quanto al segretario del Pdci, si è chiuso in un silenzio che la dice lunga sul suo stato d’animo. Quello che però sottolinea con le persone con cui ha parlato è piuttosto chiaro: in tutte e cinque le circoscrizioni a ottenere più preferenze sono candidati del Pdci.
Il cantiere di Vendola
Si tengono alla larga dalla competizione comunista quelli di Sinistra e libertà. Vendola giudica positivamente il 3,1% incassato: «Il cantiere è aperto e non lo chiuderemo. La sinistra del futuro non può essere una mummia di ciò che è stata». Al governatore della Puglia piacerebbe fissare un’assemblea costituente già a luglio, ma non si possono bruciare le tappe col rischio di perdere pezzi. E il Partito socialista è in bilico. Bobo Craxi ha già detto che i socialisti «devono avere tutto il tempo di riflettere» e di andare a congresso. E l’appello di Marco Pannella a rilanciare la Rosa nel pugno impensierisce più d’uno, dentro Sinistra e libertà.
Il rapporto col Pd
Viene invece giudicato positivamente il fatto che dopo essere stati a lungo snobbati dal Pd, ora i promotori di Sinistra e libertà vengono invitati dal partito di Franceschini ad aprire assieme «un nuovo cantiere nel Pd», come scrive Giovanna Melandri in una lettera pubblicata oggi su L’Altro, o più realisticamente ad avviare «un confronto per verificare - come dice Antonello Soro - la possibile condivisione di un progetto di governo». Confronto «improbabile», dice invece il capogruppo del Pd alla Camera, con Ferrero.

Repubblica 9.6.09
L’amarezza dell’ex segretario di Prc. Il Pd tende la mano a Sl: torniamo al confronto
Bertinotti e la guerra a sinistra: abbiamo sprecato il 6% di voti
Ma il partito di Vendola rischia già di perdere pezzi: verdi e socialisti tentati da Pannella
di Umberto Rosso


ROMA - Meglio il «cantiere» della sinistra, come propone ora Nichi Vendola? Oppure un «polo» con tutte le forze antagoniste al Pd, come piacerebbe a Paolo Ferrero? Dietro le formule si nascondono progetti molto diversi l´uno dall´altro ma la lezione del 6 e 7 giugno forse potrebbe disinnescare qualcosa nella guerra dentro la sinistra radicale. Si rimettono in moto esili canali di dialogo, alimentati soprattutto dagli ex bertinottiani rimasti con Ferrero. Ci spera soprattutto proprio Fausto Bertinotti, che in campagna elettorale ha invano indossato i panni del pontiere in nome dell´unità, e molto amareggiato adesso di fronte ad un esito che aveva largamente previsto: zero europarlamentari, a dispetto di una ripresa della sinistra che (sommata insieme) torna a viaggiare sul sei e mezzo. E la lettura del voto, ha confidato l´ex presidente della Camera, conferma che una strada per il rilancio si è aperta. Il Pd perde molti voti, si schiude la possibilità di un rimescolamento delle carte politiche, e il dissenso ha preso la via dell´Idv solo per mancanza di alternative. Intanto, un milione di voti perduti dall´Arcobaleno l´anno scorso, è tornato a casa (diviso fra Sl e Prc, che in tutto ne incassano due milioni). Ma è tutt´altro che scontata la strategia per utilizzare il ritrovato tesoretto elettorale.
La prima offerta, quasi a sorpresa, arriva giusto dal Pd. L´ha lanciata il capogruppo Antonello Soro, «torniamo al confronto, per verificare nei prossimi mesi se è possibile sottoscrivere un programma comune di governo». Un invito circoscritto ai soli vendoliani però, «il partito di Ferrero è troppo chiuso». Proposta rilanciata oggi, sulla prima pagina dell´Altro, con una lettera aperta a Vendola firmata da Giovanna Melandri: «Riprendiamo a parlarci, da subito». Il partito di Franceschini insomma tende ufficialmente la mano. Il governatore della Puglia prepara a stretto giro la risposta, e non sbatterà la porta. Per Vendola in queste elezioni hanno perso in tre, «il bipolarismo, Berlusconi e il Pd», ma con i democratici l´idea è di lanciare un confronto-scontro, «una sfida aperta, senza rinchiudersi in un ghetto identitario». Un siluro alla Lista dei comunisti di Ferrero e Diliberto. Il segretario di Rifondazione mette in pista infatti un progetto unitario in altra chiave, chiama a raccolta «a partire da coloro che hanno dato vita alla lista anticapitalista e comunista, tutte le forze disponibili a costruire un polo di sinistra, autonomo dal centrosinistra». Dove, appunto, emergono i concetti di fedeltà al comunismo e lo scontro col Pd. «Il nostro progetto di unità dei comunisti – avverte Claudio Grassi, ago della bilancia nel Prc – non cambia».
Però, mentre da un lato arrivano le offerte di dialogo di Franceschini, dall´altro Sinistra e libertà rischia di perdere già qualche pezzo per strada. La sirena Pannella, forte del risultato incassato, si fa sentire sui socialisti e anche sui verdi presenti nel cartello vendoliano. La proposta è di costruire insieme un nuovo polo laico e ambientalista. Il leader del Ps Nencini non pare del tutto insensibile all´idea, e comincia ad avvertire Sl: sbagliato aprire un cantiere per mettere insieme tutto ciò che si muove a sinistra del Pd, «Sinistra e libertà è e deve restare un polo riformista».

Corriere della Sera 9.6.09
Ferrero-Vendola, lite anche sulle alleanze
Il Prc: ricostruire l’opposizione al Pdl. Ma Sinistra e Libertà apre al Pd
di Dino Marirano


La soglia del 4% Unico punto in comune: l’accusa ai partiti maggiori per il «furto di tre milioni di voti»

ROMA — Il Partito democra­tico già strizza l’occhio a Sini­stra e Libertà di Niki Vendola e Claudio Fava e pianta paletti in­valicabili per chiarire, se ce ne era bisogno, che in futuro non ci sarà alcun tipo di alleanza con i comunisti di Paolo Ferre­ro e Oliviero Diliberto. Il gior­no dopo il mancato supera­mento della soglia di sbarra­mento del 4%, le due sinistre che hanno messo insieme più di due milioni di voti, fanno i conti con le strategie da segui­re per non disperdere un capi­tale politico capace di rappre­sentare più del 6 per cento dei voti pur non esprimendo al­cun eurodeputato.
Divise su tutto, le due forma­zioni della sinistra condivido­no però l’accusa contro Pd e Pdl di aver organizzato con la soglia di sbarramento «il furto di tre milioni di voti»: sì 3 mi­lioni perché, sommando an­che il risultato dei radicali, a tanto ammonta il totale dei vo­ti espressi dalla liste che non hanno superato l’asticella del 4%. «E’ un furto politico senza precedenti», attacca Claudio Fava di SL chiedendo al Pd an­che un chiarimento «sul refe­rendum elettorale capace di da­re tutto il potere ai partiti mag­giori e a Berlusconi».
«Lo sbarramento esiste in tutte le democrazie europee ma io al posto loro mi interro­gherei sulla scelta tra fare testi­monianza o governare l’Italia», ribatte il capogruppo del Pd Antonello Soro. E così, davanti al quesito, le strade delle due sinistre si dividono ancora una volta: la lista «falce e martello» di Rifondazione e PdcI chiama a raccolta il polo anticapitali­sta e antiberlusconiano per un cartello nettamente autonomo dal Pd. Sinistra e Libertà, inve­ce, pur chiedendo rispetto e pa­ri dignità, già si predispone, co­me annuncia la verde Loreda­na De Petris, per la «ricostru­zione di un nuovo centro sini­stra » e anche, secondo l’analisi del bertinottiano Gennaro Mi­gliore, «per un dialogo aperto con il Pd».
Però l'iniziativa politica nel giorno del dopo elezioni è tut­ta di Antonello Soro che per il Pd parla un linguaggio diretto: «Se Sinistra e libertà non vuole limitarsi a esser un partito di testimonianza deve aprire e un confronto con il Pd per vedere se è possibile costruire un’inte­grazione o un coordinamento» mentre « con un partito come Rifondazione che mantiene al­ta la bandiera dell’identità e della testimonianza è impossi­bile che si ritrovi». Lusinghe a parte, Soro fa riferimento ai prossimi appuntamenti eletto­rali (le regionali del 2010) «di tipo coalizionale» ma la forma­zione di Vendola e Fava non gradisce quel concetto dell’«in­tegrazione » che potrebbe tan­to assomigliare a un’annessio­ne.
In casa comunista - dove og­gi la direzione formalizzerà la «proposta di riunificare tutte le forze disponibili a costruire un polo di sinistra, autonomo dal centrosinistra e impegnato da subito a costruire la più va­sta opposizione a Berlusconi e alla Confindustria» — Ferrero sconta le titubanze di Diliberto anche se poi tutti e due tifano per il fallimento di Sinistra e li­bertà. Evidenziando che in ca­sa di Vendola e di Fava già avanzano il guastatore Angelo Bonelli (verdi) e il riformista Ricardo Nencini (socialisti): il primo chiede che gli ambienta­listi vadano da soli per «parla­re a 360 gradi ai cittadini e non solo agli elettori di sinistra»; il secondo pone come condizio­ne per rimanere dentro SL, la presa di distanze da Ferrero e da Diliberto.
Divise su tutto, dunque, le due sinistre. Ma non sull’anali­si del voto che, come ammette l’ex senatore del Prc Giovanni Russo Spena, «è andato parti­colarmente male in Veneto e in Lombardia dove la Lega ha fatto il pieno anche nei quartie­ri popolari».

Corriere della Sera 9.6.09
Parlato: la gauche pensa alle bibite, non sa capire dove va la società
intervista di Maurizio Caprara


ROMA — Bibite. I dirigenti della sinistra italiana prendono bibite, invece di cercare di capire di quale malattia sono affetti e quali medicine servirebbero. A dirlo in questa intervista è Valentino Parlato, uno dei fondatori del manifesto, una delle firme più scanzonate del quotidiano comunista senza che il suo disincanto lo renda indifferente ai destini della sua parte politica.
Negli «attivi» delle sezioni del Partito comunista italiano e dei gruppi della sinistra rivoluzionaria l’ordine del giorno classico era: «La situazione politica attuale e i nostri compiti». Dopo le europee, come riassumerebbe la prima e le sue indicazioni sul 'che fare'?
«La sinistra esce sconfitta dalle elezioni. Con una malattia così grave occorre una diagnosi. Va rifatta l’analisi della società italiana per vedere come è cambiata. Lei parlava delle sezioni di partito. Ma oggi dove sono? Ne ha più la Lega.
E questi prendono bibite».
Bibite?
«Ai miei tempi organizzavamo convegni. Ci chiedevamo: come cambia il capitalismo? Si discuteva, litigava, ma tutti con l’obiettivo di capire che accadeva. Adesso si cerca la trovata di propaganda per prendere voti. Un po’ tutti imitano Berlusconi. Più bravo di loro, in queste invenzioni».
A chi dà la colpa della sconfitta?
«C’è un dato storico. Abbiamo spesso dimenticato il 1989. La fine dell’Urss, con tutti i suoi mali e con le speranze che aveva incarnato, ha comportato un cambiamento del clima storico. Si sono liquidati i partiti comunisti, oggi tocca ai socialdemocratici».
Altre cause?
«Ci si è disonorati dicendo 'Abbiamo sbagliato', non 'Questo tentativo è andato male'. E come se dopo la Rivoluzione francese, dato che era arrivato Napoleone, si fosse detto: 'Abbiamo sbagliato a fare la Rivoluzione'».
Colpe di dirigenti ne ravvisa?
«Con tutta l’amicizia, penso ad Achille Occhetto per la Bolognina (la svolta che portò poi dal Pci al Pds, ndr). Enrico Berlinguer aveva riconosciuto che si era 'esaurita la spinta propulsiva' della Rivoluzione d’Ottobre. Si trattava di inventarsi un’altra spinta, non di accomodarsi all’esistente».
Non crede che quella svolta andasse compiuta prima? E guardi che il partito di Occhetto scese al 19,1%. Il Pd supera il 25% con gli ex democristiani.
«Occhetto aveva il capitale del Pci.Poi fu dissipato».
Non è stato bizzarro che alle europee si presentassero «Sinistra e libertà» da un parte e Rifondazione più i Comunisti italiani dall’altra se soltanto uniti avrebbero raggiunto il quorum?
«Sì, un assurdo. Micropolitica. Era una stupidaggine la scissione di Rifondazione, voluta da Nichi Vendola e Fausto Bertinotti, e si sarebbe dovuto riflettere sulla sconfitta dell’Arcobaleno nel 2008. Erano insieme, e persero tutti».

il Riformista 9.6.09
La sinistra non passa e riprende a litigare
Gauche. Sinistra e Libertà perde pezzi: Verdi sull'orlo della scissione. Ferrero accusa Vendola di aver provocato il nuovo disastro. C'è chi spinge per l'unità, ma non è aria.
di Mattia Salvatore


La frammentazione della sinistra deve cessare, dicono. Ma nei fatti sono più divisi che mai. Quasi incompatibili, il rapporto col Pd è il nodo da sciogliere. Rifondazione e Pdci, con la lista anticapitalista ancorata al 3,4 per cento, e Sinistra e Libertà, ferma al 3,1, non raggiungendo alle europee la soglia del 4, vanno incontro a un'ennesima bocciatura ed esclusione dalle istituzioni. Ma non tutto, per loro, è da buttare: rispetto alle politiche dello scorso anno quando insieme nel simbolo dell'Arcobaleno prendevano un misero 3,1 ci sono segnali incoraggianti. Senza scissioni e litigi interni, forse, lo sbarramento sarebbe stato superato. Il tema dell'unità, quindi, torna di moda.
A lanciarla entrambe le liste. Per il vendoliano doc Gennaro Migliore «bisogna puntare a costruire un cantiere aperto che sappia parlare a quel 10 per cento di forze a sinistra del Pd e di Di Pietro». Un appello rivolto quindi non solo ai "cugini" di Rifondazione ma anche ai radicali. «Le culture comuniste, socialiste e ambientaliste - continua - devono convivere nella stessa casa. Dobbiamo lanciare una proposta politica di qualità». Ovvio che punto di partenza per la costituzione del cantiere deve essere il rilancio di Sinistra e Libertà. Se infatti nella lista anticapitalista c'è sconforto per non aver raggiunto la soglia, nella nuova formazione si festeggia per il risultato ottenuto: «Senza soldi, organizzazione e con un simbolo ai più sconosciuto - spiegano - abbiamo ottenuto un dato soddisfacente».
Si discute però sulla forma che Sl dovrebbe assumere. L'esponente di Sd Claudio Fava da tempo spinge per «una fase costituente per un grande partito della sinistra italiana, radicato nel paese, aperto a chi non si accontenta di testimoniare o di celebrare il passato». Poi sferra un duro attacco al Pd reo, inserendo lo sbarramento alle europee, «di aver rapinato tre milioni di elettori del centrosinistra, il 10% dei votanti, un furto politico senza precedenti». Più timidi sulla forma partito i Verdi, che al proprio interno hanno una situazione sempre più delicata. La minoranza, capeggiata da Angelo Bonelli, mal sopporta questa alleanza elettorale e pochi istanti dopo il voto è tornato alla carica annunciando la morte di Sl e chiedendo a gran voce la «costruzione di una forza ecologista del terzo millennio che parli a 360 gradi ai cittadini e non solo agli elettori di sinistra». Preludi di una battaglia per il prossimo congresso del Sole che Ride che si terrà a luglio. Perché la maggioranza, guidata da Grazia Francescato, non vuol sapere di abbandonare il progetto esprimendosi, ora, in maniera favorevole all'idea di cantiere delle sinistre.
Un soggetto «autonomo dal Pd ma che si pone il problema del dialogo coi democratici - affermano dentro Sl - Cercare di porre le basi per un nuovo centrosinistra». Progetto, questo, che non interessa a Rifondazione che della totale indipendenza dal Pd fa un suo cavallo di battaglia. Il Prc «avanza la proposta di riunificare, a partire da coloro che hanno dato vita alla lista anticapitalista e comunista, tutte le forze disponibili a costruire un polo di sinistra, autonomo dal centrosinistra e impegnato da subito a costruire la più vasta opposizione alle politiche del governo Berlusconi e di Confindustria». Sinistra Critica e il Partito dei Lavoratori di Marco Ferrando saranno i primi contatti, tra i quali non ci saranno sicuramente i «liberisti» dei radicali. Lontana al momento l'idea di partito unico col Pdci, progetto promosso da una parte del Prc (quella che fa capo a Claudio Grassi, uomo forte della segreteria) e non da Paolo Ferrero che sa così, con "l'unità dei comunisti", di perdersi il pezzo dei bertinottiani rimasti nel momento della scissione. Proprio loro si compiacciono dell'idea di «federazione delle sinistre» e attaccano gli amici vendoliani per la loro proposta. «Dobbiamo costruire un'alternativa di società - dice Augusto Rocchi - Come si fa se si nasce sotto il cappello del Pd?». «E poi - aggiunge con ironia - perché includere Pannella e non Di Pietro?». Per Ferrero non si è superato lo sbarramento perché «c'è stata una scissione di troppo». La sinistra sembra destinata a proseguire su binari paralleli.

l’Unità 9.6.09
«La sinistra si rinnovi, in Europa è morta la socialdemocrazia»
Il sociologo francese: «Come è stato detto per il comunismo nell’89
«Oggi possiamo dire che quel modello ha subito un crollo irreversibile
Basta guardare al passato, bisogna superare l’arcaismo dei socialisti»
Intervista ad Alain Touraine di Umberto De Giovannangeli


Così come nell’89 parlammo di morte del comunismo, oggi, alla luce dei risultati elettorali, possiamo parlare di “morte” del modello socialdemocratico». A sostenerlo è uno dei più autorevoli e affermati sociologi europei: il professor Alain Touraine, Directeur d’études all’École des Hautes études en sciences sociales di Parigi.
Professor Touraine, come leggere queste elezioni europee?
«In primo luogo possiamo dire che mai come in questo caso, è lecito parlare di elezioni davvero “europee”, perché hanno evidenziato due tendenze generali: l’affermazione delle destre e il crollo irreversibile del modello socialdemocratico».
L’Europa guarda a destra.
«Purtroppo è così. Si tratta di un fenomeno pressoché generalizzato, con l’eccezione della Svezia, rafforzato da spinte di estrema destra, come in Austria e in Italia con il successo della Lega di Bossi, la cui base sociale è simile a quella dei partiti fascisti. Vi è un pericolo nuovo in Europa, con una destra tradizionale incalzata dall’estrema destra. In Francia, la situazione è un po’ diversa, nel senso che il successo considerevole di Nicolas Sarkozy – che non può essere ricondotto solo ai buoni risultati ottenuti nel semestre di presidenza dell’Ue – ha permesso di porre un argine alla risalita dell’estrema destra. Per restare ancora alla Francia, un fenomeno sorprendente è anche il crollo del centro di Francois Bayrou».
E sul fronte opposto?
«Il dato più importante è che a distanza di vent’anni dal crollo del comunismo, assistiamo al crollo della socialdemocrazia. Si tratta di una caduta spettacolare, irreversibile, che rimette in discussione un modello. Per restare alla Francia: Martine Aubry (segretaria generale del Psf,ndr.) è stata praticamente assente per tutta la campagna elettorale. Se Ségolène Royal avesse guidato il partito, probabilmente avrebbe ottenuto un risultato migliore. La Francia è paradigmatica di una crisi di leadership che investe tutte le forze della sinistra in Europa, il cui tracollo va anche legato alla rottura con i ceti popolari. In Germania, un altro Paese chiave per l’Europa, l’indebolimento della Spd non è stato riequilibrato da una vittoria della Linke che aveva cercato il sostegno delle grandi organizzazioni sindacali».
Cosa c’è di altro ancora nel tracollo delle forze socialiste e socialdemocratiche europee?
«C’è l’esaurimento del modello socialdemocratico; c’è l’incapacità di formare leadership autorevoli, in sintonia con i tempi; c’è l’indeterminatezza nella definizione degli obiettivi da raggiungere. Credo di non esagerare se utilizzo il termine di “morte” della socialdemocrazia, così come nel 1989 si è potuto parlare, a ragione, di morte del comunismo».
A destra. Perché?
«La storia c’insegna che nei momenti di forte crisi, il voto si orienta verso gli estremi, e in queste elezioni soprattutto verso destra».
Che situazione si prospetta?
«Una situazione tesa, densa di pericoli. Perché è difficile pensare che si possa uscire da una crisi economica e sociale destinata a proseguire almeno fino al 2011, senza troppi danni. Purtroppo la sinistra non ha saputo offrire risposte adeguate finendo così per far parte di un mondo in via di estinzione».
In Francia si è assistito al successo dei Verdi di Daniel Cohn Bendit.
«In un contesto in cui non le forze tradizionali mostrano di essere prigioniere di una visione angusta e sorpassata, Cohn Bendit – ex icona del ’68 che ha saputo però riproporsi sulla scena politica con una immagine rinnovata – ha saputo proporre un grande tema concreto e al tempo stesso fortemente simbolico: l’ecologia. E questo in risposta a ciò che io chiamo l’arcaismo dei socialisti. Il successo dei Verdi, non solo in Francia, può essere considerato la risposta politica alla crisi profonda che colpisce le forze socialiste e socialdemocratiche europee. Una sinistra nuova non può guardare al passato se vuole tornare a vincere. Quel passato è morto. Ed è importante che su quelle “ceneri” possano sorgere formazioni politiche in grado di offrire risposte innovative ad un bisogno di cambiamento che non è venuto meno».
Come leggere l’altro dato “europeo” di questa tornata elettorale: il minimo storico di partecipazione?
«Anche questo dato è da considerare caratteristico dei periodi di crisi, nei quali i cittadini manifestano scetticismo se non ostilità verso le istituzioni. Un atteggiamento peraltro molto fondato se si considera il ruolo inesistente delle istituzioni europee di fronte alla grave crisi economica che attraversiamo. Basta pensare al ruolo passivo di Barroso (presidente della Commissione europea, ndr.) mentre negli Stati Uniti, Barack Obama si è impegnato in prima persona per rimettere in moto l’economia del Paese».
In ultimo, l’Italia. Al centro dei riflettori europei per gli scandali che hanno coinvolto il premier Berlusconi.
«In realtà, gli scandali sembravano essere una peculiarità dei partiti socialisti. Basti pensare allo squasso politico in Gran Bretagna che ha investito il Labour. E anche in Francia avvengono cose abbastanza inquietanti in termini di immoralità pubblica. Per venire all’Italia, il Paese non sta affatto bene. C’è un premier che si comporta in un modo vergognoso, cercando di imporre le proprie “verità” attraverso il controllo dei grandi mezzi di comunicazione. In qualsiasi altro Paese europeo democratico, un simile comportamento avrebbe fatto perdere consensi o determinato la fine di una carriera politica. In Italia non è così. L’Italia appare come un Paese relativamente isolato e ripiegato su se stesso. Il risultato non è brillante e denota una incapacità di rinnovamento. Il dato elettorale più eclatante è il successo della Lega che userà questa vittoria per condizionare ulteriormente l’azione del governo in termini di chiusura su questioni cruciali come la sicurezza e l’immigrazione».

l’Unità 9.6.09
Fini tace ma i finiani no
«Il Pdl va organizzato»


Lui, il presidente della Camera, non commenta, anzi nemmeno si fa fotografare al seggio: per «riservatezza», dice, chissà. I suoi, invece, si lanciano in severe analisi sul partito da «riorganizzare». Analisi al limite di una indicibile soddisfazione. Una «modesta vittoria del Pdl», si auguravano del resto alcuni finiani alla vigilia del voto, «il miglior risultato che ci si potesse aspettare», commentano dopo il 35,3 per cento delle urne. Non si tratta di «remare contro» il neopartito di Fi e An, questo no: «Sarebbe autolesionista». Piuttosto, si tratta di salutare lo scampato pericolo di un Berlusconi «stravincente». E cogliere l’occasione della «modesta vittoria» per lavorare a un Pdl che «non viva solo di luce riflessa».
«Organizzare il partito, su base territoriale» è infatti la parola d’ordine sia di finiani come Fabio Granata e sia di fondazioni vicine come Farefuturo. Scopo primario, «contenere l’euforia leghista» e smetterla d’essere la «fotocopia» del Carroccio. In Pdl alternativo alla Lega, con obiettivi opposti ma con la stessa sapienza organizzativa, del resto, è proprio quello che ha in mente Fini. E mentre alla Camera i suoi scaldano i motori, il presidente s’è apparecchiato una settimana all’altezza della sua istituzionale trasversalità. Convegno sul lavoro con Amato e Marcegaglia, commemorazione di Enrico Berlinguer con Alfredo Reichlin. E, per finire, incontro con Gheddafi. Promosso ancora da Italianieuropei, ma anche da Medidea di Giuseppe Pisanu. Una new entry, nell’orizzonte finiano.

l’Unità 9.6.09
Da Parigi «Dany» guida l’onda verde sull’Europa
di Marina Mastroluca


In crescita in tutto il continente, all’europarlamento il gruppo sale da 43 a 52 seggi
No a Barroso Cohn-Bendit: «In contatto con i socialisti per formare una maggioranza»
Voglia di Verdi. L’exploit francese di Europe Ecologie del sessantottino Cohn-Bendit guida una tendenza generale. E già si cerca una nuova maggioranza all’europarlamento per evitare il bis di Barroso.

«Le Dany boom» titolava ieri Liberation. Dove Dany è l’ex sessantottino Daniel Cohn-Bendit e il boom è l’esplosione elettorale dei suoi Verdi di Europe Ecologie, catapultati sotto i riflettori dal voto europeo. Terzo partito ad un soffio dai socialisti, distanti appena 35.000 preferenze, il 16,2% su scala nazionale con punte del 20,8 nell’Ile de France, quando nel 2004 non avevano che il 7,5%. Un terremoto politico. A Strasburgo i verdi francesi spediranno una nutrita pattuglia di eurodeputati, passando da sei a 14, lo stesso numero dei navigati Grunen tedeschi. E Cohn-Bendit già si sente chiedere se si candiderà alle prossime presidenziali francesi. «Ho parlato con il presidente del partito socialista europeo per cercare di costruire una maggioranza», dice tenendo ferma la barra sulla Ue. Obiettivo, liquidare il capitolo Barroso. Il voto europeo, dice, è stato «il d day della politica ecologica».
ECCEZIONE ITALIANA
Non è solo l’euforia del momento. In un’Europa che diserta le urne e vira a destra, la sorpresa francese solo in parte annunciata dai sondaggi guida una tendenza: i Verdi crescono un po’ in tutta la Ue e rafforzano la loro presenza all’Europarlamento, con l’eccezione dell’Italia rimasta a guardare. Come gruppo avevano 43 seggi del 2004, oggi sono a 52, a dispetto della riduzione complessiva delle poltrone (da 751 a 736).
È un successo spesso di piccoli passi, come in Germania dove i Verdi strappano qualche decimale e un seggio in più all’Europarlamento, confermandosi terzo partito e riducendo le distanze con una Spd falcidiata e una Cdu in flessione. Nella Gran Bretagna del Labour in picchiata, gli ambientalisti salgono al 13,3 e prendono 5 seggi. I Verdi crescono - e di molto - anche in Belgio, che in controtendenza con il resto del continente vede la destra xenofoba in netto calo: in Vallonia raddoppiano i consensi, arrivando al 18,5%, a Bruxelles superano il 20. In Olanda ottengono tre seggi, in Grecia solo uno ma è una prima assoluta, come per la Romania. In Portogallo la confederazione comunisti e ecologisti è quarto partito e sfiora l’11 per cento. È al quarto posto anche il verde Mp in Svezia che quasi raddoppia passando dal 6 al 10,8% e incassa un doppio seggio, mentre fa un salto in avanti anche il Finlandese Vihr, che prende due seggi. Nel piccolo Lussemburgo il partito ecologista incassa quasi il 2% in più ma si deve accontentare del seggio che già aveva nel 2004.
LINGUAGGIO NUOVO
Una piccola rivoluzione, che parla spesso una lingua nuova. Là dove la crisi ha messo a nudo i limiti di un sistema economico che per funzionare deve produrre sempre di più, inghiottendo risorse e petrolio, i Verdi ragionano di economia sostenibile, energie alternative, di prodotti a chilometri zero, di democrazia decentrata, di diritti. Un altro modo di leggere il mondo, che sembra più in sintonia con una parte crescente dell’elettorato europeo. «Gli europei hanno accettato la visione dell’Europa di domani proposta dagli ecologisti - ha detto Cohn-Bendit -. Questo risultato è in opposizione al successo delle forze distruttive verso l’Europa, come gli euroscettici e l’estrema destra».

l’Unità 9.6.09
Choc a Londra per la vittoria del British National Party dichiaratamente razzista
Il caso Ungheria Sfiora il 15% il partito paramilitare Jobbik; nel mirino rom e comunisti
Contro ebrei turchi e Corano
Il plotone dell’ultra destra
di Marco Mongello


Il plotone dei partiti xenofobi e razzisti inquieta l’Europa il giorno dopo il verdetto delle urne. L’onda nera è stata minore delle previsioni ma dalla Gran Bretagna all’Ungheria scatta l’allarme.

Vogliono bandire il Corano, combattere gli ebrei, rom e comunisti, liberare il proprio Paese dalla «dittatura europea» e restituire «l'Occidente in mani cristiane». È il plotone dei nuovi eurodeputati dei partiti dell'estrema destra che si accinge a marciare su Strasburgo.
A conti fatti alle elezioni europee la temuta ondata di partiti fascisti e xenofobi è stata minore del previsto e in alcuni casi, come in Francia e in Belgio, i partiti dell'estrema destra sono pure in calo. In molti altri Paesi però, soprattutto dell'Est e del Nord Europa, i risultati sono allarmanti.
Il primo ad attirare l'attenzione è stato il Partito per la Libertà (Pvv) dell'olandese Geert Wilders che, scandendo slogan contro l'Islam, la Turchia e il Corano, è riuscito ad ottenere il 17% . Al nord fa anche scalpore il 10% strappato dal finlandese Timo Soini con il suo Perussuomalaiset, il partito dei Veri Finlandesi, che chiede di uscire dall'Ue e fermare l'immigrazione. Con 130.000 preferenze Timo Soini è stato il politico più votato in Finlandia. Nella multietnica Gran Bretagna poi è stato un vero e proprio choc il risultato del dichiaratamente razzista British National Party, che manderà ben due rappresentati a Strasburgo. Mentre in Austria l'Fpoe del defunto Jorg Haider ha ottenuto più del 13% e due seggi, raddoppiando i consensi del 2004.
Nell'Est Europa il primato spetta al partito paramilitare ungherese Jobbik, che sfiorando il 15% ha preso tre seggi. «L'Ungheria è stata venduta», ha dichiarato il leader Gabor Vona, «i nemici da combattere sono le multinazionali, gli ebrei, i rom ed i comunisti». A Bucarest festeggiano i militanti del Partito della Grande Romania per l'8,47% di voti e i due seggi, di cui uno andrà al discusso presidente del partito, Corneliu Vadim Tudor. In Bulgaria i nazionalisti anti-rom sono arrivati all'11,72% e in Slovacchia il partiti xenofobo Sns ha conquistato il suo primo eurodeputato.
Il partito di Le Pen
In Polonia e Repubblica Ceca però i partiti dell'estrema destra sono rimasti al di sotto delle previsioni e i fiamminghi del Vlaams Belang hanno perso uno dei loro tre seggi al Parlamento europeo, mentre il Front National francese di Jean-Marie Le Pen sono passati da 7 a 3 eurodeputati.
Ora fervono i lavori per cercare di formare un gruppo politico come il vecchio Uen (Unione per l'Europa delle Nazioni), andato in pezzi nel 2007 tra i litigi. Ma la colorata compagine di questa volta lascia presagire che le cose saranno anche più difficili. «In alcuni casi questi movimenti sono fenomeni nuovi», ha spiegato Mario Incerti, ricercatore del think tank brussellese Centre for European Policy Studies, «il Pvv olandese ad esempio non vuole essere assimilato a questi gruppi di estrema destra». Comunque, ha rassicurato Incerti, «in genere questi partiti sono marginalizzati dal resto delle forze politiche e alla fine non riescono a capitalizzare i voti presi, anche perché spesso invocano politiche irrealizzabili». Il loro successo, ha concluso, è dovuto ad «un voto di protesta contro crisi economica e ritardi dell'Ue nelle politiche dell'immigrazione».

l’Unità 9.6.09
«Il voto agli ultrà preoccupa ma meno della Lega in Italia»
Il militante antirazzista di origine indiana: «In tempi di crisi l’immigrazione da risorsa diventa un problema»
Colloquio con l’eurodeputato Claude Moraes di M. Mon.


L'affermazione del British National Party in Gran Bretagna preoccupa, ma la questione dell'estrema destra non è un problema come in altri Paesi europei e «non è neanche vicino ai livelli dell'Italia» dove dei partiti estremisti siedono nella coalizione di Governo. Lo afferma l'eurodeputato laburista britannico Claude Moraes. Immigrato in Gran Bretagna dall'India a 6 anni, Moraes si è occupato da sempre dei problemi di razzismo e nel 1999 è stato il primo rappresentante della circoscrizione londinese appartenente ad una minoranza etnica ad essere eletto al Parlamento europeo. Alle ultime elezioni europee, nonostante il pessimo risultato dei laburisti, Moraes è stato rieletto per la terza volta.
«La conquista di due seggi a Strasburgo da parte del Bnp preoccupa ma non bisogna esagerare sulla sua affermazione», ha spiegato all'Unità. «In realtà il partito dell'estrema destra britannica ha cavalcato la rabbia degli elettori per lo scandalo dei rimborsi, la recessione e l'euroscetticismo».
Il fatto che fino ad oggi la Gran Bretagna non ha avuto dei partiti estremisti come gli altri Paesi «è dovuto al sistema di voto maggioritario dove le posizioni estreme non hanno spazio, e se ora emerge il Bnp è perché a partire dal 1999 per le elezioni europee anche noi abbiamo adottato un sistema proporzionale».
Secondo l'eurodeputato, alla base «c'è anche la questione dell'immigrazione, che quando l'economia va bene è una risorsa ma quando c'è la recessione è una minaccia». Tuttavia, ha concluso Moraes, il problema inglese «non è neanche vicino ai livelli dell'Italia dove un partito di origine fascista, anche se modernizzato, e la Lega Nord fanno parte della coalizione di Governo».

l’Unità 9.6.09
L’Europa va a destra «padroni in casa propria»


Un panorama procelloso è quello che il voto europeo ci consegna. La crisi economica, gli squilibri demografici, i grandi flussi migratori e, su un piano diverso ma infine coincidente, il declino del modello socialista e socialdemocratico di welfare: tutto ciò porta i popoli europei a scelte di corrusca autodifesa. «Padroni a casa propria» non è più, o solo, lo slogan cupo di tutti i leghismi: diventa una sorta di strategia geopolitica. L’immigrazione ne è il bersaglio. Così, come si legge nei giornali di ieri, i 27 «vanno a destra».
Il dato più preoccupante è quello dell'Olanda, dove il partito islamofobico, PVV (partito per la libertà) di Geert Wilders, ha ottenuto il 17% dei voti, il 10,9% in più rispetto al 2006. Il leader del PVV è noto per aver diretto un cortometraggio violentemente anti-islamico: Fitna, che paragona l'Islam al fascismo alla cui diffusione (nel timore di un nuovo caso “vignette danesi”), il governo si era opposto, un anno fa. Il voto olandese non è l'unico che preoccupa: in Gran Bretagna si registra il risultato del 27% per i Conservatori di David Cameron e del 17% per il partito euroscettico UK Independent Party (UKip). In Austria, la Fpoe (liberal nazionalisti), ottiene il 12,9% (più 6,6% rispetto al 2004). Grande vittoria dell'estrema destra anche in Portogallo e in Ungheria, dove Jobbik ha ottenuto il 14,77% dei voti. In Finlandia, poi, si assiste ad una forte ascesa di nazionalisti ed euroscettici: True Finns, formazione che chiede un freno all'immigrazione e all'integrazione comunitaria, ottiene il 9,8% (dallo 0.5% del 2004). E, infine, la Lega Nord in Italia raggiunge il 10,2% diventando il terzo partito del paese. Meteo: tempo da lupi.

l’Unità Firenze 9.6.09
Il Pd arretra soprattutto a Firenze, meno 9% e Livorno, meno 10%
di Vladimiro Frulletti


Pd primo, ma perde 300mila voti
Giù anche il Pdl, meno 100mila
Male a Firenze e Livorno

I democratici pagano il forte astensionismo, il voto utile che torna alle formazioni di sinistra, e la concorrenza dell’Idv. Berlusconi va indietro, ma diventa il primo partito a Grosseto, Lucca e Massa Carrara.

Il Pd sotto la soglia, psicologicamente importante, del 40%. Pdl in discesa, rispunta la sinistra cosiddetta radicale, raddoppia Di Pietro, esplode la Lega Nord, mantiene la sua forza l’Udc. Pd e centrosinistra però riconquistano la provincia di Firenze e quelle di Siena, Pisa, Livorno e Pistoia (e questa vittoria non era scontata) e il comune di Livorno. Ma vanno al ballottaggio alle province di Prato, Arezzo, Grosseto; al comune di Firenze e a quello di Prato. Ecco cosa è successo nelle urne della Toscana.
Il rosso e l’azzurro
Tanto che Antonio Floridia, direttore dell’osservatorio elettorale della Regione, se dovesse colorare la Toscana darebbe oramai uno sfondo azzurro Pdl alle province di Lucca, Grosseto e Massa Carrara (dove c’è stato però il successo del Pd sul Pdl a Massa città, e il boom, 14%, delle liste della sinistra), manterrebbe un rosso vivo alle province di Firenze, Siena, Livorno e Pisa, mentre Pistoia, Arezzo e Prato («è l’unica realtà dove il Pdl cresce rispetto alle politiche» fa notare) sono da considerare «oramai contendibili» perché centrosinistra e centrodestra hanno forze equivalenti. Insomma «la geografia politica della Toscana sta cambiando - aggiunge Floridia - il che non è detto che sia un male per la sinistra». Peso rilevante l’ha avuto ovviamente l’astensione. Alle europee sono andati a votare solo 7 toscani su 10, inevitabilmente questa disaffezione ha presentato il conto a diversi protagonisti.
Pd in calo
Primo fra tutti il Pd, che in un anno (dalle politiche 2008) perde più di 300mila voti. Aveva oltre 1milione e centomila voti (46,8%), ne ha presi poco più di 805mila (38,7%), 8% in meno. E nel 2004 Uniti nell’Ulivo (Ds, più Margherita, più Sdi) contò oltre 915mila voti, pari al 41,7%. Un calo che lascia l’amaro in bocca in casa democratica. Il meno 8% è dovuto, dicono, soprattutto ai brutti risultati di Firenze, dove il Pd perde il 9%, e Livorno, dove la caduta è del 10%. Altrimenti nelle tabelline ci sarebbe stato un meno 6%. Non lontano dal trend nazionale. La consolazione invece riguarda il fatto che è la Toscana, assieme all’Emilia, uno dei pochi posti dove il Pd è più forte del Pdl dopo che anche Umbria e Marche Il partito berlusconiano è arrivato primo. Ma dove sono andati a finire questi voti democratici? Floridia parla di «contraccolpo al voto utile». E divide in rivoli in uscita dal Pd in varie direzioni. Il primo, consistente, è quello dei delusi che non è andato a votare. Poi i radicali che alle politiche stavano nel Pd hanno preso il 2,6 (54mila voti) e a Firenze più del 5%. In parte sono andati a Di Pietro che da i quasi 83mila voti delle politiche balza a oltre 141mila (dal 3,55 al 6,8%).
Effetto Staino
Ma il resto è tornato a sinistra. «È stato un voto più libero - spiega Floridia -, e c’è stato pure un voto utile per le formazioni di sinistra per aiutarle a superare lo sbarramento del 4% un modo alla Staino (il disegnatore del Pd candidato con Sinistra e Libertà) per mandare al Pd un messaggio di sinistra». Socialisti e Sinistra Arcobaleno avevano il 6,6% alle politiche (circa 133mila voti). Oggi Prc-Pdci e sinistra e Libertà sono all8,6% (più di 180mila voti). «Il che porrà al Pd anche in Toscana - riflette Floridia - la necessità di riflettere sulle alleanze». E in vista delle regionali del prossimo anno già si calcola che il Pd non potrà fare a meno nè dell’Idv, né di Sinistra e Libertà. Insieme avrebbero circa 1milione di voti (Martini fu eletto superando appunto il milione di voti). L’area comunista (Prc più Pdci, più Pcl) ha 130mila voti, mentre tutto il centrodestra (Udc compresa) arriva a 879mila, nel 2005 ne aveva 678mila.
Giù Berlusconi, su Bossi
Il che vuol dire che non c’è stata trasmigrazione di voti verso destra. Infatti il Pdl perde quasi 100mila voti rispetto alle politiche. E solo a Prato segna un più 1,8%. Altrove sono solo segni meno. A destra semmai l’exploit è della Lega Nord che raddoppia i propri consensi e che oramai col suo 4,32% in Toscana vale (come peso elettorale) l’Udc e supera Sinistra e Libertà che poteva contare sull’alleanza di Socialisti, Verdi, vendoliani e Sinistra democratica. Un campanello d’allarme che molti legano anche alla recente approvazione da parte della Regione della legge sugli immigrati che ha fatto scatenare a destra una campagna violentemente xenofoba.
A Prato, tanto per citare il dato di una realtà dove la presenza di immigrati (soprattutto cinesi) è rilevante Bossi è al 6,2%, in provincia di Lucca è al 6%, ha il 5% nell’aretino. Anche se poi i suoi punti di forza si registrano in Lunigiana, Garfagnana e fino al Casentino. Tanto che Floridia la definisce «Lega appenninica», ma fa notare anche che a suo avviso si tratta di un voto di protesta e cita il dato della Destra di Storace. 2,9% alle politiche (68mila voti), 0,4% questa volta: 60mila voti in meno. È la Lega al contrario dai 48mila voti del 2008 passa ai quasi 90mila di oggi.

l’Unità Firenze 9.6.09
Spini (all’8%) manda Renzi al ballottaggio con Galli
di Osvaldo Sabato


Ornella De Zordo ferma al 4%, Mario Razzanelli è al 3,3%, Marco Carraresi al 2,15% e il grillino Bonafede all’1,8%. In Comune il Pd supera il 35%, il Pdl è al 20,3%, Italia dei valori al 2,8% e la Lega all’1,3%.

Tutto rimandato al ballottaggio. Solo tra due settimane si saprà chi tra Matteo Renzi e Giovanni Galli sarà il nuovo sindaco di Firenze. Anche se il candidato del centro sinistra parte con un vantaggio superiore ai sedici punti. Infatti in 249 sezioni scrutinate su 361, Matteo Renzi è a quota 47,95% con 67.947 voti di preferenza. Nettamente più indietro è Giovanni Galli con il 31,75% pari a 44.994 voti. Ancora più distaccato, quindi escluso dal ballottaggio, è l’ex parlamentare Valdo Spini che con l’8,34% incassa 11.817 consensi. L’altra candidata sindaco della sinistra, Ornella De Zordo, nelle sezioni scrutinate tocca il 4% tondo con 5.663 voti. Mario Razzanelli, l’antitramvia per eccellenza, non va oltre il 3,34% con 4.716 preferenze. Il candidato sindaco dell’Udc di Casini, Marco Carraresi, con 3.048 voti è al 2,15%. Il grillino Alfonso Bonafede marca l’1,87% con 1.578 voti. Alla estrema sinistra la candidata sindaco del Partito Comunista dei Lavoratori, Cristina Lascialfari, prende solo lo 0,32% racchiuso in 268 voti. Superata da Paolo Poggi, in corsa come sindaco per la lista di destra Popolo Città Nazione, che incassa lo 0,32% con 268 voti.
I VOTI ALLE LISTE
I risultati provvisori delle liste vedono il Pd come primo partito in 249 sezioni fiorentine su 361. Il partito democratico a Firenze è al 35,49 con 44.010 voti; 2,84% per l’Italia dei Valori, le liste di Renzi (Facce Nuove e lista Renzi) sommano 7,35. Sempre nella coalizione di centro sinistra i comunisti fiorentini ottengono 1185 voti (0,96%%), 2.805 Sinistra per Firenze (2,26%). Nel centro destra a sostegno di Galli, il Pdl è al 20,32% con 25.200 voti, la Lega non supera i 1667 voti. L’alleanza di Spini registra un 3,91% della federazione dei Verdi e Repubblicani Europei, Rifondazione Comunista e i Comunisti Italiani hanno 3.462 (2,53%), Sinistra per la Costituzione 643 voti (0,47%). La lista civica di Ornella De Zordo “Perunaltracittà” ha 5030 voti (3,68). L’Unione di Centro di Marco Carraresi è al 2,33% con 3182 voti. Il comitato dei cittadini di Razzanelli porta a casa 4498 voti (3,29%). La lista civica di Beppe Grillo.it ottiene 2659 voti (1,94%). La destra Fiamma Tricolore 1048 voti (0,77%) e infine il Partito Comunista dei Lavoratori 379 voti (0,28%). Questi i dati provvisori. A pesare sul risultato inferiore alle aspettative, per Renzi, dunque, è stata la buona affermazione di due candidati sindaco di sinistra: Valdo Spini (appoggiato da Verdi, Prc e Pdci), che è all'8,44% e Ornella De Zordo (Perunaltracittà), che è accreditata al 4,02%.
Renzi ha comunque assicurato che al secondo turno non farà «accordicchi con nessuno», nè con le forze che appoggiano Spini e la De Zordo, nè con l'Udc, il cui candidato sindaco Marco Carraresi è al 2,18%. Ora la vera partita per la conquista di Palazzo Vecchio. «Renzi è scontento del risultato e dice che andremo al ballottaggio? È la prima volta che mi trovo d’accordo con lui». Questo il giudizio dell’ ex calciatore che si prepara così al ballottaggio. «Renzi - aggiunge - ha potuto contare su una campagna elettorale lunga un anno: nonostante ciò non è riuscito a spuntarla, come sosteneva. E soprattutto i fiorentini hanno deciso di interrompere la continuità con Domenici».

Repubblica 9.6.09
Renzi fallisce il colpo ma poi si riprende: "Ora mi metto ben bene a spalare di nuovo"
La sbandata all’ultima curva del bimbo che mangia i comunisti
"Ho questa immagine dell’arrogantello Voglio scrollarmela di dosso"
di Antonello Caporale


FIRENZE - Il bambino che mangia i comunisti, calembour elettorale assai fortunato, s´è fermato all´ultimo boccone. Al trentaquattrenne Matteo Renzi, un velocista in fatto di parole e di voti, la sinistra fiorentina ha presentato il conto intimandogli il fermo tecnico e la procedura del ballottaggio, altre due settimane di preghiere e parole. "Raga, sono un po´ deluso però ci si mette ben bene a spalare di nuovo".
I raga, cioè i cronisti accorsi al comitato elettorale, vergano la incipiente delusione: «Mi aspettavo il 48 in verità, siamo di due punti sotto ma molto meglio dello schieramento che sostenne Leonardo Domenici l´altra volta».
Avrà da chiedere i voti a Valdo Spini, figlio di Giorgio, eterno politico fiorentino che questa volta ha raccolto intorno al suo nome tutta la diffidenza che incute questo Renzi, giovane ma già così spigliato, così convinto di dove sia il bene e il male. Persuaso che nella vita bisogna fare più che pensare. Presuntuoso nel suo perfetto gessato blu, come egli stesso molto amabilmente ammette: «Ho questa immagine dell´arrogantello, del saccente. Voglio scrollarmela di dosso e andrò a mani nude, casa per casa a convincere la gente a darmi il voto. Tutto posso fare tranne che patti con i partiti. Con questi patti la vita della giunta Domenici è stata un inferno. Io ho cento cose da fare subito, ho un programma impegnativo capisci? O me o Giovanni».
Renzi è easy: una sua lista si chiama "Con Matteo", il suo sfidante è "Giovanni", i giornalisti "raga". Veloce con i pensieri e forte della sua convinzione: malgrado tutto i comunisti, che lo odiano assai, al ballottaggio avranno da scegliere tra lui e la poltrona di casa. Lo sfidante, l´ex portiere del Milan e della Fiorentina, un uomo candido che nessuno mai ha sentito incuriosirsi di politica, al quale nemmeno per sbaglio gli è capitato di dire una parola, una sola, fosse anche "piove, governo ladro".
L´ha chiamato Silvio Berlusconi in extremis, trasferendolo dai commenti mediaset al calcio della domenica nei dintorni di palazzo Vecchio. Galli, forte del suo 32 per cento assicura che al ballottaggio si trasformerà, "sarò un diavolo, solo non vorrei che tutto quest´altro tempo di battage elettorale noi venissimo a noia ai cittadini". Renzi, stupito: "Diavolo lui? E´ così buono".
Firenze comunque strattona il suo bambino e gli impone di ripassare bene i compiti. Spavaldo lo è e quando riuscì ad imporre all´elefante comunista fiorentino il suo nome fu preso dall´euforia e chiamò l´Italia a conoscerlo. Si fece subito riconoscere. Ci sono giovani e giovani. Lui, bravissimo naturalmente. Dario Franceschini, il segretario del suo partito, "un vicedisastro".
Adesso forse dovrà chiedere al vicedisastro di farsi una passeggiatina in città e persuadere, convincere, ammorbidire i recalcitranti. "Mi è giunta voce che in due sezioni due candidati del Pd hanno proposto il voto disgiunto", annota Matteo.
Ecco i nemici in casa, compagni coltelli, ecco i futuri consiglieri con i quali il concretista Renzi dovrà fare i conti per imporre nei primi cento giorni cento realizzazioni.
Dopo l´era non proprio fortunata di Leonardo Domenici, sindaco mai amato (e infatti alle europee la città si è scordata di lui liquidandogli pochi e indispensabili consensi) arriva, è pressocchè certo, il bambino-prodigio.
Non ci fosse stato Valdo Spini, che attesta le sue preferenze poco al di sotto del dieci per cento (che arrivano al quindici con l´aggiunta dell´altra lista della sinistra radicale), il galoppo verso il Municipio sarebbe stato inarrestabile. Invece Matteo all´ultimo boccone s´è lasciato cadere le posate in terra.
Tutto da rifare.

Corriere della Sera 9.6.09
Il candidato della sinistra
Spini decisivo: ora Franceschini deve mettere ordine
intervisa a Valdo Spini di A. Gar.


FIRENZE — Valdo Spini, ex socialista, ex Ds, ex ministro con Amato e Ciampi: lei potrebbe finire sul banco degli imputati. «Io? E perché mai?».
Come candidato sindaco, appoggiato da Rifondazione, Verdi, Comunisti italiani e altri, ha superato l’8% e ha spedito Matteo Renzi al ballottaggio.
«La mia candidatura risale a novembre. Nessuno mi ha mai cer­cato, da allora. E Renzi dopo le primarie di febbraio ha coltivato il sogno dell’autosufficienza».
Se l’avessero cercata, per un accor­do?
«Avrei guardato con attenzione i pro­grammi ».
Invece, cosa è accaduto?
«Da parte di Renzi c’è stata grande ag­gressività. Non ha ascoltato neanche D’Alema».
Cosa aveva detto, D'Alema?
«D’Alema è venuto a Firenze per soste­nere Renzi e ha pronunciato un discorso positivo. Ha definito 'legittima la candi­datura di un vecchio compagno come Val­do Spini', e ha aggiunto: 'Spero che lui e Renzi lavorino assieme'. Mi è dispiaciuto per il 'vecchio', ma è chiaro che parlava in vista del ballottaggio».
E Renzi come ha reagito?
«Più avanti, ha detto che votare per me era come votare per Berlusconi. Solo schiaffetti, schiaffi e schiaffoni».
Le sue liste e quella 'movimentista' della De Zordo hanno mandato Renzi al ballottaggio. La De Zordo ha rifiutato patti con Renzi. Cosa succede adesso?
«Renzi ha detto che non farà 'accordicchi' con nessuno, tanto meno con me. Ma io penso che il Pd, il suo partito, dovrebbe avere qualcosa da dire in proposito».
Che cosa?
«Io ho un atteggiamento fermo e tuttavia positivo, di apertura. Rappresento da una parte la società civile, dall’altra un certo risor­gimento della sinistra. Credo di meritare attenzione anche dai ver­tici del Pd, a Roma».
Si sta rivolgendo direttamente a Franceschini?
«Io credo che il Pd, anche a fronte delle difficoltà nazionali che attraversa, dovrebbe cogliere le possibilità di dialogo. Non posso­no lasciare tutto nelle mani di Matteo Renzi. Avranno qualcosa da dire anche loro...».
Si offre anche per partecipare al governo di Firenze?
«Questo è un discorso successivo. Si vedrà».
Renzi ha commesso errori in campagna elettorale?
«So che molti elettori hanno utilizzato il voto disgiunto: Pd e Spini sindaco. Elettori di sinistra che non ce l'hanno fatta a votare il cattolico Renzi. Sono stato protagonista di una vignetta di Stai­no. La figlia chiede a Bobo: 'Papà è vero che vai a cena da Valdo Spini?'. E Bobo: 'Sì, da quando è nato il Pd mi manca un po’ di laicità'».
Renzi potrebbe aver perso a sinistra, ma recuperato a destra?
«Questo è ciò che viene chiamato 'effetto lombrico'. Ma temo che abbia funzionato in modo diseguale: più voti persi che guada­gnati. Ora io offro la possibilità di ricucire a sinistra. Vogliono dav­vero buttarla via?».

l’Unità 9.6.09
Libano, Hezbollah sconfitti. Ricomincia la primavera
di Umberto De Giovannangeli


Il Libano ha scelto. Con il voto. Senza violenze. E ha decretato la vittoria della coalizione filo-occidentale «14 Marzo» che ha conquistato 71 dei 128 seggi nel Parlamento unicamerale.

La «Primavera di Beirut» non è sfiorita. Il suo volto è quello di Nayla Tueni, classe 1982, la più giovane donna ad entrare nel Parlamento libanese, vincitrice come indipendente nella coalizione filo-occidentale dell'aspra battaglia elettorale del distretto cristiano di Beirut: il padre di Nayla, Gibran Tueni, è stato per anni editore del quotidiano an Nahar, negli ultimi anni su posizioni contrarie alla tutela siriana in Libano, e per questo ucciso in un attentato nel 2005.
AVVERTIMENTI
«Non ci sono né vincitori, né vinti. Ha vinto il Libano», ha detto quando i risultati erano ormai chiari Saad Hariri, il leader sunnita della coalizione 14 Marzo che ha il sostegno dei Paesi occidentali e di quelli arabi moderati e che ora appare in pole position per l'incarico di primo ministro. Di fatto un’apertura all'opposizione guidata dal movimento sciita Hezbollah, che ha il sostegno di Siria e Iran e il cui leader, così come diversi suoi esponenti, avevano prospettato, in ogni caso, la formazione di un governo di unità nazionale. Sayyed Hassan Nasrallah, leader Hezbollah si è complimentato in tv con i vincitori: «Accettiamo i risultati».
Walid Jumblatt, il leader druso alleato di Hariri, si è più esplicitamente già detto a favore, ma ha anche già messo le mani avanti: l’opposizione non può avere diritto di veto nell'esecutivo. Allo stesso tempo, è subito tornato alla carica con l’esplosiva questione dell'arsenale di Hezbollah. Armi che, ha detto, «dovrebbero essere incorporate nell'esercito». Ma un deputato di Hezbollah, Mohammad Raad, ha subito replicato, avvertendo che «la maggioranza non deve mettere in questione la nostra legittimità come partito di resistenza e quella delle nostre armi». Proprio per avere l'accesso al governo con diritto di veto e per difendere la sua identità di «resistenza», Hezbollah ha scatenato nel maggio del 2008 un’offensiva a Beirut che ha causato oltre 60 morti.
EQUILIBRI PRECARI
In tarda mattinata, il ministro degli interni Ziad Baroud ha diffuso i dati ufficiali secondo cui Hariri e alleati avranno nel nuovo parlamento 71 seggi su 128. Appena uno in meno rispetto all’assemblea uscente. Ma i dati - oltre all'affluenza record del 54% - mostrano anche che Hezbollah e Amal rimangono incontestati campioni della comunità sciita, avendo eletto tutti i loro candidati nella parte Sud e Est del Paese. Così come mostrano che l'alleato cristiano di Hezbollah, Michel Aoun, ha perso a Beirut e Zahle, grande città cattolica nella valle della Bekaa. Ha stravinto però nelle circoscrizioni del Monte Libano e rimane il più potente esponente della comunità cristiana. «Le elezioni hanno mantenuto lo status quo tra maggioranza e opposizione» osserva il presidente del Parlamento uscente, Nabih Berri, che con il suo movimento sciita Amal è uno stretto alleato di Hezbollah e che probabilmente verrà confermato a capo della nuova assemblea.
Sollievo e auguri
Uno status quo che però sembra soddisfare molti. Congratulazioni ai vincitori sono arrivate rapidamente dal Cairo e da Riad, ma anche da Roma, da Parigi e da Washington, dove il presidente Barack Obama ha affermato che le elezioni hanno dimostrato «il desiderio di sicurezza e prosperità dei libanesi». Gli Usa, garantisce Obama, «continueranno a sostenere un Libano indipendente e sovrano e impegnato per la pace».

l’Unità 9.6.09
La procura concentra l’indagine su 5 viaggi svolti tra fine maggio e giugno 2008
All’epoca era in vigore la direttiva Prodi, che chiedeva il pagamento di quote per ogni ospite
Voli di Stato: Ghedini rivela i nomi di quattro ospiti
di B. DI G.


Primi nomi degli ospiti dei voli di Stato sotto la lente della magistratura. L’avvocato del premier parla di artisti invitati alla festa di Topolanek. Il Codacons chiede l’intervento della Corte dei Conti.

Nella «Caporetto di Olbia», quel 24 maggio che portò il cantante Mariano Apicella in Sardegna su un volo della presidenza del consiglio, spuntano nuovi nomi. Ad «approfittare» del passaggio aereo pagato dai contribuenti furono anche altre persone. Per esempio «la cantante Maria Adelina, l'attore Antonio Murro, il pianista Danilo Mariani e l'onorevole Valentini». È l’onorevole Niccolò Ghedini a fornire la prima lista, anche in veste di legale del premier. L’inchiesta della procura su quei voli, infatti, va avanti. Sotto la lente dei magistrati 5 voli sospetti e dieci ospiti da identificare. La procura si concentra sul periodo tra maggio e giugno del 2008, periodo in cui Silvio Berlusconi era già a Palazzo Chigi, ma era ancora in vigore il regolamento restrittivo su quei voli imposto dal governo Prodi. L’ex primo ministro aveva imposto il pagamento di quote extra per gli estranei ospitati su quei voli.
artisti
L’onorevole/avvocato Ghedini spiega a Repubblica.it che quel 24 maggio il giorno in cui furono scattare le foto che hanno fatto aprire l'inchiesta, «a bordo di quell'aereo c'erano diversi artisti che dovevano partecipare allo spettacolo organizzato quella sera per il soggiorno dell'ex ministro ceco Topolanek». Non appena si diffondono i nomi, sui blog parte una sorta di caccia all’artista, del tipo: «Maria Adelina? E chi è?». Insomma, gli ospiti non si iscrivono nelle schiere delle celebrità. Tra quei nomi, poi, anche quello di Valentino Valentini, deputato del Pdl e in passato nella segreteria di Palazzo Chigi. Forse è l’unico che a buon diritto utilizza l’aereo di Stato. Ghedini precisa che i passeggeri «non sono costati un soldo in più al contribuente». Ma è davvero così?
costi
Ci pensa il Codacons a far sorgere qualche dubbio. L’associazione dei consumatori, infatti, chiede l’intervento della Corte dei Conti sull’intera vicenda. «La normativa Prodi - spiega Carlo rienzi, presidente dell’associazione - chiedeva un contributo di 300 euro per i voli nazionali, 600 per voli in Europa e 900 per tutti gli altri, voli obbligando anche a versare tali somme sul c/c postale della presidenza. I relativi importi dovevano essere riassegnati all’Aeronautica militare. Ma c'è di più: la stessa direttiva prevedeva che giornalisti e collaboratori ammessi ai voli di Stato avrebbero dovuto provvedere con propri mezzi al trasporto da e per gli aeroporti di partenza e destinazione». Tutte disposizioni cancellate dall’articolo 5 della direttiva Berlusconi, di cui il Codacons chiede la sospensione.
In queste ore il procuratore della Repubblica di Roma Giovanni Ferrara, il procuratore aggiunto Achille Toro ed i sostituti Ilaria Calò, Giuseppe Saieva e Simona Maisto, stanno esaminando le migliaia di foto sequestrate al fotoreporter Antonello Zappadu per identificare gli ospiti del premier a Villa Certosa che hanno usufruito dei voli. Entro questa settimana il fascicolo sarà trasmesso al collegio competente per i reati ministeriali con le richieste della procura. Contemporanemente sarà trasmesso alla procura di Tempio Pausania il fascicolo per violazione della privacy e truffa, che vede indagato Zappadu per le foto scattate all'interno di Villa Certosa.

l’Unità 9.6.09
La teoria della relatività in rima funziona bene lo stesso?
di Pietro Greco


La forza delle rappresentazioni scientifiche, da Galilei a Einstein, ha affascinato poeti, scrittori e stimolato i filosofi. Ma anche le opere d’arte e letterarie possono parlare alla maniera della scienza.

Su Einstein si sa tutto, o quasi. Ma forse non è molto noto un esempio di «traduzione» della teoria della relatività in linguaggio letterario. Un poeta-filosofo come Paul Valéry, che apprezzò e conobbe Einstein, tentò nel 1924 di scrivere un poema su Einstein, come risulta da un appunto dei suoi Cahiers, che riporta anche la testimonianza diretta fornita da Jérôme Franel, matematico suo amico e docente di Einstein a Zurigo.
Valéry non si propone un generico poema sull’opera di Einstein, ma una vera e propria messa in versi della formulazione del calcolo differenziale assoluto, quel complesso strumento matematico che fu necessario per la definizione della teoria della relatività generale e che impegnò a lungo lo stesso Einstein. L’ipotesi, fallita, testimonia la figuratività astratta della poetica di Valéry e la sua idea del rapporto stretto tra purezza poetica e rigore matematico. Molto più efficace fu il rapporto tra la teoria della relatività e la filosofia del ’900.
Si può riconoscere un circolo virtuoso tra pensiero scientifico e filosofico: lo stesso Einstein dichiara che la riflessione filosofica di Hume e di Mach lo stimolò nell’elaborazione della teoria della relatività, mentre la filosofia della scienza ha fatto tesoro del pensiero scientifico di Einstein per rinnovare o abbandonare i modelli gnoseologici tradizionali, di impostazione prevalentemente positivistica e neokantiana.
Tramite la lettura dell’opera scientifica di Einstein filosofi di solide competenze fisiche, come Ernst Cassirer e Gaston Bachelard e, nell’ambito del nascente empirismo logico, Moritz Schlick (allievo del teorico dei quanti, Max Planck) e Hans Reichenbach (uno dei cinque allievi del primo corso di Einstein sulla teoria della relatività all’Università di Berlino nel 1919), danno avvio all’epistemologia del ’900, uno tra i settori più rilevanti della filosofia contemporanea. La comparsa del termine «epistemologia» agli inizi del ’900 non è causale: indica l’emergere di una nuova specializzazione filosofica che mette in gioco insieme le competenze degli scienziati militanti e dei filosofi della scienza. Le teorie fisiche di Einstein favoriscono la nascita dell’epistemologia contemporanea, sia apportando nuovi concetti al sapere filosofico (basti pensare alla critica della simultaneità e allo spazio-tempo), sia favorendo la limitazione del campo della filosofia della scienza all’analisi dei contenuti e dei criteri di validità delle teorie scientifiche. La corrispondenza, non casuale, tra la nascita dell’epistemologia e quella della teoria della relatività appare la migliore espressione del circolo virtuoso innescato dalla teoria della relatività e dell’impatto che essa ha avuto nel più vasto panorama della filosofia novecentesca della scienza.
ANNUNCIO SUGLI ASTRI
La produzione di nuova conoscenza scientifica ha, spesso, una forza tale da determinare cambiamenti di paradigma anche in contesti culturali in apparenza molto lontani. È il caso, per esempio, delle novità astronomiche in cui si imbatte Galileo nel 1609, quattrocento anni fa, quando punta il cannocchiale e vede «cose mai viste prima». La portata scientifica e anche filosofica di quelle osservazioni è enorme e in questi mesi se ne parla diffusamente. Meno noti, forse, gli effetti sulla letteratura. Galileo, infatti, pubblica i risultati delle sue prime osservazioni in un libretto, il Sidereus Nuncius, uscito dalla tipografia Baglioni a Venezia il 12 marzo 1610, che costituisce il prototipo di un genere letterario nuovo, il report scientifico. Un genere in cui i fatti sono raccontati in maniera ordinata, con una prosa asciutta, essenziale, in modo che «tutto sia comprensibile a tutti». Nulla del genere si era mai visto prima, in letteratura. Con quel nuovo genere letterario Galileo raggiunge una capacità espressiva così alta da indurre Italo Calvino a eleggerlo a «scrittore più grande della letteratura italiana». Un giudizio sostanzialmente condiviso da Giacomo Leopardi.
Le vicende di Einstein e di Galileo, dunque, dimostrano quanto artificiosa sia quella separazione tra «le due culture» denunciata, esattamente 50 anni fa, dallo scienziato inglese C. P. Snow e ormai diventata un luogo comune. Il più infondato dei luoghi comuni.
Sarebbe pertanto augurabile che anche l’attuale filosofia della scienza fosse attenta alle trasformazioni della fisica-matematica, discutendo ad esempio sul significato epistemologico della teoria delle superstringhe e della supersimmetria, nel contesto di un presunto superamento della divaricazione tra modelli discreti della meccanica quantistica e continui della fisica relativistica, tanto discussa e criticata da Einstein.
E sarebbe auspicabile che la letteratura italiana tornasse, come proponeva Italo Calvino, a coltivare la sua «vocazione profonda» per la filosofia della natura. La scienza potrebbe così avere, come voleva Bachelard, «la filosofia che si merita», e la cultura letteraria, filosofica e scientifica ritroverebbe, se non punti di unione, almeno efficaci momenti di traduzione e di contaminazione, per il bene della democrazia.

Repubblica 9.6.09
La scimmia sorrise prima dell´uomo
di Elena Dusi


In una foresta africana 16 milioni di anni fa risuonò lo scoppio di ilarità di un primate
Una studiosa dell´università di Portsmouth ricostruisce i suoni di oranghi e gorilla

La prima risata risuonò in una foresta africana sedici milioni di anni fa. Cosa ci fosse da essere allegri quel giorno resterà per sempre un mistero. Di certo però a ridere per primi non furono gli uomini, ma i loro antenati primati. Come conferma uno studio pubblicato su Current Biology, quando mostrano i denti e soffiano corrugando le guance, le scimmie esprimono felicità e gioia di stare insieme, esattamente come noi. E visto che percorrendo a ritroso la storia evolutiva di oranghi, gorilla e scimpanzé, si finisce in una foresta africana di 10-16 milioni di anni fa, proprio quello dev´essere stato lo scenario del primo scoppio di ilarità.
Alla conclusione, la primatologa Davila Ross dell´università di Portsmouth, è arrivata dopo aver fatto il solletico sul collo, sotto i piedi e le ascelle a 22 esemplari di 4 specie diverse di primati e a tre cuccioli d´uomo. Dopo aver registrato più di 800 risate diverse, ha confrontato i suoni emessi da oranghi, gorilla, scimpanzé, bonobo e bambini e li ha posizionati lungo una linea che rappresenta la storia delle varie specie. A specie vicine dal punto di vista evolutivo, ha notato, corrispondono modi di ridere simili. Specie distanti dal punto di vista evolutivo esprimono invece la loro ilarità con suoni e gesti meno sovrapponibili.
Il fatto che l´albero genealogico della risata coincida con quello dell´evoluzione, indica secondo i ricercatori inglesi che sghignazzare è un costume legato alla nostra storia da molti milioni di anni. Ma vuol dire anche che il fenomeno è più antico dell´uomo, e non esiste soluzione di continuità fra il nostro modo di esprimere allegria e quello degli altri primati. «In effetti, basta guardarli per capire che dietro alle loro espressioni facciali c´è il riso» dice Elisabetta Visalberghi, primatologa e dirigente di ricerca del Consiglio nazionale delle ricerche. «Gli scimpanzé sono capaci di ridere anche da soli, mentre si rotolano. Ma tutte le altre scimmie hanno bisogno di essere in compagnia e in un contesto di gioco. Fra loro, a differenza degli umani, il riso non è contagioso. Ma il fenomeno riguarda sia i cuccioli che gli adulti e dall´espressione facciale si intuisce chiaramente che nasce da un sentimento di allegria e dalla voglia di giocare».
Anche se il ridere umano e quello dei primati ha le stesse radici, secondo Davila Ross, negli ultimi cinque milioni di anni l´evoluzione ha portato rapidamente la nostra specie a sviluppare un suono più ritmato e composto rispetto a quello delle scimmie. Negli uomini la vibrazione delle corde vocali avviene a frequenze e ritmi più regolari rispetto a gorilla, oranghi e scimpanzé. I nostri cugini in un salotto buono darebbero l´impressione di essere davvero sguaiati con i loro suoni simili a grugniti. Mentre la nostra specie ride solo espirando, le scimmie riescono a farlo anche mentre ingoiano aria, dando al loro sghignazzare un ritmo sincopato e ansimante.
Ma se fare il solletico a un cucciolo di scimmia dà vita a esperimenti scientifici pieni di allegria, meno agevole sarà proseguire la linea di ricerca intrapresa alla Washington State University da Jaak Panksepp. Il ricercatore americano ha infatti scoperto che anche i topi ridono quando giocano o vengono solleticati. Il loro squittio di ilarità è troppo acuto per essere percepito dal nostro orecchio, ma conferma che l´esperienza del ridere andrebbe ben oltre la famiglia di uomini e scimmie e nascerebbe da un circuito ancestrale del cervello. La scoperta, potrebbe aprire le porte poi a nuovi studi sul senso dell´umorismo di topi, primati e altri animali.