lunedì 15 giugno 2009

l’Unità 15.6.09
Il premier teme il complotto e attacca
D’Alema: è un leader dimezzato. Ci sarà una scossa. L’opposizione sia pronta
Gli amici se ne vanno
di Concita De Gregorio


Naturalmente non c’è nessun complotto ai danni di Berlusconi. Non da parte della sinistra, come in modo piuttosto patetico il presidente del Consiglio vorrebbe far credere: sarebbe il primo caso al mondo di autogolpe, scriveva ieri Giovanni Maria Bellu, il presunto complotto essendo costituito dai comportamenti del premier medesimo. Caso Mills e corruzione eletta a sistema, voli di Stato e uso privato di beni pubblici, Noemigate - farfalline e minorenni - denunciato per primi dalla Fondazione Farefuturo di Fini e dalla moglie della vittima. Sono fatti. Quel che disturba Berlusconi è che ci sia qualcuno che li riferisce: «Io li rovino», ha detto qualche settimana fa ai suoi riuniti a palazzo Grazioli. Intendeva giornali e giornalisti. Sabato ha iniziato l’opera: ha chiamato l’industria italiana a non comprare pubblicità sui media (pochi) che non dipendono da lui. Pensa di rovinarli così, togliendo i soldi. È un sistema. Nella sua logica deve sembrargli l’unico: pagare o non pagare, questo è tutto. Non c’è nessun complotto, ovviamente, nemmeno da parte della destra come in modo altrettanto patetico i giornali e le tv che invece dipendono da lui (molti, quasi tutti) ieri cercavano di illustrare: non c’è un Bruto pronto ad accoltellarlo. È tutto molto più semplice. Silvio Berlusconi, lo abbiamo scritto il giorno del voto, ha perso le elezioni. La destra (in specie la Lega) le ha vinte, lui le ha perse: ha perso il plebiscito che si aspettava, quattro milioni di voti e sono stati meno di tre, il 45 per cento ed è stato il 35. Una sconfitta personale che era nell’aria da settimane. I nostri lettori ricorderanno che il 2 giugno, all’indomani del grande ricevimento al Quirinale, titolammo questa pagina «Assediato da se stesso»: al Colle uomini solitamente a lui vicini (ex alleati e attuali sottosegretari, signori dell’Opus Dei e centristi, ministri e imprenditori di gran nome) parlavano di una possibile sua sostituzione, al governo, all’indomani del voto. Perché i cattolici lo hanno abbandonato, perché Fini gli è ostile, perché la Lega è più forte. Per ragioni personali, anche: perché non sta bene, perché la passione per le ragazze occupa troppo del suo tempo. Dunque Letta, si diceva e si dice.
Letta che da molte settimane non si vede e tace. Letta o chiunque altro abbia la forza e il consenso necessario per fare da solo le riforme. Questo teme e sente Berlusconi: che gli suggeriscano di lasciar fare ad altri. Si infuria, allora: non è uomo capace di accettare sereno la quarta età privata e politica, l’idea di arretrare deve sembrargli una provocazione e un agguato. Piuttosto fa da solo e fa prima: fa subito. Così si capisce meglio cosa intenda Massimo D’Alema quando dice che potrebbe esserci «una scossa», un salto di qualità nella deriva autoritaria. Potrebbe farsi corrompere dal desiderio di mostrare il suo ultimo sussulto di vigore: battere il pugno adesso. Ci sono pessimi segnali, del resto: certe inchieste proseguono, i suoi plenipotenziari nel mirino, denunce in cammino che nemmeno Ghedini riesce a fermare. Allora serve un’opposizione pronta a fare la sua parte: vigile forte e reattiva, D’Alema ha ragione. Non distratta dalla battaglia precongressuale, per esempio. Un incoraggiamento a Franceschini, diciamo.

l’Unità 15.6.09
La Dda di Napoli indaga su eventuali legami tra papà Letizia e il clan dei Casalesi
Bossi e Noemi: il tramonto del premier spaventa il Pdl
di Enrico Fierro


Restano tutte intatte le voci sul passato del papà di Noemi Letizia. Addirittura si ipotizza un legame con la famiglia dei Letizia, storico gruppo di fuoco legato al clan dei Casalesi.

Alle «scosse» di Massimo D’Alema il centrodestra risponde con il solito fuoco di fila dei dichiaratori a oltranza. Tutti a dire che no, movimenti tellurici non ce ne saranno, quello del ribaltone è un desiderio di D’Alema, una botta di caldo, il governo va avanti. Con Berlusconi. Ma, chiusi i microfoni e riposti i taccuini in tasca, qualche ammissione sulle preoccupazioni dentro le fila del Pdl arriva. «La Lega - ci dice un parlamentare “azzurro” della prima ora da tempo non più nelle grazie del Cavaliere - tiene per il momento. Bossi ha giurato fedeltà a Berlusconi. Ma fino a quando? Se si scatena di nuovo la tempesta Noemi, sarà difficile anche per il leader leghista tenere a freno la sua base». L’onorevole non dice di più, ma quello che è certo è che nella «crisis room» di Palazzo Grazioli sono in tanti a temere nuovi e clamorosi sviluppi del Casoria-gate. Se la vicenda dei rapporti tra il Cavaliere e la ninfetta di Portici è ormai chiara all’opinione pubblica, le «scosse» potrebbero arrivare da nuove rivelazioni sul papà di Noemi, Benedetto Elio Letizia. L’uomo del mistero. Nessuno, fino a questo momento, è riuscito a ricostruirne il passato. «Personaggio grigio, sfuggente, uno che nuota sempre un pelo sottacqua», dice chi lo conosce bene. Ad infittire il mistero hanno contribuito, e non poco, le bugie di Berlusconi. Ex autista di Craxi, militante di Forza Italia, suggeritore di candidature. Tutto smentito.
L’INCHIESTA
Nei giorni passati il periodico di inchiesta «La Voce della Campania» ha pubblicato una copertina dal titolo più che eloquente: «Isso essa e ‘a malavita». Foto di Berlusconi, Noemi e di Franco e Giovanni Letizia, due camorristi del clan dei casalesi. Nelle pagine interne un lungo articolo. «Il cerchio delle coincidenze comincia a stringersi. E prende corpo l’ipotesi che Benedetto Letizia detto Elio, sia originario dello stesso ceppo di Casal di Principe dal quale provengono Franco e Giovanni Letizia, gruppo di fuoco del boss Giuseppe Setola», si legge. L’inchiesta si conclude con la notizia di indagini da parte della procura distrettuale di Napoli su eventuali collegamenti e parentele tra i Letizia di Secondigliano, quartiere nel quale ha vissuto il papà di Noemi, e i Letizia di Casal di Principe. Retroscena, illazioni, notizie «tirate»? Sta di fatto che l’inchiesta è uscita il 29 maggio e che non ha ricevuto alcuna smentita, né dalla famiglia Letizia, né dalla procura. Forse il cratere del terremoto prossimo venturo è a Casoria, l’epicentro nel passato di Elio Letizia. Se questo accadrà, la previsione di D’Alema non è poi tanto campata in aria. «È Berlusconi a produrre le scosse, è lui a produrre instabilità e a scuotere l’equilibrio di governo con la denuncia di presunti complotti», ha aggiunto nel pomeriggio di ieri l’ex ministro degli Esteri.
Insomma, il problema è tutto in un capo del governo uscito «dimezzato» dall’affaire Noemi. E che grida al complotto. Se «Libero» ieri raffigurava in copertina un Berlusconi-Cesare accoltellato da Bruto, «Il Riformista» nei giorni scorsi elencava i nomi di un possibile «governo dei migliori». D’Alema, Tremonti, Casini e Fini. Che potrebbero trovare - suggerisce il presidente emerito Francesco Cossiga - nel governatore della Banca d’Italia Mario Draghi un punto di sintesi e di accordo. Fantapolitica? Forse. Per il momento qualcosa si muove negli ambienti finanziari. E riguarda i giornali. Se Berlusconi invita gli industriali a fargli mancare l’ossigeno della pubblicità, alcuni grossi gruppi bancari si stanno muovendo in senso nettamente contrario. Si parla di significative iniezioni di investimenti pubblicitari per aiutare i quotidiani ad affrontare la crisi. Sì, proprio quella stampa-maledetta che nelle prossime settimane potrebbe essere chiamata a raccontare la «scossa».

Repubblica 15.6.09
Il fantasma necessario del “disfattismo”
di Adriano Prosperi


Disfattismo: la parola appare improvvisa in una lingua che l´aveva dimenticata. Nel «Lessico di frequenza della lingua italiana contemporanea» che nel 1971 il Cnuce di Pisa pubblicò sulla base di un campione di 500.000 parole d´uso tra il 1947 e il 1968 troviamo la parola «disfatta» ma non troviamo «disfattismo».
C´era voluta la disfatta della guerra per far tacere la voce di un regime che per vent´anni aveva sistematicamente fatto uso dell´accusa di disfattismo. E infatti basta varcare il confine del 1945 per trovare un uso sistematico di quell´accusa. Non sono più molti oggi gli italiani che l´hanno ascoltata nei raduni oceanici del regime fascista o gridata da una voce stentorea attraverso la radio. E solo l´ignoranza diffusa della nostra storia e la mancanza di una cultura politica degna di questo nome spiega perché manchi oggi una capacità collettiva del nostro paese di riconoscere l´apparizione di un termine chiave della nostra storia novecentesca . Il mondo è cambiato, la società italiana è oggi sideralmente lontana nei consumi e nello stile di vita da quella dei tempi del primo Cavaliere, i mezzi di comunicazione sono dotati di un´efficienza e di una capillarità allora inimmaginabili. Ma quella parola che affiora nel linguaggio del presidente del Consiglio è come una macchina del tempo. Di più , è un marcatore genetico. Ci riporta agli anni venti del secolo scorso. Svela il binario obbligato su cui corre il treno dell´avventura politica oggi in atto. Contro il disfattismo dei socialisti e la debolezza dei liberali, responsabili di dividere il paese e di criticare chi aveva voluto l´ingresso in guerra, Benito Mussolini pronunziò un celebre discorso il 3 aprile 1921 nel teatro comunale di Bologna: l´attacco era fatto in nome di una «stirpe ariana e mediterranea» da parte di un capo che chiamava a raccolta contro il nemico interno. Il filo dell´attacco al disfattismo non si interruppe qui. Fu il leit motiv della propaganda del regime.
Se rievochiamo queste vecchie cose non è per tornare sulla questione generale se quello che si presentò anni fa come il «nuovo che avanza» sia in realtà qualcosa di molto vecchio, se il berlusconismo sia classificabile come fascismo. Quello che si presenta è una nuova declinazione di qualcosa che appartiene alle viscere profonde della storia italiana, alle magagne della nostra società, alle questioni non risolte nel rapporto tra gli italiani e il passato del paese. E´ il linguaggio del leader a svelare che il regime che giorno dopo giorno avanza nel nostro paese tende a riproporre qualcosa che l´Italia ha già conosciuto. Il disfattismo fu per il regime fascista un fantasma necessario, continuamente evocato, il responsabile a cui imputare le difficoltà e gli insuccessi. La voce del Capo si alzava non tanto per denunziare le trame dei disfattisti di professione, quel pugno di antifascisti «soli, solissimi», come ha scritto Vittorio Foa. Per loro, per seguirne i passi, in Italia e all´estero, per eliminarli all´occorrenza, bastavano l´Ovra e i sicari. No: il disfattismo era per il regime il nemico per definizione, l´unico nemico che potesse minacciare un sistema in cui il Capo doveva realizzare l´ideale supremo della democrazia organica, della fusione mistica del popolo nel leader. E tanto più insistente fu la campagna contro il disfattismo quanto più in profondità penetrava l´adesione collettiva al regime, quanto più generalizzato fu il consenso.
Consenso: questa è la parola che figura nel titolo di un volume della biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice. Da lì data la sconfessione di una falsa immagine della nostra storia. La favola bella che fu raccontata dopo la Liberazione all´Italia che si scopriva insieme sconfitta e vittoriosa fu quella di un antifascismo originario e diffuso che era sfociato naturalmente nella Resistenza. Oggi sappiamo che non era vero. Sappiamo che gli italiani erano stati profondamente corrotti dal regime fascista. La corruzione era consistita proprio nella continua denunzia del disfattismo, nella costruzione passo dopo passo di un sistema di unità organica tra popolo e capo che permettesse al capo di riassumere ed esprimere i bisogni del popolo, di rispondere a ciò che la gente voleva, al di là di ogni mediazione. In fondo, possiamo parlare del fascismo come di una forma speciale di democrazia: una democrazia che eliminava le mediazioni faticose dei sistemi rappresentativi nel momento stesso in cui cancellava le barriere che impedivano al potere del Capo di operare. Era per eliminare il disfattismo che bisognava sostituire la voce del regime alle discordanti voci della libera stampa e trasformare le istituzioni di una monarchia parlamentare in canali di unione organicistica tra il Capo e il suo popolo. E quando, con i Patti Lateranensi, anche la Chiesa dette il suo fondamentale contributo al pieno dispiegarsi di una saldatura completa tra il paese e «l´uomo della Provvidenza» la lotta al disfattismo fu coronata da due provvedimenti emblematici: il giuramento di fedeltà dei professori e la riapertura del tesseramento perché tutti potessero entrare in un partito che non era più una parte ma il tutto. Fu allora che almeno un italiano parlò di un processo di corruzione che stava minacciando tutti: un processo che poteva e doveva essere contrastato. Leone Ginzburg sostenne che non si dovevano condannare gli italiani che per ragioni di necessità avevano chiesto quella tessera, ma bisognava incoraggiarli a non fare altri passi sul terreno della corruzione.
Oggi il discorso sulla corruzione degli italiani è di tipo diverso ma non meno grave. La saldatura tra popolo e leader si nutre del progressivo svuotamento dell´etica civile, fatto di leggi e di decreti di breve e brevissimo respiro, di una continua aggressione alle istituzioni rappresentative, alla divisione dei poteri dello Stato, alle istituzioni giudiziarie e alla legalità. Alla violenza fascista si è sostituita la persuasione di un abile management delle emozioni collettive e una sostituzione dell´evasione e del sogno alla durezza dell´irrreggimentazione. Ma l´esito è identico: si chiama corruzione e affonda le radici in un vuoto di memoria e di cultura civile. Se il consenso massiccio della popolazione al regime di Mussolini è una verità storica acquisita, questa verità non ha operato nel senso giusto, non ha spinto le istituzioni della Repubblica e la coscienza degli italiani a fare i conti con la nostra storia con la radicalità e la durezza con cui i tedeschi hanno fatto i conti col nazismo. Solo tenendo conto di questo si può risolvere l´enigma di un consenso collettivo appena incrinato da episodi che altrove avrebbero costretto ogni statista decente a dimettersi. Un paese che dimentica la propria storia è condannato a ripeterla.

Repubblica 15.6.09
Idv-Pd, l’opposizione senza speranza
Quei voti venuti dall’antipolitica hanno fatto volare Di Pietro ma ora tradiranno i democratici
di Ilvo Diamanti


Alle amministrative i suoi elettori hanno preferito votare contro i democratici, scegliendo altre liste di sinistra
L´Italia dei valori ha raddoppiato i consensi elezione dopo elezione: ora sono arrivati a 2,4 milioni

Per ragionare intorno al futuro del centrosinistra oggi bisogna fare i conti con Di Pietro e l´Italia dei Valori. Artefice di una crescita elettorale inarrestabile negli ultimi anni.
Raddoppiato di consultazione in consultazione: 2,1% alle europee del 2004; 4,4% alle politiche del 2008 fino all´8% alle europee di una settimana fa. Una progressione altrettanto clamorosa misurata in termini assoluti: circa 700 mila voti nel 2004, quasi 1 milione e 600 mila nel 2008, 2 milioni e 400 mila il 6-7 giugno scorsi. Quarto partito in Italia, in ordine di grandezza. Due punti sotto all´altro vincitore delle recenti europee: la Lega Nord. Rispetto a cui l´Idv è per molti versi simmetrica. Anzitutto per geografia (rinviamo al dossier "L´Italia a colori": www.demos.it). Infatti, è particolarmente forte nel Centrosud, dove supera largamente il 9%. Inoltre, fra le 15 province dove raccoglie più consensi, una sola è del Nord: Torino (10,7%). Le altre, invece, sono nel Centrosud. Nel Molise, enclave del leader Antonio Di Pietro. Ma anche in Basilicata e in Calabria, dove operava l´ex procuratore De Magistris. E a Palermo, la città di Leoluca Orlando. Ciò chiarisce che la geografia dell´Idv dipende, in qualche misura, da motivi "personali". Una ulteriore specificità emerge in chiave storica. Le zone di forza dell´Idv hanno una tradizione di destra. Nelle 26 province dove il partito alle europee ha ottenuto le percentuali più elevate, il MSI nella prima Repubblica e successivamente AN conseguivano risultati molto superiori alla media nazionale. L´Idv, tuttavia, non è figlia della destra. Ma ne condivide, in parte, il retroterra. E dunque alcune ragioni. Fra cui la domanda di sicurezza.
In terzo luogo, l´Idv ha un impianto urbano e metropolitano. È più forte nei comuni oltre i 20 mila abitanti e soprattutto nelle città oltre i 100 mila. Secondo una analisi dell´Ipsos, inoltre, gli elettori dell´Idv superano largamente la media tra i giovani, tra le persone con titolo di studio più elevato (diplomati e laureati). E quindi fra gli studenti, i funzionari, gli impiegati "intellettuali", i dirigenti pubblici ma anche privati.
Gli atteggiamenti degli elettori dell´Idv (attraverso i sondaggi condotti da Demos nell´ultimo anno) sottolineano 3 orientamenti specifici, molto marcati.
1) L´importanza attribuita al ruolo "moralizzatore" e al tempo stesso "rivoluzionario" della giustizia. In particolare dei magistrati, verso i quali gli elettori dell´Idv manifestano un grado di fiducia molto più elevato della media. D´altra parte, i leader dell´Idv sono due magistrati-simbolo. Il fondatore, Antonio Di Pietro, icona di Tangentopoli. E Luigi De Magistris, che ha superato perfino Di Pietro, per numero di preferenze. Emblema del contrasto con il potere politico in tempi recenti. Leoluca Orlando, l´altra figura rappresentativa del partito, evoca la stagione del cambiamento (mancato) del Mezzogiorno negli anni Novanta. Oltre alla lotta antimafia.
2) La sfiducia nei partiti, nelle istituzioni. In altri termini: il sentimento antipolitico contro la "casta" che comanda il paese. Sottolineato dal larghissimo seguito riconosciuto a Beppe Grillo.
3) Per ultimo, la totale, incondizionata, irriducibile avversione verso il premier e leader del Pdl, Silvio Berlusconi.
L´Idv canalizza, dunque, l´insoddisfazione di molti e diversi settori. La frustrazione dei contesti del Centrosud che si sentono trascurati dallo Stato. Coloro che recriminano sulla rivoluzione mancata del 1992. Il popolo di Grillo e quanti contestano il ceto politico, i partiti, l´informazione. Componenti e gruppi della sinistra radicale. Ma anche una quota di esuli del Pd e dell´Italia post-democratica che li circonda.
L´Idv è come un autobus dei malesseri socio-politici e, al tempo stesso, un "cane da guardia" della democrazia, contro tutti quelli che la minacciano. Anzitutto, Silvio Berlusconi. Ma anche le forze di opposizione che non fanno opposizione: il Pd. E le istituzioni che dovrebbero vigilare ma non lo fanno. Presidente della Repubblica compreso. Più che il partito dei magistrati, un "partito-magistrato". Che ha riferimenti precisi: riviste (MicroMega), giornalisti e trasmissioni (Santoro, Travaglio e AnnoZero su tutti), comici e dissacratori (Grillo ma anche la Guzzanti).
Più che un´alternativa politica tende ad essere un´alternativa "alla" politica. Almeno: a "questa" politica. Un network che si compone e scompone a seconda del momento e del contesto. Come si è visto in alcune importanti città dove si è votato una settimana fa per il Comune, la Provincia e l´Europa, contemporaneamente. A Bologna: l´Idv ha ottenuto circa il 9% alle europee, l´8% alle provinciali e solo il 4,4% alle municipali. A Firenze: l´8% alle europee, il 7% alle provinciali e meno del 3% alle comunali. In entrambi i casi l´Idv è nella coalizione a sostegno del candidato sindaco del Pd. In entrambe le città oltre metà degli elettori dell´Idv hanno preferito votare per altre liste di sinistra (oppure vicine a Grillo) piuttosto che per il candidato del Pd. Anzi: hanno votato contro di esso. Impedendone l´elezione al primo turno. L´Idv. Appare, quindi, efficace come soggetto e strumento di opposizione. Ma non di progetto, né di governo. E neppure di aggregazione. Il suo successo, invece, rende più evidenti i limiti del Pd. Franceschini ne ha evitato la scomparsa, ma non il declino sostanzioso. Ci riesce difficile vederlo come il leader in grado di dare speranza agli elettori del Pd, che non si rassegnano a una vita da antiberlusconiani. Ma vorrebbero diventare maggioranza di governo. Domani, non fra cinquant´anni. Tuttavia, gli sfidanti annunciati - Bersani, lo stesso D´Alema - hanno avuto, e in parte sprecato, molte altre occasioni, in altri tempi. Non le hanno sapute sfruttare allora. Perché dovrebbero riuscirci adesso? Da ciò il problema del centrosinistra, sottolineato da queste elezioni. Nelle quali si è affermato un soggetto nato per fare opposizione, l´Idv. Mentre il Pd è nato per unificare il centrosinistra e portarlo al governo. Ma oggi appare debole, nella testa e nei piedi. È ridotto al 26%: 7 milioni e 800mila voti. Alle europee del 1984, 25 anni fa, quando morì Enrico Berlinguer, il Pci – da solo - ottenne 11 milioni e 600 mila voti: il 33%. Divenne per la prima - e unica - volta primo partito in Italia, davanti alla Dc. Alle elezioni politiche del 1987 scese al 26,7%: 10 milioni e 250 mila voti. Decise, allora, prima della caduta del muro, di rompere con la propria tradizione e la propria organizzazione. Con il proprio passato. Per non restare all´opposizione in eterno. Il Pd attuale, molto più debole del Pci del 1987, non può evitare di porsi lo stesso quesito.

Corriere della Sera 15.6.09
Dietro l’allarmismo una minoranza smarrita e pronta a tutto
L’opposizione smarrita
di Massimo Franco


Il centrosinistra sembra scommettere su una crisi a breve del governo e punta su una «guerra di nervi». La parabola discendente
L’opposizione senza proposte alternative convincenti potrebbe non beneficiare della possibile parabola discendente del premier

Più che alla chiarezza, l’uscita di Massimo D’Alema sulla «scos­sa » che rischierebbe la nostra de­mocrazia in questa fase è un contri­buto alla confusione.
Si tratta di un allarmismo che non ri­dimensiona quello prodotto dall’ultima sortita di Silvio Berlusconi su presunti complotti antigovernativi. Al contrario lo alimenta, consegnando al Paese l’im­magine di un’opposizione tanto aggres­siva quanto smarrita e pronta a tutto; e all’opinione pubblica internazionale quella di un’Italia difficile da decifrare se­guendo le categorie della normalità.
L’arrivo del presidente del Consiglio negli Stati uniti ed il suo incontro odier­no con Barack Obama rischiano così di avvenire su uno sfondo artificiosamente sovraccarico di incognite. Berlusconi rappresenta un governo con una mag­gioranza solida che ha confermato la sua forza alle elezioni Europee. Le Ammi­nistrative si sono risolte in un insucces­so del centrosinistra: almeno per ora. E gli impegni presi con l’Occidente, Stati Uniti in testa, non appaiono minima­mente a rischio. Gli ottimi rapporti con Mosca e le sbavature e gli eccessi della visita del capo libico Gheddafi a Roma non sembrano in grado di guastare un’alleanza storica.
Eppure, la figura del premier viene cir­condata da un alone di scetticismo e di precarietà. I suoi avversari contestano l’idea che l’Italia sia con lui, sostenendo che l’hanno votato sì e no un italiano su quattro, contando le astensioni. La cosa paradossale è che il calcolo dell’opposi­zione prescinde dal proprio identikit, dai contorni sempre più controversi e minoritari. Il Pd contempla i limiti del governo, che pure ci sono. Esalta il pote­re leghista in funzione antiberlusconia­na. Raffigura un Berlusconi minacciato dalle trame del suo centrodestra. Ma non riesce a riempire il proprio vuoto di leadership e di proposte.
È singolare che mentre addita Berlu­sconi «leader dimezzato», ostaggio di Umberto Bossi, D’Alema ammetta che il Pd non è autosufficiente; e che non ha ancora la minima idea di chi sarà il pros­simo segretario. E proponga il «modello Puglia», la regione dove è eletto, come esempio di schieramento alternativo: un «cartello» elettorale che dovrebbe anda­re, dice, «dall’Udc a Rifondazione comu­nista ». Non ha l’aria di una grande idea. Ha qualcosa di passatista, più che di vin­cente. Con piccole varianti, ripercorre vecchi sentieri rivelatisi vicoli ciechi.
Ma il centrosinistra sembra scommet­tere comunque su una crisi a breve del governo; su un rapporto freddo fra Ber­lusconi ed il presidente Usa, Obama; e su un G8 all’Aquila al quale il premier dovrebbe arrivare affannato, se non dele­gittimato. In altri tempi, si sarebbe detto che è un gioco al «tanto peggio, tanto meglio». Forse, più banalmente è una guerra dei nervi con Palazzo Chigi ingag­giata su premesse che potrebbero rive­larsi presto azzardate e contraddittorie. La scommessa è sul declino berlusconia­no e sulla possibilità che il complotto evocato dal premier sia verosimile, se non vero.
La speranza nasce dal fatto che il Pdl non ha vinto le Europee nella misura sperata dal capo del governo; e che il Ca­valiere tende a vedere trame per sosti­tuirlo a Palazzo Chigi, mostrando qual­che segno di nervosismo. Per un’opposi­zione a caccia di qualunque segno di cri­si, di inversione di tendenza, la prospet­tiva di un conflitto improvviso, di una «scossa», nel gergo dalemiano, sarebbe comunque una buona notizia. Signifi­cherebbe che la legislatura del centrode­stra può andare incontro a difficoltà; che lo strapotere dell’avversario non è poi così granitico. E chissà, forse offri­rebbe al Pd ed ai suoi futuri alleati un’oc­casione per dimostrare che il centrosini­stra non è né sbandato né impreparato a governare.
Per paradosso, gridando al complotto Berlusconi non ha tanto rivelato i propri incubi, ma i sogni proibiti dell’opposi­zione. È possibile che la parabola discen­dente del presidente del Consiglio stia per iniziarsi, o sia già cominciata. Eppu­re, si rafforza la sensazione che anche in quel caso, a beneficiarne non saranno i suoi avversari: almeno fino a che per vin­cere punteranno sulle disgrazie del Cava­liere e non su una proposta alternativa convincente.

Corriere della Sera 15.6.09
«L’esponente pd ha riassunto un pensiero diffuso nel centrosinistra»
La Annunziata: il sospetto è che arrivi una crisi ampia Forse con un altro scandalo
intervista di Fabrizio Roncone


ROMA — Lucia Annunziata, senti: quando Massimo D’Alema ti ha detto che c’è da aspettarsi una maggioranza attra­versata da «scosse», tu a che genere di scosse hai pensato?
«Non ci ho pensato. Ho, anzi, reagito d’istinto. Nella frazione di un secondo. Co­me ti sarai accorto, l’ho infatti subito incal­zato, chiedendogli: 'D’Alema, il termine scossa sta per...?'».
D’Alema ti ha risposto, un po’ vago, che per «scosse» si intendono «momenti di conflitto, di difficoltà, anche impreve­dibili, che richiedono, come dire? un’op­posizione in grado di assumersi le pro­prie responsabilità»...».
«Senti, io con D’Alema non ho parlato né prima, né dopo la trasmissione...».
Dai, direttore...
«Giuro. Né prima, né dopo. Non è mia abitudine farlo con gli ospiti, e certo non ho fatto eccezione con Massimo, che pure conosco da una vita. Detto questo...».
Ecco, detto questo?
«Provo a intuire, a dedurre».
Dai, prova.
«Io penso che Massimo, in fondo, abbia riassunto un pensiero abbastanza diffuso all’interno del centrosinistra».
Sarebbe?
«La sensazione che la stagione di Berlu­sconi stia entrando in un grave momento di debolezza... da cui potrebbe scaturire, o deflagrare, fai tu, una crisi più ampia».
Genere di crisi?
«Istituzionale».
Spiegati. Cosa potrebbe innescare que­sto genere di crisi?
«Non lo so. E suppongo non lo sappia, di preciso, neppure Massimo. Io sospetto l’ar­rivo di altri scandali, di altre foto spiacevo­li... temo storie torbide... credo che l’imma­gine internazionale di Berlusconi, già com­plicata nei rapporti con l’amministrazione Obama, nel volgere di un tempo non lun­ghissimo, possa risultare ulteriormente danneggiata».
Berlusconi parla di «piano eversivo».
«D’Alema non crede all’ipotesi del com­plotto. Con me, in trasmissione, è stato piuttosto chiaro. D’Alema, se posso aggiun­gere, è anzi più sottile: e dice che quando il Cavaliere parla di complotto, parla ai suoi. Gli spiega la scena dell’accerchiamento».
Per questo poi...
«Arrivano in difesa Calderoli e Cicchitto, certo. Annusano, anche loro, il pericolo».
Francesco Cossiga, sul Giornale, insi­nua che sia già pronta la successione al Cavaliere...
«Il governatore della Banca d’Italia, Ma­rio Draghi? Se è per questo, girano anche altri nomi... No, io dico che la situazione è molto in evoluzione».
Direttore, sembri molto informata.
«Ragiono, leggo, parlo, faccio questo me­stiere da una vita. Ma puoi escludere che D’Alema m’abbia detto qualcosa».
Anche in privato? Senti: cosa ti ha det­to sul congresso del Pd?
«Ne ha parlato in trasmissione. Ha ribadi­to di tenere per Bersani. Poi, se vuoi la mia idea...».
Certo. Qual è?
«Si profilasse davvero una crisi grave, strategica, istituzionale per il Paese... beh, io penso che D’Alema non esiterebbe a tor­nare in campo. Ma oltre il Pd».
Oltre, scusa, in che senso?
«Sarebbe pronto a rimettersi in gioco da statista tra gli statisti...».

Repubblica 15.6.09
Le condizioni di Netanyahu "Sì allo Stato palestinese no al blocco delle colonie"
L’Anp: "Siluro alla pace". La Casa Bianca: "Passi avanti"
Robert Malley, responsabile del programma mediorientale all’International Crisis Group di Washington:
"Ma se non smantella gli insediamenti il negoziato non porterà a nulla"
di Alix Van Buren


«Un rifiuto a Obama? Il discorso del premier Netanyahu non è affatto clamoroso. Lui si barcamena, acquista tempo, stretto com´è fra le pressioni della Casa Bianca e del proprio governo. Netanyahu ha detto una cosa vera: da sessant´anni siamo alle prese con l´inestricabile groviglio israelo-palestinese. La differenza, però, è che stavolta Washington si muove con una determinazione senza pari». Robert Malley, consigliere del presidente Clinton, negoziatore di pace a Camp David, oggi vicino alla squadra di Obama e responsabile del programma mediorientale all´International Crisis Group di Washington, è forse la voce più autorevole in materia.
Malley, davvero nulla di nuovo nelle parole di Netanyahu?
«Mettiamola così: il primo ministro israeliano doveva ammorbidire il contrasto con la Casa Bianca e allo stesso tempo rassicurare la sua base elettorale. Con una mano abbozza certe concessioni, con l´altra delle riserve. Promette di non costruire nuovi insediamenti, e però ne conferma l´espansione naturale. Tira la corda, ma non tanto da far naufragare le prospettive di un accordo di pace».
Con che risultato per i rapporti di Israele con l´America?
«Che siamo alla fase in cui ciascuno s´atteggia prima di sedersi al tavolo. Netanyahu non ha pronunciato un no né un sì: soltanto un "ni". E poi, la faccenda dello Stato smilitarizzato è un falso dibattito, come quello sugli insediamenti».
Perché?
«Perché tutti sappiamo che Netanyahu è d´accordo sulla nascita di uno Stato palestinese. Vuole farla apparire una concessione. Quanto alle colonie, il punto non è fermarne la costruzione, ma smantellarle: cioè definire dove verrà stabilita la frontiera. Quello sarà il momento della verità, se il negoziato riprenderà».
E con Netanyahu le trattative ripartiranno?
«Il premier scommette su molti fattori per rinviare i colloqui a un governo successivo al suo: le divisioni interne ai palestinesi fra Fatah e Hamas, la complessa situazione in Medio Oriente, l´Iran. Ma non è detto che i suoi calcoli siano giusti».
Malley, lei s´aspetta un intervento decisivo della Casa Bianca?
«Arriverà un momento quando il presidente Obama metterà sul tavolo una proposta chiara, magari col sostegno della Ue, della Russia, del mondo arabo. Allora i due contendenti non potranno ignorarla. Poi, potrebbero arrivare grosse novità».
Quali, ad esempio?
«Per la prima volta può rivelarsi determinante l´opinione popolare, più di quella dei leader politici. Il piano di Obama potrebbe capovolgere la situazione, anziché finire archiviato come tanti altri progetti impolverati».

Corriere della Sera 15.6.09
La deputata del Fatah Ashrawi:
«Non ci sta offrendo la patria ma una nuova occupazione»
di F. Bat.


Netanyahu vuole che diventiamo anche noi sionisti, che gli arabi che stanno in Israele accettino d'essere quel che non sono

GERUSALEMME — «A me piacciono i bei di­scorsi, indipendentemente da quel che si di­ce... », ride Hanan Ashrawi. Sessantun anni, buo­ni studi all'American University di Beirut, cristia­na per famiglia e marito, nella politica palestine­se da quand'era la portavoce di Arafat, oggi depu­tata vicina al premier Salam Fayyad, la signora Ashrawi fa una sola concessione, una volta spen­ta la tivù e la faccia di Netanyahu: «L'unica cosa che m'è piaciuta, è l'uso che ha fatto delle paro­le, dei silenzi. Dev'essersi esercitato molto. Per dire poco».
Poco?
«Non vedo un grande cambio di posizione. È la solita politica della destra israeliana. C'è una bella differenza, fra le cose che ha detto Bibi e quelle di Obama, a cui voleva idealmente rispon­dere. Al di là delle emozioni: il presidente ameri­cano ha detto con chiarezza che Israele deve dire stop agli insediamenti, Netanyahu ha detto sol­tanto che non ne vuole di nuovi. Ma s'è ben guar­dato dal parlare d'un congelamento di quelli che già ci sono».
Però una novità c'è: la prima volta, dopo molti anni, che un premier della destra accet­ta l'idea d'uno Stato palestinese.
«E a lei questa sembra una novità? È chiaro che si tratta solo d'una operazione di retorica. D'un gioco di parole. Netanyahu dice che ci dev' essere uno Stato palestinese. Ma vuole che di­ventiamo anche noi sionisti, che gli arabi che stanno in Israele accettino d'essere quel che non sono, prima d'accomodarci al tavolo e trattare».
Ma perché non riconoscete Israele?
«Non possiamo farlo in questi termini. Signifi­ca abbandonare al loro destino i nostri fratelli arabi. Significa contraddire tutta la nostra sto­ria ».
Una Palestina smilitarizzata non è nell'inte­resse di tutti?
«La nozione di Pale­stina smilitarizzata cor­risponde al concetto che ha Bibi del popolo palestinese: un popolo che abbia una terra, ma che comunque non controlli le sue frontiere, non abbia un esercito e non pos­sa nemmeno guardare se nel suo cielo volino bombe o aquiloni. Questo non è uno Stato: è la prosecuzione di un'occupazione. Anzi, è la ver­sione aggiornata dell'occupazione: una cosa morbida, tanto per compiacere la Casa Bianca. Il suo discorso è arrogante, ideologico. Non ha le dimensioni del discorso di pace: ha quelle del controllo del territorio».
Ma non c'è niente da salvare?
«Netanyahu ha chiuso la porta su tutto. Geru­salemme è una città occupata, non può non esse­re la nostra capitale. E se Fatah e Hamas raggiun­gono un accordo, Israele deve accettarlo: noi non decidiamo chi deve stare al governo israelia­no. La cosa più arrogante è la pretesa di risolve­re al di fuori d'Israele la questione dei profughi. E poi di chiedere ai palestinesi d'aderire all'iden­tità ebraica: dobbiamo dimostrare d'essere ra­gazzi di buone maniere, prima d'essere ammessi a vivere sulla loro terra».

Corriere della Sera 15.6.09
Testamento biologico Dopo il documento nazionale che bocciava la legge
Fine vita, i medici rischiano lo scisma Bologna: ci facciamo il nostro codice
di Margherita De Bac


ROMA — «È una spacca­tura molto profonda. Se saranno accettati questi principi noi siamo pronti a darci un Codice indipen­dente da quello naziona­le ». Sembra più di una mi­naccia quella di Giancarlo Pizza, presidente dell’Ordi­ne dei medici di Bologna, diecimila iscritti, il più nu­meroso dell’Emilia-Roma­gna.
La tentazione di acqui­stare autonomia sul piano delle regole deontologi­che si è rafforzata dopo l’approvazione a Terni del documento sulle dichiara­zioni anticipate di volontà (testamento biologico) presentato all’assemblea dal consiglio direttivo di Fnomceo, la Federazione che raccoglie gli Ordini provinciali italiani.
Su 97 voti, sono stati cinque quelli contrari. Un blocco «nordista» costitui­to oltre che da Bologna, da Milano, Lodi, Pavia e, per il sud, da Potenza. Tra gli astenuti si contano in­vece gli ordini di Roma, Reggio Emilia, Rimini e Piacenza. Un forte presa di distanza dal governo centrale del presidente Amedeo Bianco.
Le critiche sono focaliz­zate su uno dei capoversi più delicati del documen­to di Terni, dove la nutri­zione artificiale viene con­siderata atto medico e dunque se ne «motiva l’impiego in ogni progetto di cura appropriato, effica­ce e proporzionato com­presi quelli esclusivamen­te finalizzati ad alleviare le sofferenze». Dunque do­vrebbe rientrare tra le scel­te del paziente, a differen­za di quanto prevede la legge che dopo l’approva­zione del Senato aspetta di essere discussa dalla Ca­mera.
L’Ordine dei medici di Bologna però non ci sta: «È inaccettabile. Il testo iniziale, esaminato ad apri­le, non diceva così. Non vogliamo un altro caso En­glaro. L’assemblea era im­preparata al capovolgi­mento. Noi siamo pronti a dotarci di un nostro Codi­ce deontologico».
Valerio Brucoli, consi­glio direttivo dell’Ordine di Milano (che conta venti­tremila iscritti) è meno fa­vorevole al federalismo dei Codici: «La nutrizione nei pazienti in stato vege­tativo è un atto medico in­dirizzato al sostentamen­to, non alla cura. Dunque non dovrebbe essere og­getto di dichiarazioni anti­cipate. Se pensiamo a dar­ci regole autonome? Spe­ro non sia necessario arri­vare a tanto, che si trovi un punto di incontro».
Si è astenuto l’Ordine di Roma, il più grande d’Eu­ropa: «Sono contrario a qualsiasi legge, le questio­ni di fine vita non sono materia da giurista — spie­ga il presidente, Mario Fal­coni —. Tra medico e pa­ziente o la sua famiglia la soluzione si è sempre tro­vata. Nella mia esperienza non ho mai avuto conflit­ti. La legge dovrebbe limi­tarsi a sancire il diritto di esprimere le proprie vo­lontà in un testamento con la garanzia che chi cu­ra e chi è curato abbiano piena libertà. In caso di contrasto la decisione ver­rebbe affidata a una com­missione di bioetica».

Corriere della Sera 15.6.09
La provocazione biologica di Gabriele Milanesi
L’altruismo evoluzionista
di Edoardo Boncinelli


Quando il gene determina la propria affermazione servendosi di chi lo porta

Qualche anno fa si par­lò per un po’ di tem­po di «gene egoista», prendendo spunto da un’idea proposta da Richard Dawkins, il noto evoluzioni­sta, in una sua opera omoni­ma. Ciò che stava sotto il ter­mine era l’osservazione che non sarebbero gli organismi singoli né i gruppi di organi­smi ad essere l’oggetto della selezione naturale, ma i geni. È il gene, insomma, che viene selezionato e che quindi si tro­va a «dirigere» e influenzare la propria trasmissione e la propria affermazione evoluti­va.
Si trattava, come quasi sem­pre in Dawkins, di una propo­sta intelligentemente provoca­toria. È chiaro che un gene non può essere alla lettera «egoista», ma può comportar­si, del tutto inconsapevolmen­te, come tale, promuovendo la propria affermazione attra­verso l’affermazione degli in­dividui che lo portano. Nono­stante che la proposta fosse suonata antipatica, se non «odiosa» a molti (quante vio­lente reazioni negative ho do­vuto ascoltare!), non si può non notare che questa, para­dossalmente, costituisce l’ar­gomentazione migliore per spiegare l’origine evolutiva dell’altruismo.
Se è l’individuo singolo a es­sere selezionato, non si vede come possa essere nato e es­sersi affermato l’altruismo biologico: se io sono troppo altruista, in genere ci rimetto personalmente, anche se i miei parenti o i miei compa­gni ci possono guadagnare. Ma se io possiedo uno o più geni in comune con loro, co­me si verifica quasi sempre, il mio comportamento, con l’aiutare i parenti anche a mio danno, favorisce la trasmissio­ne e la perpetuazione di un da­to gene: è il gene, quindi, che ci guadagna.
In questo modo il gene ego­ista si è trasformato d’incanto nel gene dell’altruismo, è dive­nuto cioè un «gene altruista». Una storia molto istruttiva e interessante che insegna pa­recchie cose: per esempio a non disprezzare senza capire.
Intelligenti pauca. I geni altruisti (Mondadori, pp. 216, e 18,50) è ora il titolo di un bel libro di Gabriele Mi­lanesi, biologo molecolare at­tivo tra Milano e Pavia che ha diretto per anni la rivista «Bio­tec ». Non c’è dubbio che nel dare il titolo al volume la men­te di Milanesi si sia ispirata al paradosso al quale accennavo sopra, ma l’opera non parla di egoismo o di altruismo evolu­tivo. Parla di ingegneria gene­tica, di biotecnologie, di Ogm e di tutto quello che la geneti­ca ha fatto e può fare per noi. È un libro informato, lindo e pulito, che dice con calma ma con forza quello che c’è da di­re sull’argomento. I geni altru­isti sono insomma i geni che l’uomo ha piegato al proprio volere e per il proprio como­do, dopo millenni di ignoran­za, di superstizione e, nella migliore delle ipotesi, di prati­caccia empirica. «La conoscenza può creare problemi, ma non sarà certo con l’ignoranza che li potre­mo risolvere»: questa citazio­ne di Asimov che apre il terzo capitolo potrebbe compendia­re il messaggio del libro. Si di­ce, d’altra parte, che anche So­crate abbia sentenziato: «C’è un solo bene: la conoscenza. E un solo male: l’ignoranza». Più cose si sanno, più possibi­lità abbiamo di utilizzarle. O magari solo di conservarle lì, per quando potrebbero o po­tranno servire. E di cose ri­guardanti i geni e la loro attivi­tà ne abbiamo imparate tante. Troppe, dice qualcuno, che non si ricorda quali erano le condizioni di vita del passato, dalla mortalità infantile alla generale denutrizione, dalla periodica esposizione al fla­gello delle malattie infettive alla mancanza di analgesici e di anestetici, dall’essere espo­sti ad ogni tipo di imprevisto, nella sanità come nell’agricol­tura, all’essere schiavi della predestinazione genetica.
Milanesi ci ricorda tutto questo e molto di più, discor­rendo di varie questioni delle quali di solito si parla senza al­cuna cognizione di causa. Nes­suno si illude che un libro pos­sa cambiare la situazione, ma non si può non salutarne con favore uno nuovo di uno scienziato italiano che ha deci­so di parlare al pubblico, sen­za grida né sensazionalismi, ma dicendo con chiarezza le cose come stanno. Se altri lo seguissero, la comunità degli scienziati italiani sarebbe più rispettata e compresa; e chi sa che qualche giovane non pen­serebbe di dedicarsi per que­sto agli studi scientifici. Se la situazione italiana è quella che è, lo si deve anche all’esi­guità degli addetti ai lavori.

Corriere della Sera 15.6.09
In cima alle classifiche le rivelazioni di Gianluigi Nuzzi sulle finanze vaticane
Trent’anni di affari segreti in due valigie
di Dino Messina


Giornalista d’inchiesta di rara efficacia, l’invia­to di «Panorama» Gianluigi Nuzzi, in Vaticano S.p.A. (Chiarelettere), racconta da un punto di vista privilegia­to gli affari segreti della Chiesa. La scena iniziale sembra tratta da un film di spionaggio ispira­to a Le Carré: un cronista attra­versa la frontiera con la Svizze­ra, si ferma in una casa contadi­na, beve un caffè con l’anziana ospite ed esce con due grosse valigie cariche di documenti, per ritornare rapidamente in Italia.
Sembra fiction, ma è la real­tà. Quelle valigie esistono dav­vero e contenevano la docu­mentazione accumulata per un trentennio da monsignor Rena­to Dardozzi (1922-2003), un ma­nager plurilaureato diventato prete solo a 51 anni e chiamato già nel 1974 dal cardinale Ago­stino Casaroli a occuparsi dello Ior. Nel testamento Dardozzi aveva disposto che il suo archi­vio diventasse pubblico, così gli eredi lo hanno affidato a Nuzzi, che ha potuto riscrivere trent’anni di finanza segreta con materiale di prima mano.
Personaggio chiave del libro — da ieri in testa alla classifica dei saggi e ottavo nella Top Ten — è un presule di origini luca­ne, Donato De Bonis, cresciuto all’ombra di Paul Marcinkus e uscito paradossalmente raffor­zato dallo scandalo Ior-Ambro­siano, al punto da poter costrui­re all’interno della banca vatica­na un sistema finanziario occul­to e totalmente fuori controllo. «Il primo passo segreto — scri­ve Nuzzi — lo ritroviamo nel­l’archivio Dardozzi: De Bonis fir­ma regolare richiesta e lo Ior apre il primo conto corrente del neonato sistema offshore. Conto n. 001-3-14774-5». Siamo nel 1987 ed è l’atto d’inizio di una attività frenetica, che vedrà passare per i conti intestati a nomi fittizi decine di miliardi di lire in contanti, centinaia di miliardi in Cct. «Dal 1987 al 1992 — scrive ancora Nuzzi — De Bonis introduce in Vaticano cash per oltre 26 miliardi e li de­posita tutti su 'Fondazione Spellman'». Al conto, intestato al nome del cardinale di New York che raccomandò Mar­cinkus a Paolo VI e che si prodi­gò per procurare finanziamenti alla Dc, scopriamo che avevano accesso due persone: De Bonis e Giulio Andreotti, il quale, in­terpellato dal giornalista di «Pa­norama », ha dichiarato di non ricordare.
Nella ricostruzione delle ci­fre da capogiro e totalmente fuori controllo (dall’89 al ’93 vengono condotte operazioni per oltre 310 miliardi di lire), Nuzzi individua tre tipi di bene­ficiari: istituti religiosi, ma an­che politici, industriali e mana­ger. È noto che dallo Ior passò parte della megatangente Eni­mont e che l’Istituto vaticano fu usato per «lavare» soldi spor­chi. Dal libro di Nuzzi scopria­mo altri particolari dello scan­dalo e gli scontri interni al Vati­cano per salvare il salvabile. Leggiamo per esempio le circo­stanziate denunce di Angelo Ca­loia, ancora oggi presidente del­­l’Istituto, che non sempre anda­rono a buon fine.
Il libro si conclude con un’in­tervista al figlio del politico ma­fioso Vito Ciancimino, Massi­mo, il quale testimonia che mol­ti soldi del padre passavano dal­lo Ior per essere trasferiti al­l’estero.

Liberazione 13.6.09
«E' inutile adesso dire "uniamoci" se non capiamo la sconfitta»
intervista a Valentino Parlato di Checchino Antonini


C'è chi mette i paletti, come fanno, i socialisti di Nencini. Chi li abbatte tutti come chiede Bertinotti dalle pagine di un noto giornale torinese. C'è chi tende la mano al Pd, così scrive Vendola ma poi sembra ripartire da sé, come anche i Verdi, contenti dell'exploit franco-tedesco. C'è anche chi esulta per lo 0,2% in più (si veda Ferrando), chi compila certificati di morte e rilancia una costituente anticapitalista (Cannavò). Chi riparte dalla Lista anticapitalista ma consapevole che il perimetro debba allargarsi, come pensa di fare il Prc che oggi si avvia a un importante comitato politico nazionale. Ma a sinistra ciascuno, con una varietà di perimetri e fortificazioni, chiede a qualcun altro di riunirsi. Valentino Parlato, fondatore e di nuovo direttore del manifesto , va controcorrente. Non è che suggerisca di continuare a viaggiare spaiati all'infinito ma si prende tempo. Bisogna capire.
«Pensare di uscire dalla crisi dicendo "adesso mettiamoci insieme", è inutile!», spiega a Liberazione .
Però, da qualche parte si dovrà pur ricominciare. Il rischio, in parte già reale, è che dall'immaginario collettivo si scivoli al collettivo immaginario. Le sinistre che solo tre anni fa erano capaci di riempire le piazze e di parlare ad ampi settori sociali, annaspano in una parabola discendente interminata.
La prima cosa che proporrei, prima di presentare ricette, è di cercare il perché, le ragioni di una sconfitta che, se sono Vendola non posso appiccicare a Ferrero. E se sono Ferrero non posso scaricare su Vendola. Guarda che non solo noi, sinistra estrema, ma pure i socialdemocratici hanno perso in tutta Europa. E se non si sanno le ragioni non è possibile trovare una soluzione. Per esempio devo chiedermi perché tanti operai che votavano a sinistra e sono ancora iscritti alla Cgil votano per la Lega...
Dunque esiste una specifica questione settentrionale?
C'è una questione sociale: perché questa crisi sposta a destra il voto? Com'è nato il populismo?
E' lì, nel populismo che cresce, che c'è la crisi della sinistra. Di tutta la sinistra.
Ha senso, quindi, la distinzione tra le due sinistre, una moderata e l'altra d'alternativa?
Perché dici due? Ce ne sono almeno quattrocento! Facciamo che io e te siamo due bottegai, vendiamo entrambi salami e siamo concorrenti. Falliamo tutti e due. La prima cosa che devo chiedermi è capire perché entrambi abbiamo perso. Sono cambiati i gusti? Abbiamo commesso degli errori?
Eppure le reazioni al dato elettorale, nella loro parzialità, sembrano tutte alla ricerca di contenitori capaci di battere il quorum.
Ma quello è un paradosso, un distruttivo paradosso. "Uniamoci" è una parola che non ha esito perché poi non ci uniamo. Torno a insistere con la storia del malato: se ho la febbre come faccio a fare una scalata? L'appello di Bertinotti, ad esempio, lo ritengo troppo sbrigativo. Il nuovo, si chiede, ma il nuovo uno dove lo compra? Non ci si può fermare a dire che serve il bene della società, perché il "bene della società" è un indeterminato. Anche Berlusconi cerca il bene della società.
Ma in questa ricerca ce l'hanno ancora un ruolo i partiti e i giornali?
Ce l'hanno ma sono tutt'e due abbastanza in crisi. Anche noi del manifesto . E tutti dobbiamo capire come ritrovare credibilità in mezzo alla gente. Bisogna anche ricordare che noi del manifesto , prima delle elezioni avevamo anche formulato una proposta: avevamo chiesto di fare liste di sinistra, di persone per bene, con un passo indietro conseguente dei partiti e dei soliti candidati.
Era stato anche proposto di saltare un giro.
Su quello non è che fossi totalmente d'accordo. Ora è importante capire che pensare di uscire dicendo "mettiamoci insieme" è inutile. Semmai dovrà essere il risultato finale di un processo di comprensione di questa crisi. Ripeto: bisogna chiedersi, ad esempio, perché uno di sinistra debba votare uno come Di Pietro.

Repubblica 15.6.09
"Quella statua è nostra" Egitto e Germania in guerra per Nefertiti
di Andrea Tarquini


BERLINO - Fin dai miti antichi tramandatici da Omero, si narra di guerre tra grandi nazioni per contendersi la donna più bella. È quanto sta per succedere tra la prima potenza dell´Unione europea, la Germania, e il glorioso Egitto, leader culturale e in parte politico del mondo arabo. La fascinosa donna della discordia, al contrario di Elena di Troia, non è viva, eppure è desiderata ancora oggi come un simbolo di eleganza e femminilità perfette. Parliamo della splendida regina Nefertiti, moglie del faraone Achenathon. Visse 3400 anni fa, ma la sua bellezza ineguagliabile appare tuttora mozzafiato, tramandataci dal busto che la ritrae, e che dai tempi del Kaiser è esposto nei musei di Berlino. Il Cairo lo rivuole, ha detto al quotidiano Der Tagesspiegel il potentissimo e autorevole Zahi Hawass, massimo esperto e responsabile del patrimonio artistico e culturale dell´antichità egiziana. Presto sarà in grado di provare che il busto fu portato via con la frode, quindi la richiesta è legittima. E se non sarà soddisfatta, gli egiziani sono pronti a sospendere ogni cooperazione culturale con il museo di Berlino.
È una situazione imbarazzante, forse più difficile del contenzioso che oppone Londra ad Atene sul futuro degli Elgin Marbles, cioè i fregi del Partenone di cui da anni la Grecia ne richiede invano la restituzione.
«Il busto di Nefertiti è da quasi cento anni da voi a Berlino, noi lo riavremo molto volentieri», dice Zahi Hawass. Negli ultimi tempi, egli ha chiesto la restituzione di circa cinquemila tesori dell´antica arte egiziana, sparsi tra musei e collezioni per tutto in mondo. «Sono tesori che appartengono all´Egitto, ma non vuol dire che devono tutti tornare a casa. Deve essere restituito ciò che ci fu rubato, tra cui cinque opere d´arte uniche per la nostra cultura. In questo gruppo di cinque capolavori c´è il busto di Nefertiti». Il contenzioso è arduo: nel 1912, all´apice dello splendore della Germania imperiale di Guglielmo II, Ludwig Borchart trovò lo splendido busto nel corso di scavi, e lo portò a Berlino, dove da allora è esposto, attualmente allo Altes Museum nel mirabile complesso dell´Isola dei Musei, non lontano dalla Porta di Brandeburgo. «Confido che ben presto avremo in mano tutto il necessario per richiedere formalmente la restituzione del busto. Mi risulta che non esistano documenti che possano provare che Nefertiti abbia lasciato l´Egitto in modo legale e moralmente ineccepibile», spiega Hawass.
Come minimo, esige che Berlino conceda subito il busto quale prestito. I tedeschi non ne vogliono sapere: temono che vada distrutto nel trasporto. «Accuse assurde, non siamo mica i pirati dei Caraibi», ribatte Hawass. Grave dilemma per la Germania: cedere vorrebbe dire privare la capitale del suo tesoro antico più prezioso, rifiutare significherebbe fare una figuraccia col mondo arabo e il mondo extraeuropeo tout court.

Repubblica 15.6.09
Kandinsky
L’avventura mistica del maestro dell’astrattismo
Il Beaubourg di Parigi ripercorre lo straordinario itinerario dell’artista russo fin dagli esordi
La rinuncia al naturalismo è una lenta conquista a favore del colore
di Cesare De Seta


PARIGI. Wassilij Kandinsky attraversa la storia europea a cavallo di due secoli con tutte le complesse implicazioni che ebbe la vicenda artistica in questi anni: nato a Mosca nel 1866 studiò diritto ed economia. Destino volle che ventenne fece parte di una missione che studiava il diritto nelle regioni estreme dell´impero. Wassilij s´appassionò alle arti popolari di queste terre, alla decorazione disinibita di artisti di strada che dipingevano con un´assoluta libertà lontani da condizionamenti accademici. Fu per il giovane un´esperienza che lo segnò profondamente.
Questo esordio, non convenzionale, è presente in "Scene russe" (1903-04) che apre la grande mostra al Centre Pompidou (fino al 10 agosto) a cura di C. Derouet, A. Heberg e T. Bashokoff. Kandinskij abbandona il diritto e decide di andare a Monaco, uno dei centri dell´arte, e nel 1897 s´iscrive all´Akademie der Kunst dove segue i corsi di un maestro Jugendstil come Franz von Stuk. Gli è compagno di studi Paul Klee col quale avrà un rapporto di amicizia e di rivalità che si consolida nei lunghi anni di insegnamento al Bauhaus. Gli anni monacensi sono segnati da un´incalzante sperimentazione: a Parigi nel 1906 aveva scoperto i fauves e la sua tavolozza s´incendia di colori sia pure mediati dalla memoria della sua terra.
Lento è il distacco da un naturalismo popolare e favoloso simile al primo Chagall, evidente in Canzone del Volga fino a Paesaggio con la torre (1908): tempere e oli, parte di una ricca produzione di disegni e xilografie in cui l´impatto con la cultura espressionista è evidente. Attorno a questi anni si trasferisce a Murnau, un paese delle Alpi bavaresi, dove dipinge una serie di paesaggi montani dai colori intensi a larghe pennellate. Nel 1911 ascolta per la prima volta la musica di Schoenberg da cui rimane fortemente preso, ne nasce una corrispondenza e una nota acida del musicista ora in Stile e pensiero (Il Saggiatore); conosce Macke e Marc e con lui scrive il testo teorico di «Der Blaue Reiter», si tiene nel 1911 la prima mostra del gruppo e la sua poetica volge verso l´astrattismo.
Inizia a dipingere la serie delle Improvvisazioni e delle Impressioni a cui segue solo un numero o qualche sottotitolo allusivo e simbolico, esile legame col soggetto: queste opere sono un gruppo assai ricco in mostra. La rinuncia al naturalismo è una lenta conquista e al segno quasi graffiato sulla tela conferisce un´inedita intensità: il colore è come una frustata e forma un arcipelago di accese aree cromatiche.
Con l´arco nero (1912), Quadro con macchia rossa (1914) sono tele di potente originalità per la totale dissoluzione di qualunque sia pur vago soggetto riconoscibile: tela la seconda che non venderà mai e fu sua moglie Nina a donarla, con un cospicuo fondo, al Centre Pompidou nel 1976. Il rapporto con Nina è un capitolo non trascurabile che lei stessa narra in Kandinskij ed io (Abscondita) con spirito devoto.
La rivoluzione russa l´attrae e dal 1917 al 1921 ne vive l´incandescente clima: stringe amicizia con Rodtchenko, problematico il rapporto con El Lissitsky. Pubblica nel 1918 in russo Sguardi retrospettivi (edito da SE) e, avvertiti i morsi della «normalizzazione» bolscevica, nel 1921 si trasferisce a Berlino. Qui incontra Gropius che nel 1922 lo chiama a Weimar e poi a Dessau: come docente al Bauhaus avvia un´attività di teorico, costruendo una grammatica del vedere e del comporre che lo vede in amichevole contesa con Klee. In Dello spirituale nell´arte (1912) aveva mostrato una vocazione mistico-spiritualista e un´attenzione alle teorie dell´empatia di Lipps e Worringer; a contatto con la cerchia del Bauhaus, supera questa soglia ed esplora la geometrizzazione delle forme.
Il linguaggio si depura e la sua grammatica subisce una profonda trasformazione a contatto con Moholy-Nagy, Itten, Feininger che tra foto e pittura puntano ad un´astrazione razionalizzata. I titoli delle opere perdono qualunque significato proprio e ne acquistano uno di nuovo conio: Centro bianco, Centro rosso, Cerchio, Trama nera, Croce, Tratti trasversali ecc. L´alfabeto formale kandiskijano è teorizzato in Punto, linea, superficie (1926). Le memorie tolstojane sono del tutto alle sue spalle, così come lo squillante cromatismo degli anni monacensi. Nel 1933 si trasferisce a Neully-Sur-Seine dove sono già di casa Miró e Arp. I catalani certamente lo influenzano e nella sua tela compaiono microrganismi o girini come visti al microscopio.
Venticinque anni fa vidi al Beaubourg la precedente mostra di Kandinsky con Italo Calvino e mi sorprese che fosse attratto dall´ultimo Kandinsky, piuttosto che da quello visionario degli anni ´10-´20, così congeniale all´autore della Trilogia. Kandinsky nel 1931 scrisse al nipote, il filosofo Alexandre Kojève: «In molti dicono che le mie opere sono fredde. Esistono dolcetti cinesi che sono esternamente caldi mentre all´interno sono gelidi». Ho pensato che Calvino, privilegiando questa tarda produzione, si autodifendeva da critiche analoghe, ma resto dell´opinione che il grande Kandinsky non è quello del freddo tramonto, così come il grande Calvino non è quello di Se una notte d’inverno un viaggiatore.

Repubblica 15.6.09
Una rassegna al museo di Grosseto
Nell’anima etrusca
di Giuseppe M. Della Fina


GROSSETO. «La lotta fra Romani ed Etruschi fu più che una guerra di religione: fu una guerra di anime. Roma prevalse, ma qualcosa della romantica anima etrusca è rimasto, come una nube leggera». Così scriveva Alberto Savinio, e proprio agli Etruschi, anzi al loro periodo di maggiore splendore, è dedicata la mostra «Signori di Maremma. Elites etrusche fra Populonia e Vulci» allestita all´interno del Museo Archeologico e d´Arte della Maremma (sino al 31 ottobre). L´esposizione, curata dalle archeologhe Carlotta Cianferoni, Maria Grazia Celuzza e Simona Rafanelli, è incentrata sulla fase orientalizzante dell´Etruria tra gli ultimi decenni dell´VIII e primi del VI secolo a. C. e caratterizzata dalla piena affermazione di una ristretta aristocrazia.
L´attenzione è sulle aristocrazie di Populonia e Vetulonia, di una città-stato di cerniera come Roselle e d´importanti centri dell´interno quali Marsiliana d´Albegna, Poggio Buco e Pitigliano. Oltre duecento reperti provenienti per lo più da corredi funerari ricuperati nelle monumentali tombe gentilizie offrono l´immagine di aristocratici pienamente consapevoli, anzi orgogliosi del proprio ruolo di primissimo piano nella società del tempo con un´apertura rivolta verso il mondo greco e fenicio-punico. Da quest´ultimo venivano oggetti preziosi che risentivano l´influenza di soluzioni tecniche e stilistiche elaborate nel Vicino Oriente e veicolate dalle navi fenicie e cartaginesi; dal mondo greco provenivano sempre oggetti di lusso, ma soprattutto valori alla base di un´ideologia che continuò ad essere vitale in Etruria anche quando era già tramontata in Grecia e nelle aree ellenizzate del Mediterraneo.
Populonia è rappresentata soprattutto dal corredo funerario, esposto pressoché nella sua interezza, della tomba dei Flabelli. Si possono osservare, per la prima volta insieme, i due utensili che danno il nome al monumento: sono in bronzo e presentano una decorazione ottenuta a sbalzo; notevoli sono anche due armature complete con elmi e schinieri e un servizio di vasi bronzei per il banchetto e il simposio. La documentazione di Vetulonia è affidata al corredo della tomba del Duce che comprendeva, fra l´altro, un´urna cineraria in argento decorata a sbalzo e vasellame in bucchero di alta qualità ad esaltazione della perizia dei ceramisti etruschi.
Una preziosa statuetta d´avorio ricoperta da foglie d´oro e raffigurante una divinità femminile è in grado da sola di suggerire la raffinatezza e l´apertura mediterranea dei principi di Marsiliana d´Albegna: l´opera, realizzata forse localmente, venne scolpita da un artigiano originario del bacino orientale del Mediterraneo e immigrato in Etruria. Da Roselle provengono reperti ricuperati in un ambito diverso da quello funerario: dall´area della cosiddetta «casa con recinto», in cui è stato riconosciuto uno dei più antichi edifici pubblici dell´Etruria con valenza sia civile che religiosa. I centri di Poggio Buco e Pitigliano sono documentati prevalentemente da ceramiche come grandi crateri in bucchero e singolari vasi d´impasto ornati da figurine plastiche.

l’Unità 15.6.09
Intervista a Bijan Zarmandili
I brogli ci sono sicuramente stati. Ma il partito di Ahmadinejad ha lavorato capillarmente
Ora Mousavi cerca di dividere i conservatori
«Non solo speranza. Ai riformatori serve più autorevolezza»
di GA.B.


Bijian Zarmandili, studioso iraniano che vive da molti anni in Italia, segue con attenzione ed apprensione gli eventi in corso a Teheran. Gli chiediamo un commento.
Le notizie dall’Iran sono drammatiche e confuse. Secondo lei, Mousavi e l’opposizione hanno un piano o stanno improvvisando?
«Ecco, il dramma è proprio questo. Il movimento riformatore in Iran ha perso la seconda elezione presidenziale di fila. In precedenza gli otto anni della presidenza Khatami avevano sì modificato il Paese e creato una società civile attiva, ma non avevano intaccato la sostanza del regime. Perché? Perché i riformatori non hanno elaborato un progetto politico chiaro e forte rispetto a quello della nuova casta emergente imperniata sui Pasdaran e sugli apparati di sicurezza. Mousavi non è riuscito a rimediare a quella lacuna. Ha suscitato speranze fra i giovani, le donne, i ceti medi delle grandi città, ma ha dimostrato di non avere la statura politica ed il carisma per guidare un movimento così vasto verso traguardi tangibili. Per affrontare un avversario potente ed organizzato nelle varie articolazioni politiche, militari ed economiche in cui si esprime l’azione sociale dei Pasdaran e delle milizie Basiji, serve una testa pensante, un progetto articolato. Questo manca oggi in Iran, ed è un dramma, perché questa carenza può portare la protesta allo sbando».
Mousavi però, pur mobilitando i suoi verso un obiettivo ambizioso (l’annullamento del voto), si rivolge a interlocutori istituzionali: la Guida suprema, gli ayatollah di Qom, il Consiglio dei guardiani. Non è un segno di ponderazione e ragionevolezza?
«Il fatto è che non ha alternative. Non può uscire dai confini istituzionali, dalla dialettica interna alle strutture della Repubblica islamica. Inoltre Mousavi è consapevole della frattura che soprattutto nel corso dell’ultima campagna elettorale si è consumata fra la nuova destra emergente e la teocrazia classica. Sconfitta la tendenza riformatrice, lo scontro ora è interno al mondo conservatore. Fra le due componenti del quale, sceglie quella che può dargli una mano, cioè l’area di centro dei conservatori tradizionalisti. Per fare dei nomi, gente come Rafsanjani, Larijani, Velayati. Personalità e ambienti che hanno influenza sulla Guida suprema Khamenei. Ecco, se c’è un disegno politico da parte di Mousavi è questo: cercare alleati per tirare a sè Khamenei. Con quale esito è difficile dire.
Una stragegia che nel breve periodo punta a ottenere l’annullamento del voto, e nel lungo a ribaltare i rapporti di forza ai vertici del regime?
«Sì, anche se il vero risultato nel breve periodo non sarebbe tanto l’annullamento del voto, molto difficile. Piuttosto possono tentare di trasmettere al movimento l’idea che non si sta lottando invano, che esiste un referente politico della propria azione, che esiste un margine di dialogo, di negoziato. Certo tutto sarà molto condizionato dalla vivacità della protesta e dal tipo di repressione cui andrà incontro».
L’ipotesi di elezioni truccate è credibile?
«Ci sono stati brogli sicuramente, ma il successo di Ahmadinejad si spiega soprattutto con il lavoro capillare svolto nell’ultimo anno dal partito virtuale dei Baisji e dei Pasdaran attraverso i loro organismi politici ramificati nei luoghi di lavoro, di studio, nelle associazioni».

domenica 14 giugno 2009

Terra 14.6.09
Nel Pd? vacci tu
di Pino Di Maula, Luca Bonaccorsi


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La Provincia 14.6.09
Il regista di "Vincere" ha incantato il folto pubblico presente nell'Auditorium del Liceo Classico
Il duce e Ida Dalser
Ovazione per Bellocchio
di Licia Pastore


Il caloroso applauso di saluto con cui il foltissimo pubblico dell’Auditorium del Liceo Classico «Dante Alighieri» ha accolto l’ingresso di Marco Bellocchio, è stato il primo segnale di una serata che non ha avuto affatto le atmosfere di un semplice evento celebrativo. Uno spettacolo che per la prima volta in modo eccezionale, ha registrato il tutto pieno della sala, con un pubblico che alla fine della proiezione del film «Vincere» si è lasciato andare ad una lunghissima ovazione di consenso.
Una acclamazione confermata anche dalle numerose domande che sono state poste a Marco Bellocchio su una serie di temi. La scelta stilistica e le immagini del film hanno stimolato tante riflessioni che sono andate oltre il discorso dell’informazione e della discussione sulla vicenda storica della trama del film.
I temi sono stati davvero svariati e le richieste degli spettatori molto esigenti.
E’ stato proprio il preside Giorgio Maulucci ad avviare il dibattito su «Vincere» confermando che avendo visto il film per la seconda volta, ne aveva potuto apprezzare ancora più a fondo, i numerosi aspetti di riflessione.
Poi sono arrivate le domande di approfondimento sugli aspetti politici, sul rapporto tra Benito Mussolini e Ida Dalser e sui significati di una vicenda così travolgente ma altrettanto tragica.
Da una storia d’amore passionale, a una matrimoniale, istituzionale, con la moglie che sarà l’esatta rappresentazione della donna del fascismo. Madre e moglie.
Una storia che avrà un successivo riscontro anche nel comunismo, in cui dopo un primo momento «rivoluzionario» si finisce per centrare sulla «donna» con queste identiche caratteristiche. Opposte diametralmente alla figura di Ida Dalser.
Ribelle, dall’identità forte che non ha nulla a che vedere con la figura di Rachele.
«Mi ha affascinato la figura della donna che si ribella e che ad un certo punto è metaforicamente sola di fronte a tutto il Paese».
Marco Bellocchio non si è risparmiato nel lungo dibattito che ha avuto con il pubblico, offrendo con un linguaggio compresibilissimo, spunti di riflessione sugli aspetti prevalenti dell’attuale cultura dominante.
A questo proposito, sono arrivate anche domande sul perché nonostante l’indiscutibile bellezza del film definito come un vero «capolavoro», la giuria del festival di Cannes non gli abbia riconosciuto nessun premio.
La risposta è arrivata dai botteghini e dall’intenso consenso del pubblico che, nel caso della proiezione di ieri ha risposto inequivocabilmente.
Nella sala, oltre al Prefetto Bruno Frattasi che ha partecipato anche al dibattito, erano presenti oltre 400 spettatori, e da oggi le proieizioni di «Vincere» proseguiranno nella sala del cinema Oxer.
l’Unità 14.6.09
Il fascista di Arcore
di Giovanni Maria Bellu


La parola è difficile: schismogenesi. La coniò negli anni Trenta l'antropologo Gregory Bateson per descrivere certi rituali dei cannibali della Nuova Guinea. Nel 2002 è stata introdotta nel linguaggio politico per definire una delle principali tecniche di comunicazione di Silvio Berlusconi. Una tecnica antichissima. Ecco come la sintetizza lo psicologo Alessandro Amadori: «Si lancia, possibilmente in modo informale, una strategia di attacco, si ottiene in questo modo una controreazione spropositata, si nega di aver voluto attaccare».
Il controllo dell'informazione è di grande aiuto alla schismogenesi: consente, a posteriori, di edulcorare l'attacco e di enfatizzare la reazione presentandola sempre come «spropositata». E, in più, intimidisce l'avversario che magari tace nel timore di essere bollato come «antiberlusconiano». Di certo gli fa perdere tempo. Se qui da noi non ci fosse questo dominio della schismogenesi, non avremmo dovuto fare una premessa tanto lunga per dire che Silvio Berlusconi è un fascista. Più precisamente: se è vero che «ogni tempo ha il suo fascismo» (Primo Levi) Berlusconi è, nel nostro tempo e nel nostro paese, la personalità che più di ogni altra assume comportamenti che richiamano gli stilemi del fascismo. A partire dal disprezzo per la libertà di stampa.
Ogni tempo ha il suo fascismo anche perché, tra un fascismo e l'altro, gli uomini liberi tentano di darsi delle leggi che ne ostacolino il ritorno. E perché, tra un fascismo e l'altro, si consolidano dei valori universali. Oggi solo un pazzo potrebbe proporre il ripristino della censura in Italia, non solo perché la Costituzione la vieta, ma soprattutto perché sarebbe inaccettabile per l'intero mondo civile. È però possibile, quando si controlla l'informazione e si è a capo di un governo, agire per togliere ai giornali ancora liberi l'ossigeno per vivere. Per esempio la pubblicità che, come il nostro premier sa alla perfezione, in Italia ha già una distribuzione totalmente sbilanciata a favore del sistema televisivo e, cioè, delle sue tasche.
È esattamente quanto ieri (poche ore dopo le parole del presidente Napolitano sulla libertà di stampa come «fondamento della democrazia»)ha fatto Silvio Berlusconi parlando ai giovani industriali. Dopo aver descritto come una specie di golpe la collezione di scheletri che conserva nel suo armadio, ha detto (Ansa, ore 14,22): «Bisognerebbe non avere una sinistra e dei media che cantano ogni giorno la canzone del pessimismo. Anche voi dovreste fare di più: non dovreste dare pubblicità a chi si comporta così». Qualcuno deve avergli fatto notare che l'aveva sparata troppo grossa, ed ecco (Ansa, ora 15,01) la precisazione: «Mi riferivo non alla stampa, ma al leader dell'opposizione». La pezza non solo è quasi peggiore del buco, ma non lo chiude. Il premier ha lanciato un messaggio chiarissimo: le imprese che daranno pubblicità ai giornali che non gli piacciono, non saranno apprezzate dal governo. In una fase di crisi, l'argomento è efficace. E modernamente fascista.
Quanto alla schismogenesi, suggeriamo ai lettori di seguire i telegiornali di oggi.

l’Unità 14.6.09
Napolitano: «Libertà e pluralismo princìpi cardine della democrazia»
di Marcella Ciarnelli


Il monito del capo dello Stato arriva in contemporanea con le esternazioni del premier dalla Liguria. E sul ddl Alfano: «Esaminerò il testo e prenderò le decisioni che mi competono»

In modo esplicito il presidente della Repubblica ha voluto precisare di non avere alcuna intenzione di «entrare nel merito della situazione nazionale e della più o meno soddisfacente applicazione di questi principi» però con forza ha ribadito, nel corso dell’incontro conclusivo dei lavori dei cinque capi di Stato «Uniti per l’Europa», che «non possiamo avere dubbi sull’importanza fondamentale dei principi che devono presiedere all’attività di informazione dei paesi europei», è ha voluto ricordare a tutti che la tutela della libertà e del pluralismo rappresenta un principio cardine. In Europa. In Italia. Un paese dove è in corso proprio un lacerante dibattito parlamentare sulla legge sulle intercettazioni che, una volta approvata in via definitiva, arriverà sulla scrivania del Capo dello Stato. Napolitano sta seguendo con attenzione gli eventi e, già l’altro giorno, ha ricordato le prerogative che gli vengono dalla Costituzione e che sono quelle di «esaminare il testo e poi prendere le decisioni che mi competono». La linea del presidente è sempre stata quella che quando il Parlamento lavora lui non interviene in alcun modo. Nessuna forzatura ma massima attenzione.
Il dibattito al Senato, intanto, potrebbe portare a modifiche che tengano conto, almeno in parte, delle contestazioni che in questi giorni sono state avanzate, in primo luogo dall’opposizioni, dai giornalisti, da una parte della magistratura. Napolitano ha fatto appello alle «riserve di saggezza che ci sono nei nostri popoli e nelle nostre opinioni pubbliche» è ha invitato a dubitare mai dell’intreccio stretto tra democrazia e libertà. A cominciare da quella dell’informazione che deve essere sempre ispirata al pluralismo. Proprio mentre a qualche centinaio di chilometri di distanza, praticamente in contemporanea, Silvio Berlusconi spronava gli industriali a soffocare i media di sinistra togliendo ad essi la pubblicità. Poi il premier ha fatto marcia indietro. Secondo copione.
Quello di Napoli è stato il primo incontro tra capi di Stato dopo le elezioni europee della scorsa settimana. L’Italia ha ospitato nella sede storica di Palazzo Reale il tedesco Horst Kohaler, l’austriaco Heinz Fischer, l’ungherese Laszlo Solyom e il portoghese Anibal Cavaco Silva. Unanime la preoccupazione per l’astensionismo che ha caratterizzato la tornata elettorale. Napolitano ha definito «preoccupante» quel 43 per cento di media perché segna «una distanza tra politica e cittadini che va colmata» così come l’aumento dei consensi ai partiti euroscettici con punte di preoccupante xenofobia. La «discussione libera e franca» di cui Napolitano ha riferito, rispondendo poi con gli altri presidenti alle domande di alcuni studenti universitari, ha portato all’invito ad «una nuova motivazione e visione del progetto europeo». Sulla crisi economica Napolitano ha invitato «a misure di rilancio» ma senza «stravolgere le regole del mercato interno» .
Non è rimasta fuori dal confronto la novità Obama. Da tutti l’apprezzamento per i nuovi indirizzi della politica dell’amministrazione americana «senza nessun ingenuo miracolismo ma sapendo quali difficoltà la nuova amministrazione deve affrontare».

l’Unità 14.6.09
I fatti «eversivi» rimasti senza risposte
di Claudia Fusani


Noemi-gate, sentenza Mills, inchiesta sui voli di Stato, veline
Il premier, incalzato, replica con un contro-piano. Giustizia nel mirino

Un progetto «eversivo». Probabilmente ancora in corso «da parte di quei media disfattisti a cui è meglio non dare pubblicità». Poi i media diventano i «leader disfattisti come Franceschini», ma il messaggio sul «progetto eversivo» resta confermato. Così Berlusconi davanti alla platea dei giovani industriali a Santa Margherita ligure. «E’ eversione voler far decadere un Presidente del Consiglio - argomenta - scelto dal voto popolare per sostituirlo con qualcuno non eletto democraticamente».
Il Noemi-gate; le motivazioni della sentenza di condanna dell’avvocato inglese David Mills; l’inchiesta sui voli di stato ed eventuali abusi da parte della presidenza del Consiglio: ecco, tutto questo non è diritto di cronaca in funzione del diritto dei cittadini ad essere informati ma «un piano eversivo».
Il cerchio si chiude. E si capovolge. Il Presidente «vittima» aggiusta i fatti, li impacchetta e li confeziona come «un piano» contro di lui. Un piano ovviamente da cui difendersi, a sua volta, attaccando. Andiamo con ordine. Il piano eversivo conta tre capitoli, tutti pronti a deflagrare alla vigilia del voto del 6-7 giugno.
Il primo capitolo comincia, secondo il premier, il 26 aprile scorso quando la stampa dà conto della presenza del Presidente del Consiglio, con tanto di scorta in forza ai servizi segreti, alla festa per il diciottesimo della bionda Noemi Letizia che chiama il presidente «Papi». Continua, nei giorni a seguire, con Veronica Lario che accusa il marito di «frequentare minorenni» perché forse «non sta bene in salute». Prosegue con una serie di ambiguità e contraddizioni su chi sono i Letizia, quali legami e da quando. Domande alimentate da un rincorrersi di bugie e a cui il premier non risponde chiudendo la questione con: «Con Noemi mai nulla di piccante». Insomma non ha fatto, dice, sesso con minorenni. Il punto, al solito, non sono le abitudini private del premier. Il punto è un premier non può dire bugie.
Del secondo capitolo parla solo dicendo ai giornalisti di non fare domande che tanto lui non risponde. Si concretizza il 19 maggio giorno in cui la cancelleria del tribunale di Milano deposita le motivazioni della sentenza Mills spiegando perché, in quale momento e grazie a quali passaggi di società off shore il premier è il corruttore del corrotto avvocato Mills. «Depositano ora per farmi fuori, il solito complotto dei giudici» attacca il premier protetto dallo scudo Alfano a cui non intende rinunciare. Nota tecnica: la sentenza Mills è stata pronunciata il 17 febbraio 2009 e, per legge, le motivazioni devono essere depositate entro sessanta giorni dalla sentenza. Così è stato. Infine i voli di stato. Le migliaia di foto di Zappadu dimostrano che sui voli di stato, cioè quelli che pagano i cittadini (60 milioni solo nel 2009), hanno viaggiato con destinazione Villa Certosa-Sardegna ballerine, cantanti, coristi e amiche varie. Non solo: si scopre anche che aeromobili Fininvest hanno la qualifica di volo di stato. Per questo capitolo Berlusconi è indagato per abuso di ufficio e le opposizioni in Parlamento attendono spiegazioni. Il «piano eversivo» diventa così giustificazione e alibi per il contro piano del premier «in pericolo». I suoi collaboratori più stretti, Niccolò Ghedini in testa, la chiamano «fase 2» e punta esplicitamente a riformare la giustizia, che tanto da lì cominciano sempre i guai. Già che ci sono anche i media. Il ddl sulle intercettazioni comprensivo di bavaglio alla stampa è solo l’assaggio. Prima della pausa estiva sono in agenda la riforma del processo penale e quella del Csm.

Repubblica 14.6.09
Il Cavaliere e il suo fantasma
di Ezio Mauro


Dunque siamo giunti al punto in cui il Presidente del Consiglio denuncia pubblicamente un vero e proprio progetto eversivo per farlo cadere e sostituirlo con «un non eletto dal popolo». Un golpe, insomma, nel cuore dell´Europa democratica, come epilogo dell´avventura berlusconiana, dopo un quindicennio di tensioni continue introdotte a forza nel discorso pubblico italiano: per tenere questo sventurato Paese nella temperatura emotiva più adatta al populismo che può dominare le istituzioni solo sfidandole, fino a evocare il martirio politico.
È proprio questa l´immagine drammatica dell´Italia che l´uomo più ricco e più potente del Paese porta oggi con sé in America, all´incontro con Obama.
Solo Berlusconi sa perché dice queste cose, perché solo lui conosce la verità, che non può rivelare in pubblico, della sciagura che lo incalza. Noi osserviamo il dramma di un leader prigioniero di un clima di sconfitta anche quando vince perché da quindici anni non riesce a trasformarsi in uomo di Stato nemmeno dopo aver conquistato per tre volte il favore del Paese.
Quest´uomo ha con sé il consenso, i voti, i numeri, i fedeli. Ma non ha pace, la sicurezza della leadership, la tranquillità che trasforma il potere in responsabilità. Lo insegue l´altra metà di se stesso, da cui tenta di fuggire, sentendosi ghermito dal fondo oscuro della sua stessa storia. E´ una tragedia del potere teatrale e eccessiva, perché tutto è titanico in una vicenda in cui i destini personali vengono portati a coincidere col destino dell´Italia. Una tragedia di cui Berlusconi, come se lo leggesse in Shakespeare, sembra conoscere l´esito, sino al punto da evocare la sua fine davanti al Paese.
In realtà, come è evidente ad ogni italiano di buon senso, non c´è e non ci sarà nessun golpe. C´è invece un rapido disfacimento di una leadership che non ha saputo diventare cultura politica ma si è chiusa nella contemplazione del suo dominio, credendo di sostituire lo Stato con un uomo, il governo con il comando, la politica con il potere assoluto e carismatico.
Oggi quel potere sente il limite della sua autosufficienza. Ciò che angoscia Berlusconi è il nuovo scetticismo istituzionale che avverte intorno a sé, il distacco internazionale, il disorientamento delle élite europee, le critiche della stampa occidentale, la freddezza delle cancellerie (esclusi Putin e Gheddafi), lo sbigottimento del suo stesso campo: dove la regolarità istituzionale di Fini risalta ogni giorno di più per contrasto.
Il Cavaliere sente di aver perso il tocco, che aveva quando trasformava ogni atto in evento, mentre lo spettacolo tragicomico dei tre giorni italo-libici dimostra al contrario che le leggi della politica non sono quelle di uno show sgangherato.
Soprattutto, Berlusconi capisce che la fiaba interrotta di un´avventura sempre vittoriosa e incontaminata si è spezzata, semplicemente perché gli italiani improvvisamente lo vedono invece di guardarlo soltanto, lo giudicano e non lo ascoltano solamente. E´ in atto un disvelamento. Questa è la crepa che il voto ha aperto dentro la sua vittoria, e che è abitata oggi da queste precise inquietudini.
Il Cavaliere ha infatti ragione quando indica i quattro pilastri che perimetrano il campo della sua recente disgrazia: le veline, le minorenni, lo scandalo Mills e gli aerei di Stato. Giuseppe D´Avanzo, che su questi temi indaga da tempo con risultati che Berlusconi conosce benissimo, spiega oggi perché siano tutt´altro che calunnie come dice il premier. Sono quattro casi che il Cavaliere si è costruito con le sue mani, che lo perseguitano perché non può spiegarli, che lui evoca ormai quotidianamente mentre tenta di fuggirli, e che formano insieme uno scandalo pubblico, tutt´altro che privato: perché dimostrano, l´uno insieme con l´altro, l´abuso di potere come l´opinione pubblica comprende ogni giorno di più.
E´ proprio questo il sentimento del pericolo che domina oggi Berlusconi. Incapace di parlare davvero al Paese, di confrontarsi con chi gli pone domande, di assumersi la responsabilità dei suoi comportamenti, reagisce alzando la posta per trascinare tutto - le istituzioni, lo Stato - dentro la sua personale tragedia: di cui lui solo (insieme con la moglie che di questo lo ha avvertito, pochi giorni fa) conosce il fondo e la portata. Reagisce minacciando: l´imprenditore campione del mercato invita addirittura gli industriali italiani a non fare pubblicità sui giornali «disfattisti», quelli che cioè lo criticano, perché la sua sorte coincide col Paese. Poi si corregge dicendo che voleva invitare a non dar spazio a Franceschini, come se non gli bastasse il controllo di sei canali televisivi ma avesse bisogno di un vero e proprio editto. E´ qualcosa che non si è mai visto nel mondo occidentale, anche se la stampa italiana prigioniera del nuovo conformismo preferisce parlar d´altro, come se non fosse in gioco la libertà del discorso pubblico, che forma l´opinione di ogni democrazia.
In realtà Berlusconi minaccia soprattutto se stesso, rivelando questa sua instabilità, questa paura. Se sarà coerente con le sue parole, c´è da temere il peggio. Cosa viene infatti dopo la denuncia del golpe? Quale sarà il prossimo passo? E se c´è una minaccia eversiva, allora tutto è lecito: dunque come userà i servizi e gli altri apparati il Cavaliere, contro i presunti «eversori»? Come li sta già usando? Chi controlla e chi garantisce in tempi che il premier trasforma in emergenza?
Attendiamo risposte. Per quanto ci riguarda, continueremo a comportarci come se fossimo in un Paese normale, dove la dialettica e anche lo scontro tra la libera stampa e il potere legittimo del Paese fanno parte del gioco democratico. Poi, ognuno giudicherà dove saprà fermarsi e dove potrà arrivare questo uso privato e già violento del potere statale da parte di un uomo che sappiamo pronto a tutto, anche a trasformare la crisi della sua leadership in una tragedia del Paese.

Repubblica 14.6.09
Il successo della destra e la sconfitta del suo capo
di Eugenio Scalfari


Innanzitutto i voti. Ormai i dati sono ampiamente disponibili e possiamo dunque trarne alcune conclusioni. Ma bisogna distinguere le astensioni dai suffragi ottenuti in percentuale e in numeri assoluti.
I votanti per il Parlamento europeo sono scesi dal 73 al 66 per cento del corpo elettorale, sette punti in meno. Togliendo un 20 per cento di astensione fisiologica, le astensioni motivate politicamente ammontano dunque al 15 per cento, più o meno sette milioni e mezzo di persone. Gli astenuti che nelle precedenti elezioni del 2008 avevano votato per i democratici ammontano a due milioni e seicentomila; circa seicentomila hanno penalizzato le liste minori, oltre tre milioni e duecentomila vanno a carico del Pdl. Ecco dunque una prima indicazione importante.
Veniamo ai voti espressi paragonati al 2008, sebbene non sia corretto confrontare elezioni europee ed elezioni politiche. Il calo subito dal Pdl è stato di due punti, quello del Pd di sette. La Lega è oltre il 10 per cento su base nazionale, non ha sorpassato il Pdl in nessuna regione, ma gli ha tolto molto in Piemonte e nel Lombardo-Veneto. È cresciuta (rispetto alle europee del 2004) di otto punti nel Nordovest, undici nel Nordest, due punti e mezzo nel Centro. La sua avanzata è stata rilevante in Emilia con un aumento dell´11per cento.
In conclusione: arretra il Pdl sia in voti assoluti sia in percentuale; ancora di più arretra il Pd e si accresce il distacco tra i due partiti; raddoppiano la Lega e Di Pietro (rispetto al 2008).
Avanza di un punto Casini, la sinistra radicale cresce complessivamente di due punti ma non supera la soglia di sbarramento e quindi non entra nel Parlamento di Strasburgo e così pure i radicali. Il Pd perde voti a favore di tutti gli altri partiti salvo il Pdl il quale a sua volta cede voti alla Lega e (pochi) all´Udc.
Il Pdl è più penalizzato dalle astensioni che dai voti espressi, il Pd da tutti e due questi elementi.
La Chiesa si è ripetutamente dichiarata contraria alla politica del governo nei confronti dell´immigrazione e il clero delle parrocchie si è discretamente mobilitato in favore dell´Udc con risultati però molto modesti. Una valutazione attendibile stima in 700mila voti lo spostamento verificatosi a seguito di queste raccomandazioni parrocchiali. In realtà un 20 per cento dei voti cattolici ha scelto di astenersi rispetto a precedenti votazioni in favore del Pdl.
Questo è il quadro d´insieme, che sarebbe tuttavia incompleto se non lo si inquadra nel contesto europeo.
* * *
In Europa si è verificata una frana di proporzioni inusitate dei socialisti in tutti i paesi dell´Unione salvo due modeste eccezioni. Particolarmente gravi i risultati dei socialisti francesi (addirittura scavalcati dai voti del movimento verde di Cohn-Bendit), dei laburisti inglesi e della Spd tedesca.
L´effetto paradossale di queste disfatte, alle quali occorre aggiungere l´insuccesso di Zapatero, ha portato il Partito democratico in testa alla graduatoria delle formazioni progressiste ed ha reso possibile la formazione d´un gruppo parlamentare a Strasburgo formato da un´inedita alleanza tra il Pse e i democratici italiani. Si tratta di una novità cui ha lavorato con tenacia Dario Franceschini e che apre la strada a nuovi sviluppi internazionali, ma resta che la sinistra europea è in piena crisi mentre avanza dovunque la destra moderata ma anche le formazioni xenofobe ed estremiste.
Se si guarda la situazione dal punto di vista dei governi in carica, c´è stata un´erosione del consenso che ha superato soltanto Sarkozy. Tutti gli altri hanno perso voti indipendentemente dal loro colore politico. Le cause vanno attribuite in parte alla crisi economica e in parte al tema dell´immigrazione e della insicurezza in proporzioni diverse da paese a paese.
Da questo punto di vista l´Italia non fa eccezione: la sinistra è stata punita, il Pdl ha perso voti, la Lega aumenta in percentuali e in voti assoluti.
Qui da noi il quadro è reso più complicato dalle contemporanee elezioni in molte province e comuni. Il patrimonio del centrosinistra era molto cospicuo ai nastri di partenza perché le precedenti elezioni del 2004 erano avvenute in una fase di scarsa popolarità berlusconiana favorendo ampiamente l´Ulivo. Oggi, in una situazione ben diversa, il pingue patrimonio di amministrazioni locali di centrosinistra non poteva che cedere di fronte alla spinta degli avversari. Infatti ha già ceduto in parecchi luoghi ma altre importanti amministrazioni sono andate in ballottaggio, sicché un bilancio definitivo si potrà fare soltanto il 21 giugno, fermo restando fin d´ora che anche nel potere locale sta avvenendo una scossa robusta in favore del centrodestra.
Ancora qualche osservazione, che è stata finora sostanzialmente ignorata, su quanto è accaduto in Sicilia, una regione considerata da tempo serbatoio di voti per la destra berlusconiana.
In Sicilia nel 2008 il Pdl aveva ottenuto il 46,6 per cento dei voti; è sceso alle europee al 36,6 per cento, dieci punti sotto. In valore assoluto la perdita è ancora maggiore: da un milione e 300mila voti a 600mila. Commenta Roberto Alimonte su "24 Ore": «La metà degli elettori siciliani del Cavaliere si è volatilizzata». Riassorbire la crisi siciliana sarà uno dei compiti che Berlusconi dovrà darsi al più presto. Ma ce n´è un altro assai più incombente per lui, sul quale ora dobbiamo soffermarci ed è quello del suo personale logoramento interno e internazionale.
* * *
La sua immagine pubblica ha subito un colpo evidente, ampiamente registrato da tutta la stampa occidentale e in tutte le capitali d´Europa e d´America. Non si tratta, come ancora i suoi "supporter" si ostinano a sostenere, di un "gossip" che riguarderebbe soltanto la sua vita privata, sebbene la vita privata d´un presidente del Consiglio sia in tutte le democrazie occidentali sotto i riflettori della pubblica opinione.
Si tratta invece d´una serie di fatti resi di pubblico dominio da sua moglie e da lui stesso in varie trasmissioni televisive; si tratta delle sue incerte versioni di quei fatti gremite di contraddizioni e reticenze, del suo ostinato silenzio su alcuni aspetti che hanno minato la sua credibilità. Si tratta infine e soprattutto di un aspetto estremamente grave per un capo di governo e cioè della sua potenziale ricattabilità.
Essa deriva da due circostanze particolarmente inquietanti. La prima: la sua frequentazione, della quale si continua ad ignorare l´origine, con il signor Letizia, padre della giovane Noemi, personaggio quanto mai equivoco con precedenti penali e relazioni di assai dubbia natura tra Secondigliano, Scampia, Casoria.
La seconda: il materiale fotografico in possesso di un fotografo sardo che forse non contiene nulla di particolarmente compromettente ma che costituisce un deposito di immagini ormai in circolazione internazionale che può esser fonte di intimidazione e di veri e propri ricatti da parte di personaggi spregiudicati e perfino di servizi più o meno segreti.
L´opinione pubblica italiana, nonostante il silenzio delle emittenti televisive e le reticenze di gran parte della stampa, ha percepito la gravità di una situazione che è stata altrettanto percepita nelle cancellerie dei nostri principali partner e alleati.
L´interessato avrebbe ancora la possibilità di fare chiarezza almeno sulla prima circostanza e cioè sulle origini e la natura dei suoi rapporti con il Letizia. Quanto alle centinaia di fotografie in circolazione, esse raffigurano senza dubbio una violazione della sua "privacy" ma ciò non toglie nulla alla loro oggettiva pericolosità e al sospetto che possano tradursi in strumenti di ricatto e di debolezza del capo del governo.
Questa situazione reagisce inevitabilmente sulle tensioni interne tra i membri del governo e tra le varie componenti della maggioranza, aggravate dai nuovi rapporti di forza tra la Lega e il Pdl; accentua le prese di distanza di Gianfranco Fini; spinge Berlusconi a interventi sempre più scomposti e a provvedimenti sempre meno accettabili, l´ultimo dei quali sulle intercettazioni sta suscitando proteste corali, allarma il Capo dello Stato e può precipitare una crisi tra i poteri dello Stato.
* * *
Se l´opposizione non fosse così fortemente debilitata avremmo almeno un aggancio robusto per riportare ordine e chiarezza. Purtroppo anch´essa ha perso credibilità anche se la campagna elettorale condotta dal segretario Franceschini è riuscita almeno a contenere le perdite salvando il salvabile. Sono molti ora a chiedere in che modo si possa e si debba costruire un partito che ancora non c´è, che è ancora un´ipotesi di lavoro e fatica a decollare per debolezza dei motori e insufficiente portanza.
Ci sono almeno tre esigenze generalmente avvertite: la prima è quella di radicare il partito nel territorio, la seconda è di selezionare una classe dirigente nuova, la terza riguarda la vecchia nomenclatura composta da quelli che guidarono i vari spezzoni confluiti nel Pd. I membri di quella nomenclatura non sono affatto da ostracizzare; rappresentano tuttora un deposito di esperienze, memorie, valori. Ma dovrebbero riporre ambizioni e pretese rassegnandosi ad un ruolo che resta peraltro di notevole importanza: ruolo di padri e di zii, ruolo di saggezza e incoraggiamento, non di comando e di intervento.
Quando Veltroni si dimise, con lui fece un passo indietro l´intero vecchio gruppo dirigente e questo fu l´aspetto positivo di quella drammatica ma ormai necessaria decisione. Sembra tuttavia che ora quel collettivo passo indietro sia rimesso in discussione e si riaccendano tra gli zii sentimenti di rivalsa e nuovi fuochi di battaglia.
«Come cavallo che uso alla vittoria / a tarda giovinezza e controvoglia / tra carri veloci torna a gara»: così cantava Ibico. Controvoglia non so, ma certo il tornare a gara di tutta la vecchia nomenclatura sbarra la strada al necessario rinnovamento e riaccende eterne dispute che un corpo sano e robusto potrebbe sopportare ma un corpo debilitato non tollera rischiando la sua stessa sopravvivenza.
Così il tema delle alleanze. E´ un tema da costruire quando il Pd si sarà rafforzato, avrà riacquistato credibilità e potrà costituire l´elemento centrale di uno schieramento con un programma comune, comuni convinzioni e comune visione del bene pubblico. Disputare oggi sulle alleanze di domani è soltanto un modo per riaccendere la rissa interna. Nella situazione attuale è un´operazione ad altissimo rischio.

Post Scriptum. La visita del colonnello Gheddafi in Italia, non priva di interessi concreti per il nostro paese, ha avuto aspetti di farsa che purtroppo si sono mescolati alla farsa nostrana. Ne è risultato un mix assai poco digeribile che rende ancor più grottesca e flebile la nostra credibilità internazionale.

Repubblica 14.6.09
Quelle 4 "calunnie" sono 4 bugie del premier
Le quattro menzogne del Cavaliere da Noemi al caso Mills
Le versioni di Berlusconi e la realtà dei fatti
di Giuseppe D’Avanzo


Dice Berlusconi a Santa Margherita Ligure: «Su quattro calunnie messe in fila – veline, minorenni, Mills e voli di Stato – è stata fatta una campagna che è stata molto negativa per l´immagine all´estero dell´Italia». Il significato di calunnia è «diceria o imputazione, coscientemente falsa e diretta ad offendere l´integrità o la reputazione altrui» (Devoto e Oli). Per comprendere meglio quali siano, per il premier, le «dicerie o imputazioni coscientemente false» raccolte contro la sua reputazione bisogna leggere il Corriere della sera di ieri.
Nel colloquio il Cavaliere spiega quali sono le quattro menzogne, strumenti del fantasioso «progetto eversivo». Qui si vuole verificare, con qualche fatto utile e ostinato, se la lamentazione del Cavaliere ha fondamento e chi alla fine mente, se Berlusconi o chi oppone dei rilievi alla "verità" del capo del governo.
1 «Hanno iniziato scrivendo che c´erano "veline" nelle liste del Pdl alle Europee. Non erano "veline" e sono state tutte elette». (Berlusconi al Corriere, 13 giugno, pagina 9)
I ricordi del Cavaliere truccano quel che è accaduto e banalizzano una questione che, fin dall´inizio, è stata esclusivamente politica, per di più sollevata nel suo campo. Sono i quotidiani della destra, e quindi da lui controllati direttamente o indirettamente influenzati, a dar conto dell´affollamento delle "veline" nelle liste europee del Popolo della Libertà. Comincia il Giornale della famiglia Berlusconi, il 31 marzo. Ma è il 22 aprile, con il titolo «Gesto da Cavaliere. Le veline azzurre candidate in pectore» - sommario, «Silvio porta a Strasburgo una truppa di showgirl» - che Libero rivela i nomi del cast in partenza per Strasburgo: Angela Sozio, Elisa Alloro, Emanuela Romano, Rachele Restivo, Eleonora Gaggioli, Camilla Ferranti, Barbara Matera, Ginevra Crescenzi, Antonia Ruggiero, Lara Comi, Adriana Verdirosi, Cristina Ravot, Giovanna Del Giudice, Chiara Sgarbossa, Silvia Travaini, Assunta Petron, Letizia Cioffi, Albertina Carraro. Eleonora e Imma De Vivo e «una misteriosa signorina» lituana, Giada Martirosianaite.
Contro queste candidature muove la fondazione Farefuturo, presieduta da Gianfranco Fini. Il pensatoio, diretto dal professor Alessandro Campi, denuncia l´«impoverimento della qualità democratica del paese» e, con un´analisi della politologa Silvia Ventura, avverte che «l´uso strumentale del corpo femminile (…) denota uno scarso rispetto (…) per le istituzioni e per la sovranità popolare che le legittima» (www. ffwebmagazine. it).
Queste scelte sono censurate, infine, anche da Veronica Lario che le definisce «ciarpame senza pudore del potere» (Ansa, 29 aprile). Il "fuoco amico" consiglierà Berlusconi a gettare la spugna, nella notte del 29 aprile. In una telefonata da Varsavia alle 22,30 in viva voce con i tre coordinatori del Pdl, La Russa, Bondi e Verdini, il premier dice: «E va bene, bloccate tutto. Togliete quei nomi. Sostituitele». Molte "veline", in interviste pubbliche, diranno della loro amarezza per l´esclusione.
2 «Poi hanno tirato in ballo Noemi Letizia, come se fossi una persona che va con le minorenni. In realtà sono solo andato a una festa di compleanno, e per me - che vivo tra la gente - è una cosa normale». (Berlusconi al Corriere, 13 giugno, pagina 9).
Non c´è un grano di "normalità" nei rapporti tra il Cavaliere e i Letizia. Dopo 31 giorni, è ancora oscuro (e senza risposta) come sia nato il legame tra Berlusconi e la famiglia di Noemi. L´ultima versione ascoltata è contraddittoria come le precedenti. Elio Letizia sostiene di aver presentato la figlia al capo del governo in un luogo privato, nel suo studio a Palazzo Grazioli, alla vigilia del Natale del 2001. Berlusconi, nello stesso giorno, ha ricordato di averla conosciuta in un luogo pubblico, «a una sfilata». Ma la "diceria" che il capo del governo denuncia è di «andare con minorenni». E´ stata Veronica Lario per prima a svelare che il marito «frequenta minorenni» (Repubblica, 3 maggio). La circostanza è stata confermata dall´ex-fidanzato di Noemi (Gino Flaminio) che colloca il primo contatto telefonico tra il capo del governo e la ragazza nell´autunno del 2008. Le parole di Gino costringono Berlusconi - contrariamente a quanto fino a quel momento aveva detto («Ho visto sempre Noemi alla presenza dei genitori») - ad ammettere di aver avuto Noemi ospite a Villa Certosa per dieci giorni a cavallo del Capodanno 2009, accompagnata da un´amica (Roberta O.) e senza i genitori. Nel gennaio del 2009, Noemi come Roberta, era minorenne. Dunque, è corretto sostenere che Berlusconi frequenti minorenni.
3 «Nel frattempo si sono scatenati sul "caso Mills", un avvocato che non conosco di persona» (Berlusconi al Corriere, 13 giugno, pagina 9)
Negli atti del processo contro David Mills (teste corrotto, condannato a 4 anni e 6 mesi di carcere) e Silvio Berlusconi (corruttore, ma immune per legge ad personam), sono dimostrati con documenti autografi, per ammissione dell´imputato, con le parole di testimoni indipendenti, gli incontri del Cavaliere con l´avvocato inglese che gli ha progettato e amministrato l´arcipelago delle società off-shore All Iberian, il «gruppo B di Fininvest very secret». Un documento scovato a Londra dà conto di un incontro al Garrick Club di Garrick Street (discutono delle società estere e Berlusconi autorizza Mills a trattenere 2 milioni e mezzo di sterline parcheggiati sul conto dell´Horizon Limited). Un altro documento sequestrato a Mills fa riferimento a una «telefonata dell´altra notte con Berlusconi». Mills, interrogato, ammette di aver parlato con il Cavaliere la notte del 23 novembre 1995. Ancora Mills, il 13 aprile 2007, conferma di aver incontrato Berlusconi ad Arcore. L´avvocato «descrive anche la villa» (dalla sentenza del tribunale di Milano).
Due soci di Mills nello studio Withers, ascoltati da una corte inglese, così rispondono alla domanda: «C´è stata mai una riunione tra Mills e Berlusconi?». Jeremy LeM. Scott dice: «So che c´è stato un incontro per mettersi d´accordo sul dividendo». A Virginia Rylatt «torna in mente che lui [Mills] era ritornato dal signor Berlusconi». E´ una menzogna, forse la più spudorata, che il capo del governo non abbia mai conosciuto David Mills.
4 «Infine hanno montato un caso sui voli di Stato che uso solo per esigenze di servizio» (Berlusconi al Corriere, 13 giugno, pagina 9).
In una fotografia scattata dal fotografo Antonello Zappadu si vede lo stornellatore del Cavaliere, Mariano Apicella, scendere da un aereo di Stato. Dietro di lui, una ballerina di flamenco. Il fotoreporter sostiene che l´immagine è stata scattata il 24 maggio 2008. In quel giorno era ancora in vigore un decreto del governo Prodi che limitava l´uso degli aerei di Stato «esclusivamente alle personalità e ai componenti della delegazione della missione istituzionale». Si può sostenere che Apicella e la ballerina facevano parte di una «missione istituzionale»? E´ quanto dovrà accertare il Tribunale dei ministri sollecitato dalla Procura di Roma a verificare, per il capo del governo, l´ipotesi di abuso d´ufficio. Infatti soltanto due mesi dopo, il 25 luglio 2008, il presidente del consiglio ha cambiato le regole per i "voli di Stato" prevedendo «l´imbarco di personale estraneo alla delegazione», ma «accreditato su indicazione dell´Autorità in relazione alla natura del viaggio, al rango rivestito dalle personalità trasportate, alle esigenze protocollari e alla consuetudini anche di carattere internazionale». Il caso sui "voli di Stato", che è poi un´inchiesta giudiziaria dovrà accertare se musici, ballerine, giovani ospiti del presidente viaggiano in sua compagnia (con quale rango?) o addirittura in autonomia, nel qual caso l´abuso d´ufficio può essere evidente.
Quindi, quattro «calunnie» o quattro menzogne presidenziali? Si può concludere che Berlusconi, a Santa Margherita Ligure, ancora una volta ha precipitato coscientemente la vita pubblica nella menzogna nella presunzione di abolire l´idea stessa di verità.

Repubblica 14.6.09
Boom di adesioni sul sito di Repubblica.it
Oltre 150mila firme contro la legge bavaglio


ROMA - Sono oltre 150mila le persone che hanno sottoscritto l´appello di Repubblica. it contro il disegno di legge sulle intercettazioni approvato dalla Camera. Insieme alla firma dei premi nobel Dario Fo e Renato Dulbecco, dell´ex vicepresidente del Csm Virginio Rognoni, dei registi Mario Monicelli e Carlo Lizzani, degli scrittori Antonio Scurati, Gianrico Carofiglio, Giancarlo De Cataldo, sono arrivate adesioni anche dagli Stati Uniti e da altri Paesi europei, dai grandi e dai piccoli centri italiani. Per ribadire che «i giornali hanno il dovere di informare» e «i cittadini hanno il diritto di conoscere e sapere». Il testo dell´appello afferma che la nuova legge «è incostituzionale, limita fortemente le indagini, vanifica il lavoro di polizia e magistrati, riduce la libertà di stampa e la possibilità di informare i cittadini e per questo va fermata». A sottoscriverlo Mercedes Besso, presidente della Regione Piemonte, Claudio Martini, governatore della Toscana, ma anche il procuratore capo di Modena Vito Zincani e Beppino Englaro. Alte le sottoscrizioni nel corso del fine settimana da parte di quanti sono convinti - come ha affermato lo scrittore Roberto Saviano aderendo all´appello - che la legge «cancella un importante strumento per la ricerca della verità».

Corriere della Sera 14.6.09
I timori di un «governo di emergenza economica»
E Silvio si sente nel mirino: pronto a nuove offensive sperando nell’asse con Bossi
di Francesco Verderami


ROMA — Ora inizierà la caccia a «mister x», a quella «persona» che avrebbe dovuto «destituire» il Cava­liere con un «piano eversivo», co­struito — secondo il premier — sul­le «quattro calunnie messe in fila contro di me»: «Veline, minorenni, Mills e voli di Stato». Gli indizi non mancano per costruire un teorema, ma la caccia al personaggio misterio­so resterà un gioco di società, un gossip sul gossip, almeno finché reg­gerà il patto tra Berlusconi e Bossi.
Perché è vero che il Cavaliere si sente nel centro del mirino, e non perde mai di vista le ombre da cui si sente circondato: ascolta le voci del Palazzo dove si ipotizza un fantoma­tico «governo di emergenza econo­mica », testa la notorietà e il gradi­mento di personaggi come Draghi e Montezemolo, e scruta soprattutto i movimenti di importanti cariche istituzionali e di autorevolissimi membri del suo stesso gabinetto, cercando di capire il gioco a inca­stro con pezzi dello Stato, presunti artefici di un’operazione comunque interna al centrodestra. Così s’intui­sce, a decrittare la battuta del mini­stro Rotondi, che nelle settimane scorse ha parlato del «tentativo di creare un moderno caso Montesi ma senza vittime».
Sembra di rivedere le scene del film Todo Modo tratto dal romanzo di Sciascia, dove i potenti leader de­mocristiani riempivano la stanza di santità prima di lasciar spazio ai re­foli del maligno. Nell’inner circle di Berlusconi si avverte il nervosismo che il leader trasmette a fasi alter­ne. Perché ancora l’altro giorno, per ore e ore, si è appartato con la Brambilla per studiare uno spot con cui promuovere il turismo nazionale all’estero. E quando l’ha illu­strato — spiegando che nel filmato avrebbe avuto il ruolo di promoter delle bellezze italiche — gli è stato fatto notare che il copione somiglia­va un po’ alla pubblicità dei tortelli Rana. «Se permettete — ha rispo­sto sorridente il premier — sono un figurino niente male rispetto al­l’amico Rana». Insomma aleggia un misto di an­sia e ilarità attorno al problema, che però esiste a sentire i boatos prove­nienti da alcune procure, o il com­mento del ministro Gelmini dopo la denuncia del «piano eversivo» da parte di Berlusconi: «Credo che ab­bia qualche motivazione per essere preoccupato». Ma ci sarà un motivo se il premier è passato politicamen­te indenne per quindici anni attra­verso numerose traversie giudizia­rie, mentre ora sembra accusare il colpo per storie più da rotocalco ro­sa. È come se avversari senza volto e senza nome avessero trovato il suo punto debole. Ed è stato proprio il Cavaliere a offrire il fianco, è stato lui ad accendere la miccia, andando a Casoria per la festa di Noemi che lo chiama «papi».
Nell’ultimo report riservato sul «giudizio dei leader», redatto da Ip­sos per il Pd, c’è il segno evidente di quanto la vicenda abbia impattato sulla politica. Prendendo come date di riferimento i test del 22 aprile e dell’11 giugno, si nota come Berlu­sconi è sceso dal 60% al 53,1% (con un minimo che ha toccato il 51%); Franceschini è calato dal 49,1% al 43,7% (con un gradimento comun­que superiore al partito di tre pun­ti); mentre Bossi è salito dal 40,2% al 46,4%; Di Pietro è passato dal 40,1% al 42,1%; e Casini è balzato dal 47% al 51,8%. Il lavorio ai fianchi del Cavaliere, quel «tarlo» insinuato nell’opinione pubblica hanno lascia­to il segno. Ed è vero che dalle urne è emersa una tendenza chiara verso il centrodestra, ma l’immagine di Berlusconi è stata logorata. Specie a livello internazionale.
Cosa succederebbe se dovessero concretizzarsi i timori del premier e di molti esponenti del Pdl? Se cioè lo stillicidio dovesse proseguire? Se altre vicende, magari senza risvolti giudiziari, chiamassero ancora in causa il Cavaliere sulla base del­l’odierno canovaccio? Il provvedi­mento approvato dalla Camera sul­le intercettazioni telefoniche non è ancora legge. E comunque — è già accaduto con le foto di Villa Certosa — non garantirebbe all’estero. È im­maginabile cosa accadrebbe se i me­dia stranieri rilanciassero durante il G8.
Forse allora è questa la vera chia­ve con cui interpretare la sortita di Berlusconi davanti ai giovani indu­striali. La denuncia di un «piano eversivo» è un modo per prepararsi e preparare il Paese a un’eventuale nuova offensiva. Non voleva essere una battuta, quella fatta dal Cavalie­re giorni fa, quando ha detto: «Sto preparando un matrimonio tra Noe­mi e Mills, e metterò loro a disposi­zione un aereo di Stato». Era un se­gnale non una boutade.
Quindi, più che ricostruire l’iden­tikit di «mister x», sarà decisivo ve­rificare quanto è solido l’asse tra Berlusconi e Bossi, e se davvero il Senatùr — come ha fatto capire — non accetterà di appoggiare qualsi­voglia esecutivo in cui il Cavaliere non sia il premier. Se così fosse, un’eventuale crisi di governo si tra­scinerebbe fino a traumatiche ele­zioni anticipate. Scenari di cui si di­scute nei palazzi istituzionali. Ma perché se ne discute oggi se il gover­no Berlusconi dovrebbe durare an­cora quattro anni?

Corriere della Sera 14.6.09
La politica e l’usanza di accusare i giornali
di Paolo Franchi


Dice il presidente del Consiglio che la stampa «dipinge un’Italia che non è quella reale». L’affermazione è, come sem­pre, un po’ perentoria, ma contiene un elemento di verità: se mai un giorno venissero convocati, gli stati generali dell’infor­mazione italiana farebbero bene a rifletterci su. Non sarebbe male, però, se nel frattempo Silvio Berlusconi ci dicesse pure, anche per capire meglio di che cosa stiamo parlando, qual è l’Italia vera che i giornali dovrebbero, a suo giudizio, racconta­re. Perché quella che ha raccontato lui ai giovani industriali troppo vera non sembra. Almeno a prima vista. Nessuno si era accorto, per esempio, che, mentre il governo (secondo Berlu­sconi, uno straordinario consiglio di amministrazione del­l’azienda Italia) faceva miracoli, tra veline, Noemi, voli di Stato e caso Mills stesse prendendo corpo sui giornali, o su alcuni giornali, un complotto. Anzi, un «progetto eversivo» contro il premier, al fine di sostituirlo con qualcuno che, a differenza di lui, non è stato eletto dal popolo. Una specie di golpe bianco, fortunatamente sventato dal voto popolare. Come suol dirsi: urgono chiarimenti.
In ogni caso: nell’Italia che vorremmo, e dovremmo, raccon­tare ci piacerebbe non dover registrare appelli più o meno obli­qui agli imprenditori di un capo del governo, fa nulla se di de­stra di centro o di sinistra, perché neghino la pubblicità alla stampa «catastrofista», complice o magari mosca cocchiera(in altre occasioni Berlusconi aveva preferito definirla scendilet­to) di un’opposizione anch’essa malata di inguaribile disfatti­smo. È vero che poi Palazzo Chigi ha corretto il tiro, spiegando che lo strale polemico era rivolto a Franceschini e non ai gior­nali. Ma, anche a voler prende­re per buona la precisazione (peraltro smentita poche ore dopo), non ci siamo: il presi­dente del Consiglio intendeva forse dire che i giornali do­vrebbero concedere meno spazio o non concederne pro­prio, al leader del più grande partito di opposizione?
Non è solo questione di gaf­fe e, a guardar bene, non è nemmeno solo questione di Berlusconi. La politica (la politica di governo in primo luogo, ma anche quella di opposizione) non riesce a dimettere una volta per tutte l’usanza, antica e consolidata, di scrutare i gior­nali per scoprirvi più o meno ogni giorno ambigue trame, tor­bidi intrighi, oscuri complotti in suo danno; e di dividere i gior­nalisti in corifei da premiare e in nemici da stroncare. E fatica, oggi più di ieri, a tenere nel dovuto conto quelle libertà fonda­mentali di una democrazia moderna che sono la libertà di opi­nione e la libertà di informazione. Anche quando ha buoni mo­tivi per ritenere che vengano coscientemente esercitate in suo danno. Anche quando la tentazione di passare ai modi bruschi rischia di farsi irresistibile. Eppure da noi i giornali non fanno cadere i governi e, a quanto pare, non spostano nemmeno vo­ti: per quanto possano essere vicini all’opposizione, se questa è politicamente latitante non bastano a surrogarla.
Non è il caso di gridare al fascismo alle porte e alla stampa imbavagliata. Ma è il caso di ricordare che il clima è dei peggio­ri, e che il varo alla Camera del disegno di legge sulle intercetta­zioni, che la libertà di informazione senza dubbio la riduce, non lo migliora davvero. Proprio nelle stesse ore in cui Berlu­sconi parlava a Santa Margherita, ai valori fondamentali di cui abbiamo detto faceva aperto riferimento, a Napoli, intervenen­do al vertice Uniti per l’Europa, il capo dello Stato. Per esprime­re piena fiducia «nell’attaccamento delle opinioni pubbliche ai principi liberali, particolarmente a quelli della libertà e del plu­ralismo dell’informazione». Non sappiamo che cosa farà il ca­po dello Stato quando la legge sarà approvata definitivamente. Ma quella fiducia abbiamo il dovere di condividerla fino in fon­do.

il Riformista 14.6.09
I professional del governo dei migliori
Progetti. Il Cavaliere è preoccupato per una «transizione oligarchica» orchestrata da Massimo D'Alema, Gianfranco Fini, Pier Ferdinando Casini e Giulio Tremonti. È il momento di Gianni Letta?
di Fabrizio d'Esposito


La metafora calcistica rende molto bene l'idea. Ma stavolta il Milan in crisi e la vendita di Kakà non c'entrano nulla. Il segnale d'allarme lo lanciò un analista politico del Cavaliere a poche ore dall'apertura delle urne europee: «È stata una campagna elettorale giocata completamente in difesa. Se continua così anche dopo, prima o poi il gol lo prendiamo». Ecco perché il Cavaliere è passato all'attacco. Logorato dal catenaccio che comunque non lo ha messo al riparo dalla micidiale combinazione del Noemigate con l'intrigo delle veline tra Palazzo Grazioli e Villa Certosa, con il processo Mills, con lo scandalo dei voli di Stato e infine con le foto di Zappadu, ieri il premier ha spedito un calcio di rigore nella rete avversaria: «C'è un progetto eversivo finalizzato a far decadere un presidente del Consiglio legittimato dal voto popolare per mettere al suo posto un'altra persona non eletta dagli italiani. Se questa non è eversione ditemi cosa è?».
L'allusione è all'ipotesi di un «governo dei migliori» anticipata dal Riformista mercoledì scorso e poi ripresa da altri quotidiani. Ossia una «transizione oligarchica» tracciata dai quattro professionisti della politica indicati dal nostro giornale: Massimo D'Alema, Gianfranco Fini, Pier Ferdinando Casini e soprattutto Giulio Tremonti, i cui rapporti con la Lega non sarebbero più quelli di un tempo (basta consultare tutti i giorni la Padania, che ormai non lo cita più). Questa élite non ha mai smesso di parlarsi, nemmeno nella fase più cruenta del Noemigate. È stata in quell'occasione che dopo mesi di monarchia assoluta si è tornato a parlare in termini concreti di «fuoriuscita dal berlusconismo». E la novità maggiore è rappresentata dalla ridefinizione in corso di tutti gli equilibri interni della maggioranza. In merito è illuminante la frase che pronunciò un altissimo componente del governo poche ore dopo la notizia della festa della diciottenne di Portici: «Il problema non sono le minorenni, ma il fatto che uno statista va a Casoria». È in quel momento che alcuni berlusconiani influentissimi hanno iniziato a maturare la convinzione di un premier «non più controllabile», col rischio concreto, stavolta, di non uscire indenne dal gorgo scaturito dal Noemigate. In tal senso, un segnale forte è arrivato dalla deludente performance del Cavaliere alle europee: dieci punti sotto il 45 per cento pronosticato e "solo" 2 milioni e 700mila preferenze personali, a fronte delle quattro sognate.
A quel punto si è formato un intreccio trasversale di varie entità che qualcuno riassume tout court come «la Ditta». Non a caso, dentro il Pdl, questa è l'ora dei sospetti e dei regolamenti di conti. Bondi contro gli altri due triumviri Verdini e La Russa e Berlusconi contro tutti e tre. Per non parlare dei siluri lanciati dal capogruppo Cicchitto contro i servizi segreti sulla questione delle foto di Zappadu a Villa Certosa, bucata ben cinquemile volte. E chi se non Gianni Letta, a Palazzo Chigi, ha una lunga consuetudine di rapporti con i servizi?
Già, Letta. In vari ambienti non solo romani, sono in tanti a interrogarsi sul suo ruolo in questa fase. Qualcuno arriva a sbilanciarsi e a indicare nel sottosegretario alla presidenza del Consiglio «la persona non eletta» paventata ieri dal premier. Fantapolitica? Quello che pare certo è che comunque «D'Alema, Tremonti, Casini e Fini non farebbero tutto questo terremoto per mettere lì il governatore di Bankitalia, Draghi». Su questo le fonti interpellate dal Riformista a microfoni spenti sono concordi. La transizione, se mai ci sarà, dovrà essere politica. «Il governo dei migliori», appunto, per usare una frase attribuita a D'Alema. E non mancheranno a breve appuntamenti su cui confrontarsi. Alla fine del mese, per esempio, a Milano la fondazione Italianieuropei ha organizzato un workshop a porte chiuse sul tema «Quale futuro per le banche italiane?». Ci sarà anche l'ex ministro prodiano Tommaso Padoa Schioppa e D'Alema seguirà tutti i lavori. L'«amico» Tremonti? Non ci sarà, ma solo perché c'è la concomitanza del G8. In compenso il ministro dell'Economia ha già dato la sua disponibilità per un convegno autunnale alla Cattolica con lo stesso ex premier ds.
Questa, dunque, la cornice dentro la quale collocare l'attacco del premier di ieri. Parole che precedono di due giorni l'incontro con Obama a Washington, declassificato da pranzo a semplice caffè nel pomeriggio. Per questo il Cavaliere è sempre più nervoso. Il Noemigate gli ha tolto voti e appannato l'immagine internazionale. Ribaltare questo schema è impresa difficilissima, se non impossibile dopo la visita-show del dittatore libico Gheddafi a Roma. Poi verrà il G8 dell'Aquila. In base alle dichiarazioni di Niccolò Ghedini, legale di Berlusconi nonché deputato, i timori sono legati soprattutto alla pubblicazione delle foto di Zappadu su giornali stranieri (in una c'è Berlusconi che si sposa per finta con una ragazza). Reggerà il premier a tutta questa pressione? Il suo umore nero di questi giorni è la spia che «è un signore di quasi 73 anni» non «un robot», come riferiscono dalla maggioranza. Non solo. A parte foto, veline e Noemi, ci sarebbe qualcos'altro che inizia a bollire nel pentolone di questa storia. Riguarda sempre la vita privata del Cavaliere. Ma non è sesso. Di sicuro saranno mesi di grande inquietudine politica. Se il premier ieri ha risposto alla «Ditta», significa che la partita è appena iniziata.

il Riformista 14.6.09
Silvio in difesa. Teme complotti
di Tonia Mastrobuoni


FOBIE. Il Cavaliere smentisce di nuovo i numeri di Draghi sui precari, poi si concentra sull'autodifesa dalle «quattro calunnie». Emma Marcegaglia vuole «cento giorni di azione forte».

Santa Margherita Ligure. La tensione del capo deve aver creato qualche corto circuito anche nel suo servizio d'ordine. Quando Berlusconi raggiunge con un'ora di ritardo l'albergo Miramare dove si tiene il convegno dei giovani di Confindustria, ai giornalisti viene impedito per cinque minuti di accedere alla sala stampa. Quando il cordone di sicurezza, in evidente stato di confusione, viene finalmente sfondato dai cronisti imbufaliti, il presidente del Consiglio ha già cominciato la sua lunga tirata contro i giornali, l'opposizione e i presunti poteri occulti impegnati a rovesciarlo dal trono di Palazzo Chigi. Il senso di accerchiamento che attanaglia il premier è evidente quasi in ogni passaggio. Un Berlusconi sulla difensiva parla di «cataclisma» del centrosinistra, alle elezioni europee ed amministrative, e ripete più volte, quasi ad esorcizzare smottamenti interni, che «la maggioranza c'è» per governare «tranquillamente» per altri quattro anni e che il governo funziona come un orologio, cioè «come un consiglio di amministrazione», a neanche ventiquattro ore dal più recente schiaffo di Fini. Il Cavaliere si lascia andare ad attacchi ripetuti contro la stampa, invitando la platea degli imprenditori a tagliare la pubblicità ai giornali (una dichiarazione poi rettificata dal suo staff e dirottata su Franceschini) e si scaglia contro un disegno eversivo volto a sostituirlo con un governo tecnico o istituzionale. Ma più che con i giornalisti, è ovvio che il suo bersaglio principale, stavolta, sono gli editori, in particolare quelli che hanno dato molto spazio ai quattro scandali che hanno caratterizzato l'ultimo miglio di campagna elettorale, cioè, come li cita lui stesso, le «quattro calunnie messe in fila, veline, minorenni, Mills e voli di Stato».
Il pensiero va a Carlo de Benedetti e Rupert Murdoch, ma nei suoi discorsi Berlusconi agita da una settimana uno spettro diverso, che va al di là di circoscritti accanimenti editoriali e sembra prefigurare il timore di governi di emergenza, di esecutivi tecnici. Un timore che sembra aver preso forma in un bersaglio altamente simbolico. Già il 5 giugno, a freddo, il presidente del Consiglio aveva attaccato il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, smentendo un dato contenuto nella relazione annuale della Banca d'Italia presentata una settimana prima (tra l'altro, passato quasi inosservato sui giornali). E ieri Berlusconi ha nuovamente fatto riferimento al milione e seicentomila lavoratori che, secondo Draghi, se licenziati rischiano di rimanere senza tutele, smentendole una seconda volta. In previsione di un autunno che si annuncia in peggioramento dal punto di vista dell'occupazione, il Cavaliere sembra esorcizzare non tanto un'ondata di disoccupati, quanto un governo con a capo un tecnico che traghetti il paese fuori dalla burrasca. Un po' come successe quindici anni fa, quando durante una delle più gravi recessioni del dopoguerra e la bufera da Tangentopoli, Carlo Azeglio Ciampi fu chiamato a Palazzo Chigi a guidare il paese fuori dall'emergenza.
Per Berlusconi le «quattro calunnie» rappresentano insomma «un comportamento colpevole, ed anche un comportamento eversivo. Volevano far decadere il presidente del Consiglio - ha scandito dinanzi alla platea degli imprenditori - per mettere un'altra persona non eletta dagli italiani: se questa non è eversione, ditemi voi cos'è». Le sue dichiarazioni, tra l'altro, fanno eco all'atteggiamento critico verso i governi tecnocratici degli anni Novanta assunto negli ultimi tempi dal ministro del Welfare, Maurizio Sacconi. Di recente ha criticato gli accordi del '93 (quelli, appunto, firmati da Ciampi), mentre ieri è tornato su quel decennio per criticare la deriva finanziaria di alcune banche e le aggregazioni: «Esiste un problema nelle grandi banche che si sono formate negli anni Novanta grazie alla legge Amato. A causa dell'indebolimento della politica - ha sottolineato il ministro, durante il convegno dei Giovani - si sono aggregate molte banche con l'effetto di disancorare il servizio del credito sul territorio». Non solo. Facendo riferimento sempre a quell'epoca (forse al governo Amato del '92, quando era sottosegretario) ha detto: «Noi non abbiamo ascoltato quegli economisti e quegli analisti che volevano una finanza disancorata dal risparmio».
La debolezza evidente di Berlusconi e la sua lunga, consueta, tirata sui meriti del governo, con un passaggio indelicato su Emma Marcegaglia, ha con tutta evidenza innervosito invece la numero uno di Confindustria: il presidente del Consiglio ha fatto un riferimento agli appalti per il G8 in Sardegna vinti dall'azienda della leader degli industriali. E lei gli ha immediatamente replicato, ricordando che con lo spostamento in Abruzzo del G8, il governo ha danneggiato la sua impresa. La numero uno di viale dell'Astronomia non ha risparmiato inoltre critiche all'esecutivo sui mancati cantieri aperti e sui ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione alle aziende. «Servono cento giorni - ha sottolineato Marcegaglia - di concretezza, di azione forte, veloce e mirata. Il governo deve cambiare passo». Solo se nei prossimi cento giorni «agiremo bene», ha aggiunto, «potremo salvare quel pezzo di sistema produttivo che rischia di morire».

il Riformista 14.6.09
Ormai Gianfranco Fini studia da sub-premier
di Alessandro De Angelis


Retroscena. Sul leader libico ha cercato il caso. Ora rinsalda i legami atlantici. E prepara una serie di incontri internazionali.
Diplomazia parallela. Dopo il colonnello da montecitorio l'insoddisfazione sull'operato di palazzo Chigi e della Farnesina

E poi dicevano che Gianfranco Fini non avrebbe fatto politica. Dopo gli (innumerevoli) smarcamenti solitari su quella interna, il presidente della Camera si è messo a tessere, a modo suo, una diplomazia parallela a quella del governo. Che giudica assai disinvolta. Già, disinvolta. Non solo per come è stata gestita la visita di Gheddafi a Roma. Anche se, con la scelta di annullare il convegno alla Camera, è uscito allo scoperto. C'è assai più dell'arrabbiatura sul ritardo dietro l'incidente con il leader libico.
Certo, Fini conosce fin troppo bene la realpolitik. E non si sarà stupito di fronte alla battuta di Silvio Berlusconi a Renato Farina, durante la votazione sulle intercettazioni: «Renato, ho letto il pezzo in cui criticavi quello che chiami il "beduino". Tu non sai quanta fatica faccio per trovare un'intesa sull'immigrazione. Mica mi diverto».
Per Fini però non sono in discussione accordi e compromessi, ma l'intera gestione politica della visita del colonnello: la linea. Lo ha fatto capire quando, senza che nessuno lo interpellasse, ha dichiarato: «Gheddafi non interverrà nell'Aula della Camera». Un segnale, visto che il protocollo era stato già stabilito. Lo ha detto ai suoi lamentandosi del tono blando delle dichiarazioni di Frattini dopo l'equiparazione del colonnello tra «Stati Uniti e Bin Laden». Come a dire: un conto sono le intese, altro è la legittimazione politica in pompa magna.
Di lì il caso lo ha cercato, lo ha voluto. Dopo l'intervento di Gheddafi in Senato ha detto ai suoi: «Portatemi tutte le agenzie del suo discorso che devo cambiare il mio intervento di venerdì». E a ogni show del leader libico ha fatto qualche limatura, fino all'ultimo momento utile. Neanche a dirlo, l'arringa del colonnello a palazzo Madama lo ha fatto rabbrividire. Tanto che qualche collaboratore pensava che Fini fosse sul punto di non andare al convegno di venerdì. Alla fine ha vergato il suo testo che conteneva tre punti di rottura. Il primo: «Le democrazie, a partire da quella americana, possono sbagliare, ma non possono essere paragonate ai terroristi». E ancora: «Auspico che una delegazione di deputati italiani possa recarsi presto in visita ai campi libici di raccolta degli immigrati per verificare il rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo sanciti dalle Nazioni Uniti». E infine: «Gli italiani cattolici ed ebrei che hanno lasciato la Libia (ovvero cacciati da Gheddafi nel '70, ndr) costituiscono una preziosa risorsa per le relazioni bilaterali». Praticamente una linea di politica estera alternativa a quella berlusconiana: non c'è realpolitik senza rispetto dei diritti umani e delle alleanze storiche del nostro paese.
Fonti ufficiali di Montecitorio smentiscono che ci sia stato qualche contatto formale o informale tra Fini e Gheddafi, tale che il leader libico potesse supporre che era in arrivo qualche bacchettata. Si sa, però, le notizie circolano in tanti modi. E in molti, tra i parlamentari ex An, credono nella tesi di un incidente diplomatico ad arte. Questo il ragionamento: «Comunque ci sarebbe stato, o durante il convegno, oppure nei modi in cui è accaduto. Bene così». Titolo del Secolo di ieri: «L'Italia si fa rispettare». Retroscena a parte, quei tre passaggi sono la summa dell'azione diplomatica di Fini: centralità dell'alleanza atlantica, sicurezza di Israele, vocazione europeista. L'ha portata avanti in questi mesi con aplomb istituzionale, ma con la determinazione di un sub-premier. Non è un caso che il primo invito a una personalità internazionale di rilievo è stato spedito a Nancy Pelosi. Con la speaker del Congresso americano i rapporti sono molto cordiali: «Dear Gianfranco, dear Nancy». I due, che si sono incontrati a febbraio, si rivedranno a Roma a settembre, in occasione del G8 presidenti delle Camere. Ed entro fine anno non è affatto esclusa una visita di Fini a Washington. L'ex numero uno di An è infatti molto attento a rinsaldare i legami atlantici. Tra l'altro è rimasto molto colpito dal discorso di Obama al Cairo, che teneva assieme inclusione e rispetto dei diritti. Così come è molto stretto il rapporto di Fini con il ministro degli Esteri israeliano Liberman. Lo incontrerà in autunno in Israele.
La distanza dalla politica estera di Berlusconi si è materializzata anche in occasione dell'incontro del presidente della Duma Boris Gryzlov quando sulla crisi georgiana ha assunto un atteggiamento molto diverso da quello del Cavaliere. E si misura sul tema dell'Europa. A dicembre ha convinto il presidente della Camera polacco della bontà del trattato di Lisbona. Nei prossimi mesi ha messo in calendario, anche attraverso la sua fondazione Fare Futuro, incontri con Zapatero, e con il leader dei conservatori inglesi David Cameron. Insomma, un'agenda fitta. Da sub-premier.

l’Unità 14.6.09
Dopo quelle padane ecco le ronde nere
«Siamo 2.100»
Sulle divise l’aquila e il sole con dodici braccia caro ai nazisti
di Mariagrazia Gerina


Tra i capi Gaetano Saya, indagato per la «polizia parallela» Dssa
Emanuele Fiano (Pd): «Questo è il risultato del decreto sicurezza»

Sono la risposta nera alle ronde padane. Indosseranno divise paramilitari color kaki con fascia nera al braccio, basco e aquila romana sul petto. Folklore nostalgico, finché non trova uno scopo. La sedicente Guardia nazionale italiana sembra averlo trovato. Non appena il disegno di legge Maroni entrerà in vigore sono pronti a indossare la loro divisa. La presentazione ufficiale è avvenuta ieri a Milano, durante un convengo del nuovo Movimento sociale italiano. I volontari, dicono 2100, sono stati reclutati tra carabinieri e militari in congedo e non appena riceveranno il via libera si metteranno in marcia sotto la loro insegna: una ruota solare, simile alla svastica ma con 12 braccia. La stessa del nascente «Partito nazionalista italiano», neonata creatura politica sedicente «ultranazionalista». Di cui la Gni aspira a diventare il «braccio volontario». Loro assicurano che la politica «non c’entra». E che non si lasceranno guidare nella loro azione di pattugliamento da pregiudizi razziali: «Che sia un italiano o un extracomunitario a creare problemi non fa differenza». Una passo avanti rispetto allo statuto del Pni: «La cittadinanza italiana e il riconoscimento della religione Cristiana sono condizioni necessarie». Altro requisito imprescindibile, il giuramento al Capo. Gaetano Saya, la cui effigie campeggia nel sito della Gni. Con triplice titolo: fondatore del Msi, presidente del Pni, ispiratore della Gni. Guidata invece dall’ex colonnello dei carabinieri Augusto Calzetta. Già al fianco di Saya nella Dssa, sorta di polizia parallela. «Chi ha pensato, votato e acclamato il decreto sicurezza, si preoccupi del risultato ottenuto», commenta Emanuele Fiano (Pd) del Copasir.
Divise e nostalgia hanno fatto la loro apparizione ieri anche più a sud, in quel di Ardea e Latina. Divise della Wehrmacht e dell’Africakorps, con le svastiche nascoste tra gli artigli dell’aquila. A bordo di una camionetta coloniale hanno percorso la via Pontina, con tanto di scorta: macchina della Protezione civile-paracadutisti, in testa, in coda. E sirene spiegate al bisogno. Una processione che doveva essere molto più nutrita nelle intenzioni degli organizzatori. L’Associazione dei Paracadutisti d’Italia e il centro Studi Rsi. «Pare che una parte dei nostri si sia fermata a Cassino», spiega un signore che espone elmetti e granate d’epoca. Il pezzo pregiato è uno stielgranade, una mazza di legno con punta in ferro. Lo stesso che il paracadutista della Nembo imbraccia nei manifesti «Battaglia per Roma, 65° anniversario». Con tanto di patrocinio dei Comuni di Ardea, Latina e Roma. «Non abbiamo fatto in tempo a cancellare quello di Roma dopo il diniego e anche Latina ora l’ha ritirato», spiegano gli organizzatori, contenti dell’arrivo di Teodoro Buontempo.

Repubblica 14.6.09
Lo storico Salvadori: l’aiuto ai cittadini è solo un pretesto
"Troppi richiami al fascismo sono un messaggio inquietante"
di Caterina Pasolini


Il sole nero rimanda alla lotta contro il male

ROMA - «Sono ronde che mi inquietano, con divise che richiamano simboli fascisti, nazisti. Sono il segno che si moltiplicano in Italia, come nell´est Europa, le organizzazioni paramilitari di una destra estrema e razzista».
Massimo Salvadori, storico, docente all´università di Torino, è preoccupato delle nuove ronde.
Dicono di essere apolitici.
«Le parole in questi casi servono solo per mimetizzarsi. Il vero profondo messaggio passa attraverso i simboli».
Come l´aquila imperiale sul basco?
«Appunto, sicuramente non è un simbolo neutro, si ritrova nel fascismo, nel nazismo. Chiunque si richiami a lei non può che tener conto della storia; di come, quando e chi l´ha usata».
E la fascia nera al braccio col sole?
«Chi in Italia agita il nero si richiama al ventennio, sceglie di proclamare la sua paternità nel periodo fascista. Il sole nero è usato nel misticismo nazista e si legge come la lotta della luce contro le tenebre, contro le forze del male che bisogna cacciare, mentre le divise kaki sono un chiaro richiamo militare».
Vogliono aiutare contro la delinquenza
«La sicurezza è un argomento che spesso diventa pretesto per iniziative di carattere politico estremistico. Col pretesto di coinvolgere i cittadini si apre un pericoloso varco che sposta il baricentro della sicurezza dallo Stato a forze di natura ibrida che diventano fattore di degenerazione. Oltre a significare l´abdicazione dello Stato».

Repubblica 14.6.09
Parla il premier ceco Jan Fischer, presidente Ue di turno
"Xenofobia, è allarme serio l'Europa non aspetti a reagire"
"Non possiamo stare a guardare mentre si ripetono pagine orribili della Storia"
di Andrea Tarquini


PRAGA - «L´Europa non può restare indifferente all´ascesa dell´estrema destra. La democrazia è a rischio e va difesa». Ecco il grave monito del primo ministro cèco Jan Fischer, che guida il paese presidente di turno dell´Ue.
Signor primo ministro, l´ultradestra ha volato alle europee. Che ne dice?
«Sono allarmato. Con posizioni estremiste e xenofobe hanno raggiunto alti consensi a livello europeo. Bisogna chiedersi se è un fenomeno sistemico o legato all´attuale situazione economica internazionale. Da noi per fortuna non hanno colto grandi successi, ma è un problema anche qui. L´ultradestra è di un´estrema brutalità xenofoba e antisemita. Attacchi sono stati rivolti anche contro di me personalmente, ciò è inaccettabile».
Come reagire?
«È fondamentale che l´opinione pubblica non diventi indifferente. I politici reagiscano duri, tempestivi ed efficienti contro ogni estremismo, uguale se di destra o di sinistra. E´in gioco la democrazia, e la democrazia va difesa. Non possiamo permetterci mai di stare a guardare e di assistere a una ripetizione di pagine orribili della Storia».
Quanto è grande il pericolo del contagio di casi come Budapest?
«Dobbiamo reagire decisi, difenderci, non aspettare l´infezione. Non possiamo tollerare, stare a guardare, dire "passerà, è un fatto transitorio", sottovalutare. In molti luoghi la Storia ci ha insegnato che alcuni fenomeni iniziano inosservati, o sembrano umoristici. Ma poi persone di cui si rideva hanno creato una situazione in cui non si poteva mai più ridere né accennare un sorriso».
La scarsa partecipazione alle europee poco prima del vertice Ue, non le sembra un altro allarme?
«Non piace a nessuno. È un trend, in molti paesi. Dobbiamo chiederci cosa l´Europa, le sue istituzioni, i suoi cittadini, devono fare. Non sempre astensionismo ed euroscetticismo convivono, ma anche dove l´Europa è bene accolta, è difficile mobilitare».
Estrema destra e astensionismo saranno temi al vertice Ue?
«Non formalmente, ma non escludo che informalmente ne parleremo».
A Praga il capo dello Stato euroscettico, Vaclav Klaus, non ha ancora firmato il trattato di Lisbona. Processo bloccato?
«No, va avanti. Il Parlamento ha ratificato, tocca al presidente firmare. Ma c´è un ricorso contro il Trattato alla nostra Corte costituzionale. E il presidente, com´è suo diritto, attende. Dobbiamo aspettare».
La crisi internazionale ha colpito duramente il centro-est dell´Ue. Teme un nuovo Muro est-ovest?
«Non facciamo d´ogni erba un fascio. La Polonia è il paese meno colpito, Praga ha un sistema finanziario sano, ma problemi nella real economy, come Berlino. Bene anche la Slovacchia. Difficoltà pesanti in Lettonia o in Ungheria. Ma la crisi deve diventare l´occasione per l´Europa: reagire sfruttando i benefici dell´integrazione».

Repubblica 14.6.09
Il colpo di mano del regime di Teheran
di Bernardo Valli


Le elezioni iraniane, ritmate da dibattiti vivaci, appassionati, animate da una partecipazione popolare spontanea, insolita in un regime autoritario, si sono concluse con un voto che assomiglia a un colpo di mano. Se non proprio a un «colpo di Stato», come dicono i manifestanti riversatisi nelle piazze di Teheran per denunciare i risultati ufficiali. I quali danno il conservatore Mahmud Ahmadinejad riconfermato alla presidenza della Repubblica, già al primo turno (con più del 63 % dei suffragi).
Nella notte di venerdì, il riformatore Mir Hussein Moussavi (al quale viene attribuito un modesto, umiliante quoziente, sotto il 34%), basandosi sui dati in suo possesso, si era dichiarato vincente. Ne era convinto. Poteva giurarlo.
Per lui e per i suoi sostenitori l´esito dello scrutinio reso pubblico nel mattino «è un tradimento del voto popolare». Il risultato ufficiale può essere stato truccato, corretto, gonfiato, per impedire anzitutto un ballottaggio che avrebbe tenuto il paese in una pericolosa agitazione ancora per parecchi giorni. La situazione, creata dalle manifestazioni in cui si invocava più libertà, più democrazia, poteva sfuggire di mano. Ma non è escluso che gli scrutatori abbiano soltanto reso più vistoso il successo di Ahmadinejad. La cui riconferma sarebbe stata comunque garantita dal sostegno delle classi meno abbienti, relegate nell´Iran profondo, isolato rispetto a una società sempre più moderna e raccolta nei centri urbani, e dalla mobilitazione del potente e numeroso apparato religioso e militare (dalle moschee, ai Guardiani della Rivoluzione, alle milizie Basiji, ai servizi segreti, responsabili della morale islamica) .
Ahmadinejad ha avuto, in sostanza, il voto decisivo della Guida suprema, l´ayatollah Ali Khamenei, che esercita un potere assoluto o un´influenza indiscussa su quel mondo. Il suo voto, in senso lato, è quello che conta in un regime teocratico, basato sul « primato dei teologi», interpreti della sharia. La Guida suprema è la massima autorità collocata al di sopra della società politica, in tutte le sue espressioni, dal governo al Parlamento. Khamenei ha definito «una vera festa» la rielezione di Ahmadinejad. Un modo come un altro per annunciare la fine della festa elettorale, e il ritorno alla realtà, all´ordine: a un paese governato dall´uomo che ai suoi occhi è il più fedele interprete dei principi della Repubblica islamica in questa fase politica interna e internazionale. Ed è quindi con lui che gli iraniani e il resto del mondo, compresa l´America di Barack Obama, incluso l´Israele di Benjamin Netanyahu, avranno a che fare. In sostanza Khamenei ha fatto sapere che nulla è cambiato, poiché lui, la Guida suprema, e i vari interpreti delle leggi islamiche, continueranno a prendere le vere decisioni. Al momento Ahmadinejad è il suo strumento preferito.
Per Khamenei, e le forze clericali più conservatrici, la vittoria di Moussavi avrebbe impegnato l´Iran in riforme destinate a creare instabilità all´interno. E questo proprio nel momento in cui la Repubblica islamica deve reagire alla mano tesa di Barack Obama, e offrire al mondo sospettoso, ostile, l´immagine di una nazione compatta. E non troppo condiscendente, altrimenti la Repubblica islamica perderebbe la propria identità. Una visione teologica, dogmatica, venata d´orgoglio e di nazionalismo, può essere l´opposto di una visione razionale. Slitta facilmente nel fanatismo e in un indecifrabile tumulto mentale.
L´avvento di Moussavi alla presidenza della Repubblica poteva apparire come un segno di debolezza, anche se il candidato riformatore è un deciso nazionalista. La riconferma di Ahmadinejad dà un segnale opposto. Significa la continuità. La fermezza, giudicata indispensabile, all´avvio di un eventuale negoziato. Anche se nel secondo mandato il rozzo, antisemita presidente dovrà dosare o rinunciare ai suoi attacchi all´America e a Israele. Dovrà adeguarsi alle direttive della Guida suprema, cui spetta di gestire i rapporti internazionali. Insomma Ahmadinejad numero 2 dovrebbe essere più presentabile di Ahmadinejad numero 1. Quel che è in gioco, nei prossimi mesi, è il destino della Repubblica islamica: non tanto la sua sopravvivenza, ma il suo ulteriore isolamento, appesantito dal rischio di più gravi sanzioni. Né si possono escludere azioni militari contro i suoi centri nucleari. Ma il potere clericale è come colto da un crampo: esita a socchiudere le porte, e ad allentare i controlli su una società che dà evidenti segni di impazienza.
Tenendo conto della natura del regime iraniano, Barack Obama si è ben guardato dall´interferire nella campagna elettorale. Non a caso, appena conosciuto il risultato, i primi commenti di Washington sono stati estremamente prudenti. La mano americana resta aperta, e vale sempre la proposta di un «nuovo inizio» lanciata da Obama al mondo islamico. Non importa chi sia stato eletto a Teheran.
Ma è evidente che la permanenza di Ahmadinejad a capo dell´esecutivo, sia pure in una posizione subalterna a Khamenei, cambia molte cose. Allunga i tempi e rischia di ridurre lo spazio dell´azione diplomatica americana. Mette in allarme i governi sunniti, dall´Arabia Saudita all´Egitto, preoccupati di un Iran sciita dotato di un´energia nucleare, che domani potrebbe essere militare, e quindi tentati di fare altrettanto. Ridimensiona la speranza americana di una sollecita collaborazione iraniana nel conflitto afghano, contro i talebani, sunniti fanatici. Ringagliardisce gli hezbollah libanesi appena sconfitti alle elezioni. E dà fiato all´ala intransigente di Hamas in Palestina. Almeno per il momento, il voto di Teheran non allarga gli spiragli dischiusi in Medio Oriente dal discorso rivolto da Barack Obama all´Islam.
Per la sua immagine e il suo passato, Ahmadinejad resta l´interlocutore meno gradito. E meno affidabile in un negoziato che deve affrontare un problema cruciale, quale è il nucleare. Il fatto che Khamenei l´abbia scelto non è di buon auspicio. E´ difficile negarlo, pur considerando le recondite intenzioni della Guida suprema.
La reazione israeliana, come era prevedibile, è stata meno cauta di quella americana. La rielezione di Ahmadinejad rafforza la posizione di Benjamin Netanyahu, secondo la quale la questione nucleare iraniana è il principale problema mediorientale, di gran lunga più urgente della questione palestinese. Nel discorso che dovrebbe pronunciare oggi, in risposta ai propositi tenuti da Obama, il primo ministro israeliano potrà presentare il risultato elettorale iraniano come un valido motivo per dare la precedenza alla minaccia nucleare di Teheran, e trascurare l´obiettivo di uno Stato palestinese, indicato con fermezza dal presidente americano. Il ministro degli Esteri, il falco Lieberman, si è affrettato a dire che le ambizioni atomiche iraniane restano, chiunque sia il presidente eletto. I piani militari tesi a preparare un´operazione contro le centrali nucleari della Repubblica islamica non rischiano di essere archiviati.

l’Unità 14.6.09
Intervista a Nicola Pedde
Il direttore del Globe Research: «Il presidente ha speso molti soldi per i sussidi ai più poveri. Ora Obama vada avanti sulla strada del dialogo»
«Con lui Pasdaran e contadini. I riformatori un’élite»
di Ga.B.


L’Occidente ha proiettato i propri desideri sulla realtà iraniana, immaginandola molto diversa da quella che esce dal voto. L’Iran non è solo Teheran. Le campagne hanno votato per Ahmadinejad. Con lui i Pasdaran e gli apparati di sicurezza. Così Nicola Pedde, direttore dell’istituto Globe Research, spiega l’esito delle presidenziali.
L’opposizione non accetta il risultato e denuncia brogli. Un’ipotesi plausibile secondo lei, professore?
«Sembra difficile spiegare in quel modo tutti i 10 milioni di voti che separano Mousavi da Ahmadinejad. Certo lo shock per un risultato così sbilanciato a favore del capo di Stato uscente è forte anche in Occidente, dove si tifava per Mousavi e dove spesso si ragiona secondo metri di valutazione che non si adattano alla realtà dell’Iran. Ammesso che l’esito delle elezioni sia quello che conosciamo dalle prime notizie ufficiali, la prima riflessione che bisogna fare riguarda la forte diversità del voto urbano rispetto a quello rurale, e dei ceti medi istruiti rispetto al resto della popolazione. Si ha anche l’impressione di una compatta adesione al campo presidenziale da parte degli apparati di sicurezza e dei Pasdaran in particolare. Questi ultimi non sono solo una struttura militare, ma una forza politica ed economica. Dai loro ranghi in passato nacque il movimento riformatore. Ora sono spostati sul campo degli ultraconservatori perché evidentemente ritengono sia quella la via migliore per una transizione politica che li porti a poco a poco ad essere sempre più capillarmente presenti nelle strutture di potere».
I rivoluzionari laici prendono il posto del clero sciita ai vertici dello Stato?
«Distinguiamo in primo luogo all’interno del clero, fra coloro che si limitano al loro ruolo strettamente religioso e coloro che hanno fatto la rivoluzione, il cosiddetto clero combattente. Questi ultimi hanno avuto ed hanno molto potere, ma nelle strutture di comando diventano sempre più minoritari, mentre si estende la presenza dei Pasdaran ovunque nei centri di potere. Un ex-generale dei Pasdaran, Mohsen Rezaie, si è candidato contro Ahmadinejad. Ma il grosso dei Pasdaran sembra essersi pragmaticamente schierato con colui che è poi risultato il vincitore, ritenendo che la stagione del riformismo in Iran sia stata solo una perdita di tempo».
Come spiega il fatto che la cattiva gestione dell’economia imputata ad Ahmadinejad dai suoi avversari non gli abbia alienato le simpatie di molti che potevano ritenersi delusi per la promesse non mantenute?
«Ahmadinejad ha investito molto denaro in vista delle elezioni, distribuendo sussidi statali sotto forma di sostegno alle famiglie ed ai lavoratori. In un’economia disastrata come quella iraniana, ciò potrà provocare contraccolpi negativi in seguito. Ma al momento può avergli recuperato consensi. L’iraniano medio purtroppo non sa che farsene della democrazia e della libertà. Del resto nessun candidato ha insistito molto sui diritti umani e civili».
A questo punto che ne sarà del dialogo proposto da Obama?
«Gli Usa devono andare avanti con le aperture, tenendo conto del risultato. L’interlocutore è chi governa. Sarebbe un errore fare marcia indietro».

il Riformista 14.6.09
Unità delle sinistre. Rifondazione e compagni
Ferrero propone ma incassa vari no
di Mattia Salvatore


Si è ritrovato ostaggio della sua stessa maggioranza. Al comitato politico nazionale del Prc Paolo Ferrero propone un «polo di una sinistra alternativa e autonoma dal Pd, da Ferrando a Vendola». Ma - come preteso dalla parte più comunista del partito capeggiata da Claudio Grassi - a partire «da un coordinamento con le forze con cui abbiamo fatto la lista europea»: il Pdci di Oliviero Diliberto e Socialismo 2000 di Cesare Salvi. Una politica dei due tempi che spiazza i "vendoliani" di Rifondazione che avevano concordato sotto banco non solo l'entrata di un loro uomo in segreteria (in quest'ottica si legge la scelta di Ferrero qualche giorno fa di rimettere il mandato) ma un progetto politico che guardasse da subito oltre gli steccati comunisti. «E' un passo indietro - spiega Augusto Rocchi, l'uomo candidato alla segreteria - Proponiamo di lanciare subito gli stati generali di tutta la sinistra, mettendo da parte le contrapposizioni tra noi e Sinistra e Libertà, entrambi abbiamo fallito alle europee e dobbiamo ripartire insieme».
Oggi, ultimo giorno del comitato politico, si lavorerà per ricucire. Con gli ex vendoliani che chiedono almeno che l'assemblea di luglio, quella che dovrebbe delineare il futuro del partito, non sia organizzata dalla lista anticapitalista ma dalle personalità (in primis, Pietro Ingrao) vicine al Prc. Un dibattito lanciato da singoli e non da partiti. In caso di mancata mediazione, Rocchi presenterà un suo documento. Il quarto. Dopo quelli della maggioranza Ferrero-Grassi, che lancia inoltre una «opposizione sociale al governo Berlusconi, che è la cosa che oggi manca», di Franco Russo e della compenente Falce e Martello, la quale annuncia le dimissioni dalla segreteria del suo capocorrente Marco Bellotti perché «chiede un Prc più radicale». All'estremismo non c'è mai fine. Pur respingendo «l'unità dei comunisti» chiesta da Diliberto, Ferrero difficilmente riuscirà ad aggregare altri partiti oltre la lista presentata alle europee. Ferrando infatti fa sapere di non volersi alleare «con chi si è compromesso con governi borghesi» e Sinistra Critica al momento non sembra interessata.
Dall'altra parte Sl salvata la pelle alle elezioni (come dicono i suoi dirigenti), guarda verso nuovi lidi. Assurdo ipotizzare un ritorno coi «comunisti», si lavora per un fronte comune delle opposizioni, aprendo a radicali, Di Pietro e lo stesso Pd. Progetto incompatibile con quello di Rifondazione, proprio per il nodo delle alleanze. Non a caso il socialista Riccardo Nencini che si fa portavoce ed «interprete dell'opinione di tutti i leader delle forze politiche che hanno dato vita a Sl», ieri dichiara: «Ferrero sembra duro di orecchie. Il nostro no ad una ammucchiata indistinta con la sinistra radicale e antagonista è totale e definitivo». Annuncia poi la sua presenza al congresso di fine giugno dei radicali che rilanciano la Rosa nel Pugno, annettendo anche quella parte dei Verdi contraria a Sinistra e Libertà. Intanto Ferrero oggi al comitato politico nazionale verrà confermato segretario e, terrorizzato di rimanere solo con Pdci e Socialismo 2000, riproverà a parlare con Sl, ad esclusione dei socialisti ai quali già ieri risponde. «Ritengo molto negativo - dice - il fatto che Nencini si dichiari indisponibile a un confronto sui contenuti per costruire una larga, seria e forte sinistra d'alternativa nel nostro Paese». E oltre al nodo delle alleanze al Prc gli esplode anche la grana giornale. Liberazione oggi non sarà in edicola, i giornalisti scioperano contro «l'immotivato annullamento dell'incontro con Fnsi e Fieg, deciso unilateralmente dall'azienda».

l’Unità 14.6.09
Sinistra
di Vincenzo Cerami


Dice Cocteau che Edipo ha cominciato a vedere solo dopo essere diventato cieco. La stessa cosa dovrà accadere alla Sinistra: grazie al risultato delle ultime elezioni europee, qualcuno comincerà finalmente a vedere. La scomparsa della figura del socius e del senso della comunità nella politica, è la conseguenza della trasformazione del vecchio popolo in pura categoria economica.
Cinquant’anni di accanita opera di smantellamento delle identità culturali e religiose hanno tolto ogni valore al futuro, cioè a un’idea del mondo. Ormai esiste solo il presente, e nel tutto presente non si progetta nulla. Ognuno vive alla giornata disinteressandosi degli altri.
Una volta amputata dalla politica l’etica sociale, della Sinistra e dello stesso riformismo rimane solo l’involucro. Chi pensa che esista ancora il cosiddetto bene pubblico sopravvive dentro un rito senza più mito. È assolutamente silente la sua voce che invoca l’eguaglianza davanti ai diritti, il primato del mutuo sostegno, l’imparzialità della giustizia, l’altruismo.
Da molti anni la Sinistra è cieca, o non vuol vedere che del passato non è rimasto niente, neanche lo straccio di una bandiera. Così resta impotente di fronte all’immagine degli operai che vanno a cercarsi altri lidi, dei disoccupati che fanno prima a trovar soldi dove capita piuttosto che aspettare il rispetto della Costituzione.
Resta impotente quando si accorge che milioni e milioni di suoi figli non vanno neanche più a votare perché i loro rappresentanti politici non li rappresentano più, sono rimasti impastoiati in una concezione contadina e filantropica della politica. Tra l’Europa e Obama c’è di mezzo l’oceano, di qua il vecchio continente di là il nuovo.

l’Unità 14.6.09
Il 30 settembre si aprirà a Roma il terzo processo sui desaparecidos in Argentina
Imputato l’ammiraglio Massera. Venerabili assassini
di Roberto Rossi


Trentatré anni fa in Argentina venivano uccisi un sindacalista italiano e la sua famiglia
Lo scorso aprile a Buenos Aires l’arresto degli autori materiali e dei mandanti
Il governo potrebbe chiederne l’estradizione. E chiarire i rapporti tra dittatura e Licio Gelli
Nel 2004 la giustizia italiana ha condannato in maniera definitiva sette ufficiali argentini

Il “patote” arrivò dal fiume il 22 maggio del 1976. Si fermò davanti a una delle spiagge dell'isola di Paycarabì, nel delta del Paranà. Del suo arrivo si accorse per prima Maria Manca. Era in cucina e stava preparando da mangiare per tutta la sua famiglia. In tutto sette persone. Italiani emigrati in Argentina. Sardi, di Tresnuraghes. Il “patote” non fece nulla per non farsi riconoscere. I suoi membri si avvicinarono all’abitazione sparando in aria. Incuranti dei vicini e delle leggi. Come nel resto del paese. Abituato da tempo ai gruppi armati e spesso senza volto, i “patotes” appunto, incaricati di sequestrare sindacalisti, oppositori, avvocati e semplici cittadini. Un paese assuefatto a una dittatura militare sanguinaria, a una parvenza di democrazia, ai desaparecidos.
Quando entrarono in casa di Martino Mastinu, detto El Tano, il giovane sindacalista, che aveva lavorato a lungo presso i cantieri navali Astersa di Tigre, era fuori con la figlia Vanina, il cognato Mario Marras e la moglie Rosa Zatorre. Erano andati a comperare il peperoncino per la carne. In casa era rimasta invece Maria, la madre di Martino, e suo marito Giovanni. Due membri del commando si sedettero, come consuetudine, ad aspettare il ritorno del sindacalista, gli altri, tre in tutto, secondo le testimonianze, uscirono.
Li colsero di sorpresa non distante dalla loro abitazione. Il colpo di fucile che raggiunse e uccise Marras, all’epoca 38enne, risparmiò invece Martino Mastinu che riuscì a fuggire. L’unico dei quattro. Vanina venne riconsegnata ai nonni, la moglie Rosa incarcerata e torturata per 15 giorni. Martino trovò rifugio tra i parenti. Non per molto. Dopo qualche settimana, seguendo proprio le tracce della moglie, Martino venne catturato in un appartamento della capitale. Lo andarono a prelevare in quattro. Tre salirono in casa, mentre l’ultimo, José Luis Porchetto ex compagno di lavoro, rimase in auto a controllare la moglie Rosa. El Tano fu portato nel centro clandestino di detenzione di Campo de Mayo, a Buenos Aires. Lì rimase per pochi giorni. Lo gettarono ancora vivo nell’oceano da un aereo.
Per quella morte, per quelle morti, la magistratura italiana nel 2004, in maniera definitiva, ha condannato all’ergastolo due generali, un prefetto navale e quattro sottufficiali della Marina. Il generale Carlos Guillermo Suarez Mason, capo dei lager della provincia della capitale, è morto ottantenne tre anni fa. Il pari grado Santiago Omar Riveros si trova attualmente sotto processo per altri crimini. Invece i quattro sottufficiali, Juan Carlos Gerardi, Roberto Julio Rossin, Alejandro Puertas ed Hector Maldonado, tra il 28 e il 30 aprile 2009 sono stati arrestati nella cittadina di San Martìn, a nord di Buenos Aires. Il giudice Juan Manuel Yalj ne ha disposto la carcerazione. José Luis Porchetto, invece, è morto anni fa.
L’arresto consentirebbe al governo italiano di avviare il processo di estradizione. Consentirebbe di fare giustizia. Non solo permetterebbe di chiudere una pagina di storia in attesa di riaprirne subito un’altra.
I Processi italiani Quello per l’omicidio Mastinu è, infatti, solo uno dei tre processi intentati in Italia con al centro i desaparecidos italiani in Argentina (quasi un migliaio). C’è n’è un secondo che è arrivato anch’esso a giudizio. Ed è quello del 14 marzo 2007, sfociato nella sentenza “Esma”, dal nome della Escuela Superior de Mecánica de la Armada, la scuola dell’Esercito dove vennero rinchiusi, torturati e uccisi una cifra indefinita di cittadini. Due anni fa la seconda Corte d’Assise di Roma ha condannato il contrammiraglio Antonio Vanek (a capo delle Operaciones Navales della Marina), e i suoi sottoposti, Jorge Eduardo Acosta, Alfredo Ignacio Astiz, Jorge Raul Vildoza e Hector Febres all’ergastolo con un anno di isolamento. Sentenza confermata in appello il 24 aprile 2008 e di recente in Cassazione nel febbraio 2009. La Corte li ritenne colpevoli del sequestro illegale e l’omicidio di Angela Maria Aieta, Susanna Pegoraro e del padre Giovanni. Angela Maria Aieta scomparve il 5 agosto’76 mentre era diretta all’Esma. Da tempo era attiva in una associazione di familiari di desaparecidos che chiedevano notizie sui loro cari. Si riunivano nella chiesa di Santa Cruz di Buenos Aires. Aieta protestava per la scomparsa del figlio Dante Gullo. Il quale venne imprigionato con la moglie nel 1975 e rilasciato nell’83, alla fine della dittatura. Susana Pegoraro, una studente 21enne della “Juventud Peronista”, venne fatta sparire incinta il 18 giugno ‘77. Con lei si trovava il padre Giovanni, imprenditore edile. Susana riuscì a partorire e sua figlia fu data in affidamento. Giovanni, invece, fu ucciso.
Ma c’è anche un terzo procedimento che forse riveste un’importanza maggiore. Si aprirà il 30 settembre con la prima udienza a Roma. Ed è quello contro l’ammiraglio Emilio Eduardo Massera, oggi ottantaquattrenne. Massera fu uno degli autori del piano di repressione della dittatura argentina, uno dei tre direttivi dalla Junta Militar di Jorge Rafael Videla, ma soprattutto il responsabile della Escuela Superior de Mecánica de la Armada. Per anni si è negato alla giustizia italiana adducendo problemi di salute mentale. Ora che questo ostacolo sembra superato, grazie a una recente perizia del tribunale di Roma, il processo dovrebbe iniziare. Massera, che in Argentina ha scontato appena cinque anni di detenzione in una villa di proprietà dell’Esercito - dove poteva ricevere amici, praticare sport e usufruire della libera uscita durante i fine settimana -, in Italia aveva stretti legami con la loggia massonica di Licio Gelli. Non a caso il “Piano di rinascita nazionale”, scoperto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, presenta analogie inquietanti con il “Proyecto de Reconstrucion nacional” propugnato dai militari come base ideologica per “riportare l'ordine” in Argentina. Quali analogie? La “normalizzazione dei partiti politici”, la messa in silenzio dei sindacati, la creazione di una pubblica opinione compiacente tramite i mezzi di comunicazione di massa (Gelli parlò espressamente della “creazione di un polo televisivo indipendente”) e infine l’assoggettamento delle decisioni della magistratura al Governo forte. Ricorda qualcosa?

Corriere della Sera 14.6.09
Il documento. Votato da quasi tutti i presidenti degli Ordini. Si sono opposti in cinque, sette gli astenuti
Fine vita, no dei medici alla legge
«Limiti alla libertà nei rapporti con i pazienti». Bologna si schiera contro
di Margherita De Bac


ROMA — Non piace ai me­dici la legge sul testamento biologico che la Camera do­vrebbe cominciare a discute­re prime delle ferie estive. «In­vadente e poco rispettosa del­l’alleanza che sempre deve esistere tra chi cura e chi vie­ne curato», la liquida Aristide Paci, che ha coordinato il la­voro istruttorio su un appro­vato ieri a larghissima mag­gioranza dal consiglio della Federazione degli Ordini pro­vinciali (Fnomceo). E’ il risul­tato di una riflessione svolta all’interno e all’esterno del­l’associazione professionale che conta 360 mila iscritti. La bocciatura è stata votata da 85 presidenti, su 97 presenti al congresso di Terni. Cinque i no (fra i quali quelli espressi dall’Ordine di Bologna), 7 gli astenuti.
Prima della votazione Paci aveva riassunto i temi critici. I medici ribadiscono «forti perplessità sul trasferimento di principi etici in norme legi­slative », auspicano che «in tempi brevi si concluda l’iter parlamentare con un testo leggero e non invadente e di­chiarano «l’assoluta contrarie­tà a qualsiasi soluzione che in­crini il nostro rapporto col cit­tadino ». Principio già conte­nuto nel Codice deontologi­co. In conclusione «no a una legge che limiti libertà, indi­pendenza e competenza del medico e che comprima i di­ritti fondamentali della perso­na ».
Il testo finale ripercorre questa linea nella sostanza e scende nei dettagli. Precisa il presidente Fnomceo Amedeo Bianco: «Le norme sul testa­mento biologico dovrebbero essere ricondotte a un diritto mite. Un diritto che si limiti a definire la cornice di legitti­mità giuridica sulla base dei diritti della persona costitu­zionalmente protetti, senza invadere l’autonomia del pa­ziente e del medico».
In pratica indicare linee ge­nerali senza definire quali te­rapie possono rientrare tra le dichiarazioni anticipate di vo­lontà. Idratazione e alimenta­zioni artificiali vengono con­siderati dalla legge sostegno vitale, dunque ne viene proi­bita la sospensione. Per la Fe­derazione invece se l’idrata­zione può rientrare in questo quadro «caritatevole», la nu­trizione «è invece un atto me­dico perché viene gestita da sanitari e è subordinata a in­formazione e consenso consa­pevole ».
Il documento chiede che «vengano definite le condizio­ni per cui le volontà hanno il valore giuridico ed etico di espressione di una persona capace», insiste sulla necessi­tà di meglio definire la figura del delegato-fiduciario e di prevedere per tutto il perso­nale sanitario il diritto al­l’obiezione di coscienza. E do­manda che venga previsto che «gli atti commessi o omessi dai medici in osser­vanza delle volontà giuridica­mente valide del paziente, escluse quelle eutanasiche o di assistenza al suicidio, li esonerino da responsabilità civile o penale». Viene ritenu­ta indispensabile la creazione di un Osservatorio nazionale sui comportamenti di fine vi­ta. Per quanto riguarda gli sta­ti vegetativi «le condizioni di irreversibilità» devono esse­re descritte in rigorosi proto­colli diagnostici e prognostici nazionali.
La data del secondo round della legge alla Camera non è ancora stata fissata. Si comin­cerà dalla Commissione Affa­ri Sociali, presieduta da Giu­seppe Palumbo, Pdl. Ma se ne riparlerà in autunno. Non è ancora stato identificato il re­latore (in Senato era Raffaele Calabrò, Pdl). In corsa ci sa­rebbero Nino Di Virgilio e Me­lania De Nichilo Rizzoli (ex Forza Italia), Carlo Castellani (ex An) e per la Lega Massi­mo Polledri.

l’Unità 14.6.09
Movida dei minorenni
Gioventù di cachemire: Gott Mit Uns, Corona e scorribande sulla Salaria
di Claudio Camarca


L’adolescenza è brufoli e pelle grassa e vampe di calore freddo e puzza di piedi che nemmeno l’esatimodore. Sono le continue masturbazioni forsennate e disperanti, da rimanere intontito privo di sensi. È quella sensazione maledetta che ti fa sentire sempre fuori posto, incompreso e adirato col mondo intero, soprattutto coi genitori che proprio non capiscono un cazzo di niente. Luigi mi dice tutto questo senza emettere un suono e a bocca serrata. Guida la scatolina in metallo e plastica dono dei suoi per avere superato lo scoglio del primo anno di liceo. Guida ubriaco di due Coronas e della House Muzik che ci bombarda sprigionata dalle casse dello stereo applicate al tettuccio. Luigi racconta il suo micro mondo semplicemente incassato in se stesso e spiando le due altre macchinette che si inseguono sul rettilineo della Salaria. Edoardo e Samuel, in quella grigio metallizzata. Tommaso e Matteo nell’altra, con le fiamme dell’inferno serigrafate sulla fiancata. La macchinetta è un barattolo di sardine. Ho le ginocchia sul mento. C’è puzza di stantio, cartacce e lattine Coca Light e scatole vuote di biscotti e confezioni appallottolate di tacos. Adesivi sparsi sul cruscotto. Motti di guerra dell’epoca fascia. Un teschio armato di baionette. Gott Mit Uns. Un’aquila.
«La politica cazzo me ne frega. Sono gadgets dei giochi di ruolo. Mio padre mi ha regalato quello», indica la testa di un rottweiler graffiata dalla scritta “Invicta”. In queste macchinette i ragazzi ci vivono. «È come andarsene in giro stando dentro la propria camera». È il guscio, la corazza. Luigi risponde al cellulare. Samuel si ferma con una puttana. Lo vedo scendere dalla minicar di Edo. Procediamo oltre. Lo scorgo contrattare. «La caricano e vanno giù per lo sterrato. Dietro il mobilificio. Cinquanta euro si fanno una botta per uno».
Fermiamo al baracchino rallegrato a giorno dalle lampade al neon. Tommaso e Matteo masticano pane e salsiccia e si fanno una Becks. Luigi insiste con la Corona. Mi adeguo, mentre il videofonino di Tommaso avverte dell’arrivo di un messaggio con la voce di Alberto Sordi. Gli amici si accalcano intorno. Spezzati in due dalle risate nel seguire le evoluzioni sessuali di Edoardo raccontate attraverso il filmato girato da Samuel. Sulla Salaria corrono automobili e battono ragazzine vestite come studentesse incontrate sul tram. Il gestore del baracchino colloquia amabilmente con due facce da galera che da un giorno all’altro potresti rivedere in parlamento. Tommaso, «Se lo fai col preservativo non c’è problema». Matteo, «A mio padre gliel’ho detto e lui sta più tranquillo perché sono professioniste». Tommaso, «Sarebbe giusto ci fossero dei posti dove andare con il letto e il bagno e tutto, così fai senza il cazzo di polizia che magari ti rompe i coglioni, a me è successo lo scorso dicembre e abbiamo dovuto pagare una multa».
Riprendiamo la strada. Luigi viene raggiunto da nuove immagini tese a illustrare le performance sessuali. Sbircia tentando di tenere la barra a diritta. Corona tra le gambe e videofonino nella mano sinistra. Luigi, «Dal computer di casa lo spedisco a Demetra». Luigi, «Ci vengono anche loro così per divertirsi». Luigi, «Coi trans è più difficile, non vogliono che li riprendi per via che sono extracomunitari, imbruttiscono e menano». Su e giù per la Salaria. Fino a quando il trio di macchinette si ricompone. Edoardo ci supera, Samuel si sporge per intero dal finestrino e ulula alla Luna rincantucciata dietro cordoli di nubi fosche di pioggia. Samuel indossa una polo Porsche Design color miele dal colletto panna. Di nuovo Ponte Milvio.
È come lo scarico del lavandino. Giri e giri e ti ritrovi al centro dell’imbuto. Mille automobili stipate una dentro l’altra. Mille musiche tutte uguali. Parcheggiamo dove capita. Dal posto di blocco i carabinieri non mandano segnali. Rintronati e frustrati di far la guardia a golfini in cachemire e portafogli di Prada. I ragazzi scambiano il cinque. Commentano smozzicando dittonghi e biascicando palatali. Ebbri di libertà conquistata a tre euro e cinquanta la bottiglia. Edoardo, «Non so mica cosa faccio questa estate. Mio padre mi vuole con lui in barca a girare per le Eolie. Io mi rompo. Magari me ne vado in campeggio a Sperlonga». Samuel, «A me non mi ci mandano con la scusa che ho quindicianni e mi tocca farmi due mesi coi nonni a Marina di Pietrasanta». Luigi, «Vado al college in Irlanda. Tre settimane. Per il terzo anno consecutivo. Pieno di spagnoli, mi diverto». Ciondoliamo immersi tra facce abbronzate e chiazze di sudore distillate su camicie in seta e tatuaggi tribali a lambire Patek Philippe. Bicchieri di vodka ghiacciata. Tequila Sunrise e Cajpiroska. Edoardo anticipa Luigi e spedisce il filmato a Demetra e a Sofia. Luigi scorna in silenzio. Incastra la testa nelle spalle e spara due ganci larghi a un avversario immaginario.
Da casa le ragazze rispondono e i ragazzi ridono buttandosi uno contro l’altro e urtando quegli altri intorno che però non fanno caso e sfilano ognuno per la propria passerella. Edoardo, «Ci sono stato con Demetra tre settimane e alla fine l’ho pisciata perché faceva tanto quella grande e invece era una finta». Edoardo, «Siamo rimasti amici, come con tutte le ragazze che conosci dalle medie e lo sai che non ci puoi stare insieme». Edoardo, «A quindicianni non ci credi all’amore, è troppo presto, non hai ancora visto niente». Edoardo veste una camicia bianca e un jeans stinto che gli cade su un paio di mocassini da barca Nero Giardini in pelle scamosciata con impunture a contrasto. Le ragazze continuano a spedire videomessaggi. Luigi li registra senza dare nell’occhio. Prime gocce di pioggia. Ci salutiamo. Mezzanotte e un quarto. «Domani c’è scuola». S’è fatto tardi.

l’Unità 14.6.09
Alcol, comportamenti a rischio per 8,5 milioni di italiani


Sono quasi 8,5 milioni gli italiani che bevono più di tre unità alcoliche al giorno (per gli uomini) e più di due (per le donne). I dati sono contenuti nel rapporto Istat 2008 su «Uso e abuso di Alcol in Italia». Consumi giornalieri non moderati, «binge drinking» (più di sei bevande alcoliche in un’unica occasione), bevute fuori pasto. Ed è allarme giovani: oltre il 17% degli under 15 ha consumato almeno una bevanda alcolica nel 2008, in particolare il 19,7% dei maschi e il 15,3 delle femmine, mentre già a partire dai 18-19enni i valori di consumo sono prossimi alla media della popolazione, cioè il 74,7% dei maschi e il 58% delle donne.
Per valutare il grado di rischio connesso all’assunzione di bevande alcoliche, oltre a prendere in considerazione il consumo giornaliero non moderato di vino, birra o altri alcolici, si tiene conto anche degli episodi di ubriacatura concentrati in singole occasioni (i cosiddetti «binge drinking»), che comportano comunque un’assunzione di quantità eccessive di alcol. Nel 2008 gli italiani con almeno un comportamento a rischio (consumo giornaliero non moderato o binge drinking) sono 8,4 milioni, di cui 6 milioni e 531 mila maschi (25,5%), mentre le femmine sono 1 milione 910 mila persone (7%). Se nell’indicatore di rischio si comprende anche l’assunzione di alcolici fuori pasto una o più volte la settimana il numero di persone «a rischio» salirebbe a 9,8 milioni, pari al 18,6% della popolazione di 11 anni e più. Di questi 906 mila in età 18-24 anni, 658 mila minori e 3 milioni e 103 mila anziani.

Repubblica 14.6.09
Il segreto dei Templari
L’idolo dei monaci guerrieri
di Michele Smargiassi


L´Ordine dei Templari, la Sindone, l´icona del Cristo... Temi cari alla fiction alla Dan Brown, eppure nuove ricerche vi si addentrano con gli strumenti della scienza per portare alla luce ipotesi più intriganti dei plot da romanzo fatti al computer

Persino Paul Claudel sottovalutò la Sindone. Commosso fino alle lacrime dalla «fotografia di Cristo», dalla «presenza reale» di quel Volto emergente dal buio dei secoli e della camera oscura di Giuseppe Enrie, il grande scrittore convertito dettò nel 1935: «Qui non ci sono frasi da decifrare riga per riga, è tutta la Passione svelata in un sol colpo ai nostri occhi». E invece nel sacro Telo, arca inesauribile di segni, c´è anche questo: un testo scritto, da decifrare riga per riga. La scoperta ha più di trent´anni, ma il mistero resiste ancora. Parole non dipinte a mano sull´ordito (achiropite, come l´immagine dell´Uomo massacrato dalle piaghe) ma impresse forse per ricalco, come quando si chiude un quaderno prima che l´inchiostro sia asciutto, come se il sudario fosse venuto a contatto con un foglio scritto di fresco; un documento, ma di cosa?
C´è una studiosa, nelle segrete degli Archivi del Vaticano, che ritiene di essere giunta molto vicino a capirlo. Ma Barbara Frale è la prudenza in persona. Giovane storica e paleografa, allieva di Franco Cardini, da otto anni è la decifratrice ufficiale degli immensi archivi lateranensi, dove il rigore è doppio: scientifico e teologico. «È una ricerca che mi travolge di emozioni, e le emozioni non sono buone consigliere». Niente fretta e molto riserbo: il frutto delle sue ricerche, ancora al vaglio di rigorosi riscontri, lo leggeremo per intero solo fra un anno, in un volume che avrà per titolo La Sindone di Gesù Nazareno. Ma già quanto ha gentilmente accettato di anticiparci in queste pagine è in grado di far vibrare le corde più sensibili: sul lino torinese potrebbe essere rimasta impressa la "fotocopia" di un documento straordinario, forse coevo alla Passione, portatore di informazioni che vanno oltre il racconto dei vangeli. Oltre all´impronta-icona del Cristo martoriato, la Sindone sta per consegnarci anche il suo certificato di morte?
La fantasia del lettore già corre. È facile, quando si entra nell´orbita fascinosa della reliquia più impenetrabile della storia cristiana, scivolare oltre il confine che separa la storiografia dalla fiction alla Dan Brown. Forse per questo tutti gli specialisti della Sindone si tengono lontani dalle polemiche scaturite dal redditizio filone letterario religioso-misterico, pieno di quegli scrittori «diabolici» che Umberto Eco mise alla berlina nel Pendolo di Foucault. Ma così facendo hanno abbandonato alla mercé dell´industria dei best-seller un territorio dell´immaginario che fa parte da secoli della storia stessa della Sindone, oggetto potentemente mitopoietico, inesauribile cornucopia di visioni, narrazioni, leggende, immagini, apocrife o canoniche, devote o blasfeme che siano.
Bene, Barbara Frale ha avuto anche questo coraggio: di misurarsi, da scienziata dei documenti, col terreno insidioso dei misteri suggestivi. Dal suo futuro lavoro ha stralciato un libro che esce in questi giorni, il cui titolo, I Templari e la Sindone di Cristo, se non uscisse dalle presse di un´editrice serissima come Il Mulino, potrebbe indurre a qualche sospetto. Ma leggendo si scopre che le pergamene a volte raccontano storie più avvincenti dei plot inventati al computer. Per esempio, in questo caso, che l´idolo misterioso dei cavalieri combattenti di Cristo, l´oggetto segretissimo attorno al quale si concentrarono riti di iniziazione, il cui arcano si rivoltò contro gli stessi Templari diventando il capo d´accusa più forte nel processo che distrusse l´ordine, quell´idolo che per i malevoli accusatori era la terrificante immagine del diabolico "Bafometto", altro non era che la Sindone stessa.
L´ipotesi, per la verità, non è inedita. La avanzò una trentina d´anni fa uno studioso oxfordiano, Ian Wilson, sulla base di prove più logiche che documentali: essenzialmente il "buco" cronologico di un secolo e mezzo, dal saccheggio di Costantinopoli del 1204 alla documentata riapparizione nel 1351, durante il quale le fonti tacciono sul Telo. Ipotesi inizialmente snobbata dai sindonologi. Ma la sindonologia, pur essendo una scienza dalle competenze universali, è fortemente centripeta: convoca le discipline più lontane per indagare un solo singolo oggetto, otto metri quadrati di lenzuolo.
Barbara Frale, che sindonologa non è, maneggia la Sindone per collegare territori distanti e colmare lacune irrisolte, riconducendo alla storia sentieri finora calcati quasi solo dalla fantasy. I Templari li incontra anni fa mentre si specializza all´Università di Venezia, lavorando sui documenti del truffaldino processo con cui Filippo il Bello massacrò la confraternita dei monaci-guerrieri, ma ormai più che altro banchieri, per incamerarne il succulento patrimonio. Tra questi documenti ne trova uno che è la chiave giusta per aprire la serratura intravista da Wilson. È una carta molto consunta degli Archivi Nazionali di Parigi: il verbale di uno dei tanti processi contro gli sfortunati cavalieri, in questo caso quelli rinchiusi a Carcassonne, in Linguadoca. Le loro deposizioni, datate 1307, parlano chiaro: l´«idolo» barbuto che i neofiti dovevano adorare era una tela che mostrava la figura di un uomo, un disegno monocromo dai tratti sfumati e rossastri, ed era l´immagine intera di un corpo nudo, dalla testa ai piedi (che andavano baciati), così dichiarano sostanzialmente concordi i frati Guillaume Bos, Jean Taylafer, Arnaut Sabbatier.
I Templari, dunque, ebbero la Sindone per oltre cent´anni. Ma qui le domande cominciano, non finiscono. Come se la procurarono? Le origini del Lenzuolo, si sa, sono oscure. Anche volendo considerare inattendibile la celebre datazione al carbonio 14 che la definì oggetto di fabbricazione medievale, non si riesce a risalire a tempi molto anteriori. A meno di non ritenere, e anche qui ormai le prove si accumulano, che la Sindone non sia altro che il leggendario Mandylion (sciarpa, asciugamano) di Edessa, una delle reliquie cristiche più famose dell´antichità, arrivata a Bisanzio nel 944. Recava impressa, secondo quasi tutte le descrizioni, solo l´immagine del volto di Cristo: ma alcuni testimoni parlano di un telo tetradyplon, ossia ripiegato otto volte: ripiegato dunque in modo che di tutto il corpo solo il volto fosse visibile dal reliquiario che lo conteneva. Sta di fatto che quando la pseudo-Crociata del 1204 saccheggia Costantinopoli dragando in Occidente i suoi favolosi tesori, il Mandylion scompare nel nulla. I Templari non parteciparono alla devastazione: ma potrebbero aver comprato la reliquia da qualche saccheggiatore, nonostante la severissima proibizione papale contro il mercimonio delle reliquie. Fu per questa "vergogna" che non la mostrarono mai né fecero sapere di possederla?
Forse, ma ci sono altre spiegazioni. Le reliquie erano ricercate come potenti motori di pellegrinaggi e dunque di offerte, ma la ricchezza dei Templari era già enorme. Ai cavalieri del Sepolcro, spodestati dalla riconquista islamica, la Sindone serviva invece come «nuovo Sepolcro» privatissimo, esclusivo, portatile e intoccabile, fonte di forza morale e saldezza teologica. Il filo di lino che ciascun cavaliere doveva portare perennemente indosso veniva consacrato non dal contatto con il blasfemo idolo inventato dagli inquisitori del re di Francia, ma dalla sua consustanzialità col Telo. Un vaccino anti-ereticale per un ordine già sospettato di scivolamenti dottrinali. Non è un caso che fossero sottoposti alla sua benedizione soprattutto i Templari di Carcassonne, la terra in cui aveva divampato l´eresia dei Catari che sostenevano l´incorporeità di Gesù: mentre la Sindone è la prova di un supplizio fin troppo carnale.
Protetto da un piccolo nucleo di custodi, l´idolo-Sindone dovette viaggiare di nascosto e di continuo, consacrando e confortando gli adepti sparsi in Europa. Cosa ne sia stato dopo la distruzione dell´ordine, è di nuovo un mistero. Si sa solo che nel 1351 il Lino riappare a Lirey nelle mani di Geoffroy de Charny (curiosamente omonimo di un precettore templare condannato al rogo ventisei anni prima) prima di essere ceduta ai Savoia e imboccare la via sacra che l´ha condotta ad essere la reliquia più venerata della cristianità.
Nel 2010 una nuova ostensione richiamerà a Torino folle di pellegrini dello sguardo, lunghe file di fedeli che, ribaltando il precetto evangelico, vedono perché credono, e credono benché la Chiesa, prudentemente vaga, offra alla loro venerazione ufficialmente solo un´«icona» e non una reliquia. Intatta nei secoli, la virtù salvifica dell´«idolo» templare dispiega la sua potenza, come allora, oltre ogni regola ecclesiale. Eppure non bastò a salvare i cavalieri da una sanguinaria e ingiusta sorte. Forse quel Lino che «tutti vedono e nessuno per ora può spiegare», secondo la magistrale sintesi di papa Wojtyla, doveva ancora rilasciare il suo ultimo e più sorprendente segreto. Sta per farlo ora?

Repubblica 14.6.09
Le scritte che riaprono il caso del "falso medievale"
Un libro in uscita, un altro in cantiere. Barbara Frale, storica e paleografa, riapre gli enigmi della Sindone e dei monaci-guerrieri
di Barbara Frale


Nel 1978 il chimico Piero Ugolotti si accorge che sul negativo di una foto della Sindone si vedono alcuni strani segni che sembrano proprio lettere. Ugolotti non è uno specialista di lingue antiche, perciò si rivolge a un esperto: è Aldo Marastoni, insigne latinista dell´Università Cattolica di Milano. Marastoni conferma l´esistenza di parole scritte in greco e latino tutt´intorno al volto dell´uomo della Sindone: dicono Nazarènos, l´aggettivo usato nei vangeli per indicare il luogo dove abitava Gesù, e in nece (m), un´espressione latina che significa "a morte". Sopra la fronte si legge la sequenza IBEP, che sembra proprio il nome scritto in greco di Tiberio (TIBEPIO), l´imperatore romano sotto il regno del quale Gesù fu messo a morte dal governatore Ponzio Pilato. Sempre presso la fronte, parte di una scrittura in caratteri ebraici che non riescono a decifrare.
La ricerca attira l´interesse di altri specialisti. Poi nel 1988 alcuni campioni prelevati dalla Sindone sono sottoposti alla datazione con il radiocarbonio, e un tam-tam su tutti i mass media del mondo presenta il Telo come un falso medievale: una sentenza netta che pare inappellabile. La ricerca su quelle misteriose tracce di scrittura, iniziata con tanto entusiasmo, si blocca di colpo. Siano pure molto antiche, nessuno vuole più studiare quelle scritte che ora - come dicono tutti - stanno su un «falso medievale».
Nel 1994 alcuni esperti francesi di analisi dei segnali riprendono in mano la questione: sono scienziati, dunque sanno bene quanti limiti può avere una datazione al radiocarbonio. Uno di loro è il professor André Marion, docente presso l´Institut Superieur d´Optique d´Orsay a Parigi. Marion sottopone la Sindone a un software usato per riportare alla luce le antiche scritture oggi non più visibili; proprio sotto l´impronta del volto trova la sequenza in lettere greche HOY, quanto resta del nome IHOY, trascrizione greca dell´originale semitico Yeshua, ovvero "Gesù". Insieme all´altra parola già vista da Marastoni forma IHOY NAZAPHNO, cioè "Gesù Nazareno". E poi ancora altri gruppi isolati di segni in greco e latino disposti intorno al volto: questo scritto, composto da varie strisce, formava una specie di cornice. Sono parole frammentarie difficili da capire. André Marion presenta i risultati della sua ricerca sulla rivista specialistica Optical Engineering e poi nel 1998 in un libro scritto con la collega Anne-Laure Courage. I due scienziati invitano gli esperti in discipline storico-archeologiche a continuare lo studio per capire quale sia l´esatto significato di quelle parole. Intanto hanno consultato alcuni specialisti che lavorano presso la Sorbona e altri prestigiosi istituti francesi di ricerca. Anche se dato in via informale, il responso è piuttosto chiaro: le scritte sembrano paleocristiane, forse anteriori al Terzo secolo dopo Cristo.
Dopo circa dieci anni di ricerca, il profilo di quelle parole è oggi molto più netto: il testo con cui la Sindone entrò in contatto non era un libro ma un documento, un documento sulla sepoltura di Gesù Nazareno. Un atto originale, come pensava Marastoni, o forse un antichissimo testo non canonico: ma in questo caso si tratta di qualcosa scritto dai cristiani della prima generazione, quando ancora il greco non era la loro lingua e prima che fossero composti i vangeli (60-90 circa dopo Cristo). Le informazioni contenute in queste scritte non coincidono sempre con le notizie dei vangeli ma piuttosto si compenetrano a vicenda con esse, e insieme completano il resoconto della sepoltura. Danno dettagli secondari, d´importanza minore, che forse gli evangelisti tralasciarono perché non avevano alcun valore per la fede. Per lo storico moderno, invece, hanno un valore enorme. Come ad esempio altre tracce di scrittura in caratteri ebraici trovate nella zona sotto il mento dall´analista Thierry Castex con lo stesso metodo applicato da Marion: si distingue un testo frammentario di cui per ora si legge bene solo una frase centrale, noi abbiamo trovato (oppure perché trovato). Tali parole richiamano con precisione la denuncia con cui, secondo il vangelo di Luca, Gesù fu condotto dai membri del Sinedrio davanti a Ponzio Pilato: Lo abbiamo trovato che sobillava il popolo.
La ricerca è ancora in corso, varie cose sono da chiarire e nei prossimi mesi avremo un quadro molto più preciso. Sta di fatto però che secondo il diritto romano nessun processo poteva iniziare senza un documento scritto di denuncia, e se il Sinedrio scriveva è molto probabile che lo facesse in ebraico o in aramaico. Gli autori antichi usano per il vangelo di Luca un verbo greco, istorèo, che indicava gli storici in senso vero e proprio, cioè chi scrive avendo visto i fatti di persona oppure dopo aver consultato dei documenti. E se avessero ragione?

Repubblica 14.6.09
Il ritorno degli ebrei di Damasco
di Alix Van Buren


Riprende vita l´antico quartiere giudaico della capitale siriana Si restaurano palazzi, alcuni trasformati in alberghi e negozi Nella sinagoga di Shaara al Amin si festeggia il rimpatrio di un buon numero di famiglie dalla diaspora. E c´è chi coltiva un sogno: poter fare da ponte con Israele nei colloqui di pace

DAMASCO. All’ombra di un pergolato nella città vecchia di Damasco, sul lato di una corte araba rinfrescata da una fontana d´acqua zampillante, si apre la sinagoga di Shaara al Amin, la Via del Giusto. È sabato mattina e c´è un gran daffare. La preghiera dello Sabbath si è appena conclusa e lo shamash, il custode Yosef, è tutto infervorato in cima a una scala nel riporre gli addobbi rimasti dallo Shavuot, la Pentecoste, la festa della mietitura.
Quest´anno non si è badato a spese: alto e smilzo come un ago, Yosef s´aggroviglia fra metri di festoni argentati, spighe di grano, drappi in velluto ricamati col Magen David, la stella di David. Dal basso il khakham Albert Qaméo, il rabbino capo della comunità ebraica siriana, gli imprime un senso d´urgenza. Infatti quest´anno, il 5769 del calendario ebraico, reca una lieta novella: il ritorno a Damasco di un buon numero di famiglie espatriate. L´antico quartiere dei musawi, i seguaci di Mosè, l´appellativo in arabo degli ebrei siriani, più o meno disertato da decenni, rinasce. Si restaurano palazzi in rovina, s´inaugurano gallerie d´arte e alberghi di charme ricavati da vecchie case.
Già si sono viste, calcola il khakham Albert, tre delegazioni di rabbini - da Brooklyn, da Parigi, dall´Italia - «in visita alle scuole talmudiche della capitale e di Aleppo». Sono rientrate casate importanti per festeggiare il Rosh HaShanàh, l´anno nuovo. E stavolta, lui si rallegra, s´è davvero cantato e ballato per la Simkhat Torah. Nella sinagoga s´è riascoltato il suono dei pizmonim, gli inni ispirati alle melodie dei maqamat, ottave composte in base alla scala araba, microtonale. Ma adesso, dice concitato il rabbino, dietro l´angolo incalzano altre feste. Già si preparano allegre tavolate di frittelle, di pasticcini ma´amul ripieni di pistacchi e datteri, di knaffeh bagnati con l´acqua di rose: «Il profumo delle radici ebraiche mediorientali», fa ispirato il khakham.
Quante cose sono successe in Shaara al Amin, da due anni a questa parte. Una vera rivoluzione per monsieur Albert (il suo nome proprio è Albir, ma le sorelle Rahil e Bella, sempre al suo fianco, lo chiamano Albert, alla francese). Dirimpetto alla sinagoga ha aperto i battenti il "Talisman", un albergo-boutique. Nella casa d´angolo sulla destra s´è insediato lo scultore Ali Mustafa, avendo conquistato discreta fama a Parigi e New York. E il sabato, nel tempio, s´affacciano genti forestiere: ebrei occidentali impiegati nei settori in espansione dell´economia, o figli di illustri famiglie che «da un po´», dice il rabbino, «vengono a studiare l´arabo, la lingua dei mizrahi, gli israeliti orientali. Altri l´ebraico, oggi insegnato all´università».
I capelli argentati, l´espressione mite e sempre assorta, il khakham Albert sospinge l´uscio risplendente in rame della sinagoga: «Osservi bene, questa è l´arte degli ebrei damasceni». Sui due battenti il cesellatore ha captato nei suoi disegni spighe di grano, tralci di vite, alberi, candele che pare fiammeggino sotto i simboli delle feste religiose: la luna di Rosh HaShanàh, la bilancia di Yom Kippur, le tavole della legge di Shavuot.
All´interno, nella navata in penombra, il colpo d´occhio è quello delle antiche comunità orientali, osservanti dell´ortodossia, anche per la contiguità storica e religiosa con Gerusalemme. I marmi in stile omayyade rosa e avorio; il minbar, la piattaforma del lettore, posta al centro della sinagoga; i sefarim torah, i rotoli manoscritti del Pentateuco, in contenitori di rame incrostati d´argento; l´uso di recitare ogni giorno la birkat kohanim, la benedizione sacerdotale dei primordi biblici: tutto, qui, racconta l´alba dell´ebraismo.
«Una comunità vecchia quanto Damasco», sostiene il rabbino, il che vuol dire millenni di storia. «Dai tempi di Mosè», interviene la sorella Rahil, occhi celesti dentro una faccia luminosa alla Leah Rabin. Certo è che la sinagoga del profeta Elia, fuori città, risale al Settimo secolo avanti Cristo. E san Paolo era in viaggio verso queste sinagoghe già duemila anni fa.
Seguendo il respiro della storia, il microcosmo dei musawi s´è di volta in volta dilatato e contratto. Fu centro di grande sapere, fra il Cinque e il Seicento, col rabbino mistico Hayim Vital. Custodiva il Codice di Aleppo, il più antico manoscritto della Bibbia completo di punteggiatura e vocali. S´ingrossò con l´arrivo dei sefarditi dall´Andalusia. E sotto i califfi e gli Ottomani tutto sommato, dice Albert, «la comunità prosperava».
Per avere un saggio di tanta ricchezza basta affacciarsi alla soglia di Beit Farhi: seimila metri quadrati di meraviglie rinascono sotto il tocco esperto dei restauratori. Era il palazzo di Haim Farhi, ministro delle finanze ottomano. «Una famiglia ricchissima, più dello Stato», s´impettisce Rahil. Emigrati a Londra, hanno venduto la casa a un mercante musulmano. Entro un anno, dicono gli attuali proprietari, l´architetto Roukbi e l´arredatrice olandese Dyksmo, «questo sarà un grand hotel, il "Pasha Palace"». Fra impalcature e detriti riprendono colore i paesaggi in miniatura disegnati sulle imposte, i giardini di arabeschi su pareti e soffitti, i pannelli con scritte benedicenti in ebraico.
A mezz´ora di cammino, l´anziano Abu Mahmud custodisce il cimitero ebraico. Giungono echi di leggende sopravvissute all´ombra di fichi e di mimose. File di tombe linde e ordinate conservano incisi i nomi in ebraico e in arabo del sarto Azra Gada; del professore Yatche, che introdusse il sistema metrico; del cesellatore Nasswa, col simbolo dello scalpello. Una colonna liberty sembra applaudire "Madame", la diva-ballerina Maryam Maknou. Sopra tutti, troneggia il sepolcro del «mago rabbino» Vital: «Chieda una grazia», ripete Rahil mentre posa sassolini sul tumulo del santo. Quanti fossero i musawi in passato, è difficile stabilirlo: c´è chi parla di centomila, chi di sessantamila. «Non sono molti, ma hanno grande influenza e enormi ricchezze», scriveva nel 1855 il pastore presbiteriano Josias Porter.
Le ondate migratorie, a volte fughe, Albert le fa iniziare da lontano: dalla rivoluzione industriale venuta a spodestare i signori della seta; dalla leva militare introdotta dai Giovani Turchi; dalle tasse del mandato francese. I più ricchi scelsero le Americhe. Poi le scosse del 1947, la partizione della Palestina, il rogo della sinagoga di Aleppo nei tumulti anti-sionisti. Altri salparono. Con Nasser e l´infausta unione fra Siria e Egitto comparvero le brutte stigmate del musawi sui documenti, il divieto di commerciare, il coprifuoco. Finalmente, le prime aperture di Hafez al-Assad nel 1974, e nel 1992 il via libera per intercessione americana. «Si sparsero fra Brooklyn, America Latina, Londra, Israele». Oggi si calcolano appena 150-200 anime rimaste a presidiare i beni della comunità. «L´ultimo bar mitzvah è stato nel 2000».
Se si domanda ai Qaméo perché siano rimasti, Rahil non si fa pregare. L´idea che la contentezza, il quieto vivere e la nazione coincidano è una convinzione, dice, rafforzatasi alla vista degli espatriati. Non rimpiangono forse, racconta, la dolce vita di Damasco? Gli orari comodi, i giochi la sera con gli amici? La maggioranza «va e viene: chi per vendere, chi per restaurare e affittare, altri per rimanere. Con la notevole eccezione di chi è in Israele: le loro proprietà sono conservate dallo Stato». I più aspettano la pace: «Da cinquant´anni», conclude Albert. Nel congedarsi il rabbino confida una speranza: che gli ebrei siriani possano far da ponte con Israele nei colloqui di pace, «quando avverrà il tanto atteso primo incontro. Ma quando avverrà?», sospira. «Chissà...».

Corriere della Sera 14.6.09
Il reportage. Viaggio nella Cuba aggrappata ai proventi (scarsi) del turismo e dell’agricoltura. E che ora spera nel petrolio
La generazione della Revolución E i figli che emigrano per fame
di Ettore Mo


Anche i giovani con una laurea faticano a «prendere il largo» a Cuba e a uscire dalla miseria: «I giovani si sentono trascurati dal governo e dalle istituzioni culturali» racconta un professore universitario a L’Avana. Le giovani coppie non trovano casa e sono costrette a vivere con i genitori, anche per questo i divorzi sono in aumento

L’AVANA — Maggio 1980. Sulle spiagge di Key West — piccola iso­la nel Golfo del Messico vicino alla Florida — sbarcavano in continua­zione migliaia di cubani «desesperados» fuggiti dall’Isola per sottrarsi al regime di Fidel Castro. Una traversata che durava dieci o quindici gior­ni su battelli e pescherecci di modesto calibro, non adatti ad affrontare la furia dell’Atlantico. Ma all’approdo i fuggiaschi urlavano di gioia con quel poco di voce che gli era rimasto ed esibivano cartelli su cui stava scritto a caratteri cubitali «Abbasso Fidel» e «Viva Carter». Cor­rendo grossi rischi, avevano raggiunto il para­diso americano. Successivamente, molti di quei sedicimila profughi, delusi o semplice­mente vinti dalla nostalgia, sarebbero tornati a Cuba.
Ora, dopo l’apertura nelle scorse settimane del presidente Obama che ha allentato le restri­zioni per i viaggi nell’isola e la disponibilità al dialogo da parte di Raúl Castro, fratello di Fidel che in effetti gestisce il potere, sono in molti a chiedersi quali siano in realtà le condizioni di vita a Cuba e se nel cuore dei suoi abitanti per­sista ancora come ultima soluzione la fuga ver­so gli Stati Uniti. Una risposta me la dà senza esitazione uno studente di vent’anni, Daniel, che dice: «Se potessi, me ne andrei domani».
Sono stato a Cuba un paio di settimane e ho parlato con molte persone di diversa estrazio­ne sociale: i loro commenti, in generale, non assomigliano per niente alla sbrigativa afferma­zione del giovanotto che ogni notte s’addor­menta sognando di sbarcare, la mattina dopo, a Miami. Alla base di quest’esodo, che è massic­cio e continuo, ci sono le condizioni economi­che: «Vedi questa camiciola che indosso? — ta­glia corto un ragazzo che vende bibite al chio­sco —. Mi costa 20 pesos. È quanto guadagno in un mese». La stessa amarezza emerge dalle parole delle signora Marta, insegnante di salsa — una danza caraibica — quando ammette che il suo salario mensile di 400 pesos «non ba­sta neanche per comprare il latte ai bambini».
Negli anni passati le emigrazioni in massa fu­rono determinate dal clima politico: i primi ad andarsene, nel gennaio del ’59, furono quelli che avevano sostenuto il regime dittatoriale e filo-americano di Fulgencio Batista; dopo la Re­volución di Fidel ed Ernesto Che Guevara scel­sero la via dell’esilio migliaia di anticomunisti. Adesso le carrette che solcano il Golfo sono pie­ne di povera gente che non ha i mezzi per tira­re avanti, la gran ciurma dei disoccupati e dei braccianti sbarcati nell’Isola anche da altri Pae­si dell’America latina con l’obiettivo di raggiun­gere gli States.
L’euforia che ha colto l’Avana e altre città nei giorni del cinquantenario della Rivoluzio­ne si è rapidamente estinta e Cuba deve fare i conti con la re­altà di un Paese «immiserito» e «senza scampo», come è stato definita impietosamente da qualche giornale. Per quanto sia stata breve, la mia sosta nel­l’isola non mi consente di con­dividere un linguaggio così apocalittico e totalmente nega­tivo. «Il turismo — dice Emilio, che fa la guida e accompagna gruppi di stranieri sul suo pul­mino all’Avana e in altri capo­luoghi — è la nostra maggior fonte di ricchezza. Più del­­l’esportazione: dello zucchero e del nickel. E ha creato anche una differenza tra le classi socia­li. Prima qui avevano tutti lo stesso salario e ognuno godeva dello stesso prestigio sociale.
Adesso molti prodotti vengono importati dai turisti e vengono pagati con la loro moneta, in dollari. Quelli che ricevono il danaro dai turisti guadagnano molto di più del resto della popo­lazione che fa ricorso alla valuta locale. Il turi­smo è un’entrata forte per un Paese di bassa economia come il nostro. Fidel Castro lo permi­se sapendo che avrebbe cambiato notevolmen­te la realtà di Cuba».
Il centro storico della vecchia Avana è di una grande bellezza architettonica, ma gli alloggi al­l’interno dei palazzoni non sono molto acco­glienti. Le ultime costruzioni risalgono agli an­ni Cinquanta, ci informa Erich che lavora in un ristorante molto frequentato dagli stranieri: «Agli inquilini — spiega — non è consentito di fare alterazioni agli appartamenti, che sono spesso angusti e scomodi. I divorzi sono in au­mento anche per il fatto che le giovani coppie non trovano casa e sono costrette a vivere coi genitori... Solo dal gennaio scorso Raúl Castro diede ai cubani la possibilità di costruirsi la pro­pria casa, assecondando le esigenze di ognuno. In genere gli appartamenti sono umidi e soffo­canti e la gente è costretta ad uscire sul balcone per prendere una boccata d’aria e sfuggire al ca­lore pomeridiano che impregna le pareti».
La sera, la gente si riversa in strada e passeg­gia sul lungomare del Malecón per farsi carez­zare dalla brezza notturna: c’è chi suona, chi danza, chitarre, mandolini, fisarmoniche a boc­ca, i bambini giocano e strillano, qualcuno reg­ge in mano il filo dell’aquilone, il furgoncino dei gelati va su e giù per la promenade seminan­do profumo di vaniglia e fragola. Ci sono anche una mezza dozzina di pescatori che non sem­brano molto fortunati.
Emilio aveva 11 anni quando scoppiò la Ri­voluzione, vide Fidel, Raúl, el Che e gli altri bar­budos sulla Piazza grande, appena scesi vitto­riosi dalla Sierra: «Ero tanto giovane — raccon­ta — ma mi resi conto di quanto stava succe­dendo… Benché piccolo, stavo già lavorando nella bottega di un calzolaio per aiutare la mia famiglia. E poi smisi di lavorare per andare a scuola». A 13 anni imbraccia un fucile e va a combattere con l’Esercito Ribelle contro gli yankees alla Baia dei Porci. «I miei figli — con­clude — non condividono il mio entusiasmo per la Rivoluzione: ma è comprensibile. La Cu­ba di oggi non dà ai giovani le stesse opportu­nità che avevano quelli della mia generazio­ne ».
Un professore universitario lamenta che i giovani si sentono «trascurati» dal governo e dalle istituzioni culturali del Paese, pur avendo conseguito lauree e diplomi al massimo livel­lo. È una società emancipata quella uscita dalla Rivoluzione del ’59: c’è tuttavia chi fa notare che lo spirito rivoluzionario degli anni Sessan­ta s’è affievolito e sottolinea come sia intollera­bile, a Cuba, che ci sia gente che guadagna favo­losamente col turismo, mentre altri devono fa­re tre mestieri diversi al giorno per sbarcare il lunario. Su una cosa i cubani (e le cubane) non transigono: vestir bene, con stoffe di qualità o abiti di buon taglio, seguendo la moda.
Col turismo è l’agricoltura l’altra grande fon­te di ricchezza per il Paese: grazie all’esportazio­ne del tabacco e dello zucchero. Ma il tabacco ha bisogno delle piogge che arrivano abbon­danti d’estate, insieme ai cicloni, che hanno spesso effetti devastanti. I quattro che hanno investito Cuba l’anno scorso hanno raso al suo­lo mezzo milione di edifici. Ma per fortuna (e anche grazie all’intelligente lavoro di preven­zione) non ci sono state vittime.
Non stupisce perciò che a Cuba un contadi­no guadagni più di un medico. È lo stesso Raúl Castro a vigilare sull’agricoltura facendo rego­larmente visite alle aziende grandi e piccole e stabilendo un rapporto diretto ed assiduo coi suoi campesinos. Fidel è un idealista, un capo carismatico che il primo maggio affascina colla sua ridondante oratoria milioni di persone. Raúl sta spesso dietro un aratro o nelle stalle col bestiame. Quando lo incontrai, qualche an­no fa, mi trattenne più di un’ora per parlarmi della sua mucca, cha aveva mammelle enormi e spillava più latte di una dozzina di mucche messe insieme. Un fenomeno, assicurava con un furbo sorriso negli occhi.
A confronto con i Paesi del Centro e Sudame­rica, dov’è di casa il narcotraffico e dove delitti e rapine sono all’ordine del giorno, Cuba sem­bra davvero un’isola solare, felice. Non c’è cri­minalità per le strade dell’Avana o di Santa Cla­ra o di Santiago. I bambini possono cammina­re di notte, soli, senza timore di brutti incontri o cattive sorprese. I ragazzi e le ragazze frequen­tano la scuola gratis fino a diciotto anni: per poi accedere, se ne hanno voglia e talento, al­l’Università.
«Noi non crediamo al consumismo come nel resto del mondo — dice Elisa, una ragazza madre che vive col suo bambino in un piccolo appartamento dell’Avana —, ma ci diano alme­no i mezzi per sopravvivere. Per me è una lotta quotidiana procurarmi il cibo per noi due. Di­cono che a Cuba nessuno muore di fame: ma a volte ho l’impressione d’esserci andata molto vicino».
Mentre si continua a parlare della rimozione dell’embargo e della base americana di Guantá­namo, un giornale scrive che «gli Stati Uniti so­no un partner commerciale fondamentale per Cuba» e aggiunge: «Senza i beni provenienti dagli yankees e da altri occidentali, tra i quali gli italiani sono in prima fila, i cubani sarebbe­ro alla fame. Sotto il velo di una propaganda in cui nessuno crede più, la vita quotidiana di Cu­ba è quella di un Paese che non produce quasi nulla. E quindi deve importare il necessario, compresa la frutta tropicale surgelata che vie­ne dritta dalle serre canadesi. Le tessere alimen­tari offrono sempre meno. Per fortuna c’è il confratello Chávez, che baratta il suo petrolio con medici e istruttori cubani, garantendo così che l’isola non resti al buio. L’unica risorsa eco­nomica di Cuba è il turismo. Non più fiorente come qualche tempo fa, ma almeno offre quel­la valuta pregiata di cui il regime dei fratelli Ca­stro ha disperatamente bisogno».
In tanti anni, il blocco ha solo impoverito i cubani, frenato gli investitori americani, servi­to la propaganda di regime e delegittimato l’op­posizione democratica. I dissidenti che stanno ancora in carcere contro Castro sarebbero stati arrestati e condannati non per reati ideologici contro Castro, ma per aver ricevuto illegalmen­te delle somme di denaro da parte di commer­cianti americani.
Oggi nessuno pensa che Washington abbia intenzione di ripetere l’impresa della Baia dei Porci che finì in disastro il 17 aprile 1961: si era in piena Guerra Fredda e gli Stati Uniti avevano forse qualche ragione per considerare Cuba co­me l’«avanguardia» dell’Unione Sovietica nello Stretto di Florida.
Per risollevarsi dalla situazione comatosa in cui langue, Cuba punta ora tutte le sue speran­ze sul petrolio che pare di ottima qualità e gia­ce lungo le sue sponde nel profondo del Mar dei Caraibi. Le tecnologie di Petrobras stanno scandagliando giacimenti definiti «prometten­ti ». Ma i tecnici sostengono che ci vorranno al­cuni decenni «per sfruttarli e per inondare Cu­ba di petrodollari».
(Seconda puntata / La prima è stata pubblicata il 24 maggio)

il Riformista 14.6.09
1984, il Grande Fratello non è più staliniano
di Guido Vitiello


ANNIVERSARIO. 60 anni fa usciva il romanzo di George Orwell. Distopia che pare adattarsi a tutti i regimi. Forse anche all'Italia dei nostri giorni.

Ci sono scrittori divorati dalla loro stessa fortuna, che come un mostro marino li fa scomparire nelle sue fauci, li rimastica, li spolpa diligentemente, per poi risputarne al più qualche osso lustro, qualche maldigesto brandello. Ma a pensarci bene, per descrivere quel che capita a questi infelici, metafore altrettanto adatte possiamo trovarle nel prosaico scenario di un giacimento petrolifero: accade cioè che dal ribollente sottosuolo della loro opera la trivella dei critici e dei recensori estragga un piccolo numero di preferiti motivi, e che ad essi riduca l'intero corpus dei loro scritti. Se poi seguiamo le tappe successive della raffinazione, ecco che osserviamo come da centinaia o migliaia di pagine si perviene a distillare un paio di aggettivi miserelli, adatti a spendersi in ogni occasione che la cronaca, la storia o i casi della vita faranno apparire opportuna: si dirà allora che la tal situazione è kafkiana, o pirandelliana, o boccaccesca, e non si serberà memoria di una sola riga scritta da Boccaccio, Pirandello, o Kafka.
Qualcosa di simile è accaduto a George Orwell, e al suo libro più fortunato, 1984, che fece il suo debutto sulla scena letteraria l'8 giugno di sessant'anni fa. Lo scrittore, polemista e combattente britannico, al secolo Eric Arthur Blair, morto quarantaseienne appena sette mesi dopo aver dato alla luce la sua terrificante distopia politica, sopravvive oggi nel linguaggio comune rannicchiato nello spazio breve di un solo aggettivo, "orwelliano" - che a ben vedere si sovrappone un poco a "kafkiano", ma senza i grilli metafisici del grande praghese: orwelliana è la propaganda occulta, la scaltra manipolazione dell'opinione pubblica, l'informazione che crea dal nulla immagini della realtà congeniali al potere; orwelliano è quel pervertimento del linguaggio che consente di dire o fare qualcosa sotto la maschera del suo opposto, di muovere guerra inneggiando alla pace, di razzolare da oppressori mentre si predica da liberatori; orwelliano è, infine, qualunque sistema di sorveglianza o di spionaggio centralizzato, qualunque diavoleria elettronica che assedi - più o meno a nostra insaputa - la cittadella della vita privata.
Nei sei decenni esatti che ci separano dalla prima apparizione di 1984, critici e lettori illustri si sono disputati a dadi le vesti di George Orwell: alcuni onestamente, altri in modo un poco immaginoso, altri ancora barando apertamente al gioco. E così, il torvo scenario di un mondo retto dall'onnipresente effigie del Grande Fratello è stato strattonato nell'una o nell'altra direzione, a seconda delle opinioni e delle convenienze. Per alcuni, l'ordine totalitario descritto nel romanzo era una maschera i cui tratti si adattavano altrettanto bene alla Germania di Hitler e alla Russia di Stalin, solo esaperate e trasposte nel futuro. C'è chi, come Anthony Burgess, vi ha letto una satira swiftiana della sinistra londinese del dopoguerra, o perfino del governo laburista di Clement Attlee. Più di recente Christopher Hitchens - che all'autore britannico ha dedicato un libro appassionato, Why Orwell Matters - ha trovato analogie tra l'impero del Big Brother e l'Iraq di Saddam Hussein o la Corea del Nord di Kim Jong-Il - quasi echeggiando Norman Podhoretz, che in un celebre saggio di vent'anni prima aveva tentato l'annessione postuma di Orwell alla causa neoconservatrice. Lo spagnolo Fernando Arrabal, in una dura requisitoria in versi e in prosa contro la dittatura cubana, scritta proprio allo scoccare dell'anno fatale, aveva accusato Fidel Castro di aver materializzato i peggiori incubi di 1984. E ovviamente c'è chi - sono legione - con forzatura davvero marchiana si ostina a scorgere in 1984 la prefigurazione di un ipercapitalismo tecnologico e oppressivo, di un mondo schiavo dell'imbonimento televisivo, magari giocando sulla fortuna di un format che, battezzato a partire da Orwell, con il suo libro non ha nulla a che vedere (e poi, diciamolo fuori dai denti: sul premier in carica, fatto salvo tutto il male che se ne può pensare, 1984 non ha nulla da dirci).
L'appellativo che si associa più di frequente al nome dell'autore di 1984, ad ogni modo, è quello di "profeta". Ed è un appellativo corretto, purché non lo s'intenda alla maniera moderna, come sinonimo di chiaroveggente o indovino, ma nel senso originario di colui che coglie con più chiarezza il presente e ne decifra i segni. George Orwell, spirito candido - nel senso voltairiano quanto in quello comune - nonché grande ammiratore della fiaba anderseniana del "re nudo", che sognava di trasporre nel mondo moderno, non parlava del futuro, ma del presente e del passato recente. Lui, che con La strada di Wigan Pier e Omaggio alla Catalogna aveva inaugurato il "non-fiction novel" con qualche lustro di anticipo su Truman Capote e Norman Mailer, nelle pagine di 1984 non ha fatto che descrivere quel che aveva davanti agli occhi, nelle cronache del suo tempo - un poco nascoste semmai, o sommerse da voci più squillanti, nondimeno accessibili a chiunque lo volesse. «Anche coloro che conoscono Orwell solo per sentito dire», scriveva nei primi anni cinquanta Czeslaw Milosz in uno dei saggi de La mente prigioniera, «si stupiscono che uno scrittore mai stato in Russia abbia potuto mettere insieme una tale quantità di osservazioni esatte». Impressione confermata dal polacco Gustaw Herling, l'autore di Un mondo a parte, una delle più alte testimonianze sul gulag: quando i suoi connazionali presero a leggere Orwell, racconta, non poterono fare a meno di chiedersi: «Ma questa è la mia vita. Come fa a conoscerla così bene? Come può un inglese sapere queste cose?».
Proprio come "La fattoria degli animali", di certo il libro più misurato e felice di Orwell, 1984 è prima di tutto un libro su Stalin e lo stalinismo, che sceglie il registro della fantascienza come l'altro sceglieva i travestimenti dell'apologo esopico. Non c'è nulla, o quasi, che Orwell non abbia pescato nelle cronache della Russia sovietica: l'asfissiante delirio burocratico, la creazione di un linguaggio disanimato fatto di sigle astruse; la riscrittura continua della storia in funzione delle necessità presenti, che porta fino alla cancellazione "in effigie" dei dissidenti (ricordiamo cosa fece Stalin con Karl Radek?); il controllo della vita privata basato sulla delazione generalizzata quanto e più che sui sistemi tecnologici di sorveglianza, la ripetizione martellante di slogan innocui costruiti per celare il loro esatto opposto; l'induzione coatta di sentimenti di reverente ammirazione verso la figura paterna del leader, rinfocolati dalla pratica dei «due minuti d'odio», in cui i sudditi si raccolgono a insultare l'oppositore Emmanuel Goldstein - trasparente alter ego di Lev Trotzkij - che compare su un grande schermo.
Il Grande Fratello è, prima di tutto, Iosif Stalin. E anche se è pretestuoso sostenere, come pure si è fatto, che questa elementare verità sul romanzo di Orwell sia stata occultata o rimossa per le sempiterne ragioni di fedeltà al partito, di egemonia, di accecamento ideologico, è pur vero che essa circola alla stregua di una lectio minore: la lettura di 1984 come prefigurazione dell'epoca televisiva gode senza dubbio di una risonanza più vasta.
Certo, l'attacco di Orwell allo stalinismo è pur sempre l'attacco di un uomo che si professò, fino all'ultimo, socialista. Un socialista sui generis, ferocemente antitotalitario, avversario dei marxisti dottrinari, dei pacifisti fanatici, degli anticolonialisti ideologici; un uomo ferito da quel che chiamava «l'orrore della politica», mosso dalla chimera populista e sentimentale di poter rinnegare le proprie origini privilegiate per immergersi nel popolo, confondersi con gli umili, sperimentare la condizione operaia con la stessa straunata generosità di Simone Weil. La sua avversione al Grande Fratello staliniano discendeva da un'idea del socialismo ancora un po' fluttuante in mare aperto, che non si era persuasa del tutto a rinnegare le sirene di una possibile rivoluzione "buona" (lo testimonia Il leone e l'unicorno), ma che pure sembrava navigare nella direzione della piena sconfessione dell'utopia. Fosse vissuto un po' più a lungo, chissà, Orwell avrebbe capito che a fronte del "socialismo reale" non c'è il socialismo ideale, ma solo socialismi immaginari.