martedì 16 giugno 2009

l’Unità 16.6.09
Intervista a Farian Sabahi
«Nei suoi veri piani le elezioni del 2013»
di GA.B.


Farian Sabahi, iraniana, insegna storia dei Paesi islamici all’università di Torino. Le chiediamo di aiutarci a capire cosa stia accadendo a Teheran.
La situazione pare in continua evoluzione. Che sbocchi può avere il movimento di protesta secondo lei?
«Essendo una storica di professione, preferisco non ipotizzare scenari futuri. Una cosa mi pare evidente. L’esito del voto non si spiega solo con i brogli. Mentre la campagna elettorale di Mousavi è durata tre settimane, quella di Ahmadinejad è andata avanti per più di tre anni, durante i quali ha elargito a destra e a manca, incrementando del 50% le pensione e del 30% gli stipendi degli insegnanti. Inoltre 22 milioni di cittadini in più hanno ottenuto l’assistenza sanitaria gratuita. Tutto ciò gli ha guadagnato consensi, anche se ha provocato la crescita di inflazione e disoccupazione. Le proteste sono sincere, ma esiste anche un altro Iran, al di fuori della capitale, che spesso non viene considerato. Ci sono 4 milioni di nomadi la cui scelta elettorale non è un fatto individuale. E quando tu vedi il presidente che si sporca le scarpe di polvere per andare nei villaggi a stringere le mani dei tuoi capi, questo basta a orientare il tuo voto».
Lasciamo stare il futuro allora. Cosa sta accadendo oggi ai vertici del potere in Iran?
«Un fenomeno interessante è la frattura avvenuta all’interno del sistema istituzionale della Repubblica islamica. La propaganda di Ahmadinejad ha preso di mira figure di spicco dell’élite politico-religiosa. Le accuse di corruzione hanno messo in serio imbarazzo il candidato riformatore Karroubi, la terza carica dello Stato Rafsanjani, grande sponsor di Mousavi, e altri ancora, senza escludere personaggi vicini alla Guida suprema Khamenei. Si è frantumata la coesione e l’omertà interna all’establishment. Il blocco di forze che fa capo ai Pasdaran è emerso sempre più distinto ed autonomo rispetto agli altri centri di potere».
Si può allora ipotizzare che Mousavi, nel chiedere l’annullamento delle elezioni, punti soprattutto a stabilire un legame fra il movimento di cui è in questo momento leader e settori importanti dell’élite religiosa? Pur sapendo che il voto non sarà invalidato, cerca di rafforzare le basi dell’opposizione che si candida a guidare nei prossimi anni?
«Si forse sta appunto pensando alle presidenziali del 2013 e non all’irrealistica ipotesi di ripetere quelle appena svolte. È possibile che, come lei dice, tenti di approfittare della divisioni fra clero e Pasdaran. Ma Mousavi per 20 anni è stato ai margini della politica. Non vediamo in lui un raffinato stratega, un Andreotti iraniano. Lo stesso Khatami, che sta dalla sua parte, viene spesso sopravvalutato. La sua natura di riformatore è discutibile. Lo è forse per gli standard iraniani, così come un conservatore del calibro di Rafsanjani, in contrapposizione ad Ahmadinejad, è stato etichettato come moderato pragmatico».

l’Unità 16.6.09
Il destino di un Paese e le due facce di Ahmadinejad
Ho incontrato il Buono e il Cattivo: da un lato elargisce i noti sorrisi
da umile lavoratore, dall’altro eccita la folla e imbavaglia la stampa
di Robert Fisk


Domenica a Teheran è stata una giornata surreale, infausta, una giornata di giornali censurati e di parole e minacce sussurrate contro l’oppositore politico di Mahmoud Ahmadinejad, Mousavi. (...)Una giornata piena di poliziotti in borghese, di posti di blocco e di manifestazioni di sostegno del governo. Non ci sarà un’altra rivoluzione in Iran. Ma questa non è la democrazia promessa da Ahmadinejad.
Abbiamo incontrato Ahmadinejad il Buono che ci ha fatto la predica nel corso di una conferenza stampa, che sembrava un set cinematografico, parlando del nobile, compassionevole, dignitoso e intelligente popolo iraniano. Ma abbiamo incontrato anche Ahmadinejad il Cattivo che ha giurato dinanzi a migliaia di sostenitori urlanti che avrebbe fatto i nomi dei «corrotti» che si sono schierati contro di lui in occasione delle elezioni. Non sono ancora certo di aver incontrato il presidente Ahmadinejad sempre che si sia disposti a credere a quel 63,62% che sostiene di aver ottenuto. Come giudicare un uomo che per ben cinque volte parla delle elezioni presidenziali paragonandole ad una partita di calcio e che poi – dinanzi a noi tutti - con un filo di voce e con il più gentile dei sorrisi lancia a Mousavi un terribile avvertimento? «Dopo una partita di calcio capita che qualcuno pensi che la sua squadra doveva vincere, dopo di che esce dallo stadio, sale in auto, passa con il rosso e viene multato dalla polizia. Non ha avuto la pazienza di aspettare il verde. Non mi fa piacere che ci sia qualcuno che ignora il semaforo rosso». Abbiamo trattenuto tutti il respiro. Poco meno di due ore dopo, dinanzi a migliaia di persone a piazza Val-y-Asr, abbiamo visto Ahmadinejad il Cattivo. «Ci accusano di essere bugiardi e corrotti», urlava. «Sono loro i corrotti. Nella mia qualità di presidente farò i loro nomi...». La folla rumoreggiava in segno di assenso. Non c’era da stupirsene. (...) La giornata è cominciata male con l’ennesima dichiarazione pericolosa del comandante della polizia di Teheran, Bahram Radan. «Abbiamo individuato abitazioni che fungono da basi di criminali politici». (...) Poi c’è stata la prima pagina del quotidiano «Etemate Melli» –Fiducia Nazionale– che appartiene ad un altro dei nemici di Ahmadinejad, Mehdi Karoubi. In cima alla prima pagina figuravano i risultati elettorali e sotto una didascalia: «Sui risultati elettorali, Mehdi Karoubi e Mousavi hanno rilasciato dichiarazioni che non possiamo pubblicare». Sotto la pagina era volutamente bianca. (...) E per far capire come stavano le cose a pagina 2 del giornale una fotografia grande come un francobollo di agenti della polizia di Teheran che correvano in una strada con due spaventose didascalie. «La polizia per la Sicurezza Pubblica ha rilasciato una dichiarazione secondo cui qualunque tipo di assembramento, dimostrazione o celebrazione non autorizzati sono da considerare vietati. Ogni assembramento è illegale e a pagarne le conseguenze saranno i candidati e i responsabili della loro campagna elettorale». Sapevamo cosa significava, tanto che ci siamo recati alla conferenza stampa di Ahmadinejad con la convinzione che ci sarebbero state altre minacce. Così è stato.
Ahmadinejad era seduto dietro una miriade di rose bianche e rosse con le spalle rivolte ad un poster che ritraeva una montagna incappucciata di neve, con la bandiera iraniana davanti a lui, la giacca alla Humphrey Bogart aperta e il suo caratteristico sorriso – il sorriso da Nazioni Unite, da Cnn, da umile lavoratore, da sportivo, da uomo saggio, insomma quello che conosciamo tutti – e la consueta barba non rasata. (...) «Nei Paesi a democrazia liberale, il popolo viene espulso dal sistema e i professionisti si impadroniscono del potere, ma in Iran la democrazia si fonda sull’etica». È andata avanti così per un bel pezzo. (...) «Gli iraniani detestano le menzogne e sono contenti del loro destino...ma ci opponiamo ai prepotenti e all’arroganza…. Gli iraniani non si faranno mai spaventare dalle minacce», ha proseguito. Chiaramente Ahmadinejad aveva letto il discorso di Barack Obama al Cairo – tanto da sembrare a momenti la grottesca parodia del presidente americano. (...) Il discorso sembrava interminabile. Democrazia, etica, valori umani, stato sociale, fiducia, rispetto reciproco, giustizia, correttezza….. Di tanto in tanto sembrava una versione aggiornata della Repubblica di Platone con l’improbabile re-filosofo dietro le rose bianche e rosse. Ma c’era anche l’incomprensibile rifiuto di fare i conti con la realtà. Quando ho chiesto ad Ahmadinejad il Buono se ricordava la giovane iraniana trascinata urlante al patibolo qualche settimana prima mentre implorava la madre al cellulare di salvarle la vita qualche secondo prima che la corda le spezzasse il collo, e se era in grado di garantire che una simile atrocità non si sarebbe mai più ripetuta nella Repubblica Islamica dell’Iran, si è avventurato in una esegesi del sistema giuridico iraniano. «Sono contrario alla pena capitale», ha replicato. «Non vorrei ammazzare nemmeno una mosca. Ma la magistratura in Iran è indipendente». E poi ha promesso che avrebbe chiesto al sistema giudiziario di rendere meno severe le pene e ha aggiunto che, a suo giudizio, ai giudici iraniani avrebbe fatto bene avviare un «dialogo» con i giudici americani ed europei. Ma la giovane donna giustiziata in maniera così crudele – per un reato che potrebbe non aver commesso – non figurava nemmeno indirettamente nella sua risposta. Eppure non era una mosca. Il suo destino era stato deciso dal compassionevole Iran di Ahmadinejad. E non era una mosca nemmeno Mousavi quando Christiane Amanpour della Cnn ha chiesto ad Ahmadinejad il Buono garanzie sulla sua vita e su quella dei suoi sostenitori. Sulle prime nessuna risposta. Amanpour ha ripetuto la domanda. «Forse a causa della traduzione mi è sfuggito qualcosa», ha detto sarcasticamente. «Forse le è sfuggito il fatto che l’interprete le ha detto che non poteva fare una seconda domanda», ha replicato Ahmadinejad. «No – ha aggiunto l’imperturbabile Amanpour – questa non è una seconda domanda. Le sto semplicemente ripetendo la prima!». Del tutto inutile, ovviamente. (...). Quindi: guerra o pace? Dipende se abbiamo a che fare con Ahmadinejad il Buono o con Ahmadinejad il cattivo, suppongo.
© The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Repubblica 16.6.09
Il muro dei pasdaran
di Bernardo Valli


La decisione di affidare al Consiglio dei guardiani il giudizio sulla validità del voto significa che al vertice è in corso uno scontro
Dietro il presidente ultraconservatore ci sono troppe forze e troppi interessi, radicatisi negli ultimi quattro anni, che adesso si sentono minacciati

Ogni quindici minuti, puntuale, insistente, la radio ufficiale informa gli iraniani che la Guida suprema, l´ayatollah Ali Khamenei, ha accolto la domanda dell´opposizione e ha autorizzato un´inchiesta sul contestato voto del 12 giugno.
Vale a dire sulla validità della rielezione di Mahmud Ahmadinejad alla Presidenza della Repubblica. Questo non significa che la Guida suprema si rimangia la dichiarazione, con la quale, quando era ancora in corso il conteggio, sabato sera, ha confermato il risultato ufficiale, definendo una «festa» la vittoria di Ahmadinejad. Egli è pero´ stato costretto ad accettare il ricorso di Mir Hussein Moussavi, il leader sconfitto ufficialmente ma non rassegnato. La decisione di affidare al Consiglio dei guardiani, incaricato di vagliare la pertinenza di ciò che avviene nella società politica, il giudizio sulla validità o meno del voto, significa che un acceso scontro è in corso al vertice della Repubblica islamica. Ne è del resto una prova il fatto stesso che la grande manifestazione dei sostenitori di Moussavi si sia svolta nel centro di Teheran, nonostante il divieto del Ministero degli Interni, con incidenti non tanto gravi rispetto alla posta in gioco. E in gioco c´è l´avvenire stesso della "rivoluzione"; non la sua sopravvivenza, ma la sua natura; vale a dire la svolta riformista, modernizzatrice che Moussavi vorrebbe imporle, e che Ahmadinejad invece rifiuta.
Appare assai improbabile che il Consiglio dei Guardiani sconfessi Ahmadinejad e rimandi gli iraniani alle urne. Dietro il presidente ultraconservatore ci sono troppe forze e troppi interessi che si sentono minacciati. Forze e interessi radicatisi negli ultimi quattro anni, durante il mandato di Ahmadinejad, ed ora messi in discussione dai leaders riformisti, il cui avvento al governo cambierebbe la faccia della Repubblica islamica. Sia per quanto riguarda la società (maggiore autonomia del potere politico rispetto al potere religioso, sia pur senza venir meno ai principi islamici); sia per quanto riguarda i rapporti con il resto del mondo. E questi ultimi costituiscono un problema cruciale, poiché c´è la "mano tesa" di Barack Obama.
A sentirsi minacciate sono tutte le forze militari e paramilitari, e con loro la non tanto invisibile ragnatela dei servizi segreti, che Ahmadinejad ha colmato di poteri e privilegi, compresi quelli economici. Poteri e privilegi destinati ad essere ridimensionati dalle riforme promesse da Moussavi e dall´apertura verso il mondo esterno, implicita nel discorso di quelli che Ahmadinejad chiama con disprezzo i «liberali». La devozione formale di Ahmadinejad nei confronti della Guida suprema e la fretta con la quale l´ayatollah Khamenei ha manifestato la sua gioia per la riconferma del tanto devoto presidente, rivelano con chiarezza la preferenza del potere clericale.
Anche se gli alti prelati sono tutt´altro che compatti nel giudicare gli avvenimenti. Le lotte intestine, di natura teologica o di prestigio, sono numerose e profonde. E non è sempre facile distinguere i conservatori dai riformisti. Un conservatore pragmatico, come l´ex presidente Rafsanjani, uno degli uomini più ricchi dell´Iran, è schierato con Mir Hussein Moussavi. E´ favorevole a un´apertura all´America, e quindi contrario all´aggressiva intransigenza di Ahmadinejad nei confronti dell´Occidente. Ahmadinejad replica denunciando l´affarismo di Rafsanjani, e dichiarandosi «l´amico dei poveri pronto a tagliare le mani dei corrotti». Se l´elettorato di Moussavi è costituito in particolare dalle classi medie, quelle urbane, dai professionisti e dagli studenti; Ahmadinejad raccoglie la maggioranza dei consensi negli ambienti popolari e rurali. Oltre ad avere dietro di sé le formazioni paramilitari e molte moschee.
La storia trentennale della Repubblica islamica è ricca di crisi, spesso simili a colpi di Stato. Nel giugno ‘81, quando la Repubblica aveva poco più di due anni, ci fu l´impeachment di Banisadr, il primo presidente della Repubblica, che fuggi dall´Iran clandestinamente e si rifugiò in Francia. Più tardi, nell´aprile ‘82, fu messo sotto accusa Sadegh Ghotbzadeh, stretto collaboratore di Khomeini durante l´esilio e ministro degli esteri. Ritenuto colpevole di un complotto contro il fondatore della Repubblica, Ghotbzadeh fu giustiziato sommariamente, secondo le spicciative regole dell´epoca.
Più clamoroso fu l´affare Montazeri. Celebre ayatollah, designato come successore di Khomeini, Montazeri oso´ criticare apertamente le esecuzioni di massa avvenute alla fine della guerra con l´Iraq, nel 1989, e definì vergognosa la fatwa (equivalente a una condanna a morte) lanciata contro lo scrittore Salman Rushdie. «Nel mondo si fa strada l´idea che la nostra principale occupazione sia quella di ammazzare la gente», disse Montazeri. E Khomeini non glielo perdonò. Lo destituì come successore designato, e indico´ al suo posto Ali Khamenei, oggi il principale sostenitore di Ahmadinejad.

Corriere della Sera 16.6.09
Intervista. Per l’ex ministra Afkhami «è stata una truffa: computer programmati per dare il 60% al presidente»
«E’ una rivoluzione, la guidano donne e blogger»
di Alessandra Farkas


NEW YORK — «Stiamo assistendo a quella che potrebbe diventare la prima rivoluzione guidata da Internet della storia». Mahnaz Afkhami, scrittrice, attivista ed ex-ministra iraniana per gli Affari delle donne prima della rivoluzione khomeinista, non esclude che il regime degli ayatollah sia in procinto di cadere.
«Anch’io, come la maggior parte degli iraniani, giudico queste elezioni una truffa — spiega —. Hanno programmato i computer per dare il 60% ad Ahmadinejad e il 30% a Mousavi, persino nelle città dove quest’ultimo stravinceva nei sondaggi. Un trucco fin troppo trasparente».
Che cosa le fa pensare che si tratti proprio di una rivoluzione?
«La convergenza di molti fattori nuovissimi. Pri­ma d’ora non avevamo mai assistito a liti tanto pub­bliche ai vertici delle elite al potere in Iran. E per la prima volta è il popolo a guidare i propri leader e non viceversa».
Cosa intende dire?
«Dopo la sconfitta, Mousavi aveva esortato i suoi elettori a una calma rinunciataria, ma questi l’han­no spinto a rialzare i toni, rimettendo tutto in di­scussione. Oggi in Iran la piazza si muove più velo­cemente dei propri leader».
Come lo spiega?
«L’Iran, dove il 70% della popolazione ha meno di 30 anni, è una nazione di cibernauti che sta gui­dando questa nuova rivoluzione con Twitter, You- Tube e Facebook. Che sono mille volte più avanti dei media internazionali nel raccontare cosa accade nel Paese. Non dimentichiamoci poi che tra i blog­ger più agguerriti ci sono molte donne».
Che impatto possono avere tra le classi meno abbienti?
«Enorme. Il loro è un movimento, più che un par­tito politico, un network con milioni di simpatiz­zanti che hanno organizzato una capillare campa­gna porta a porta, raggiungendo casalinghe, parruc­chiere e sarte. Sono state le donne, che alle ultime elezioni si erano astenute, a spingere il conservato­re Mousavi verso posizioni più progressiste, sce­gliendolo astutamente come il loro candidato solo perché aveva più chance di vittoria».

il Riformista 16.6.09
«Il despota ha rubato le elezioni»
Faezeh Hashemi. Intervista esclusiva con la figlia di Rafsanjani, il più potente rivale di ahmadinejad. «Mio padre non si dimette, non scapperemo... perchè abbiamo vinto». E tramite il Riformista lancia un appello all'Italia


Teheran. I leader riformisti sono agli arresti o barricati in casa. Subiscono con sempre maggiore frequenza minacce e violenze. Faezeh Hashemi, Presidente della "Federazione Islamica delle donne dello sport" e figlia dell'ex Presidente Hashemi Rafsanjani nonostante questo ha accettato di essere intervistata dal Riformista e da RadioRadicale. La sua famiglia è stata attaccata con forza da Ahmadinejad in campagna elettorale e dopo l'esito del voto, il presidente ha promesso alla gente che sarà lui in persona ad occuparsi dei nemici interni dell'Iran. Hashemi Rafsanjani è considerato dal regime il grande stratega delle proteste di questi giorni e si parla con sempre più insistenza di un immediato regolamento di conti nel Paese.
Cosa prova in queste ore. Ahmadinejad sarà ancora per quattro anni il vostro Presidente della Repubblica?
Ho un brutto presentimento. Da iraniana mi preoccupo per la mia gente, che dopo una campagna elettorale così appassionata, ora si trova ad avere al governo un presidente che non ha svolto bene la sua funzione nel suo mandato. Se il signor Ahmadinejad intenderà continuare con i suoi programmi prepariamoci ad una vera e propria tragedia per il Paese.
Mousavi pur avendo condotto una campagna elettorale attenta ai valori istituzionali, dopo la proclamazione di Ahmadinejad, ha contestato i risultati chiedendo formalmente al Consiglio dei Guardiani l'annullamento delle elezioni per brogli. Cosa ha da dire su questo?
Per quanto riguarda il voto, concordo completamente con l'ingegner Mousavi e il dottor Karoubi. Ci sono state gravi irregolarità nella raccolta e poi nel conteggio dei voti. Vorrei tramite il vostro giornale porre delle domande al governo. Dicono che i voti non sono stati manipolati e allora perché i badge per accedere ai seggi sono state rilasciate con grave ritardo agli osservatori del voto per conto di Mousavi e Karoubi? Perché ad alcuni di loro il badge non è stato proprio rilasciato? Perché alcuni osservatori sono stati allontanati dai seggi al momento della conta dei voti? Perché a tanta gente che doveva votare, in coda da ore, non è stata data questa possibilità chiudendo le porte dei seggi, mentre sono state stampate 57 milioni di tessere elettorali su 46,2 milioni di aventi diritto al voto? Per quale motivo hanno attaccato e saccheggiato il comitato elettorale di Mousavi? Perché hanno oscurato tutti i siti riformisti e isolato tutti i telefoni? Tutto questo è stato pianificato per tempo, l'obiettivo da raggiungere era far totalizzare ad Ahmadinejad il 60% di voti. Quei voti appartenevano a Mousavi. Lui doveva essere eletto.
Si è diffusa la notizia che suo padre Hashemi Rafsanjani avrebbe l'intenzione di dimettersi da tutte le cariche...
Non è assolutamente vero…mio padre non si dimetterà. Se è per questo si è anche detto che sarei scappata dall'Iran. Posso confermarle che sono di fronte a lei.
Ha sentito suo padre? Qual è il suo stato d'animo?
Certo…è mortificato per quanto accaduto. Lui ha invitato più volte la gente ad esercitare il proprio diritto di voto. Aveva detto loro: «Abbiamo bisogno di ognuno dei vostri voti, sono necessari e preziosi». La gente ha risposto, ha fatto il suo dovere, ma non è servito a nulla. Mio padre, come tutti noi, prova un grande scrupolo di coscienza nei loro confronti.
Proseguono le proteste dei giovani iraniani e i pestaggi della polizia. Si incontrano per strada ragazzi tristi e angosciati. Il "sogno verde" è già finito?
Sono con il popolo iraniano. Ha votato e ora ha il legittimo diritto di sapere cosa è stato fatto dei loro voti. Sono tristi perché defraudati. Trent'anni fa con la rivoluzione abbiamo combattuto per la libertà e i nostri diritti. In Iran oggi non c'è democrazia e la gente fa bene a scendere per strada e urlarlo.
Il risultato di queste elezioni potrebbe isolare completamente l'Iran dalla comunità internazionale, proprio quando, con le aperture di Obama, sembravano essersi aperte nuove prospettive. Quale sarà la strategia dei riformisti per l'immediato futuro del Paese?
Il contributo dell'opposizione per il futuro dell'Iran è orami totalmente inutile. Non siamo più assolutamente in grado di poter operare per il futuro del Paese. Il miglioramento delle condizioni economiche, i diritti umani, la condizione della donna, tutte le nostre battaglie sono da oggi impossibili.
Esiste un rapporto particolare tra l'Iran e l'Italia, culturale ed economico. Cosa vuol dire ai lettori italiani che in queste ore stanno seguendo con tanto coinvolgimento le sorti del popolo iraniano?
Viviamo in una situazione così drammatica che…non possiamo neanche esprimerci come vorremmo. Vorrei solo dire agli italiani, tramite il vostro giornale, che se Ahmadinejad proseguirà nella stessa politica estera degli ultimi quattro anni, tutto quello che potrebbe accadere dal giorno dopo, non è la volontà della maggioranza degli iraniani. Non dimenticatelo….

l’Unità 16.6.09
«Ma quali aperture. Così Netanyahu uccide la pace»
Il portavoce di Abu Mazen: «Nei suoi progetti la Palestina sembra una riserva dipendente da Israele. Vuole costringere l’Anp a rompere»
Intervista a Nabil Abu Rudeina di Umberto De Giovannangeli


Il suo volto divenne famoso in tutto il mondo nei giorni dell’assedio alla Muqata da parte dell’esercito israeliano. Lui, Nabil Abu Rudeina, compariva sempre a fianco di Yasser Arafat, del quale era molto più di un portavoce: era il collaboratore più stretto, un amico fidato. Oggi, Abu Rudeina è portavoce del presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen). L’Unità lo ha intervistato il giorno dopo il discorso del premier israeliano, Benjamin Netanyahu. «Le proposte avanzate da Netanyahu - ribadisce il portavoce presidenziale - rappresentano un siluro contro le iniziative di pace».
La Casa Bianca ha giudicato il discorso di Benjamin Netanyahu un importante passo in avanti...
«Comprendiamo la necessità del presidente Obama di non entrare in rotta di collisione con un Paese alleato, ma nel merito delle cose dette e di ciò che è stato omesso, il discorso del primo ministro israeliano è un siluro contro il processo di pace...».
Un’affermazione molto pesante. Netanyahu ha finalmente parlato di uno Stato palestinese...
«Ma ha messo tali e tanti paletti di rendere quell’affermazione vuota di contenuti reali...».
Netanyahu parla di uno Stato palestinese smilitarizzato.
«Non è questo il punto dirimente. Il punto è che l’idea che Netanyahu ha di uno “Stato” palestinese, è molto simile ad una riserva, totalmente dipendente da Israele, con confini aleatori. Francamente mi pare davvero eccessivo giudicare un importante passo avanti il solo riferimento ad uno Stato palestinese; un riferimento, è bene ricordarlo, che è già contenuto in quella Road Map (il Tracciato di pace del Quartetto - Onu, Russia, Usa, Ue - per il Medio Oriente, ndr.) che il primo ministro israeliano ha detto di voler assumere. Le nostre richieste principali sono la fine dell’occupazione, il problema dei profughi e quello degli insediamenti, il resto sono dettagli che possono essere risolti con il negoziato».
Nel suo discorso, Netanyahu ha parlato di Gerusalemme...
«Ribadendo che resterà l’eterna e indivisibile capitale dello Stato d’Israele. Dunque, lo status di Gerusalemme è per Netanyahu materia non negoziabile. Ora, nessun dirigente palestinese, nessun leader arabo, neanche il più disponibile al compromesso, potrebbe mai sottoscrivere un accordo di pace che non contemplasse una condivisione di Gerusalemme come capitale di due Stati. La verità è un’altra...».
E quale sarebbe questa verità vista da Ramallah?
«Dopo l’importante discorso pronunciato al Cairo dal presidente Obama, Netanyahu non poteva continuare a porsi su un terreno di scontro frontale con gli Stati Uniti. Doveva “concedere” qualcosa. In termini verbali. Ma nel farlo, ha posto tali e tante condizioni da aver reso chiaro il suo gioco: costringere i palestinesi a chiamarsi fuori dal negoziato».
Qual è la risposta dell’Anp?
«Quella che Abu Mazen ha ribadito al presidente Obama nel loro incontro alla Casa Bianca: siamo pronti a riprendere da subito il percorso di pace ma nella chiarezza degli intenti da ambedue le parti...».
Netanyahu è stato chiaro...
«Sulla strada da lui indicata non arriveremo mai alla pace, le parole di Netanyahu sabotano tutti gli sforzi, in aperta sfida alle posizioni dei palestinesi, del mondo arabo e degli Stati Uniti».
Gli Stati Uniti, vale a dire Barack Obama.
«Mai come oggi è decisiva la sua determinazione a esercitare un ruolo di super partes attiva. Il che significa, ad esempio, ricordare a Netanyahu che dovrebbe rispettare la Road Map, in cui Israele tra l’altro si è impegnato a congelare gli insediamenti».
All’Anp, Netanyahu chiede il riconoscimento d’Israele come Stato ebraico.
«In Israele vivono oltre un milione di cittadini arabi. Come ci si può chiedere di cancellare la loro identità?»

il Riformista 16.6.09
Israele. Tamir Shaefer dell'università di Gerusalemme commenta l'ultimo discorso di Netanyahu
«Bibi non dice nulla di nuovo, anzi...»
di Anna Momigliano


«È stato un discorso importante, ma di discorsi importanti la storia del conflitto arabo-israeliano è piena fin sopra ai capelli, e stiamo ancora quasi al punto di partenza». Tamir Shaefer, docente di comunicazione politica all'Università ebraica di Gerusalemme, promuove (ma senza lode) il discorso pronunciato domenica scorsa dal premier israeliano Benyamin Netanyahu all'Università di Bar Ilan.
Un discorso «per nulla drammatico» e «con una sola novità», cioè il sostegno alla creazione di uno Stato palestinese da parte del capo del governo. Ma che ciononostante ha portato a reazioni immediate da tutti gli attori che contano sullo scenario mediorientale. «Un importante passo avanti» l'ha subito definito il presidente americano Barack Obama. Mentre i leader arabi, dalla Siria all'Egitto, passando per l'Autorità palestinese, accusano Netanyahu «di allontanare la pace» con la sua richiesta affinché i palestinesi riconoscano Israele come uno Stato ebraico. Quanto ai coloni israeliani prima gli hanno dato addosso, ma poi ci hanno ripensato perché poteva andargli peggio. «Non ha parlato di smantellamenti», ha commentato lo Yesha Council. Anche se Netanyahyu ha detto, testualmente: «Le questioni territoriali saranno discusse in un accordo definitivo. Fino ad allora non abbiamo alcuna intenzione di costruire nuovi insediamenti». Il che sembra molto vicino alla richiesta di Obama.
Stop alle colonie, via libera a uno Stato palestinese: «Netanyahu non ha detto nulla di nuovo per quanto riguarda la posizione ufficiale di Israele, anzi rispetto alle posizioni dei suoi predecessori (Barak e Olmert) è un passo indietro» commenta Tamir Shaefer al Riformista. «Però è una novità che sia Netanyahu a dire queste cose: io l'ho letta come una presa di posizione che la realtà sta cambiando». Una domanda sorge spontanea, però. Posto che due passi avanti ci sono, il discorso di Netanyahu avrà effetti dal punto di vista pratico? È l'inizio di un processo politico? «Bella domanda!» risponde l'esperto di comunicazione. «Bibi mi è sembrato sincero, ma da qui a dire che si passerà dalle parole ai fatti... dopotutto ci sono stati tanti di quei discorsi importanti, da Annapolis al discorso di Bush sulla Roadmap, che poi non hanno portato a un bel nulla». Ma ci sono anche discorsi che hanno portato a esiti storici, come quello pronunciato da Ariel Sharon nel 2004. «Certo, il ritiro da Gaza è partito da un discorso» risponde Shaefer. «Ma sa qual è la differenza? Che il disimpegno da Gaza è stato un atto unilaterale». In altre parole: Sharon ha detto "ritiriamoci" e si è ritirato. Netanyahu invece ha parlato di uno Stato palestinese, cosa che è impossibile raggiungere senza la collaborazione dei palestinesi. «E al momento i palestinesi non sono in condizione di collaborare, perché hanno una leadership debole». Veramente i palestinesi, e gli arabi in genere, dicono che è Netanyahu che non collabora, che il suo discorso allontana la pace. «Non li posso biasimare. Un leader straniero non pensa a chi è primo ministro in questo momento, pensa alla posizione ufficiale di un Paese. E certamente la posizione di Israele è regredita rispetto a Olmert, che aveva offerto moltissimo ai palestinesi».
Alcuni quotidiani israeliani hanno scritto che il vero destinatario era Barack Obama, che il discorso di Netanyahu altro non era che una risposta allo storico discorso del Cairo. «Non credo proprio fosse solo lui il destinatario» ribatte il docente. «Oltre a lui c'era la destra israeliana - soprattutto i politici conservatori. Ma Netanyahu si è rivolto anche ai capi delle diplomazie europee e ai leader arabi». Che sono furiosi. «Quando si parla a un gruppo di ascoltatori così variegato -conclude Shaefer- qualcuno resta sempre deluso. Poteva andare peggio».

Repubblica 16.6.09
I timori del premier blindato in hotel
Il Cavaliere: "Che voleva dire D´Alema?". Il Pdl teme un´inchiesta pugliese
di Francesco Bei


Ghedini: il premier parla di eversione in maniera atecnica e non pensa alle elezioni anticipate

ROMA - Chiuso per un giorno intero nella suite dell´hotel St. Regis di Washington, a preparare l´incontro chiave con Obama, Silvio Berlusconi non ha smesso di tenere gli occhi puntati sull´Italia. Specie dopo l´uscita di Massimo D´Alema, che è stata analizzata al microscopio dagli uomini del Cavaliere. E così, ancora ieri, nelle sue telefonate con Roma e nei discorsi con lo staff, il presidente del Consiglio ha continuato ad arrovellarsi su quella frase sibillina di D´Alema su una possibile «scossa» che colpirà Palazzo Chigi: «Ma che voleva dire? Avrà in mente qualcosa?». Il timore di un riflesso delle vicende italiane sull´incontro alla Casa Bianca ha tenuto banco fino all´ultimo. Anche se Nicolò Ghedini - nonostante dal Pdl sia ripartito il coro di accuse contro «l´offensiva del superpartito di Repubblica» - ha provato a smorzare quell´allarme golpista lanciato dal Cavaliere davanti agli industriali: «Credo che il presidente del Consiglio - ha spiegato l´avvocato di Berlusconi - abbia individuato in uno schema giornalistico-mediatico quantomeno la fase terminale di questa vicenda, ovvero ritiene che l´amplificazione di eventi, che di per sé sarebbero neutri, facendoli diventare oggetto di campagna politica sia qualcosa che vada al di fuori della normalità. Ed è per questo che parla in maniera atecnica di eversione». Una precisazione forse dovuta, visto che l´allarme «eversione», lanciato da un presidente del Consiglio, dovrebbe far scattare adeguate contromisure da parte degli apparati dello Stato contro la presunta «centrale» golpista.
E tuttavia gli uomini del Cavaliere si sono messi al lavoro, nella convinzione che la "profezia" dell´ex presidente della Quercia non fosse affatto campata per aria. Così, tra mille congetture, è tornato ad affacciarsi il timore di un´imminente, devastante, azione giudiziaria. Un colpo forte, proveniente da una di quelle procure meridionali impegnate contro la criminalità organizzata. Il sospetto dei berlusconiani è che possa essere la procura di Bari l´epicentro della «scossa» che farà tremare il governo. «C´è un brutto clima», conferma uno della cerchia stretta.
Illuminante, in questo senso, la dichiarazione che un ministro solitamente poco incline alle sparate come Raffaele Fitto (che in passato, anzi, non ha mancato di manifestare la sua stima politica per D´Alema) ha rilasciato sul punto: «A quali informazioni inaccessibili ai comuni mortali ha avuto accesso D´Alema? Come mai queste doti di preveggenza si manifestano in lui proprio durante il suo soggiorno in Puglia e i suoi passaggi baresi?». E ancora: «Avrà forse ricominciato a frequentare quegli ambienti baresi in cui, a partire dai primi anni ‘90, D´Alema ha improvvisamente (ma provvidenzialmente anche per lui) garantito più di una carriera politica a chi faceva tutt´altro mestiere? E, quindi, parliamo di imprevedibili scosse o di prevedibili trame?». Nel Pdl le affermazioni un po´ criptiche di Fitto vengono brutalmente tradotte così: D´Alema avrà forse saputo qualcosa dai suoi amici magistrati. Qualcuno arriva a sospettare di più, una «regia politica» del futuro, probabile, «assalto giudiziario». Altri ancora nel Pdl ricordano il legame tra l´ex premier e due ex magistrati pugliesi, la cui fortuna politica è legata al sostegno di D´Alema: il senatore Alberto Maritati e il sindaco di Bari Michele Emiliano.
Suggestioni? Fabrizio Cicchitto è convinto che i sospetti di Fitto non vadano lasciati cadere, visto che le affermazioni del ministro sono «molto significative e inquietanti». Anche Denis Verdini, coordinatore del Pdl, teme che quello evocato da D´Alema non sia soltanto uno scenario «ma si tratti di qualcosa di più serio e preoccupante, magari studiato con cura».
Insomma, la temperatura a Palazzo Chigi resta alta. Il precedente del ‘94, con quell´avviso di garanzia arrivato nel bel mezzo di un consesso internazionale (allora l´Onu, domani il G8 all´Aquila) non fa dormire sonni tranquilli, oltretutto con quelle 5000 foto del Cavaliere in Sardegna ormai in giro per mezzo mondo.

Repubblica 16.6.09
Postsocialismo
Perché il vento della crisi spazza via la sinistra europea
di Marc Lazar


Il mondo del lavoro ha perso le tutele di cui ha goduto in passato E di fronte alla debolezza delle forze sindacali per difendersi può solo scegliere strade individuali

I dati sono preoccupanti: a ingrossare le file dell´astensionismo sono stati proprio gli elettori tradizionalmente più affezionati alla sinistra i giovani e i ceti popolari

La sconfitta generale nelle ultime elezioni per il Parlamento di Strasburgo costringe le socialdemocrazie a ripensare il loro orizzonte teorico e politico

Il risultato delle elezioni europee, che ha penalizzato la sinistra, suscita due interrogativi cruciali: il primo è sul suo attuale stato di salute, il secondo sul suo futuro che riguarda ormai il post-socialismo. Si delineano due risposte di segno contrario. La prima relativizza l´insuccesso e insiste sul carattere particolare di questa consultazione elettorale, rinviando alle specificità dei singoli Paesi e ricordando che la storia della sinistra registra un alternarsi ininterrotto di cicli ora favorevoli, ora negativi. La seconda, pur riconoscendo la pertinenza dei suddetti argomenti, vede in queste elezioni europee – peraltro precedute da altre batoste – una sconfitta storica. Ed è quest´ultima risposta che dobbiamo prendere in considerazione.
Di fatto, la sinistra riformista ha dovuto incassare ben sedici sconfitte, alcune delle quali di considerevole portata, che colpiscono le sue formazioni più importanti e emblematiche.
La sinistra è colpita, a prescindere dalla sua attuale collocazione – all´opposizione, sola al potere o associata a coalizioni di governo – e indipendentemente dalla sua traiettoria storica. Come spiegare un tale disastro? Mettendo insieme una serie di considerazioni di fatto, di ragioni congiunturali e di fattori più strutturali.
Il record di astensioni registrato alle elezioni europee è riconducibile all´elettorato prediletto dalla sinistra: i giovani e soprattutto i ceti popolari e operai e gli elettori ai livelli di istruzione più modesti, che sono oggi i più depoliticizzati, e i meno interessati all´Europa. I simpatizzanti della sinistra che si sono recati alle urne hanno disperso i loro voti. Chi vede nell´Ue la causa di ogni sua attuale difficoltà ha votato per i partiti euroscettici, o magari per quelli xenofobi e populisti, come sembra sia stato il caso per una parte dell´elettorato popolare. I moderati, più volatili e incerti che mai, hanno optato per le formazioni di centro-destra. Gli europei con redditi assicurati e un alto livello di istruzione, più aperti al mondo, hanno preferito i Verdi (progrediti in alcuni Paesi, tra cui la Francia) ritenendo che oggi i temi prioritari siano quelli dell´ecologia e dell´ambiente.
È inoltre emerso un paradosso significativo: lungi dal favorirla, la crisi finanziaria ed economica ha anzi danneggiato la sinistra, che pure era convinta di doverne trarre vantaggio, poiché l´attuale congiuntura segna la fine delle illusioni sui benefici dell´economia di mercato e il crollo del mito liberista, con la necessità di regole emananti dallo Stato e di politiche sociali. Il Partito socialista europeo non aveva peraltro incontrato particolari difficoltà nel varo di un manifesto comune, e la sua campagna era focalizzata sull´Europa sociale. Anche la sinistra radicale credeva che fosse venuto il suo momento, per fustigare da un lato il capitalismo e dall´altro il riformismo, reo di tutti i tradimenti; mentre pur avendo riportato qualche progresso, in totale avrà dieci deputati in meno nel futuro parlamento europeo. Ma come mai non si è dato ascolto alle sinistre? Innanzitutto, come scriveva Bernardo Valli su Repubblica del 9 giugno, perché la destra, dando prova di grande pragmatismo, ha smesso di richiamarsi al neoliberismo – al quale in verità l´Europa non si era mai convertita – per adottare posizioni protezioniste; e non ha esitato a far propri i temi della sinistra.
Inoltre – e soprattutto – la sinistra ha mostrato una tendenza a leggere il presente attraverso gli occhiali del passato, senza cogliere tutta la complessità di questa crisi, rivelatrice delle mutazioni ben più profonde che travagliano da decenni le nostre società. Crisi vuol dire disoccupazione, sperequazioni sociali crescenti, inasprimento della povertà; eppure, almeno per il momento questa crisi non ha suscitato importanti mobilitazioni collettive. Perché si ha paura. Perché i sindacati sono indeboliti. Perché c´è stata un´evoluzione nelle relazioni sociali all´interno delle imprese. Perché il mondo del lavoro è cambiato. Perché la precarizzazione è ormai generalizzata. Di conseguenza molti europei, deliberatamente o per forza maggiore, tentano ancora strategie individuali di sopravvivenza e di adattamento; e vorrebbero considerarsi liberi e indipendenti, pur avendo forti esigenze di protezione. Quanto agli anziani – peraltro sempre più numerosi – sono sensibili a temi quali la sicurezza e l´immigrazione; e molti aspirano a rifondare la propria identità. Infine, a loro volta anche i nostri regimi politici hanno subito una profonda trasformazione, in particolare con l´affermarsi della democrazia del pubblico e dell´opinione, in cui il ruolo del leader è decisivo. Ed è chiaro che da un decennio, in questo campo tutta la sinistra soffre di un deficit flagrante.
La sinistra riformista non è rimasta né immobile né muta. Ha rifiutato di riesumare, come fa la sinistra radicale, le vecchie ricette del passato; ha esplorato altre vie, tentando di rivolgersi a nuove fasce di elettori. Ma a fronte di una destra unita, capace di proposte incisive, decisa a imporre un´egemonia culturale e a rispondere al bisogno d´identità che si manifesta negli europei, si presenta divisa, sulla difensiva, senza progettualità né identità, priva di leader, poco credibile, non in sintonia con le trasformazioni in atto. Perciò la sinistra riformista ha una priorità: quella di avviare al più presto una riflessione approfondita sui fondamenti e le modalità del suo riformismo, e analizzare la complessità dei cambiamenti in atto nelle società e nelle nostre democrazie. Pena la sua scomparsa.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Repubblica 16.6.09
Postsocialismo
di Anthony Giddens


Anche se dissentono fieramente tra loro su quale debba essere il futuro della società, i socialisti condividono la convinzione di essere stati all´avanguardia della storia. I socialisti, o altri, come i conservatori, guardavano malinconicamente al passato verso forme sociali che il mondo non vedrà più. Oppure, come i liberali, sostenevano tipi di ordine sociale e politico che erano solo tappe sulla strada della piena emancipazione. Con la fine del comunismo, sebbene non solo per questa ragione, tutto ciò è a pezzi.
A lungo abituato a pensare a sé stesso come un´avanguardia, il socialismo è diventato improvvisamente arcaico, consegnato a quel passato che un tempo disprezzava. «L´idea di "seppellire il socialismo"» – è stato detto – «è la fantasia di qualche politico conservatore». Comunque sia, la fantasia forse è diventata realtà.

Repubblica 16.6.09
Due secoli tra utopia e realismo
L’uguaglianza al tramonto
di Massimo L. Salvadori


È cambiata la realtà delle relazioni economiche, sociali, politiche e istituzionali che ha caratterizzato l´Ottocento e il Novecento: la grande fabbrica, il sindacato, il partito

Credo che, per cercare di capire a che punto siamo con il socialismo, occorra anzitutto affrontare l´argomento con la necessaria prudenza. Il Novecento e anche l´inizio del secolo nuovo è tutto un celebrare - da parte delle forze politiche e delle correnti ideologiche che in un certo momento si sono ritenute a cavallo della Storia - funerali di quelle considerate definitivamente espulse.
Quando vittorioso, il comunismo ha proclamato defunti il socialismo riformista, la democrazia borghese, il fascismo; il fascismo vittorioso ha fatto lo stesso con il socialismo di ogni corrente, il comunismo, il liberalismo, il pluralismo politico e istituzionale; il conservatorismo neoliberista malamente caduto ha cantato il De Profundis a keynesismo e socialdemocrazia.
Oggi è giunta l´ora di dare l´addio definitivo al socialismo sia pure democratico e riformista, ovvero siamo tout court al "post-socialismo»? L´interrogativo è più che mai serio e motivato.
La socialdemocrazia nelle sue diverse varianti naviga in acque decisamente cattive. Lo dice il suo assordante e stupefacente silenzio politico, culturale, programmatico di fronte alla crisi economica scoppiata nell´autunno del 2008. Lo dice lo stato dei partiti della famiglia, gli uni in un affanno più o meno forte, gli altri disastrati. E lo dicono gli assai deludenti risultati nelle elezioni per il Parlamento europeo. È tutto ciò a porre la questione: il socialismo sta sopravvivendo a se stesso così da indurre a pensare che sia prossimo a chiudere la sua storia?
Io per parte mia, nel rispondere, ritengo che si possa ragionare così. Il socialismo in quanto movimento che ha compreso nella sua lunga vicenda varie correnti - i cosiddetti utopisti e i cosiddetti realisti, i radicali e i moderati, i rivoluzionari e i riformisti, gli statalisti e gli antistatalisti - è stato insieme due cose: da un lato una acuta reazione alle disuguaglianze tra gli uomini e un progetto di totale o di maggiore eguaglianza; dall´altro l´elaborazione di programmi, l´indicazione di mezzi persino antitetici tra loro per raggiungere in maniera più o meno integrale il fine.
La variante più estrema del socialismo, il comunismo, ha chiuso la sua vicenda nel 1989 col fallimento della collettivizzazione in un quadro di statalismo totalitario. La socialdemocrazia si trova attualmente a fare i conti con la fine del ciclo che nell´Otto-Novecento aveva visto i suoi relativi eppure importanti successi, i quali poggiavano su una realtà delle relazioni economiche, sociali, politiche e istituzionali che è in corso di rapido esaurimento; vale a dire l´avere come fondamento la grande fabbrica e basi di riferimento un esercito di proletari dell´industria e possenti sindacati, l´essere in grado di mantenere organizzazioni di partito capillarmente distribuite sul territorio con un alto tasso di attiva partecipazione degli iscritti, l´agire nel quadro di Stati nazionali sovrani in un´epoca di crescente interventismo pubblico. Fattori questi, appunto, più che in trasformazione in via di dissolvimento.
Il 1989 ha segnato l´inizio del post-comunismo, il tempo presente indica che siamo anche al post-socialismo otto-novecentesco. Il mondo delle disuguaglianze con tutte le sue conseguenze e implicazioni è nondimeno più che mai vivo, e perciò resta da sciogliere il nodo se un socialismo rinnovato sia in grado di restare un soggetto capace di condurre in prima persona la lotta ideale e pratica contro di esse oppure se invece il post-socialismo otto-novecentesco significhi post-socialismo senza aggettivi.

Repubblica 16.6.09
Così il dramma economico favorisce la destra
Dieci questioni da affrontare
di Giorgio Ruffolo


La socialdemocrazia in tutti questi anni non è stata affatto antagonista del liberismo. Anzi ne ha solo praticato una versione "debole": il blarismo

Non credo che il socialismo, grande movimento storico legato a imprescindibili esigenze di giustizia, sia stato seppellito da una sconfitta elettorale, per quanto clamorosa. La storia del socialismo è piena di annunci mortuari smentiti. Neppure il fascismo ce l´ha fatta. Però le elezioni hanno decretato la fine di una socialdemocrazia appannata e sconclusionata.
Sembra paradossale che le elezioni non abbiano penalizzato la destra, che per venti anni si è identificata con la sregolatezza responsabile dell´attuale marasma economico, e che oggi sembra diventata keynesiana e statalista; e abbiano invece devastata la sua antagonista storica. Non lo è per due ragioni: la destra non è diventata affatto statalista: pretende solo che sia lo Stato a pagare i conti della crisi per poi ritirarsi rapidamente dalla scena. E la socialdemocrazia, in tutti questi anni, non è stata affatto antagonista del liberismo: ne ha solo praticato una versione debole, propriamente "post-socialista": il blairismo.
Inoltre. Alla globalizzazione economica la socialdemocrazia non ha contrapposto quel rafforzamento del potere politico internazionale che avrebbe potuto nascere da una più forte integrazione europea. Al contrario: si è chiusa nel socialnazionalismo: un terreno sul quale la destra è imbattibile. I socialisti hanno perduto un´occasione unica di costruire un´Europa unita e riformista quando erano al governo in quasi tutti i paesi europei. E ora in Europa trionfano i nazionalismi, riemerge il razzismo, e il conto della crisi è posto sulle spalle dei contribuenti. C´è da chiedersi allora: del socialismo, que reste t´il?
Questo sarebbe il momento di una nuova Bad Godesberg: di un ripensamento fondamentale di quelle che sono state per una fase storica gloriosa le ragioni del "vero socialismo reale". Non si tratta ovviamente di tornare indietro, in un mondo radicalmente cambiato. Si tratta di riconoscere le correnti pesanti che attraversano la nostra storia, per domandarsi in quale modo una politica ispirata ai valori tradizionali della sinistra possa piegarne il corso verso una società più libera e più giusta. Questa è l´essenza concreta del riformismo. Per non cavarmela con i soliti auspici retorici provo a indicare quelle che a me sembrano oggi le grandi sfide del riformismo. Che poi debba chiamarsi ancora socialismo, è problema che può essere rinviato, come un indice, alla fine dell´opera.
Ecco i titoli dei dieci temi, più o meno ovvii, che mi sentirei di segnalare a una riflessione fondamentale sul destino della sinistra. 1)La struttura dell´ordine politico mondiale di fronte all´emergere delle nuove grandi potenze. 2)Le nuove regole mondiali della circolazione dei capitali e dell´assetto dei cambi (il nuovo ordine economico mondiale). 3)Le garanzie di un mercato concorrenziale e libero: libero da posizioni dominanti e da vincoli corporativi. 4)Le responsabilità politiche superiori dell´economia: in particolare la politica macroeconomica e la politica dei redditi, rivolte all´obiettivo della piena e buona occupazione. 5)La costituzione di una Federazione politica europea. 6)La ristrutturazione del welfare state. 7)La promozione, accanto al mercato e allo stato, di un grande settore di economia e società associativa. 8)La trasformazione della scuola in una istituzione di educazione permanente. 9) La riorganizzazione della produzione nel senso di una economia ecologicamente sostenibile. 10)L´eticità della politica.
Lascio questo tema per ultimo, perché mi sembra il primo. Di questi tempi mi sento particolarmente indignato nei riguardi dei "maestri" che considerano la dignità e la serietà del comportamento politico, e per converso la volgarità e la buffoneria, un tema da lasciare al gossip, al pettegolezzo pruriginoso, indegno del discorso "politico". Mi chiedo quali allievi possano nascere dall´educazione di questi maestri.

Corriere della Sera 16.6.09
Scienze. Nell’ultimo libro di Tagliasco e Manzotti e in quello di Sini una riflessione sul libero arbitrio della tecnologia
Penso, quindi sono (un automa)
Dalle macchine del ’700 ai robot, l’artificiale è sempre più una protesi umana
di Giulio Giorello


Nel Giappone dei Tokugawa (1600-1867) erano di moda bambole che servivano il tè, puntigliosamente descritte nel manuale (1769) dell’arti­sta Hosokawa. Pressoché contemporaneamen­te Giacomo Casanova passava di conquista in conquista fino a incontrare, a un ballo, la donna ideale. Sorpresa: è una dama meccanica, come si scopre quando, per un guasto, «lei» continua a danzare con una gamba tutta irrigidita. La tec­nica ha sedotto il grande seduttore: almeno nel­la finzione cinematografica, poiché il tutto è un’invenzione di Federico Fellini ( Casanova, 1976). Ma è una buona trovata: nel Settecento dei Lumi, dei libertini e dei meccanismi meravi­gliosi e stupefacenti, Pierre Jacquet-Droz e suo figlio Henri avevano scolpito in legno un pu­pazzo alto ventotto pol­lici, dotato di congegni che gli permettevano di mettere su carta un certo numero di frasi. Memore, per così dire, di Cartesio l’Automa Scrivano se ne uscì con la battuta: «Non pen­so, dunque non sarò mai». Nel 1946 un mec­canico dilettante, tal Weisendanger, ripren­dendo i piani dei fanta­siosi artigiani di due secoli prima, riuscì a co­struire una macchina in grado di scrivere a ma­no. Pare abbia commentato: «Credo che la gen­te troverebbe bizzarro che un uomo della no­stra epoca dedichi tempo e fatica a un oggetto così futile».
Traggo queste notizie dallo splendido Dizio­nario degli esseri umani fantastici e artificiali redatto con curiosità e intelligenza da Vincenzo Tagliasco (bioingegnere dell’Università di Geno­va, scomparso l’anno scorso) per Mondadori un decennio fa. Cyborg, replicanti, robot, mutanti, dopo aver popolato le saghe di quella moderna mitologia che è la fantascienza, stanno entran­do nella nostra esistenza quotidiana. Chissà se dobbiamo «ringraziare» più l’immaginazione letteraria di Mary Shelley o di E.T.A. Hoffmann che le astrazioni matematiche di Alan Turing, di Norbert Wiener o di John von Neumann?
Una storia della fantamatematica — sofistica­te geometrie di computer e formule numeriche per calcolatrici potentissime — deve essere an­cora scritta. Certo, un posto d’onore spetterà a René Descartes, ovvero Cartesio, non solo per la sua Geometria ma anche per il suo Metodo (1637). Filosofo e matematico, tormentato dal dubbio che il mondo fosse illusione, era sfiora­to anche dal sospetto di non essere molto di più di un congegno meccanico, costruito «da un non so qual Genio Maligno». Unica scappato­ia: se dubito, penso; e quindi: «Penso, dunque sono». La sua personale esperienza di creatura dubitante garantiva così a Cartesio di esistere. Anzi, Dio ci ha creato come sostanze pensanti; a nostra volta, noi possiamo creare delle macchi­ne, perché operiamo nel più vasto dominio del­la materia. E il nostro corpo (il nostro cervello, i nostri occhi, le nostre mani) è materiale, mac­china esso pure. Dagli orologi e dalle calcolatri­ci prodotti dagli artefici umani, però, ci distin­guiamo perché possediamo il «pensiero indi­pendente », cioè «l’anima».
Apprezziamo allora l’ironia del piccolo Scri­vano: le macchine «ci sono» e forse vivono e pensano per davvero. Almeno, a partire dal se­colo scorso: sono capaci di autoalimentarsi e muoversi autonomamente (come le «tartaru­ghe elettriche» di Gray Walter), di pianificare la generazione di altre macchine (gli automi ca­paci di autoriprodursi ideati da von Neumann), di eseguire ad altissima velocità una miriade di operazioni logiche e aritmetiche (i «dinosauri del calcolo», come li chiamava Reymond Que­neau, cioè gli ingombranti calcolatori del Dopo­guerra da cui si sono però evoluti i nostri agili calcolatori tascabili). Oggi ancora no, ma doma­ni proveranno emozioni e sentimenti.
Eppure, «l’errore di Cartesio» continua ad af­fascinare: soprattutto i filosofi. Ho due libri sul­la mia scrivania, appena usciti. Il primo è Ham­­letica, di Massimo Cacciari (Adelphi), di cui già si è detto sulle pagine del «Corriere». Mas­simo muove, in realtà, dai dubbi non di Carte­sio, bensì di Amleto, il principe di Danimarca che sa a malapena di esistere «nel teatro del mondo», per farci capire come lo shakespea­riano «Essere o non essere» vada inteso come «Agire o non agire». Dopotutto, è il pensiero indipendente che ci mostra che «essere signifi­ca fare»: il mondo è modellato da quell’intrec­cio di percezione, pensiero, azione e passione che costituisce l’esperienza di ciascuno dei suoi «attori». Sia che riescano a realizzare i lo­ro piani o che (com’è il caso di Amleto) finisca­no per «andare errando da naufragio a naufra­gio».
L’altro volume è di Carlo Sini, e s’intitola, guarda caso, L’uomo, la macchina, l’automa (Bollati Boringhieri). E qui incontriamo la do­manda: «Da dove viene la singolare fantasia di riprodurre artificialmente dei simulacri di vi­ta? ». Non è che l’altra faccia, direi, dell’incubo cartesiano di essere una macchina pur illuden­dosi di possedere il libero arbitrio. Eppure, non solo le macchine ma tutte le protesi escogitate dall’uomo (dal bastone che noi o qualche prima­te possiamo usare per far cadere un pomo trop­po alto sull’albero al più potente telescopio orbi­tante) aumentano il potere sull’ambiente; e pro­tesi sono persino le parole, sia orali che scritte; dunque, protesi è anche la cultura. Fin dove arri­va la tua anima? Pare «infinita fino alla più lon­tana stella, che puoi raggiungere coi tuoi occhi o con qualche telescopio», per dirla con lo Ste­phen Dedalus dell’Ulisse di Joyce.
Ma tale infinità è tensione, non possesso. Ogni osservazione può venire integrata o corret­ta, ogni teoria rivista o rovesciata, ogni appara­to migliorato o superato da uno più potente. La nostra autonomia è sempre fisicamente circo­scritta, relativa, parziale. Veramente autonomo sarebbe solo Dio. Pur muovendo da premesse differenti, Cacciari e Sini concordano che solo nell’Essere Supremo si realizza «identità di vo­lontà e di potenza». Ma autonomia ha la stessa radice di automa: quel tipo di macchina che ha in sé il principio del suo movimento. Ci pensi­no bene creazionisti antidarwiniani e sostenito­ri del cosiddetto Disegno Intelligente: se avesse­ro ragione, condannerebbero il loro Dio alla condizione inesorabile di automa perfetto!
Bando alle sottigliezze teologiche: mi piace concludere con un’immagine tratta dall’ultima fatica di Tagliasco (scritta, prima di lasciarci, in­sieme con Riccardo Manzotti: L’esperienza, pubblicata da Codice): l'arcobaleno che scorgia­mo alla fine del temporale «non è come un pon­te di pietra intorno al quale si può girare, né tro­veremo una pentola d’oro a una delle due estre­mità ». Pare muoversi insieme con il suo osser­vatore, e dunque aveva ragione Leonardo da Vinci: «L’arco non è nella pioggia né nell’occhio che lo vede». È in tutt’e due, a mostrarci che, nella realtà della vita, l’Io e il mondo sono cia­scuno parte l’uno dell’altro.

Corriere della Sera 16.6.09
A 500 anni dalla nascita del riformatore
Calvino non creò il capitalismo
di Giuseppe Galasso


L’aspra moralità che lui predicava diede una nuova base religiosa alla libertà umana

Il nome di Giovanni Calvi­no è stato evocato da alcu­ni economisti per l’odier­na crisi finanziaria mon­diale. Quel nome è stato, inve­ro, anche troppo associato alla storia del capitalismo moder­no, e basta citare al riguardo il saggio famoso di Max Weber. Un tempo, però, il rapporto col capitalismo era indicato a merito di Calvino. Oggi accade il contrario. Ma, come non si aveva molta ragione ieri, così non se ne ha affatto oggi a ve­dere Calvino fra gli imputati dei mali del capitalismo.
Considerata la parte del cal­vinismo nella storia religiosa e morale dell’età moderna, si comprende, invece, che per il cinquecentesimo anniversario della nascita di Calvino (il 10 lu­glio 1509, a Noyon, nel cuore della Francia) vi sia ovunque una fitta serie di celebrazioni. Una certa ufficialità sembra es­servi, invero, solo in Svizzera, e in specie a Ginevra (e si spie­ga: fu con Calvino che Ginevra si trasformò da città di provin­cia in una capitale nota in tut­to il mondo). Per il resto sono per lo più iniziative interne al mondo calvinista. Tuttavia, in Francia, Svizzera e Germania vi saranno francobolli per la ri­correnza. In Francia si sa della erezione di una statua in bron­zo di Calvino a Orléans (ve ne sono cinque, pare, in tutto il mondo). Né mancano meda­glie (e, pare, anche monete) commemorative, e, soprattut­to, iniziative editoriali, di cui alcune importanti. Si pensi, pe­rò, che in Germania, per il cin­quecentesimo anniversario, nel 2017, dell’inizio della Rifor­ma a opera di Lutero, si è pen­sato già dal marzo 2008 a una «Lutherweg» (via di Lutero) nel Land Sassonia-Anhalt: un itinerario di 410 chilometri, con 34 tappe che evocano mo­menti dell’azione dello stesso Lutero. Il che fa pensare a gran­di celebrazioni nei prossimi anni.
Minore fervore, minore im­portanza del calvinismo? Non so dirlo e non lo credo. Qualcu­no mi ha pure detto che nel­l’austerità calvinistica anche per un Calvino una ricorrenza di ordine personale, quale è quella di una nascita, conta meno del più maturo inizio della sua attività riformatrice, negli anni Trenta del Cinque­cento, quando egli svolse ap­pieno la sua dottrina e scrisse la sua opera maggiore, il «van­gelo » calvinista, la Institutio religionis christianae, da lui stesso poi tradotta in francese. Certo è, però, che il centenario di Calvino è, comunque, una buona occasione per ripensare al significato storico della Riforma. Un significato di primaria grandezza. Fu l’uscita del cristianesimo dalla tutela ecclesiastica; fu l’avvio a quel senso del diritto naturale e dell’esclusiva responsabilità personale di ogni singolo uomo nel credere e nell’agire, che ha costituito sempre più la trama della moderna etica sociale e individuale. Sì, è vero: l’ecclesiasticità protestante non è stata meno greve di quella cattolica; gli eterodossi furono spesso perseguitati anche fra i protestanti; la caccia alle streghe è una pagina bruttissi­ma di quella parte d’Europa, e assai meno dell’Europa cattoli­ca; l’ipocrisia è una virtù molto praticata in ogni parte del mondo; e così via dicendo.
Inoltre, l’uomo moderno, la libertà religiosa e civile, il nuo­vo protagonismo della perso­na nella sua individualità e al­tre cose non sono un’esclusiva e originale creazione dei prote­stanti (come a lungo si è prete­so, e ancora spesso si preten­de, fra loro). Né l’Europa si pre­sta a essere divisa, ieri come oggi, in un’Europa migliore (quella nordica e protestante) e in un’Europa deteriore (quel­la meridionale e cattolica). Più ancora, la modernità è nata an­che in Paesi cattolici (basti la Francia); e in Italia Umanesi­mo e Rinascimento si proietta­rono per certi versi addirittura al di là dell’allora comune oriz­zonte religioso europeo.
Questo, e tanto altro, si può dire. Ma poi le cose contano nella storia per quel che ne de­riva di incremento morale e sociale dell’umanità; e su que­sto piano il calvinismo ha tut­te le carte in regola per figura­re come un grande fatto stori­co. Ciò che si dice in contrario nulla toglie alla spinta decisi­va data dai riformatori come Calvino alla storia dell’Europa e del mondo. Che fu il contri­buto, anzitutto, di una nuova aspra (nel calvinismo, asperri­ma) moralità: una moralità che configurava nelle arcigne dottrine del servo arbitrio, del­la totale predestinazione, del­la fede assoluta, senza alcuna considerazione di meriti o di castighi, il paradosso di una nuova libertà del cristiano e dell’uomo.

Corriere della Sera 16.6.09
Dopo Lethem, anche John Wray in «Lowboy» sceglie di entrare nella testa di uno psicotico
Scrivere con la catastrofe in mente
«Creo uno schizofrenico per allargare i confini della narrazione»
di Livia Manera


Da qualche tempo un certo tipo di narratori americani ambiziosi e an­siosi di trovare nuove rappresenta­zioni del mondo, costruiscono ro­manzi intorno a personaggi psicotici che dan­no loro la possibilità di portare l’espressione su un piano sperimentale. Lo ha fatto Jona­than Lethem in Motherless Brooklyn: interes­santissimo romanzo-laboratorio per metà de­tective story e per metà ricerca sulle possibili­tà del linguaggio, essendo il detective prota­gonista affetto da una malattia mentale che lo obbliga a esprimersi compulsivamente per associazioni verbali (sindrome di Tourette.) E lo fa anche John Wray in Lowboy, il romanzo letterario del momento negli Stati Uniti, che Feltrinelli pubblica in questi giorni nella tra­duzione di Silvia Rota Sperti (pp. 237, e 16), e che racconta di un adolescente schizofrenico con una visione della realtà distorta, il quale un giorno scappa dalla clinica dove è ricovera­to, smette di prendere i farmaci, e in preda a inquietanti allucinazioni visive e sensoriali cerca di salvare il mondo dal riscaldamento terrestre che secondo lui distruggerà il piane­ta entro dieci ore.
«È vero: ho scelto un protagonista malato di mente per allargare i confini della narrazio­ne in modo non convenzionale. Ma avevo an­che un altro motivo», confessa il giovane Wray, americano di padre, austriaco di ma­dre, autore di due precedenti romanzi molto apprezzati e premiati come La lingua di Ca­naan (ed. Gea Schirò) e The Right Hand of Sleep.
«Non sopporto il modo in cui si rappresenta la schizofrenia nella cultura popolare ameri­cana. Qualunque film che in modo rozzo vo­glia mettere in campo un 'cattivo' senza spie­gare perché sia così crudele, lo fa diventare schizofrenico. In questo Hollywood è un disastro. A nessuno interessa rappresentare gli psicotici come esseri umani. Eppure basta leggere anche un libro solo sulla schizofrenia per capire quanto questi malati siano psicologicamente simili a noi sani. Voglio dire che sono malati, sì, ma le loro reazioni psicologiche sono in qualche modo prevedibili».
Davvero? Forse lo saranno per questo ragazzo eccezionalmente intelligente che «Granta » nel 2007 ha incluso tra i migliori scrittori americani sotto i trentacinque anni. Perché, a dire il vero, uno dei pregi del suo romanzo che ha affascinato la critica americana più esigente (James Wood gli ha dedicato quattro pagine sul «New Yorker») e l’ha indotta a equiparare Wray al pre­mio Pulitzer Junot Díaz e allo stesso Lethem, è quello di usare l’imprevedi­bilità del protagonista per tenere il let­tore col fiato sospeso. Come se il tor­mentato Lowboy — o anche la sua mi­steriosa e affettuosa madre Violet — fossero sempre un passo avanti al letto­re, pronti a sorprenderlo con dialoghi che non si aspetta. Per non parlare delle immagi­ni allucinatorie scaturite dalla mente del ra­gazzo, il cui effetto cumulativo è quello di uno specchio distorto che altera la realtà sen­za tradirla. Lowboy è convinto che se non agi­rà immediatamente il mondo morirà a causa del riscaldamento terrestre. E non è quello che crediamo un po’ tutti?
Intanto, l’avventura letteraria di John Wray si svolge a New York su due binari paralleli: sopra e sottoterra. Sotto c’è Lowboy che fug­ge sui treni della linea F o della RR o della Lexington, solo o in compagnia di Emily, la ragazzina che adora ma che già una volta ha cercato di gettare sotto un treno. E sopra ci sono il detective Lateef che vuole prendere Lowboy prima che faccia male a qualcuno e sua madre Violet, che vuole prenderlo prima che faccia male a se stesso. «Un po’ di tempo fa ho preso una decisione bizzarra, di metter­mi a scrivere, invece che a casa, in metropoli­tana », racconta Wray. «In parte per ragioni pratiche: niente accesso a internet, niente ri­cezione per il cellulare, insomma niente delle solite distrazioni. E in parte per ragioni così romantiche, credo, da sfiorare il ridicolo. Ero convinto che solo immergendomi in modo completo nel subway avrei potuto descriver­lo vividamente come desideravo».
Tuttavia, prosegue lo scrittore, l’inizio fu deludente. Più si abituava a quell’ambiente e più lo vedeva con lo sguardo opaco del pen­dolare. Poi, di colpo: «Stavo andando a Co­ney Island sulla linea F quando mi sono gira­to e ho avuto l’impressione di trovarmi in un posto nuovo, dove ogni cosa aveva un suo si­gnificato: i sedili troppo stretti per favorire le pulizie, i toni arancioni per rilassare, i minu­scoli pois sui muri che a un esame ravvicina­to risultavano tanti simboli ufficiali della cit­tà di New York. Il tutto dava la sensazione di un Grande Fratello... Sono andato in parano­ia e ho trovato lo stato d’animo che cercavo». Ha trovato, cioè, la chiave per rappresenta­re l’isolamento di un ragazzino che cerca di convertire il disordine paranoico della sua mente in un film d’azione, mentre si rende conto di non poter comunicare all’esterno nulla di ciò che accade nel suo cervello. Il que­sto senso, ha davvero ragione James Wood, quando scrive: «Se incontrassi qualcuno cu­rioso di sapere come ci si senta a essere schi­zofrenici, gli direi 'Be’, comincia col leggere il romanzo di John Wray'».

lunedì 15 giugno 2009

l’Unità 15.6.09
Il premier teme il complotto e attacca
D’Alema: è un leader dimezzato. Ci sarà una scossa. L’opposizione sia pronta
Gli amici se ne vanno
di Concita De Gregorio


Naturalmente non c’è nessun complotto ai danni di Berlusconi. Non da parte della sinistra, come in modo piuttosto patetico il presidente del Consiglio vorrebbe far credere: sarebbe il primo caso al mondo di autogolpe, scriveva ieri Giovanni Maria Bellu, il presunto complotto essendo costituito dai comportamenti del premier medesimo. Caso Mills e corruzione eletta a sistema, voli di Stato e uso privato di beni pubblici, Noemigate - farfalline e minorenni - denunciato per primi dalla Fondazione Farefuturo di Fini e dalla moglie della vittima. Sono fatti. Quel che disturba Berlusconi è che ci sia qualcuno che li riferisce: «Io li rovino», ha detto qualche settimana fa ai suoi riuniti a palazzo Grazioli. Intendeva giornali e giornalisti. Sabato ha iniziato l’opera: ha chiamato l’industria italiana a non comprare pubblicità sui media (pochi) che non dipendono da lui. Pensa di rovinarli così, togliendo i soldi. È un sistema. Nella sua logica deve sembrargli l’unico: pagare o non pagare, questo è tutto. Non c’è nessun complotto, ovviamente, nemmeno da parte della destra come in modo altrettanto patetico i giornali e le tv che invece dipendono da lui (molti, quasi tutti) ieri cercavano di illustrare: non c’è un Bruto pronto ad accoltellarlo. È tutto molto più semplice. Silvio Berlusconi, lo abbiamo scritto il giorno del voto, ha perso le elezioni. La destra (in specie la Lega) le ha vinte, lui le ha perse: ha perso il plebiscito che si aspettava, quattro milioni di voti e sono stati meno di tre, il 45 per cento ed è stato il 35. Una sconfitta personale che era nell’aria da settimane. I nostri lettori ricorderanno che il 2 giugno, all’indomani del grande ricevimento al Quirinale, titolammo questa pagina «Assediato da se stesso»: al Colle uomini solitamente a lui vicini (ex alleati e attuali sottosegretari, signori dell’Opus Dei e centristi, ministri e imprenditori di gran nome) parlavano di una possibile sua sostituzione, al governo, all’indomani del voto. Perché i cattolici lo hanno abbandonato, perché Fini gli è ostile, perché la Lega è più forte. Per ragioni personali, anche: perché non sta bene, perché la passione per le ragazze occupa troppo del suo tempo. Dunque Letta, si diceva e si dice.
Letta che da molte settimane non si vede e tace. Letta o chiunque altro abbia la forza e il consenso necessario per fare da solo le riforme. Questo teme e sente Berlusconi: che gli suggeriscano di lasciar fare ad altri. Si infuria, allora: non è uomo capace di accettare sereno la quarta età privata e politica, l’idea di arretrare deve sembrargli una provocazione e un agguato. Piuttosto fa da solo e fa prima: fa subito. Così si capisce meglio cosa intenda Massimo D’Alema quando dice che potrebbe esserci «una scossa», un salto di qualità nella deriva autoritaria. Potrebbe farsi corrompere dal desiderio di mostrare il suo ultimo sussulto di vigore: battere il pugno adesso. Ci sono pessimi segnali, del resto: certe inchieste proseguono, i suoi plenipotenziari nel mirino, denunce in cammino che nemmeno Ghedini riesce a fermare. Allora serve un’opposizione pronta a fare la sua parte: vigile forte e reattiva, D’Alema ha ragione. Non distratta dalla battaglia precongressuale, per esempio. Un incoraggiamento a Franceschini, diciamo.

l’Unità 15.6.09
La Dda di Napoli indaga su eventuali legami tra papà Letizia e il clan dei Casalesi
Bossi e Noemi: il tramonto del premier spaventa il Pdl
di Enrico Fierro


Restano tutte intatte le voci sul passato del papà di Noemi Letizia. Addirittura si ipotizza un legame con la famiglia dei Letizia, storico gruppo di fuoco legato al clan dei Casalesi.

Alle «scosse» di Massimo D’Alema il centrodestra risponde con il solito fuoco di fila dei dichiaratori a oltranza. Tutti a dire che no, movimenti tellurici non ce ne saranno, quello del ribaltone è un desiderio di D’Alema, una botta di caldo, il governo va avanti. Con Berlusconi. Ma, chiusi i microfoni e riposti i taccuini in tasca, qualche ammissione sulle preoccupazioni dentro le fila del Pdl arriva. «La Lega - ci dice un parlamentare “azzurro” della prima ora da tempo non più nelle grazie del Cavaliere - tiene per il momento. Bossi ha giurato fedeltà a Berlusconi. Ma fino a quando? Se si scatena di nuovo la tempesta Noemi, sarà difficile anche per il leader leghista tenere a freno la sua base». L’onorevole non dice di più, ma quello che è certo è che nella «crisis room» di Palazzo Grazioli sono in tanti a temere nuovi e clamorosi sviluppi del Casoria-gate. Se la vicenda dei rapporti tra il Cavaliere e la ninfetta di Portici è ormai chiara all’opinione pubblica, le «scosse» potrebbero arrivare da nuove rivelazioni sul papà di Noemi, Benedetto Elio Letizia. L’uomo del mistero. Nessuno, fino a questo momento, è riuscito a ricostruirne il passato. «Personaggio grigio, sfuggente, uno che nuota sempre un pelo sottacqua», dice chi lo conosce bene. Ad infittire il mistero hanno contribuito, e non poco, le bugie di Berlusconi. Ex autista di Craxi, militante di Forza Italia, suggeritore di candidature. Tutto smentito.
L’INCHIESTA
Nei giorni passati il periodico di inchiesta «La Voce della Campania» ha pubblicato una copertina dal titolo più che eloquente: «Isso essa e ‘a malavita». Foto di Berlusconi, Noemi e di Franco e Giovanni Letizia, due camorristi del clan dei casalesi. Nelle pagine interne un lungo articolo. «Il cerchio delle coincidenze comincia a stringersi. E prende corpo l’ipotesi che Benedetto Letizia detto Elio, sia originario dello stesso ceppo di Casal di Principe dal quale provengono Franco e Giovanni Letizia, gruppo di fuoco del boss Giuseppe Setola», si legge. L’inchiesta si conclude con la notizia di indagini da parte della procura distrettuale di Napoli su eventuali collegamenti e parentele tra i Letizia di Secondigliano, quartiere nel quale ha vissuto il papà di Noemi, e i Letizia di Casal di Principe. Retroscena, illazioni, notizie «tirate»? Sta di fatto che l’inchiesta è uscita il 29 maggio e che non ha ricevuto alcuna smentita, né dalla famiglia Letizia, né dalla procura. Forse il cratere del terremoto prossimo venturo è a Casoria, l’epicentro nel passato di Elio Letizia. Se questo accadrà, la previsione di D’Alema non è poi tanto campata in aria. «È Berlusconi a produrre le scosse, è lui a produrre instabilità e a scuotere l’equilibrio di governo con la denuncia di presunti complotti», ha aggiunto nel pomeriggio di ieri l’ex ministro degli Esteri.
Insomma, il problema è tutto in un capo del governo uscito «dimezzato» dall’affaire Noemi. E che grida al complotto. Se «Libero» ieri raffigurava in copertina un Berlusconi-Cesare accoltellato da Bruto, «Il Riformista» nei giorni scorsi elencava i nomi di un possibile «governo dei migliori». D’Alema, Tremonti, Casini e Fini. Che potrebbero trovare - suggerisce il presidente emerito Francesco Cossiga - nel governatore della Banca d’Italia Mario Draghi un punto di sintesi e di accordo. Fantapolitica? Forse. Per il momento qualcosa si muove negli ambienti finanziari. E riguarda i giornali. Se Berlusconi invita gli industriali a fargli mancare l’ossigeno della pubblicità, alcuni grossi gruppi bancari si stanno muovendo in senso nettamente contrario. Si parla di significative iniezioni di investimenti pubblicitari per aiutare i quotidiani ad affrontare la crisi. Sì, proprio quella stampa-maledetta che nelle prossime settimane potrebbe essere chiamata a raccontare la «scossa».

Repubblica 15.6.09
Il fantasma necessario del “disfattismo”
di Adriano Prosperi


Disfattismo: la parola appare improvvisa in una lingua che l´aveva dimenticata. Nel «Lessico di frequenza della lingua italiana contemporanea» che nel 1971 il Cnuce di Pisa pubblicò sulla base di un campione di 500.000 parole d´uso tra il 1947 e il 1968 troviamo la parola «disfatta» ma non troviamo «disfattismo».
C´era voluta la disfatta della guerra per far tacere la voce di un regime che per vent´anni aveva sistematicamente fatto uso dell´accusa di disfattismo. E infatti basta varcare il confine del 1945 per trovare un uso sistematico di quell´accusa. Non sono più molti oggi gli italiani che l´hanno ascoltata nei raduni oceanici del regime fascista o gridata da una voce stentorea attraverso la radio. E solo l´ignoranza diffusa della nostra storia e la mancanza di una cultura politica degna di questo nome spiega perché manchi oggi una capacità collettiva del nostro paese di riconoscere l´apparizione di un termine chiave della nostra storia novecentesca . Il mondo è cambiato, la società italiana è oggi sideralmente lontana nei consumi e nello stile di vita da quella dei tempi del primo Cavaliere, i mezzi di comunicazione sono dotati di un´efficienza e di una capillarità allora inimmaginabili. Ma quella parola che affiora nel linguaggio del presidente del Consiglio è come una macchina del tempo. Di più , è un marcatore genetico. Ci riporta agli anni venti del secolo scorso. Svela il binario obbligato su cui corre il treno dell´avventura politica oggi in atto. Contro il disfattismo dei socialisti e la debolezza dei liberali, responsabili di dividere il paese e di criticare chi aveva voluto l´ingresso in guerra, Benito Mussolini pronunziò un celebre discorso il 3 aprile 1921 nel teatro comunale di Bologna: l´attacco era fatto in nome di una «stirpe ariana e mediterranea» da parte di un capo che chiamava a raccolta contro il nemico interno. Il filo dell´attacco al disfattismo non si interruppe qui. Fu il leit motiv della propaganda del regime.
Se rievochiamo queste vecchie cose non è per tornare sulla questione generale se quello che si presentò anni fa come il «nuovo che avanza» sia in realtà qualcosa di molto vecchio, se il berlusconismo sia classificabile come fascismo. Quello che si presenta è una nuova declinazione di qualcosa che appartiene alle viscere profonde della storia italiana, alle magagne della nostra società, alle questioni non risolte nel rapporto tra gli italiani e il passato del paese. E´ il linguaggio del leader a svelare che il regime che giorno dopo giorno avanza nel nostro paese tende a riproporre qualcosa che l´Italia ha già conosciuto. Il disfattismo fu per il regime fascista un fantasma necessario, continuamente evocato, il responsabile a cui imputare le difficoltà e gli insuccessi. La voce del Capo si alzava non tanto per denunziare le trame dei disfattisti di professione, quel pugno di antifascisti «soli, solissimi», come ha scritto Vittorio Foa. Per loro, per seguirne i passi, in Italia e all´estero, per eliminarli all´occorrenza, bastavano l´Ovra e i sicari. No: il disfattismo era per il regime il nemico per definizione, l´unico nemico che potesse minacciare un sistema in cui il Capo doveva realizzare l´ideale supremo della democrazia organica, della fusione mistica del popolo nel leader. E tanto più insistente fu la campagna contro il disfattismo quanto più in profondità penetrava l´adesione collettiva al regime, quanto più generalizzato fu il consenso.
Consenso: questa è la parola che figura nel titolo di un volume della biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice. Da lì data la sconfessione di una falsa immagine della nostra storia. La favola bella che fu raccontata dopo la Liberazione all´Italia che si scopriva insieme sconfitta e vittoriosa fu quella di un antifascismo originario e diffuso che era sfociato naturalmente nella Resistenza. Oggi sappiamo che non era vero. Sappiamo che gli italiani erano stati profondamente corrotti dal regime fascista. La corruzione era consistita proprio nella continua denunzia del disfattismo, nella costruzione passo dopo passo di un sistema di unità organica tra popolo e capo che permettesse al capo di riassumere ed esprimere i bisogni del popolo, di rispondere a ciò che la gente voleva, al di là di ogni mediazione. In fondo, possiamo parlare del fascismo come di una forma speciale di democrazia: una democrazia che eliminava le mediazioni faticose dei sistemi rappresentativi nel momento stesso in cui cancellava le barriere che impedivano al potere del Capo di operare. Era per eliminare il disfattismo che bisognava sostituire la voce del regime alle discordanti voci della libera stampa e trasformare le istituzioni di una monarchia parlamentare in canali di unione organicistica tra il Capo e il suo popolo. E quando, con i Patti Lateranensi, anche la Chiesa dette il suo fondamentale contributo al pieno dispiegarsi di una saldatura completa tra il paese e «l´uomo della Provvidenza» la lotta al disfattismo fu coronata da due provvedimenti emblematici: il giuramento di fedeltà dei professori e la riapertura del tesseramento perché tutti potessero entrare in un partito che non era più una parte ma il tutto. Fu allora che almeno un italiano parlò di un processo di corruzione che stava minacciando tutti: un processo che poteva e doveva essere contrastato. Leone Ginzburg sostenne che non si dovevano condannare gli italiani che per ragioni di necessità avevano chiesto quella tessera, ma bisognava incoraggiarli a non fare altri passi sul terreno della corruzione.
Oggi il discorso sulla corruzione degli italiani è di tipo diverso ma non meno grave. La saldatura tra popolo e leader si nutre del progressivo svuotamento dell´etica civile, fatto di leggi e di decreti di breve e brevissimo respiro, di una continua aggressione alle istituzioni rappresentative, alla divisione dei poteri dello Stato, alle istituzioni giudiziarie e alla legalità. Alla violenza fascista si è sostituita la persuasione di un abile management delle emozioni collettive e una sostituzione dell´evasione e del sogno alla durezza dell´irrreggimentazione. Ma l´esito è identico: si chiama corruzione e affonda le radici in un vuoto di memoria e di cultura civile. Se il consenso massiccio della popolazione al regime di Mussolini è una verità storica acquisita, questa verità non ha operato nel senso giusto, non ha spinto le istituzioni della Repubblica e la coscienza degli italiani a fare i conti con la nostra storia con la radicalità e la durezza con cui i tedeschi hanno fatto i conti col nazismo. Solo tenendo conto di questo si può risolvere l´enigma di un consenso collettivo appena incrinato da episodi che altrove avrebbero costretto ogni statista decente a dimettersi. Un paese che dimentica la propria storia è condannato a ripeterla.

Repubblica 15.6.09
Idv-Pd, l’opposizione senza speranza
Quei voti venuti dall’antipolitica hanno fatto volare Di Pietro ma ora tradiranno i democratici
di Ilvo Diamanti


Alle amministrative i suoi elettori hanno preferito votare contro i democratici, scegliendo altre liste di sinistra
L´Italia dei valori ha raddoppiato i consensi elezione dopo elezione: ora sono arrivati a 2,4 milioni

Per ragionare intorno al futuro del centrosinistra oggi bisogna fare i conti con Di Pietro e l´Italia dei Valori. Artefice di una crescita elettorale inarrestabile negli ultimi anni.
Raddoppiato di consultazione in consultazione: 2,1% alle europee del 2004; 4,4% alle politiche del 2008 fino all´8% alle europee di una settimana fa. Una progressione altrettanto clamorosa misurata in termini assoluti: circa 700 mila voti nel 2004, quasi 1 milione e 600 mila nel 2008, 2 milioni e 400 mila il 6-7 giugno scorsi. Quarto partito in Italia, in ordine di grandezza. Due punti sotto all´altro vincitore delle recenti europee: la Lega Nord. Rispetto a cui l´Idv è per molti versi simmetrica. Anzitutto per geografia (rinviamo al dossier "L´Italia a colori": www.demos.it). Infatti, è particolarmente forte nel Centrosud, dove supera largamente il 9%. Inoltre, fra le 15 province dove raccoglie più consensi, una sola è del Nord: Torino (10,7%). Le altre, invece, sono nel Centrosud. Nel Molise, enclave del leader Antonio Di Pietro. Ma anche in Basilicata e in Calabria, dove operava l´ex procuratore De Magistris. E a Palermo, la città di Leoluca Orlando. Ciò chiarisce che la geografia dell´Idv dipende, in qualche misura, da motivi "personali". Una ulteriore specificità emerge in chiave storica. Le zone di forza dell´Idv hanno una tradizione di destra. Nelle 26 province dove il partito alle europee ha ottenuto le percentuali più elevate, il MSI nella prima Repubblica e successivamente AN conseguivano risultati molto superiori alla media nazionale. L´Idv, tuttavia, non è figlia della destra. Ma ne condivide, in parte, il retroterra. E dunque alcune ragioni. Fra cui la domanda di sicurezza.
In terzo luogo, l´Idv ha un impianto urbano e metropolitano. È più forte nei comuni oltre i 20 mila abitanti e soprattutto nelle città oltre i 100 mila. Secondo una analisi dell´Ipsos, inoltre, gli elettori dell´Idv superano largamente la media tra i giovani, tra le persone con titolo di studio più elevato (diplomati e laureati). E quindi fra gli studenti, i funzionari, gli impiegati "intellettuali", i dirigenti pubblici ma anche privati.
Gli atteggiamenti degli elettori dell´Idv (attraverso i sondaggi condotti da Demos nell´ultimo anno) sottolineano 3 orientamenti specifici, molto marcati.
1) L´importanza attribuita al ruolo "moralizzatore" e al tempo stesso "rivoluzionario" della giustizia. In particolare dei magistrati, verso i quali gli elettori dell´Idv manifestano un grado di fiducia molto più elevato della media. D´altra parte, i leader dell´Idv sono due magistrati-simbolo. Il fondatore, Antonio Di Pietro, icona di Tangentopoli. E Luigi De Magistris, che ha superato perfino Di Pietro, per numero di preferenze. Emblema del contrasto con il potere politico in tempi recenti. Leoluca Orlando, l´altra figura rappresentativa del partito, evoca la stagione del cambiamento (mancato) del Mezzogiorno negli anni Novanta. Oltre alla lotta antimafia.
2) La sfiducia nei partiti, nelle istituzioni. In altri termini: il sentimento antipolitico contro la "casta" che comanda il paese. Sottolineato dal larghissimo seguito riconosciuto a Beppe Grillo.
3) Per ultimo, la totale, incondizionata, irriducibile avversione verso il premier e leader del Pdl, Silvio Berlusconi.
L´Idv canalizza, dunque, l´insoddisfazione di molti e diversi settori. La frustrazione dei contesti del Centrosud che si sentono trascurati dallo Stato. Coloro che recriminano sulla rivoluzione mancata del 1992. Il popolo di Grillo e quanti contestano il ceto politico, i partiti, l´informazione. Componenti e gruppi della sinistra radicale. Ma anche una quota di esuli del Pd e dell´Italia post-democratica che li circonda.
L´Idv è come un autobus dei malesseri socio-politici e, al tempo stesso, un "cane da guardia" della democrazia, contro tutti quelli che la minacciano. Anzitutto, Silvio Berlusconi. Ma anche le forze di opposizione che non fanno opposizione: il Pd. E le istituzioni che dovrebbero vigilare ma non lo fanno. Presidente della Repubblica compreso. Più che il partito dei magistrati, un "partito-magistrato". Che ha riferimenti precisi: riviste (MicroMega), giornalisti e trasmissioni (Santoro, Travaglio e AnnoZero su tutti), comici e dissacratori (Grillo ma anche la Guzzanti).
Più che un´alternativa politica tende ad essere un´alternativa "alla" politica. Almeno: a "questa" politica. Un network che si compone e scompone a seconda del momento e del contesto. Come si è visto in alcune importanti città dove si è votato una settimana fa per il Comune, la Provincia e l´Europa, contemporaneamente. A Bologna: l´Idv ha ottenuto circa il 9% alle europee, l´8% alle provinciali e solo il 4,4% alle municipali. A Firenze: l´8% alle europee, il 7% alle provinciali e meno del 3% alle comunali. In entrambi i casi l´Idv è nella coalizione a sostegno del candidato sindaco del Pd. In entrambe le città oltre metà degli elettori dell´Idv hanno preferito votare per altre liste di sinistra (oppure vicine a Grillo) piuttosto che per il candidato del Pd. Anzi: hanno votato contro di esso. Impedendone l´elezione al primo turno. L´Idv. Appare, quindi, efficace come soggetto e strumento di opposizione. Ma non di progetto, né di governo. E neppure di aggregazione. Il suo successo, invece, rende più evidenti i limiti del Pd. Franceschini ne ha evitato la scomparsa, ma non il declino sostanzioso. Ci riesce difficile vederlo come il leader in grado di dare speranza agli elettori del Pd, che non si rassegnano a una vita da antiberlusconiani. Ma vorrebbero diventare maggioranza di governo. Domani, non fra cinquant´anni. Tuttavia, gli sfidanti annunciati - Bersani, lo stesso D´Alema - hanno avuto, e in parte sprecato, molte altre occasioni, in altri tempi. Non le hanno sapute sfruttare allora. Perché dovrebbero riuscirci adesso? Da ciò il problema del centrosinistra, sottolineato da queste elezioni. Nelle quali si è affermato un soggetto nato per fare opposizione, l´Idv. Mentre il Pd è nato per unificare il centrosinistra e portarlo al governo. Ma oggi appare debole, nella testa e nei piedi. È ridotto al 26%: 7 milioni e 800mila voti. Alle europee del 1984, 25 anni fa, quando morì Enrico Berlinguer, il Pci – da solo - ottenne 11 milioni e 600 mila voti: il 33%. Divenne per la prima - e unica - volta primo partito in Italia, davanti alla Dc. Alle elezioni politiche del 1987 scese al 26,7%: 10 milioni e 250 mila voti. Decise, allora, prima della caduta del muro, di rompere con la propria tradizione e la propria organizzazione. Con il proprio passato. Per non restare all´opposizione in eterno. Il Pd attuale, molto più debole del Pci del 1987, non può evitare di porsi lo stesso quesito.

Corriere della Sera 15.6.09
Dietro l’allarmismo una minoranza smarrita e pronta a tutto
L’opposizione smarrita
di Massimo Franco


Il centrosinistra sembra scommettere su una crisi a breve del governo e punta su una «guerra di nervi». La parabola discendente
L’opposizione senza proposte alternative convincenti potrebbe non beneficiare della possibile parabola discendente del premier

Più che alla chiarezza, l’uscita di Massimo D’Alema sulla «scos­sa » che rischierebbe la nostra de­mocrazia in questa fase è un contri­buto alla confusione.
Si tratta di un allarmismo che non ri­dimensiona quello prodotto dall’ultima sortita di Silvio Berlusconi su presunti complotti antigovernativi. Al contrario lo alimenta, consegnando al Paese l’im­magine di un’opposizione tanto aggres­siva quanto smarrita e pronta a tutto; e all’opinione pubblica internazionale quella di un’Italia difficile da decifrare se­guendo le categorie della normalità.
L’arrivo del presidente del Consiglio negli Stati uniti ed il suo incontro odier­no con Barack Obama rischiano così di avvenire su uno sfondo artificiosamente sovraccarico di incognite. Berlusconi rappresenta un governo con una mag­gioranza solida che ha confermato la sua forza alle elezioni Europee. Le Ammi­nistrative si sono risolte in un insucces­so del centrosinistra: almeno per ora. E gli impegni presi con l’Occidente, Stati Uniti in testa, non appaiono minima­mente a rischio. Gli ottimi rapporti con Mosca e le sbavature e gli eccessi della visita del capo libico Gheddafi a Roma non sembrano in grado di guastare un’alleanza storica.
Eppure, la figura del premier viene cir­condata da un alone di scetticismo e di precarietà. I suoi avversari contestano l’idea che l’Italia sia con lui, sostenendo che l’hanno votato sì e no un italiano su quattro, contando le astensioni. La cosa paradossale è che il calcolo dell’opposi­zione prescinde dal proprio identikit, dai contorni sempre più controversi e minoritari. Il Pd contempla i limiti del governo, che pure ci sono. Esalta il pote­re leghista in funzione antiberlusconia­na. Raffigura un Berlusconi minacciato dalle trame del suo centrodestra. Ma non riesce a riempire il proprio vuoto di leadership e di proposte.
È singolare che mentre addita Berlu­sconi «leader dimezzato», ostaggio di Umberto Bossi, D’Alema ammetta che il Pd non è autosufficiente; e che non ha ancora la minima idea di chi sarà il pros­simo segretario. E proponga il «modello Puglia», la regione dove è eletto, come esempio di schieramento alternativo: un «cartello» elettorale che dovrebbe anda­re, dice, «dall’Udc a Rifondazione comu­nista ». Non ha l’aria di una grande idea. Ha qualcosa di passatista, più che di vin­cente. Con piccole varianti, ripercorre vecchi sentieri rivelatisi vicoli ciechi.
Ma il centrosinistra sembra scommet­tere comunque su una crisi a breve del governo; su un rapporto freddo fra Ber­lusconi ed il presidente Usa, Obama; e su un G8 all’Aquila al quale il premier dovrebbe arrivare affannato, se non dele­gittimato. In altri tempi, si sarebbe detto che è un gioco al «tanto peggio, tanto meglio». Forse, più banalmente è una guerra dei nervi con Palazzo Chigi ingag­giata su premesse che potrebbero rive­larsi presto azzardate e contraddittorie. La scommessa è sul declino berlusconia­no e sulla possibilità che il complotto evocato dal premier sia verosimile, se non vero.
La speranza nasce dal fatto che il Pdl non ha vinto le Europee nella misura sperata dal capo del governo; e che il Ca­valiere tende a vedere trame per sosti­tuirlo a Palazzo Chigi, mostrando qual­che segno di nervosismo. Per un’opposi­zione a caccia di qualunque segno di cri­si, di inversione di tendenza, la prospet­tiva di un conflitto improvviso, di una «scossa», nel gergo dalemiano, sarebbe comunque una buona notizia. Signifi­cherebbe che la legislatura del centrode­stra può andare incontro a difficoltà; che lo strapotere dell’avversario non è poi così granitico. E chissà, forse offri­rebbe al Pd ed ai suoi futuri alleati un’oc­casione per dimostrare che il centrosini­stra non è né sbandato né impreparato a governare.
Per paradosso, gridando al complotto Berlusconi non ha tanto rivelato i propri incubi, ma i sogni proibiti dell’opposi­zione. È possibile che la parabola discen­dente del presidente del Consiglio stia per iniziarsi, o sia già cominciata. Eppu­re, si rafforza la sensazione che anche in quel caso, a beneficiarne non saranno i suoi avversari: almeno fino a che per vin­cere punteranno sulle disgrazie del Cava­liere e non su una proposta alternativa convincente.

Corriere della Sera 15.6.09
«L’esponente pd ha riassunto un pensiero diffuso nel centrosinistra»
La Annunziata: il sospetto è che arrivi una crisi ampia Forse con un altro scandalo
intervista di Fabrizio Roncone


ROMA — Lucia Annunziata, senti: quando Massimo D’Alema ti ha detto che c’è da aspettarsi una maggioranza attra­versata da «scosse», tu a che genere di scosse hai pensato?
«Non ci ho pensato. Ho, anzi, reagito d’istinto. Nella frazione di un secondo. Co­me ti sarai accorto, l’ho infatti subito incal­zato, chiedendogli: 'D’Alema, il termine scossa sta per...?'».
D’Alema ti ha risposto, un po’ vago, che per «scosse» si intendono «momenti di conflitto, di difficoltà, anche impreve­dibili, che richiedono, come dire? un’op­posizione in grado di assumersi le pro­prie responsabilità»...».
«Senti, io con D’Alema non ho parlato né prima, né dopo la trasmissione...».
Dai, direttore...
«Giuro. Né prima, né dopo. Non è mia abitudine farlo con gli ospiti, e certo non ho fatto eccezione con Massimo, che pure conosco da una vita. Detto questo...».
Ecco, detto questo?
«Provo a intuire, a dedurre».
Dai, prova.
«Io penso che Massimo, in fondo, abbia riassunto un pensiero abbastanza diffuso all’interno del centrosinistra».
Sarebbe?
«La sensazione che la stagione di Berlu­sconi stia entrando in un grave momento di debolezza... da cui potrebbe scaturire, o deflagrare, fai tu, una crisi più ampia».
Genere di crisi?
«Istituzionale».
Spiegati. Cosa potrebbe innescare que­sto genere di crisi?
«Non lo so. E suppongo non lo sappia, di preciso, neppure Massimo. Io sospetto l’ar­rivo di altri scandali, di altre foto spiacevo­li... temo storie torbide... credo che l’imma­gine internazionale di Berlusconi, già com­plicata nei rapporti con l’amministrazione Obama, nel volgere di un tempo non lun­ghissimo, possa risultare ulteriormente danneggiata».
Berlusconi parla di «piano eversivo».
«D’Alema non crede all’ipotesi del com­plotto. Con me, in trasmissione, è stato piuttosto chiaro. D’Alema, se posso aggiun­gere, è anzi più sottile: e dice che quando il Cavaliere parla di complotto, parla ai suoi. Gli spiega la scena dell’accerchiamento».
Per questo poi...
«Arrivano in difesa Calderoli e Cicchitto, certo. Annusano, anche loro, il pericolo».
Francesco Cossiga, sul Giornale, insi­nua che sia già pronta la successione al Cavaliere...
«Il governatore della Banca d’Italia, Ma­rio Draghi? Se è per questo, girano anche altri nomi... No, io dico che la situazione è molto in evoluzione».
Direttore, sembri molto informata.
«Ragiono, leggo, parlo, faccio questo me­stiere da una vita. Ma puoi escludere che D’Alema m’abbia detto qualcosa».
Anche in privato? Senti: cosa ti ha det­to sul congresso del Pd?
«Ne ha parlato in trasmissione. Ha ribadi­to di tenere per Bersani. Poi, se vuoi la mia idea...».
Certo. Qual è?
«Si profilasse davvero una crisi grave, strategica, istituzionale per il Paese... beh, io penso che D’Alema non esiterebbe a tor­nare in campo. Ma oltre il Pd».
Oltre, scusa, in che senso?
«Sarebbe pronto a rimettersi in gioco da statista tra gli statisti...».

Repubblica 15.6.09
Le condizioni di Netanyahu "Sì allo Stato palestinese no al blocco delle colonie"
L’Anp: "Siluro alla pace". La Casa Bianca: "Passi avanti"
Robert Malley, responsabile del programma mediorientale all’International Crisis Group di Washington:
"Ma se non smantella gli insediamenti il negoziato non porterà a nulla"
di Alix Van Buren


«Un rifiuto a Obama? Il discorso del premier Netanyahu non è affatto clamoroso. Lui si barcamena, acquista tempo, stretto com´è fra le pressioni della Casa Bianca e del proprio governo. Netanyahu ha detto una cosa vera: da sessant´anni siamo alle prese con l´inestricabile groviglio israelo-palestinese. La differenza, però, è che stavolta Washington si muove con una determinazione senza pari». Robert Malley, consigliere del presidente Clinton, negoziatore di pace a Camp David, oggi vicino alla squadra di Obama e responsabile del programma mediorientale all´International Crisis Group di Washington, è forse la voce più autorevole in materia.
Malley, davvero nulla di nuovo nelle parole di Netanyahu?
«Mettiamola così: il primo ministro israeliano doveva ammorbidire il contrasto con la Casa Bianca e allo stesso tempo rassicurare la sua base elettorale. Con una mano abbozza certe concessioni, con l´altra delle riserve. Promette di non costruire nuovi insediamenti, e però ne conferma l´espansione naturale. Tira la corda, ma non tanto da far naufragare le prospettive di un accordo di pace».
Con che risultato per i rapporti di Israele con l´America?
«Che siamo alla fase in cui ciascuno s´atteggia prima di sedersi al tavolo. Netanyahu non ha pronunciato un no né un sì: soltanto un "ni". E poi, la faccenda dello Stato smilitarizzato è un falso dibattito, come quello sugli insediamenti».
Perché?
«Perché tutti sappiamo che Netanyahu è d´accordo sulla nascita di uno Stato palestinese. Vuole farla apparire una concessione. Quanto alle colonie, il punto non è fermarne la costruzione, ma smantellarle: cioè definire dove verrà stabilita la frontiera. Quello sarà il momento della verità, se il negoziato riprenderà».
E con Netanyahu le trattative ripartiranno?
«Il premier scommette su molti fattori per rinviare i colloqui a un governo successivo al suo: le divisioni interne ai palestinesi fra Fatah e Hamas, la complessa situazione in Medio Oriente, l´Iran. Ma non è detto che i suoi calcoli siano giusti».
Malley, lei s´aspetta un intervento decisivo della Casa Bianca?
«Arriverà un momento quando il presidente Obama metterà sul tavolo una proposta chiara, magari col sostegno della Ue, della Russia, del mondo arabo. Allora i due contendenti non potranno ignorarla. Poi, potrebbero arrivare grosse novità».
Quali, ad esempio?
«Per la prima volta può rivelarsi determinante l´opinione popolare, più di quella dei leader politici. Il piano di Obama potrebbe capovolgere la situazione, anziché finire archiviato come tanti altri progetti impolverati».

Corriere della Sera 15.6.09
La deputata del Fatah Ashrawi:
«Non ci sta offrendo la patria ma una nuova occupazione»
di F. Bat.


Netanyahu vuole che diventiamo anche noi sionisti, che gli arabi che stanno in Israele accettino d'essere quel che non sono

GERUSALEMME — «A me piacciono i bei di­scorsi, indipendentemente da quel che si di­ce... », ride Hanan Ashrawi. Sessantun anni, buo­ni studi all'American University di Beirut, cristia­na per famiglia e marito, nella politica palestine­se da quand'era la portavoce di Arafat, oggi depu­tata vicina al premier Salam Fayyad, la signora Ashrawi fa una sola concessione, una volta spen­ta la tivù e la faccia di Netanyahu: «L'unica cosa che m'è piaciuta, è l'uso che ha fatto delle paro­le, dei silenzi. Dev'essersi esercitato molto. Per dire poco».
Poco?
«Non vedo un grande cambio di posizione. È la solita politica della destra israeliana. C'è una bella differenza, fra le cose che ha detto Bibi e quelle di Obama, a cui voleva idealmente rispon­dere. Al di là delle emozioni: il presidente ameri­cano ha detto con chiarezza che Israele deve dire stop agli insediamenti, Netanyahu ha detto sol­tanto che non ne vuole di nuovi. Ma s'è ben guar­dato dal parlare d'un congelamento di quelli che già ci sono».
Però una novità c'è: la prima volta, dopo molti anni, che un premier della destra accet­ta l'idea d'uno Stato palestinese.
«E a lei questa sembra una novità? È chiaro che si tratta solo d'una operazione di retorica. D'un gioco di parole. Netanyahu dice che ci dev' essere uno Stato palestinese. Ma vuole che di­ventiamo anche noi sionisti, che gli arabi che stanno in Israele accettino d'essere quel che non sono, prima d'accomodarci al tavolo e trattare».
Ma perché non riconoscete Israele?
«Non possiamo farlo in questi termini. Signifi­ca abbandonare al loro destino i nostri fratelli arabi. Significa contraddire tutta la nostra sto­ria ».
Una Palestina smilitarizzata non è nell'inte­resse di tutti?
«La nozione di Pale­stina smilitarizzata cor­risponde al concetto che ha Bibi del popolo palestinese: un popolo che abbia una terra, ma che comunque non controlli le sue frontiere, non abbia un esercito e non pos­sa nemmeno guardare se nel suo cielo volino bombe o aquiloni. Questo non è uno Stato: è la prosecuzione di un'occupazione. Anzi, è la ver­sione aggiornata dell'occupazione: una cosa morbida, tanto per compiacere la Casa Bianca. Il suo discorso è arrogante, ideologico. Non ha le dimensioni del discorso di pace: ha quelle del controllo del territorio».
Ma non c'è niente da salvare?
«Netanyahu ha chiuso la porta su tutto. Geru­salemme è una città occupata, non può non esse­re la nostra capitale. E se Fatah e Hamas raggiun­gono un accordo, Israele deve accettarlo: noi non decidiamo chi deve stare al governo israelia­no. La cosa più arrogante è la pretesa di risolve­re al di fuori d'Israele la questione dei profughi. E poi di chiedere ai palestinesi d'aderire all'iden­tità ebraica: dobbiamo dimostrare d'essere ra­gazzi di buone maniere, prima d'essere ammessi a vivere sulla loro terra».

Corriere della Sera 15.6.09
Testamento biologico Dopo il documento nazionale che bocciava la legge
Fine vita, i medici rischiano lo scisma Bologna: ci facciamo il nostro codice
di Margherita De Bac


ROMA — «È una spacca­tura molto profonda. Se saranno accettati questi principi noi siamo pronti a darci un Codice indipen­dente da quello naziona­le ». Sembra più di una mi­naccia quella di Giancarlo Pizza, presidente dell’Ordi­ne dei medici di Bologna, diecimila iscritti, il più nu­meroso dell’Emilia-Roma­gna.
La tentazione di acqui­stare autonomia sul piano delle regole deontologi­che si è rafforzata dopo l’approvazione a Terni del documento sulle dichiara­zioni anticipate di volontà (testamento biologico) presentato all’assemblea dal consiglio direttivo di Fnomceo, la Federazione che raccoglie gli Ordini provinciali italiani.
Su 97 voti, sono stati cinque quelli contrari. Un blocco «nordista» costitui­to oltre che da Bologna, da Milano, Lodi, Pavia e, per il sud, da Potenza. Tra gli astenuti si contano in­vece gli ordini di Roma, Reggio Emilia, Rimini e Piacenza. Un forte presa di distanza dal governo centrale del presidente Amedeo Bianco.
Le critiche sono focaliz­zate su uno dei capoversi più delicati del documen­to di Terni, dove la nutri­zione artificiale viene con­siderata atto medico e dunque se ne «motiva l’impiego in ogni progetto di cura appropriato, effica­ce e proporzionato com­presi quelli esclusivamen­te finalizzati ad alleviare le sofferenze». Dunque do­vrebbe rientrare tra le scel­te del paziente, a differen­za di quanto prevede la legge che dopo l’approva­zione del Senato aspetta di essere discussa dalla Ca­mera.
L’Ordine dei medici di Bologna però non ci sta: «È inaccettabile. Il testo iniziale, esaminato ad apri­le, non diceva così. Non vogliamo un altro caso En­glaro. L’assemblea era im­preparata al capovolgi­mento. Noi siamo pronti a dotarci di un nostro Codi­ce deontologico».
Valerio Brucoli, consi­glio direttivo dell’Ordine di Milano (che conta venti­tremila iscritti) è meno fa­vorevole al federalismo dei Codici: «La nutrizione nei pazienti in stato vege­tativo è un atto medico in­dirizzato al sostentamen­to, non alla cura. Dunque non dovrebbe essere og­getto di dichiarazioni anti­cipate. Se pensiamo a dar­ci regole autonome? Spe­ro non sia necessario arri­vare a tanto, che si trovi un punto di incontro».
Si è astenuto l’Ordine di Roma, il più grande d’Eu­ropa: «Sono contrario a qualsiasi legge, le questio­ni di fine vita non sono materia da giurista — spie­ga il presidente, Mario Fal­coni —. Tra medico e pa­ziente o la sua famiglia la soluzione si è sempre tro­vata. Nella mia esperienza non ho mai avuto conflit­ti. La legge dovrebbe limi­tarsi a sancire il diritto di esprimere le proprie vo­lontà in un testamento con la garanzia che chi cu­ra e chi è curato abbiano piena libertà. In caso di contrasto la decisione ver­rebbe affidata a una com­missione di bioetica».

Corriere della Sera 15.6.09
La provocazione biologica di Gabriele Milanesi
L’altruismo evoluzionista
di Edoardo Boncinelli


Quando il gene determina la propria affermazione servendosi di chi lo porta

Qualche anno fa si par­lò per un po’ di tem­po di «gene egoista», prendendo spunto da un’idea proposta da Richard Dawkins, il noto evoluzioni­sta, in una sua opera omoni­ma. Ciò che stava sotto il ter­mine era l’osservazione che non sarebbero gli organismi singoli né i gruppi di organi­smi ad essere l’oggetto della selezione naturale, ma i geni. È il gene, insomma, che viene selezionato e che quindi si tro­va a «dirigere» e influenzare la propria trasmissione e la propria affermazione evoluti­va.
Si trattava, come quasi sem­pre in Dawkins, di una propo­sta intelligentemente provoca­toria. È chiaro che un gene non può essere alla lettera «egoista», ma può comportar­si, del tutto inconsapevolmen­te, come tale, promuovendo la propria affermazione attra­verso l’affermazione degli in­dividui che lo portano. Nono­stante che la proposta fosse suonata antipatica, se non «odiosa» a molti (quante vio­lente reazioni negative ho do­vuto ascoltare!), non si può non notare che questa, para­dossalmente, costituisce l’ar­gomentazione migliore per spiegare l’origine evolutiva dell’altruismo.
Se è l’individuo singolo a es­sere selezionato, non si vede come possa essere nato e es­sersi affermato l’altruismo biologico: se io sono troppo altruista, in genere ci rimetto personalmente, anche se i miei parenti o i miei compa­gni ci possono guadagnare. Ma se io possiedo uno o più geni in comune con loro, co­me si verifica quasi sempre, il mio comportamento, con l’aiutare i parenti anche a mio danno, favorisce la trasmissio­ne e la perpetuazione di un da­to gene: è il gene, quindi, che ci guadagna.
In questo modo il gene ego­ista si è trasformato d’incanto nel gene dell’altruismo, è dive­nuto cioè un «gene altruista». Una storia molto istruttiva e interessante che insegna pa­recchie cose: per esempio a non disprezzare senza capire.
Intelligenti pauca. I geni altruisti (Mondadori, pp. 216, e 18,50) è ora il titolo di un bel libro di Gabriele Mi­lanesi, biologo molecolare at­tivo tra Milano e Pavia che ha diretto per anni la rivista «Bio­tec ». Non c’è dubbio che nel dare il titolo al volume la men­te di Milanesi si sia ispirata al paradosso al quale accennavo sopra, ma l’opera non parla di egoismo o di altruismo evolu­tivo. Parla di ingegneria gene­tica, di biotecnologie, di Ogm e di tutto quello che la geneti­ca ha fatto e può fare per noi. È un libro informato, lindo e pulito, che dice con calma ma con forza quello che c’è da di­re sull’argomento. I geni altru­isti sono insomma i geni che l’uomo ha piegato al proprio volere e per il proprio como­do, dopo millenni di ignoran­za, di superstizione e, nella migliore delle ipotesi, di prati­caccia empirica. «La conoscenza può creare problemi, ma non sarà certo con l’ignoranza che li potre­mo risolvere»: questa citazio­ne di Asimov che apre il terzo capitolo potrebbe compendia­re il messaggio del libro. Si di­ce, d’altra parte, che anche So­crate abbia sentenziato: «C’è un solo bene: la conoscenza. E un solo male: l’ignoranza». Più cose si sanno, più possibi­lità abbiamo di utilizzarle. O magari solo di conservarle lì, per quando potrebbero o po­tranno servire. E di cose ri­guardanti i geni e la loro attivi­tà ne abbiamo imparate tante. Troppe, dice qualcuno, che non si ricorda quali erano le condizioni di vita del passato, dalla mortalità infantile alla generale denutrizione, dalla periodica esposizione al fla­gello delle malattie infettive alla mancanza di analgesici e di anestetici, dall’essere espo­sti ad ogni tipo di imprevisto, nella sanità come nell’agricol­tura, all’essere schiavi della predestinazione genetica.
Milanesi ci ricorda tutto questo e molto di più, discor­rendo di varie questioni delle quali di solito si parla senza al­cuna cognizione di causa. Nes­suno si illude che un libro pos­sa cambiare la situazione, ma non si può non salutarne con favore uno nuovo di uno scienziato italiano che ha deci­so di parlare al pubblico, sen­za grida né sensazionalismi, ma dicendo con chiarezza le cose come stanno. Se altri lo seguissero, la comunità degli scienziati italiani sarebbe più rispettata e compresa; e chi sa che qualche giovane non pen­serebbe di dedicarsi per que­sto agli studi scientifici. Se la situazione italiana è quella che è, lo si deve anche all’esi­guità degli addetti ai lavori.

Corriere della Sera 15.6.09
In cima alle classifiche le rivelazioni di Gianluigi Nuzzi sulle finanze vaticane
Trent’anni di affari segreti in due valigie
di Dino Messina


Giornalista d’inchiesta di rara efficacia, l’invia­to di «Panorama» Gianluigi Nuzzi, in Vaticano S.p.A. (Chiarelettere), racconta da un punto di vista privilegia­to gli affari segreti della Chiesa. La scena iniziale sembra tratta da un film di spionaggio ispira­to a Le Carré: un cronista attra­versa la frontiera con la Svizze­ra, si ferma in una casa contadi­na, beve un caffè con l’anziana ospite ed esce con due grosse valigie cariche di documenti, per ritornare rapidamente in Italia.
Sembra fiction, ma è la real­tà. Quelle valigie esistono dav­vero e contenevano la docu­mentazione accumulata per un trentennio da monsignor Rena­to Dardozzi (1922-2003), un ma­nager plurilaureato diventato prete solo a 51 anni e chiamato già nel 1974 dal cardinale Ago­stino Casaroli a occuparsi dello Ior. Nel testamento Dardozzi aveva disposto che il suo archi­vio diventasse pubblico, così gli eredi lo hanno affidato a Nuzzi, che ha potuto riscrivere trent’anni di finanza segreta con materiale di prima mano.
Personaggio chiave del libro — da ieri in testa alla classifica dei saggi e ottavo nella Top Ten — è un presule di origini luca­ne, Donato De Bonis, cresciuto all’ombra di Paul Marcinkus e uscito paradossalmente raffor­zato dallo scandalo Ior-Ambro­siano, al punto da poter costrui­re all’interno della banca vatica­na un sistema finanziario occul­to e totalmente fuori controllo. «Il primo passo segreto — scri­ve Nuzzi — lo ritroviamo nel­l’archivio Dardozzi: De Bonis fir­ma regolare richiesta e lo Ior apre il primo conto corrente del neonato sistema offshore. Conto n. 001-3-14774-5». Siamo nel 1987 ed è l’atto d’inizio di una attività frenetica, che vedrà passare per i conti intestati a nomi fittizi decine di miliardi di lire in contanti, centinaia di miliardi in Cct. «Dal 1987 al 1992 — scrive ancora Nuzzi — De Bonis introduce in Vaticano cash per oltre 26 miliardi e li de­posita tutti su 'Fondazione Spellman'». Al conto, intestato al nome del cardinale di New York che raccomandò Mar­cinkus a Paolo VI e che si prodi­gò per procurare finanziamenti alla Dc, scopriamo che avevano accesso due persone: De Bonis e Giulio Andreotti, il quale, in­terpellato dal giornalista di «Pa­norama », ha dichiarato di non ricordare.
Nella ricostruzione delle ci­fre da capogiro e totalmente fuori controllo (dall’89 al ’93 vengono condotte operazioni per oltre 310 miliardi di lire), Nuzzi individua tre tipi di bene­ficiari: istituti religiosi, ma an­che politici, industriali e mana­ger. È noto che dallo Ior passò parte della megatangente Eni­mont e che l’Istituto vaticano fu usato per «lavare» soldi spor­chi. Dal libro di Nuzzi scopria­mo altri particolari dello scan­dalo e gli scontri interni al Vati­cano per salvare il salvabile. Leggiamo per esempio le circo­stanziate denunce di Angelo Ca­loia, ancora oggi presidente del­­l’Istituto, che non sempre anda­rono a buon fine.
Il libro si conclude con un’in­tervista al figlio del politico ma­fioso Vito Ciancimino, Massi­mo, il quale testimonia che mol­ti soldi del padre passavano dal­lo Ior per essere trasferiti al­l’estero.

Liberazione 13.6.09
«E' inutile adesso dire "uniamoci" se non capiamo la sconfitta»
intervista a Valentino Parlato di Checchino Antonini


C'è chi mette i paletti, come fanno, i socialisti di Nencini. Chi li abbatte tutti come chiede Bertinotti dalle pagine di un noto giornale torinese. C'è chi tende la mano al Pd, così scrive Vendola ma poi sembra ripartire da sé, come anche i Verdi, contenti dell'exploit franco-tedesco. C'è anche chi esulta per lo 0,2% in più (si veda Ferrando), chi compila certificati di morte e rilancia una costituente anticapitalista (Cannavò). Chi riparte dalla Lista anticapitalista ma consapevole che il perimetro debba allargarsi, come pensa di fare il Prc che oggi si avvia a un importante comitato politico nazionale. Ma a sinistra ciascuno, con una varietà di perimetri e fortificazioni, chiede a qualcun altro di riunirsi. Valentino Parlato, fondatore e di nuovo direttore del manifesto , va controcorrente. Non è che suggerisca di continuare a viaggiare spaiati all'infinito ma si prende tempo. Bisogna capire.
«Pensare di uscire dalla crisi dicendo "adesso mettiamoci insieme", è inutile!», spiega a Liberazione .
Però, da qualche parte si dovrà pur ricominciare. Il rischio, in parte già reale, è che dall'immaginario collettivo si scivoli al collettivo immaginario. Le sinistre che solo tre anni fa erano capaci di riempire le piazze e di parlare ad ampi settori sociali, annaspano in una parabola discendente interminata.
La prima cosa che proporrei, prima di presentare ricette, è di cercare il perché, le ragioni di una sconfitta che, se sono Vendola non posso appiccicare a Ferrero. E se sono Ferrero non posso scaricare su Vendola. Guarda che non solo noi, sinistra estrema, ma pure i socialdemocratici hanno perso in tutta Europa. E se non si sanno le ragioni non è possibile trovare una soluzione. Per esempio devo chiedermi perché tanti operai che votavano a sinistra e sono ancora iscritti alla Cgil votano per la Lega...
Dunque esiste una specifica questione settentrionale?
C'è una questione sociale: perché questa crisi sposta a destra il voto? Com'è nato il populismo?
E' lì, nel populismo che cresce, che c'è la crisi della sinistra. Di tutta la sinistra.
Ha senso, quindi, la distinzione tra le due sinistre, una moderata e l'altra d'alternativa?
Perché dici due? Ce ne sono almeno quattrocento! Facciamo che io e te siamo due bottegai, vendiamo entrambi salami e siamo concorrenti. Falliamo tutti e due. La prima cosa che devo chiedermi è capire perché entrambi abbiamo perso. Sono cambiati i gusti? Abbiamo commesso degli errori?
Eppure le reazioni al dato elettorale, nella loro parzialità, sembrano tutte alla ricerca di contenitori capaci di battere il quorum.
Ma quello è un paradosso, un distruttivo paradosso. "Uniamoci" è una parola che non ha esito perché poi non ci uniamo. Torno a insistere con la storia del malato: se ho la febbre come faccio a fare una scalata? L'appello di Bertinotti, ad esempio, lo ritengo troppo sbrigativo. Il nuovo, si chiede, ma il nuovo uno dove lo compra? Non ci si può fermare a dire che serve il bene della società, perché il "bene della società" è un indeterminato. Anche Berlusconi cerca il bene della società.
Ma in questa ricerca ce l'hanno ancora un ruolo i partiti e i giornali?
Ce l'hanno ma sono tutt'e due abbastanza in crisi. Anche noi del manifesto . E tutti dobbiamo capire come ritrovare credibilità in mezzo alla gente. Bisogna anche ricordare che noi del manifesto , prima delle elezioni avevamo anche formulato una proposta: avevamo chiesto di fare liste di sinistra, di persone per bene, con un passo indietro conseguente dei partiti e dei soliti candidati.
Era stato anche proposto di saltare un giro.
Su quello non è che fossi totalmente d'accordo. Ora è importante capire che pensare di uscire dicendo "mettiamoci insieme" è inutile. Semmai dovrà essere il risultato finale di un processo di comprensione di questa crisi. Ripeto: bisogna chiedersi, ad esempio, perché uno di sinistra debba votare uno come Di Pietro.

Repubblica 15.6.09
"Quella statua è nostra" Egitto e Germania in guerra per Nefertiti
di Andrea Tarquini


BERLINO - Fin dai miti antichi tramandatici da Omero, si narra di guerre tra grandi nazioni per contendersi la donna più bella. È quanto sta per succedere tra la prima potenza dell´Unione europea, la Germania, e il glorioso Egitto, leader culturale e in parte politico del mondo arabo. La fascinosa donna della discordia, al contrario di Elena di Troia, non è viva, eppure è desiderata ancora oggi come un simbolo di eleganza e femminilità perfette. Parliamo della splendida regina Nefertiti, moglie del faraone Achenathon. Visse 3400 anni fa, ma la sua bellezza ineguagliabile appare tuttora mozzafiato, tramandataci dal busto che la ritrae, e che dai tempi del Kaiser è esposto nei musei di Berlino. Il Cairo lo rivuole, ha detto al quotidiano Der Tagesspiegel il potentissimo e autorevole Zahi Hawass, massimo esperto e responsabile del patrimonio artistico e culturale dell´antichità egiziana. Presto sarà in grado di provare che il busto fu portato via con la frode, quindi la richiesta è legittima. E se non sarà soddisfatta, gli egiziani sono pronti a sospendere ogni cooperazione culturale con il museo di Berlino.
È una situazione imbarazzante, forse più difficile del contenzioso che oppone Londra ad Atene sul futuro degli Elgin Marbles, cioè i fregi del Partenone di cui da anni la Grecia ne richiede invano la restituzione.
«Il busto di Nefertiti è da quasi cento anni da voi a Berlino, noi lo riavremo molto volentieri», dice Zahi Hawass. Negli ultimi tempi, egli ha chiesto la restituzione di circa cinquemila tesori dell´antica arte egiziana, sparsi tra musei e collezioni per tutto in mondo. «Sono tesori che appartengono all´Egitto, ma non vuol dire che devono tutti tornare a casa. Deve essere restituito ciò che ci fu rubato, tra cui cinque opere d´arte uniche per la nostra cultura. In questo gruppo di cinque capolavori c´è il busto di Nefertiti». Il contenzioso è arduo: nel 1912, all´apice dello splendore della Germania imperiale di Guglielmo II, Ludwig Borchart trovò lo splendido busto nel corso di scavi, e lo portò a Berlino, dove da allora è esposto, attualmente allo Altes Museum nel mirabile complesso dell´Isola dei Musei, non lontano dalla Porta di Brandeburgo. «Confido che ben presto avremo in mano tutto il necessario per richiedere formalmente la restituzione del busto. Mi risulta che non esistano documenti che possano provare che Nefertiti abbia lasciato l´Egitto in modo legale e moralmente ineccepibile», spiega Hawass.
Come minimo, esige che Berlino conceda subito il busto quale prestito. I tedeschi non ne vogliono sapere: temono che vada distrutto nel trasporto. «Accuse assurde, non siamo mica i pirati dei Caraibi», ribatte Hawass. Grave dilemma per la Germania: cedere vorrebbe dire privare la capitale del suo tesoro antico più prezioso, rifiutare significherebbe fare una figuraccia col mondo arabo e il mondo extraeuropeo tout court.

Repubblica 15.6.09
Kandinsky
L’avventura mistica del maestro dell’astrattismo
Il Beaubourg di Parigi ripercorre lo straordinario itinerario dell’artista russo fin dagli esordi
La rinuncia al naturalismo è una lenta conquista a favore del colore
di Cesare De Seta


PARIGI. Wassilij Kandinsky attraversa la storia europea a cavallo di due secoli con tutte le complesse implicazioni che ebbe la vicenda artistica in questi anni: nato a Mosca nel 1866 studiò diritto ed economia. Destino volle che ventenne fece parte di una missione che studiava il diritto nelle regioni estreme dell´impero. Wassilij s´appassionò alle arti popolari di queste terre, alla decorazione disinibita di artisti di strada che dipingevano con un´assoluta libertà lontani da condizionamenti accademici. Fu per il giovane un´esperienza che lo segnò profondamente.
Questo esordio, non convenzionale, è presente in "Scene russe" (1903-04) che apre la grande mostra al Centre Pompidou (fino al 10 agosto) a cura di C. Derouet, A. Heberg e T. Bashokoff. Kandinskij abbandona il diritto e decide di andare a Monaco, uno dei centri dell´arte, e nel 1897 s´iscrive all´Akademie der Kunst dove segue i corsi di un maestro Jugendstil come Franz von Stuk. Gli è compagno di studi Paul Klee col quale avrà un rapporto di amicizia e di rivalità che si consolida nei lunghi anni di insegnamento al Bauhaus. Gli anni monacensi sono segnati da un´incalzante sperimentazione: a Parigi nel 1906 aveva scoperto i fauves e la sua tavolozza s´incendia di colori sia pure mediati dalla memoria della sua terra.
Lento è il distacco da un naturalismo popolare e favoloso simile al primo Chagall, evidente in Canzone del Volga fino a Paesaggio con la torre (1908): tempere e oli, parte di una ricca produzione di disegni e xilografie in cui l´impatto con la cultura espressionista è evidente. Attorno a questi anni si trasferisce a Murnau, un paese delle Alpi bavaresi, dove dipinge una serie di paesaggi montani dai colori intensi a larghe pennellate. Nel 1911 ascolta per la prima volta la musica di Schoenberg da cui rimane fortemente preso, ne nasce una corrispondenza e una nota acida del musicista ora in Stile e pensiero (Il Saggiatore); conosce Macke e Marc e con lui scrive il testo teorico di «Der Blaue Reiter», si tiene nel 1911 la prima mostra del gruppo e la sua poetica volge verso l´astrattismo.
Inizia a dipingere la serie delle Improvvisazioni e delle Impressioni a cui segue solo un numero o qualche sottotitolo allusivo e simbolico, esile legame col soggetto: queste opere sono un gruppo assai ricco in mostra. La rinuncia al naturalismo è una lenta conquista e al segno quasi graffiato sulla tela conferisce un´inedita intensità: il colore è come una frustata e forma un arcipelago di accese aree cromatiche.
Con l´arco nero (1912), Quadro con macchia rossa (1914) sono tele di potente originalità per la totale dissoluzione di qualunque sia pur vago soggetto riconoscibile: tela la seconda che non venderà mai e fu sua moglie Nina a donarla, con un cospicuo fondo, al Centre Pompidou nel 1976. Il rapporto con Nina è un capitolo non trascurabile che lei stessa narra in Kandinskij ed io (Abscondita) con spirito devoto.
La rivoluzione russa l´attrae e dal 1917 al 1921 ne vive l´incandescente clima: stringe amicizia con Rodtchenko, problematico il rapporto con El Lissitsky. Pubblica nel 1918 in russo Sguardi retrospettivi (edito da SE) e, avvertiti i morsi della «normalizzazione» bolscevica, nel 1921 si trasferisce a Berlino. Qui incontra Gropius che nel 1922 lo chiama a Weimar e poi a Dessau: come docente al Bauhaus avvia un´attività di teorico, costruendo una grammatica del vedere e del comporre che lo vede in amichevole contesa con Klee. In Dello spirituale nell´arte (1912) aveva mostrato una vocazione mistico-spiritualista e un´attenzione alle teorie dell´empatia di Lipps e Worringer; a contatto con la cerchia del Bauhaus, supera questa soglia ed esplora la geometrizzazione delle forme.
Il linguaggio si depura e la sua grammatica subisce una profonda trasformazione a contatto con Moholy-Nagy, Itten, Feininger che tra foto e pittura puntano ad un´astrazione razionalizzata. I titoli delle opere perdono qualunque significato proprio e ne acquistano uno di nuovo conio: Centro bianco, Centro rosso, Cerchio, Trama nera, Croce, Tratti trasversali ecc. L´alfabeto formale kandiskijano è teorizzato in Punto, linea, superficie (1926). Le memorie tolstojane sono del tutto alle sue spalle, così come lo squillante cromatismo degli anni monacensi. Nel 1933 si trasferisce a Neully-Sur-Seine dove sono già di casa Miró e Arp. I catalani certamente lo influenzano e nella sua tela compaiono microrganismi o girini come visti al microscopio.
Venticinque anni fa vidi al Beaubourg la precedente mostra di Kandinsky con Italo Calvino e mi sorprese che fosse attratto dall´ultimo Kandinsky, piuttosto che da quello visionario degli anni ´10-´20, così congeniale all´autore della Trilogia. Kandinsky nel 1931 scrisse al nipote, il filosofo Alexandre Kojève: «In molti dicono che le mie opere sono fredde. Esistono dolcetti cinesi che sono esternamente caldi mentre all´interno sono gelidi». Ho pensato che Calvino, privilegiando questa tarda produzione, si autodifendeva da critiche analoghe, ma resto dell´opinione che il grande Kandinsky non è quello del freddo tramonto, così come il grande Calvino non è quello di Se una notte d’inverno un viaggiatore.

Repubblica 15.6.09
Una rassegna al museo di Grosseto
Nell’anima etrusca
di Giuseppe M. Della Fina


GROSSETO. «La lotta fra Romani ed Etruschi fu più che una guerra di religione: fu una guerra di anime. Roma prevalse, ma qualcosa della romantica anima etrusca è rimasto, come una nube leggera». Così scriveva Alberto Savinio, e proprio agli Etruschi, anzi al loro periodo di maggiore splendore, è dedicata la mostra «Signori di Maremma. Elites etrusche fra Populonia e Vulci» allestita all´interno del Museo Archeologico e d´Arte della Maremma (sino al 31 ottobre). L´esposizione, curata dalle archeologhe Carlotta Cianferoni, Maria Grazia Celuzza e Simona Rafanelli, è incentrata sulla fase orientalizzante dell´Etruria tra gli ultimi decenni dell´VIII e primi del VI secolo a. C. e caratterizzata dalla piena affermazione di una ristretta aristocrazia.
L´attenzione è sulle aristocrazie di Populonia e Vetulonia, di una città-stato di cerniera come Roselle e d´importanti centri dell´interno quali Marsiliana d´Albegna, Poggio Buco e Pitigliano. Oltre duecento reperti provenienti per lo più da corredi funerari ricuperati nelle monumentali tombe gentilizie offrono l´immagine di aristocratici pienamente consapevoli, anzi orgogliosi del proprio ruolo di primissimo piano nella società del tempo con un´apertura rivolta verso il mondo greco e fenicio-punico. Da quest´ultimo venivano oggetti preziosi che risentivano l´influenza di soluzioni tecniche e stilistiche elaborate nel Vicino Oriente e veicolate dalle navi fenicie e cartaginesi; dal mondo greco provenivano sempre oggetti di lusso, ma soprattutto valori alla base di un´ideologia che continuò ad essere vitale in Etruria anche quando era già tramontata in Grecia e nelle aree ellenizzate del Mediterraneo.
Populonia è rappresentata soprattutto dal corredo funerario, esposto pressoché nella sua interezza, della tomba dei Flabelli. Si possono osservare, per la prima volta insieme, i due utensili che danno il nome al monumento: sono in bronzo e presentano una decorazione ottenuta a sbalzo; notevoli sono anche due armature complete con elmi e schinieri e un servizio di vasi bronzei per il banchetto e il simposio. La documentazione di Vetulonia è affidata al corredo della tomba del Duce che comprendeva, fra l´altro, un´urna cineraria in argento decorata a sbalzo e vasellame in bucchero di alta qualità ad esaltazione della perizia dei ceramisti etruschi.
Una preziosa statuetta d´avorio ricoperta da foglie d´oro e raffigurante una divinità femminile è in grado da sola di suggerire la raffinatezza e l´apertura mediterranea dei principi di Marsiliana d´Albegna: l´opera, realizzata forse localmente, venne scolpita da un artigiano originario del bacino orientale del Mediterraneo e immigrato in Etruria. Da Roselle provengono reperti ricuperati in un ambito diverso da quello funerario: dall´area della cosiddetta «casa con recinto», in cui è stato riconosciuto uno dei più antichi edifici pubblici dell´Etruria con valenza sia civile che religiosa. I centri di Poggio Buco e Pitigliano sono documentati prevalentemente da ceramiche come grandi crateri in bucchero e singolari vasi d´impasto ornati da figurine plastiche.

l’Unità 15.6.09
Intervista a Bijan Zarmandili
I brogli ci sono sicuramente stati. Ma il partito di Ahmadinejad ha lavorato capillarmente
Ora Mousavi cerca di dividere i conservatori
«Non solo speranza. Ai riformatori serve più autorevolezza»
di GA.B.


Bijian Zarmandili, studioso iraniano che vive da molti anni in Italia, segue con attenzione ed apprensione gli eventi in corso a Teheran. Gli chiediamo un commento.
Le notizie dall’Iran sono drammatiche e confuse. Secondo lei, Mousavi e l’opposizione hanno un piano o stanno improvvisando?
«Ecco, il dramma è proprio questo. Il movimento riformatore in Iran ha perso la seconda elezione presidenziale di fila. In precedenza gli otto anni della presidenza Khatami avevano sì modificato il Paese e creato una società civile attiva, ma non avevano intaccato la sostanza del regime. Perché? Perché i riformatori non hanno elaborato un progetto politico chiaro e forte rispetto a quello della nuova casta emergente imperniata sui Pasdaran e sugli apparati di sicurezza. Mousavi non è riuscito a rimediare a quella lacuna. Ha suscitato speranze fra i giovani, le donne, i ceti medi delle grandi città, ma ha dimostrato di non avere la statura politica ed il carisma per guidare un movimento così vasto verso traguardi tangibili. Per affrontare un avversario potente ed organizzato nelle varie articolazioni politiche, militari ed economiche in cui si esprime l’azione sociale dei Pasdaran e delle milizie Basiji, serve una testa pensante, un progetto articolato. Questo manca oggi in Iran, ed è un dramma, perché questa carenza può portare la protesta allo sbando».
Mousavi però, pur mobilitando i suoi verso un obiettivo ambizioso (l’annullamento del voto), si rivolge a interlocutori istituzionali: la Guida suprema, gli ayatollah di Qom, il Consiglio dei guardiani. Non è un segno di ponderazione e ragionevolezza?
«Il fatto è che non ha alternative. Non può uscire dai confini istituzionali, dalla dialettica interna alle strutture della Repubblica islamica. Inoltre Mousavi è consapevole della frattura che soprattutto nel corso dell’ultima campagna elettorale si è consumata fra la nuova destra emergente e la teocrazia classica. Sconfitta la tendenza riformatrice, lo scontro ora è interno al mondo conservatore. Fra le due componenti del quale, sceglie quella che può dargli una mano, cioè l’area di centro dei conservatori tradizionalisti. Per fare dei nomi, gente come Rafsanjani, Larijani, Velayati. Personalità e ambienti che hanno influenza sulla Guida suprema Khamenei. Ecco, se c’è un disegno politico da parte di Mousavi è questo: cercare alleati per tirare a sè Khamenei. Con quale esito è difficile dire.
Una stragegia che nel breve periodo punta a ottenere l’annullamento del voto, e nel lungo a ribaltare i rapporti di forza ai vertici del regime?
«Sì, anche se il vero risultato nel breve periodo non sarebbe tanto l’annullamento del voto, molto difficile. Piuttosto possono tentare di trasmettere al movimento l’idea che non si sta lottando invano, che esiste un referente politico della propria azione, che esiste un margine di dialogo, di negoziato. Certo tutto sarà molto condizionato dalla vivacità della protesta e dal tipo di repressione cui andrà incontro».
L’ipotesi di elezioni truccate è credibile?
«Ci sono stati brogli sicuramente, ma il successo di Ahmadinejad si spiega soprattutto con il lavoro capillare svolto nell’ultimo anno dal partito virtuale dei Baisji e dei Pasdaran attraverso i loro organismi politici ramificati nei luoghi di lavoro, di studio, nelle associazioni».