mercoledì 17 giugno 2009

Terra pagina 9 17.6.09
articoli di Orietta Possanza e Simona Maggiorelli

terra pag 9 17.6.09
Terra 17.6.09
Potere alla fantasia
di Pino Di Maula

Terra prima pagina 17.6.09
International Journal of Environment and Health, Vol. 3, No. 2, 2009
Bioethical issues: Environmental ethics between natural and social systems
by Claudio Ricciardi e Marcelo Enrique Conti

ENV.it_Ricciardi and Conti
Internazionale 799
Vincere






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Repubblica 17.6.09
La paura della pietà
Così muore un innocente nell’indifferenza di Napoli
di Francesco Merlo


Hanno tutti paura, ma non dei camorristi che hanno ormai concluso l´affare e non sono lì, e anzi non sono mai stati all´interno della stazione della metropolitana. Hanno paura sì, ma di intenerirsi, di sentirsi costretti a male impiegare il proprio tempo per confortare la solitudine di chi sta morendo in mezzo alla calca: tutti intorno a lui, ma nessuno accanto a lui.
Sicuramente teme, freddamente e lucidamente teme di dovere essere caritatevole quel tipo grasso con la maglietta rossa, una sagoma inespressiva e insignificante che, in questo video incredibile ed essenziale, smania per timbrare il biglietto mentre ai suoi piedi un ragazzo rantola e la sua donna si dispera perché nessuno lo soccorre. L´omaccione per bene, rispettoso delle regole dei trasporti pubblici, rimane calmo, non fugge e non si fa prendere dal panico. Con destrezza smanetta con il biglietto che è già nella fessura della macchina obliteratrice, ed è visibilmente infastidito dagli altri che invece scappano, fanno ressa, platealmente voltano la testa dall´altra parte che in fondo è solo il modo vile di guardare l´orrore. Quell´uomo invece non si fa mai coinvolgere, neppure da ignavo, neppure con lo sguardo, dal poveraccio che gli muore a fianco dissanguato.
Questa folla robotica, questo starsene lontani per indifferenza o per panico o per non ritardare gli affari propri è la sola vittoria della camorra che mai avremmo voluto vedere e che davvero non possiamo sopportare. Ed è bene metterselo in testa: la folla qui non ha paura dei pistoleros che avevano già sgommato ed erano fuggiti. Qui hanno paura della solidarietà. Avessero assistito alla sparatoria sarebbero rimasti tutti pietrificati. Invece questa folla è un formicaio atterrito che fugge dalla compassione, che sfugge alla misericordia.
La morte violenta è sempre insensata anche quando ha un senso, ma morire così non ha più nulla a che fare con tutte le nostre chiacchiere e le discussioni sulla criminalità organizzata, la storia, l´origine, le filosofie e i sociologismi. Ed è casuale, anche se straziante, che si tratti di un rom, di un suonatore ambulante, di un ragazzo che si porta addosso la dissoluzione di una comunità, di un mondo, di quell´Est che fu impero e che adesso sparge in giro umanità dolente, lavoratori immaginari, giovani e vecchi, donne e bambini mal pagati, maltrattai, invisi, temuti e discriminati.
E però è già capitato e forse ancora capiterà: a un friulano, a un veneto, a un padano, a uno di noi, a chiunque. Sebbene sia spaventoso dirlo, non è questo che ci atterrisce: la camorra che spara nel mucchio e uccide per errore è infatti l´antica bava della ferocia criminale che insanguina le nostre strade, l´orribile spruzzo di una violenza che è quotidiana, ubiquitaria, non solo napoletana e non solo meridionale. Ma la malattia morale dell´indifferenza è qualcosa di più e di diverso dall´abitudine alla morte. Guardatelo bene questo video: sono le immagini scandalose e disgustose di una paese infastidito da un innocente ammazzato. È pietosa quest´Italia che ha paura della pietà.

Corriere della Sera 17.6.09
Le immagini della videosorveglianza fanno paura perché mostrano un enorme vuoto disumano
Quel musicista con la fisarmonica e i trenta minuti di carità negata
di Maurizio Braucci


«Qui non lo lascio. No!» ha detto Mi­rela, la moglie di Petru Birlandeanu, il suonatore ambulante rumeno, ucciso dai killer della camorra il 26 maggio scorso, vittima innocente durante un’azione di rappresaglia criminale nel pieno centro di Napoli. Una settimana fa, Mirela è fuggita in Romania con i due figli e ha disposto che le spoglie del suo caro siano rimpatriate al più presto, lamentando così il duplice oltraggio su­bìto: l’assurdo ferimento di Petru duran­te la sparatoria e la sua agonia davanti ai tornelli di un’affollata stazione ferrovia­ria dove si era rifugiato malgrado fosse stato raggiunto da due proiettili. E’ rima­sto a terra per quasi mezz’ora Petru, mentre le immagini del sistema di video­sorveglianza riprendevano la gente che fuggiva via da Mirela che urlava dispera­ta, cercando un aiuto che nessuno le ha dato fino all’arrivo dell’ambulanza da un ospedale, il vecchio Pellegrini, distan­te 20 metri. La telecamera esterna mo­stra che solo alcuni minuti prima, Petru attraversava con Mirela piazza Monte­santo, davanti alla stazione della linea cumana che ogni giorno serve migliaia di pendolari e turisti. Ambedue appaio­no con il passo stanco di una giornata di fatica, la fisarmonica al collo con cui spesso li avevo visti girare tra i vicoli, suonando melodie che molti ripagava­no lanciando monete dalle finestre. Ep­pure, lì, in un momento cruciale, non hanno trovato nessuna carità. Non cre­do sia stata indifferenza quella di chi li ha evitati, erano persone spaventate, for­se raggiunte dal rumore degli spari appe­na trascorsi, forse semplicemente assue­fatte al vortice di una città violenta e ab­bandonata a se stessa. Non è stata indif­ferenza ma piuttosto ignavia, un’incapa­cità di agire secondo valori dignitosi ed umani, il prevalere di quella viltà con cui si tira a campare, cucendosi addosso mille giustificazioni e diritti, come ha esasperatamente imparato a fare l’Italia di oggi, non solo Napoli. Secondo alcu­ni, lo sguardo di chi ha tirato dritto ave­va compreso che si trattasse di un immi­grato, di uno che conta zero, che qui non ci dovrebbe stare, forse per questo, durante la commemorazione del 4 giu­gno voluta dai centri sociali, una mano ha scritto provocatoriamente su un bi­glietto: un fiore per te Petru, questa era la tua città. Non sono del tutto convinto di questa posizione che, sebbene al pas­so con i tempi, fa salve ancora delle pos­sibilità di solidarietà diffusa. Quando nelle immagini a circuito chiuso, si assi­ste allo svuotamento del piccolo andito da cui tutti sono fuggiti e Mirela resta sola con il suo uomo agonizzante, si pro­va paura, una paura che va ben oltre quella della camorra e del degrado, la pa­ura di ciò verso cui stiamo andiamo: un enorme vuoto disumanizzante, su uno sfondo metallico e impietoso, dove il sangue e le vittime del reale non riesco­no a provocare vergogna e indignazio­ne. Inoltre, per quanto ancora i proble­mi di una città italiana, terza metropoli della nazione, dovranno essere isolati dal contesto generale e trattati come emergenze ed eccezioni che si affronta­no con l’esercito, le misure speciali o con ridondanti dissimulazioni? Forse per sempre Napoli resterà «il ritratto di Dorian Gray» per un’Italia che non vuo­le vedere quanto è culturalmente e an­tropologicamente mutata, in peggio.

l’Unità 17.6.09
«Teheran non diventi una nuova piazza Tiananmen»
Lo scrittore: Chi riempie le piazze e sfida le milizie ha un’ansia di libertà
che va al di là delle intenzioni degli attuali leader dell’opposizione
Intervista a Abraham Bet Yehoshua di Umberto De Giovannangeli


Il primo pensiero va alla «Primavera» iraniana. «Il mondo libero deve agire perché Teheran non si trasformi in una nuova Tiananmen. Quei ragazzi, quelle donne che scendono nelle strade, riempiono le piazze e sfidano le milizie armate, sono portatori di una istanza di libertà e di cambiamento che va ben al di là degli stessi propositi dei loro attuali leader e dei regolamenti di conti all’interno del regime». A parlare è il più affermato tra gli scrittori israeliani contemporanei: Abraham Bet Yehoshua. Il nostro colloquio prende spunto dal discorso del premier israeliano, Benjamin Netanyahu. Yehoshua sorride quando gli dico che il suo giudizio è stato interpretato come un sostegno al premier: «Non c’è in me alcuna “conversione” politica né un tardivo innamoramento per “Bibi”. Ciò che ho constatato, positivamente, è che in quel discorso per la prima volta un leader della destra fa esplicito riferimento ad uno Stato palestinese. E qui le parole pesano come pietre...».
Yehoshua fa il tifo per Netanyahu?
«No, ma sono sufficientemente obiettivo per riconoscere che in quel discorso, Netanyahu ha fatto un’affermazione importante, impegnativa, su cui lavorare...».
Lo Stato palestinese. C’è chi sostiene: roba vecchia.
«Mi permetto di dissentire. Una considerazione che potrebbe apparire scontata se svolta da un leader di sinistra o di centro, acquista un’altra valenza se viene fatta da un leader di destra di un governo delle destre. E per la prima volta un leader della destra ha parlato esplicitamente di uno Stato palestinese...»
Uno Stato smilitarizzato, però...
«Su questo punto non c’è differenza alcuna tra chi, come me, è orientato a sinistra e un israeliano di orientamento diverso: la smilitarizzazione di un eventuale Stato palestinese rappresenta una condizione necessaria per gli israeliani. Tutti gli israeliani, indipendentemente dalla loro coloritura politica».
Altro tema delicato è quello degli insediamenti. Il presidente Obama ne chiede il blocco.
«Una premessa è d’obbligo: senza il discorso pronunciato al Cairo da Barack Obama, Netanyahu non sarebbe uscito allo scoperto, e non avrebbe pronunciato la parola Stato (palestinese). Lo stesso vale per gli insediamenti: Netanyahu si è impegnato a non costruirne di nuovi. È un primo passo, non la conclusione di un percorso...».
Il che significa, restando al tema degli insediamenti?
«Significa smantellare tutti gli avamposti dei coloni e bloccare l’ampliamento dei lavori di espansione degli insediamenti esistenti...».
Su questo Netanyahu recalcitra.
«Per questo parlo di un primo passo, che da solo non può bastare. Mi lasci però aggiungere che, dal mio punto di vista, la questione davvero cruciale è un’altra...».
Quale?
«La definizione dei confini. Questo è il punto di svolta. Perché la mancanza di confini fra due nazioni è una delle cause principali del sangue versato in tutti questi anni. La divisione fisica, territoriale, è il mezzo per porre fine al disegno del Grande Israele e della Grande Palestina. Ed è questo il banco di prova decisivo su cui misurare Netanyahu. Se proverà a contrattare sulla questione dei confini, allora il processo di pace potrebbe arenarsi definitivamente».
Quando parla di confini a quali si riferisce?
«A quelli del ‘67, con i correttivi negoziati tra le parti sulla base di un principio di reciprocità».
In una passata conversazione, Lei parlò delle implicazioni identitarie, insite nella questione dei confini. È ancora di questo avviso?
«Assolutamente sì. Definire i confini ci impone di ripensare noi stessi, rivisitare la storia di Israele e tornare agli ideali originari del sionismo, per i quali l’essenza dello Stato di Israele non si incentrava nelle sue dimensioni territoriali né in un afflato messianico, bensì nella capacità di fare d’Israele un Paese normale. Ed è proprio questa l’essenza della mia, e spero non solo mia, idea di pace. La pace è la conquista della normalità».
Pace significa anche condividere Gerusalemme?
«Gerusalemme non può che essere condivisa, non solo dai due popoli ma dall’intero genere umano, perché Gerusalemme è un patrimonio dell’umanità».
Molti nel suo Paese mettono in discussione che Obama sia amico d’Israele.
«Io la penso esattamente all’opposto. Obama è l’amico che io vorrei sempre avere al mio fianco. Un vero amico non è quello che ti fa passare tutto, ma chi ti aiuta a correggere gli errori che fai. Obama è amico d’Israele quando dice che la nascita di uno Stato palestinese non mina la nostra sicurezza ma può rafforzarla».

il Riformista 17.6.09
Libertà femminile, cosa ci insegnano le donne iraniane
Oppresse dal regime, certo. Ma con veli colorati e vivaci, il rossetto e libri sotto il braccio. No, non sembrano schiave.
di Ritanna Armeni


Sono molte le immagini femminili che si sono imposte in queste settimane sui mass media e che sono state al centro del dibattito politico. Sono molte le domande che quelle immagini hanno posto. Una soprattutto: in quali di quei volti e di quei comportamenti è possibile riconoscere un moderno e nuovo modello di libertà, di emancipazione, di autonomia, di riscatto?
Abbiamo visto Noemi e le veline. Certo è difficile collocarle dentro un modello di emancipazione eppure c'è chi sostiene che quelle donne hanno esercitato o vogliono esercitare la libertà di usare il loro corpo e la loro bellezza per fare carriera nello spettacolo e nella politica. Anche quella - dice qualcuno - è libertà.
Sono rimasta colpita dalle "amazzoni" di cui si circonda il colonnello Gheddafi. Giovani donne tanto forti e coraggiose da fare le guardie del corpo al più volte minacciato rais. Ho appreso poi che erano state scelte guardie di sesso femminile per un compito tradizionalmente maschile perché meno inclini alla ribellione. Ma per loro è così? Come vivono quel loro ruolo e come lo vivono le donne che le osservano? Certo l'immagine della ministra spagnola Chacon che passava in rassegna le truppe in Afghanistan o di Rachida Dati, ministra francese che tornava al lavoro a cinque giorni dalla nascita del figlio erano immagini di emancipazione più rassicuranti e attese, ma possono cancellare le altre?
Poi ho visto le donne iraniane. Oppresse dal regime, certo, private dei diritti, certo, costrette al velo, simbolo di oppressione, ci ripetono. Sarà, ma guardiamole bene. Veli colorati e vivaci e, sotto, occhi sottolineati dal kajal, bocche rosso vermiglio, riccioli e frange che spuntano sotto il chador. E libri sotto il braccio. Il 70 per cento delle studentesse universitarie sono donne. Saranno oppresse, ma schiave proprio no.
Dovunque guardiamo vediamo molta ambiguità. Immagini sfocate o confuse in cui dove magari sembra di leggere sottomissione appare e può apparire la libertà e dove si crede di trovare la libertà si nasconde una nuova forma di oppressione. Anche a casa nostra, dove alcune ministre della Repubblica, malgrado i loro sforzi, non riescono a liberare la loro immagine da quella di "prescelte" dall'imperatore. E dove persino giovani donne capaci, intelligenti e con una carriera politica alle spalle come Debora Serracchiani non riescono a cancellare il dubbio di essere usate nei giochi di corrente del proprio partito proprio perché donne.
Mi sono chiesta il perché di tutto questo. Perché non riesca nella nostra società ad emergere un'immagine chiara e definita di forza, protagonismo, autonomia femminile da indicare alle donne, come esempio e modello. E invece le immagini femminili abbiano non poche volte contorni confusi e contengano una sostanziale ambiguità. Come se un'immagine prima unica si fosse divisa e al suo posto ne apparissero tante e diverse.
Pure fino a qualche decennio fa tutto sembrava molto chiaro. Il riscatto femminile passava per l'emancipazione e questa significava studio e lavoro. Poi al riscatto dello studio e del lavoro si è aggiunta la ricerca della libertà e l'affermazione della differenza femminile, una dichiarazione più precisa e orgogliosa della propria identità sessuale. Questo è stato in estrema e imperfetta sintesi il femminismo.
Oggi districarsi è più difficile. Modelli non ne esistono più e per molti motivi. Intanto si è rotta anche per le conquiste femminili un'idea di progresso. Si è capito che su alcune cose che parevano conquistate per sempre si può tornare indietro. Si pensi ai continui attacchi alla legge sull'aborto. Si ha il dubbio che molte conquiste che parevano avanzate possono essere state un inganno. Basti pensare al percorso della maternità prima messa in secondo piano rispetto all'emancipazione e poi esaltata come forma di differenza e superiorità femminile. E inoltre sono ancora molte ad essere sedotte dalla possibilità di compiacere e affermarsi negli interstizi e nei meccanismi dei modelli maschili.
In secondo luogo il mondo ci ha presentato ormai un'infinità di identità femminili che fino a qualche decennio fa non facevano parte della nostra quotidianità e che oggi o grazie all'immigrazione o grazie ai mass media sono entrate nella nostra vita. Possiamo cancellarle da un percorso, sia pure diverso dal nostro, di ricerca di libertà? Siamo in grado di definire oggi noi le categorie e i paletti della libertà femminile e soprattutto di delinearne in percorsi?
Credo di no. Credo che il compito delle donne occidentali, emancipate, liberate sia quello di rivendicare il proprio percorso e di metterlo a disposizione delle altre. Mentre mi pare difficile che oggi esse si possano proporre come modello unico sia in casa propria che fuori. E anche che possano indicare un percorso uguale per tutte. Possono vigilare, criticare, discutere e condannare se necessario. Ma oggi hanno il compito soprattutto di ascoltare e osservare. Le diverse e spesso contraddittorie immagini di libertà e di protagonismo femminile aspettano una discussione, anche aspra, ma aspettano soprattutto di essere viste e considerate. Chi si sentirebbe di dire che quella ragazza iraniana che manifesta con chador abbia una idea di libertà inferiore alla nostra?

il Riformista 17.6.09
Sondaggio a Gerusalemme dopo il discorso all'università di Bar Ilan il premier vola al 44%
7 israeliani su 10 sono con Netanyahu
di Anna Momigliano


Benyamin Netanyahu un risultato l'ha portato a casa: il suo discorso è piaciuto a oltre sette israeliani su dieci. Lo rivela un sondaggio pubblicato ieri dal quotidiano progressista Haaretz, effettuato con la collaborazione della società Dialog e dell'Università di Tel Aviv. Il 71% dei cittadini valuta positivamente il discorso del primo ministro pronunciato domenica scorsa all'Università di Bar Ilan, quello in cui ha parlato di uno Stato palestinese smilitarizzato e di una «non espansione» delle colonie in Cisgiordania. E l'indice di popolarità del premier, fino a poche settimane fa a terra, è aumentato di ben sedici punti, dal 28 al 44%.
Numeri che sembrano confermare una teoria: quando ha parlato tre giorni fa, Netanyahu si stava rivolgendo soprattutto a un pubblico interno. Prima ancora di essere una risposta alle storiche parole di Barack Obama al Cairo, e certamente prima di essere rivolto ai leader arabi, il discorso del premier israeliano aveva soprattutto l'obiettivo di ricompattare il fronte interno. Un'impresa non da poco, quella di mettere d'accordo gli israeliani, in un Paese dove le fratture interne alla società sono assai profonde: laici contro religiosi, destra contro sinistra, i sostenitori del ritiro dai Territori contro i coloni. Mai sentito la barzelletta secondo cui per ogni quattro israeliani ci sono sette partiti politici?
Ebbene, almeno sul fronte interno, Netanyahu è riuscito ad accontentare, e soprattutto a rassicurare, un po' tutti. Ha rassicurato la sinistra, sua alleata di governo, che pure senza entusiasmo ha visto nelle parole rivolte ai leader arabi («sono pronto a incontravi in qualsiasi momento») e nella formula magica "Stato palestinese" un buon inizio: «Un passo positivo nella direzione giusta, nonostante sia arrivato notevolmente in ritardo», si leggeva ieri in un editoriale non firmato di Haaretz. Ha rassicurato i centristi di Kadima, che hanno riconosciuto nei concetti moderati il buon senso pragmatico di Ehud Olmert e Tzipi Livni: ora il 49% dei kadimisti vorrebbe che Livni entrasse a fare parte dell'esecutivo, mentre il 37% è contrario. Ed ha compattato i suoi: stando al sondaggio, ben il 90% degli elettori del Likud, il partito conservatore del primo ministro, ha apprezzato il discorso di domenica. Persino i coloni si erano complimentati per il suo «livello di Sionismo» (parole dello Yesha Council, l'organizzazione dei "settler" in Giudea e Samaria) nonostante il riferimento allo Stato palestinese e quel «non abbiamo intenzione di costruire nuovi insediamenti né di espropriare altra terra». Perché si è rivolto a loro con affetto: «I coloni non sono nemici del popolo né nemici della pace».
Netanyahu, insomma, ha lavorato sulle ferite profonde che dai tempi di Yitzhak Rabin laceravano la società israeliana. Ma a differenza di Obama non è riuscito a infiammare gli animi, né a dare speranze concrete per il futuro. Sempre secondo il sondaggio pubblicato ieri infatti, «la maggioranza degli israeliani non crede che il processo di pace vedrà alcun sostanziale passo avanti alla luce del discorso» e sempre una maggioranza degli israeliani «sostiene che uno Stato palestinese demilitarizzato non sarà creato entro i prossimi anni».
Parole che piacciono, dunque, ma solo parole? Secondo l'analisi che Haaretz fa del sondaggio, se il premier vuole mantenere il successo deve basarsi proprio sulle parole. «I numeri mostrano che quando Netanyahu si occupa di difesa e sicurezza, con un piglio di leadership e non sfruttando le paure, il pubblico lo sostiene. Ma quando lo giudicano in base alle sue azioni, come la legge finanziaria, la gente non è dalla sua parte». In ogni caso, il consiglio è: «Netanyahu needs to operate less and lead more». Con gli israeliani funziona, ma con Obama?

Repubblica 17.6.09
Un’indagine inesistente
di Giuseppe D’Avanzo


Strillano i caudatari la loro soddisfazione per l´archiviazione dell´inchiesta sull´abuso dei "voli di Stato", affollati di stornellatori e ballerine di flamenco in viaggio verso Villa Certosa. Non si comprende la ragione di tanto "azzurro" entusiasmo.
La decisione della procura di Roma non nasce nella scena giuridica. Corrisponde a una cabala socio-politica - come spesso accade quando l´ufficio giudiziario della Capitale incrocia comportamenti e abitudini "eccellenti". In realtà, non c´è stata alcuna coscienziosa indagine, ma soltanto un controllo burocratico di cinque foglietti di carta con la lista dei passeggeri dei voli Roma-Olbia del 24, 25 e 31 maggio, 1 giugno e 17 agosto 2008. Addirittura in cinque - il capo, l´aggiunto, tre sostituti - hanno accertato che su quei voli c´era anche il presidente del consiglio. Quindi, partita chiusa, fine di ogni interesse. E´ vero, lo stornellatore e la ballerina (immortalati negli scatti del fotoreporter Antonello Zappadu) sono «manifesti passeggeri» a scrocco, ma non c´è stato «alcun danno patrimoniale» né sono «emersi casi di soggetti estranei che hanno viaggiato in assenza del presidente». «Insussistente» dunque l´abuso d´ufficio. «Insussistente» anche il peculato. Va detto che nessuno a Roma ha accertato chi ci fosse a bordo in altri voli e se fosse sempre presente il presidente del consiglio o un ministro. Un´indagine più credibile si sarebbe forse chiesta (c´è chi in procura lo ha inutilmente proposto): bene, accertiamo l´effettiva presenza sul volo del capo del governo; allarghiamo lo spettro delle verifiche non soltanto a quei cinque voli, ma per cominciare ai tre mesi estivi; ascoltiamo gli equipaggi. Insomma, se indagine sull´uso e l´abuso dei "voli di Stato" deve essere, che lo sia e che sia attendibile e rigorosa.
Troppo, evidentemente, per un ufficio giudiziario che, fin dalle prime mosse di questo affare, ha mostrato una premura "quietista" pari soltanto all´assoluta indisponibilità ad avventurarsi addirittura in un´inchiesta "vera". Non è la sola ombra affiorata nell´attività della procura. Lo si ricorderà. Con precipitosa solerzia, Roma - pur palesemente incompetente - sequestra le immagini "rubate" dal fotoreporter tra i patii di Villa Certosa. Il legale del premier avrebbe dovuto infatti presentare la sua richiesta alla magistratura di Tempio Pausania ma l´avvocato Ghedini, quell´ufficio, lo ha in odio perché non gli dà sempre ragione come pretende. Boccia una sua richiesta quando, qualche anno fa, Zappadu immortala cinque ragazze sedute sulle ginocchia del premier (la magistratura sarda chiede l´archiviazione per il reporter impiccione).
Niente Tempo Pausania, allora. Ghedini presenta la sua richiesta urgente di sequestro alla procura di Roma che la concede salvo poi dichiararsi incompetente e spedire il fascicolo a Tempio Pausania. La manovra ha il suo esito positivo per Berlusconi. Quelle foto non potranno essere pubblicate, anche se il capo del governo le definisce innocenti.
L´atto di sottomissione della procura di Roma lascia affiorare «molto malumore» tra i pubblici ministeri. La diffusa irritazione impedisce di replicare la manovra abusiva quando Zappadu ammette che gli scatti non sono centinaia, ma cinquemila. Con scrupolo, finalmente, Roma rifiuta una seconda istanza di sequestro di Ghedini e spedisce l´incarto a Tempio Pausania. L´insoddisfazione domina tra i pubblici ministeri di Roma anche in queste ore. Piace poco la solerzia (ancora) con cui l´ufficio di Giovanni Ferrara ha chiuso la seconda inchiesta (questa volta competente) senza avanzare al tribunale dei ministri neppure una richiesta istruttoria.
E´ vero, conclude la procura, il regolamento dei "voli di Stato" in vigore nella primavera del 2008 era molto restrittivo e non c´è dubbio che quegli ospiti non avevano il rango per viaggiare a spese del contribuente, ma c´era anche il capo del governo e non c´è stato « né un danno per lo Stato né un apprezzabile ingiusto profitto per Berlusconi». E´ scontato che il tribunale dei ministri accetterà, come già ampiamente previsto, l´archiviazione. La conclusione dell´affare penale lascia aperta una questione che giuridica non è. La si può dire etica o, se è troppo, socio-politica: è corretto che la "corte" di Berlusconi - musici e ballerine e giovani ospiti - viaggino a ufo per rallegrare a Punta Lada i week-end del signore di Arcore?

l’Unità 17.6.09
L’incontro tra Obama e la sua antitesi l’Imperatore italiano
L’impudente imprenditore che gestisce il governo come fosse un suo feudo personale, è alleato di un partitino razzista e inseguito dagli scandali sessuali
di Federika Randall, The Nation


Come sarebbe stato bello essere una mosca il 15 giugno quando Barack Obama ha incontrato Silvio Berlusconi!
Berlusconi, l’impudente imprenditore miliardario che gestisce il governo italiano come fosse un suo feudo personale. Proprietario di diverse emittenti tv, riviste e quotidiani. Creatore di ministre giovani ed attraenti ma con poche credenziali professionali. È l’uomo che si è cucito addosso la totale immunità giudiziaria, tanto che quando il suo avvocato inglese, David Mills, cui si deve la creazione della catena di conti correnti offshore, è stato recentemente condannato per aver intascato da Berlusconi una grossa mazzetta per testimoniare il falso sui suddetti conti correnti, Berlusconi non è stato nemmeno sfiorato dalla giustizia.
«L’Imperatore», come l’ha definito il 3 maggio sua moglie, Veronica Lario, annunciando la sua intenzione di chiedere il divorzio. L’uomo che ama intrattenere gli ospiti (come l’ex premier ceco Mirek Topolanek) nella sua villa privata in Sardegna con dozzine di giovani donne appetitose, alcune minorenni, per piacevoli pomeriggi di musica e topless accanto alla piscina. Il burlone che ha commissionato l’oscenamente servile inno «Meno male che Silvio c’è» e che, tra una applicazione e l’altra di fondo tinta e botox, e tra un lifting e un trapianto di capelli assomiglia sempre più al leader nordcoreano Kim Jong Il, anche sotto il profilo della lacca per capelli e del bavaglio alla stampa. Il dispensatore di «panem et circenses» che tre giorni prima delle elezioni è apparso in tv, ha guardato fisso nella camera e ha negato di aver già venduto la star della sua squadra di calcio, il Milan (e invece Kakà era stato venduto). Il gentiluomo che non ha protestato quando il tabloid di destra Libero ha pubblicato in prima pagina le foto della moglie Veronica a seno nudo durante uno spettacolo teatrale di molti anni fa e non ha protestato nemmeno quando Il Giornale ha pubblicato le foto del suo presunto amante.
In breve, il politico il cui Pdl ha preso più voti di tutti (35%) in occasione delle elezioni per il Parlamento Europeo del 6-7 giugno. Un solo motivo di conforto per la maggioranza che non lo ha votato: Berlusconi si aspettava un successo ben più clamoroso. Fino a due giorni dalle elezioni era ancora convinto che il Pdl avrebbe preso almeno il 45% consentendogli di superare il 50% dei suffragi insieme al suo alleato: il partito xenofobo e anti-immigrati della Lega Nord. Della cui visione angusta e piena d’odio Berlusconi ora è più che mai ostaggio.
I partiti xenofobi non hanno trionfato solo in Italia. In Olanda, Austria, Ungheria e Finlandia, partiti nazionalisti di estrema destra hanno ottenuto percentuali tra il 10 e il 18% e persino in Gran Bretagna l’estrema destra ha ottenuto due seggi. In tutta Europa i partiti socialdemocratici hanno ottenuto risultati deludenti mentre sono andati bene i conservatori. Ma l’Italia è un caso a parte a causa dell’immenso potere mediatico di Berlusconi, dei molti rinvii a giudizio collezionati e del suo sfacciato conflitto di interessi. E non di meno gli italiani votano per Berlusconi per alcune delle ragioni per le quali altri europei votano per la destra radicale.
Anzitutto Berlusconi è un faro per quel quasi 25% dei lavoratori italiani titolari di esercizi commerciali e di piccole imprese di servizi – un po’ come «Joe l’idraulico». Questo settore, a lungo sotto la tutela della Dc, al momento non ha gli strumenti per affrontare la concorrenza di mercato del ventunesimo secolo ed è colpito duramente dal declino economico. Molti di loro, comprese le piccole aziende manifatturiere che fanno profitti in periodi di vacche grasse, sono cronici evasori fiscali, realtà che Berlusconi, come ha fatto capire da tempo, tollera e non contrasta.
In secondo luogo, Berlusconi e i suoi alleati hanno investito pesantemente nella politica della paura e dell’odio. Facendo la sua comparsa a Milano il giorno prima delle elezioni, nell’ultimo disperato tentativo di strappare qualche voto alla Lega Nord, Berlusconi ha dichiarato che aveva visto così tante facce nere da fargli sembrare Milano una «città africana». Il governo non ha una politica economica in grado di affrontare la disoccupazione e l’impoverimento causato dal processo di globalizzazione. Attaccare gli immigranti è la sola vera strategia di Berlusconi.
Ma Berlusconi potrebbe essere la rovina di se stesso. E la «questione femminile» – le legioni di seducenti giovani veline che ama portare ai vertici della politica, i suoi legami non chiariti con Noemi Letizia, adolescente napoletana che aspirava a diventare velina, le accuse di sua moglie secondo cui sarebbe «malato» e «frequenta minorenni» – potrebbe essere la sua Waterloo. Ad un incontro di Confindustria, Berlusconi ha tentato di adulare la presidente degli industriali, la 44enne Emma Marcegaglia, dicendole che sembrava «proprio una velina», uno sciagurato passo falso. Sì, gli imprenditori hanno allevato Berlusconi sperando di ottenere favori dal suo governo. Ma non pensano – e non lo pensa Emma Marcegaglia – che si troverebbero meglio nell’harem dell’imperatore.
© 2009, The Nation Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Corriere della Sera 17.6.09
Addio a Caprara, da Togliatti alla scoperta di Dio
di Andrea Garibaldi


Il lutto. Ex braccio destro del «Migliore», confessò: «Tra gli ex comunisti è D’Alema quello che gli assomiglia di più». Nel ’69 fu radiato dal Pci con gli altri del «manifesto»

ROMA — Massimo Caprara, morto all’alba di ieri al «Fatebenefratelli» di Milano, ha avuto una vita lunga 87 an­ni e intensa come dieci vite, ha visto più volte la Storia a un passo e si è concesso il lusso di cambiare idea.
Segretario particolare di Togliatti dal 1944 fino alla morte del «Miglio­re », a Yalta, agosto 1964. Radiato dal partito nel ’69, con gli altri del manife­sto.
Giornalista capace di buoni colpi, come una delle ultime interviste ad Al­lende. Sindaco di Portici. Scrittore di molti libri. Candidato sindaco di Na­poli, 1993, per il Partito popolare, con­tro Bassolino. Autore di alcuni articoli sul Secolo d’Italia e, negli ultimi anni, colpito da un incontro. Con il Vange­lo, dalle parti di Comunione e libera­zione.
Per quattro legislature, a partire dal 1953, Caprara fu deputato del Pci e de­finito «il più elegante di Montecito­rio », come solo un napoletano sa (o forse sapeva) essere. A Napoli era in quel gruppo di comunisti colti, Napo­litano, Ghirelli, il regista Rosi. E a Na­poli sbarcò Togliatti, di ritorno dal­­l’Urss, marzo 1944. «Per un mese — ha raccontato Caprara a Stefano Lo­renzetto del Giornale — Togliatti non mi parlò mai di politica. Solo letteratu­ra, italiana e francese. I capi comuni­sti erano tutti figli dell’alta borghesia. Fui nominato sul campo suo segreta­rio e caporedattore di Rinascita ».
Pian piano, Caprara si immerge nel­la politica. Come segretario, è «colle­ga » di Andreotti, che affianca De Ga­speri. Andreotti nota che Caprara as­sume l’indole cospirativa di Togliatti: «Andava perdendo, foglia a foglia, la sua napoletanità, per assomigliare a un compassato giovane diplomatico della Mitteleuropa». Caprara è stato un occhio fedele, con una punta di di­sincanto, dentro le mura comuniste mondiali. Ha raccontato, ad esempio, quando fu chiamato presso l’Ufficio Quadri di Botteghe Oscure: «Abbia­mo pensato che è arrivato per te il mo­mento di sposarti — gli dissero —. La tua compagna sarà Marcella Di Fran­cesco. O sua sorella Giuliana, puoi sce­gliere ». Marcella era addetta, per To­gliatti, al telefono segreto con il Crem­lino e diventò poi signora Ferrara, ma­dre di Giuliano. Caprara si divincolò dall’impegno preso per suo conto dal partito e sposò poi — per amore — la figlia di una guardia nobile di Pio XII: «Togliatti approvò, pensava di potere avere qualche indiscrezione sui cardi­nali ».
Nel 1950 Caprara incontra Stalin nella foresta di Barvika, quando ci fu la «presentazione a corte» di Nilde Iot­ti, compagna di Togliatti: «Nilde in­dossava una pelliccia di zibellino pre­stata dal Comitato centrale, io usciii con una giacchetta. Cominciai a lacri­mare quando da un viottolo sbucò Stalin. 'Courage camarade', mi disse Stalin in francese e mi batté la mano sulla spalla. Piangevo per il gelo, lui pensò che fosse emozione. Sono uno dei pochi che hanno ingannato il Ge­nio dell’umanità e sono sopravvissu­to ».
Dopo la morte di Togliatti, Caprara comincia un altro percorso, scopre «la collaborazione del 'compagno Er­coli' ai massacri di anarchici durante la guerra di Spagna, la complicità nel­l’uccisione di Trotzkij...». Dice che «Togliatti scelse il fango, preferì la soggezione al regime sovietico alla li­bertà intellettuale». E anche: «Il comu­nismo è il disprezzo per l’uomo». A Lorenzetto, nel 2004, confida che fra i dirigenti ex comunisti quello che asso­miglia di più a Togliatti è D’Alema: «Infido. Ingrato. Concorrenziale. Uno di cui aver paura».
Caprara non rinnega: «Il mio modo di non essere più comunista non è di­ventare anticomunista, ma ascoltare e pensare». Da qui, la rotta verso la fe­de: «Il dato evidente è la bellezza di Dio» scrive in Riscoprirsi uomo. Il Vangelo, al posto di Togliatti.

Corriere della Sera 17.6.09
Restituisce allo Yad Vashem il tesoro nascosto per 60 anni
«E’ stato il regista Spielberg a consigliarmi di farlo»
di Francesco Battistini


La storia L’ebreo polacco Meyer Hack era incaricato ad Auschwitz e Dachau di spogliare dei loro averi le vittime delle camere a gas
«Ho preso il piccolo tesoro che ero riuscito a salvare e l’ho chiuso in questa cassetta. Ho aspettato il momento giusto per tirarla fuori. Questo è il momento»

GERUSALEMME — Dimentica, Meyer. Dimen­tica d’essere entrato nelle camere del Zyklon B e d’aver visto «anche una bambina nuda, una vol­ta, ed era attaccata al seno di sua mamma nuda: erano gassate tutt’e due, avevano gli occhi vuo­ti ». No, Meyer, non dimenticare nulla: il tuo gior­no della memoria è una nottata che non passa mai, conserva tutto perché non c’è photoshop che possa sbiadire quelle immagini stampate in testa. «Ho vissuto più di sessant’anni senza sape­re se fosse meglio ricordare o resettare tutto» di­ce Meyer Hack. E non sapendo bene che cosa fa­re, lui che aveva visto prima Auschwitz e poi Da­chau, ha sempre creduto che il sistema migliore fosse quello della scatola di ferro: «Ho preso il piccolo tesoro che ero riuscito a salvare, da quei poveracci, e non l’ho mai più voluto vedere né toccare. L’ho chiuso in questa cassetta. E la cas­setta l’ho nascosta in un posto che sapevo solo io. È rimasto tutto lì. Ho aspettato che arrivasse il momento giusto per tirare fuori la scatola. E donarla al Museo dell’Olocausto. Questo è il mo­mento».
È il piccolo tesoro dei morti di Auschwitz. Dia­manti, orologi, catenine, anelli, orecchini, porta­soldi. L’oro dell’Olocausto. Pezzi di vita strappa­ti al camino e che nemmeno Ahmadinejad po­trebbe negare, guardandoli. Non valgono gran­ché, al fixing. Però Meyer Hack s’è messo la cra­vatta, per mostrarli al direttore dello Yad Vashem di Gerusalemme e li ha poggiati su por­tagioie di velluto rosso. Come si fa per le cose d’un prezzo inestimabile. D’un costo immenso.
Meyer oggi vive a Boston ed è un lucido signo­re di 95 anni, cardiologo in pensione, ebreo po­lacco. Quando finì ad Auschwitz e perse mam­ma e tre fratelli, se la cavò perché s’era inventa­to d’essere un sarto. Assegnato al più fortunato e tremendo dei lavori possibili, là dentro: spo­gliare i morituri, dividere le stoffe, farne coperte o chissà che altro. «Molti nascondevano nelle fo­dere i gioielli, le cose preziose. Ma quelle non volevo consegnarle ai nazisti: le nascondevo nei calzini, sotto i mattoni. Magari un giorno avrei potuto ridarle ai parenti». Meyer accumulò. Na­scose. E riuscì a portare il piccolo tesoro anche nel secondo lager, Dachau, dove fu deportato prima che arrivassero i sovietici. Salvato, riemer­so, per qualche anno ci ha provato: «Volevo tro­vare qualcuno cui ridare quella roba. Ma era im­possibile. E ogni volta che l’avevo per le mani, stavo male per giorni». Meglio chiudere, allora, chiave e mettere via: «Anna Frank ha scritto un diario. Io mi sono tenuto tutto nel cuore. Per ses­sant’anni non ho voluto vedere più nulla».
A Yad Vashem ci sono più di ventimila ogget­ti della Shoah, recuperati dai campi di tutt’Euro­pa. Ma l’oro, le pietre, i preziosi sono una rarità. «Ogni tanto ci segnalano qualche gioiello 'so­spetto' battuto alle aste internazionali — dice Yehudit Shenhav, curatore del museo — ma sen­za foto o solide testimonianze è difficile provare la provenienza. Questo vale per le cose rubate nei rastrellamenti. È un caso unico, che ricordi del genere siano usciti addirittura da Au­schwitz ». Tre anni fa, Meyer ha visto il sito del museo. Ha pensato all’età, ripensato a quella sca­tola di ferro che stava là. E ne ha parlato con gli amici migliori. Un rabbino che ha la metà dei suoi anni e l’ha accompagnato a Gerusalemme. E poi Steven Spielberg, il regista: «Esci e raccon­ta al mondo questa storia» gli ha suggerito l’uo­mo della Schindler’s List. Il vecchio cardiologo l’ha fatto: «Avevo bisogno di dare un posto defi­nitivo a questi ricordi. Prima di darne uno al mio corpo».

Corriere della Sera 17.6.09
Bioetica. D’Agostino interviene sull’«Avvenire». «Il documento interferisce sul Parlamento, la nutrizione artificiale è un sostegno vitale»
Fine vita, i medici cattolici contro la svolta degli Ordini
di Margherita de Bac


ROMA — Respingono il ri­chiamo al «diritto mite» da ap­plicare al testamento biologico i medici cattolici. Un principio il cui rispetto da parte dei politici impegnati nella discussione del­la legge (ora alla Camera) viene ribadito con forza nel documen­to di Terni, votato dalla Fnomceo, la federazione degli Ordini provinciali dei camici bianchi. L’ostilità alle «riflessio­ni » proposte dal presidente Amedeo Bianco e dal consiglio direttivo ha preso forma e voce dopo il duro editoriale pubblica­to dall’Avvenire in cui il «diritto mite» viene contrapposto al «di­ritto giusto», visto che si parla di questioni di vita e di morte. Feroci le critiche di Francesco D’Agostino, autore dell’articolo, uno dei personaggi di peso nella bioetica cattolica: «Si sono mos­si in modo strano — spiega al Corriere —. Proclamando il dirit­to mite hanno tradito l’ideolo­gia libertaria sottostante, tipica dei radicali e di Rodotà. Di chi cioè considera la volontà sovra­na del paziente l’unico punto di riferimento. Una posizione mol­to distante dalla realtà degli ospedali». Il diritto mite dunque non equivale a un diritto giusto, secondo il filosofo della scienza, attuale presidente onorario del Comitato nazionale di bioetica: «È un concetto che fa a pugni col no all’eutanasia e il sì all’alle­anza terapeutica tra chi cura e chi è curato».
Il passaggio più contestato del documento riguarda la nutri­zione artificiale. Secondo Fnomceo è un intervento pre­scritto dai medici e va considera­to una vera terapia di cui si pos­sa domandare la sospensione nelle dichiarazioni di fine vita. A differenza di quanto previsto nella legge approvata dal Sena­to. I cattolici non ci stanno. «So­no molto perplesso — afferma Vincenzo Saraceni, fisiatra, pre­sidente dell’Associazione nazio­nale che li rappresenta —. La nu­trizione e l’idratazione sono un sostegno vitale. Mi sembra ci sia la volontà di condizionare la di­scussione in Parlamento che de­ve ancora esprimersi. Un’iniziati­va intempestiva». Lo è anche per Giancarlo Gigli, il neurologo che più si è battuto per difende­re Eluana Englaro dalle conse­guenze della sentenza con cui è stata disposta la sospensione di cibo e acqua: «Parliamoci chia­ro, il presidente Bianco e il consi­glio di presidenza hanno sposa­to la linea di Ignazio Marino (l’ex capogruppo dell’opposizio­ne in Commissione Sanità, Pd)».
Alcuni Ordini (tra i quali Bolo­gna e Milano) hanno detto no al documento di Terni. Al blocco nordista si è aggiunto Enrico Mazzeo Cicchetti, Potenza: «Il dissenso dipende dal fatto che il punto sulla nutrizione artificiale è stato scritto volutamente in modo poco chiaro». Bruno Dalla­piccola copresidente di Scienza e Vita, genetista, preferisce non addentrarsi in argomenti che esulano dal suo campo: «Perso­nalmente non avrei mai voluto una legge sul testamento biolo­gico».

Corriere della Sera 17.6.09
Truffaut L’infanzia rubata
un’intervista inedita di Radio-Canada


Un libro con un inedito
I cinquant’anni della Nouvelle Vague

A 50 anni dall’inizio della «Nouvelle Vague» e a 25 dalla morte di François Truffaut, viene pubblicato un libro (con dvd) sul grande regista francese. Il titolo è «Il ragazzo salvato», di Mario Serenellini, e contiene due interviste tv di Radio-Canada mai diffuse in Europa: la prima, dove compare anche il suo attore-feticcio Jean-Pierre Léaud, realizzata a Cannes il 4 maggio 1959 subito dopo la prima trionfale di «Les 400 coups» (premio per la regia a Cannes 1959, nomination agli Oscar per la migliore sceneggiatura originale); la seconda, al solo Truffaut, realizzata a Montreal, l’11 dicembre 1971. Ne pubblichiamo di seguito alcuni estratti riguardanti l’infanzia.

A mia madre dovevo far dimenticare che esistevo: la Francia non ama i bambini

Truffaut, lei è nato a Parigi il 6 febbra­io 1932, da padre architetto e madre segretaria dell’Illustration, ma i pri­mi anni della sua vita dove li ha tra­scorsi?
Oh! mi pare, con la balia, a destra e a sinistra, dalle nonne, una volta da quella materna, un’al­tra da quella paterna.
Crede che questo abbia segnato i suoi pri­mi anni?
Credo di sì. Soprattutto la nonna materna, che amava molto i libri. Mi portava da un libra­io dove faceva scambi di volumi e discuteva con lui dei romanzi appena usciti.
Solitario e molto chiuso: è l’immagine che si ha di lei. È perché è stato obbligato a innu­merevoli «va e vieni» e ha dovuto attaccarsi a persone differenti fin dalla prima età?
Certo, e poi mia madre non sopportava i ru­mori. O meglio, dovrei dire, per essere più preci­si: non mi sopportava. In ogni caso, dovevo far­mi dimenticare e restarmene su una sedia a leg­gere. Non avevo il diritto di giocare né di far ru­more: dovevo far dimenticare che esistevo.
E lei come reagiva?
Mah, sa, ero molto sottomesso, come quasi sempre lo sono i bambini.
Aveva amici, compagni di cui si ricorda?
Non nella prima infanzia, no, i primi amici... durante la guerra, attorno agli 11-12 anni, più o meno.
È andato a scuola a Parigi?
Abitavo dalle parti di Pigalle, in rue Hen­ri- Monnier, quel quartiere un po’ sotto Mont­martre e Pigalle, e sono andato alle materne di rue Clauzel, poi al Liceo Rollin, per i primi anni. E dopo, svariate scuole comunali, con pessime pagelle, assai tempestose dai 12-13 anni in su: bocciato, insomma, e frequenti cambi d’istitu­to.
Ma quando andava a scuola i primi anni, aveva il suo gruppo o era solo in classe?
Non riesco a ricordarmi di aver fatto parte d’un qualche gruppo. Credo di esserne rimasto sempre fuori, presto isolato per i miei gusti, per varie ragioni. Se dopo ho avuto uno o due amici è stato grazie al cinema, cioè perché li portavo al cinema, ma niente compagni di gioco, nes­sun gruppo. Non facevo parte nemmeno dei bambini che giocavano per strada, poiché non ne avevo il diritto.
Lei dice che non sa perché provasse un inte­resse così speciale e precoce per il cinema. Non pensa che fosse proprio il modo di rifug­gire da quell’ambiente che la rifiutava e che lei voleva a sua volta rifiutare?
Sì, era il «continua» dei libri. Un’evasione piuttosto bella, meglio, piuttosto forte, me la procuravano i romanzi. Leggevo romanzi per bambini ma anche i romanzi che leggeva mia madre, dunque di nascosto. Dopo ci sono stati i film. E i film rappresentavano probabilmente un’evasione ancora più forte. Come per i roman­zi, mi son messo a vedere i film di nascosto. Per esempio, i miei genitori uscivano per andare a teatro. Dieci minuti dopo, sicuro che fossero partiti, io correvo al cinema, con un senso d’an­goscia spaventoso per gli orari: avevo sempre paura che rientrassero prima di me. Perciò la se­conda metà del film era rovinata: succedeva per­sino che la paura mi facesse partire prima della fine del film, perché al loro rientro i miei genito­ri dovevano trovarmi a letto. Conservo di quel­l’epoca una grande angoscia. I film sono legati a un senso d’angoscia, a un’idea di clandestinità, la stessa che accompagnava la lettura dei libri: ma per i film era anche peggio. Succedeva a vol­te che mi portassero a vedere un film che avevo già visto. Non potevo dirlo e credo che questo mi abbia indotto il piacere di rivedere un’enor­mità di volte sempre gli stessi film.
Dice che l’età critica è a 13 anni anziché a 16. Si tende a credere che a 16 anni esplodano i problemi dell’adolescente o del bambino, mentre per lei è a 13 anni...
Sì, perché a 16 anni lavoravo già. Ho comin­ciato a 14 anni e mezzo, di fatto sono entrato nella vita adulta più presto degli altri. È per que­sto che, anche nel cinema, ho l’impressione d’es­sere un vecchio cineasta, di avere mestiere per­ché mi sembra di aver esordito prima del mio reale esordio: e infatti mi sono interessato mol­to presto a tutto. Dunque, effettivamente, per me i 13 anni sono il 1945, la fine della guerra, il cambiamento...comunque, un cambiamento che non cambiava granché.
Jean-Pierre Léaud è Antoine Doinel, è tutto il ciclo di Doinel. Come ha messo al mondo questa specie di figlio?
Quando sono stato sul punto di girare Les 400 coups, ho fatto pubblicare un annuncio sul giornale dicendo che stavo per girare un film e che cercavo un ragazzo di 13 anni: si sono pre­sentati una sessantina di ragazzi. Molti di loro hanno recitato nel film, poiché le scene in clas­se permettevano di inserire una trentina di bam­bini: non c’era dunque quell’aspetto assai crude­le dell’eliminazione. Ai bambini non dicevo che stavo cercando il protagonista, ma li sottopone­vo a una specie d’intervista tutti i giovedì: li fa­cevo tornare da un giovedì all’altro. Il trionfato­re di questi provini è stato Jean-Pierre Léaud, perché era nettamente il più forte.
Bene, ho voglia di rivolgerle quella doman­da che si sarà sentita ripetere mille volte: Les 400 coups è davvero autobiografico?
Sì, è in gran parte autobiografico, tenuto con­to del fatto che dà l’impressione di svolgersi nel 1958, perché, per un’opera prima, non avrei mai pensato di girare un film in costume e l’Oc­cupazione era ancora troppo vicina. Oggi sento che potrei fare un film sulla storia d’un ragazzi­no, d’un adolescente, durante la guerra: ci sareb­bero numerosi fatti legati al mercato nero, ai ri­fugi, ai bombardamenti su Parigi, e avrei mate­ria abbondante. Ma le avventure che attraversa Antoine Doinel in Les 400 coups sono le mie: e, devo dire, mai esagerate, anzi spesso addolcite, per ragioni di plausibilità e verosimiglianza, per­ché, in questo campo, quando si parla di un bambino infelice, si ha una grande responsabili­tà e si corre pure il rischio d’apparire irreali o troppo straordinari. Perciò il film non esagera mai.
Ma crede che nella realtà i rapporti genito­ri- figli siano sempre tanto difficili?
Si sa, ho avuto un’infanzia tutt’altro che allegra, non quel­la d’un bimbo martire o d’un fi­glio picchiato, ma quella di un bambino non amato o ignora­to: è già una bella scocciatura. Credo tuttavia che in Francia sia ordinaria amministrazione. Sento un amore per l’infanzia molto più grande, se mai, in Paesi molto poveri, a esempio in Turchia. Me ne rendo conto d’altra parte dopo la distribu­zione di Les 400 coups, che è stato un film abbastanza popo­lare all’epoca, ma non ha in­contrato dappertutto lo stesso successo. A esempio, i giappo­nesi l’hanno rifiutato perché il loro amore per l’infanzia è tan­to grande da rendere inammis­sibile il personaggio della ma­dre che non ama il figlio. E ho notato la stessa reazione in Pae­si sottosviluppati, come il Medio Oriente, dove il bambino è un reuccio, un piccolo principe.
La interessano davvero i problemi dell’in­fanzia?
Sì, perché tutto parte da lì. È molto difficile sensibilizzarmi alle storie di adulti, perché mi dico sempre che gli adulti possono oltrepassare un confine, possono forse cambiare Paese. Inve­ce, mi sento vicino alle sofferenze dei bambini, perché sino ai 14 anni subiscono senza poter fa­re nulla...Un bambino infelice resta chiuso in ca­sa, non può andarsene, mentre un adulto infeli­ce può partire.
Traduzione di Mario Serenellini (copyright Radio-Canada e dinDodo edizioni)

Liberazione 16.6.09
Non piangere, non ridere, ma capire
di Giuseppe Prestipino, filosofo ed ex dirigente del Pci


In un appello che alcuni intellettuali vorremmo rivolgere a tutte le formazioni politiche e sociali democratiche, per una linea di resistenza e di contrattacco comune, fatta salva ogni nostra salutare differenza ideale e programmatica, abbiamo scritto: «L'Europa e l'Italia sono forse tornate, pur nella diversità dei tempi e dei modi, ai sintomi della crisi culturale e politica che tra le due guerre mondiali del Novecemto partoriva il fascismo e il nazismo. E l'Italia, ancora una volta, si incammina per prima sulla strada di un razzismo che, nel secolo scorso, fu l'apice atroce di quell'asse Roma-Berlino».
Se questo timore è fondato ed è anzi certezza, anche il giudizio sul nostro risultato elettorale del 6-7 giugno non ci dichiara colpevoli, ma solo in parte ingenui o sprovveduti. Mi spiego con un paradosso e con una motivazione realistica. Il paradosso mi fa dire che, se siamo in un regime neo-fascista perché razzista, il nostro radicamento nella società può essere non trascurabile, ma è "sotterraneo": i comunisti avrebbero ottenuto più del 3, 4% se nel ventennio fascista si fossero indette elezioni generali o locali? La motivazione realistica riguarda la nostra ingenuità. Gli elettori sono sensatamente e sentimentalmente vicini ai partiti-testimonianza e ancor più ai partiti di lotta, ma in generale votano per un partito che potrebbe o vorrebbe contribuire a un programma di governo, pur se condiviso con altri. Noi eravamo "clandestini" per le pesanti censure altrui, ma anche per la nostra scelta di non aspirare, almeno nei tempi brevi, a nessuna responsabilità di governo. Siamo stati puniti per la partecipazione al governo Prodi? No, se non diamo ascolto soltanto a Ferrando e alle poche voci estremiste. Siamo stati puniti per aver tardato ad accusare quel governo di inadempienza programmatica e a trarne le doverose conseguenze. Nondimeno è vero il racconto di un giovane compagno, ascoltato mercoledi sera: mio padre è un operaio ma non vuol esserlo né vuole essere definito come tale, noi non otteniamo il voto operaio perché oggi l'operaio non considera se stesso un operaio. Vorrei precisare che se, sociologicamente, è soprattutto un consumatore, ideologicamente è nel Nord un "padano", e quindi si sente minacciato da altri operai stranieri e di razza inferiore. D'altra parte, non ci sono più confini tra la mano d'opera dipendente e quella pseudo-indipendente. Il nostro partito, pertanto, non può più dirsi un partito operaio, ma ancora e sempre più un partito del lavoro. Deve però sforzarsi di educare e mobilitare il lavoro, tutti i lavori, educandoli a reimparare la loro storia e mobilitandoli per il pane, ma anche per i sogni dell'utopia.
Anche sul terreno culturale vi sono state difficoltà oggettive e carenze soggettive. Le difficoltà oggettive derivano da un altro strano paradosso dell'Italia berlusconiana: tutti (anche i quotidiani free e le pagine di intrattenimento) scoprono che, in questa mondializzazione, se non c'è più memoria, non c'è futuro. Ma quasi tutti accusano noi comunisti per non aver perduto ogni memoria: l'imperitura memoria storica dei nostri avversari dovrebb'essere compensata dalla nostra smemoratezza. Le nostre carenze soggettive, invece, derivano dalla dissociazione tra politica e cultura. Abbiamo avuto, almeno nell'ultimo lustro, una politica estranea all'elaborazione o all'innovazione culturale e una cultura, o una sparuta e sparpagliata pattuglia di intellettuali "fiancheggiatori", senza contenuto o impatto politico: disponibile a firmare appelli, ma non più ascoltata dal partito nelle forme di quelle vecchie "commissioni scientifiche" che in passato avevano almeno la parvenza di una simbiosi tra politica e cultura. Non più ascoltata, ancora una volta, per condizioni oggettive e per scelte soggettive. Le scelte soggettive potevano sembrare obbligate, specie in momenti di grave ripiegamento elettorale (Sinistra Arcobaleno), di acceso scontro congressuale (Chianciano) e di grave, sleale o forse premeditata scissione pre-elettorale (elezioni europee), decisa da "notabili", da quadri e da militanti loro seguaci. Ma vi sono anche condizioni oggettive che spiegano il divorzio tra politica e intellettuali: la dissoluzione della figura intellettuale classica impersonata da singole individualità eccellenti e influenti, dopo l'irruzione dell'intelligenza organizzata mediaticamente e della sua generalizzata dipendenza dalla, gerarchicamente superiore, intelligenza privata di una grande impresa, perciò divenuta capace di fare politica facendo cultura (o incultura) di massa. Ho detto in altra occasione che in Italia c'è incultura politica perché ci sono molti partiti di fugace opinione emarginati da un unico grande partito organizzato e di massa: dal nuovo partito mediatico che fa anch'esso, di questo paese incolto, l'insediamento di un regime monopartitico.
L'incultura dei due pesi e due misure continua dopo le elezioni. Intellettuali di sinistra anche valorosi (come Dal Lago) scrivono o fanno capire sul manifesto : io non ho votato per nessuno e mi sono astenuto, per poter poi accusare tutte le sinistre di non aver raggiunto il quorum. Come dire, con una logica infallibile: avevamo ragione, non votando, di prevedere che non avrebbero avuto il nostro voto. Peraltro, il manifesto aveva esordito, nella sua campagna elettorale, raccomandando l'astensione di tutte le sinistre dalla tornata elettorale, poco dopo aveva sperato in un'unica lista e infine quel "quotidiano comunista" aveva appoggiato le due sinistre con un occhio di riguardo per quella separatasi dai comunisti e alleatasi con i craxiani. Dopo le elezioni il grido di dolore, spiace dirlo, anche di Rossanda: dimettetevi tutti, siete tutti incapaci, fuor che di restare inchiodati alle poltrone. Quali poltrone? Vedo quelle di un governatore di tutte le Puglie e dintorni, non ne vedo in un partito che (forse sbagliando i suoi calcoli elettorali) non ha più voglia di governare nazioni o regioni. La logica è andata a farsi benedire anche per giornalisti e studiosi intelligenti, se pari sono nel cattivo risultato elettorale i comunisti non pentiti e i convertiti passati, alla vigilia delle elezioni, ad altri liti e ad altre congiunzioni di astri mal consigliate dagli oroscopi mendaci. Non sapevo che la ferita fosse colpevole quanto il pugnale.

Repubblica Firenze 17.6.09
Votare Renzi? Sì, no, ni... sinistra divisa al ballottaggio
di Massimo Vanni


Ginsborg sì, De Zordo e Prc no, Soldani incerta
C´è anche chi dice che andrà a votare ma deciderà solo all’ultimo momento che cosa fare

Votare Renzi o non votare proprio? Di fronte al ballottaggio di domenica prossima, la sinistra fiorentina conferma tutte le sue incertezze e divisioni. Ma questa volta lo storico Paul Ginsborg spazza via gli indugi: «Vado a votare per il ballottaggio e voto per Matteo Renzi», annuncia. Una scelta tanto più netta quanto più distante da quella di Ornella De Zordo, entrata in politica al suo fianco e convinta invece di disertare le urne.
Perché Renzi? «Quando si va oltre il primo turno però si semplifica fra destra e sinistra e io sono un uomo di sinistra», dice lo storico spiegando che al seggio non ritirerà invece le schede sul referendum. «Certo non vorrei che diventasse sindaco un berlusconiano come Galli», aggiunge.
De Zordo però tiene duro: «Ci sono più di 30.000 voti di distanza tra Renzi e Galli, l´esito è scontato: una parte del Pd ha deciso di farla pagare a Renzi ma la vittoria è sicura e noi non andiamo». Una posizione tutt´altro che isolata, in una sinistra al solito tormentata. Una sinistra che spesso trova motivazioni nella logica dei numeri: se anche Renzi riportasse alle urne solo i suoi, l´abbassamento del quorum determinato dall´astensione degli altri lo spingerebbe oltre il 50. Eppure lo stesso Renzi ha fatto affiggere in questi ultimi giorni manifesti con i simboli dei partiti: un messaggio rassicurante per la sinistra.
«Naturale che voterei Renzi, sempre meglio il Pd che il Pdl: non l´ho mai incontrato ma a Firenze un sindaco del Pdl sarebbe il colmo», dice una fiorentina in trasferta come Margherita Hack, candidata alle europee con i comunisti. «Andate a votare e votate Pd, anche se a Renzi ho da rimproverare molte cose, a cominciare dal fatto che dovrebbe passare un po´ meno tempo a venerare se stesso», dice il senatore Furio Colombo che al primo turno aveva supportato Valdo Spini. E proprio lo schieramento di Spini sembra il più tormentato.
«Non voterò, Renzi ha i numeri per vincere e se non ce li ha non c´è ragione perché lo si sostenga», dice Anna Nocentini di Rifondazione. «C´è la comunicazione dal partito, ci asteniamo», dice il comunista Lorenzo Marzullo. «Voterò scheda bianca», annuncia Corraudo Mauceri della Sinistra per la Costituzione. Anna Soldani, che ne è stata capolista: «Il voto è segreto, abbiamo lavorato per il terzo polo della sinistra, né con Renzi né con Galli». Simone Aiazzi dei Repubblicani europei non ha ancora deciso: «Ma andrò a votare, Renzi ha l´opportunità di fare di Firenze un laboratorio politico». Anche il verde Tommaso Grassi, lo spiniano eletto ci andrà: «Ma non dico per chi». Indeciso il fronte dei comitati di Mario Bencivenni: «Sul progetto di città Renzi e Galli si equivalgono». Nel Pd, invece, pistelliani e la sinistra interna chiedono di votare per Renzi.

Terra 16.6.09
Nel volto di Simone il segreto di Modigliani
di Simona Maggiorelli


La figura scultorea, allungata, elegante come quella di Jeanne e delle altre donne, amiche o amanti, che Amedeo Modigliani ritrasse nel corso della sua breve e fulminante parabola artistica nella Parigi delle avanguardie storiche del primo Novecento. Ma a ben guardare qualcosa di sottilmente diverso si adombra in questa fragile immagine di donna. Il collo di Simone è così sottile che sembra quasi incurvarsi. Mentre il volto appare diafano, al punto da sembrare evanescente. Come in un effetto fading. O piuttosto come se l’ovale della donna apparisse sfocato, in lontananza. Qualcuno rispetto a questo quadro intitolato Jeune femme à la guimpe blanche - e da oggi per la prima volta esposto in Italia, nell’ex convento dei padri Agostiniani a Roma - ha parlato di “non finito”. Anche per la pennellata rapida, quasi nervosa con cui fu realizzato. Ma l’intenzione esplicita di Modigliani di dare una diversa curvatura alla rappresentazione, sembra invece testimoniata anche dalla scelta di un pigmento pittorico diverso da quello che ritroviamo nei suoi ritratti più noti (dove di solito il pigmento è più marcato).
La tentazione, se ricolleghiamo questo quadro alla vicenda biografica che c’era dietro, sarebbe di leggerlo come un’anticipazione della secca e improvvisa separazione che avvenne fra l’artista e la donna rappresentata. La ragazza si chiamava Simone Thirioux ed era un giovane medico in corso di specializzazione. Con questa donna franco-canadese, conosciuta per caso, una sera del 1916 in un bistrot di Montparnasse, Modì ebbe una relazione intensa ma che non durò più di due settimane. Simone rimase incinta e decise di tenere il bambino. Ma quando nacque Gérard, Modì non volle riconoscerlo. Con Simone non si sarebbero più rivisti. Ma entrambi sarebbero andati incontro alla stessa morte, prematura, per tubercolosi. Amedeo Modigliani nel 1920 e Simone un anno dopo.
Una storia tragica che oggi, soprattutto in relazione al fatto che Modì non volle mai conoscere il bambino, fa dire a Massimo Riposati, vice direttore del Modigliani Institut di Roma e curatore dell’evento: «Si nota come all’interno del genio si coltivino anche elementi di negatività. Spesso l’artista è sacrificato e sacrificante, vittima e carnefice. E questo esprime in qualche modo un atto di crudeltà che completa la complessità del carattere di Modigliani». La miseria, le difficoltà, poi la malattia, forse impedirono questo incontro, ma il pensiero che il curatore della mostra Modigliani. Un amore segreto (dal 15 al 22 giugno a Roma) affida al catalogo è più complesso e allude anche a quel narcisismo, a quella assoluta testardaggine che, per realizzarsi come artista, Modì mise in ogni aspetto della sua vita. Arrivato a Parigi nel 1908 da una Livorno ancora macchiaiola, attardata e provinciale, come ricorda Claudio Strinati, Modì aveva in tasca solo due libri: la Commedia di Dante e Così parlò Zarathustra di Nietzsche. Ma già aveva in sé una personale visione riguardo all’arte. Che prese forma concreta rapidamente in una straordinaria serie di ritratti e di sculture in cui le suggestioni dell’arte primitiva, il cubismo di Picasso e le forme primordiali di Brancusi trovavano echi e una originale rilettura. Quali opere può aver visto Modigliani a Parigi, fra il 1908 e il 1913? Annota Strinati nel suo breve, intenso, scritto che accompagna l’esposizione romana. «Può aver visto, per esempio, opere di Picasso e Derain, ma la sua opera resterà vicina al suo modo di esprimere i volumi.Il segno forte, inciso e slanciato del disegno preparatorio è essenzialmente quello dello scultore e le linee di forza lo definiscono ancora meglio».

martedì 16 giugno 2009

l’Unità 16.6.09
Intervista a Farian Sabahi
«Nei suoi veri piani le elezioni del 2013»
di GA.B.


Farian Sabahi, iraniana, insegna storia dei Paesi islamici all’università di Torino. Le chiediamo di aiutarci a capire cosa stia accadendo a Teheran.
La situazione pare in continua evoluzione. Che sbocchi può avere il movimento di protesta secondo lei?
«Essendo una storica di professione, preferisco non ipotizzare scenari futuri. Una cosa mi pare evidente. L’esito del voto non si spiega solo con i brogli. Mentre la campagna elettorale di Mousavi è durata tre settimane, quella di Ahmadinejad è andata avanti per più di tre anni, durante i quali ha elargito a destra e a manca, incrementando del 50% le pensione e del 30% gli stipendi degli insegnanti. Inoltre 22 milioni di cittadini in più hanno ottenuto l’assistenza sanitaria gratuita. Tutto ciò gli ha guadagnato consensi, anche se ha provocato la crescita di inflazione e disoccupazione. Le proteste sono sincere, ma esiste anche un altro Iran, al di fuori della capitale, che spesso non viene considerato. Ci sono 4 milioni di nomadi la cui scelta elettorale non è un fatto individuale. E quando tu vedi il presidente che si sporca le scarpe di polvere per andare nei villaggi a stringere le mani dei tuoi capi, questo basta a orientare il tuo voto».
Lasciamo stare il futuro allora. Cosa sta accadendo oggi ai vertici del potere in Iran?
«Un fenomeno interessante è la frattura avvenuta all’interno del sistema istituzionale della Repubblica islamica. La propaganda di Ahmadinejad ha preso di mira figure di spicco dell’élite politico-religiosa. Le accuse di corruzione hanno messo in serio imbarazzo il candidato riformatore Karroubi, la terza carica dello Stato Rafsanjani, grande sponsor di Mousavi, e altri ancora, senza escludere personaggi vicini alla Guida suprema Khamenei. Si è frantumata la coesione e l’omertà interna all’establishment. Il blocco di forze che fa capo ai Pasdaran è emerso sempre più distinto ed autonomo rispetto agli altri centri di potere».
Si può allora ipotizzare che Mousavi, nel chiedere l’annullamento delle elezioni, punti soprattutto a stabilire un legame fra il movimento di cui è in questo momento leader e settori importanti dell’élite religiosa? Pur sapendo che il voto non sarà invalidato, cerca di rafforzare le basi dell’opposizione che si candida a guidare nei prossimi anni?
«Si forse sta appunto pensando alle presidenziali del 2013 e non all’irrealistica ipotesi di ripetere quelle appena svolte. È possibile che, come lei dice, tenti di approfittare della divisioni fra clero e Pasdaran. Ma Mousavi per 20 anni è stato ai margini della politica. Non vediamo in lui un raffinato stratega, un Andreotti iraniano. Lo stesso Khatami, che sta dalla sua parte, viene spesso sopravvalutato. La sua natura di riformatore è discutibile. Lo è forse per gli standard iraniani, così come un conservatore del calibro di Rafsanjani, in contrapposizione ad Ahmadinejad, è stato etichettato come moderato pragmatico».

l’Unità 16.6.09
Il destino di un Paese e le due facce di Ahmadinejad
Ho incontrato il Buono e il Cattivo: da un lato elargisce i noti sorrisi
da umile lavoratore, dall’altro eccita la folla e imbavaglia la stampa
di Robert Fisk


Domenica a Teheran è stata una giornata surreale, infausta, una giornata di giornali censurati e di parole e minacce sussurrate contro l’oppositore politico di Mahmoud Ahmadinejad, Mousavi. (...)Una giornata piena di poliziotti in borghese, di posti di blocco e di manifestazioni di sostegno del governo. Non ci sarà un’altra rivoluzione in Iran. Ma questa non è la democrazia promessa da Ahmadinejad.
Abbiamo incontrato Ahmadinejad il Buono che ci ha fatto la predica nel corso di una conferenza stampa, che sembrava un set cinematografico, parlando del nobile, compassionevole, dignitoso e intelligente popolo iraniano. Ma abbiamo incontrato anche Ahmadinejad il Cattivo che ha giurato dinanzi a migliaia di sostenitori urlanti che avrebbe fatto i nomi dei «corrotti» che si sono schierati contro di lui in occasione delle elezioni. Non sono ancora certo di aver incontrato il presidente Ahmadinejad sempre che si sia disposti a credere a quel 63,62% che sostiene di aver ottenuto. Come giudicare un uomo che per ben cinque volte parla delle elezioni presidenziali paragonandole ad una partita di calcio e che poi – dinanzi a noi tutti - con un filo di voce e con il più gentile dei sorrisi lancia a Mousavi un terribile avvertimento? «Dopo una partita di calcio capita che qualcuno pensi che la sua squadra doveva vincere, dopo di che esce dallo stadio, sale in auto, passa con il rosso e viene multato dalla polizia. Non ha avuto la pazienza di aspettare il verde. Non mi fa piacere che ci sia qualcuno che ignora il semaforo rosso». Abbiamo trattenuto tutti il respiro. Poco meno di due ore dopo, dinanzi a migliaia di persone a piazza Val-y-Asr, abbiamo visto Ahmadinejad il Cattivo. «Ci accusano di essere bugiardi e corrotti», urlava. «Sono loro i corrotti. Nella mia qualità di presidente farò i loro nomi...». La folla rumoreggiava in segno di assenso. Non c’era da stupirsene. (...) La giornata è cominciata male con l’ennesima dichiarazione pericolosa del comandante della polizia di Teheran, Bahram Radan. «Abbiamo individuato abitazioni che fungono da basi di criminali politici». (...) Poi c’è stata la prima pagina del quotidiano «Etemate Melli» –Fiducia Nazionale– che appartiene ad un altro dei nemici di Ahmadinejad, Mehdi Karoubi. In cima alla prima pagina figuravano i risultati elettorali e sotto una didascalia: «Sui risultati elettorali, Mehdi Karoubi e Mousavi hanno rilasciato dichiarazioni che non possiamo pubblicare». Sotto la pagina era volutamente bianca. (...) E per far capire come stavano le cose a pagina 2 del giornale una fotografia grande come un francobollo di agenti della polizia di Teheran che correvano in una strada con due spaventose didascalie. «La polizia per la Sicurezza Pubblica ha rilasciato una dichiarazione secondo cui qualunque tipo di assembramento, dimostrazione o celebrazione non autorizzati sono da considerare vietati. Ogni assembramento è illegale e a pagarne le conseguenze saranno i candidati e i responsabili della loro campagna elettorale». Sapevamo cosa significava, tanto che ci siamo recati alla conferenza stampa di Ahmadinejad con la convinzione che ci sarebbero state altre minacce. Così è stato.
Ahmadinejad era seduto dietro una miriade di rose bianche e rosse con le spalle rivolte ad un poster che ritraeva una montagna incappucciata di neve, con la bandiera iraniana davanti a lui, la giacca alla Humphrey Bogart aperta e il suo caratteristico sorriso – il sorriso da Nazioni Unite, da Cnn, da umile lavoratore, da sportivo, da uomo saggio, insomma quello che conosciamo tutti – e la consueta barba non rasata. (...) «Nei Paesi a democrazia liberale, il popolo viene espulso dal sistema e i professionisti si impadroniscono del potere, ma in Iran la democrazia si fonda sull’etica». È andata avanti così per un bel pezzo. (...) «Gli iraniani detestano le menzogne e sono contenti del loro destino...ma ci opponiamo ai prepotenti e all’arroganza…. Gli iraniani non si faranno mai spaventare dalle minacce», ha proseguito. Chiaramente Ahmadinejad aveva letto il discorso di Barack Obama al Cairo – tanto da sembrare a momenti la grottesca parodia del presidente americano. (...) Il discorso sembrava interminabile. Democrazia, etica, valori umani, stato sociale, fiducia, rispetto reciproco, giustizia, correttezza….. Di tanto in tanto sembrava una versione aggiornata della Repubblica di Platone con l’improbabile re-filosofo dietro le rose bianche e rosse. Ma c’era anche l’incomprensibile rifiuto di fare i conti con la realtà. Quando ho chiesto ad Ahmadinejad il Buono se ricordava la giovane iraniana trascinata urlante al patibolo qualche settimana prima mentre implorava la madre al cellulare di salvarle la vita qualche secondo prima che la corda le spezzasse il collo, e se era in grado di garantire che una simile atrocità non si sarebbe mai più ripetuta nella Repubblica Islamica dell’Iran, si è avventurato in una esegesi del sistema giuridico iraniano. «Sono contrario alla pena capitale», ha replicato. «Non vorrei ammazzare nemmeno una mosca. Ma la magistratura in Iran è indipendente». E poi ha promesso che avrebbe chiesto al sistema giudiziario di rendere meno severe le pene e ha aggiunto che, a suo giudizio, ai giudici iraniani avrebbe fatto bene avviare un «dialogo» con i giudici americani ed europei. Ma la giovane donna giustiziata in maniera così crudele – per un reato che potrebbe non aver commesso – non figurava nemmeno indirettamente nella sua risposta. Eppure non era una mosca. Il suo destino era stato deciso dal compassionevole Iran di Ahmadinejad. E non era una mosca nemmeno Mousavi quando Christiane Amanpour della Cnn ha chiesto ad Ahmadinejad il Buono garanzie sulla sua vita e su quella dei suoi sostenitori. Sulle prime nessuna risposta. Amanpour ha ripetuto la domanda. «Forse a causa della traduzione mi è sfuggito qualcosa», ha detto sarcasticamente. «Forse le è sfuggito il fatto che l’interprete le ha detto che non poteva fare una seconda domanda», ha replicato Ahmadinejad. «No – ha aggiunto l’imperturbabile Amanpour – questa non è una seconda domanda. Le sto semplicemente ripetendo la prima!». Del tutto inutile, ovviamente. (...). Quindi: guerra o pace? Dipende se abbiamo a che fare con Ahmadinejad il Buono o con Ahmadinejad il cattivo, suppongo.
© The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Repubblica 16.6.09
Il muro dei pasdaran
di Bernardo Valli


La decisione di affidare al Consiglio dei guardiani il giudizio sulla validità del voto significa che al vertice è in corso uno scontro
Dietro il presidente ultraconservatore ci sono troppe forze e troppi interessi, radicatisi negli ultimi quattro anni, che adesso si sentono minacciati

Ogni quindici minuti, puntuale, insistente, la radio ufficiale informa gli iraniani che la Guida suprema, l´ayatollah Ali Khamenei, ha accolto la domanda dell´opposizione e ha autorizzato un´inchiesta sul contestato voto del 12 giugno.
Vale a dire sulla validità della rielezione di Mahmud Ahmadinejad alla Presidenza della Repubblica. Questo non significa che la Guida suprema si rimangia la dichiarazione, con la quale, quando era ancora in corso il conteggio, sabato sera, ha confermato il risultato ufficiale, definendo una «festa» la vittoria di Ahmadinejad. Egli è pero´ stato costretto ad accettare il ricorso di Mir Hussein Moussavi, il leader sconfitto ufficialmente ma non rassegnato. La decisione di affidare al Consiglio dei guardiani, incaricato di vagliare la pertinenza di ciò che avviene nella società politica, il giudizio sulla validità o meno del voto, significa che un acceso scontro è in corso al vertice della Repubblica islamica. Ne è del resto una prova il fatto stesso che la grande manifestazione dei sostenitori di Moussavi si sia svolta nel centro di Teheran, nonostante il divieto del Ministero degli Interni, con incidenti non tanto gravi rispetto alla posta in gioco. E in gioco c´è l´avvenire stesso della "rivoluzione"; non la sua sopravvivenza, ma la sua natura; vale a dire la svolta riformista, modernizzatrice che Moussavi vorrebbe imporle, e che Ahmadinejad invece rifiuta.
Appare assai improbabile che il Consiglio dei Guardiani sconfessi Ahmadinejad e rimandi gli iraniani alle urne. Dietro il presidente ultraconservatore ci sono troppe forze e troppi interessi che si sentono minacciati. Forze e interessi radicatisi negli ultimi quattro anni, durante il mandato di Ahmadinejad, ed ora messi in discussione dai leaders riformisti, il cui avvento al governo cambierebbe la faccia della Repubblica islamica. Sia per quanto riguarda la società (maggiore autonomia del potere politico rispetto al potere religioso, sia pur senza venir meno ai principi islamici); sia per quanto riguarda i rapporti con il resto del mondo. E questi ultimi costituiscono un problema cruciale, poiché c´è la "mano tesa" di Barack Obama.
A sentirsi minacciate sono tutte le forze militari e paramilitari, e con loro la non tanto invisibile ragnatela dei servizi segreti, che Ahmadinejad ha colmato di poteri e privilegi, compresi quelli economici. Poteri e privilegi destinati ad essere ridimensionati dalle riforme promesse da Moussavi e dall´apertura verso il mondo esterno, implicita nel discorso di quelli che Ahmadinejad chiama con disprezzo i «liberali». La devozione formale di Ahmadinejad nei confronti della Guida suprema e la fretta con la quale l´ayatollah Khamenei ha manifestato la sua gioia per la riconferma del tanto devoto presidente, rivelano con chiarezza la preferenza del potere clericale.
Anche se gli alti prelati sono tutt´altro che compatti nel giudicare gli avvenimenti. Le lotte intestine, di natura teologica o di prestigio, sono numerose e profonde. E non è sempre facile distinguere i conservatori dai riformisti. Un conservatore pragmatico, come l´ex presidente Rafsanjani, uno degli uomini più ricchi dell´Iran, è schierato con Mir Hussein Moussavi. E´ favorevole a un´apertura all´America, e quindi contrario all´aggressiva intransigenza di Ahmadinejad nei confronti dell´Occidente. Ahmadinejad replica denunciando l´affarismo di Rafsanjani, e dichiarandosi «l´amico dei poveri pronto a tagliare le mani dei corrotti». Se l´elettorato di Moussavi è costituito in particolare dalle classi medie, quelle urbane, dai professionisti e dagli studenti; Ahmadinejad raccoglie la maggioranza dei consensi negli ambienti popolari e rurali. Oltre ad avere dietro di sé le formazioni paramilitari e molte moschee.
La storia trentennale della Repubblica islamica è ricca di crisi, spesso simili a colpi di Stato. Nel giugno ‘81, quando la Repubblica aveva poco più di due anni, ci fu l´impeachment di Banisadr, il primo presidente della Repubblica, che fuggi dall´Iran clandestinamente e si rifugiò in Francia. Più tardi, nell´aprile ‘82, fu messo sotto accusa Sadegh Ghotbzadeh, stretto collaboratore di Khomeini durante l´esilio e ministro degli esteri. Ritenuto colpevole di un complotto contro il fondatore della Repubblica, Ghotbzadeh fu giustiziato sommariamente, secondo le spicciative regole dell´epoca.
Più clamoroso fu l´affare Montazeri. Celebre ayatollah, designato come successore di Khomeini, Montazeri oso´ criticare apertamente le esecuzioni di massa avvenute alla fine della guerra con l´Iraq, nel 1989, e definì vergognosa la fatwa (equivalente a una condanna a morte) lanciata contro lo scrittore Salman Rushdie. «Nel mondo si fa strada l´idea che la nostra principale occupazione sia quella di ammazzare la gente», disse Montazeri. E Khomeini non glielo perdonò. Lo destituì come successore designato, e indico´ al suo posto Ali Khamenei, oggi il principale sostenitore di Ahmadinejad.

Corriere della Sera 16.6.09
Intervista. Per l’ex ministra Afkhami «è stata una truffa: computer programmati per dare il 60% al presidente»
«E’ una rivoluzione, la guidano donne e blogger»
di Alessandra Farkas


NEW YORK — «Stiamo assistendo a quella che potrebbe diventare la prima rivoluzione guidata da Internet della storia». Mahnaz Afkhami, scrittrice, attivista ed ex-ministra iraniana per gli Affari delle donne prima della rivoluzione khomeinista, non esclude che il regime degli ayatollah sia in procinto di cadere.
«Anch’io, come la maggior parte degli iraniani, giudico queste elezioni una truffa — spiega —. Hanno programmato i computer per dare il 60% ad Ahmadinejad e il 30% a Mousavi, persino nelle città dove quest’ultimo stravinceva nei sondaggi. Un trucco fin troppo trasparente».
Che cosa le fa pensare che si tratti proprio di una rivoluzione?
«La convergenza di molti fattori nuovissimi. Pri­ma d’ora non avevamo mai assistito a liti tanto pub­bliche ai vertici delle elite al potere in Iran. E per la prima volta è il popolo a guidare i propri leader e non viceversa».
Cosa intende dire?
«Dopo la sconfitta, Mousavi aveva esortato i suoi elettori a una calma rinunciataria, ma questi l’han­no spinto a rialzare i toni, rimettendo tutto in di­scussione. Oggi in Iran la piazza si muove più velo­cemente dei propri leader».
Come lo spiega?
«L’Iran, dove il 70% della popolazione ha meno di 30 anni, è una nazione di cibernauti che sta gui­dando questa nuova rivoluzione con Twitter, You- Tube e Facebook. Che sono mille volte più avanti dei media internazionali nel raccontare cosa accade nel Paese. Non dimentichiamoci poi che tra i blog­ger più agguerriti ci sono molte donne».
Che impatto possono avere tra le classi meno abbienti?
«Enorme. Il loro è un movimento, più che un par­tito politico, un network con milioni di simpatiz­zanti che hanno organizzato una capillare campa­gna porta a porta, raggiungendo casalinghe, parruc­chiere e sarte. Sono state le donne, che alle ultime elezioni si erano astenute, a spingere il conservato­re Mousavi verso posizioni più progressiste, sce­gliendolo astutamente come il loro candidato solo perché aveva più chance di vittoria».

il Riformista 16.6.09
«Il despota ha rubato le elezioni»
Faezeh Hashemi. Intervista esclusiva con la figlia di Rafsanjani, il più potente rivale di ahmadinejad. «Mio padre non si dimette, non scapperemo... perchè abbiamo vinto». E tramite il Riformista lancia un appello all'Italia


Teheran. I leader riformisti sono agli arresti o barricati in casa. Subiscono con sempre maggiore frequenza minacce e violenze. Faezeh Hashemi, Presidente della "Federazione Islamica delle donne dello sport" e figlia dell'ex Presidente Hashemi Rafsanjani nonostante questo ha accettato di essere intervistata dal Riformista e da RadioRadicale. La sua famiglia è stata attaccata con forza da Ahmadinejad in campagna elettorale e dopo l'esito del voto, il presidente ha promesso alla gente che sarà lui in persona ad occuparsi dei nemici interni dell'Iran. Hashemi Rafsanjani è considerato dal regime il grande stratega delle proteste di questi giorni e si parla con sempre più insistenza di un immediato regolamento di conti nel Paese.
Cosa prova in queste ore. Ahmadinejad sarà ancora per quattro anni il vostro Presidente della Repubblica?
Ho un brutto presentimento. Da iraniana mi preoccupo per la mia gente, che dopo una campagna elettorale così appassionata, ora si trova ad avere al governo un presidente che non ha svolto bene la sua funzione nel suo mandato. Se il signor Ahmadinejad intenderà continuare con i suoi programmi prepariamoci ad una vera e propria tragedia per il Paese.
Mousavi pur avendo condotto una campagna elettorale attenta ai valori istituzionali, dopo la proclamazione di Ahmadinejad, ha contestato i risultati chiedendo formalmente al Consiglio dei Guardiani l'annullamento delle elezioni per brogli. Cosa ha da dire su questo?
Per quanto riguarda il voto, concordo completamente con l'ingegner Mousavi e il dottor Karoubi. Ci sono state gravi irregolarità nella raccolta e poi nel conteggio dei voti. Vorrei tramite il vostro giornale porre delle domande al governo. Dicono che i voti non sono stati manipolati e allora perché i badge per accedere ai seggi sono state rilasciate con grave ritardo agli osservatori del voto per conto di Mousavi e Karoubi? Perché ad alcuni di loro il badge non è stato proprio rilasciato? Perché alcuni osservatori sono stati allontanati dai seggi al momento della conta dei voti? Perché a tanta gente che doveva votare, in coda da ore, non è stata data questa possibilità chiudendo le porte dei seggi, mentre sono state stampate 57 milioni di tessere elettorali su 46,2 milioni di aventi diritto al voto? Per quale motivo hanno attaccato e saccheggiato il comitato elettorale di Mousavi? Perché hanno oscurato tutti i siti riformisti e isolato tutti i telefoni? Tutto questo è stato pianificato per tempo, l'obiettivo da raggiungere era far totalizzare ad Ahmadinejad il 60% di voti. Quei voti appartenevano a Mousavi. Lui doveva essere eletto.
Si è diffusa la notizia che suo padre Hashemi Rafsanjani avrebbe l'intenzione di dimettersi da tutte le cariche...
Non è assolutamente vero…mio padre non si dimetterà. Se è per questo si è anche detto che sarei scappata dall'Iran. Posso confermarle che sono di fronte a lei.
Ha sentito suo padre? Qual è il suo stato d'animo?
Certo…è mortificato per quanto accaduto. Lui ha invitato più volte la gente ad esercitare il proprio diritto di voto. Aveva detto loro: «Abbiamo bisogno di ognuno dei vostri voti, sono necessari e preziosi». La gente ha risposto, ha fatto il suo dovere, ma non è servito a nulla. Mio padre, come tutti noi, prova un grande scrupolo di coscienza nei loro confronti.
Proseguono le proteste dei giovani iraniani e i pestaggi della polizia. Si incontrano per strada ragazzi tristi e angosciati. Il "sogno verde" è già finito?
Sono con il popolo iraniano. Ha votato e ora ha il legittimo diritto di sapere cosa è stato fatto dei loro voti. Sono tristi perché defraudati. Trent'anni fa con la rivoluzione abbiamo combattuto per la libertà e i nostri diritti. In Iran oggi non c'è democrazia e la gente fa bene a scendere per strada e urlarlo.
Il risultato di queste elezioni potrebbe isolare completamente l'Iran dalla comunità internazionale, proprio quando, con le aperture di Obama, sembravano essersi aperte nuove prospettive. Quale sarà la strategia dei riformisti per l'immediato futuro del Paese?
Il contributo dell'opposizione per il futuro dell'Iran è orami totalmente inutile. Non siamo più assolutamente in grado di poter operare per il futuro del Paese. Il miglioramento delle condizioni economiche, i diritti umani, la condizione della donna, tutte le nostre battaglie sono da oggi impossibili.
Esiste un rapporto particolare tra l'Iran e l'Italia, culturale ed economico. Cosa vuol dire ai lettori italiani che in queste ore stanno seguendo con tanto coinvolgimento le sorti del popolo iraniano?
Viviamo in una situazione così drammatica che…non possiamo neanche esprimerci come vorremmo. Vorrei solo dire agli italiani, tramite il vostro giornale, che se Ahmadinejad proseguirà nella stessa politica estera degli ultimi quattro anni, tutto quello che potrebbe accadere dal giorno dopo, non è la volontà della maggioranza degli iraniani. Non dimenticatelo….

l’Unità 16.6.09
«Ma quali aperture. Così Netanyahu uccide la pace»
Il portavoce di Abu Mazen: «Nei suoi progetti la Palestina sembra una riserva dipendente da Israele. Vuole costringere l’Anp a rompere»
Intervista a Nabil Abu Rudeina di Umberto De Giovannangeli


Il suo volto divenne famoso in tutto il mondo nei giorni dell’assedio alla Muqata da parte dell’esercito israeliano. Lui, Nabil Abu Rudeina, compariva sempre a fianco di Yasser Arafat, del quale era molto più di un portavoce: era il collaboratore più stretto, un amico fidato. Oggi, Abu Rudeina è portavoce del presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen). L’Unità lo ha intervistato il giorno dopo il discorso del premier israeliano, Benjamin Netanyahu. «Le proposte avanzate da Netanyahu - ribadisce il portavoce presidenziale - rappresentano un siluro contro le iniziative di pace».
La Casa Bianca ha giudicato il discorso di Benjamin Netanyahu un importante passo in avanti...
«Comprendiamo la necessità del presidente Obama di non entrare in rotta di collisione con un Paese alleato, ma nel merito delle cose dette e di ciò che è stato omesso, il discorso del primo ministro israeliano è un siluro contro il processo di pace...».
Un’affermazione molto pesante. Netanyahu ha finalmente parlato di uno Stato palestinese...
«Ma ha messo tali e tanti paletti di rendere quell’affermazione vuota di contenuti reali...».
Netanyahu parla di uno Stato palestinese smilitarizzato.
«Non è questo il punto dirimente. Il punto è che l’idea che Netanyahu ha di uno “Stato” palestinese, è molto simile ad una riserva, totalmente dipendente da Israele, con confini aleatori. Francamente mi pare davvero eccessivo giudicare un importante passo avanti il solo riferimento ad uno Stato palestinese; un riferimento, è bene ricordarlo, che è già contenuto in quella Road Map (il Tracciato di pace del Quartetto - Onu, Russia, Usa, Ue - per il Medio Oriente, ndr.) che il primo ministro israeliano ha detto di voler assumere. Le nostre richieste principali sono la fine dell’occupazione, il problema dei profughi e quello degli insediamenti, il resto sono dettagli che possono essere risolti con il negoziato».
Nel suo discorso, Netanyahu ha parlato di Gerusalemme...
«Ribadendo che resterà l’eterna e indivisibile capitale dello Stato d’Israele. Dunque, lo status di Gerusalemme è per Netanyahu materia non negoziabile. Ora, nessun dirigente palestinese, nessun leader arabo, neanche il più disponibile al compromesso, potrebbe mai sottoscrivere un accordo di pace che non contemplasse una condivisione di Gerusalemme come capitale di due Stati. La verità è un’altra...».
E quale sarebbe questa verità vista da Ramallah?
«Dopo l’importante discorso pronunciato al Cairo dal presidente Obama, Netanyahu non poteva continuare a porsi su un terreno di scontro frontale con gli Stati Uniti. Doveva “concedere” qualcosa. In termini verbali. Ma nel farlo, ha posto tali e tante condizioni da aver reso chiaro il suo gioco: costringere i palestinesi a chiamarsi fuori dal negoziato».
Qual è la risposta dell’Anp?
«Quella che Abu Mazen ha ribadito al presidente Obama nel loro incontro alla Casa Bianca: siamo pronti a riprendere da subito il percorso di pace ma nella chiarezza degli intenti da ambedue le parti...».
Netanyahu è stato chiaro...
«Sulla strada da lui indicata non arriveremo mai alla pace, le parole di Netanyahu sabotano tutti gli sforzi, in aperta sfida alle posizioni dei palestinesi, del mondo arabo e degli Stati Uniti».
Gli Stati Uniti, vale a dire Barack Obama.
«Mai come oggi è decisiva la sua determinazione a esercitare un ruolo di super partes attiva. Il che significa, ad esempio, ricordare a Netanyahu che dovrebbe rispettare la Road Map, in cui Israele tra l’altro si è impegnato a congelare gli insediamenti».
All’Anp, Netanyahu chiede il riconoscimento d’Israele come Stato ebraico.
«In Israele vivono oltre un milione di cittadini arabi. Come ci si può chiedere di cancellare la loro identità?»

il Riformista 16.6.09
Israele. Tamir Shaefer dell'università di Gerusalemme commenta l'ultimo discorso di Netanyahu
«Bibi non dice nulla di nuovo, anzi...»
di Anna Momigliano


«È stato un discorso importante, ma di discorsi importanti la storia del conflitto arabo-israeliano è piena fin sopra ai capelli, e stiamo ancora quasi al punto di partenza». Tamir Shaefer, docente di comunicazione politica all'Università ebraica di Gerusalemme, promuove (ma senza lode) il discorso pronunciato domenica scorsa dal premier israeliano Benyamin Netanyahu all'Università di Bar Ilan.
Un discorso «per nulla drammatico» e «con una sola novità», cioè il sostegno alla creazione di uno Stato palestinese da parte del capo del governo. Ma che ciononostante ha portato a reazioni immediate da tutti gli attori che contano sullo scenario mediorientale. «Un importante passo avanti» l'ha subito definito il presidente americano Barack Obama. Mentre i leader arabi, dalla Siria all'Egitto, passando per l'Autorità palestinese, accusano Netanyahu «di allontanare la pace» con la sua richiesta affinché i palestinesi riconoscano Israele come uno Stato ebraico. Quanto ai coloni israeliani prima gli hanno dato addosso, ma poi ci hanno ripensato perché poteva andargli peggio. «Non ha parlato di smantellamenti», ha commentato lo Yesha Council. Anche se Netanyahyu ha detto, testualmente: «Le questioni territoriali saranno discusse in un accordo definitivo. Fino ad allora non abbiamo alcuna intenzione di costruire nuovi insediamenti». Il che sembra molto vicino alla richiesta di Obama.
Stop alle colonie, via libera a uno Stato palestinese: «Netanyahu non ha detto nulla di nuovo per quanto riguarda la posizione ufficiale di Israele, anzi rispetto alle posizioni dei suoi predecessori (Barak e Olmert) è un passo indietro» commenta Tamir Shaefer al Riformista. «Però è una novità che sia Netanyahu a dire queste cose: io l'ho letta come una presa di posizione che la realtà sta cambiando». Una domanda sorge spontanea, però. Posto che due passi avanti ci sono, il discorso di Netanyahu avrà effetti dal punto di vista pratico? È l'inizio di un processo politico? «Bella domanda!» risponde l'esperto di comunicazione. «Bibi mi è sembrato sincero, ma da qui a dire che si passerà dalle parole ai fatti... dopotutto ci sono stati tanti di quei discorsi importanti, da Annapolis al discorso di Bush sulla Roadmap, che poi non hanno portato a un bel nulla». Ma ci sono anche discorsi che hanno portato a esiti storici, come quello pronunciato da Ariel Sharon nel 2004. «Certo, il ritiro da Gaza è partito da un discorso» risponde Shaefer. «Ma sa qual è la differenza? Che il disimpegno da Gaza è stato un atto unilaterale». In altre parole: Sharon ha detto "ritiriamoci" e si è ritirato. Netanyahu invece ha parlato di uno Stato palestinese, cosa che è impossibile raggiungere senza la collaborazione dei palestinesi. «E al momento i palestinesi non sono in condizione di collaborare, perché hanno una leadership debole». Veramente i palestinesi, e gli arabi in genere, dicono che è Netanyahu che non collabora, che il suo discorso allontana la pace. «Non li posso biasimare. Un leader straniero non pensa a chi è primo ministro in questo momento, pensa alla posizione ufficiale di un Paese. E certamente la posizione di Israele è regredita rispetto a Olmert, che aveva offerto moltissimo ai palestinesi».
Alcuni quotidiani israeliani hanno scritto che il vero destinatario era Barack Obama, che il discorso di Netanyahu altro non era che una risposta allo storico discorso del Cairo. «Non credo proprio fosse solo lui il destinatario» ribatte il docente. «Oltre a lui c'era la destra israeliana - soprattutto i politici conservatori. Ma Netanyahu si è rivolto anche ai capi delle diplomazie europee e ai leader arabi». Che sono furiosi. «Quando si parla a un gruppo di ascoltatori così variegato -conclude Shaefer- qualcuno resta sempre deluso. Poteva andare peggio».

Repubblica 16.6.09
I timori del premier blindato in hotel
Il Cavaliere: "Che voleva dire D´Alema?". Il Pdl teme un´inchiesta pugliese
di Francesco Bei


Ghedini: il premier parla di eversione in maniera atecnica e non pensa alle elezioni anticipate

ROMA - Chiuso per un giorno intero nella suite dell´hotel St. Regis di Washington, a preparare l´incontro chiave con Obama, Silvio Berlusconi non ha smesso di tenere gli occhi puntati sull´Italia. Specie dopo l´uscita di Massimo D´Alema, che è stata analizzata al microscopio dagli uomini del Cavaliere. E così, ancora ieri, nelle sue telefonate con Roma e nei discorsi con lo staff, il presidente del Consiglio ha continuato ad arrovellarsi su quella frase sibillina di D´Alema su una possibile «scossa» che colpirà Palazzo Chigi: «Ma che voleva dire? Avrà in mente qualcosa?». Il timore di un riflesso delle vicende italiane sull´incontro alla Casa Bianca ha tenuto banco fino all´ultimo. Anche se Nicolò Ghedini - nonostante dal Pdl sia ripartito il coro di accuse contro «l´offensiva del superpartito di Repubblica» - ha provato a smorzare quell´allarme golpista lanciato dal Cavaliere davanti agli industriali: «Credo che il presidente del Consiglio - ha spiegato l´avvocato di Berlusconi - abbia individuato in uno schema giornalistico-mediatico quantomeno la fase terminale di questa vicenda, ovvero ritiene che l´amplificazione di eventi, che di per sé sarebbero neutri, facendoli diventare oggetto di campagna politica sia qualcosa che vada al di fuori della normalità. Ed è per questo che parla in maniera atecnica di eversione». Una precisazione forse dovuta, visto che l´allarme «eversione», lanciato da un presidente del Consiglio, dovrebbe far scattare adeguate contromisure da parte degli apparati dello Stato contro la presunta «centrale» golpista.
E tuttavia gli uomini del Cavaliere si sono messi al lavoro, nella convinzione che la "profezia" dell´ex presidente della Quercia non fosse affatto campata per aria. Così, tra mille congetture, è tornato ad affacciarsi il timore di un´imminente, devastante, azione giudiziaria. Un colpo forte, proveniente da una di quelle procure meridionali impegnate contro la criminalità organizzata. Il sospetto dei berlusconiani è che possa essere la procura di Bari l´epicentro della «scossa» che farà tremare il governo. «C´è un brutto clima», conferma uno della cerchia stretta.
Illuminante, in questo senso, la dichiarazione che un ministro solitamente poco incline alle sparate come Raffaele Fitto (che in passato, anzi, non ha mancato di manifestare la sua stima politica per D´Alema) ha rilasciato sul punto: «A quali informazioni inaccessibili ai comuni mortali ha avuto accesso D´Alema? Come mai queste doti di preveggenza si manifestano in lui proprio durante il suo soggiorno in Puglia e i suoi passaggi baresi?». E ancora: «Avrà forse ricominciato a frequentare quegli ambienti baresi in cui, a partire dai primi anni ‘90, D´Alema ha improvvisamente (ma provvidenzialmente anche per lui) garantito più di una carriera politica a chi faceva tutt´altro mestiere? E, quindi, parliamo di imprevedibili scosse o di prevedibili trame?». Nel Pdl le affermazioni un po´ criptiche di Fitto vengono brutalmente tradotte così: D´Alema avrà forse saputo qualcosa dai suoi amici magistrati. Qualcuno arriva a sospettare di più, una «regia politica» del futuro, probabile, «assalto giudiziario». Altri ancora nel Pdl ricordano il legame tra l´ex premier e due ex magistrati pugliesi, la cui fortuna politica è legata al sostegno di D´Alema: il senatore Alberto Maritati e il sindaco di Bari Michele Emiliano.
Suggestioni? Fabrizio Cicchitto è convinto che i sospetti di Fitto non vadano lasciati cadere, visto che le affermazioni del ministro sono «molto significative e inquietanti». Anche Denis Verdini, coordinatore del Pdl, teme che quello evocato da D´Alema non sia soltanto uno scenario «ma si tratti di qualcosa di più serio e preoccupante, magari studiato con cura».
Insomma, la temperatura a Palazzo Chigi resta alta. Il precedente del ‘94, con quell´avviso di garanzia arrivato nel bel mezzo di un consesso internazionale (allora l´Onu, domani il G8 all´Aquila) non fa dormire sonni tranquilli, oltretutto con quelle 5000 foto del Cavaliere in Sardegna ormai in giro per mezzo mondo.

Repubblica 16.6.09
Postsocialismo
Perché il vento della crisi spazza via la sinistra europea
di Marc Lazar


Il mondo del lavoro ha perso le tutele di cui ha goduto in passato E di fronte alla debolezza delle forze sindacali per difendersi può solo scegliere strade individuali

I dati sono preoccupanti: a ingrossare le file dell´astensionismo sono stati proprio gli elettori tradizionalmente più affezionati alla sinistra i giovani e i ceti popolari

La sconfitta generale nelle ultime elezioni per il Parlamento di Strasburgo costringe le socialdemocrazie a ripensare il loro orizzonte teorico e politico

Il risultato delle elezioni europee, che ha penalizzato la sinistra, suscita due interrogativi cruciali: il primo è sul suo attuale stato di salute, il secondo sul suo futuro che riguarda ormai il post-socialismo. Si delineano due risposte di segno contrario. La prima relativizza l´insuccesso e insiste sul carattere particolare di questa consultazione elettorale, rinviando alle specificità dei singoli Paesi e ricordando che la storia della sinistra registra un alternarsi ininterrotto di cicli ora favorevoli, ora negativi. La seconda, pur riconoscendo la pertinenza dei suddetti argomenti, vede in queste elezioni europee – peraltro precedute da altre batoste – una sconfitta storica. Ed è quest´ultima risposta che dobbiamo prendere in considerazione.
Di fatto, la sinistra riformista ha dovuto incassare ben sedici sconfitte, alcune delle quali di considerevole portata, che colpiscono le sue formazioni più importanti e emblematiche.
La sinistra è colpita, a prescindere dalla sua attuale collocazione – all´opposizione, sola al potere o associata a coalizioni di governo – e indipendentemente dalla sua traiettoria storica. Come spiegare un tale disastro? Mettendo insieme una serie di considerazioni di fatto, di ragioni congiunturali e di fattori più strutturali.
Il record di astensioni registrato alle elezioni europee è riconducibile all´elettorato prediletto dalla sinistra: i giovani e soprattutto i ceti popolari e operai e gli elettori ai livelli di istruzione più modesti, che sono oggi i più depoliticizzati, e i meno interessati all´Europa. I simpatizzanti della sinistra che si sono recati alle urne hanno disperso i loro voti. Chi vede nell´Ue la causa di ogni sua attuale difficoltà ha votato per i partiti euroscettici, o magari per quelli xenofobi e populisti, come sembra sia stato il caso per una parte dell´elettorato popolare. I moderati, più volatili e incerti che mai, hanno optato per le formazioni di centro-destra. Gli europei con redditi assicurati e un alto livello di istruzione, più aperti al mondo, hanno preferito i Verdi (progrediti in alcuni Paesi, tra cui la Francia) ritenendo che oggi i temi prioritari siano quelli dell´ecologia e dell´ambiente.
È inoltre emerso un paradosso significativo: lungi dal favorirla, la crisi finanziaria ed economica ha anzi danneggiato la sinistra, che pure era convinta di doverne trarre vantaggio, poiché l´attuale congiuntura segna la fine delle illusioni sui benefici dell´economia di mercato e il crollo del mito liberista, con la necessità di regole emananti dallo Stato e di politiche sociali. Il Partito socialista europeo non aveva peraltro incontrato particolari difficoltà nel varo di un manifesto comune, e la sua campagna era focalizzata sull´Europa sociale. Anche la sinistra radicale credeva che fosse venuto il suo momento, per fustigare da un lato il capitalismo e dall´altro il riformismo, reo di tutti i tradimenti; mentre pur avendo riportato qualche progresso, in totale avrà dieci deputati in meno nel futuro parlamento europeo. Ma come mai non si è dato ascolto alle sinistre? Innanzitutto, come scriveva Bernardo Valli su Repubblica del 9 giugno, perché la destra, dando prova di grande pragmatismo, ha smesso di richiamarsi al neoliberismo – al quale in verità l´Europa non si era mai convertita – per adottare posizioni protezioniste; e non ha esitato a far propri i temi della sinistra.
Inoltre – e soprattutto – la sinistra ha mostrato una tendenza a leggere il presente attraverso gli occhiali del passato, senza cogliere tutta la complessità di questa crisi, rivelatrice delle mutazioni ben più profonde che travagliano da decenni le nostre società. Crisi vuol dire disoccupazione, sperequazioni sociali crescenti, inasprimento della povertà; eppure, almeno per il momento questa crisi non ha suscitato importanti mobilitazioni collettive. Perché si ha paura. Perché i sindacati sono indeboliti. Perché c´è stata un´evoluzione nelle relazioni sociali all´interno delle imprese. Perché il mondo del lavoro è cambiato. Perché la precarizzazione è ormai generalizzata. Di conseguenza molti europei, deliberatamente o per forza maggiore, tentano ancora strategie individuali di sopravvivenza e di adattamento; e vorrebbero considerarsi liberi e indipendenti, pur avendo forti esigenze di protezione. Quanto agli anziani – peraltro sempre più numerosi – sono sensibili a temi quali la sicurezza e l´immigrazione; e molti aspirano a rifondare la propria identità. Infine, a loro volta anche i nostri regimi politici hanno subito una profonda trasformazione, in particolare con l´affermarsi della democrazia del pubblico e dell´opinione, in cui il ruolo del leader è decisivo. Ed è chiaro che da un decennio, in questo campo tutta la sinistra soffre di un deficit flagrante.
La sinistra riformista non è rimasta né immobile né muta. Ha rifiutato di riesumare, come fa la sinistra radicale, le vecchie ricette del passato; ha esplorato altre vie, tentando di rivolgersi a nuove fasce di elettori. Ma a fronte di una destra unita, capace di proposte incisive, decisa a imporre un´egemonia culturale e a rispondere al bisogno d´identità che si manifesta negli europei, si presenta divisa, sulla difensiva, senza progettualità né identità, priva di leader, poco credibile, non in sintonia con le trasformazioni in atto. Perciò la sinistra riformista ha una priorità: quella di avviare al più presto una riflessione approfondita sui fondamenti e le modalità del suo riformismo, e analizzare la complessità dei cambiamenti in atto nelle società e nelle nostre democrazie. Pena la sua scomparsa.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Repubblica 16.6.09
Postsocialismo
di Anthony Giddens


Anche se dissentono fieramente tra loro su quale debba essere il futuro della società, i socialisti condividono la convinzione di essere stati all´avanguardia della storia. I socialisti, o altri, come i conservatori, guardavano malinconicamente al passato verso forme sociali che il mondo non vedrà più. Oppure, come i liberali, sostenevano tipi di ordine sociale e politico che erano solo tappe sulla strada della piena emancipazione. Con la fine del comunismo, sebbene non solo per questa ragione, tutto ciò è a pezzi.
A lungo abituato a pensare a sé stesso come un´avanguardia, il socialismo è diventato improvvisamente arcaico, consegnato a quel passato che un tempo disprezzava. «L´idea di "seppellire il socialismo"» – è stato detto – «è la fantasia di qualche politico conservatore». Comunque sia, la fantasia forse è diventata realtà.

Repubblica 16.6.09
Due secoli tra utopia e realismo
L’uguaglianza al tramonto
di Massimo L. Salvadori


È cambiata la realtà delle relazioni economiche, sociali, politiche e istituzionali che ha caratterizzato l´Ottocento e il Novecento: la grande fabbrica, il sindacato, il partito

Credo che, per cercare di capire a che punto siamo con il socialismo, occorra anzitutto affrontare l´argomento con la necessaria prudenza. Il Novecento e anche l´inizio del secolo nuovo è tutto un celebrare - da parte delle forze politiche e delle correnti ideologiche che in un certo momento si sono ritenute a cavallo della Storia - funerali di quelle considerate definitivamente espulse.
Quando vittorioso, il comunismo ha proclamato defunti il socialismo riformista, la democrazia borghese, il fascismo; il fascismo vittorioso ha fatto lo stesso con il socialismo di ogni corrente, il comunismo, il liberalismo, il pluralismo politico e istituzionale; il conservatorismo neoliberista malamente caduto ha cantato il De Profundis a keynesismo e socialdemocrazia.
Oggi è giunta l´ora di dare l´addio definitivo al socialismo sia pure democratico e riformista, ovvero siamo tout court al "post-socialismo»? L´interrogativo è più che mai serio e motivato.
La socialdemocrazia nelle sue diverse varianti naviga in acque decisamente cattive. Lo dice il suo assordante e stupefacente silenzio politico, culturale, programmatico di fronte alla crisi economica scoppiata nell´autunno del 2008. Lo dice lo stato dei partiti della famiglia, gli uni in un affanno più o meno forte, gli altri disastrati. E lo dicono gli assai deludenti risultati nelle elezioni per il Parlamento europeo. È tutto ciò a porre la questione: il socialismo sta sopravvivendo a se stesso così da indurre a pensare che sia prossimo a chiudere la sua storia?
Io per parte mia, nel rispondere, ritengo che si possa ragionare così. Il socialismo in quanto movimento che ha compreso nella sua lunga vicenda varie correnti - i cosiddetti utopisti e i cosiddetti realisti, i radicali e i moderati, i rivoluzionari e i riformisti, gli statalisti e gli antistatalisti - è stato insieme due cose: da un lato una acuta reazione alle disuguaglianze tra gli uomini e un progetto di totale o di maggiore eguaglianza; dall´altro l´elaborazione di programmi, l´indicazione di mezzi persino antitetici tra loro per raggiungere in maniera più o meno integrale il fine.
La variante più estrema del socialismo, il comunismo, ha chiuso la sua vicenda nel 1989 col fallimento della collettivizzazione in un quadro di statalismo totalitario. La socialdemocrazia si trova attualmente a fare i conti con la fine del ciclo che nell´Otto-Novecento aveva visto i suoi relativi eppure importanti successi, i quali poggiavano su una realtà delle relazioni economiche, sociali, politiche e istituzionali che è in corso di rapido esaurimento; vale a dire l´avere come fondamento la grande fabbrica e basi di riferimento un esercito di proletari dell´industria e possenti sindacati, l´essere in grado di mantenere organizzazioni di partito capillarmente distribuite sul territorio con un alto tasso di attiva partecipazione degli iscritti, l´agire nel quadro di Stati nazionali sovrani in un´epoca di crescente interventismo pubblico. Fattori questi, appunto, più che in trasformazione in via di dissolvimento.
Il 1989 ha segnato l´inizio del post-comunismo, il tempo presente indica che siamo anche al post-socialismo otto-novecentesco. Il mondo delle disuguaglianze con tutte le sue conseguenze e implicazioni è nondimeno più che mai vivo, e perciò resta da sciogliere il nodo se un socialismo rinnovato sia in grado di restare un soggetto capace di condurre in prima persona la lotta ideale e pratica contro di esse oppure se invece il post-socialismo otto-novecentesco significhi post-socialismo senza aggettivi.

Repubblica 16.6.09
Così il dramma economico favorisce la destra
Dieci questioni da affrontare
di Giorgio Ruffolo


La socialdemocrazia in tutti questi anni non è stata affatto antagonista del liberismo. Anzi ne ha solo praticato una versione "debole": il blarismo

Non credo che il socialismo, grande movimento storico legato a imprescindibili esigenze di giustizia, sia stato seppellito da una sconfitta elettorale, per quanto clamorosa. La storia del socialismo è piena di annunci mortuari smentiti. Neppure il fascismo ce l´ha fatta. Però le elezioni hanno decretato la fine di una socialdemocrazia appannata e sconclusionata.
Sembra paradossale che le elezioni non abbiano penalizzato la destra, che per venti anni si è identificata con la sregolatezza responsabile dell´attuale marasma economico, e che oggi sembra diventata keynesiana e statalista; e abbiano invece devastata la sua antagonista storica. Non lo è per due ragioni: la destra non è diventata affatto statalista: pretende solo che sia lo Stato a pagare i conti della crisi per poi ritirarsi rapidamente dalla scena. E la socialdemocrazia, in tutti questi anni, non è stata affatto antagonista del liberismo: ne ha solo praticato una versione debole, propriamente "post-socialista": il blairismo.
Inoltre. Alla globalizzazione economica la socialdemocrazia non ha contrapposto quel rafforzamento del potere politico internazionale che avrebbe potuto nascere da una più forte integrazione europea. Al contrario: si è chiusa nel socialnazionalismo: un terreno sul quale la destra è imbattibile. I socialisti hanno perduto un´occasione unica di costruire un´Europa unita e riformista quando erano al governo in quasi tutti i paesi europei. E ora in Europa trionfano i nazionalismi, riemerge il razzismo, e il conto della crisi è posto sulle spalle dei contribuenti. C´è da chiedersi allora: del socialismo, que reste t´il?
Questo sarebbe il momento di una nuova Bad Godesberg: di un ripensamento fondamentale di quelle che sono state per una fase storica gloriosa le ragioni del "vero socialismo reale". Non si tratta ovviamente di tornare indietro, in un mondo radicalmente cambiato. Si tratta di riconoscere le correnti pesanti che attraversano la nostra storia, per domandarsi in quale modo una politica ispirata ai valori tradizionali della sinistra possa piegarne il corso verso una società più libera e più giusta. Questa è l´essenza concreta del riformismo. Per non cavarmela con i soliti auspici retorici provo a indicare quelle che a me sembrano oggi le grandi sfide del riformismo. Che poi debba chiamarsi ancora socialismo, è problema che può essere rinviato, come un indice, alla fine dell´opera.
Ecco i titoli dei dieci temi, più o meno ovvii, che mi sentirei di segnalare a una riflessione fondamentale sul destino della sinistra. 1)La struttura dell´ordine politico mondiale di fronte all´emergere delle nuove grandi potenze. 2)Le nuove regole mondiali della circolazione dei capitali e dell´assetto dei cambi (il nuovo ordine economico mondiale). 3)Le garanzie di un mercato concorrenziale e libero: libero da posizioni dominanti e da vincoli corporativi. 4)Le responsabilità politiche superiori dell´economia: in particolare la politica macroeconomica e la politica dei redditi, rivolte all´obiettivo della piena e buona occupazione. 5)La costituzione di una Federazione politica europea. 6)La ristrutturazione del welfare state. 7)La promozione, accanto al mercato e allo stato, di un grande settore di economia e società associativa. 8)La trasformazione della scuola in una istituzione di educazione permanente. 9) La riorganizzazione della produzione nel senso di una economia ecologicamente sostenibile. 10)L´eticità della politica.
Lascio questo tema per ultimo, perché mi sembra il primo. Di questi tempi mi sento particolarmente indignato nei riguardi dei "maestri" che considerano la dignità e la serietà del comportamento politico, e per converso la volgarità e la buffoneria, un tema da lasciare al gossip, al pettegolezzo pruriginoso, indegno del discorso "politico". Mi chiedo quali allievi possano nascere dall´educazione di questi maestri.

Corriere della Sera 16.6.09
Scienze. Nell’ultimo libro di Tagliasco e Manzotti e in quello di Sini una riflessione sul libero arbitrio della tecnologia
Penso, quindi sono (un automa)
Dalle macchine del ’700 ai robot, l’artificiale è sempre più una protesi umana
di Giulio Giorello


Nel Giappone dei Tokugawa (1600-1867) erano di moda bambole che servivano il tè, puntigliosamente descritte nel manuale (1769) dell’arti­sta Hosokawa. Pressoché contemporaneamen­te Giacomo Casanova passava di conquista in conquista fino a incontrare, a un ballo, la donna ideale. Sorpresa: è una dama meccanica, come si scopre quando, per un guasto, «lei» continua a danzare con una gamba tutta irrigidita. La tec­nica ha sedotto il grande seduttore: almeno nel­la finzione cinematografica, poiché il tutto è un’invenzione di Federico Fellini ( Casanova, 1976). Ma è una buona trovata: nel Settecento dei Lumi, dei libertini e dei meccanismi meravi­gliosi e stupefacenti, Pierre Jacquet-Droz e suo figlio Henri avevano scolpito in legno un pu­pazzo alto ventotto pol­lici, dotato di congegni che gli permettevano di mettere su carta un certo numero di frasi. Memore, per così dire, di Cartesio l’Automa Scrivano se ne uscì con la battuta: «Non pen­so, dunque non sarò mai». Nel 1946 un mec­canico dilettante, tal Weisendanger, ripren­dendo i piani dei fanta­siosi artigiani di due secoli prima, riuscì a co­struire una macchina in grado di scrivere a ma­no. Pare abbia commentato: «Credo che la gen­te troverebbe bizzarro che un uomo della no­stra epoca dedichi tempo e fatica a un oggetto così futile».
Traggo queste notizie dallo splendido Dizio­nario degli esseri umani fantastici e artificiali redatto con curiosità e intelligenza da Vincenzo Tagliasco (bioingegnere dell’Università di Geno­va, scomparso l’anno scorso) per Mondadori un decennio fa. Cyborg, replicanti, robot, mutanti, dopo aver popolato le saghe di quella moderna mitologia che è la fantascienza, stanno entran­do nella nostra esistenza quotidiana. Chissà se dobbiamo «ringraziare» più l’immaginazione letteraria di Mary Shelley o di E.T.A. Hoffmann che le astrazioni matematiche di Alan Turing, di Norbert Wiener o di John von Neumann?
Una storia della fantamatematica — sofistica­te geometrie di computer e formule numeriche per calcolatrici potentissime — deve essere an­cora scritta. Certo, un posto d’onore spetterà a René Descartes, ovvero Cartesio, non solo per la sua Geometria ma anche per il suo Metodo (1637). Filosofo e matematico, tormentato dal dubbio che il mondo fosse illusione, era sfiora­to anche dal sospetto di non essere molto di più di un congegno meccanico, costruito «da un non so qual Genio Maligno». Unica scappato­ia: se dubito, penso; e quindi: «Penso, dunque sono». La sua personale esperienza di creatura dubitante garantiva così a Cartesio di esistere. Anzi, Dio ci ha creato come sostanze pensanti; a nostra volta, noi possiamo creare delle macchi­ne, perché operiamo nel più vasto dominio del­la materia. E il nostro corpo (il nostro cervello, i nostri occhi, le nostre mani) è materiale, mac­china esso pure. Dagli orologi e dalle calcolatri­ci prodotti dagli artefici umani, però, ci distin­guiamo perché possediamo il «pensiero indi­pendente », cioè «l’anima».
Apprezziamo allora l’ironia del piccolo Scri­vano: le macchine «ci sono» e forse vivono e pensano per davvero. Almeno, a partire dal se­colo scorso: sono capaci di autoalimentarsi e muoversi autonomamente (come le «tartaru­ghe elettriche» di Gray Walter), di pianificare la generazione di altre macchine (gli automi ca­paci di autoriprodursi ideati da von Neumann), di eseguire ad altissima velocità una miriade di operazioni logiche e aritmetiche (i «dinosauri del calcolo», come li chiamava Reymond Que­neau, cioè gli ingombranti calcolatori del Dopo­guerra da cui si sono però evoluti i nostri agili calcolatori tascabili). Oggi ancora no, ma doma­ni proveranno emozioni e sentimenti.
Eppure, «l’errore di Cartesio» continua ad af­fascinare: soprattutto i filosofi. Ho due libri sul­la mia scrivania, appena usciti. Il primo è Ham­­letica, di Massimo Cacciari (Adelphi), di cui già si è detto sulle pagine del «Corriere». Mas­simo muove, in realtà, dai dubbi non di Carte­sio, bensì di Amleto, il principe di Danimarca che sa a malapena di esistere «nel teatro del mondo», per farci capire come lo shakespea­riano «Essere o non essere» vada inteso come «Agire o non agire». Dopotutto, è il pensiero indipendente che ci mostra che «essere signifi­ca fare»: il mondo è modellato da quell’intrec­cio di percezione, pensiero, azione e passione che costituisce l’esperienza di ciascuno dei suoi «attori». Sia che riescano a realizzare i lo­ro piani o che (com’è il caso di Amleto) finisca­no per «andare errando da naufragio a naufra­gio».
L’altro volume è di Carlo Sini, e s’intitola, guarda caso, L’uomo, la macchina, l’automa (Bollati Boringhieri). E qui incontriamo la do­manda: «Da dove viene la singolare fantasia di riprodurre artificialmente dei simulacri di vi­ta? ». Non è che l’altra faccia, direi, dell’incubo cartesiano di essere una macchina pur illuden­dosi di possedere il libero arbitrio. Eppure, non solo le macchine ma tutte le protesi escogitate dall’uomo (dal bastone che noi o qualche prima­te possiamo usare per far cadere un pomo trop­po alto sull’albero al più potente telescopio orbi­tante) aumentano il potere sull’ambiente; e pro­tesi sono persino le parole, sia orali che scritte; dunque, protesi è anche la cultura. Fin dove arri­va la tua anima? Pare «infinita fino alla più lon­tana stella, che puoi raggiungere coi tuoi occhi o con qualche telescopio», per dirla con lo Ste­phen Dedalus dell’Ulisse di Joyce.
Ma tale infinità è tensione, non possesso. Ogni osservazione può venire integrata o corret­ta, ogni teoria rivista o rovesciata, ogni appara­to migliorato o superato da uno più potente. La nostra autonomia è sempre fisicamente circo­scritta, relativa, parziale. Veramente autonomo sarebbe solo Dio. Pur muovendo da premesse differenti, Cacciari e Sini concordano che solo nell’Essere Supremo si realizza «identità di vo­lontà e di potenza». Ma autonomia ha la stessa radice di automa: quel tipo di macchina che ha in sé il principio del suo movimento. Ci pensi­no bene creazionisti antidarwiniani e sostenito­ri del cosiddetto Disegno Intelligente: se avesse­ro ragione, condannerebbero il loro Dio alla condizione inesorabile di automa perfetto!
Bando alle sottigliezze teologiche: mi piace concludere con un’immagine tratta dall’ultima fatica di Tagliasco (scritta, prima di lasciarci, in­sieme con Riccardo Manzotti: L’esperienza, pubblicata da Codice): l'arcobaleno che scorgia­mo alla fine del temporale «non è come un pon­te di pietra intorno al quale si può girare, né tro­veremo una pentola d’oro a una delle due estre­mità ». Pare muoversi insieme con il suo osser­vatore, e dunque aveva ragione Leonardo da Vinci: «L’arco non è nella pioggia né nell’occhio che lo vede». È in tutt’e due, a mostrarci che, nella realtà della vita, l’Io e il mondo sono cia­scuno parte l’uno dell’altro.

Corriere della Sera 16.6.09
A 500 anni dalla nascita del riformatore
Calvino non creò il capitalismo
di Giuseppe Galasso


L’aspra moralità che lui predicava diede una nuova base religiosa alla libertà umana

Il nome di Giovanni Calvi­no è stato evocato da alcu­ni economisti per l’odier­na crisi finanziaria mon­diale. Quel nome è stato, inve­ro, anche troppo associato alla storia del capitalismo moder­no, e basta citare al riguardo il saggio famoso di Max Weber. Un tempo, però, il rapporto col capitalismo era indicato a merito di Calvino. Oggi accade il contrario. Ma, come non si aveva molta ragione ieri, così non se ne ha affatto oggi a ve­dere Calvino fra gli imputati dei mali del capitalismo.
Considerata la parte del cal­vinismo nella storia religiosa e morale dell’età moderna, si comprende, invece, che per il cinquecentesimo anniversario della nascita di Calvino (il 10 lu­glio 1509, a Noyon, nel cuore della Francia) vi sia ovunque una fitta serie di celebrazioni. Una certa ufficialità sembra es­servi, invero, solo in Svizzera, e in specie a Ginevra (e si spie­ga: fu con Calvino che Ginevra si trasformò da città di provin­cia in una capitale nota in tut­to il mondo). Per il resto sono per lo più iniziative interne al mondo calvinista. Tuttavia, in Francia, Svizzera e Germania vi saranno francobolli per la ri­correnza. In Francia si sa della erezione di una statua in bron­zo di Calvino a Orléans (ve ne sono cinque, pare, in tutto il mondo). Né mancano meda­glie (e, pare, anche monete) commemorative, e, soprattut­to, iniziative editoriali, di cui alcune importanti. Si pensi, pe­rò, che in Germania, per il cin­quecentesimo anniversario, nel 2017, dell’inizio della Rifor­ma a opera di Lutero, si è pen­sato già dal marzo 2008 a una «Lutherweg» (via di Lutero) nel Land Sassonia-Anhalt: un itinerario di 410 chilometri, con 34 tappe che evocano mo­menti dell’azione dello stesso Lutero. Il che fa pensare a gran­di celebrazioni nei prossimi anni.
Minore fervore, minore im­portanza del calvinismo? Non so dirlo e non lo credo. Qualcu­no mi ha pure detto che nel­l’austerità calvinistica anche per un Calvino una ricorrenza di ordine personale, quale è quella di una nascita, conta meno del più maturo inizio della sua attività riformatrice, negli anni Trenta del Cinque­cento, quando egli svolse ap­pieno la sua dottrina e scrisse la sua opera maggiore, il «van­gelo » calvinista, la Institutio religionis christianae, da lui stesso poi tradotta in francese. Certo è, però, che il centenario di Calvino è, comunque, una buona occasione per ripensare al significato storico della Riforma. Un significato di primaria grandezza. Fu l’uscita del cristianesimo dalla tutela ecclesiastica; fu l’avvio a quel senso del diritto naturale e dell’esclusiva responsabilità personale di ogni singolo uomo nel credere e nell’agire, che ha costituito sempre più la trama della moderna etica sociale e individuale. Sì, è vero: l’ecclesiasticità protestante non è stata meno greve di quella cattolica; gli eterodossi furono spesso perseguitati anche fra i protestanti; la caccia alle streghe è una pagina bruttissi­ma di quella parte d’Europa, e assai meno dell’Europa cattoli­ca; l’ipocrisia è una virtù molto praticata in ogni parte del mondo; e così via dicendo.
Inoltre, l’uomo moderno, la libertà religiosa e civile, il nuo­vo protagonismo della perso­na nella sua individualità e al­tre cose non sono un’esclusiva e originale creazione dei prote­stanti (come a lungo si è prete­so, e ancora spesso si preten­de, fra loro). Né l’Europa si pre­sta a essere divisa, ieri come oggi, in un’Europa migliore (quella nordica e protestante) e in un’Europa deteriore (quel­la meridionale e cattolica). Più ancora, la modernità è nata an­che in Paesi cattolici (basti la Francia); e in Italia Umanesi­mo e Rinascimento si proietta­rono per certi versi addirittura al di là dell’allora comune oriz­zonte religioso europeo.
Questo, e tanto altro, si può dire. Ma poi le cose contano nella storia per quel che ne de­riva di incremento morale e sociale dell’umanità; e su que­sto piano il calvinismo ha tut­te le carte in regola per figura­re come un grande fatto stori­co. Ciò che si dice in contrario nulla toglie alla spinta decisi­va data dai riformatori come Calvino alla storia dell’Europa e del mondo. Che fu il contri­buto, anzitutto, di una nuova aspra (nel calvinismo, asperri­ma) moralità: una moralità che configurava nelle arcigne dottrine del servo arbitrio, del­la totale predestinazione, del­la fede assoluta, senza alcuna considerazione di meriti o di castighi, il paradosso di una nuova libertà del cristiano e dell’uomo.

Corriere della Sera 16.6.09
Dopo Lethem, anche John Wray in «Lowboy» sceglie di entrare nella testa di uno psicotico
Scrivere con la catastrofe in mente
«Creo uno schizofrenico per allargare i confini della narrazione»
di Livia Manera


Da qualche tempo un certo tipo di narratori americani ambiziosi e an­siosi di trovare nuove rappresenta­zioni del mondo, costruiscono ro­manzi intorno a personaggi psicotici che dan­no loro la possibilità di portare l’espressione su un piano sperimentale. Lo ha fatto Jona­than Lethem in Motherless Brooklyn: interes­santissimo romanzo-laboratorio per metà de­tective story e per metà ricerca sulle possibili­tà del linguaggio, essendo il detective prota­gonista affetto da una malattia mentale che lo obbliga a esprimersi compulsivamente per associazioni verbali (sindrome di Tourette.) E lo fa anche John Wray in Lowboy, il romanzo letterario del momento negli Stati Uniti, che Feltrinelli pubblica in questi giorni nella tra­duzione di Silvia Rota Sperti (pp. 237, e 16), e che racconta di un adolescente schizofrenico con una visione della realtà distorta, il quale un giorno scappa dalla clinica dove è ricovera­to, smette di prendere i farmaci, e in preda a inquietanti allucinazioni visive e sensoriali cerca di salvare il mondo dal riscaldamento terrestre che secondo lui distruggerà il piane­ta entro dieci ore.
«È vero: ho scelto un protagonista malato di mente per allargare i confini della narrazio­ne in modo non convenzionale. Ma avevo an­che un altro motivo», confessa il giovane Wray, americano di padre, austriaco di ma­dre, autore di due precedenti romanzi molto apprezzati e premiati come La lingua di Ca­naan (ed. Gea Schirò) e The Right Hand of Sleep.
«Non sopporto il modo in cui si rappresenta la schizofrenia nella cultura popolare ameri­cana. Qualunque film che in modo rozzo vo­glia mettere in campo un 'cattivo' senza spie­gare perché sia così crudele, lo fa diventare schizofrenico. In questo Hollywood è un disastro. A nessuno interessa rappresentare gli psicotici come esseri umani. Eppure basta leggere anche un libro solo sulla schizofrenia per capire quanto questi malati siano psicologicamente simili a noi sani. Voglio dire che sono malati, sì, ma le loro reazioni psicologiche sono in qualche modo prevedibili».
Davvero? Forse lo saranno per questo ragazzo eccezionalmente intelligente che «Granta » nel 2007 ha incluso tra i migliori scrittori americani sotto i trentacinque anni. Perché, a dire il vero, uno dei pregi del suo romanzo che ha affascinato la critica americana più esigente (James Wood gli ha dedicato quattro pagine sul «New Yorker») e l’ha indotta a equiparare Wray al pre­mio Pulitzer Junot Díaz e allo stesso Lethem, è quello di usare l’imprevedi­bilità del protagonista per tenere il let­tore col fiato sospeso. Come se il tor­mentato Lowboy — o anche la sua mi­steriosa e affettuosa madre Violet — fossero sempre un passo avanti al letto­re, pronti a sorprenderlo con dialoghi che non si aspetta. Per non parlare delle immagi­ni allucinatorie scaturite dalla mente del ra­gazzo, il cui effetto cumulativo è quello di uno specchio distorto che altera la realtà sen­za tradirla. Lowboy è convinto che se non agi­rà immediatamente il mondo morirà a causa del riscaldamento terrestre. E non è quello che crediamo un po’ tutti?
Intanto, l’avventura letteraria di John Wray si svolge a New York su due binari paralleli: sopra e sottoterra. Sotto c’è Lowboy che fug­ge sui treni della linea F o della RR o della Lexington, solo o in compagnia di Emily, la ragazzina che adora ma che già una volta ha cercato di gettare sotto un treno. E sopra ci sono il detective Lateef che vuole prendere Lowboy prima che faccia male a qualcuno e sua madre Violet, che vuole prenderlo prima che faccia male a se stesso. «Un po’ di tempo fa ho preso una decisione bizzarra, di metter­mi a scrivere, invece che a casa, in metropoli­tana », racconta Wray. «In parte per ragioni pratiche: niente accesso a internet, niente ri­cezione per il cellulare, insomma niente delle solite distrazioni. E in parte per ragioni così romantiche, credo, da sfiorare il ridicolo. Ero convinto che solo immergendomi in modo completo nel subway avrei potuto descriver­lo vividamente come desideravo».
Tuttavia, prosegue lo scrittore, l’inizio fu deludente. Più si abituava a quell’ambiente e più lo vedeva con lo sguardo opaco del pen­dolare. Poi, di colpo: «Stavo andando a Co­ney Island sulla linea F quando mi sono gira­to e ho avuto l’impressione di trovarmi in un posto nuovo, dove ogni cosa aveva un suo si­gnificato: i sedili troppo stretti per favorire le pulizie, i toni arancioni per rilassare, i minu­scoli pois sui muri che a un esame ravvicina­to risultavano tanti simboli ufficiali della cit­tà di New York. Il tutto dava la sensazione di un Grande Fratello... Sono andato in parano­ia e ho trovato lo stato d’animo che cercavo». Ha trovato, cioè, la chiave per rappresenta­re l’isolamento di un ragazzino che cerca di convertire il disordine paranoico della sua mente in un film d’azione, mentre si rende conto di non poter comunicare all’esterno nulla di ciò che accade nel suo cervello. Il que­sto senso, ha davvero ragione James Wood, quando scrive: «Se incontrassi qualcuno cu­rioso di sapere come ci si senta a essere schi­zofrenici, gli direi 'Be’, comincia col leggere il romanzo di John Wray'».