giovedì 18 giugno 2009

l’Unità 18.6.09
Utilizzatore finale
di Concita De Gregorio


Sarà senz'altro archiviata come quella sui Voli di Stato l'inchiesta per «induzione alla prostituzione» della procura di Bari. Mavalà Ghedini, parlamentare ormai ridotto al ruolo di Tom Ponzi, dopo aver fatto incetta di foto sarde ora assicura che la ragazza che accusa il premier di averla pagata per andare a passare la sera con lui a Palazzo Grazioli - questa si chiama Patrizia, non è la stampa comunista ad averla intervistata ma il Corriere della Sera, il complotto si estende ai giornali della borghesia - la ragazza Patrizia, dunque, dice Ghedini «non è mai entrata nell'edificio». Avrà di certo da esibire le liste della portineria arrivate via fax: prove inoppugnabili. In ogni caso, aggiunge il disperato Ghedini rientrando qualche minuto nei panni dell'avvocato, «ancorchè fossero vere le indicazioni della ragazza il premier sarebbe l'utilizzatore finale dunque non perseguibile». Utilizzatore finale è sublime. Rende perfettamente l'idea: le gentili intrattenitrici sono reclutate e pagate e trasportate a domicilio in volo in elicottero in auto, con genitori o senza, con amiche o da sole in funzione del soddisfacimento dell'utilizzatore finale. Il presidente-utilizzatore non è perseguibile. Utilizza, del resto: letteralmente rende utili le fanciulle. Dà loro uno scopo e una funzione, come per uno sturalavandini: ora sanno a cosa servono. Risolvono problemi, sono retribuite regolarmente: un gioiello, una Mini, un seggio, un assegno. Tutto regolare. Il problema di questo Paese non è più neppure di natura morale. Siamo ben oltre. Dire: non si fa, non è bello scegliere le ragazze dai cataloghi e poi candidarle alle elezioni dopo l'utilizzo - per quelle minorenni aspettare il compleanno - è una considerazione di retrovia. Se ne può parlare, certo, è uno spettacolo deprimente e per una minoranza incomprensibile quello delle madri che sollecitano le figlie a farsi avanti, delle insegnanti di liceo che dicono «chi non vorrebbe avere per amico un potente», dei fidanzati che quando chiama il presidente del Consiglio sul cellulare della ragazzina arretrano deferenti. È un sentire collettivo che si propaga più veloce dell'influenza suina, ormai: è normale, così fan tutti. Tuttavia il punto non è questo, dicevamo.
Il punto è la debolezza e la ricattabilità di un uomo potentissimo al centro di un sistema di favori femminili dai confini sterminati, perciò incontrollabile. Le ragazze «utilizzate» sono centinaia. Migliaia gli amici, genitori, parenti. Tutti sanno. Chiunque può in ogni momento avanzare e pretendere: ricattare. La rete di avvocati del premier non basta a difenderlo. I suoi collaboratori sono sgomenti, ora anche spaventati. ‘Unfit’, scrive la stampa internazionale: l'uomo è inadatto. Ci sono delle regole di affidabilità che qui vengono meno: i governi dei Paesi vicini sono in allarme. «Gli alleati preoccupati», scriveva il Times. Gianni Letta è sotto attacco. Disapprova e la disapprovazione gli si ritorce contro: lo accusano - i falchi del Pdl - di non assicurare a sufficienza la protezione del capo del governo. È impossibile proteggerlo da se stesso, tuttavia. Unfit, inadatto. Sarebbero bastate le carte del processo Mills, in un altro paese. In questo il morbo letale in politica si chiama Patrizia. Il suo utilizzo, l'utilizzatore.

Repubblica 18.6.09
L’utilizzatore finale
di Giuseppe D’Avanzo


Una vita disordinata spinge sempre di più e sempre più in basso la leadership di Silvio Berlusconi. In un tunnel da cui il premier non riesce a venir fuori con decoro. Nel caleidoscopio delle verità rovesciate le ugole obbedienti accennano al consueto e oggi inefficace gioco mimetico.
Creano "in vitro" un nuovo "caso" nella speranza che possa oscurare la realtà. S´inventano così artificialmente un "affare D´Alema" per alzare il polverone che confonda la vista. Complice il telegiornale più visto della Rai che, con la nuova direzione di un dipendente di Berlusconi, ha sostituito alle pulsioni gregarie di sempre una funzione più schiettamente servile. Dicono i corifei e il Tg1: è stato lui, D´Alema, a parlare di possibili «scosse» in arrivo per il governo, come sapeva dell´inchiesta di Bari? Il ragionamento di D´Alema era con tutta evidenza soltanto politico. Chiunque peraltro avrebbe potuto cogliere lo stato di incertezza e vulnerabilità in cui è precipitata la leadership di Berlusconi che vede diminuire la fiducia che lo circonda a petto del maggiore consenso che raccoglie non lui personalmente – come ci ha abituato da quindici anni a questa parte – ma l´offerta politica della destra. Legittimo attendersi che quel nuovo equilibrio – inatteso fino a sette settimane fa, fino alla sua visita a Casoria – avrebbe prodotto ai vertici di quel campo un disordine, quindi un riassestamento. In una formula, sussulti, tensioni, una nuova stabilità che avrebbe ridimensionato il gusto del plebiscito, un cesarismo amorfo che, come è stato scritto qui, ha creduto di sostituire «lo Stato con un uomo, il governo con il comando, la politica con il potere assoluto e carismatico». Era questa idea di politica, questa fenomenologia del potere che, suggeriva D´Alema, riceverà presto delle «scosse» e gli esiti potrebbero essere drammatici.
Vediamo come questa storia trasmuta nella propaganda che manipola e distrae, ora che salta fuori come a Palazzo Grazioli, dove garrisce al vento il tricolore degli edifici di Stato, siano invitate per le cene e le feste di Berlusconi donne a pagamento, prostitute. Le maschere salmodiano la solita litania: l´opposizione, e il suo leader, più le immarcescibili toghe rosse di Magistratura democratica aggrediscono ancora il presidente del Consiglio. Ma è così? I fatti fluttuano soltanto se la memoria deperisce. Se si ha a mente che è stato il ministro Raffaele Fitto, per primo, a suggerire che Berlusconi poteva essere coinvolto a Bari in un´inchiesta giudiziaria, si può concludere che non D´Alema, ma il governo sapeva del pericolo che incombeva sul premier e oggi lo rovescia in arma contro l´opposizione e, quel che conta di più, in nebbia per abbuiare quel che tutti hanno dinanzi agli occhi: Berlusconi è pericolosamente – per il Paese, per il governo, per le istituzioni, per i nostri alleati – vulnerabile. Le sue abitudini di vita e ossessioni personali (qual è il suo stato di salute?) lo espongono a pressioni e tensioni. A ricatti che il capo del governo è ormai palesemente incapace di prevedere e controllare, come ha fatto sempre in passato immaginando per se stesso un´eterna impunità. È soltanto malinconico il tentativo del presidente del Consiglio e degli obbedienti corifei di liquidare questo affare come «spazzatura», come violazione della privacy presidenziale. Se il presidente riceve prostitute nelle sue residenze private diventate sedi del governo (è così per Villa Certosa e Palazzo Grazioli), la faccenda è pubblica, il "caso" è politico. Non lo si può più nascondere sotto il tappeto come fosse trascurabile polvere fino a quando ci sarà un giornalismo in grado di informare con decenza il Paese. Di raccontare che la vulnerabilità di Berlusconi è ormai una questione che interpella la credibilità delle istituzioni e minaccia la sicurezza nazionale. Quante sono le ragazze che possono umiliare pubblicamente il capo del governo? Dove finiscono o dove possono finire le informazioni – e magari le registrazioni e le immagini – in loro possesso? Da sette settimane (e a tre dal G8) non accade altro che un lento e progressivo disvelamento della vita disordinata del premier e della sua fragilità privata che si fa debolezza e indegnità della sfera pubblica. La festa di Casoria; le rivelazioni degli incontri con Noemi allora minorenne che lo costringono a mentire in tv; i book fotografici che gli vengono consegnati per scegliere i "volti angelici"; la cerchia di prosseneti che gli riempie palazzi e ville di donne a pagamento; migliaia di foto che lo ritraggono, solo, circondato da decine di ragazze di volta in volta diverse; i ricordi imbarazzati e imbarazzanti di capi di Stato che gli hanno fatto visita. E ora, svelata dal Corriere della Sera, anche la confessione di una donna che è stata pagata per una cena e per una notte con in più la promessa di una candidatura alle Europee e poi in consiglio comunale. La storia può essere liquidata, come fa l´avvocato Ghedini, dicendo Berlusconi comunque non colpevole e in ogni caso soltanto «utilizzatore finale» come se una donna fosse sempre e soltanto un corpo e mai una persona? Che cosa deve ancora accadere perché la politica, a cominciare da chi ha sempre sostenuto la leadership di Berlusconi, prenda atto che il capo del governo è vittima soltanto di se stesso? Che il suo silenzio non potrà durare in eterno? Che presto il capo del governo, trasformatosi in una sola notte da cigno in anatra zoppa, non è più la soluzione della crisi italiana, ma un problema in più per il Paese. Forse, il dilemma più grave e più drammatico se non si riuscirà a evitare che la crisi personale di una leadership divenga la tragedia di una nazione.

Corriere della Sera 18.7.09
L’offensiva prelude a sorprese per tutti
di Massimo Franco


Nel governo prevedono che l’offensiva arriverà al­meno fino ai ballottaggi di domenica e lunedì. Sono ottimisti: se davvero l’opposizione ha deci­so di insistere nella delegittimazione di Silvio Berlusconi, il tra­guardo minimo sarà la riunione del G8 all’Aquila a luglio. Il pre­mier continua a denunciare questa manovra, e aggiunge che non si lascerà travolgere. Ma il nervosismo appare palpabile. Il fatto stesso che i vertici del Pdl siano insorti per difenderlo evoca un logoramento.
Lo scontro violento con Massimo D’Alema, il dirigente del Pd che giorni fa aveva preannunciato «una scossa» contro palazzo Chigi, riaccredita un legame politico fra una parte della magistra­tura e pezzi d’opposizione in funzione antiberlusconiana. D’Ale­ma minaccia di denunciare chiunque sostenga che lui manovra le inchieste giudiziarie. Ma il sospetto che palazzo Chigi insinua, è di una conoscenza preventiva di alcune indagini in corso: tesi tut­ta da provare, ma favorita dalle esternazioni dalemiane più recen­ti.
Sono gli ingredienti perfetti per declassare la politica a rissa; e su argomenti che con programmi e alleanze hanno ben poco a che fare. Il paradosso è che dopo i ballottaggi riemergano un lea­der premiato dagli elettori e tuttavia in difficoltà; ed un governo dotato di una maggioranza sem­pre solida, eppure indebolita da vi­cende extrapolitiche. La Lega giu­ra che difenderà Berlusconi: atteg­giamento che sottolinea il ruolo crescente nella coalizione, ed un segnale al Pd affinché non si aspet­ti sponde, qualunque cosa succe­da.
Sempre che succeda. Per quan­to bersagliato quotidianamente, il capo del governo non sembra di­sposto a farsi da parte; né, secon­do il suo avvocato Niccolò Ghedi­ni, è ricattabile. L’ostentazione di normalità che Berlusconi ieri ha offerto tornando all’Aquila e sor­volando le zone terremotate, è un modo per esorcizzare le ombre. Operazione non facile, anche per i riflessi internazionali. E’ passa­to rapidamente in secondo piano l’incontro alla Casa Bianca con Barack Obama: forse perché non è andato male. E sono state rilan­ciate le polemiche sulla sua vita privata: probabilmente per que­sto è stata annullata la conferenza stampa prevista ieri nel capo­luogo abruzzese.
L’impressione è che la vicenda sia destinata ad offrire altre sor­prese. Ma non soltanto negative per Berlusconi. Nel Pd si va facen­do strada qualche dubbio sulla bontà di una campagna basata più su pretesi imperativi etici che su questioni politiche. L’invito al suo stesso partito di Pierluigi Bersani è indicativo. Anche perché non è chiaro se nel passato il Cavaliere abbia perso o non abbia vinto per le voci scandalose sul suo conto, o per degli errori politi­ci. E’ un’incognita non da poco: non solo per Berlusconi, ma per i suoi avversari.

il Riformista 18.6.09
È qui la festa?
Altro che Noemi, questa è crisi vera
di Fabrizio d'Esposito


Dopo Casoria, Bari. Stavolta, ad aggiungere un importante capitolo al logoramento della monarchia berlusconiana, è però il Corriere della Sera di Ferruccio de Bortoli, non la Repubblica di Ezio Mauro.

Dalle feste della Casoria di Papi alla Bari "rimborsata" di D'Addy
Chi è Giampaolo Tarantini? Ha incontrato Berlusconi al matrimonio della parlamentare Pdl Elvira Savino. Sarebbe lui il trait-d'union tra il presidente del Consiglio e Patrizia D'Addario.

Dopo Casoria, Bari. Stavolta, ad aggiungere un importante capitolo al logoramento della monarchia berlusconiana, è però il Corriere della Sera di Ferruccio de Bortoli, non la Repubblica di Ezio Mauro. In una pagina maneggiata con estrema prudenza dalla cronista Fiorenza Sarzanini si tratteggia quella che per il Pdl sarebbe la "scossa" evocata da Massimo D'Alema domenica scorsa: un'inchiesta sulla sanità in Puglia. Il colpaccio è un'intervista alla nuova Noemi del premier: una bionda di nome Patrizia D'Addario, presentatasi alle ultime comunali di Bari (7 voti) in una lista di sostegno al candidato del centrodestra, che rivela di aver passato una notte a Palazzo Grazioli (a pagamento come per il primo invito?) e di avere registrato tutto col telefonino. Per la prima volta, dopo i racconti di Unità e Riformista sulla satiriasi del Cavaliere, racconti di fonti dirette ma anonime, c'è dunque una donna che con nome e cognome ammette l'esistenza di un harem dislocato tra Villa Certosa e la residenza romana di Berlusconi.
Il personaggio chiave di tutta la vicenda è un rampante quarantenne pugliese, Giampaolo Tarantini. È lui che introduce D'Addario nel giro del presidente del Consiglio. La giovane parte da Bari in aereo e arriva a Roma per una festa a Palazzo Grazioli, in un contesto di alberghi di lusso e auto coi vetri oscurati. I pm del capoluogo pugliese si sono imbattuti nella movimentata vita privata del premier indagando su Tarantini e suo fratello Claudio, imprenditori della sanità con la Tecno Hospital. Il sospetto è il solito: mazzette in cambio di appalti. Corruzione. Giampaolo Tarantini, da chi lo conosce, viene descritto come una persona «molto sopra le righe». Al punto da avere affittato una villa accanto a quella di Berlusconi in Sardegna. Oltre alla Tecno Hospital, Tarantini ha partecipazioni in altre società, di cui una di recente costituzione con sede in un palazzo di Roma: G.C. Consulting srl, che risale al marzo di quest'anno.
Fonti di primissima mano della Procura barese riferiscono che sotto la lente di ingrandimento ci sono i suoi rapporti con il Cavaliere. E qui ritorna in ballo uno dei momenti clou dell'ultima stagione delle madamine berlusconiane: il matrimonio della giovane parlamentare del Pdl Elvira Savino, pugliese di nascita e di elezione e soprannominata Topolona da Dagospia. Ai magistrati risulterebbe un contatto al ricevimento tra Berlusconi e Tarantini. Era il 12 settembre del 2008, di venerdì, e tra gli invitati c'era anche l'attrice Sabina Began, indicata come l'Ape Regina della corte del premier. Non solo. Stando alla ricostruzione degli inquirenti, il giorno dopo, sabato 13 settembre, il Cavaliere andò all'inaugurazione della fiera del Levante a Bari e con lui ci sarebbero stati lo stesso Tarantini e un'altra avvenente pugliese: Angela Sozio, la rossa del Grande Fratello che venne fotografata a Villa Certosa seduta sulle ginocchia del presidente del Consiglio. Sozio doveva essere candidata alle ultime europee (da qui la partecipazione ai corsi di formazione politica a via dell'Umiltà, sede del Pdl) ma la sortita di Veronica Lario sul «ciarpame delle veline» l'ha fatta escludere all'ultimo momento utile.
L'inchiesta di Bari, però, sarebbe esplosiva anche sotto un altro fronte. Oltre, infatti, ai volti di altre ragazze che affiorerebbero dai faldoni delle indagini, potrebbe materializzarsi l'ultimo timore che ha agitato fino a sabato scorso alti esponenti del governo di centrodestra: la comparsa della droga. I pm che stanno scavando negli ambienti frequentati da Tarantini avrebbero trovato chiare tracce di cocaina. Ovviamente, al momento, la pista è tutta da verificare ma i boatos trapelati dalla Procura pugliese sono più che attendibili. Senza contare che le registrazioni di D'Addario starebbero circolando già a più livelli. La ragazza ha raccontato di aver avvicinato Berlusconi per parlargli di un progetto edilizio della sua famiglia. Ma alla fine ha «capito di essere stata ingannata e usata». E così si è decisa a parlare, mettendosi in contatto con il Corriere della Sera. Dopo Papi, è il turno di D'Addy.

il Riformista 18.6.09
Panico Pdl, sbanda pure Ghedini
«Silvio è solo l'utilizzatore finale»
La manona. L'avvocato-deputato: «Anche se la ragazza dice il vero, non c'è reato». Teorie del complotto, ora i sospetti si appuntano sui servizi.
di Alessandro De Angelis


Quando Silvio Berlusconi scende nel «parlamentino» di palazzo Grazioli dove è convocato l'ufficio di presidenza del Pdl si capisce che la «scossa» - copyright di Massimo D'Alema - non è come le altre. A meno di tre settimane dal G8 il Corriere dà notizia che l'inchiesta nel settore della sanità pugliese investe pure i festini pieni di belle ragazze nelle abitazioni del premier, a Roma e in Sardegna. Soprattutto, però, pubblica un'intervista choc a Patrizia D'Addario, che confessa di aver passato una notte col Cavaliere. A pagamento. E di avere le prove. Il premier si sfoga: «Questi mi vogliono abbattere. È grave che D'Alema aveva notizie dalle procure. Non è la prima volta che usano questi metodi, né sarà l'ultima. Io comunque non mi tiro indietro, anche se continueranno a colpirmi fino alle regionali».
Eppure qualcosa è cambiato, dopo il tassello pugliese. Lo si capisce dalle reazioni dei fedelissimi. Scomposte. Come la paura. L'ufficio di presidenza del Pdl dirama una nota ufficiale, firmata dal triumvirato Bondi-La Russa-Verdini: «Siamo di fronte ai resoconti più incredibili, alle foto travisate, alle immancabili intercettazioni estrapolate, alla violazione di ogni privacy, ai retroscena sentimentali, alle ricostruzioni da Bolero film». Segue dichiarazione del premier: «Ancora una volta riempiono i giornali di spazzatura e di falsità. Io non mi farò certo condizionare da queste aggressioni e continuerò a lavorare, come sempre, per il bene del paese». Ma la sensazione è che le armi del Cavaliere colpiscano a vuoto. La procura di Bari sta indagando per «induzione alla prostituzione». E l'avvocato del premier Niccolò Ghedini dichiara: «Qualsiasi ricostruzione si possa ipotizzare, ancorché fossero vere le indicazioni di questa ragazza e vere non sono, il premier sarebbe, secondo la ricostruzione, l'utilizzatore finale e quindi mai penalmente punibile». Più tardi preciserà: «Era una astratta spiegazione tecnico giuridica». Comunque è il segnale che il premier sta, se non nel banco degli imputati, sulla difensiva. I suoi pensano che la D'Addario è davvero in possesso di materiale per incastrare Berlusconi: foto, registrazioni pubblicabili. Praticamente un premier sotto ricatto.
È la notte del berlusconismo. Il Cavaliere pensa che ci sia una manina o una manona dietro l'operazione tesa a sostituirlo con un governo tecnico: il «piano eversivo» su cui ancora ieri ha sparato a zero. Un azzurro di rango chiede i microfoni spenti per descriverne i dettagli: «È in atto una strategia cilena tesa a cambiare il quadro politico attraverso una destabilizzazione di quello attuale. Anche in Cile c'erano due scioperi al giorno, le manifestazioni, e da ultimo, l'assalto alla Moneda. Qui siamo partiti con l'azione di pezzi di magistratura e con le campagne stampa sui giornali dei poteri forti. L'obiettivo è logorare il premier fino alle dimissioni. Tutta questa roba non può non essere orchestrata». Le procure e il loro rapporto con la sinistra sarebbero quindi solo una parte dell'orchestra («Vorremmo ricordare a D'Alema - dice Verdini - che già Violante, per la sua indebita rivelazione nei confronti di Marcello Dell'Utri fu costretto a dimettersi da presidente della commissione Antimafia»). C'è dell'altro. A palazzo Grazioli risulta infatti che nei prossimi giorni anche Repubblica tornerà a montare una serie di campagne sulle abitudini ludiche del Cavaliere. Tutte focalizzate sui doni che i tanti cortigiani offrivano al sultano per entrare nelle sue grazie. Inchieste che è difficile si possano costruire in un giorno. Il che significherebbe che ci sono cronisti, fotografi che per anni avrebbero pedinato il premier, senza alcun controllo. Tutt'altro che dettagli. Il capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto nei giorni scorsi ha messo sotto tiro i servizi segreti sulla questione delle foto di Zappadu a villa Certosa, violata da cinquemila scatti. E ieri pure Italo Bocchino, attaccando il lìder maximo, ha tirato in ballo i servizi: «D'Alema ha il dovere di spiegare al paese come faceva a sapere di possibili scosse riguardanti il governo proprio mentre era a Bari. Altrimenti è evidente che mesta nel torbido assieme a pezzi di apparati statali non fedeli alle istituzioni della nostra Repubblica».
È l'ora dei veleni. Chi, infatti, se non Gianni Letta, a palazzo Chigi, ha una lunga consuetudine di rapporti con i servizi? In molti si interrogano sul suo ruolo in questa fase. Così come su quello del capo dell'altro sub-partito nel Pdl, Giulio Tremonti. Che ieri - sempre sul Corriere - si è tirato fuori dal novero dei «complottisti». Fatto sta che nel palazzo sono cominciati i posizionamenti dei peones. Per la prima volta nella nuova era berlusconiana, iniziata poco più di un anno fa, i parlamentari della periferia dell'impero chiedevano alle vecchie volpi lumi su ciò che accadrà. Ammesso che qualcuno lo possa prevedere.

l’Unità 18.6.09
Fabbrica razzismo
I fatti, le notizie e la costruzione della paura
di Rachele Gonnelli


Da Erba alla Caffarella a Ponticelli: un’analisi di 319 casi di ordinaria xenofobia così come li hanno rappresentati i media. Tra distorsioni, pregiudizi e falsi allarmi che trasformano l’immigrazione in problema criminale da affrontare solo con la repressione

Lo studio della Ong Lunaria curato da docenti e magistrati «dimostra» come funziona un vero e proprio meccanismo

Andare contro la marea montante, quasi un’onda anomala, del razzismo, è faticoso. E fatica, mesi di lavoro, ci sono voluti per produrre il primo libro bianco sul razzismo in Italia. Un’opera collettiva a cui hanno partecipato professori universitari, magistrati, esperti di legislazione europea, messi insieme dalla ong Lunaria. «Siamo partiti dai fatti», ha spiegato la vicepresidente Grazia Naletto, presentando il volume, disponibile online sul sito dell’associazione (www.lunaria.org). E i fatti sono stati presi dalla stampa. Si tratta perciò di un poderoso lavoro di analisi critica di tutti i media, dalla tv ai quotidiani locali, dai siti alle agenzie di stampa. Alla ricerca dei meccanismi con cui si crea e si amplifica il razzismo fino a farlo diventare pervasivo nell’intera società. Meccanismi che agiscono spesso con l’inconsapevolezza o semi consapevolezza degli attori, in questo caso i giornalisti. «Non abbiamo alcun intento di criminalizzare i mezzi d’informazione», chiarisce Naletto. Casomai, spiega, stimolare una maggiore consapevolezza da parte degli operatori dell’informazione dei danni che la cattiva narrazione può produrre alimentando allarmi inesistenti e pregiudizi privi di fondamento. Miti negativi che spesso la politica invece di contrastare, utilizza per darsi visibilità e rafforzarsi. Con il risultato di ingigantire il rischio di una deriva anche legislativa.
Per scardinare questo circolo vizioso che si autoalimenta, sono stati perciò passati in rassegna i fatti e la loro rappresentazione nell’opinione pubblica in un lasso di tempo compreso tra il 1° gennaio 2007 e il 15 aprile 2009. Sono stati presi in esame 319 casi di «ordinario razzismo», smontati e ricostruiti nella verità dei fatti, ripuliti dell’apparato retorico e ricondotti su un piano di realtà. In più è stato fatto un lavoro più intenso e concentrato su otto principali casi di cronoca che hanno impegnato le prime pagine e le notizie di testa dei tg per mesi: la strage di Erba, l’uccisione nella metro di Roma di Vanessa Russo, l’omicidio di Giovanna Reggiani, il pogrom di rom a Ponticelli, l’uccisione a Milano di Abdul Guibre, la violenza subita a Parma da Emmanuel Bonsu, l’aggressione di Navtej Singh su una panchina in una stazione ferroviaria a Nettuno, lo stupro nel parco della Caffarella.
Non si tratta in effetti di una ricerca fatta di numeri e statistiche. Ma di una analisi qualitativa di un fenomeno - il razzismo - e delle sue declinazioni. L’indagine è quindi di linguaggio, sociologica, oltre che giuridica e etnologica. Si vuole dare un contributo alla decostruzione di un apparato simbolico che concepisce l’immigrazione solo come problema e problema non più sociale ma criminale. Nel tentativo di scardinare la legittimazione popolare di quella che si sta sedimentando come una legislazione speciale riservata ai migranti, che siano dotati o sprovvisti di documenti che attestino il loro arrivo in Italia tramite canali ufficiali o più facilmente il loro percorso di regolarizzazione e inserimento lavorativo.
Come può essere ultizzato il Libro bianco sul razzismo in Italia? Sicuramente anche nellle intenzioni degli autori potrebbe essere utilizzato nelle scuole, come testo base per un lavoro che deve essere comunque aggiornato e continuato. Perchè insegna appunto a leggere i contenuti dei giornali e dei telegiornali, notizie ma anche editoriali, sondaggi e interviste con l’esperto di turno, senza «bersi» ogni approccio in modo acritico. Un modo meno pubblicitario e più serio di far entrare la carta stampata in classe.
E poi potrebbe essere utilizzato da traccia per le scuole e i corsi universitari di giornalismo. Per creare nelle nuove leve di cronisti di nera una consapevolezza deontologica rispetta al tema dell’immigrazione. Tra l’altro la cronaca nera nella televisioni, come dimostra una ricerca dell’Osservatorio di Pavia citato nell’apparato critico del libro bianco, sta sempre più conquistando spazi di informazione sia nelle reti private che in quelle pubbliche. In questi ultimi due anni dal 40 al 60 % di tutte le notizie pubblicate o trasmesse in Italia sono da considerare legate alla problematica dell’immigrazione e dell’emergenza sicuritaria, hanno calcolato gli autori. Mentre tra i protagonisti delle storie di razzismo quotidiano, sia nel ruolo di attori che in quelle di vittime, ci sono essenzialmente i giovani. Il futuro. E per usare una citazione del libro: «Non bisogna dare per scontato che i discorsi siano privi di conseguenze».

l’Unità 18.6.09
«Intollerabile la tragedia e la devastazione di Gaza»
L’ex presidente Usa: coraggioso il discorso di Obama. L’alternativa a una pace giusta sarebbe una guerra ancora più dolorosa
intervista a Jimmy Carter di Umberto De Giovannangeli


Porto nel mio cuore i racconti di donne, uomini, bambini costretti a vivere come bestie più che come esseri umani. Non potrò mai dimenticare ciò che ho visto con i miei occhi: immagini di case, scuole rase al suolo in una deliberata devastazione». Parla Jimmy Carter, ex presidente degli Stati Uniti, premio Nobel per la Pace. Carter è in questi giorni a Gaza. Queste le sue impressioni.
Qual è l’immagine di Gaza che poterà con sé?
«Una immagine angosciante. Non ho potuto trattenere le lacrime quando ho visto con i miei occhi rovine, devastazione, vite distrutte...».
Il suo grido d’allarme sembra perdersi nel vuoto...
«Ciò è profondamente ingiusto e finché ne avrò la forza non smetterò di denunciare questa situazione. Mi lasci aggiungere che la tragedia di Gaza non è solo ingiusta sul piano umano, dei diritti della persona, ma è anche dannosa per la stessa causa della pace. Perché è impensabile rilanciare il dialogo quando metà di un popolo è costretta a vivere in una enorme prigione a cielo aperto. I riflettori si sono spenti, ma la sofferenza di quasi un milione e mezzo di palestinesi non è diminuita...».
E la comunità internazionale?
«Purtroppo la comunità internazionale sembra sorda agli appelli che giungono da Gaza».
A Gaza Lei ha avuto modo di incontrare i vertici di Hamas. Quali indicazioni ha potuto trarne?
«Mi pare importante l’affermazione di Haniyeh (primo ministro nel governo di Hamas nella Striscia, ndr.) di una disponibilità di Hamas ad accettare una soluzione negoziale se i confini fossero definiti entro quelli del ‘67. Un’affermazione che si accompagna con una valutazione incoraggiante dei leader di Hamas sulle posizioni assunte dal presidente Obama. Il confronto è possibile, spazi sembrano aprirsi, ma per rafforzare questa prospettiva occorre porre fine al blocco di Gaza. Non è solo una scelta umanitaria. È un investimento su una pace possibile».
Nel campo palestinese regna la divisione.
«E la divisione rende tutto ancora più difficile. Su questo punto ho molto insistito nei miei incontri politici a Gaza. Ai miei interlocutori ho detto che solo un governo di unione nazionale potrebbe porre fine alla sofferenza del popolo palestinese...».
Un governo con dentro Hamas...
«Mi pare inevitabile. Piaccia o no, Hamas rappresenta una parte significativa della società palestinese. Negare questo dato di fatto non aiuta la ricerca di un un accordo di pace che non può reggere se taglia fuori metà dei palestinesi. Occorre incalzare Hamas, ma non serve la sua criminalizzazione. Di questo è consapevole il presidente Obama come dimostra il suo discorso al Cairo. Un discorso coraggioso, di svolta...».
Lei sa che Israele l’accusa di unillateralismo filopalestinese.
«Sono rattristato di questa accusa perché la trovo ingiusta, non corrispondente al vero. Ai palestinesi ho ripetuto che non è bello vedere la distruzione operata a Gaza dalle forze armate israeliane, ma non è neanche buono quando mi reco a Sderot (una delle città israeliane più colpite dai Qassam di Hamas, ndr.) vedere i razzi che cadono sugli israeliani. Resto fermamente convinto che il solo modo di evitare che questa tragedia possa ripetersi, è raggiungere un vero accordo di pace tra palestinesi e Israele. Un accordo fondato sul principio “due popoli, due Stati”; un principio che ispira l’azione dell’amministrazione Obama».
Obama ha sottolineato a più riprese l’importanza del fattore tempo...
«Sono pienamente d’accordo con lui. Occorre essere consapevoli che l’alternativa ad una pace giusta, rispettosa dei diritti dei palestinesi come della sicurezza d’Israele, non è il mantenimento dell’attuale status quo, ma una guerra ancora più dura di quelle che hanno già segnato questa tormentata regione».
Un’altra questione cruciale nel conflitto israelo-palestinese è quella degli insediamenti. Un tema che divide il governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu e l’amministrazione Usa.
«Obama ha usato parole chiare definendo la colonizzazione dei territori occupati il principale ostacolo ad ogni accordo di pace. E si è impegnato di fronte al mondo perché questo ostacolo sia rimosso».
Il presidente Obama si è impegnato per un accordo di pace definitivo entro la scadenza del suo mandato, nel 2012.
“Vede, una cosa che abbiamo in comune è che io ho cominciato a lavorare sul Medio Oriente sin dal primo giorno del mio insediamento. E lui ha promesso a me e ad altri che avrebbe fatto altrettanto. Sta mantenendo la promessa. Questa è la sostanziale differenza tra Clinton, l’amministrazione Bush e Obama Una differenza che fa ben sperare».
(ha collaborato Osama Hamdan)

Repubblica 18.6.09
Israele, con Netanyahu la pace è impossibile
di David Grossman


I coloni e gli arabi
"Noi, incapaci di fare la pace questo ci ha detto Netanyahu"
"Nel suo discorso nessun riferimento ai sacrifici da fare"
Ha parlato senza onestà, non ha guardato i coloni negli occhi dicendo loro ciò che lui ben sa
Doveva rivolgere un appello agli arabi, lanciare loro una sfida da raccogliere

Il discorso di Benyamin Netanyahu è stato, come talvolta si suol dire, il discorso di una vita. Della nostra vita arenata, priva di speranze.
Ancora una volta la maggior parte degli israeliani può raccogliersi intorno a quella che sembra essere una proposta audace, generosa, ma che, al solito, è un compromesso tra i timori, il lassismo, e la magnanimità ipocrita del centro che sta "un po´ a destra e un po´ a sinistra". Ma quanto è grande la distanza tra tutto questo e la dura realtà, tra tutto questo e le legittime necessità, le giuste pretese dei palestinesi, accolte oggi dalla maggior parte del mondo, Stati Uniti compresi.
Ora, dopo che ogni parola del discorso è stata analizzata e soppesata, vale la pena di fare un passo indietro e osservare l´intera rappresentazione, l´intero quadro. Ciò che il discorso di Netanyahu ha rivelato, al di là di funambolismi ed equilibrismi, è la nostra impotenza, l´inanità di noi israeliani dinanzi a una realtà che esige flessibilità, audacia e lungimiranza. Se distogliamo lo sguardo da quella abile allocuzione e lo rivolgiamo agli ascoltatori, vedremo con quale entusiasmo costoro si barricano nelle proprie paure, avvertiremo il dolce deliquio provocato in loro dai palpiti di nazionalismo, di militarismo, di vittimismo: cuore vivo dell´intera concione.
All´infuori dell´accettazione del principio di due stati, spremuta a Netanyahu dopo grandi pressioni ed espressa in tono acido, in questo discorso non è stato compiuto alcun passo concreto verso un vero cambiamento di coscienza. Netanyahu non ha parlato «con onestà e coraggio», come promesso, di quanto siano rovinosi gli insediamenti e ostacolo alla pace. Non ha guardato i coloni negli occhi dicendo loro ciò che lui ben sa: che la topografia degli insediamenti è in contraddizione con quella della pace, che molti di loro saranno costretti a lasciare le loro case. Netanyahu era tenuto a dirlo. Non avrebbe per questo perso punti in un futuro negoziato con i palestinesi: ne avrebbe permesso l´avvio. Era tenuto a parlare a noi israeliani come a degli adulti, non avvolgerci in strati di coibente per proteggerci da fatti noti a tutti. Doveva parlare apertamente e dettagliatamente dell´iniziativa araba, indicare i punti che Israele è disposto ad approvare e quelli che non può accettare. Doveva rivolgere un appello agli arabi, lanciare loro una sfida che avrebbero potuto raccogliere, e avviare così un processo vitale per Israele. Per lunghi minuti si è invece dilungato sulle promesse e sulle garanzie che Israele deve ottenere dai palestinesi, ancor prima di iniziare un negoziato. Non ha accennato ai rischi che lo stato ebraico deve correre se vuole ottenere la pace. Non ha convinto di essere veramente intenzionato a lottare per la pace. Non si è posto a capo di Israele per guidarlo verso un nuovo futuro. Si è limitato a echeggiare noti timori.
Ho visto Netanyahu e l´impressionante percentuale di consensi da lui ottenuti dopo il discorso e ho capito quanto siamo lontani dalla pace. Quanto l´abilità, il talento, la saggezza di concludere la pace si siano allontanati da noi (e forse si siano atrofizzati in noi) così come lo stimolo salutare di salvarci dalla guerra. Ho visto il mio primo ministro impegnato in uno spettacolo acrobatico a labbra strette, in un´esibizione raffinata di rifiuto, di voluta cecità. Ho visto come funziona in lui quel meccanismo automatico che trasforma "un tentativo balbettato di parlare di pace" in un ben articolato auto-convincimento di essere condannati a finire per l´eternità trafitti da una spada. Ho visto e ho capito che da tutto ciò non avremo la pace.
Ho notato anche come gli esponenti palestinesi hanno reagito al discorso di Netanyahu e ho riflettuto che pure loro sono nostri partner fedeli in questo percorso di annichilimento e di fallimento. La loro reazione avrebbe potuto essere più saggia e avveduta del discorso stesso; avrebbero potuto persino aggrapparsi alla disdegnosa concessione fatta loro, controvoglia, da Netanyahu e sfidarlo ad avviare un negoziato, come da lui proposto all´inizio del discorso. Un negoziato durante il quale esiste una qual certa possibilità che le due parti discendano dall´alto dei loro vacui proclami e tocchino il terreno della realtà. E forse anche la terra promessa.
Ma i palestinesi, intrappolati come noi in un meccanismo di reazione belligerante e antagonista, hanno preferito parlare dei mille anni che trascorreranno prima che accettino le condizioni poste da Netanyahu.
Questo è il discorso di Netanyahu e questo è ciò che hanno rivelato le sue parole: anche se la maggior parte degli israeliani vuole la pace, probabilmente non è più in grado di raggiungerla.
Ci possiamo persino chiedere se noi, israeliani e palestinesi, comprendiamo veramente e profondamente il significato della pace, come potrebbe essere una vita pacifica. E subito sorge la domanda se una speranza di vera pace ancora esiste nella nostra coscienza.
Perché se questo non è il caso (e il discorso di Netanyahu l´ha chiarito in modo quasi imbarazzante) non avremo modo di concludere un accordo e, per quanto ciò suoni strano, non siamo nemmeno incentivati a farlo.
Il discorso di Netanyahu, che doveva elevarsi verso il nuovo spirito diffuso nel mondo dal presidente Obama, ci dice, tra le sue righe tortuose, che questa regione conoscerà la pace solo se questa ci verrà imposta. Non è facile ammetterlo, ma si ha sempre più l´impressione che sia questa la scelta davanti alla quale si troveranno israeliani e palestinesi: una pace giusta e sicura imposta alle parti da un fermo intervento internazionale, capitanato dagli Stati Uniti; oppure la guerra, che potrebbe rivelarsi più cruenta e amara delle precedenti.
(Traduzione Alessandra Shomroni)

Repubblica 18.6.09
La rivoluzione culturale di Obama
di Vittorio Zucconi


LA RIVOLUZIONE culturale promessa da Obama alla nazione e sancita dalla sua elezione arriva al nodo reale, al rapporto fra Stato ed economia, per riportarlo sulla strada non dello "statalismo", ma delle regole.
La grande riforma proposta ieri da Barack Obama è, come ha detto lui stesso, la «trasformazione» di questa relazione «in una scala che non si era più vista dalla Grande Depressione».
Nelle 85 pagine del "libro bianco" con le iniziative di legge depositate ora nelle aule del Congresso c´è realmente, sparpagliato in nuove agenzie e nuovi poteri di controllo, il segno del cambio radicale della filosofia di governo che da oltre 30 anni, da quando Jimmy Carter lanciò l´era della "deregulation" nel 1976 poi dilagata con Reagan, Clinton e Bush II, domina il pensiero politico nazionale, repubblicano o democratico che fosse. Il dogma della deregulation diventata sregolatezza, è tramontato. La rivoluzione, dunque, è prima culturale che amministrativa ed essa non sarebbe stata pensabile o proponibile se, a detta anche di governi europei certamente non di sinistra, la cultura del lasciar fare al mercato, di deregolare, di privatizzare, non avesse prodotto il "virus americano" della pandemia ancora in atto.
Il nocciolo della "grande trasformazione" è nel ritorno della Federal Reserve, l´organizzazione delle banche che formano l´istituto centrale di emissione, a quei compiti di sorveglianza e di controllo che fu creata non da Roosevelt, ma Woodroow Wilson nel 1913. Ma che non riuscì a impedire il crac bancario degli anni 30, fino alla decisione di dare compiti di protezione del risparmio e di supervisione alla Fed, nel 1935.
La Federal Reserve, il ministero del Tesoro, la nuova Agenzia Federale per la Protezione dei Consumatori, dovrebbero – se, ed è un "se" gigantesco, il Congresso le approverà – muovere proprio sulle due piaghe infette che avevano scatenato il contagio del settembre 2008 e che genericamente vennero affastellate sotto l´etichetta di "finanza tossica". Le due piaghe sono, la prima: quel mercato dei mutui truffa, spinti da banche e istituti di credito ansiosi di tuffarsi nel mare di profitti generati dal credito facile costruito sulla bolla dei prezzi immobiliari e sulla politica della "ownership society" della società dei proprietari, anche se quella proprietà era soltanto un gigantesco debito costruito sopra redditi insufficienti e tassi bidone. E, la seconda, l´universo primordiale delle "derivate", degli "hedge funds" che da quella tumescenza di ingenuità, ingordigia ed economia immaginaria costruita su equazioni matematiche e non su valori reali, era imploso, nella assenza di regole e di controlli. Il motore di una ricchezza immaginaria che ha, inevitabilmente, finito per divorare sé stessa.
Ora il governo federale dovrà imbrigliare la mandria dei mutui pazzi istituendo forme di credito semplificate e comprensibili, che non li espongano a pirati e usurai in colletti bianchi. E la Fed dovrà tenere alla briglia le banche e le grandi finanziarie superstiti, come la Goldman Sachs e la Morgan Stanley, accertandosi che le loro operazione e le loro offerte siano costruite su basi solide. «Ora sarà il governo a decidere che cosa i nostri clienti possano fare» ha pianto il Ceo di una grande banca regionale nel Sud, la BB&T, dimenticando di aggiungere che per decenni erano state le banche a decidere, nel proprio interesse, come i cittadini avrebbero potuto e dovuto vivere, e a tosarli.
Questo è il nucleo radioattivo della "trasformazione", con elementi satellitari che aumenteranno l´indignazione dei conservatori come l´estensione delle provvidenze sociali a tutti i dipendenti federali, comprese le coppie di fatto, dunque alle famiglie di omosessuali, il cambio epocale e generazionale di stagione. «Noi non abbiamo creato questo disastro – dice Obama – ma possiamo decidere come ne usciremo» e l´uscita è chiara: senza stravolgere il formidabile motore del capitalismo americano, quello che resta il traino, e a volte la zavorra, del convoglio economico mondiale, addirittura esentando in un eccesso di cautela quelle compagnie di assicurazione delle quali Obama ha bisogno per sperare in una riforma della sanità nazionale, la "lobby" di tutti, il governo, deve riprendere la propria responsabilità. E deve strapparla alle lobby private che hanno portato la più grande industria manifatturiera della storia, la GM, al fallimento e spinto le grandi banche a pietire l´elemosina dei contribuenti. È un tentativo di riportare in equilibrio un meccanismo che era ormai catastroficamente andato fuori controllo. Per fare questo Barack Obama era stato eletto il 4 novembre scorso e lui ci deve provare.

Corriere della Sera 18.7.09
Europee, pronto il ricorso
Sinistra e libertà e Prc «Ci spetta un seggio»


ROMA — Sinistra e Libertà e Rifondazione-Pdci sperano. Di ottenere un seggio ciascuno al Parlamento europeo, dal quale — per ora — sono esclusi, perché rimasti sotto il 4% dei voti. Dice Riccardo Nencini, segretario socialista (Sinistra e libertà): «Aspettiamo l’assegnazione ufficiale della Cassazione. Se non saremo ascoltati, è pronto un ricorso al Tar del Lazio». Tutto si basa su un’analisi di docenti di Giurisprudenza di Firenze, Milano, Roma e Cagliari. La legge prevede che si ripartiscano i seggi tra le liste che hanno raggiunto il 4%. Se restano seggi da assegnare si individuano i maggiori resti e, secondo la legge, «si considerano resti anche le cifre elettorali nazionali delle liste che non hanno raggiunto il quoziente elettorale nazionale». Interpretazione: vanno considerati anche i voti di chi non ha toccato il 4 per cento. Conseguenza: Lega e Idv perderebbero un seggio a testa, a vantaggio di Sinistra e libertà e Prc-Pdci.

La Stampa 17.6.09
Il prete pedofilo che imbarazza la Giunta Alemanno
di Giacomo Galeazzi


Bufera sulla decisione del Campidoglio di non costituirsi parte civile nel processo a carico di don Ruggero Conti, 56 anni, il parroco accusato di prostituzione minorile e atti sessuali su minori.
Pedofilo, secondo il capo d’imputazione, ma con «background» di garante per la famiglia e collaboratore del sindaco Gianni Alemanno per la Notte bianca della solidarietà. «E’ vergognoso che si protegga un grande elettore accusato di un reato infamante - attacca Francesco Storace, capogruppo de “La Destra” -. Il tribunale ha dato notizia di una lettera in cui il sindaco rinuncia a costituirsi parte civile». Poco dopo Alemanno corre ai ripari, rimuovendo dall’incarico Rita Camilli, il dirigente che ha applicato in maniera letterale il regolamento comunale che obbliga il Comune a costituirsi parte civile nelle violenze alle donne, ma non automaticamente in quelle sui minori. Il sindaco, in campagna elettorale, aveva inserito in una commissione di «saggi» don Ruggero, il sacerdote che avrebbe abusato per 10 anni di numerosi giovani affidati alle sue cure nell’oratorio o nei campeggi estivi. Un anno fa era stato arrestato nella parrocchia della Natività.
Le vicende contestate sarebbero avvenute tra il 1998 e il 2008 e vedono coinvolti minori maschi. In alcuni casi, secondo il pm, i ragazzi sarebbero stati indotti a «compiere o subire atti sessuali in cambio di denaro e di altra utilità, in genere capi d’abbigliamento». L’indagato avrebbe approfittato delle situazioni di disagio in cui si trovavano i minorenni, incluso il bambino affidato al prete dalla madre in pesanti difficoltà economiche. Il parroco avrebbe dovuto aiutarlo a studiare e, invece, avrebbe abusato del minore per una quarantina di volte in cambio di abiti o denaro, dai 10 ai 30 euro ogni volta. Stesso copione con un altro minorenne, con il quale avrebbe avuto quattro o cinque rapporti al mese. Avrebbe anche approfittato di un’altra vittima, dopo averla convinta a seguirlo nella sua abitazione.
Poi ci sono gli episodi avvenuti durante i campi estivi organizzati a Santa Caterina Valfurva o in Trentino. «Le accuse appaiono gravissime, perché riferiscono di un numero impressionante di abusi sessuali», si legge nelle motivazioni del Tribunale del Riesame. Nel processo, rinviato al 7 luglio, Mario Staderini dei Radicali ha utilizzato una norma dello statuto comunale che consente a qualsiasi cittadino di poter chiedere la costituzione di parte civile. Il presidente della sesta sezione penale Luciano Pugliese ha accolto la richiesta. Sarà la prima volta a Roma in un processo per abusi su minori.
«Suppliamo ad una precisa scelta dell’amministrazione comunale che ha deciso di non essere rappresentata - commenta Staderini -. Don Conti risulta essersi speso in campagna elettorale per Alemanno». Nessuno spazio per il dubbio tra chi lo dipinge come un dottor Jekyll e Mister Hyde, accusandolo di terribili nefandezze come l’aver abusato sessualmente di almeno sette giovani, e chi invece ne ha fatto «un martire.
Ieri all’udienza sono arrivati in centinaia dalla borgata Selva Candida, con tanto di t-shirt e scritte «Don Ruggero ti vogliamo bene». Hanno affollato l’aula del Tribunale guardando minacciosamente due delle presunte vittime. In aula c’era anche lui, don Conti. Nel pomeriggio, poi, Alemanno ha annunciato che ovvierà all’«errore burocratico», chiedendo alla corte la costituzione di parte civile.
Marinella Colombo, la madre milanese di due bimbi riportati in Germania, «è disperata e preannuncia lo sciopero della fame». Lo anticipa l’avvocato Gian Ettore Gassani, presidente nazionale dell’Ami (Associazione Matrimonialisti Italiani). Ai primi di maggio le Forze dell’ordine hanno prelevato a scuola i figli della signora Colombo, Leonardo e Nicolò (11 e 9 anni), per riportarli dal padre tedesco ai quali sono stati affidati dal giudice. Da allora la donna non ha più avuto contatti o notizie dei due bambini.

mercoledì 17 giugno 2009

Terra pagina 9 17.6.09
articoli di Orietta Possanza e Simona Maggiorelli

terra pag 9 17.6.09
Terra 17.6.09
Potere alla fantasia
di Pino Di Maula

Terra prima pagina 17.6.09
International Journal of Environment and Health, Vol. 3, No. 2, 2009
Bioethical issues: Environmental ethics between natural and social systems
by Claudio Ricciardi e Marcelo Enrique Conti

ENV.it_Ricciardi and Conti
Internazionale 799
Vincere






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Repubblica 17.6.09
La paura della pietà
Così muore un innocente nell’indifferenza di Napoli
di Francesco Merlo


Hanno tutti paura, ma non dei camorristi che hanno ormai concluso l´affare e non sono lì, e anzi non sono mai stati all´interno della stazione della metropolitana. Hanno paura sì, ma di intenerirsi, di sentirsi costretti a male impiegare il proprio tempo per confortare la solitudine di chi sta morendo in mezzo alla calca: tutti intorno a lui, ma nessuno accanto a lui.
Sicuramente teme, freddamente e lucidamente teme di dovere essere caritatevole quel tipo grasso con la maglietta rossa, una sagoma inespressiva e insignificante che, in questo video incredibile ed essenziale, smania per timbrare il biglietto mentre ai suoi piedi un ragazzo rantola e la sua donna si dispera perché nessuno lo soccorre. L´omaccione per bene, rispettoso delle regole dei trasporti pubblici, rimane calmo, non fugge e non si fa prendere dal panico. Con destrezza smanetta con il biglietto che è già nella fessura della macchina obliteratrice, ed è visibilmente infastidito dagli altri che invece scappano, fanno ressa, platealmente voltano la testa dall´altra parte che in fondo è solo il modo vile di guardare l´orrore. Quell´uomo invece non si fa mai coinvolgere, neppure da ignavo, neppure con lo sguardo, dal poveraccio che gli muore a fianco dissanguato.
Questa folla robotica, questo starsene lontani per indifferenza o per panico o per non ritardare gli affari propri è la sola vittoria della camorra che mai avremmo voluto vedere e che davvero non possiamo sopportare. Ed è bene metterselo in testa: la folla qui non ha paura dei pistoleros che avevano già sgommato ed erano fuggiti. Qui hanno paura della solidarietà. Avessero assistito alla sparatoria sarebbero rimasti tutti pietrificati. Invece questa folla è un formicaio atterrito che fugge dalla compassione, che sfugge alla misericordia.
La morte violenta è sempre insensata anche quando ha un senso, ma morire così non ha più nulla a che fare con tutte le nostre chiacchiere e le discussioni sulla criminalità organizzata, la storia, l´origine, le filosofie e i sociologismi. Ed è casuale, anche se straziante, che si tratti di un rom, di un suonatore ambulante, di un ragazzo che si porta addosso la dissoluzione di una comunità, di un mondo, di quell´Est che fu impero e che adesso sparge in giro umanità dolente, lavoratori immaginari, giovani e vecchi, donne e bambini mal pagati, maltrattai, invisi, temuti e discriminati.
E però è già capitato e forse ancora capiterà: a un friulano, a un veneto, a un padano, a uno di noi, a chiunque. Sebbene sia spaventoso dirlo, non è questo che ci atterrisce: la camorra che spara nel mucchio e uccide per errore è infatti l´antica bava della ferocia criminale che insanguina le nostre strade, l´orribile spruzzo di una violenza che è quotidiana, ubiquitaria, non solo napoletana e non solo meridionale. Ma la malattia morale dell´indifferenza è qualcosa di più e di diverso dall´abitudine alla morte. Guardatelo bene questo video: sono le immagini scandalose e disgustose di una paese infastidito da un innocente ammazzato. È pietosa quest´Italia che ha paura della pietà.

Corriere della Sera 17.6.09
Le immagini della videosorveglianza fanno paura perché mostrano un enorme vuoto disumano
Quel musicista con la fisarmonica e i trenta minuti di carità negata
di Maurizio Braucci


«Qui non lo lascio. No!» ha detto Mi­rela, la moglie di Petru Birlandeanu, il suonatore ambulante rumeno, ucciso dai killer della camorra il 26 maggio scorso, vittima innocente durante un’azione di rappresaglia criminale nel pieno centro di Napoli. Una settimana fa, Mirela è fuggita in Romania con i due figli e ha disposto che le spoglie del suo caro siano rimpatriate al più presto, lamentando così il duplice oltraggio su­bìto: l’assurdo ferimento di Petru duran­te la sparatoria e la sua agonia davanti ai tornelli di un’affollata stazione ferrovia­ria dove si era rifugiato malgrado fosse stato raggiunto da due proiettili. E’ rima­sto a terra per quasi mezz’ora Petru, mentre le immagini del sistema di video­sorveglianza riprendevano la gente che fuggiva via da Mirela che urlava dispera­ta, cercando un aiuto che nessuno le ha dato fino all’arrivo dell’ambulanza da un ospedale, il vecchio Pellegrini, distan­te 20 metri. La telecamera esterna mo­stra che solo alcuni minuti prima, Petru attraversava con Mirela piazza Monte­santo, davanti alla stazione della linea cumana che ogni giorno serve migliaia di pendolari e turisti. Ambedue appaio­no con il passo stanco di una giornata di fatica, la fisarmonica al collo con cui spesso li avevo visti girare tra i vicoli, suonando melodie che molti ripagava­no lanciando monete dalle finestre. Ep­pure, lì, in un momento cruciale, non hanno trovato nessuna carità. Non cre­do sia stata indifferenza quella di chi li ha evitati, erano persone spaventate, for­se raggiunte dal rumore degli spari appe­na trascorsi, forse semplicemente assue­fatte al vortice di una città violenta e ab­bandonata a se stessa. Non è stata indif­ferenza ma piuttosto ignavia, un’incapa­cità di agire secondo valori dignitosi ed umani, il prevalere di quella viltà con cui si tira a campare, cucendosi addosso mille giustificazioni e diritti, come ha esasperatamente imparato a fare l’Italia di oggi, non solo Napoli. Secondo alcu­ni, lo sguardo di chi ha tirato dritto ave­va compreso che si trattasse di un immi­grato, di uno che conta zero, che qui non ci dovrebbe stare, forse per questo, durante la commemorazione del 4 giu­gno voluta dai centri sociali, una mano ha scritto provocatoriamente su un bi­glietto: un fiore per te Petru, questa era la tua città. Non sono del tutto convinto di questa posizione che, sebbene al pas­so con i tempi, fa salve ancora delle pos­sibilità di solidarietà diffusa. Quando nelle immagini a circuito chiuso, si assi­ste allo svuotamento del piccolo andito da cui tutti sono fuggiti e Mirela resta sola con il suo uomo agonizzante, si pro­va paura, una paura che va ben oltre quella della camorra e del degrado, la pa­ura di ciò verso cui stiamo andiamo: un enorme vuoto disumanizzante, su uno sfondo metallico e impietoso, dove il sangue e le vittime del reale non riesco­no a provocare vergogna e indignazio­ne. Inoltre, per quanto ancora i proble­mi di una città italiana, terza metropoli della nazione, dovranno essere isolati dal contesto generale e trattati come emergenze ed eccezioni che si affronta­no con l’esercito, le misure speciali o con ridondanti dissimulazioni? Forse per sempre Napoli resterà «il ritratto di Dorian Gray» per un’Italia che non vuo­le vedere quanto è culturalmente e an­tropologicamente mutata, in peggio.

l’Unità 17.6.09
«Teheran non diventi una nuova piazza Tiananmen»
Lo scrittore: Chi riempie le piazze e sfida le milizie ha un’ansia di libertà
che va al di là delle intenzioni degli attuali leader dell’opposizione
Intervista a Abraham Bet Yehoshua di Umberto De Giovannangeli


Il primo pensiero va alla «Primavera» iraniana. «Il mondo libero deve agire perché Teheran non si trasformi in una nuova Tiananmen. Quei ragazzi, quelle donne che scendono nelle strade, riempiono le piazze e sfidano le milizie armate, sono portatori di una istanza di libertà e di cambiamento che va ben al di là degli stessi propositi dei loro attuali leader e dei regolamenti di conti all’interno del regime». A parlare è il più affermato tra gli scrittori israeliani contemporanei: Abraham Bet Yehoshua. Il nostro colloquio prende spunto dal discorso del premier israeliano, Benjamin Netanyahu. Yehoshua sorride quando gli dico che il suo giudizio è stato interpretato come un sostegno al premier: «Non c’è in me alcuna “conversione” politica né un tardivo innamoramento per “Bibi”. Ciò che ho constatato, positivamente, è che in quel discorso per la prima volta un leader della destra fa esplicito riferimento ad uno Stato palestinese. E qui le parole pesano come pietre...».
Yehoshua fa il tifo per Netanyahu?
«No, ma sono sufficientemente obiettivo per riconoscere che in quel discorso, Netanyahu ha fatto un’affermazione importante, impegnativa, su cui lavorare...».
Lo Stato palestinese. C’è chi sostiene: roba vecchia.
«Mi permetto di dissentire. Una considerazione che potrebbe apparire scontata se svolta da un leader di sinistra o di centro, acquista un’altra valenza se viene fatta da un leader di destra di un governo delle destre. E per la prima volta un leader della destra ha parlato esplicitamente di uno Stato palestinese...»
Uno Stato smilitarizzato, però...
«Su questo punto non c’è differenza alcuna tra chi, come me, è orientato a sinistra e un israeliano di orientamento diverso: la smilitarizzazione di un eventuale Stato palestinese rappresenta una condizione necessaria per gli israeliani. Tutti gli israeliani, indipendentemente dalla loro coloritura politica».
Altro tema delicato è quello degli insediamenti. Il presidente Obama ne chiede il blocco.
«Una premessa è d’obbligo: senza il discorso pronunciato al Cairo da Barack Obama, Netanyahu non sarebbe uscito allo scoperto, e non avrebbe pronunciato la parola Stato (palestinese). Lo stesso vale per gli insediamenti: Netanyahu si è impegnato a non costruirne di nuovi. È un primo passo, non la conclusione di un percorso...».
Il che significa, restando al tema degli insediamenti?
«Significa smantellare tutti gli avamposti dei coloni e bloccare l’ampliamento dei lavori di espansione degli insediamenti esistenti...».
Su questo Netanyahu recalcitra.
«Per questo parlo di un primo passo, che da solo non può bastare. Mi lasci però aggiungere che, dal mio punto di vista, la questione davvero cruciale è un’altra...».
Quale?
«La definizione dei confini. Questo è il punto di svolta. Perché la mancanza di confini fra due nazioni è una delle cause principali del sangue versato in tutti questi anni. La divisione fisica, territoriale, è il mezzo per porre fine al disegno del Grande Israele e della Grande Palestina. Ed è questo il banco di prova decisivo su cui misurare Netanyahu. Se proverà a contrattare sulla questione dei confini, allora il processo di pace potrebbe arenarsi definitivamente».
Quando parla di confini a quali si riferisce?
«A quelli del ‘67, con i correttivi negoziati tra le parti sulla base di un principio di reciprocità».
In una passata conversazione, Lei parlò delle implicazioni identitarie, insite nella questione dei confini. È ancora di questo avviso?
«Assolutamente sì. Definire i confini ci impone di ripensare noi stessi, rivisitare la storia di Israele e tornare agli ideali originari del sionismo, per i quali l’essenza dello Stato di Israele non si incentrava nelle sue dimensioni territoriali né in un afflato messianico, bensì nella capacità di fare d’Israele un Paese normale. Ed è proprio questa l’essenza della mia, e spero non solo mia, idea di pace. La pace è la conquista della normalità».
Pace significa anche condividere Gerusalemme?
«Gerusalemme non può che essere condivisa, non solo dai due popoli ma dall’intero genere umano, perché Gerusalemme è un patrimonio dell’umanità».
Molti nel suo Paese mettono in discussione che Obama sia amico d’Israele.
«Io la penso esattamente all’opposto. Obama è l’amico che io vorrei sempre avere al mio fianco. Un vero amico non è quello che ti fa passare tutto, ma chi ti aiuta a correggere gli errori che fai. Obama è amico d’Israele quando dice che la nascita di uno Stato palestinese non mina la nostra sicurezza ma può rafforzarla».

il Riformista 17.6.09
Libertà femminile, cosa ci insegnano le donne iraniane
Oppresse dal regime, certo. Ma con veli colorati e vivaci, il rossetto e libri sotto il braccio. No, non sembrano schiave.
di Ritanna Armeni


Sono molte le immagini femminili che si sono imposte in queste settimane sui mass media e che sono state al centro del dibattito politico. Sono molte le domande che quelle immagini hanno posto. Una soprattutto: in quali di quei volti e di quei comportamenti è possibile riconoscere un moderno e nuovo modello di libertà, di emancipazione, di autonomia, di riscatto?
Abbiamo visto Noemi e le veline. Certo è difficile collocarle dentro un modello di emancipazione eppure c'è chi sostiene che quelle donne hanno esercitato o vogliono esercitare la libertà di usare il loro corpo e la loro bellezza per fare carriera nello spettacolo e nella politica. Anche quella - dice qualcuno - è libertà.
Sono rimasta colpita dalle "amazzoni" di cui si circonda il colonnello Gheddafi. Giovani donne tanto forti e coraggiose da fare le guardie del corpo al più volte minacciato rais. Ho appreso poi che erano state scelte guardie di sesso femminile per un compito tradizionalmente maschile perché meno inclini alla ribellione. Ma per loro è così? Come vivono quel loro ruolo e come lo vivono le donne che le osservano? Certo l'immagine della ministra spagnola Chacon che passava in rassegna le truppe in Afghanistan o di Rachida Dati, ministra francese che tornava al lavoro a cinque giorni dalla nascita del figlio erano immagini di emancipazione più rassicuranti e attese, ma possono cancellare le altre?
Poi ho visto le donne iraniane. Oppresse dal regime, certo, private dei diritti, certo, costrette al velo, simbolo di oppressione, ci ripetono. Sarà, ma guardiamole bene. Veli colorati e vivaci e, sotto, occhi sottolineati dal kajal, bocche rosso vermiglio, riccioli e frange che spuntano sotto il chador. E libri sotto il braccio. Il 70 per cento delle studentesse universitarie sono donne. Saranno oppresse, ma schiave proprio no.
Dovunque guardiamo vediamo molta ambiguità. Immagini sfocate o confuse in cui dove magari sembra di leggere sottomissione appare e può apparire la libertà e dove si crede di trovare la libertà si nasconde una nuova forma di oppressione. Anche a casa nostra, dove alcune ministre della Repubblica, malgrado i loro sforzi, non riescono a liberare la loro immagine da quella di "prescelte" dall'imperatore. E dove persino giovani donne capaci, intelligenti e con una carriera politica alle spalle come Debora Serracchiani non riescono a cancellare il dubbio di essere usate nei giochi di corrente del proprio partito proprio perché donne.
Mi sono chiesta il perché di tutto questo. Perché non riesca nella nostra società ad emergere un'immagine chiara e definita di forza, protagonismo, autonomia femminile da indicare alle donne, come esempio e modello. E invece le immagini femminili abbiano non poche volte contorni confusi e contengano una sostanziale ambiguità. Come se un'immagine prima unica si fosse divisa e al suo posto ne apparissero tante e diverse.
Pure fino a qualche decennio fa tutto sembrava molto chiaro. Il riscatto femminile passava per l'emancipazione e questa significava studio e lavoro. Poi al riscatto dello studio e del lavoro si è aggiunta la ricerca della libertà e l'affermazione della differenza femminile, una dichiarazione più precisa e orgogliosa della propria identità sessuale. Questo è stato in estrema e imperfetta sintesi il femminismo.
Oggi districarsi è più difficile. Modelli non ne esistono più e per molti motivi. Intanto si è rotta anche per le conquiste femminili un'idea di progresso. Si è capito che su alcune cose che parevano conquistate per sempre si può tornare indietro. Si pensi ai continui attacchi alla legge sull'aborto. Si ha il dubbio che molte conquiste che parevano avanzate possono essere state un inganno. Basti pensare al percorso della maternità prima messa in secondo piano rispetto all'emancipazione e poi esaltata come forma di differenza e superiorità femminile. E inoltre sono ancora molte ad essere sedotte dalla possibilità di compiacere e affermarsi negli interstizi e nei meccanismi dei modelli maschili.
In secondo luogo il mondo ci ha presentato ormai un'infinità di identità femminili che fino a qualche decennio fa non facevano parte della nostra quotidianità e che oggi o grazie all'immigrazione o grazie ai mass media sono entrate nella nostra vita. Possiamo cancellarle da un percorso, sia pure diverso dal nostro, di ricerca di libertà? Siamo in grado di definire oggi noi le categorie e i paletti della libertà femminile e soprattutto di delinearne in percorsi?
Credo di no. Credo che il compito delle donne occidentali, emancipate, liberate sia quello di rivendicare il proprio percorso e di metterlo a disposizione delle altre. Mentre mi pare difficile che oggi esse si possano proporre come modello unico sia in casa propria che fuori. E anche che possano indicare un percorso uguale per tutte. Possono vigilare, criticare, discutere e condannare se necessario. Ma oggi hanno il compito soprattutto di ascoltare e osservare. Le diverse e spesso contraddittorie immagini di libertà e di protagonismo femminile aspettano una discussione, anche aspra, ma aspettano soprattutto di essere viste e considerate. Chi si sentirebbe di dire che quella ragazza iraniana che manifesta con chador abbia una idea di libertà inferiore alla nostra?

il Riformista 17.6.09
Sondaggio a Gerusalemme dopo il discorso all'università di Bar Ilan il premier vola al 44%
7 israeliani su 10 sono con Netanyahu
di Anna Momigliano


Benyamin Netanyahu un risultato l'ha portato a casa: il suo discorso è piaciuto a oltre sette israeliani su dieci. Lo rivela un sondaggio pubblicato ieri dal quotidiano progressista Haaretz, effettuato con la collaborazione della società Dialog e dell'Università di Tel Aviv. Il 71% dei cittadini valuta positivamente il discorso del primo ministro pronunciato domenica scorsa all'Università di Bar Ilan, quello in cui ha parlato di uno Stato palestinese smilitarizzato e di una «non espansione» delle colonie in Cisgiordania. E l'indice di popolarità del premier, fino a poche settimane fa a terra, è aumentato di ben sedici punti, dal 28 al 44%.
Numeri che sembrano confermare una teoria: quando ha parlato tre giorni fa, Netanyahu si stava rivolgendo soprattutto a un pubblico interno. Prima ancora di essere una risposta alle storiche parole di Barack Obama al Cairo, e certamente prima di essere rivolto ai leader arabi, il discorso del premier israeliano aveva soprattutto l'obiettivo di ricompattare il fronte interno. Un'impresa non da poco, quella di mettere d'accordo gli israeliani, in un Paese dove le fratture interne alla società sono assai profonde: laici contro religiosi, destra contro sinistra, i sostenitori del ritiro dai Territori contro i coloni. Mai sentito la barzelletta secondo cui per ogni quattro israeliani ci sono sette partiti politici?
Ebbene, almeno sul fronte interno, Netanyahu è riuscito ad accontentare, e soprattutto a rassicurare, un po' tutti. Ha rassicurato la sinistra, sua alleata di governo, che pure senza entusiasmo ha visto nelle parole rivolte ai leader arabi («sono pronto a incontravi in qualsiasi momento») e nella formula magica "Stato palestinese" un buon inizio: «Un passo positivo nella direzione giusta, nonostante sia arrivato notevolmente in ritardo», si leggeva ieri in un editoriale non firmato di Haaretz. Ha rassicurato i centristi di Kadima, che hanno riconosciuto nei concetti moderati il buon senso pragmatico di Ehud Olmert e Tzipi Livni: ora il 49% dei kadimisti vorrebbe che Livni entrasse a fare parte dell'esecutivo, mentre il 37% è contrario. Ed ha compattato i suoi: stando al sondaggio, ben il 90% degli elettori del Likud, il partito conservatore del primo ministro, ha apprezzato il discorso di domenica. Persino i coloni si erano complimentati per il suo «livello di Sionismo» (parole dello Yesha Council, l'organizzazione dei "settler" in Giudea e Samaria) nonostante il riferimento allo Stato palestinese e quel «non abbiamo intenzione di costruire nuovi insediamenti né di espropriare altra terra». Perché si è rivolto a loro con affetto: «I coloni non sono nemici del popolo né nemici della pace».
Netanyahu, insomma, ha lavorato sulle ferite profonde che dai tempi di Yitzhak Rabin laceravano la società israeliana. Ma a differenza di Obama non è riuscito a infiammare gli animi, né a dare speranze concrete per il futuro. Sempre secondo il sondaggio pubblicato ieri infatti, «la maggioranza degli israeliani non crede che il processo di pace vedrà alcun sostanziale passo avanti alla luce del discorso» e sempre una maggioranza degli israeliani «sostiene che uno Stato palestinese demilitarizzato non sarà creato entro i prossimi anni».
Parole che piacciono, dunque, ma solo parole? Secondo l'analisi che Haaretz fa del sondaggio, se il premier vuole mantenere il successo deve basarsi proprio sulle parole. «I numeri mostrano che quando Netanyahu si occupa di difesa e sicurezza, con un piglio di leadership e non sfruttando le paure, il pubblico lo sostiene. Ma quando lo giudicano in base alle sue azioni, come la legge finanziaria, la gente non è dalla sua parte». In ogni caso, il consiglio è: «Netanyahu needs to operate less and lead more». Con gli israeliani funziona, ma con Obama?

Repubblica 17.6.09
Un’indagine inesistente
di Giuseppe D’Avanzo


Strillano i caudatari la loro soddisfazione per l´archiviazione dell´inchiesta sull´abuso dei "voli di Stato", affollati di stornellatori e ballerine di flamenco in viaggio verso Villa Certosa. Non si comprende la ragione di tanto "azzurro" entusiasmo.
La decisione della procura di Roma non nasce nella scena giuridica. Corrisponde a una cabala socio-politica - come spesso accade quando l´ufficio giudiziario della Capitale incrocia comportamenti e abitudini "eccellenti". In realtà, non c´è stata alcuna coscienziosa indagine, ma soltanto un controllo burocratico di cinque foglietti di carta con la lista dei passeggeri dei voli Roma-Olbia del 24, 25 e 31 maggio, 1 giugno e 17 agosto 2008. Addirittura in cinque - il capo, l´aggiunto, tre sostituti - hanno accertato che su quei voli c´era anche il presidente del consiglio. Quindi, partita chiusa, fine di ogni interesse. E´ vero, lo stornellatore e la ballerina (immortalati negli scatti del fotoreporter Antonello Zappadu) sono «manifesti passeggeri» a scrocco, ma non c´è stato «alcun danno patrimoniale» né sono «emersi casi di soggetti estranei che hanno viaggiato in assenza del presidente». «Insussistente» dunque l´abuso d´ufficio. «Insussistente» anche il peculato. Va detto che nessuno a Roma ha accertato chi ci fosse a bordo in altri voli e se fosse sempre presente il presidente del consiglio o un ministro. Un´indagine più credibile si sarebbe forse chiesta (c´è chi in procura lo ha inutilmente proposto): bene, accertiamo l´effettiva presenza sul volo del capo del governo; allarghiamo lo spettro delle verifiche non soltanto a quei cinque voli, ma per cominciare ai tre mesi estivi; ascoltiamo gli equipaggi. Insomma, se indagine sull´uso e l´abuso dei "voli di Stato" deve essere, che lo sia e che sia attendibile e rigorosa.
Troppo, evidentemente, per un ufficio giudiziario che, fin dalle prime mosse di questo affare, ha mostrato una premura "quietista" pari soltanto all´assoluta indisponibilità ad avventurarsi addirittura in un´inchiesta "vera". Non è la sola ombra affiorata nell´attività della procura. Lo si ricorderà. Con precipitosa solerzia, Roma - pur palesemente incompetente - sequestra le immagini "rubate" dal fotoreporter tra i patii di Villa Certosa. Il legale del premier avrebbe dovuto infatti presentare la sua richiesta alla magistratura di Tempio Pausania ma l´avvocato Ghedini, quell´ufficio, lo ha in odio perché non gli dà sempre ragione come pretende. Boccia una sua richiesta quando, qualche anno fa, Zappadu immortala cinque ragazze sedute sulle ginocchia del premier (la magistratura sarda chiede l´archiviazione per il reporter impiccione).
Niente Tempo Pausania, allora. Ghedini presenta la sua richiesta urgente di sequestro alla procura di Roma che la concede salvo poi dichiararsi incompetente e spedire il fascicolo a Tempio Pausania. La manovra ha il suo esito positivo per Berlusconi. Quelle foto non potranno essere pubblicate, anche se il capo del governo le definisce innocenti.
L´atto di sottomissione della procura di Roma lascia affiorare «molto malumore» tra i pubblici ministeri. La diffusa irritazione impedisce di replicare la manovra abusiva quando Zappadu ammette che gli scatti non sono centinaia, ma cinquemila. Con scrupolo, finalmente, Roma rifiuta una seconda istanza di sequestro di Ghedini e spedisce l´incarto a Tempio Pausania. L´insoddisfazione domina tra i pubblici ministeri di Roma anche in queste ore. Piace poco la solerzia (ancora) con cui l´ufficio di Giovanni Ferrara ha chiuso la seconda inchiesta (questa volta competente) senza avanzare al tribunale dei ministri neppure una richiesta istruttoria.
E´ vero, conclude la procura, il regolamento dei "voli di Stato" in vigore nella primavera del 2008 era molto restrittivo e non c´è dubbio che quegli ospiti non avevano il rango per viaggiare a spese del contribuente, ma c´era anche il capo del governo e non c´è stato « né un danno per lo Stato né un apprezzabile ingiusto profitto per Berlusconi». E´ scontato che il tribunale dei ministri accetterà, come già ampiamente previsto, l´archiviazione. La conclusione dell´affare penale lascia aperta una questione che giuridica non è. La si può dire etica o, se è troppo, socio-politica: è corretto che la "corte" di Berlusconi - musici e ballerine e giovani ospiti - viaggino a ufo per rallegrare a Punta Lada i week-end del signore di Arcore?

l’Unità 17.6.09
L’incontro tra Obama e la sua antitesi l’Imperatore italiano
L’impudente imprenditore che gestisce il governo come fosse un suo feudo personale, è alleato di un partitino razzista e inseguito dagli scandali sessuali
di Federika Randall, The Nation


Come sarebbe stato bello essere una mosca il 15 giugno quando Barack Obama ha incontrato Silvio Berlusconi!
Berlusconi, l’impudente imprenditore miliardario che gestisce il governo italiano come fosse un suo feudo personale. Proprietario di diverse emittenti tv, riviste e quotidiani. Creatore di ministre giovani ed attraenti ma con poche credenziali professionali. È l’uomo che si è cucito addosso la totale immunità giudiziaria, tanto che quando il suo avvocato inglese, David Mills, cui si deve la creazione della catena di conti correnti offshore, è stato recentemente condannato per aver intascato da Berlusconi una grossa mazzetta per testimoniare il falso sui suddetti conti correnti, Berlusconi non è stato nemmeno sfiorato dalla giustizia.
«L’Imperatore», come l’ha definito il 3 maggio sua moglie, Veronica Lario, annunciando la sua intenzione di chiedere il divorzio. L’uomo che ama intrattenere gli ospiti (come l’ex premier ceco Mirek Topolanek) nella sua villa privata in Sardegna con dozzine di giovani donne appetitose, alcune minorenni, per piacevoli pomeriggi di musica e topless accanto alla piscina. Il burlone che ha commissionato l’oscenamente servile inno «Meno male che Silvio c’è» e che, tra una applicazione e l’altra di fondo tinta e botox, e tra un lifting e un trapianto di capelli assomiglia sempre più al leader nordcoreano Kim Jong Il, anche sotto il profilo della lacca per capelli e del bavaglio alla stampa. Il dispensatore di «panem et circenses» che tre giorni prima delle elezioni è apparso in tv, ha guardato fisso nella camera e ha negato di aver già venduto la star della sua squadra di calcio, il Milan (e invece Kakà era stato venduto). Il gentiluomo che non ha protestato quando il tabloid di destra Libero ha pubblicato in prima pagina le foto della moglie Veronica a seno nudo durante uno spettacolo teatrale di molti anni fa e non ha protestato nemmeno quando Il Giornale ha pubblicato le foto del suo presunto amante.
In breve, il politico il cui Pdl ha preso più voti di tutti (35%) in occasione delle elezioni per il Parlamento Europeo del 6-7 giugno. Un solo motivo di conforto per la maggioranza che non lo ha votato: Berlusconi si aspettava un successo ben più clamoroso. Fino a due giorni dalle elezioni era ancora convinto che il Pdl avrebbe preso almeno il 45% consentendogli di superare il 50% dei suffragi insieme al suo alleato: il partito xenofobo e anti-immigrati della Lega Nord. Della cui visione angusta e piena d’odio Berlusconi ora è più che mai ostaggio.
I partiti xenofobi non hanno trionfato solo in Italia. In Olanda, Austria, Ungheria e Finlandia, partiti nazionalisti di estrema destra hanno ottenuto percentuali tra il 10 e il 18% e persino in Gran Bretagna l’estrema destra ha ottenuto due seggi. In tutta Europa i partiti socialdemocratici hanno ottenuto risultati deludenti mentre sono andati bene i conservatori. Ma l’Italia è un caso a parte a causa dell’immenso potere mediatico di Berlusconi, dei molti rinvii a giudizio collezionati e del suo sfacciato conflitto di interessi. E non di meno gli italiani votano per Berlusconi per alcune delle ragioni per le quali altri europei votano per la destra radicale.
Anzitutto Berlusconi è un faro per quel quasi 25% dei lavoratori italiani titolari di esercizi commerciali e di piccole imprese di servizi – un po’ come «Joe l’idraulico». Questo settore, a lungo sotto la tutela della Dc, al momento non ha gli strumenti per affrontare la concorrenza di mercato del ventunesimo secolo ed è colpito duramente dal declino economico. Molti di loro, comprese le piccole aziende manifatturiere che fanno profitti in periodi di vacche grasse, sono cronici evasori fiscali, realtà che Berlusconi, come ha fatto capire da tempo, tollera e non contrasta.
In secondo luogo, Berlusconi e i suoi alleati hanno investito pesantemente nella politica della paura e dell’odio. Facendo la sua comparsa a Milano il giorno prima delle elezioni, nell’ultimo disperato tentativo di strappare qualche voto alla Lega Nord, Berlusconi ha dichiarato che aveva visto così tante facce nere da fargli sembrare Milano una «città africana». Il governo non ha una politica economica in grado di affrontare la disoccupazione e l’impoverimento causato dal processo di globalizzazione. Attaccare gli immigranti è la sola vera strategia di Berlusconi.
Ma Berlusconi potrebbe essere la rovina di se stesso. E la «questione femminile» – le legioni di seducenti giovani veline che ama portare ai vertici della politica, i suoi legami non chiariti con Noemi Letizia, adolescente napoletana che aspirava a diventare velina, le accuse di sua moglie secondo cui sarebbe «malato» e «frequenta minorenni» – potrebbe essere la sua Waterloo. Ad un incontro di Confindustria, Berlusconi ha tentato di adulare la presidente degli industriali, la 44enne Emma Marcegaglia, dicendole che sembrava «proprio una velina», uno sciagurato passo falso. Sì, gli imprenditori hanno allevato Berlusconi sperando di ottenere favori dal suo governo. Ma non pensano – e non lo pensa Emma Marcegaglia – che si troverebbero meglio nell’harem dell’imperatore.
© 2009, The Nation Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Corriere della Sera 17.6.09
Addio a Caprara, da Togliatti alla scoperta di Dio
di Andrea Garibaldi


Il lutto. Ex braccio destro del «Migliore», confessò: «Tra gli ex comunisti è D’Alema quello che gli assomiglia di più». Nel ’69 fu radiato dal Pci con gli altri del «manifesto»

ROMA — Massimo Caprara, morto all’alba di ieri al «Fatebenefratelli» di Milano, ha avuto una vita lunga 87 an­ni e intensa come dieci vite, ha visto più volte la Storia a un passo e si è concesso il lusso di cambiare idea.
Segretario particolare di Togliatti dal 1944 fino alla morte del «Miglio­re », a Yalta, agosto 1964. Radiato dal partito nel ’69, con gli altri del manife­sto.
Giornalista capace di buoni colpi, come una delle ultime interviste ad Al­lende. Sindaco di Portici. Scrittore di molti libri. Candidato sindaco di Na­poli, 1993, per il Partito popolare, con­tro Bassolino. Autore di alcuni articoli sul Secolo d’Italia e, negli ultimi anni, colpito da un incontro. Con il Vange­lo, dalle parti di Comunione e libera­zione.
Per quattro legislature, a partire dal 1953, Caprara fu deputato del Pci e de­finito «il più elegante di Montecito­rio », come solo un napoletano sa (o forse sapeva) essere. A Napoli era in quel gruppo di comunisti colti, Napo­litano, Ghirelli, il regista Rosi. E a Na­poli sbarcò Togliatti, di ritorno dal­­l’Urss, marzo 1944. «Per un mese — ha raccontato Caprara a Stefano Lo­renzetto del Giornale — Togliatti non mi parlò mai di politica. Solo letteratu­ra, italiana e francese. I capi comuni­sti erano tutti figli dell’alta borghesia. Fui nominato sul campo suo segreta­rio e caporedattore di Rinascita ».
Pian piano, Caprara si immerge nel­la politica. Come segretario, è «colle­ga » di Andreotti, che affianca De Ga­speri. Andreotti nota che Caprara as­sume l’indole cospirativa di Togliatti: «Andava perdendo, foglia a foglia, la sua napoletanità, per assomigliare a un compassato giovane diplomatico della Mitteleuropa». Caprara è stato un occhio fedele, con una punta di di­sincanto, dentro le mura comuniste mondiali. Ha raccontato, ad esempio, quando fu chiamato presso l’Ufficio Quadri di Botteghe Oscure: «Abbia­mo pensato che è arrivato per te il mo­mento di sposarti — gli dissero —. La tua compagna sarà Marcella Di Fran­cesco. O sua sorella Giuliana, puoi sce­gliere ». Marcella era addetta, per To­gliatti, al telefono segreto con il Crem­lino e diventò poi signora Ferrara, ma­dre di Giuliano. Caprara si divincolò dall’impegno preso per suo conto dal partito e sposò poi — per amore — la figlia di una guardia nobile di Pio XII: «Togliatti approvò, pensava di potere avere qualche indiscrezione sui cardi­nali ».
Nel 1950 Caprara incontra Stalin nella foresta di Barvika, quando ci fu la «presentazione a corte» di Nilde Iot­ti, compagna di Togliatti: «Nilde in­dossava una pelliccia di zibellino pre­stata dal Comitato centrale, io usciii con una giacchetta. Cominciai a lacri­mare quando da un viottolo sbucò Stalin. 'Courage camarade', mi disse Stalin in francese e mi batté la mano sulla spalla. Piangevo per il gelo, lui pensò che fosse emozione. Sono uno dei pochi che hanno ingannato il Ge­nio dell’umanità e sono sopravvissu­to ».
Dopo la morte di Togliatti, Caprara comincia un altro percorso, scopre «la collaborazione del 'compagno Er­coli' ai massacri di anarchici durante la guerra di Spagna, la complicità nel­l’uccisione di Trotzkij...». Dice che «Togliatti scelse il fango, preferì la soggezione al regime sovietico alla li­bertà intellettuale». E anche: «Il comu­nismo è il disprezzo per l’uomo». A Lorenzetto, nel 2004, confida che fra i dirigenti ex comunisti quello che asso­miglia di più a Togliatti è D’Alema: «Infido. Ingrato. Concorrenziale. Uno di cui aver paura».
Caprara non rinnega: «Il mio modo di non essere più comunista non è di­ventare anticomunista, ma ascoltare e pensare». Da qui, la rotta verso la fe­de: «Il dato evidente è la bellezza di Dio» scrive in Riscoprirsi uomo. Il Vangelo, al posto di Togliatti.

Corriere della Sera 17.6.09
Restituisce allo Yad Vashem il tesoro nascosto per 60 anni
«E’ stato il regista Spielberg a consigliarmi di farlo»
di Francesco Battistini


La storia L’ebreo polacco Meyer Hack era incaricato ad Auschwitz e Dachau di spogliare dei loro averi le vittime delle camere a gas
«Ho preso il piccolo tesoro che ero riuscito a salvare e l’ho chiuso in questa cassetta. Ho aspettato il momento giusto per tirarla fuori. Questo è il momento»

GERUSALEMME — Dimentica, Meyer. Dimen­tica d’essere entrato nelle camere del Zyklon B e d’aver visto «anche una bambina nuda, una vol­ta, ed era attaccata al seno di sua mamma nuda: erano gassate tutt’e due, avevano gli occhi vuo­ti ». No, Meyer, non dimenticare nulla: il tuo gior­no della memoria è una nottata che non passa mai, conserva tutto perché non c’è photoshop che possa sbiadire quelle immagini stampate in testa. «Ho vissuto più di sessant’anni senza sape­re se fosse meglio ricordare o resettare tutto» di­ce Meyer Hack. E non sapendo bene che cosa fa­re, lui che aveva visto prima Auschwitz e poi Da­chau, ha sempre creduto che il sistema migliore fosse quello della scatola di ferro: «Ho preso il piccolo tesoro che ero riuscito a salvare, da quei poveracci, e non l’ho mai più voluto vedere né toccare. L’ho chiuso in questa cassetta. E la cas­setta l’ho nascosta in un posto che sapevo solo io. È rimasto tutto lì. Ho aspettato che arrivasse il momento giusto per tirare fuori la scatola. E donarla al Museo dell’Olocausto. Questo è il mo­mento».
È il piccolo tesoro dei morti di Auschwitz. Dia­manti, orologi, catenine, anelli, orecchini, porta­soldi. L’oro dell’Olocausto. Pezzi di vita strappa­ti al camino e che nemmeno Ahmadinejad po­trebbe negare, guardandoli. Non valgono gran­ché, al fixing. Però Meyer Hack s’è messo la cra­vatta, per mostrarli al direttore dello Yad Vashem di Gerusalemme e li ha poggiati su por­tagioie di velluto rosso. Come si fa per le cose d’un prezzo inestimabile. D’un costo immenso.
Meyer oggi vive a Boston ed è un lucido signo­re di 95 anni, cardiologo in pensione, ebreo po­lacco. Quando finì ad Auschwitz e perse mam­ma e tre fratelli, se la cavò perché s’era inventa­to d’essere un sarto. Assegnato al più fortunato e tremendo dei lavori possibili, là dentro: spo­gliare i morituri, dividere le stoffe, farne coperte o chissà che altro. «Molti nascondevano nelle fo­dere i gioielli, le cose preziose. Ma quelle non volevo consegnarle ai nazisti: le nascondevo nei calzini, sotto i mattoni. Magari un giorno avrei potuto ridarle ai parenti». Meyer accumulò. Na­scose. E riuscì a portare il piccolo tesoro anche nel secondo lager, Dachau, dove fu deportato prima che arrivassero i sovietici. Salvato, riemer­so, per qualche anno ci ha provato: «Volevo tro­vare qualcuno cui ridare quella roba. Ma era im­possibile. E ogni volta che l’avevo per le mani, stavo male per giorni». Meglio chiudere, allora, chiave e mettere via: «Anna Frank ha scritto un diario. Io mi sono tenuto tutto nel cuore. Per ses­sant’anni non ho voluto vedere più nulla».
A Yad Vashem ci sono più di ventimila ogget­ti della Shoah, recuperati dai campi di tutt’Euro­pa. Ma l’oro, le pietre, i preziosi sono una rarità. «Ogni tanto ci segnalano qualche gioiello 'so­spetto' battuto alle aste internazionali — dice Yehudit Shenhav, curatore del museo — ma sen­za foto o solide testimonianze è difficile provare la provenienza. Questo vale per le cose rubate nei rastrellamenti. È un caso unico, che ricordi del genere siano usciti addirittura da Au­schwitz ». Tre anni fa, Meyer ha visto il sito del museo. Ha pensato all’età, ripensato a quella sca­tola di ferro che stava là. E ne ha parlato con gli amici migliori. Un rabbino che ha la metà dei suoi anni e l’ha accompagnato a Gerusalemme. E poi Steven Spielberg, il regista: «Esci e raccon­ta al mondo questa storia» gli ha suggerito l’uo­mo della Schindler’s List. Il vecchio cardiologo l’ha fatto: «Avevo bisogno di dare un posto defi­nitivo a questi ricordi. Prima di darne uno al mio corpo».

Corriere della Sera 17.6.09
Bioetica. D’Agostino interviene sull’«Avvenire». «Il documento interferisce sul Parlamento, la nutrizione artificiale è un sostegno vitale»
Fine vita, i medici cattolici contro la svolta degli Ordini
di Margherita de Bac


ROMA — Respingono il ri­chiamo al «diritto mite» da ap­plicare al testamento biologico i medici cattolici. Un principio il cui rispetto da parte dei politici impegnati nella discussione del­la legge (ora alla Camera) viene ribadito con forza nel documen­to di Terni, votato dalla Fnomceo, la federazione degli Ordini provinciali dei camici bianchi. L’ostilità alle «riflessio­ni » proposte dal presidente Amedeo Bianco e dal consiglio direttivo ha preso forma e voce dopo il duro editoriale pubblica­to dall’Avvenire in cui il «diritto mite» viene contrapposto al «di­ritto giusto», visto che si parla di questioni di vita e di morte. Feroci le critiche di Francesco D’Agostino, autore dell’articolo, uno dei personaggi di peso nella bioetica cattolica: «Si sono mos­si in modo strano — spiega al Corriere —. Proclamando il dirit­to mite hanno tradito l’ideolo­gia libertaria sottostante, tipica dei radicali e di Rodotà. Di chi cioè considera la volontà sovra­na del paziente l’unico punto di riferimento. Una posizione mol­to distante dalla realtà degli ospedali». Il diritto mite dunque non equivale a un diritto giusto, secondo il filosofo della scienza, attuale presidente onorario del Comitato nazionale di bioetica: «È un concetto che fa a pugni col no all’eutanasia e il sì all’alle­anza terapeutica tra chi cura e chi è curato».
Il passaggio più contestato del documento riguarda la nutri­zione artificiale. Secondo Fnomceo è un intervento pre­scritto dai medici e va considera­to una vera terapia di cui si pos­sa domandare la sospensione nelle dichiarazioni di fine vita. A differenza di quanto previsto nella legge approvata dal Sena­to. I cattolici non ci stanno. «So­no molto perplesso — afferma Vincenzo Saraceni, fisiatra, pre­sidente dell’Associazione nazio­nale che li rappresenta —. La nu­trizione e l’idratazione sono un sostegno vitale. Mi sembra ci sia la volontà di condizionare la di­scussione in Parlamento che de­ve ancora esprimersi. Un’iniziati­va intempestiva». Lo è anche per Giancarlo Gigli, il neurologo che più si è battuto per difende­re Eluana Englaro dalle conse­guenze della sentenza con cui è stata disposta la sospensione di cibo e acqua: «Parliamoci chia­ro, il presidente Bianco e il consi­glio di presidenza hanno sposa­to la linea di Ignazio Marino (l’ex capogruppo dell’opposizio­ne in Commissione Sanità, Pd)».
Alcuni Ordini (tra i quali Bolo­gna e Milano) hanno detto no al documento di Terni. Al blocco nordista si è aggiunto Enrico Mazzeo Cicchetti, Potenza: «Il dissenso dipende dal fatto che il punto sulla nutrizione artificiale è stato scritto volutamente in modo poco chiaro». Bruno Dalla­piccola copresidente di Scienza e Vita, genetista, preferisce non addentrarsi in argomenti che esulano dal suo campo: «Perso­nalmente non avrei mai voluto una legge sul testamento biolo­gico».

Corriere della Sera 17.6.09
Truffaut L’infanzia rubata
un’intervista inedita di Radio-Canada


Un libro con un inedito
I cinquant’anni della Nouvelle Vague

A 50 anni dall’inizio della «Nouvelle Vague» e a 25 dalla morte di François Truffaut, viene pubblicato un libro (con dvd) sul grande regista francese. Il titolo è «Il ragazzo salvato», di Mario Serenellini, e contiene due interviste tv di Radio-Canada mai diffuse in Europa: la prima, dove compare anche il suo attore-feticcio Jean-Pierre Léaud, realizzata a Cannes il 4 maggio 1959 subito dopo la prima trionfale di «Les 400 coups» (premio per la regia a Cannes 1959, nomination agli Oscar per la migliore sceneggiatura originale); la seconda, al solo Truffaut, realizzata a Montreal, l’11 dicembre 1971. Ne pubblichiamo di seguito alcuni estratti riguardanti l’infanzia.

A mia madre dovevo far dimenticare che esistevo: la Francia non ama i bambini

Truffaut, lei è nato a Parigi il 6 febbra­io 1932, da padre architetto e madre segretaria dell’Illustration, ma i pri­mi anni della sua vita dove li ha tra­scorsi?
Oh! mi pare, con la balia, a destra e a sinistra, dalle nonne, una volta da quella materna, un’al­tra da quella paterna.
Crede che questo abbia segnato i suoi pri­mi anni?
Credo di sì. Soprattutto la nonna materna, che amava molto i libri. Mi portava da un libra­io dove faceva scambi di volumi e discuteva con lui dei romanzi appena usciti.
Solitario e molto chiuso: è l’immagine che si ha di lei. È perché è stato obbligato a innu­merevoli «va e vieni» e ha dovuto attaccarsi a persone differenti fin dalla prima età?
Certo, e poi mia madre non sopportava i ru­mori. O meglio, dovrei dire, per essere più preci­si: non mi sopportava. In ogni caso, dovevo far­mi dimenticare e restarmene su una sedia a leg­gere. Non avevo il diritto di giocare né di far ru­more: dovevo far dimenticare che esistevo.
E lei come reagiva?
Mah, sa, ero molto sottomesso, come quasi sempre lo sono i bambini.
Aveva amici, compagni di cui si ricorda?
Non nella prima infanzia, no, i primi amici... durante la guerra, attorno agli 11-12 anni, più o meno.
È andato a scuola a Parigi?
Abitavo dalle parti di Pigalle, in rue Hen­ri- Monnier, quel quartiere un po’ sotto Mont­martre e Pigalle, e sono andato alle materne di rue Clauzel, poi al Liceo Rollin, per i primi anni. E dopo, svariate scuole comunali, con pessime pagelle, assai tempestose dai 12-13 anni in su: bocciato, insomma, e frequenti cambi d’istitu­to.
Ma quando andava a scuola i primi anni, aveva il suo gruppo o era solo in classe?
Non riesco a ricordarmi di aver fatto parte d’un qualche gruppo. Credo di esserne rimasto sempre fuori, presto isolato per i miei gusti, per varie ragioni. Se dopo ho avuto uno o due amici è stato grazie al cinema, cioè perché li portavo al cinema, ma niente compagni di gioco, nes­sun gruppo. Non facevo parte nemmeno dei bambini che giocavano per strada, poiché non ne avevo il diritto.
Lei dice che non sa perché provasse un inte­resse così speciale e precoce per il cinema. Non pensa che fosse proprio il modo di rifug­gire da quell’ambiente che la rifiutava e che lei voleva a sua volta rifiutare?
Sì, era il «continua» dei libri. Un’evasione piuttosto bella, meglio, piuttosto forte, me la procuravano i romanzi. Leggevo romanzi per bambini ma anche i romanzi che leggeva mia madre, dunque di nascosto. Dopo ci sono stati i film. E i film rappresentavano probabilmente un’evasione ancora più forte. Come per i roman­zi, mi son messo a vedere i film di nascosto. Per esempio, i miei genitori uscivano per andare a teatro. Dieci minuti dopo, sicuro che fossero partiti, io correvo al cinema, con un senso d’an­goscia spaventoso per gli orari: avevo sempre paura che rientrassero prima di me. Perciò la se­conda metà del film era rovinata: succedeva per­sino che la paura mi facesse partire prima della fine del film, perché al loro rientro i miei genito­ri dovevano trovarmi a letto. Conservo di quel­l’epoca una grande angoscia. I film sono legati a un senso d’angoscia, a un’idea di clandestinità, la stessa che accompagnava la lettura dei libri: ma per i film era anche peggio. Succedeva a vol­te che mi portassero a vedere un film che avevo già visto. Non potevo dirlo e credo che questo mi abbia indotto il piacere di rivedere un’enor­mità di volte sempre gli stessi film.
Dice che l’età critica è a 13 anni anziché a 16. Si tende a credere che a 16 anni esplodano i problemi dell’adolescente o del bambino, mentre per lei è a 13 anni...
Sì, perché a 16 anni lavoravo già. Ho comin­ciato a 14 anni e mezzo, di fatto sono entrato nella vita adulta più presto degli altri. È per que­sto che, anche nel cinema, ho l’impressione d’es­sere un vecchio cineasta, di avere mestiere per­ché mi sembra di aver esordito prima del mio reale esordio: e infatti mi sono interessato mol­to presto a tutto. Dunque, effettivamente, per me i 13 anni sono il 1945, la fine della guerra, il cambiamento...comunque, un cambiamento che non cambiava granché.
Jean-Pierre Léaud è Antoine Doinel, è tutto il ciclo di Doinel. Come ha messo al mondo questa specie di figlio?
Quando sono stato sul punto di girare Les 400 coups, ho fatto pubblicare un annuncio sul giornale dicendo che stavo per girare un film e che cercavo un ragazzo di 13 anni: si sono pre­sentati una sessantina di ragazzi. Molti di loro hanno recitato nel film, poiché le scene in clas­se permettevano di inserire una trentina di bam­bini: non c’era dunque quell’aspetto assai crude­le dell’eliminazione. Ai bambini non dicevo che stavo cercando il protagonista, ma li sottopone­vo a una specie d’intervista tutti i giovedì: li fa­cevo tornare da un giovedì all’altro. Il trionfato­re di questi provini è stato Jean-Pierre Léaud, perché era nettamente il più forte.
Bene, ho voglia di rivolgerle quella doman­da che si sarà sentita ripetere mille volte: Les 400 coups è davvero autobiografico?
Sì, è in gran parte autobiografico, tenuto con­to del fatto che dà l’impressione di svolgersi nel 1958, perché, per un’opera prima, non avrei mai pensato di girare un film in costume e l’Oc­cupazione era ancora troppo vicina. Oggi sento che potrei fare un film sulla storia d’un ragazzi­no, d’un adolescente, durante la guerra: ci sareb­bero numerosi fatti legati al mercato nero, ai ri­fugi, ai bombardamenti su Parigi, e avrei mate­ria abbondante. Ma le avventure che attraversa Antoine Doinel in Les 400 coups sono le mie: e, devo dire, mai esagerate, anzi spesso addolcite, per ragioni di plausibilità e verosimiglianza, per­ché, in questo campo, quando si parla di un bambino infelice, si ha una grande responsabili­tà e si corre pure il rischio d’apparire irreali o troppo straordinari. Perciò il film non esagera mai.
Ma crede che nella realtà i rapporti genito­ri- figli siano sempre tanto difficili?
Si sa, ho avuto un’infanzia tutt’altro che allegra, non quel­la d’un bimbo martire o d’un fi­glio picchiato, ma quella di un bambino non amato o ignora­to: è già una bella scocciatura. Credo tuttavia che in Francia sia ordinaria amministrazione. Sento un amore per l’infanzia molto più grande, se mai, in Paesi molto poveri, a esempio in Turchia. Me ne rendo conto d’altra parte dopo la distribu­zione di Les 400 coups, che è stato un film abbastanza popo­lare all’epoca, ma non ha in­contrato dappertutto lo stesso successo. A esempio, i giappo­nesi l’hanno rifiutato perché il loro amore per l’infanzia è tan­to grande da rendere inammis­sibile il personaggio della ma­dre che non ama il figlio. E ho notato la stessa reazione in Pae­si sottosviluppati, come il Medio Oriente, dove il bambino è un reuccio, un piccolo principe.
La interessano davvero i problemi dell’in­fanzia?
Sì, perché tutto parte da lì. È molto difficile sensibilizzarmi alle storie di adulti, perché mi dico sempre che gli adulti possono oltrepassare un confine, possono forse cambiare Paese. Inve­ce, mi sento vicino alle sofferenze dei bambini, perché sino ai 14 anni subiscono senza poter fa­re nulla...Un bambino infelice resta chiuso in ca­sa, non può andarsene, mentre un adulto infeli­ce può partire.
Traduzione di Mario Serenellini (copyright Radio-Canada e dinDodo edizioni)

Liberazione 16.6.09
Non piangere, non ridere, ma capire
di Giuseppe Prestipino, filosofo ed ex dirigente del Pci


In un appello che alcuni intellettuali vorremmo rivolgere a tutte le formazioni politiche e sociali democratiche, per una linea di resistenza e di contrattacco comune, fatta salva ogni nostra salutare differenza ideale e programmatica, abbiamo scritto: «L'Europa e l'Italia sono forse tornate, pur nella diversità dei tempi e dei modi, ai sintomi della crisi culturale e politica che tra le due guerre mondiali del Novecemto partoriva il fascismo e il nazismo. E l'Italia, ancora una volta, si incammina per prima sulla strada di un razzismo che, nel secolo scorso, fu l'apice atroce di quell'asse Roma-Berlino».
Se questo timore è fondato ed è anzi certezza, anche il giudizio sul nostro risultato elettorale del 6-7 giugno non ci dichiara colpevoli, ma solo in parte ingenui o sprovveduti. Mi spiego con un paradosso e con una motivazione realistica. Il paradosso mi fa dire che, se siamo in un regime neo-fascista perché razzista, il nostro radicamento nella società può essere non trascurabile, ma è "sotterraneo": i comunisti avrebbero ottenuto più del 3, 4% se nel ventennio fascista si fossero indette elezioni generali o locali? La motivazione realistica riguarda la nostra ingenuità. Gli elettori sono sensatamente e sentimentalmente vicini ai partiti-testimonianza e ancor più ai partiti di lotta, ma in generale votano per un partito che potrebbe o vorrebbe contribuire a un programma di governo, pur se condiviso con altri. Noi eravamo "clandestini" per le pesanti censure altrui, ma anche per la nostra scelta di non aspirare, almeno nei tempi brevi, a nessuna responsabilità di governo. Siamo stati puniti per la partecipazione al governo Prodi? No, se non diamo ascolto soltanto a Ferrando e alle poche voci estremiste. Siamo stati puniti per aver tardato ad accusare quel governo di inadempienza programmatica e a trarne le doverose conseguenze. Nondimeno è vero il racconto di un giovane compagno, ascoltato mercoledi sera: mio padre è un operaio ma non vuol esserlo né vuole essere definito come tale, noi non otteniamo il voto operaio perché oggi l'operaio non considera se stesso un operaio. Vorrei precisare che se, sociologicamente, è soprattutto un consumatore, ideologicamente è nel Nord un "padano", e quindi si sente minacciato da altri operai stranieri e di razza inferiore. D'altra parte, non ci sono più confini tra la mano d'opera dipendente e quella pseudo-indipendente. Il nostro partito, pertanto, non può più dirsi un partito operaio, ma ancora e sempre più un partito del lavoro. Deve però sforzarsi di educare e mobilitare il lavoro, tutti i lavori, educandoli a reimparare la loro storia e mobilitandoli per il pane, ma anche per i sogni dell'utopia.
Anche sul terreno culturale vi sono state difficoltà oggettive e carenze soggettive. Le difficoltà oggettive derivano da un altro strano paradosso dell'Italia berlusconiana: tutti (anche i quotidiani free e le pagine di intrattenimento) scoprono che, in questa mondializzazione, se non c'è più memoria, non c'è futuro. Ma quasi tutti accusano noi comunisti per non aver perduto ogni memoria: l'imperitura memoria storica dei nostri avversari dovrebb'essere compensata dalla nostra smemoratezza. Le nostre carenze soggettive, invece, derivano dalla dissociazione tra politica e cultura. Abbiamo avuto, almeno nell'ultimo lustro, una politica estranea all'elaborazione o all'innovazione culturale e una cultura, o una sparuta e sparpagliata pattuglia di intellettuali "fiancheggiatori", senza contenuto o impatto politico: disponibile a firmare appelli, ma non più ascoltata dal partito nelle forme di quelle vecchie "commissioni scientifiche" che in passato avevano almeno la parvenza di una simbiosi tra politica e cultura. Non più ascoltata, ancora una volta, per condizioni oggettive e per scelte soggettive. Le scelte soggettive potevano sembrare obbligate, specie in momenti di grave ripiegamento elettorale (Sinistra Arcobaleno), di acceso scontro congressuale (Chianciano) e di grave, sleale o forse premeditata scissione pre-elettorale (elezioni europee), decisa da "notabili", da quadri e da militanti loro seguaci. Ma vi sono anche condizioni oggettive che spiegano il divorzio tra politica e intellettuali: la dissoluzione della figura intellettuale classica impersonata da singole individualità eccellenti e influenti, dopo l'irruzione dell'intelligenza organizzata mediaticamente e della sua generalizzata dipendenza dalla, gerarchicamente superiore, intelligenza privata di una grande impresa, perciò divenuta capace di fare politica facendo cultura (o incultura) di massa. Ho detto in altra occasione che in Italia c'è incultura politica perché ci sono molti partiti di fugace opinione emarginati da un unico grande partito organizzato e di massa: dal nuovo partito mediatico che fa anch'esso, di questo paese incolto, l'insediamento di un regime monopartitico.
L'incultura dei due pesi e due misure continua dopo le elezioni. Intellettuali di sinistra anche valorosi (come Dal Lago) scrivono o fanno capire sul manifesto : io non ho votato per nessuno e mi sono astenuto, per poter poi accusare tutte le sinistre di non aver raggiunto il quorum. Come dire, con una logica infallibile: avevamo ragione, non votando, di prevedere che non avrebbero avuto il nostro voto. Peraltro, il manifesto aveva esordito, nella sua campagna elettorale, raccomandando l'astensione di tutte le sinistre dalla tornata elettorale, poco dopo aveva sperato in un'unica lista e infine quel "quotidiano comunista" aveva appoggiato le due sinistre con un occhio di riguardo per quella separatasi dai comunisti e alleatasi con i craxiani. Dopo le elezioni il grido di dolore, spiace dirlo, anche di Rossanda: dimettetevi tutti, siete tutti incapaci, fuor che di restare inchiodati alle poltrone. Quali poltrone? Vedo quelle di un governatore di tutte le Puglie e dintorni, non ne vedo in un partito che (forse sbagliando i suoi calcoli elettorali) non ha più voglia di governare nazioni o regioni. La logica è andata a farsi benedire anche per giornalisti e studiosi intelligenti, se pari sono nel cattivo risultato elettorale i comunisti non pentiti e i convertiti passati, alla vigilia delle elezioni, ad altri liti e ad altre congiunzioni di astri mal consigliate dagli oroscopi mendaci. Non sapevo che la ferita fosse colpevole quanto il pugnale.

Repubblica Firenze 17.6.09
Votare Renzi? Sì, no, ni... sinistra divisa al ballottaggio
di Massimo Vanni


Ginsborg sì, De Zordo e Prc no, Soldani incerta
C´è anche chi dice che andrà a votare ma deciderà solo all’ultimo momento che cosa fare

Votare Renzi o non votare proprio? Di fronte al ballottaggio di domenica prossima, la sinistra fiorentina conferma tutte le sue incertezze e divisioni. Ma questa volta lo storico Paul Ginsborg spazza via gli indugi: «Vado a votare per il ballottaggio e voto per Matteo Renzi», annuncia. Una scelta tanto più netta quanto più distante da quella di Ornella De Zordo, entrata in politica al suo fianco e convinta invece di disertare le urne.
Perché Renzi? «Quando si va oltre il primo turno però si semplifica fra destra e sinistra e io sono un uomo di sinistra», dice lo storico spiegando che al seggio non ritirerà invece le schede sul referendum. «Certo non vorrei che diventasse sindaco un berlusconiano come Galli», aggiunge.
De Zordo però tiene duro: «Ci sono più di 30.000 voti di distanza tra Renzi e Galli, l´esito è scontato: una parte del Pd ha deciso di farla pagare a Renzi ma la vittoria è sicura e noi non andiamo». Una posizione tutt´altro che isolata, in una sinistra al solito tormentata. Una sinistra che spesso trova motivazioni nella logica dei numeri: se anche Renzi riportasse alle urne solo i suoi, l´abbassamento del quorum determinato dall´astensione degli altri lo spingerebbe oltre il 50. Eppure lo stesso Renzi ha fatto affiggere in questi ultimi giorni manifesti con i simboli dei partiti: un messaggio rassicurante per la sinistra.
«Naturale che voterei Renzi, sempre meglio il Pd che il Pdl: non l´ho mai incontrato ma a Firenze un sindaco del Pdl sarebbe il colmo», dice una fiorentina in trasferta come Margherita Hack, candidata alle europee con i comunisti. «Andate a votare e votate Pd, anche se a Renzi ho da rimproverare molte cose, a cominciare dal fatto che dovrebbe passare un po´ meno tempo a venerare se stesso», dice il senatore Furio Colombo che al primo turno aveva supportato Valdo Spini. E proprio lo schieramento di Spini sembra il più tormentato.
«Non voterò, Renzi ha i numeri per vincere e se non ce li ha non c´è ragione perché lo si sostenga», dice Anna Nocentini di Rifondazione. «C´è la comunicazione dal partito, ci asteniamo», dice il comunista Lorenzo Marzullo. «Voterò scheda bianca», annuncia Corraudo Mauceri della Sinistra per la Costituzione. Anna Soldani, che ne è stata capolista: «Il voto è segreto, abbiamo lavorato per il terzo polo della sinistra, né con Renzi né con Galli». Simone Aiazzi dei Repubblicani europei non ha ancora deciso: «Ma andrò a votare, Renzi ha l´opportunità di fare di Firenze un laboratorio politico». Anche il verde Tommaso Grassi, lo spiniano eletto ci andrà: «Ma non dico per chi». Indeciso il fronte dei comitati di Mario Bencivenni: «Sul progetto di città Renzi e Galli si equivalgono». Nel Pd, invece, pistelliani e la sinistra interna chiedono di votare per Renzi.

Terra 16.6.09
Nel volto di Simone il segreto di Modigliani
di Simona Maggiorelli


La figura scultorea, allungata, elegante come quella di Jeanne e delle altre donne, amiche o amanti, che Amedeo Modigliani ritrasse nel corso della sua breve e fulminante parabola artistica nella Parigi delle avanguardie storiche del primo Novecento. Ma a ben guardare qualcosa di sottilmente diverso si adombra in questa fragile immagine di donna. Il collo di Simone è così sottile che sembra quasi incurvarsi. Mentre il volto appare diafano, al punto da sembrare evanescente. Come in un effetto fading. O piuttosto come se l’ovale della donna apparisse sfocato, in lontananza. Qualcuno rispetto a questo quadro intitolato Jeune femme à la guimpe blanche - e da oggi per la prima volta esposto in Italia, nell’ex convento dei padri Agostiniani a Roma - ha parlato di “non finito”. Anche per la pennellata rapida, quasi nervosa con cui fu realizzato. Ma l’intenzione esplicita di Modigliani di dare una diversa curvatura alla rappresentazione, sembra invece testimoniata anche dalla scelta di un pigmento pittorico diverso da quello che ritroviamo nei suoi ritratti più noti (dove di solito il pigmento è più marcato).
La tentazione, se ricolleghiamo questo quadro alla vicenda biografica che c’era dietro, sarebbe di leggerlo come un’anticipazione della secca e improvvisa separazione che avvenne fra l’artista e la donna rappresentata. La ragazza si chiamava Simone Thirioux ed era un giovane medico in corso di specializzazione. Con questa donna franco-canadese, conosciuta per caso, una sera del 1916 in un bistrot di Montparnasse, Modì ebbe una relazione intensa ma che non durò più di due settimane. Simone rimase incinta e decise di tenere il bambino. Ma quando nacque Gérard, Modì non volle riconoscerlo. Con Simone non si sarebbero più rivisti. Ma entrambi sarebbero andati incontro alla stessa morte, prematura, per tubercolosi. Amedeo Modigliani nel 1920 e Simone un anno dopo.
Una storia tragica che oggi, soprattutto in relazione al fatto che Modì non volle mai conoscere il bambino, fa dire a Massimo Riposati, vice direttore del Modigliani Institut di Roma e curatore dell’evento: «Si nota come all’interno del genio si coltivino anche elementi di negatività. Spesso l’artista è sacrificato e sacrificante, vittima e carnefice. E questo esprime in qualche modo un atto di crudeltà che completa la complessità del carattere di Modigliani». La miseria, le difficoltà, poi la malattia, forse impedirono questo incontro, ma il pensiero che il curatore della mostra Modigliani. Un amore segreto (dal 15 al 22 giugno a Roma) affida al catalogo è più complesso e allude anche a quel narcisismo, a quella assoluta testardaggine che, per realizzarsi come artista, Modì mise in ogni aspetto della sua vita. Arrivato a Parigi nel 1908 da una Livorno ancora macchiaiola, attardata e provinciale, come ricorda Claudio Strinati, Modì aveva in tasca solo due libri: la Commedia di Dante e Così parlò Zarathustra di Nietzsche. Ma già aveva in sé una personale visione riguardo all’arte. Che prese forma concreta rapidamente in una straordinaria serie di ritratti e di sculture in cui le suggestioni dell’arte primitiva, il cubismo di Picasso e le forme primordiali di Brancusi trovavano echi e una originale rilettura. Quali opere può aver visto Modigliani a Parigi, fra il 1908 e il 1913? Annota Strinati nel suo breve, intenso, scritto che accompagna l’esposizione romana. «Può aver visto, per esempio, opere di Picasso e Derain, ma la sua opera resterà vicina al suo modo di esprimere i volumi.Il segno forte, inciso e slanciato del disegno preparatorio è essenzialmente quello dello scultore e le linee di forza lo definiscono ancora meglio».