venerdì 19 giugno 2009

La traduzione in italiano dell'articolo di Claudio Ricciardi e Marcelo ContiEnvironmental Ethics 1 in Italiano Finale Corretto Rivisto Marcelo 16.05.09
l'Unità 19.12.09
L’ape regina e i Servizi
di Concita de Gregorio


La storia dell'imprenditore Giampaolo Tarantini merita un momento di attenzione. Produce protesi, la sua ditta ha sede a Bari, attraversa un cattivo momento. «E' in crisi di liquidità», ci racconta Massimo Solani. Dunque cosa fa un imprenditore in crisi di liquidità? È evidente, quello che farebbero tutti: affitta una villa in Costa Smeralda vicino a quella di Berlusconi. Spera, si vede, di piazzare le sue protesi. Frequentando i lidi e i locali della costa, quelli animati dal via vai di ragazze che arrivano dal cielo e dal mare - i motoscafi dove le fanciulle prendono il sole sorvegliati dai Carabinieri, tanto per la sicurezza dei sudditi ci sono le ronde - insomma girando con l'asciugamano in spalla Tarantini conosce l'Ape regina, la favorita del Presidente, quella che si dice voli con Apicella sull'Air force One e che male c'è, non è mica reato. L'Ape regina, al secolo Sabina Began sembrerebbe essere - dalle intercettazioni baresi, e non solo - la coordinatrice, per usare l'appropriato termine politico, delle centinaia di candidate all'harem del sultano. L'Ape e Tarantini diventano amici. Tarantini ha accesso alla villa. In breve la sua crisi di liquidità si risolve. Fioccano commesse e nuovi appalti. Le tristi vicende giudiziarie di cui era stato in passato oggetto si sciolgono come neve al sole sardo. Chi non vorrebbe avere come amico il presidente?, direbbe la professoressa del liceo di Noemi. Chi non vorrebbe vendere protesi agli emissari di Putin e di Topolanek?
Una vicenda fine impero che si cerca di liquidare come gossip (il Tg1, per esempio, dall'alto della sua autorevolezza parla d'altro) e che è invece diventata un problema per la sicurezza nazionale. Ricordate le parole della moglie? «Ho pregato chi gli sta vicino di aiutarlo come si fa con un uomo malato». Malato della sua ossessione senile per l'eterna giovinezza, la virilità. Anche Chirac lo racconta. L'ossessione di Berlusconi per le ragazze è da anni la prima occupazione di chi lo circonda. Gli procurano book e numeri di telefono, gli organizzano feste a pizze e champagne come quelle dell'argentino Menem. Qualunque escort di provincia può esibire una registrazione sul telefonino, l'abito blu di Monica Lewinski è preistoria. Ghedini è nel panico. Gianni Letta con il prefetto De Gennaro sono convocati al Comitato per la sicurezza, la prossima settimana, a spiegare cosa intenda Berlusconi quando dice «strategie oscure in cui sono coinvolti spezzoni dell'intelligence nazionale con parti deviate dei servizi stranieri». L'intelligence nazionale? La Cia? Di chi è la manina che diffonde le foto? C'entrano Obama, Putin, il gas, Gheddafi? Possibile che a monte della slavina ci sia Patrizia? Riprendiamo da dove ci eravamo lasciati ieri. Fini gelido cita il Deserto dei Tartari. Gli amici se ne vanno. Veronica aveva ragione: non l'hanno aiutato, anzi. Come si fa a farsi governare da un uomo che qualunque adolescente può inchiodare con una foto? Come può un uomo così ricattabile essere affidabile? Il presidente-utilizzatore ha una possibilità di uscirne, questo dicono i suoi stessi alleati. Ribaltare l'antico adagio. «Utilizzare» è meglio che comandare. Potrebbe essere d'accordo, in fondo.

l'Unità 19.12.09
Ferrara e Fini «diffidano» il Cavaliere
di Susanna Turco


Gianfranco Fini parla del «tenente Drogo che vive asserragliato nella fortezza Bastiani». Tutti pensano a Berlusconi, lui nega. «Forte reoccupazione» per il futuro serpeggia intanto nel Pdl. Finiani compresi.

Qualche anno fa, trovandosi a immaginare quale sarebbe potuta essere un giorno la conclusione della carriera politica di Silvio Berlusconi, Carlo De Benedetti azzardò: «Non so quale. Ma sarà drammatica, eccezionale, travolgerà tutto».
È più o meno questa, ormai, la preoccupazione che comincia a serpeggiare anche negli ambienti del centrodestra. Preoccupazione per un «lento declino» negli uni, sensazione negli altri che «piuttosto di un 25 luglio, rischiamo un 25 aprile, ossia una piazzale Loreto ma senza l’elemento tragico, con il banco che salta per colpa di qualche signorina». Prospettive non esenti da rischi che portano le prime file degli indiziati - come Gianfranco Fini - a negare un qualsiasi disegno per il post Berlusconi («se c’è un complotto odora di finanziario e clericale. E lui è un laico lontano dalla finanza», avverte il finiano Granata). E a lasciar trapelare - sempre Fini - una certa preoccupazione per gli scenari che si potrebbero disegnare.
Silvio come Drogo
Il presidente della Camera, peraltro, si è (involontariamente, assicurano) intestato la più efficace delle metafore della giornata. Silvio Berlusconi come il tenente Drogo, la Fortezza Bastiani come Palazzo Grazioli, il Deserto dei Tartari come l’Italia di oggi, vista con l’occhio del Cavaliere che dal suo fortino grida al complotto. La suggestione è tanto affascinante quanto implicita, il nome non viene pronunciato, è ovvio, e anzi si nega ogni malizia. Eppure il collegamento è inevitabile, quando Fini, aprendo il convegno su “Nazione, Cittadinanza, Costituzione”, accenna alla pulsione tutta italiana «che si traduce nel paventare l’aggressione di chissà quale nemico, interno o esterno». Nazionale o internazionale. Prosegue l’ex leader di An: «Non c’è modo migliore per tratteggiare tale ansia che rileggere il Deserto dei Tartari. Asserragliato nella Fortezza Bastiani, il tenente Drogo vive nella perenne attesa dei “barbari”. E quando i Tartari verranno, egli non li vedrà».
Il Cav. come Mele?
Parole che ben si armonizzano con la sferzante critica a Berlusconi pubblicata ieri da Giuliano Ferrara. «Un premier non si difende così», diceva l’Elefantino sul Foglio, «dunque si decida: o accetta di naufragare in un lieto fine fatto di feste e belle ragazze, oppure si mette in testa di ridare il senso e la dignità di una grande avventura». Altrimenti detto: torni a fare politica, o finirà travolto dallo scandalo, come Cosimo Mele. Il timore, peraltro, è lo stesso che serpeggia tra gli stessi parlamentari del Pdl. «C’è una forte preoccupazione», riferiscono alcuni tra i meno inclini a drammatizzare: «Non si teme tanto la scossa. Si percepisce però che la soglia della decenza è vicina e quindi il rischio di un arrestabile declino». Non per nulla,i l’indice di popolarità di Berlusconi è ormai crollato a 52. Intanto, nei vertici meno allineati del Pdl si ragiona sulla «pericolosa fase di incertezza che potrebbe aprirsi». «Ha detto bene Veronica Lario», dice un finiano: «Il dittatore non è Berlusconi, rischia di esserlo chi verrà dopo». Perché il Cavaliere non è un qualsiasi segretario Dc «che si fa da parte. Con lui crollerebbe un sistema, il vuoto sarebbe spaventoso. E chi pensa di gestirlo, potrebbe finire come l’apprendista stregone».

l'Unità 19.12.09
Nelle cancellerie europee il timore del premier ricattabile
di Umberto De Giovannangeli


La preoccupazione investe gli ambienti Nato. I membri dell’Alleanza hanno i nullaosta che danno accesso ai segreti degli armamenti nucleari. Il Times di Londra pone il problema

Dalla perplessità allo sconcerto. Dallo sconcerto alla preoccupazione. E all’affacciarsi di interrogativi inquietanti. A Bruxelles e nelle cancellerie europee più importanti. Gli scandali che investono il Cavaliere non vengono più considerati dagli alleati europei come vicende interne ad una Italia guidata da un primo ministro «eccentrico» e «donnaiolo».
Negli ambienti diplomatici occidentali non è passato inosservato un articolo apparso sull’autorevole Times nei giorni burrascosi del Noemigate. «L’Italia – rilevava il quotidiano londinese – quest’anno ospita il vertice del G8. In quel forum si tengono importanti discussioni dove i governi occidentali chiedono maggior cooperazione nella lotta al terrorismo e al crimine organizzato. Berlusconi – proseguiva il Times – si vede come amico di Vladimir Putin. Il suo Paese è un importante membro della Nato. È anche parte dell’Eurozona, che è messa alla prova della crisi finanziaria globale». Per concludere che «non sono solo gli elettori italiani a chiedersi cosa stia succedendo. Lo fanno anche gli alleati perplessi dell’Italia». Una perplessità che cresce con il crescere degli scandali che investono il Cavaliere. Ed è una perplessità, dice a l’Unità un’autorevole fonte diplomatica a Bruxelles, che non ha una sua identificazione di parte politica: essa, infatti, accomuna la Francia del conservatore Sarkozy alla Spagna del socialista Zapatero, dalla Germania della centrista Merkel alla Gran Bretagna del laburista Brown. A far discutere non è la caratura morale del premier italiano. L’interrogativo che comincia a farsi strada nelle cancellerie europee è molto più pesante. E riporta dritto alle considerazioni del Times.
L’Italia è parte della Nato, e ciò significa, ad esempio, che il primo ministro italiano è in possesso dei nullaosta dell’Alleanza atlantica che danno accesso ai segreti degli armamenti nucleari. Per questo la certezza della non ricattabilità del Cavaliere è una questione che travalica i confini nazionali e va ben oltre le polemiche interne. La risposta degli aedi del premier è nervosa. Molto nervosa. Adombra una mano internazionale che tiene le redini del «grande complotto». C’è chi scomoda Zapatero, chi (vedi prima pagina di Libero di qualche settimana fa) si spinge addirittura oltreoceano puntando l’indice accusatore contro il «Giuda» della Casa Bianca (Barack Obama) impegnato a spezzare la «diplomazia del gas» del duo Berlusconi-Putin. Questione di credibilità. In caduta libera. La Francia di Nicolas Sarkozy ha scavalcato l’Italia nella leadership euromediterranea.
Nel valzer delle poltrone che contano davvero in Europa – la presidenza della Commissione europea, l’Alto rappresentante per la politica estera e, se il Trattato di Lisbona entrerà in vigore, il presidente stabile dell’Ue – l’Italia del Cavaliere non «danza». Fuori dai giochi. L’unico posto rimasto da assegnare è quello di presidente dell’Europarlamento. Spetta allo schieramento vincitore delle elezioni europee: il Ppe. Berlusconi lancia la candidatura di Mario Mauro: «Credo che questa volta tocchi a noi», ribadisce il presidente del Consiglio all’apertura del vertice di Bruxelles del Partito popolare europeo. Fa sfoggio di ottimismo, Berlusconi, ma sa che la questione è tutt’altro che risolta. Ma sulla sua strada trova un concorrente agguerrito: il polacco Jerzy Buzek. La Polonia è in crescita di consensi e di credito a livello europeo, e può contare sul sostegno dell’Est e, sia pure non ancora formalizzato, della Cdu di Angela Merkel. Quel credito, e quella credibilità che stanno scemando per il Cavaliere. In Europa sembra iniziata l’ «operazione scaricamento».

Repubblica 19.6.09
Catilina, Marx e il Cavaliere
di Adriano Prosperi


Vedrà la Gelmini se la Bergamini ha bisogno degli esami di riparazione
L´onorevole Bergamini evoca la storia romana. Ma le analogie sono forzate

"Quousque tandem"... Fino a quando abuserai della nostra pazienza? La celebre frase di Cicerone ha garantito l´immortalità scolastica di Catilina offrendo una veste classica a ogni nostra impazienza. Ma che c´entra Catilina con la pazienza degli italiani? Moltissimo, almeno secondo quello che scrive l´onorevole Deborah Bergamini in una appassionata lettera al direttore del "Corriere della sera". L´onorevole, rimuginando una sua impazienza politica, ha avuto un´idea luminosa: Catilina come Berlusconi. Catilina era, secondo lei, un uomo "coraggioso e di parola", dotato di "profondo senso della Patria" anche se un po´ anticonformista. Fu, lei scrive, calunniato e demonizzato dai "poteri forti" che gli scatenarono contro il più grande avvocato dell´epoca, Cicerone, e lo fecero a pezzi con calunnie, lettere anonime, brogli elettorali. Una tragedia. Proprio quella che rivive oggi in Italia: qui c´è un "uomo che sta trasformando l´Italia", un nuovo Catilina. I suoi nemici, "potentati senza patria, politici mediocri e polverosi intellettuali" chiusi a riccio in procure politicizzate e redazioni di giornali, ostacolano il grande uomo. Proprio come accadde a Catilina.
Ora, ognuno ha il diritto di usare la storia per dirci che cosa pensa e che cosa vuole. Purchè sia chiaro che cosa vuol dire non staremo a scuotere per lui quella polvere dai libri . Ma il modello ha da essere somigliante. Catilina era sì un "uomo vizioso portatore del nuovo", secondo la descrizione che ne fornì Sallustio, uno storico non privo di simpatia per il personaggio. E fin qui ci siamo. Ma era anche un aristocratico spiantato, carico di debiti, che si era "messo a capo di una massa di diseredati", come si legge nella recente solida opera storica di uno specialista (Emanuele Narducci, Cicerone. La parola e la politica, ed. Laterza). Proiettare il profilo sociale dello spiantato Catilina su quello del Cavalier Berlusconi sembra quanto meno di malaugurio per un uomo che figura molto in alto nella statistica dei maggiori patrimoni del mondo. Catilina fu più volte battuto alle elezioni: e anche questo non corrisponde del tutto. Il due volte battuto Berlusconi (da Prodi) non sembra in crisi di voti e regge saldamente in pugno una maggioranza di quelle che una volta si definivano bulgare. Non come quel Catilina carico di debiti che tentò la via della sollevazione violenta mettendo insieme gente di ogni risma, veri e propri briganti insieme a un mondo popolare – plebe urbana, soldati e contadini poveri – attirati dalla sua promessa di cancellazione dei debiti e di distribuzione delle terre – quelle dello Stato. Il gioco può finire qui. Giudicherà il ministro Gelmini se l´onorevole ammiratrice di Catilina ha bisogno di esami di riparazione. Anche perchè in una incauta esibizione di cultura l´onorevole azzera tutto il suo patetico e drammatico disegno: scrive che il tragico della storia "fugge davanti alla farsa in cui si trasforma". Questo è puro Karl Marx, proprio lui, il comunista. Comunque sulla farsa siamo calorosamente d´accordo: farsa oscena, degna della comicità plautina, quella che siamo costretti a vivere. E ci sia consentita un´ultima osservazione polverosamente professorale: la definizione di Catilina – e di Berlusconi – come "rivoluzionario conservatore" è una citazione rivelatrice, più di quell´involontario Marx. Ci riporta a quel movimento tedesco di violenta critica della tradizione liberal-democratica che si definì della "Rivoluzione conservatrice" e confluì in gran parte nel nazismo. Naturalmente il sistema democratico e liberale consente anche all´onorevole deputata, come a tutti i fascisti di ritorno, la libertà di opinione. Senza garanzie di reciprocità. Come disse una volta Vittorio Foa all´on. Pisanò in un dibattito televisivo: "Se vinceva lei io sarei ancora in prigione. Avendo vinto io, lei è senatore della Repubblica e parla qui con me".

Corriere della Sera 19.6.09
Il premier smentisce le ipotesi di governi tecnici
Rischio logoramento che fa riaffiorare voci sulla successione
di Massimo Franco


L’ accenno è stato fatto per scansare voci e for­se speranze di una crisi a breve del governo. Ma smentendo davanti ai vertici di Fiat e sin­dacato che Giulio Tremonti e Mario Draghi possano prendere il suo posto a palazzo Chigi, ieri Silvio Berlusconi ha ammesso che se ne parla. Ha confermato implicitamente che la sua leader­ship sta subendo un lento processo di appannamento; e che sotto traccia qualcuno forse ha ricominciato ad accarezzare il progetto della successione: Magari incoraggiato da qualcuno degli avversari del Cavaliere. È verosimile che non si tratti né del ministro dell’Economia, né del governatore di Bankitalia; semmai, di questi piani Tremonti e Draghi sono vittime. C’è di più. Proprio per il modo in cui l’offen­siva contro il premier sta avve­nendo, qualunque possibilità di un delfinato riconosciuto diven­ta più difficile. Berlusconi non l’ha mai davvero preso in consi­derazione. Ed il sospetto che qual­cuno ci stia lavorando è destina­to ad acuire diffidenze e ostilità.
Il Pd gli chiede di dare spiegazioni sugli episodi nei quali secondo la magistratura sarebbe coinvolto; oppure di andarse­ne. Ma il presidente del Consiglio sa di avere dalla sua parte il timore diffuso che una crisi improvvisa e traumatica crei un pericoloso vuoto di potere. Una caduta sull’onda di un’offensi­va extrapolitica rischierebbe di lasciare il Paese senza una mag­gioranza; e con la prospettiva di un commissariamento di fatto dell’esecutivo, slegato dal responso elettorale: un ritorno agli ambigui governi «tecnici» dell’inizio degli Anni 90 del secolo scorso.
Va detto che si tratta di un’eventualità remota. Intanto, il si­stema politico non è delegittimato come allora. La difesa a spa­da tratta da parte del Pdl, e quella «da garante», vagamente pa­dronale, della Lega lasciano capire che per ora il pericolo non esiste. Viene rilanciata la tesi del complotto ordito da pezzi del­l’opposizione e della magistratura. Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, mostra un larvato scetticismo all’idea dell’«ag­gressione di un nemico, interno o esterno». Ma i più avvertiti nel centrodestra sanno che non si può prevedere quello che ac­cadrebbe se e quando Berlusconi decidesse o fosse costretto ad un passo indietro.
Sta affiorando un problema, però. Riguarda le incognite ed i contraccolpi provocati dal viavai di un’umanità assai variopin­ta nelle residenze del premier. Basti pensare alle domande po­ste a Bruxelles sull’opportunità della candidatura di Mario Mau­ro alla presidenza dell’Europarlamento, viste le vicende private del capo del governo italiano. Il suo avvocato e consigliere, Nic­colò Ghedini, ha già detto e ripetuto che Berlusconi non è ricat­tabile. Eppure, magari in modo strumentale, dall’opposizione fioccano domande pesanti, che rimandano alla zona grigia crea­ta da queste frequentazioni: perfino per la sicurezza nazionale. Forse sono questi aspetti collaterali a far riflettere ed a preoccu­pare maggiormente.

il Riformista 19.6.09
Può resistere, e lo farà. Ma potrà ancora governare?
Silvio, dimettiti
di Giampaolo Pansa


Perché Berlusconi deve dimettersi per il bene del Paese (e pure del Pdl)

In questi giorni mi è capitato di discutere in pubblico del mio nuovo libro. Gli incontri sono avvenuti tutti in regioni dell'Italia settentrionale, nel Nord Est e nel Nord Ovest. E fra i tanti venuti ad ascoltarmi, molti erano elettori del centrodestra. Parecchi di loro mi hanno rivolto, anche in privato, la medesima domanda: Silvio Berlusconi ce la farà a reggere di fronte agli attacchi che gli piovono addosso dai giornali e dai partiti dell'opposizione? Verrà costretto a dimettersi o sarà in grado di superare la bufera?
Chi me lo chiedeva, cercava da me una risposta chiara. Dico subito che non sono stato capace di darla. Adesso provo a mettere in ordine quello che ho tentato di dire. E soprattutto quel che ho sentito. Cominciando dall'elenco delle armi che il Cavaliere ha per resistere a un'offensiva sempre più incalzante.
L'arma più forte sono i tantissimi voti raccolti nelle ultime elezioni politiche. Questi voti hanno prodotto una maggioranza molto solida che gli consente di governare con sicurezza. Accanto a lui c'è un alleato, la Lega, che ha più pretese di un tempo, ma non sembra tentato di lasciarlo. Inoltre, Silvio possiede un carisma che nessun altro leader politico può vantare. Molti dei suoi elettori non si limitano a stimarlo: lo amano, lo considerano un alieno rispetto alla nauseante casta dei partiti, lo ritengono l'unico in grado di curare i mali del paese e di cambiarlo in meglio.
Infine il Cavaliere ha dalla sua la Costituzione. Non sarebbe possibile obbligarlo a dimettersi per cedere il passo a un governo di tecnici o fondato su una maggioranza diversa. Se lui decidesse di gettare la spugna, si dovrebbe formare un altro ministero di centrodestra. Come estrema possibilità ci sarebbe soltanto lo scioglimento delle Camere, seguito da nuove elezioni.
Messa in questo modo, la faccenda è di una chiarezza solare. Silvio si trova in una botte di ferro. Difeso da una corazza infrangibile. Nessun complotto può abbatterlo. I poteri forti, i partiti e i giornali che gli sono ostili perdono il loro tempo. Possono intossicare l'aria, avvelenare i pozzi, scovare dieci, cento, mille squinzie disposte a raccontare i festini erotici di Palazzo Grazioli o del villone in Sardegna. Ma non riusciranno a mandarlo al tappeto. Anzi, si ritroveranno loro alla canna del gas, sia pure sullo sfondo di un Paese in rovina. Un disastro che avrà un unico responsabile: i nemici del Cavaliere.
A questo punto, devo confessare che, più o meno, la penso nello stesso modo. Tranne su una questione. È quella del Paese in rovina. Grazie a Dio, l'Italia non è ancora così. Abbiamo una infinità di problemi. Ma non siamo al disastro. In apparenza viviamo come un anno fa, sia pure in presenza di tanti che hanno già perso il lavoro e devono fare i conti con l'ultimo centesimo della cassa integrazione. Tuttavia il futuro sembra nero. Nel Nord Est, persone che se ne intendono mi hanno anticipato quanto accadrà dopo la pausa di agosto: molte piccole e medie aziende non riapriranno.
Se andrà così, gli italiani, tutti, di centrodestra e di centrosinistra, dovranno poter contare su un governo all'altezza del compito. Fondato su una maggioranza compatta. E soprattutto guidato da un premier in grado di muoversi come un comandante in capo. Capace di esercitare con mano salda tutti i poteri che la Costituzione gli conferisce. Dotato di un'autorità indiscutibile, anche sotto il profilo morale. Tanto forte da essere il faro di un Paese disorientato, impaurito, pronto a sbandarsi quando l'orizzonte diventa fosco.
Ed ecco la domanda delle domande. Berlusconi è ancora in grado di essere questa guida, questo comandante, questo faro? La mia risposta è netta: temo di no. Lo dico senza infilarmi nella giungla dei retroscena. E senza affrontare il tema se la colpa sia sua o di chi guida da mesi la campagna contro di lui. Si può essere distrutti da un tir che t'investe senza che tu abbia fatto nulla per essere travolto. L'unico fatto a contare è che, dopo l'urto del tir, tu non sei più quello di prima.
È questa la condizione odierna del nostro premier. I fucili dei cacciatori lo hanno colpito. E il tiro al piccione continuerà. Neppure Silvio sa quel che può accadere. A essere nel mirino è la sua vita privata. E nelle vite private di tutti ci sono angoli nascosti dove si cela il diavolo. Ma non tutti sono presidenti del Consiglio. In ogni nazione, di premier ce n'è soltanto uno alla volta. Se a fare il piccione è lui, il rischio si espande e riguarda l'intero Paese.
Per questo la mia conclusione è la stessa che avevo esposto sul Riformista del 7 maggio. Molto in anticipo, quando la bufera era soltanto agli inizi. Senza malanimo, e in toni cortesi, quasi amichevoli, allora lo consigliai di dimettersi. Anche per sottrarsi alla pioggia di fango che prevedevo gli sarebbe caduta addosso. Oggi quel consiglio è diventato un imperativo.
Berlusconi deve preparare l'inevitabile transizione. Non ha mai voluto scegliersi un delfino, un successore. Vittima anche lui del "complesso dei migliori", che di solito viene attribuito alle sinistre, non ha costruito una gerarchia di vice-leader in grado di prendere il suo posto. Un errore pesante, dovuto alla convinzione di essere l'unico grande della politica italiana. E anche di essere immortale, pur avendo paura della vecchiaia e della morte, come ormai sappiamo.
Insomma, il Cavaliere deve lasciare Palazzo Chigi di sua volontà. Senza aspettare le calende greche. Soltanto così non distruggerà il Paese e il suo partito. Obbligando i milioni di elettori che l'hanno votato a pentirsi di averlo scelto come premier.
C'è un'ultima postilla, molto personale. Se mi chiedete come andrà a finire, la mia previsione è cupa: Berlusconi non mollerà mai il mazzo. E cercherà di andare avanti all'infinito. Per questo dobbiamo prepararci al peggio.

l'Unità 19.12.09
Gelmini toglie soldi alla scuola pubblica per darli alle private
Cgil: «È scontro»
di G.V.


L’ultima della Gelmini: un bonus per le scuole paritarie. L’onta vien da dire, l’ultima per la scuola pubblica. Il sindaco è pronto ad intensificare la mobilitazione contro questa politica.

La Gelmini non finisce mai nel suo compito di destrutturare la scuola pubblica. Ieri ha comunicato che se c’è da dare un sostegno economico va dato alle scuole paritarie. In un'intervista al «Corriere della Sera», Gelmini conferma la volontà di realizzare «una riforma che dia la possibilità di accedere ad un bonus a chi vuole frequentare» le scuole paritarie, «un pò come succede in Lombardia».
Polemiche
Le repliche non si sono fatte attendere. «Da mesi sosteniamo che l'obiettivo vero del ministro Gelmini è distruggere la scuola pubblica per far posto alle private. Finalmente si ammette che avevamo ragione», dice Mimmo Pantaleo, segretario generale Flc Cgil. «Le risorse da dare alle scuole paritarie sarebbero recuperate dai tagli alle scuole pubbliche, violentando la nostra Costituzione. Non si possono utilizzare strumentalmente i dati Ocse, che peraltro dimostrano come le politiche di questo Governo si muovono in direzione opposta rispetto ad un miglioramento della qualità negli apprendimenti, per sostenere che bisogna favorire le scuole private», ha aggiunto Pantaleo.
«Il ministro Gelmini e il Governo sappiano che, se è quella la strada che intendono perseguire, la mobilitazione riprenderà con un intensità ancora maggiore a partire dal primo giorno del nuovo anno scolastico - ha concluso - perché è in gioco il diritto all'istruzione per tutti che è tra i principi fondamentali della nostra Carta Costituzionale».
«Bonus scuole private? Gelmini intervenga piuttosto sullo scandalo del lavoro nero», ribatte Rino Di Meglio, coordinatore della Gilda degli Insegnanti. «Al ministro ricordiamo che l'articolo 33 della Costituzione afferma che enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione senza oneri per lo Stato. Aspettiamo inutilmente - ha aggiunto - da quasi tre mesi una risposta da parte del ministro rispetto allo scandalo, evidenziato soprattutto nel Sud del Paese, delle scuole private che sfruttano i docenti precari facendoli lavorare senza stipendio e contributi in cambio del punteggio da utilizzare nelle graduatorie statali. Un meccanismo perverso che rappresenta una forma di finanziamento occulto alle scuole private che così hanno personale gratis a volontà» «Di fronte a questo inequivocabile sistema di illegalità diffusa - dichiara Di Meglio anche in riferimento ai diplomifici - ci sembra quanto mai fuori luogo l'intenzione espressa dal ministro Gelmini di assegnare un bonus alle famiglie che vogliono iscrivere i propri figli alle scuole paritarie».
Infine il Pd. «Sta a vedere che dopo aver scippato con la mano destra il portafoglio alle scuole statali con tagli draconiani a risorse e personale dice manuela Ghizzoni, capogruppo pd nela commissione Cultura della Camera- adesso la Gelmini vuol farci credere che dando qualche spicciolo con la mano sinistra alle paritarie tramite i bonus si riqualifica la scuola italiana». «Un conto sono le paritarie e un conto i diplomifici- spiega la parlamentare- il bonus famigliare non distingue tra questi due modelli di scuola, ma distribuisce a pioggia le poche banconote avanzate dalla rapina che bonnie-gelmini e clyde-tremontì hanno fatto ai danni della scuola statale».

l'Unità 19.12.09
Il premio Nobel Shirin Ebadi: rivotiamo sotto controllo Onu
di Giuseppe Vittori


L’iraniana Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace e paladina dei diritti umani, chiede che Teheran dichiari «nullo e non valido» il risultato delle presidenziali e indica nuove elezioni sotto la supervisione delle Nazioni Unite.

Il premio Nobel per la pace iraniano Shirin Ebadi ha chiesto che Teheran dichiari «nullo e non valido» il risultato della sua contestata elezione presidenziale e tenga nuove elezioni sotto la supervisione delle Nazioni Unite. L'avvocata iraniana ha chiesto anche il rilascio incondizionato di circa 500 persone che sarebbero state arrestate la scorsa settimana. «La mia richiesta è che, per calmare le acque, le elezioni siano dichiarate nulle e non valide e nuove elezioni siano organizzate sotto la supervisione di istituzioni internazionali».
Ieri è stato arrestato in ospedale Ibrahim Yazdi, che nel governo iraniano ad interim del 1979 è stato vice primo ministro e ministro degli Esteri, ed è stato portato in carcere. Malato di tumore, ha 76 anni; dopo qualche ora lo hanno riportato in ospedale, non è chiaro se sotto custodia. Ibrahim Yazdi era uno stretto collaboratore dell'ex Guida Suprema dell'Iran, l'ayatollah Khomeini, ora è su posizioni liberali.
Nel mirino del governo anche . Faezeh e Mehdi Hashemi, i figli dell'ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, ora a capo di una delle massime istanze del regime, l'Assemblea degli esperti. Giacché hanno manifestato in piazza in questi giorni, gli è stato proibito di uscire dal paese. Faezeh Hashemi, ex deputata, ha tenuto un discorso a Teheran, davanti a decine di migliaia di oppositori. Eletta in Parlamento nel 1996 con una valanga di voti, con il suo stile casual e rispettoso delle regole islamiche - chador e scarpe da ginnastica - fece scalpore la sua battaglia a favore del diritto delle donne a praticare sport ed è stata vice-presidente del Comitato olimpico e promotrice delle Olimpiadi delle donne islamiche, nel 1998. L'altro figlio di Rafsanjani è Mehdi, 46 anni. Gia' vice-ministro del petrolio ai tempi di Khatami e manager di spicco della Compagnia nazionale del petrolio iraniana (Nioc) è considerato molto vicino al padre anche se il suo nome fu legato a una vicenda di corruzione. Ora è nel consiglio d'amministrazione delle «Università libere islamiche».

l'Unità 19.12.09
Clinton-Lieberman è gelo sulle colonie
E spunta il giallo dell’accordo segreto
di Umberto De Giovannangeli


Il ministro degli esteri israeliano rivendica la «crescita naturale» delle colonie, la gente si sposa e fa figli. La segretaria di Stato replica: non c’è nessun accordo, formale o informale. Gli insediamenti non si devono espandere.

Un incontro glaciale. Una divisione di fondo. Su questioni cruciali come lo stop agli insediamenti e il blocco di Gaza. Hillary Clinton contro Avigdor Lieberman: un match diplomatico ad alta tensione. Malgrado la richiesta americana di un blocco totale, nei suoi colloqui dell’altro ieri a Washington con la segretaria di Stato Usa, il ministro degli Esteri israeliano ha affermato che l'espansione è necessaria, in linea con la «crescita naturale» dei coloni. Lieberman, che abita in un insediamento, ha aggiunto che l’amministrazione americana precedente, quella di George W. Bush, aveva assicurato che questa visione era accettata da Washington. «In ogni posto del mondo, nascono bambini e la gente si sposa, qualcuno muore, e quindi non possiamo accettare di congelare completamente gli insediamenti - ha affermato il leader di Israel Beitenu (destra radicale laica) - penso dobbiamo mantenere la crescita naturale».
GELO AL VERTICE
Dal canto suo, la Clinton ha ripetuto la posizione americana, contraria all'espansione. «Vogliamo vedere uno stop agli insediamenti - ha detto la responsabile della diplomazia americana - pensiamo sia una parte importante ed essenziale dello sforzo per giungere ad una pace globale e alla creazione di uno Stato palestinese». La Clinton ha poi dichiarato che non esiste nessun accordo segreto con Israele sull'espansione degli insediamenti: «Guardando alla storia dell'amministrazione Bush - ha tagliato corto la segretaria di Stato - non vi è nessun accordo informale o orale» in questo senso.
Hillary si rompe il gomito
E proprio Hillary Clinton, dopo l'incontro, è stata protagonista di una brutta caduta mentre si stava recando alla Casa Bianca. Si è fratturata il gomito, e la prossima settimana sarà sottoposta a intervento chirurgico.
Un recente rapporto di B’tselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani, rileva che la crescita della popolazione dentro gli insediamenti israeliani nei territori occupati è quasi quattro volte maggiore che quella di Israele, contraddicendo ogni affermazione che questo incremento e dovuto alla «crescita naturale della popolazione». Secondo l'Ufficio Israeliano di Statistica la percentuale di incremento della popolazione negli insediamenti nell’ultimo quinquennio è stata dei 24.8% se comparata con il 6.6% in Israele.
PROTESTA FORMALE
Dalle colonie alla Striscia. Altro tema, altro contrasto tra Washington e Gerusalemme. Gli Stati Uniti hanno inviato una nota diplomatica a Israele nella quale si contesta la politica verso la Striscia di Gaza. Ad affermarlo è il quotidiano israeliano Haaretz, precisando che la nota è stata inviata tre settimane fa e che dell'argomento si è anche parlato durante l'incontro a Washington fra Lieberman e Hillary Clinton. Secondo fonti americane ed israeliane, la nota è stata seguita da una comunicazione verbale che spiega come l'amministrazione di Barack Obama consideri non costruttiva la posizione israeliana di legare progressi sull'apertura dei valichi con Gaza alla vicenda del soldato rapito Gilad Shalit, prigioniero nella Striscia dal giugno 2006. Il messaggio centrale della nota è che «se Israele ritiene che l’Autorità nazionale palestinese vada rafforzata rispetto ad Hamas, allora deve intraprendere i passi necessari nella Striscia». Il primo di questi passi è permettere l'afflusso di cibo e medicine. Ma Washington chiede anche che sia permesso il trasferimento di fondi fra le banche di Ramallah, in Cisgiordania, e quelle a Gaza, e che siano facilitate le importazioni e le esportazioni per incoraggiare la crescita economica.
Per quanto riguarda l’auspicato afflusso a Gaza di cemento e altro materiale per la ricostruzione dei danni causati dall'operazione militare israeliana «Piombo fuso» - oltre 1300 palestinesi uccisi, cinquemila i feriti, in maggioranza civili - gli Stati Uniti si dicono pronti a lavorare per la creazione di un meccanismo sotto gli auspici dell’Onu per assicurare che il materiale sia usato a scopi civili e non per la costruzione di fortificazioni per Hamas.

Repubblica 19.6.09
Se la Chiesa scopre i confessionali deserti
di Jenner Meletti


I cattolici non cercano più i preti per raccontare i propri peccati L´appello del Papa ai sacerdoti per salvare un sacramento

Ore ed ore nella "penitenzieria" del convento cappuccino di Santa Caterina, ad aspettare fedeli che arrivano dalla città e anche dai paesi delle vicine montagne. «Vengono da noi - racconta padre Enzo Redolfi - perché sanno che qui ci sono almeno un confessionale aperto e un frate pronto a concedere l´assoluzione al peccatore pentito. Purtroppo, però, i giovani non vengono quasi mai. Quelli sotto i quarant´anni sono mosche bianche». La fuga dal confessionale è iniziata ormai da anni. Secondo le ultime ricerche solo l´8 - 10% dei fedeli si confessa una volta al mese, il 2% più di una volta, il 50 - 60% una volta all´anno, al massimo due. Il 30% non si confessa mai. «Da me arrivano gli anziani - dice il frate cappuccino - e per loro la confessione non è cambiata. Fanno l´elenco dei loro piccoli peccati - si capisce che si sono preparati - aspettano la piccola penitenza e se ne vanno con l´anima più leggera. Ma l´assenza dei giovani racconta che, fra non molti anni, i nostri confessionali resteranno vuoti».
Sono nuovi, i confessionali di Santa Caterina. Ti puoi inginocchiare davanti alla grata, e il confessore intuisce il tuo volto. Ma c´è una piccola panca, su un lato, seduti sulla quale si può parlare e ascoltare senza essere visti. Inginocchiatoi e panche restano però sempre più vuoti. Nella lettera inviata ai preti di tutto il mondo, papa Benedetto XVI ieri ha detto che «i sacerdoti non debbono rassegnarsi a vedere deserti i loro confessionali, né limitarsi a constatare la disaffezione dei fedeli nei riguardi del sacramento della confessione».
Il 58% dei cattolici praticanti si confessa una volta all´anno. Il 30% non lo fa mai. Ecco perché Papa Ratzinger ha rivolto un appello ai sacerdoti. Chiamati a ridare senso a un sacramento che appare sempre meno necessario. Secondo gli esperti è cambiato il rapporto con il peccato. Ma anche quello con il prete, "mediatore" non più indispensabile. Tanto che ora il rischio, per la Chiesa, è una deriva verso il misticismo
"Quello è l´unico luogo dove puoi raccontare tutto te stesso senza paura"
"I giovani non vengono quasi mai, quelli sotto i 40 anni sono mosche bianche"
"Il rifiuto della mediazione del sacerdote porta all´isolamento dell´individuo"
"La cultura sacerdotale dei preti non è adeguata al nostro tempo"
Papa Ratzinger ricorda il Santo Curato d´Ars, capace di aspettare i fedeli in confessionale per 16 ore al giorno. Il padre confessore Enzo Redolfi ha ancora una piccola speranza. «C´è qualcuno che arriva non solo per presentare la lista dei peccati come fosse quella della spesa e chiedere il conto finale. C´è ancora chi cerca una guida spirituale e dopo la confessione si ferma a chiedere consigli. Del resto, il confessionale è l´unico luogo dove puoi raccontare tutto te stesso senza paura che altre persone possano conoscere i tuoi segreti. I pochi che cercano questa confidenza spirituale aprono davvero la loro anima e parlano di tutto. Ci sono le mogli che chiedono come possano riconquistare il marito, ci sono impiegati che vogliano sapere se, di fronte a certi comportamenti del datore di lavoro, debbano tacere o reagire. C´è anche chi viene a chiedere consigli sui candidati da votare. Ho ascoltato l´esortazione del Papa, quando ha detto che i confessionali sono vuoti da tutti e due i lati e che la diserzione dei fedeli a volte è preceduta dalla diserzione dei sacerdoti. È vero, non è facile essere un buon confessore. La saggezza umana e sacerdotale è fondamentale e per guidare gli altri al bene bisogna prima di tutto impegnarsi in una vita di santità».
L´abbandono del confessionale è confermato dal sociologo Pierpaolo Donati (fu allievo di Achille Ardigò), professore nell´ateneo bolognese e membro della Pontificia accademia di scienze sociali. «C´è una forte attenuazione, se non la scomparsa, del senso del peccato, soprattutto in quella che viene ritenuta la sfera privata che riguarda affetti, erotismo, sesso. Soprattutto i giovani pensano sia più grave non pagare le tasse, parcheggiare male, guidare ubriachi… insomma fare cose che possano danneggiare gli altri. Nella sfera intima, invece, ognuno si giudica da sé. C´è un´altra causa di questo disincanto, disaffezione o abbandono nei confronti della confessione. È venuta meno, anche nel mondo cattolico, la necessità della mediazione della Chiesa nel percorso di salvezza personale. Perdita di senso del peccato e assenza di mediazione sono tipici del mondo protestante e investono ormai da anni il mondo cattolico. Ma l´esperienza protestante ha portato conseguenze pesanti. In Scandinavia, poi in Gran Bretagna e nei Paesi Bassi il rifiuto della mediazione del sacerdote nella relazione con il soprannaturale ha portato all´isolamento dell´individuo e a un senso di solitudine. E l´abbandono della confessione ha preceduto l´abbandono della pratica religiosa. Noi il primo passo lo stiamo già compiendo. Senza una svolta, ci sarà presto un forte abbandono di tutta la pratica religiosa».
«Ha fatto bene il Papa - dice il professore di sociologia dei processi culturali e comunicativi - a parlare di confessionali vuoti da tutte e due le parti. I preti dovrebbero credere di più nella confessione. Ma la loro cultura sacerdotale non è adeguata al nostro tempo. Tanti ascoltano l´elenco di mancanze è omissioni riguardo ai comandamenti e alle norme ma non comprendono che la confessione - come diceva San Giovanni Maria Vianney, il curato d´Ars - è la medicina spirituale dell´anima. E fanno confusione fra anima e sistema psichico, anche a causa di una formazione che è astratta, teorica, libresca. Gli psichiatri fanno il loro mestiere, i sacerdoti hanno un´altra missione. Aiutano gli uomini a riconciliarsi con Dio e in questo cammino la confessione è uno strumento fondamentale. La persona che si confessa scarica pesi interiori, cerca un rapporto con il sacerdote, non è più una monade isolata. Confessarsi a un prete significa anche accettare la sua guida. Si può imparare da soli ad usare un computer, ma è impossibile diventare guida spirituale di se stessi».
Quasi tutti gli italiani si sono confessati almeno una volta. Il giorno che precedeva la prima comunione c´era l´incontro con il parroco o il cappellano. C´era tensione come a un esame. «Cosa ti ha chiesto? Che penitenza ti ha dato?». Recita dell´Atto di dolore, poi qualche Pater Noster o Ave Maria in ginocchio. «La confessione è fra i primi sacramenti che si ricevono - dice Franco Garelli, preside di Scienze politiche a Torino e docente di sociologia della religione - ed è anche fra i primi a scomparire. Un´ampia fetta di popolo che si dichiara cattolico e si ritiene ancora tale l´ha già abbandonata. Parliamo di quell´80% della popolazione che si dice cattolica ma non è praticante. Persone che continuano ad andare in chiesa saltuariamente, per un battesimo, un matrimonio, un funerale ma che non si avvicina più a un confessionale. "Confessarsi almeno una volta all´anno, a Pasqua", è un invito ormai senza risposta. E giorni prima di Pasqua i sacerdoti si preparano, sono pronti nei confessionali. Io li ho visti, in vana attesa, e mi sono chiesto: che sia scomparso il senso del peccato? Forse è così. Di certo, c´è quella che si può chiamare individualizzazione della fede. Tanti oggi ritengono di potersela vedere con Dio direttamente, e in questa fede fai da te c´è spazio anche per l´auto assoluzione. Il motivo è questo: si pensa al peccato solo verso gli altri e c´è meno l´idea di un peccato verso Dio».
L´abbandono del confessionale è provocato anche da sacerdoti che hanno perso un certo carisma. «Perché - si chiedono in tanti - io devo confessarmi davanti a un altro uomo? La confessione - dice il professor Franco Garelli - è stata colpita al cuore da chi, per decenni, l´ha trasformata in un arido racconto di peccati. L´uomo che si inginocchia in un confessionale avrebbe bisogno invece di un sacerdote preparato e capace di capire il mondo di oggi. Un prete che non è lì ad accettare il tuo elenco della spesa ma è in grado di proporsi come una vera e riconosciuta guida spirituale».
Nel suo convento di Rovereto, padre Enzo Redolfi continua a passare ore ed ore senza vedere un fedele dietro la grata. «Ma bisogna essere qui, quando un penitente viene a chiedere perdono. Io confesso da vent´anni e non sono in grado di fare una statistica perché sono passato da un convento all´altro e i conventi non sono parrocchie con fedeli residenti. Arriva da noi anche chi non vuole confessarsi davanti al proprio parroco, perché non gli piace o ci ha litigato. L´unico dato evidente è che sono spariti i giovani». Ci sono sacerdoti che confessano bambini e adulti fuori dal confessionale, in un banco della chiesa. «Io resto fedele alla tradizione. Il confessionale garantisce il segreto e il silenzio. Io resto qui ad aspettare e mi sento davvero utile. Chi altri può offrire luce, certezze, consigli, coraggio e consolazione?».

Corriere della Sera 19.6.09
Ma l'etica cattolica deve star fuori dalla valutazione degli scienziati
di Gilberto Corbellini


Commentando un mio artico­lo sul Sole24Ore di domenica, Giovanni Belardelli è d’accordo nella denuncia dei problemi che incontra l’Italia, diversamente dai paesi anglosassoni, ad adottare regole meritocratiche per far funzionare in modo efficiente e affidabile il sistema della ricerca. Però giudica «discutibile» la mia spiegazione, che chiama in causa una «mancata Riforma protestante». La mia, dice, è una tesi scontata, usata per spiegare diversi difetti di questo paese, che alla fine «spiega poco».
Non pretendevo di essere originale, e più che «pigro» il mio riferimento era annoiato. Perché al di là degli echi weberiani del mio argomento, ho letto migliaia di pagine che discutono come, opera­tivamente, il protestantesimo ha favori­to la nascita e la diffusione della scienza moderna. Alcuni di questi temi li tratto in un libro pubblicato presso Longane­si: Perché gli scienziati non sono perico­losi.
Belardelli dice anche che mi contrad­dico, perché cito la Spagna tra i paesi do­ve la valutazione funziona bene. E lì, l’eti­ca cattolica ha tradizionalmente una for­te presa. Io non penso né ho scritto che l’etica cattolica sarebbe incompatibile con l’uso di buoni sistemi di valutazio­ne: migliaia di scienziati italiani che so­no anche cattolici invocano i metodi di valutazione inventati nel mondo anglo­sassone. È quando l’etica cattolica viene proposta, dalle gerarchie religiose, qua­le unica e moralmente legittima fonte di indirizzo e decisione politica che nasco­no i problemi. In Spagna l’agenzia di va­lutazione è stata richiesta dai ricercatori che tornavano dagli Stati Uniti, dopo la caduta del regime franchista. Quindi l’in­fluenza politica dell’etica cattolica è sta­ta aggirata grazie a un’elite scientifica che ha impostato il sistema della valuta­zione da zero e guardando all’esempio statunitense. Nessuno si è poi azzardato a metterlo in discussione, dati i risultati. Comunque la chiesa cattolica, in Spa­gna, non risparmia agli scienziati violen­ti attacchi. Ma da quelle parti la laicità delle istituzioni è ben presidiata, e quin­di non si registrano gli effetti devastanti osservabili in Italia.

il Riformista 19.6.09
Il Vaticano ha 80 anni ma non li dimostra
Vita e miracoli di uno Stato anomalo
di Stefano Ceccanti


GOVERNI. Un libro di Francesco Clementi traccia la storia e il profilo degli strumenti giuridici e delle scelte politiche d'Oltretevere.

Il 7 giugno uno Stato "giovane" e piccolo ha festeggiato il suo compleanno con 80 candeline. È quello della Città del Vaticano. È lo stesso giorno in cui vennero allora depositati gli strumenti di ratifica dei Patti Lateranensi, che erano stati firmati il precedente 11 febbraio. Con un taglio giuridico-costituzionale, ma ovviamente all'incrocio con la storia, il diritto canonico e tutto ciò che serve, il giovane studioso Francesco Clementi ci guida ai misteri di questo Stato anomalo in un suo agile ma completo volume inserito nella collana dell'editore Il Mulino Si governano così. Dopo una premessa sul contesto geo-economico, si affrontano le varie tappe di storia costituzionale, il quadro ordinamentale interno e i rapporti con gli altri ordinamenti, l'organizzazione costituzionale dello Stato, gli strumenti giuridici della decisione politica, il sistema giudiziario, i diritti e le libertà.
Le ragioni della scelta di allora sono ricordate da Clementi soprattutto attraverso il richiamo a due papi. Il primo è Pio XI, che, lo stesso giorno della firma dei Patti, spiegò ai parroci di Roma che il nuovo Stato doveva avere «quel tanto di corpo che bastava per tenersi unita l'anima» e in particolare per «assicurare alla Santa Sede l'assoluta e visibile indipendenza (e a) garantirle una sovranità indiscutibile pur nel campo internazionale». Il secondo è Paolo VI che nel 1970, nel centenario della Breccia di Porta Pia parlò della perdita del potere temporale come di «un fausto evento per la Chiesa», essendosi dimostrato che l'indipendenza della Chiesa si era potuta affermare in modo ben più efficace ed evangelico rispetto alla sovranità su uno stato vero e proprio. Tra l'11 febbraio e il 7 giugno erano intervenute la ratifica interna dell'Italia (con la legge 27 maggio 1929, n. 810) e quella della Santa Sede (il 30 maggio da parte di Pio XI). La nascita del nuovo Stato era prevista esplicitamente nel Preambolo e nell'art. 3 del Trattato, siglato insieme al concordato l'11 febbraio. Allo scadere del 7 giugno e all'inizio del giorno 8 entravano in vigore le sei leggi fondamentali del nuovo Stato, costruite sapientemente dal giurista israelita Federico Cammeo.
L'identità del nuovo Stato si afferma progressivamente. Clementi mette in luce il passaggio dell'occupazione tedesca, sotto Pio XII, quando la pur ristretta sovranità territoriale fu utilizzata «come asilo e rifugio ai perseguitati». Segnala altresì, in ultimo, la nuova legge sulle fonti del diritto del 2009, che ha aggiunto ai tradizionali filtri posti alle leggi italiane affinché siano recepite all'interno dello Stato della Città del Vaticano anche un atto esplicito dell'autorità vaticana: essa è stata erroneamente interpretata da alcuni come una presa di distanza politica dallo Stato italiano e che invece va letta appunto nel percorso storico di 80 anni di progressiva affermazione della propria statualità. I non giuristi potranno capire meglio la distinzione tutt'altro che semplice tra lo Stato della Città del Vaticano e la soggettività internazionale della Santa Sede, essendo il primo lo strumento che rende possibile la seconda. Si può parlare del primo quando prevale il profilo territoriale e della seconda quando prevalgono quelli generali, politici, umanitari o religiosi. Tra le novità di una forma di Governo che non conosce formalmente la separazione dei poteri perché imputa al pontefice la pienezza di tutti i poteri, Clementi segnala però puntualmente la «progressiva delegazione del potere negli affari interni dello Stato» che fa da pendant «all'aumentare degli interventi del pontefice nel governo universale della Chiesa e, più in generale, nella scena mondiale» nonché, dopo la legge fondamentale del 2001 la «tendenza a marcare una distinzione fra gli organi che esercitano il potere legislativo e quelli che esercitano il potere esecutivo», pur legati entrambi a nomine pontificie. Inoltre Clementi ricorda che con Benedetto XVI sono nuovamente cambiate le regole per in Conclave e si è ritornati a richiedere per l'elezione del papa il superamento del'esigente quorum dei due terzi, anche quando si giunge al ballottaggio tra i primi due più votati.
Con delicatezza ma puntualità il libro evidenzia anche alcuni problemi, emersi anche nel rapporto con lo Stato italiano, a cominciare da quelli legati alle vicende dell'Istituto Opere di Religione, la banca vaticana. Vale per tutta la costruzione giuridica dello Stato la lezione richiamata da Clementi che si trae dal continuo cambiamento delle norme relative al Conclave: è così elevato il messaggio evangelico che questi strumenti mondani, per loro natura imperfetti, sono chiamati a servire, che essi vanno costantemente monitorati per evitare che da mezzi si trasformino in fini e pertanto costantemente modificati. In questo caso le norme costituzionali devono essere flessibili perché la rigidità spetta solo al Vangelo.

Corriere della Sera 19.6.09
A Salisburgo l’edizione della «Missa Defunctorum» diretta dal maestro Riccardo Muti
Quando Paisiello anticipò Haydn
Nel suo «Requiem» la prima vera sinfonia dell’età moderna
di Paolo Isotta


Somiglianze con la marcia funebre dell’«Eroica», ma anche delle musiche militari francesi e reminescenze di quelle delle bande pugliesi

Accadde a lungo, nel­l’Ottocento e nel Nove­cento, che scoperte o rinnovate esecuzioni di opere musicali modificassero il quadro stesso fin allora vigente della Storia della Musica. L’elen­co sarebbe così lungo da essere stucchevole. Ciò a volte si verifica ancora: un esempio è di oggi, quando al Festival di Pente­coste a Salisburgo Riccardo Muti ha diretto, in prima ese­cuzione contemporanea, la Missa Defunctorum di Gio­vanni Paisiello. Su questa composizione soffia il vento vorticoso della Storia Universale; sì che narrarne le vicen­de sarebbe motivo di un libro, non d’un articolo, a sé.
In sintesi. Paisiello aveva scritto una Requiem nel 1789. Dieci anni dopo, quando Pio VI, papa Braschi, si rifiutò di accettare le vergognose condizioni impostegli da Napole­one, la sacra Istituzione, appunto impersonata da Pio VI, venne fisicamente arrestata dal generale Berthier e dete­nuta fino al 1799, anno della liberazione dell’anima dal corpo, nella terribile fortezza di Valence, quasi il sovrano spirituale e temporale fosse un comune delinquente. Le odiose vicende della repubblica giacobina di Roma, supe­rate in efferatezza solo da quella napoletana, sono note. Papa Braschi ebbe diritto a una celebrazione funebre l’an­no dopo; ma a Napoli, a opera della Corte borbonica. Pai­siello rielaborò profondamente la Requiem tanto da far­ne altra e diversa composizione: ebbene, l’ascolto del pez­zo, per due cori e due orchestre, è tale che la prima Mis­sa Defunctorum della musica moderna diviene questa, anticipando, ma con una mano ben più elegiaca, quella di Berlioz. Il suo ethos avveniristico con moto pendolare alterna l’eroico colla tenerezza, e se di quest’ultima dispo­sizione dell’animo volessimo trovare un’eco, dovremmo volgere lo sguardo alla Requiem di Gabriel Fauré.
Cominciamo col dire che Paisiello è uno dei maggiori orchestratori del suo secolo: nella Requiem non vi sono trombe, tromboni e strumenti a percussione. I soli ottoni presenti sono i due corni per ciascuna orchestra, e a loro è affidata la Tuba mirum, con un effetto fantasmatico di evocazione concettuale da lunge. E ora dobbiamo men­zionare un elemento sconvolgente di novità. L’inventore del Poema Sinfonico è Haydn col Preludio della Creazio­ne, scritto in una forma di Sonata che simula equivoci tonali ed è genialmente raccorciata. Ma Paisiello pone in antiporta alla sua Requiem una Sinfonia, ch’è un pezzo sinfonico indipendente anche se penetra sottilmente per legami tonali e richiami motivici (l’insistere sul piede tro­caico, da sempre emblema funebre) l’intera opera. Ebbe­ne, questa Sinfonia, anticipante Haydn, sarebbe il primo vero Poema Sinfonico della Storia, se... Le due orchestre si alternano o sovrappongono sornuotando il dolore: ma con didascalie che spiegano gli intesi ethos e pathos di ciascuna sezione.
È indispensabile una digressione sulla musica «imitati­va » o «descrittiva». È invenzione tra il tardo Rinascimen­to e il Barocco; restando sempre ancorata a intenzione scherzosa od onomatopeica, alla quale non sfugge l’opus più famoso di Vivaldi, Le quattro stagioni, non a caso for­nito di Sonetti esplicativi di ogni imitazione. Siamo anco­ra nell’ambito di un’estetica che si attiene al motto «Ut natura poësis» inteso in totale ignoranza: in musica, di­co, ché altrimenti dovremmo risalire a Marsilio Ficino, il quale aveva già tutto compreso. Ripigliamo il «se...» la­sciato in sospeso per precisare che in realtà il solito gi­gante Haydn aveva già composto nel 1785 Le Sette Parole di Cristo in Croce, serie di Adagi strumentali, salvo Il ter­remoto (e che coraggio ci vuole a scrivere un’intera opera fatta solo di Adagi), ciascuno dei quali è un piccolo Poe­ma Sinfonico circoscritto nel genus ma mirabilmente di­verso nell’ethos: per orchestra. È uno dei suoi capolavori assoluti. Qui arriva Paisiello con la sua Sinfonia. Ma non dimentichiamo il fatto che Lesuer, disgraziatamente mae­stro di Berlioz, e ancor più disgraziatamente per noi e lui conoscitore del Greco antico, ha lasciato una biblioteca sterminata di brogliacci inediti (passim ed. Boschot) che osiamo sperare tali restino, nella quale denomina la «mu­sica imitativa» Pantomime hypocritique e la spiega, la vuole spiegare. Non c’è legame fra ciò e Paisiello.
Dura, la Sinfonia, un quarto d’ora ed, essendo in Do minore, fa troppe meravigliose incursioni, specie nello Sviluppo, nel tono di Fa minore, inteso allora come il ver­tice del dolore, che non possono essere casuali. A parte incredibili simiglianze colla Marcia funebre dell’Eroica, procede in contrappunto o echi tra le due orchestre che sentono l’influenza delle musiche militari francesi (ma, ricordo, senza gli ottoni, la percussione e l’oficleide indi­spensabili a un Francese per scrivere una Marcia Fune­bre) ovvero, come sostiene Riccardo Muti, sono la remi­nescenza delle Marce Funebri delle Bande pugliesi ascol­tate nella prima infanzia dal Maestro. In fatto, le due tesi sono esenti da contraddizione, vanno integrate e fuse. E le varie didascalie, Smanie, Pianto, Popolo afflitto e addo­lorato, non vanno intese nel senso dell’imitatio ma della idealizzazione neoclassica di sentimenti o fatti. La com­posizione, come dico, è imponente e straziante a un tem­po e meriterebbe anche un’esecuzione autonoma in sede sinfonica se non fosse che i legami con la Requiem intera verrebbero spezzati e confusi. Al testo della Messa da Re­quiem, Paisiello aggiunge, prima dell’Introitus, un coro indipendente, Quale funus e quattro Responsorï prima del Libera me.
Come faccia Paisiello a intonare un testo così eterocli­to e nell’ambito della Grande Forma sinfonica è mistero che lasceremo ad altri interpretare: ma basterebbe una ben condotta analisi della partitura dispiegante la struttu­razione dei rapporti tematici, tonali e motivici nella lun­ghissima composizione per arrivare a comprenderlo. Questo è ciò che, per atto pratico ma evidente intensissi­ma concentrazione intellettuale, ha fatto Riccardo Muti, al quale si deve, come dicevo in esordio, con tale esecu­zione una variata prospettiva della Storia della Musica che non verrà cangiata mai più. Trattandosi per la Re­quiem d’un testo severo, difficoltoso, di mirabile mano contrappuntistica, il successo entusiastico ha sorpreso me per primo.

Liberazione 19.6.09
Per la sinistra d'alternativa
di Salvatore Bonadonna


S`infittisce il dibattito sulle prospettive e sull`unità della sinistra: chi rivendica le occasioni mancate alcuni anni fa, chi attribuisce ad altri progetti inesistenti, chi rivendica definizioni nette di identità e, infine, chi mette veti e steccati verso le forze comuniste. In una situazione di crisi di sistema servirebbe una "Prima Internazionale" del terzo millennio e non la riproposizione di schemi che non colgono la realtà di oggi. Sinistra e libertà, dopo avere prodotto il danno a Rifondazione e a sé stessa, per bocca di Nencini pare sospinta a fare un partito, rilanciare la Rosa nel Pugno, predisporsi a possibili alleanze con il Pd, alzando lo steccato nei confronti di Rifondazione e della lista comunista. A questa arroganza, peraltro sterile, non si può rispondere alzando il vessillo di una sinistra anticapitalista e comunista capace di accogliere altre forze: occorre passare dalla difesa dei simboli alla costruzione concreta di politiche se non si vuole restare attaccati alle bandiere guardando il mondo del lavoro dirigersi verso la Lega o il Popolo delle Libertà. C`è un mondo pacifista, internazionalista, ambientalista, antirazzista e libertario che non appartiene alla tradizione comunista ma che mette in discussione il modello di sviluppo attuale; c`è il filone di pensiero liberale, che suscitava tanto interesse nei dirigenti comunisti italiani storici, i cui rappresentanti - Marco Pannella, in primo luogo - avanzano una critica al sistema politico attuale di certo condivisibile; la socialdemocrazia che fa i conti con la crisi che, di fatto, l`ha condotta al capolinea, si interroga sulle prospettive. Possiamo pensare di rispondere con l`affermazione della esistenza del Prc e della lista comunista? Ci accontentiamo di esistere e orgogliosamente vivacchiare o coltiviamo l`ambizione di essere parte, e possibilmente protagonisti, della costruzione del nuovo movimento operaio del terzo millennio? Se il tema principale che ha guidato le diverse e sciagurate scelte dei diversi e litigiosi spezzoni delle sinistre smette di essere la collocazione ed il ruolo dei suoi singoli dirigenti, politici o intellettuali che siano, forse può aprirsi la strada della costruzione del soggetto politico dell`alternativa al capitalismo in crisi di sistema; diversamente, il capitalismo continuerà ad avere, come ricorda Giorgio Ruffolo, "i secoli contati" e alla sinistra resterà solo da contare i mesi della propria sopravvivenza. E’evidente che questo ragionamento investe anche Rifondazione non solo per respingere l`accusa di chiusura ma, concretamente, per aprire una fase di verifica dell`insediamento sociale, capace di dare alimentazione nuova ad una identità storica. Per questo non mi ha convinto la posizione della maggioranza ribadita nella riunione del Comitato politico nazionale. Sono sicuro di non perdere nulla della mia personalità di militante del movimento operaio e comunista se mi apro ad un confronto con altri al fine di cambiare lo stato delle cose esistenti; potrò verificare aree di convergenza di analisi e di divergenza sulle proposte. Con questo spirito sarò all`assemblea che i Radicali hanno promosso per fine mese a Chianciano. Non mi convince la linea di un assemblaggio indistinto di tutte le forze di opposizione al governo Berlusconi e neppure quella di selezionare in astratto chi ammettere all`unità. Avverto l`esigenza di una nuova analisi di classe: banalmente, capire perché gli operai hanno votato Lega e vedere come esplode il conflitto inevitabile tra padrone leghista e l`operaio che ha votato Lega. Trovo decisivo, per la sinistra d`alternativa, capire come opera concretamente oggi quel rapporto sociale di produzione che Marx definiva "il capitale" e che oggi si declina in liberismo e anticapitalismo. Non basta lo schierarsi contro l`ideologia libèrista se non si costruisce la forza per contrastarla e penso che l`autonomia di una sinistra di alternativa, dal Pd e dalle opzioni moderate, risieda nella capacità di costruire questa forza che è sociale, culturale e politica. O non è!

giovedì 18 giugno 2009

l’Unità 18.6.09
Utilizzatore finale
di Concita De Gregorio


Sarà senz'altro archiviata come quella sui Voli di Stato l'inchiesta per «induzione alla prostituzione» della procura di Bari. Mavalà Ghedini, parlamentare ormai ridotto al ruolo di Tom Ponzi, dopo aver fatto incetta di foto sarde ora assicura che la ragazza che accusa il premier di averla pagata per andare a passare la sera con lui a Palazzo Grazioli - questa si chiama Patrizia, non è la stampa comunista ad averla intervistata ma il Corriere della Sera, il complotto si estende ai giornali della borghesia - la ragazza Patrizia, dunque, dice Ghedini «non è mai entrata nell'edificio». Avrà di certo da esibire le liste della portineria arrivate via fax: prove inoppugnabili. In ogni caso, aggiunge il disperato Ghedini rientrando qualche minuto nei panni dell'avvocato, «ancorchè fossero vere le indicazioni della ragazza il premier sarebbe l'utilizzatore finale dunque non perseguibile». Utilizzatore finale è sublime. Rende perfettamente l'idea: le gentili intrattenitrici sono reclutate e pagate e trasportate a domicilio in volo in elicottero in auto, con genitori o senza, con amiche o da sole in funzione del soddisfacimento dell'utilizzatore finale. Il presidente-utilizzatore non è perseguibile. Utilizza, del resto: letteralmente rende utili le fanciulle. Dà loro uno scopo e una funzione, come per uno sturalavandini: ora sanno a cosa servono. Risolvono problemi, sono retribuite regolarmente: un gioiello, una Mini, un seggio, un assegno. Tutto regolare. Il problema di questo Paese non è più neppure di natura morale. Siamo ben oltre. Dire: non si fa, non è bello scegliere le ragazze dai cataloghi e poi candidarle alle elezioni dopo l'utilizzo - per quelle minorenni aspettare il compleanno - è una considerazione di retrovia. Se ne può parlare, certo, è uno spettacolo deprimente e per una minoranza incomprensibile quello delle madri che sollecitano le figlie a farsi avanti, delle insegnanti di liceo che dicono «chi non vorrebbe avere per amico un potente», dei fidanzati che quando chiama il presidente del Consiglio sul cellulare della ragazzina arretrano deferenti. È un sentire collettivo che si propaga più veloce dell'influenza suina, ormai: è normale, così fan tutti. Tuttavia il punto non è questo, dicevamo.
Il punto è la debolezza e la ricattabilità di un uomo potentissimo al centro di un sistema di favori femminili dai confini sterminati, perciò incontrollabile. Le ragazze «utilizzate» sono centinaia. Migliaia gli amici, genitori, parenti. Tutti sanno. Chiunque può in ogni momento avanzare e pretendere: ricattare. La rete di avvocati del premier non basta a difenderlo. I suoi collaboratori sono sgomenti, ora anche spaventati. ‘Unfit’, scrive la stampa internazionale: l'uomo è inadatto. Ci sono delle regole di affidabilità che qui vengono meno: i governi dei Paesi vicini sono in allarme. «Gli alleati preoccupati», scriveva il Times. Gianni Letta è sotto attacco. Disapprova e la disapprovazione gli si ritorce contro: lo accusano - i falchi del Pdl - di non assicurare a sufficienza la protezione del capo del governo. È impossibile proteggerlo da se stesso, tuttavia. Unfit, inadatto. Sarebbero bastate le carte del processo Mills, in un altro paese. In questo il morbo letale in politica si chiama Patrizia. Il suo utilizzo, l'utilizzatore.

Repubblica 18.6.09
L’utilizzatore finale
di Giuseppe D’Avanzo


Una vita disordinata spinge sempre di più e sempre più in basso la leadership di Silvio Berlusconi. In un tunnel da cui il premier non riesce a venir fuori con decoro. Nel caleidoscopio delle verità rovesciate le ugole obbedienti accennano al consueto e oggi inefficace gioco mimetico.
Creano "in vitro" un nuovo "caso" nella speranza che possa oscurare la realtà. S´inventano così artificialmente un "affare D´Alema" per alzare il polverone che confonda la vista. Complice il telegiornale più visto della Rai che, con la nuova direzione di un dipendente di Berlusconi, ha sostituito alle pulsioni gregarie di sempre una funzione più schiettamente servile. Dicono i corifei e il Tg1: è stato lui, D´Alema, a parlare di possibili «scosse» in arrivo per il governo, come sapeva dell´inchiesta di Bari? Il ragionamento di D´Alema era con tutta evidenza soltanto politico. Chiunque peraltro avrebbe potuto cogliere lo stato di incertezza e vulnerabilità in cui è precipitata la leadership di Berlusconi che vede diminuire la fiducia che lo circonda a petto del maggiore consenso che raccoglie non lui personalmente – come ci ha abituato da quindici anni a questa parte – ma l´offerta politica della destra. Legittimo attendersi che quel nuovo equilibrio – inatteso fino a sette settimane fa, fino alla sua visita a Casoria – avrebbe prodotto ai vertici di quel campo un disordine, quindi un riassestamento. In una formula, sussulti, tensioni, una nuova stabilità che avrebbe ridimensionato il gusto del plebiscito, un cesarismo amorfo che, come è stato scritto qui, ha creduto di sostituire «lo Stato con un uomo, il governo con il comando, la politica con il potere assoluto e carismatico». Era questa idea di politica, questa fenomenologia del potere che, suggeriva D´Alema, riceverà presto delle «scosse» e gli esiti potrebbero essere drammatici.
Vediamo come questa storia trasmuta nella propaganda che manipola e distrae, ora che salta fuori come a Palazzo Grazioli, dove garrisce al vento il tricolore degli edifici di Stato, siano invitate per le cene e le feste di Berlusconi donne a pagamento, prostitute. Le maschere salmodiano la solita litania: l´opposizione, e il suo leader, più le immarcescibili toghe rosse di Magistratura democratica aggrediscono ancora il presidente del Consiglio. Ma è così? I fatti fluttuano soltanto se la memoria deperisce. Se si ha a mente che è stato il ministro Raffaele Fitto, per primo, a suggerire che Berlusconi poteva essere coinvolto a Bari in un´inchiesta giudiziaria, si può concludere che non D´Alema, ma il governo sapeva del pericolo che incombeva sul premier e oggi lo rovescia in arma contro l´opposizione e, quel che conta di più, in nebbia per abbuiare quel che tutti hanno dinanzi agli occhi: Berlusconi è pericolosamente – per il Paese, per il governo, per le istituzioni, per i nostri alleati – vulnerabile. Le sue abitudini di vita e ossessioni personali (qual è il suo stato di salute?) lo espongono a pressioni e tensioni. A ricatti che il capo del governo è ormai palesemente incapace di prevedere e controllare, come ha fatto sempre in passato immaginando per se stesso un´eterna impunità. È soltanto malinconico il tentativo del presidente del Consiglio e degli obbedienti corifei di liquidare questo affare come «spazzatura», come violazione della privacy presidenziale. Se il presidente riceve prostitute nelle sue residenze private diventate sedi del governo (è così per Villa Certosa e Palazzo Grazioli), la faccenda è pubblica, il "caso" è politico. Non lo si può più nascondere sotto il tappeto come fosse trascurabile polvere fino a quando ci sarà un giornalismo in grado di informare con decenza il Paese. Di raccontare che la vulnerabilità di Berlusconi è ormai una questione che interpella la credibilità delle istituzioni e minaccia la sicurezza nazionale. Quante sono le ragazze che possono umiliare pubblicamente il capo del governo? Dove finiscono o dove possono finire le informazioni – e magari le registrazioni e le immagini – in loro possesso? Da sette settimane (e a tre dal G8) non accade altro che un lento e progressivo disvelamento della vita disordinata del premier e della sua fragilità privata che si fa debolezza e indegnità della sfera pubblica. La festa di Casoria; le rivelazioni degli incontri con Noemi allora minorenne che lo costringono a mentire in tv; i book fotografici che gli vengono consegnati per scegliere i "volti angelici"; la cerchia di prosseneti che gli riempie palazzi e ville di donne a pagamento; migliaia di foto che lo ritraggono, solo, circondato da decine di ragazze di volta in volta diverse; i ricordi imbarazzati e imbarazzanti di capi di Stato che gli hanno fatto visita. E ora, svelata dal Corriere della Sera, anche la confessione di una donna che è stata pagata per una cena e per una notte con in più la promessa di una candidatura alle Europee e poi in consiglio comunale. La storia può essere liquidata, come fa l´avvocato Ghedini, dicendo Berlusconi comunque non colpevole e in ogni caso soltanto «utilizzatore finale» come se una donna fosse sempre e soltanto un corpo e mai una persona? Che cosa deve ancora accadere perché la politica, a cominciare da chi ha sempre sostenuto la leadership di Berlusconi, prenda atto che il capo del governo è vittima soltanto di se stesso? Che il suo silenzio non potrà durare in eterno? Che presto il capo del governo, trasformatosi in una sola notte da cigno in anatra zoppa, non è più la soluzione della crisi italiana, ma un problema in più per il Paese. Forse, il dilemma più grave e più drammatico se non si riuscirà a evitare che la crisi personale di una leadership divenga la tragedia di una nazione.

Corriere della Sera 18.7.09
L’offensiva prelude a sorprese per tutti
di Massimo Franco


Nel governo prevedono che l’offensiva arriverà al­meno fino ai ballottaggi di domenica e lunedì. Sono ottimisti: se davvero l’opposizione ha deci­so di insistere nella delegittimazione di Silvio Berlusconi, il tra­guardo minimo sarà la riunione del G8 all’Aquila a luglio. Il pre­mier continua a denunciare questa manovra, e aggiunge che non si lascerà travolgere. Ma il nervosismo appare palpabile. Il fatto stesso che i vertici del Pdl siano insorti per difenderlo evoca un logoramento.
Lo scontro violento con Massimo D’Alema, il dirigente del Pd che giorni fa aveva preannunciato «una scossa» contro palazzo Chigi, riaccredita un legame politico fra una parte della magistra­tura e pezzi d’opposizione in funzione antiberlusconiana. D’Ale­ma minaccia di denunciare chiunque sostenga che lui manovra le inchieste giudiziarie. Ma il sospetto che palazzo Chigi insinua, è di una conoscenza preventiva di alcune indagini in corso: tesi tut­ta da provare, ma favorita dalle esternazioni dalemiane più recen­ti.
Sono gli ingredienti perfetti per declassare la politica a rissa; e su argomenti che con programmi e alleanze hanno ben poco a che fare. Il paradosso è che dopo i ballottaggi riemergano un lea­der premiato dagli elettori e tuttavia in difficoltà; ed un governo dotato di una maggioranza sem­pre solida, eppure indebolita da vi­cende extrapolitiche. La Lega giu­ra che difenderà Berlusconi: atteg­giamento che sottolinea il ruolo crescente nella coalizione, ed un segnale al Pd affinché non si aspet­ti sponde, qualunque cosa succe­da.
Sempre che succeda. Per quan­to bersagliato quotidianamente, il capo del governo non sembra di­sposto a farsi da parte; né, secon­do il suo avvocato Niccolò Ghedi­ni, è ricattabile. L’ostentazione di normalità che Berlusconi ieri ha offerto tornando all’Aquila e sor­volando le zone terremotate, è un modo per esorcizzare le ombre. Operazione non facile, anche per i riflessi internazionali. E’ passa­to rapidamente in secondo piano l’incontro alla Casa Bianca con Barack Obama: forse perché non è andato male. E sono state rilan­ciate le polemiche sulla sua vita privata: probabilmente per que­sto è stata annullata la conferenza stampa prevista ieri nel capo­luogo abruzzese.
L’impressione è che la vicenda sia destinata ad offrire altre sor­prese. Ma non soltanto negative per Berlusconi. Nel Pd si va facen­do strada qualche dubbio sulla bontà di una campagna basata più su pretesi imperativi etici che su questioni politiche. L’invito al suo stesso partito di Pierluigi Bersani è indicativo. Anche perché non è chiaro se nel passato il Cavaliere abbia perso o non abbia vinto per le voci scandalose sul suo conto, o per degli errori politi­ci. E’ un’incognita non da poco: non solo per Berlusconi, ma per i suoi avversari.

il Riformista 18.6.09
È qui la festa?
Altro che Noemi, questa è crisi vera
di Fabrizio d'Esposito


Dopo Casoria, Bari. Stavolta, ad aggiungere un importante capitolo al logoramento della monarchia berlusconiana, è però il Corriere della Sera di Ferruccio de Bortoli, non la Repubblica di Ezio Mauro.

Dalle feste della Casoria di Papi alla Bari "rimborsata" di D'Addy
Chi è Giampaolo Tarantini? Ha incontrato Berlusconi al matrimonio della parlamentare Pdl Elvira Savino. Sarebbe lui il trait-d'union tra il presidente del Consiglio e Patrizia D'Addario.

Dopo Casoria, Bari. Stavolta, ad aggiungere un importante capitolo al logoramento della monarchia berlusconiana, è però il Corriere della Sera di Ferruccio de Bortoli, non la Repubblica di Ezio Mauro. In una pagina maneggiata con estrema prudenza dalla cronista Fiorenza Sarzanini si tratteggia quella che per il Pdl sarebbe la "scossa" evocata da Massimo D'Alema domenica scorsa: un'inchiesta sulla sanità in Puglia. Il colpaccio è un'intervista alla nuova Noemi del premier: una bionda di nome Patrizia D'Addario, presentatasi alle ultime comunali di Bari (7 voti) in una lista di sostegno al candidato del centrodestra, che rivela di aver passato una notte a Palazzo Grazioli (a pagamento come per il primo invito?) e di avere registrato tutto col telefonino. Per la prima volta, dopo i racconti di Unità e Riformista sulla satiriasi del Cavaliere, racconti di fonti dirette ma anonime, c'è dunque una donna che con nome e cognome ammette l'esistenza di un harem dislocato tra Villa Certosa e la residenza romana di Berlusconi.
Il personaggio chiave di tutta la vicenda è un rampante quarantenne pugliese, Giampaolo Tarantini. È lui che introduce D'Addario nel giro del presidente del Consiglio. La giovane parte da Bari in aereo e arriva a Roma per una festa a Palazzo Grazioli, in un contesto di alberghi di lusso e auto coi vetri oscurati. I pm del capoluogo pugliese si sono imbattuti nella movimentata vita privata del premier indagando su Tarantini e suo fratello Claudio, imprenditori della sanità con la Tecno Hospital. Il sospetto è il solito: mazzette in cambio di appalti. Corruzione. Giampaolo Tarantini, da chi lo conosce, viene descritto come una persona «molto sopra le righe». Al punto da avere affittato una villa accanto a quella di Berlusconi in Sardegna. Oltre alla Tecno Hospital, Tarantini ha partecipazioni in altre società, di cui una di recente costituzione con sede in un palazzo di Roma: G.C. Consulting srl, che risale al marzo di quest'anno.
Fonti di primissima mano della Procura barese riferiscono che sotto la lente di ingrandimento ci sono i suoi rapporti con il Cavaliere. E qui ritorna in ballo uno dei momenti clou dell'ultima stagione delle madamine berlusconiane: il matrimonio della giovane parlamentare del Pdl Elvira Savino, pugliese di nascita e di elezione e soprannominata Topolona da Dagospia. Ai magistrati risulterebbe un contatto al ricevimento tra Berlusconi e Tarantini. Era il 12 settembre del 2008, di venerdì, e tra gli invitati c'era anche l'attrice Sabina Began, indicata come l'Ape Regina della corte del premier. Non solo. Stando alla ricostruzione degli inquirenti, il giorno dopo, sabato 13 settembre, il Cavaliere andò all'inaugurazione della fiera del Levante a Bari e con lui ci sarebbero stati lo stesso Tarantini e un'altra avvenente pugliese: Angela Sozio, la rossa del Grande Fratello che venne fotografata a Villa Certosa seduta sulle ginocchia del presidente del Consiglio. Sozio doveva essere candidata alle ultime europee (da qui la partecipazione ai corsi di formazione politica a via dell'Umiltà, sede del Pdl) ma la sortita di Veronica Lario sul «ciarpame delle veline» l'ha fatta escludere all'ultimo momento utile.
L'inchiesta di Bari, però, sarebbe esplosiva anche sotto un altro fronte. Oltre, infatti, ai volti di altre ragazze che affiorerebbero dai faldoni delle indagini, potrebbe materializzarsi l'ultimo timore che ha agitato fino a sabato scorso alti esponenti del governo di centrodestra: la comparsa della droga. I pm che stanno scavando negli ambienti frequentati da Tarantini avrebbero trovato chiare tracce di cocaina. Ovviamente, al momento, la pista è tutta da verificare ma i boatos trapelati dalla Procura pugliese sono più che attendibili. Senza contare che le registrazioni di D'Addario starebbero circolando già a più livelli. La ragazza ha raccontato di aver avvicinato Berlusconi per parlargli di un progetto edilizio della sua famiglia. Ma alla fine ha «capito di essere stata ingannata e usata». E così si è decisa a parlare, mettendosi in contatto con il Corriere della Sera. Dopo Papi, è il turno di D'Addy.

il Riformista 18.6.09
Panico Pdl, sbanda pure Ghedini
«Silvio è solo l'utilizzatore finale»
La manona. L'avvocato-deputato: «Anche se la ragazza dice il vero, non c'è reato». Teorie del complotto, ora i sospetti si appuntano sui servizi.
di Alessandro De Angelis


Quando Silvio Berlusconi scende nel «parlamentino» di palazzo Grazioli dove è convocato l'ufficio di presidenza del Pdl si capisce che la «scossa» - copyright di Massimo D'Alema - non è come le altre. A meno di tre settimane dal G8 il Corriere dà notizia che l'inchiesta nel settore della sanità pugliese investe pure i festini pieni di belle ragazze nelle abitazioni del premier, a Roma e in Sardegna. Soprattutto, però, pubblica un'intervista choc a Patrizia D'Addario, che confessa di aver passato una notte col Cavaliere. A pagamento. E di avere le prove. Il premier si sfoga: «Questi mi vogliono abbattere. È grave che D'Alema aveva notizie dalle procure. Non è la prima volta che usano questi metodi, né sarà l'ultima. Io comunque non mi tiro indietro, anche se continueranno a colpirmi fino alle regionali».
Eppure qualcosa è cambiato, dopo il tassello pugliese. Lo si capisce dalle reazioni dei fedelissimi. Scomposte. Come la paura. L'ufficio di presidenza del Pdl dirama una nota ufficiale, firmata dal triumvirato Bondi-La Russa-Verdini: «Siamo di fronte ai resoconti più incredibili, alle foto travisate, alle immancabili intercettazioni estrapolate, alla violazione di ogni privacy, ai retroscena sentimentali, alle ricostruzioni da Bolero film». Segue dichiarazione del premier: «Ancora una volta riempiono i giornali di spazzatura e di falsità. Io non mi farò certo condizionare da queste aggressioni e continuerò a lavorare, come sempre, per il bene del paese». Ma la sensazione è che le armi del Cavaliere colpiscano a vuoto. La procura di Bari sta indagando per «induzione alla prostituzione». E l'avvocato del premier Niccolò Ghedini dichiara: «Qualsiasi ricostruzione si possa ipotizzare, ancorché fossero vere le indicazioni di questa ragazza e vere non sono, il premier sarebbe, secondo la ricostruzione, l'utilizzatore finale e quindi mai penalmente punibile». Più tardi preciserà: «Era una astratta spiegazione tecnico giuridica». Comunque è il segnale che il premier sta, se non nel banco degli imputati, sulla difensiva. I suoi pensano che la D'Addario è davvero in possesso di materiale per incastrare Berlusconi: foto, registrazioni pubblicabili. Praticamente un premier sotto ricatto.
È la notte del berlusconismo. Il Cavaliere pensa che ci sia una manina o una manona dietro l'operazione tesa a sostituirlo con un governo tecnico: il «piano eversivo» su cui ancora ieri ha sparato a zero. Un azzurro di rango chiede i microfoni spenti per descriverne i dettagli: «È in atto una strategia cilena tesa a cambiare il quadro politico attraverso una destabilizzazione di quello attuale. Anche in Cile c'erano due scioperi al giorno, le manifestazioni, e da ultimo, l'assalto alla Moneda. Qui siamo partiti con l'azione di pezzi di magistratura e con le campagne stampa sui giornali dei poteri forti. L'obiettivo è logorare il premier fino alle dimissioni. Tutta questa roba non può non essere orchestrata». Le procure e il loro rapporto con la sinistra sarebbero quindi solo una parte dell'orchestra («Vorremmo ricordare a D'Alema - dice Verdini - che già Violante, per la sua indebita rivelazione nei confronti di Marcello Dell'Utri fu costretto a dimettersi da presidente della commissione Antimafia»). C'è dell'altro. A palazzo Grazioli risulta infatti che nei prossimi giorni anche Repubblica tornerà a montare una serie di campagne sulle abitudini ludiche del Cavaliere. Tutte focalizzate sui doni che i tanti cortigiani offrivano al sultano per entrare nelle sue grazie. Inchieste che è difficile si possano costruire in un giorno. Il che significherebbe che ci sono cronisti, fotografi che per anni avrebbero pedinato il premier, senza alcun controllo. Tutt'altro che dettagli. Il capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto nei giorni scorsi ha messo sotto tiro i servizi segreti sulla questione delle foto di Zappadu a villa Certosa, violata da cinquemila scatti. E ieri pure Italo Bocchino, attaccando il lìder maximo, ha tirato in ballo i servizi: «D'Alema ha il dovere di spiegare al paese come faceva a sapere di possibili scosse riguardanti il governo proprio mentre era a Bari. Altrimenti è evidente che mesta nel torbido assieme a pezzi di apparati statali non fedeli alle istituzioni della nostra Repubblica».
È l'ora dei veleni. Chi, infatti, se non Gianni Letta, a palazzo Chigi, ha una lunga consuetudine di rapporti con i servizi? In molti si interrogano sul suo ruolo in questa fase. Così come su quello del capo dell'altro sub-partito nel Pdl, Giulio Tremonti. Che ieri - sempre sul Corriere - si è tirato fuori dal novero dei «complottisti». Fatto sta che nel palazzo sono cominciati i posizionamenti dei peones. Per la prima volta nella nuova era berlusconiana, iniziata poco più di un anno fa, i parlamentari della periferia dell'impero chiedevano alle vecchie volpi lumi su ciò che accadrà. Ammesso che qualcuno lo possa prevedere.

l’Unità 18.6.09
Fabbrica razzismo
I fatti, le notizie e la costruzione della paura
di Rachele Gonnelli


Da Erba alla Caffarella a Ponticelli: un’analisi di 319 casi di ordinaria xenofobia così come li hanno rappresentati i media. Tra distorsioni, pregiudizi e falsi allarmi che trasformano l’immigrazione in problema criminale da affrontare solo con la repressione

Lo studio della Ong Lunaria curato da docenti e magistrati «dimostra» come funziona un vero e proprio meccanismo

Andare contro la marea montante, quasi un’onda anomala, del razzismo, è faticoso. E fatica, mesi di lavoro, ci sono voluti per produrre il primo libro bianco sul razzismo in Italia. Un’opera collettiva a cui hanno partecipato professori universitari, magistrati, esperti di legislazione europea, messi insieme dalla ong Lunaria. «Siamo partiti dai fatti», ha spiegato la vicepresidente Grazia Naletto, presentando il volume, disponibile online sul sito dell’associazione (www.lunaria.org). E i fatti sono stati presi dalla stampa. Si tratta perciò di un poderoso lavoro di analisi critica di tutti i media, dalla tv ai quotidiani locali, dai siti alle agenzie di stampa. Alla ricerca dei meccanismi con cui si crea e si amplifica il razzismo fino a farlo diventare pervasivo nell’intera società. Meccanismi che agiscono spesso con l’inconsapevolezza o semi consapevolezza degli attori, in questo caso i giornalisti. «Non abbiamo alcun intento di criminalizzare i mezzi d’informazione», chiarisce Naletto. Casomai, spiega, stimolare una maggiore consapevolezza da parte degli operatori dell’informazione dei danni che la cattiva narrazione può produrre alimentando allarmi inesistenti e pregiudizi privi di fondamento. Miti negativi che spesso la politica invece di contrastare, utilizza per darsi visibilità e rafforzarsi. Con il risultato di ingigantire il rischio di una deriva anche legislativa.
Per scardinare questo circolo vizioso che si autoalimenta, sono stati perciò passati in rassegna i fatti e la loro rappresentazione nell’opinione pubblica in un lasso di tempo compreso tra il 1° gennaio 2007 e il 15 aprile 2009. Sono stati presi in esame 319 casi di «ordinario razzismo», smontati e ricostruiti nella verità dei fatti, ripuliti dell’apparato retorico e ricondotti su un piano di realtà. In più è stato fatto un lavoro più intenso e concentrato su otto principali casi di cronoca che hanno impegnato le prime pagine e le notizie di testa dei tg per mesi: la strage di Erba, l’uccisione nella metro di Roma di Vanessa Russo, l’omicidio di Giovanna Reggiani, il pogrom di rom a Ponticelli, l’uccisione a Milano di Abdul Guibre, la violenza subita a Parma da Emmanuel Bonsu, l’aggressione di Navtej Singh su una panchina in una stazione ferroviaria a Nettuno, lo stupro nel parco della Caffarella.
Non si tratta in effetti di una ricerca fatta di numeri e statistiche. Ma di una analisi qualitativa di un fenomeno - il razzismo - e delle sue declinazioni. L’indagine è quindi di linguaggio, sociologica, oltre che giuridica e etnologica. Si vuole dare un contributo alla decostruzione di un apparato simbolico che concepisce l’immigrazione solo come problema e problema non più sociale ma criminale. Nel tentativo di scardinare la legittimazione popolare di quella che si sta sedimentando come una legislazione speciale riservata ai migranti, che siano dotati o sprovvisti di documenti che attestino il loro arrivo in Italia tramite canali ufficiali o più facilmente il loro percorso di regolarizzazione e inserimento lavorativo.
Come può essere ultizzato il Libro bianco sul razzismo in Italia? Sicuramente anche nellle intenzioni degli autori potrebbe essere utilizzato nelle scuole, come testo base per un lavoro che deve essere comunque aggiornato e continuato. Perchè insegna appunto a leggere i contenuti dei giornali e dei telegiornali, notizie ma anche editoriali, sondaggi e interviste con l’esperto di turno, senza «bersi» ogni approccio in modo acritico. Un modo meno pubblicitario e più serio di far entrare la carta stampata in classe.
E poi potrebbe essere utilizzato da traccia per le scuole e i corsi universitari di giornalismo. Per creare nelle nuove leve di cronisti di nera una consapevolezza deontologica rispetta al tema dell’immigrazione. Tra l’altro la cronaca nera nella televisioni, come dimostra una ricerca dell’Osservatorio di Pavia citato nell’apparato critico del libro bianco, sta sempre più conquistando spazi di informazione sia nelle reti private che in quelle pubbliche. In questi ultimi due anni dal 40 al 60 % di tutte le notizie pubblicate o trasmesse in Italia sono da considerare legate alla problematica dell’immigrazione e dell’emergenza sicuritaria, hanno calcolato gli autori. Mentre tra i protagonisti delle storie di razzismo quotidiano, sia nel ruolo di attori che in quelle di vittime, ci sono essenzialmente i giovani. Il futuro. E per usare una citazione del libro: «Non bisogna dare per scontato che i discorsi siano privi di conseguenze».

l’Unità 18.6.09
«Intollerabile la tragedia e la devastazione di Gaza»
L’ex presidente Usa: coraggioso il discorso di Obama. L’alternativa a una pace giusta sarebbe una guerra ancora più dolorosa
intervista a Jimmy Carter di Umberto De Giovannangeli


Porto nel mio cuore i racconti di donne, uomini, bambini costretti a vivere come bestie più che come esseri umani. Non potrò mai dimenticare ciò che ho visto con i miei occhi: immagini di case, scuole rase al suolo in una deliberata devastazione». Parla Jimmy Carter, ex presidente degli Stati Uniti, premio Nobel per la Pace. Carter è in questi giorni a Gaza. Queste le sue impressioni.
Qual è l’immagine di Gaza che poterà con sé?
«Una immagine angosciante. Non ho potuto trattenere le lacrime quando ho visto con i miei occhi rovine, devastazione, vite distrutte...».
Il suo grido d’allarme sembra perdersi nel vuoto...
«Ciò è profondamente ingiusto e finché ne avrò la forza non smetterò di denunciare questa situazione. Mi lasci aggiungere che la tragedia di Gaza non è solo ingiusta sul piano umano, dei diritti della persona, ma è anche dannosa per la stessa causa della pace. Perché è impensabile rilanciare il dialogo quando metà di un popolo è costretta a vivere in una enorme prigione a cielo aperto. I riflettori si sono spenti, ma la sofferenza di quasi un milione e mezzo di palestinesi non è diminuita...».
E la comunità internazionale?
«Purtroppo la comunità internazionale sembra sorda agli appelli che giungono da Gaza».
A Gaza Lei ha avuto modo di incontrare i vertici di Hamas. Quali indicazioni ha potuto trarne?
«Mi pare importante l’affermazione di Haniyeh (primo ministro nel governo di Hamas nella Striscia, ndr.) di una disponibilità di Hamas ad accettare una soluzione negoziale se i confini fossero definiti entro quelli del ‘67. Un’affermazione che si accompagna con una valutazione incoraggiante dei leader di Hamas sulle posizioni assunte dal presidente Obama. Il confronto è possibile, spazi sembrano aprirsi, ma per rafforzare questa prospettiva occorre porre fine al blocco di Gaza. Non è solo una scelta umanitaria. È un investimento su una pace possibile».
Nel campo palestinese regna la divisione.
«E la divisione rende tutto ancora più difficile. Su questo punto ho molto insistito nei miei incontri politici a Gaza. Ai miei interlocutori ho detto che solo un governo di unione nazionale potrebbe porre fine alla sofferenza del popolo palestinese...».
Un governo con dentro Hamas...
«Mi pare inevitabile. Piaccia o no, Hamas rappresenta una parte significativa della società palestinese. Negare questo dato di fatto non aiuta la ricerca di un un accordo di pace che non può reggere se taglia fuori metà dei palestinesi. Occorre incalzare Hamas, ma non serve la sua criminalizzazione. Di questo è consapevole il presidente Obama come dimostra il suo discorso al Cairo. Un discorso coraggioso, di svolta...».
Lei sa che Israele l’accusa di unillateralismo filopalestinese.
«Sono rattristato di questa accusa perché la trovo ingiusta, non corrispondente al vero. Ai palestinesi ho ripetuto che non è bello vedere la distruzione operata a Gaza dalle forze armate israeliane, ma non è neanche buono quando mi reco a Sderot (una delle città israeliane più colpite dai Qassam di Hamas, ndr.) vedere i razzi che cadono sugli israeliani. Resto fermamente convinto che il solo modo di evitare che questa tragedia possa ripetersi, è raggiungere un vero accordo di pace tra palestinesi e Israele. Un accordo fondato sul principio “due popoli, due Stati”; un principio che ispira l’azione dell’amministrazione Obama».
Obama ha sottolineato a più riprese l’importanza del fattore tempo...
«Sono pienamente d’accordo con lui. Occorre essere consapevoli che l’alternativa ad una pace giusta, rispettosa dei diritti dei palestinesi come della sicurezza d’Israele, non è il mantenimento dell’attuale status quo, ma una guerra ancora più dura di quelle che hanno già segnato questa tormentata regione».
Un’altra questione cruciale nel conflitto israelo-palestinese è quella degli insediamenti. Un tema che divide il governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu e l’amministrazione Usa.
«Obama ha usato parole chiare definendo la colonizzazione dei territori occupati il principale ostacolo ad ogni accordo di pace. E si è impegnato di fronte al mondo perché questo ostacolo sia rimosso».
Il presidente Obama si è impegnato per un accordo di pace definitivo entro la scadenza del suo mandato, nel 2012.
“Vede, una cosa che abbiamo in comune è che io ho cominciato a lavorare sul Medio Oriente sin dal primo giorno del mio insediamento. E lui ha promesso a me e ad altri che avrebbe fatto altrettanto. Sta mantenendo la promessa. Questa è la sostanziale differenza tra Clinton, l’amministrazione Bush e Obama Una differenza che fa ben sperare».
(ha collaborato Osama Hamdan)

Repubblica 18.6.09
Israele, con Netanyahu la pace è impossibile
di David Grossman


I coloni e gli arabi
"Noi, incapaci di fare la pace questo ci ha detto Netanyahu"
"Nel suo discorso nessun riferimento ai sacrifici da fare"
Ha parlato senza onestà, non ha guardato i coloni negli occhi dicendo loro ciò che lui ben sa
Doveva rivolgere un appello agli arabi, lanciare loro una sfida da raccogliere

Il discorso di Benyamin Netanyahu è stato, come talvolta si suol dire, il discorso di una vita. Della nostra vita arenata, priva di speranze.
Ancora una volta la maggior parte degli israeliani può raccogliersi intorno a quella che sembra essere una proposta audace, generosa, ma che, al solito, è un compromesso tra i timori, il lassismo, e la magnanimità ipocrita del centro che sta "un po´ a destra e un po´ a sinistra". Ma quanto è grande la distanza tra tutto questo e la dura realtà, tra tutto questo e le legittime necessità, le giuste pretese dei palestinesi, accolte oggi dalla maggior parte del mondo, Stati Uniti compresi.
Ora, dopo che ogni parola del discorso è stata analizzata e soppesata, vale la pena di fare un passo indietro e osservare l´intera rappresentazione, l´intero quadro. Ciò che il discorso di Netanyahu ha rivelato, al di là di funambolismi ed equilibrismi, è la nostra impotenza, l´inanità di noi israeliani dinanzi a una realtà che esige flessibilità, audacia e lungimiranza. Se distogliamo lo sguardo da quella abile allocuzione e lo rivolgiamo agli ascoltatori, vedremo con quale entusiasmo costoro si barricano nelle proprie paure, avvertiremo il dolce deliquio provocato in loro dai palpiti di nazionalismo, di militarismo, di vittimismo: cuore vivo dell´intera concione.
All´infuori dell´accettazione del principio di due stati, spremuta a Netanyahu dopo grandi pressioni ed espressa in tono acido, in questo discorso non è stato compiuto alcun passo concreto verso un vero cambiamento di coscienza. Netanyahu non ha parlato «con onestà e coraggio», come promesso, di quanto siano rovinosi gli insediamenti e ostacolo alla pace. Non ha guardato i coloni negli occhi dicendo loro ciò che lui ben sa: che la topografia degli insediamenti è in contraddizione con quella della pace, che molti di loro saranno costretti a lasciare le loro case. Netanyahu era tenuto a dirlo. Non avrebbe per questo perso punti in un futuro negoziato con i palestinesi: ne avrebbe permesso l´avvio. Era tenuto a parlare a noi israeliani come a degli adulti, non avvolgerci in strati di coibente per proteggerci da fatti noti a tutti. Doveva parlare apertamente e dettagliatamente dell´iniziativa araba, indicare i punti che Israele è disposto ad approvare e quelli che non può accettare. Doveva rivolgere un appello agli arabi, lanciare loro una sfida che avrebbero potuto raccogliere, e avviare così un processo vitale per Israele. Per lunghi minuti si è invece dilungato sulle promesse e sulle garanzie che Israele deve ottenere dai palestinesi, ancor prima di iniziare un negoziato. Non ha accennato ai rischi che lo stato ebraico deve correre se vuole ottenere la pace. Non ha convinto di essere veramente intenzionato a lottare per la pace. Non si è posto a capo di Israele per guidarlo verso un nuovo futuro. Si è limitato a echeggiare noti timori.
Ho visto Netanyahu e l´impressionante percentuale di consensi da lui ottenuti dopo il discorso e ho capito quanto siamo lontani dalla pace. Quanto l´abilità, il talento, la saggezza di concludere la pace si siano allontanati da noi (e forse si siano atrofizzati in noi) così come lo stimolo salutare di salvarci dalla guerra. Ho visto il mio primo ministro impegnato in uno spettacolo acrobatico a labbra strette, in un´esibizione raffinata di rifiuto, di voluta cecità. Ho visto come funziona in lui quel meccanismo automatico che trasforma "un tentativo balbettato di parlare di pace" in un ben articolato auto-convincimento di essere condannati a finire per l´eternità trafitti da una spada. Ho visto e ho capito che da tutto ciò non avremo la pace.
Ho notato anche come gli esponenti palestinesi hanno reagito al discorso di Netanyahu e ho riflettuto che pure loro sono nostri partner fedeli in questo percorso di annichilimento e di fallimento. La loro reazione avrebbe potuto essere più saggia e avveduta del discorso stesso; avrebbero potuto persino aggrapparsi alla disdegnosa concessione fatta loro, controvoglia, da Netanyahu e sfidarlo ad avviare un negoziato, come da lui proposto all´inizio del discorso. Un negoziato durante il quale esiste una qual certa possibilità che le due parti discendano dall´alto dei loro vacui proclami e tocchino il terreno della realtà. E forse anche la terra promessa.
Ma i palestinesi, intrappolati come noi in un meccanismo di reazione belligerante e antagonista, hanno preferito parlare dei mille anni che trascorreranno prima che accettino le condizioni poste da Netanyahu.
Questo è il discorso di Netanyahu e questo è ciò che hanno rivelato le sue parole: anche se la maggior parte degli israeliani vuole la pace, probabilmente non è più in grado di raggiungerla.
Ci possiamo persino chiedere se noi, israeliani e palestinesi, comprendiamo veramente e profondamente il significato della pace, come potrebbe essere una vita pacifica. E subito sorge la domanda se una speranza di vera pace ancora esiste nella nostra coscienza.
Perché se questo non è il caso (e il discorso di Netanyahu l´ha chiarito in modo quasi imbarazzante) non avremo modo di concludere un accordo e, per quanto ciò suoni strano, non siamo nemmeno incentivati a farlo.
Il discorso di Netanyahu, che doveva elevarsi verso il nuovo spirito diffuso nel mondo dal presidente Obama, ci dice, tra le sue righe tortuose, che questa regione conoscerà la pace solo se questa ci verrà imposta. Non è facile ammetterlo, ma si ha sempre più l´impressione che sia questa la scelta davanti alla quale si troveranno israeliani e palestinesi: una pace giusta e sicura imposta alle parti da un fermo intervento internazionale, capitanato dagli Stati Uniti; oppure la guerra, che potrebbe rivelarsi più cruenta e amara delle precedenti.
(Traduzione Alessandra Shomroni)

Repubblica 18.6.09
La rivoluzione culturale di Obama
di Vittorio Zucconi


LA RIVOLUZIONE culturale promessa da Obama alla nazione e sancita dalla sua elezione arriva al nodo reale, al rapporto fra Stato ed economia, per riportarlo sulla strada non dello "statalismo", ma delle regole.
La grande riforma proposta ieri da Barack Obama è, come ha detto lui stesso, la «trasformazione» di questa relazione «in una scala che non si era più vista dalla Grande Depressione».
Nelle 85 pagine del "libro bianco" con le iniziative di legge depositate ora nelle aule del Congresso c´è realmente, sparpagliato in nuove agenzie e nuovi poteri di controllo, il segno del cambio radicale della filosofia di governo che da oltre 30 anni, da quando Jimmy Carter lanciò l´era della "deregulation" nel 1976 poi dilagata con Reagan, Clinton e Bush II, domina il pensiero politico nazionale, repubblicano o democratico che fosse. Il dogma della deregulation diventata sregolatezza, è tramontato. La rivoluzione, dunque, è prima culturale che amministrativa ed essa non sarebbe stata pensabile o proponibile se, a detta anche di governi europei certamente non di sinistra, la cultura del lasciar fare al mercato, di deregolare, di privatizzare, non avesse prodotto il "virus americano" della pandemia ancora in atto.
Il nocciolo della "grande trasformazione" è nel ritorno della Federal Reserve, l´organizzazione delle banche che formano l´istituto centrale di emissione, a quei compiti di sorveglianza e di controllo che fu creata non da Roosevelt, ma Woodroow Wilson nel 1913. Ma che non riuscì a impedire il crac bancario degli anni 30, fino alla decisione di dare compiti di protezione del risparmio e di supervisione alla Fed, nel 1935.
La Federal Reserve, il ministero del Tesoro, la nuova Agenzia Federale per la Protezione dei Consumatori, dovrebbero – se, ed è un "se" gigantesco, il Congresso le approverà – muovere proprio sulle due piaghe infette che avevano scatenato il contagio del settembre 2008 e che genericamente vennero affastellate sotto l´etichetta di "finanza tossica". Le due piaghe sono, la prima: quel mercato dei mutui truffa, spinti da banche e istituti di credito ansiosi di tuffarsi nel mare di profitti generati dal credito facile costruito sulla bolla dei prezzi immobiliari e sulla politica della "ownership society" della società dei proprietari, anche se quella proprietà era soltanto un gigantesco debito costruito sopra redditi insufficienti e tassi bidone. E, la seconda, l´universo primordiale delle "derivate", degli "hedge funds" che da quella tumescenza di ingenuità, ingordigia ed economia immaginaria costruita su equazioni matematiche e non su valori reali, era imploso, nella assenza di regole e di controlli. Il motore di una ricchezza immaginaria che ha, inevitabilmente, finito per divorare sé stessa.
Ora il governo federale dovrà imbrigliare la mandria dei mutui pazzi istituendo forme di credito semplificate e comprensibili, che non li espongano a pirati e usurai in colletti bianchi. E la Fed dovrà tenere alla briglia le banche e le grandi finanziarie superstiti, come la Goldman Sachs e la Morgan Stanley, accertandosi che le loro operazione e le loro offerte siano costruite su basi solide. «Ora sarà il governo a decidere che cosa i nostri clienti possano fare» ha pianto il Ceo di una grande banca regionale nel Sud, la BB&T, dimenticando di aggiungere che per decenni erano state le banche a decidere, nel proprio interesse, come i cittadini avrebbero potuto e dovuto vivere, e a tosarli.
Questo è il nucleo radioattivo della "trasformazione", con elementi satellitari che aumenteranno l´indignazione dei conservatori come l´estensione delle provvidenze sociali a tutti i dipendenti federali, comprese le coppie di fatto, dunque alle famiglie di omosessuali, il cambio epocale e generazionale di stagione. «Noi non abbiamo creato questo disastro – dice Obama – ma possiamo decidere come ne usciremo» e l´uscita è chiara: senza stravolgere il formidabile motore del capitalismo americano, quello che resta il traino, e a volte la zavorra, del convoglio economico mondiale, addirittura esentando in un eccesso di cautela quelle compagnie di assicurazione delle quali Obama ha bisogno per sperare in una riforma della sanità nazionale, la "lobby" di tutti, il governo, deve riprendere la propria responsabilità. E deve strapparla alle lobby private che hanno portato la più grande industria manifatturiera della storia, la GM, al fallimento e spinto le grandi banche a pietire l´elemosina dei contribuenti. È un tentativo di riportare in equilibrio un meccanismo che era ormai catastroficamente andato fuori controllo. Per fare questo Barack Obama era stato eletto il 4 novembre scorso e lui ci deve provare.

Corriere della Sera 18.7.09
Europee, pronto il ricorso
Sinistra e libertà e Prc «Ci spetta un seggio»


ROMA — Sinistra e Libertà e Rifondazione-Pdci sperano. Di ottenere un seggio ciascuno al Parlamento europeo, dal quale — per ora — sono esclusi, perché rimasti sotto il 4% dei voti. Dice Riccardo Nencini, segretario socialista (Sinistra e libertà): «Aspettiamo l’assegnazione ufficiale della Cassazione. Se non saremo ascoltati, è pronto un ricorso al Tar del Lazio». Tutto si basa su un’analisi di docenti di Giurisprudenza di Firenze, Milano, Roma e Cagliari. La legge prevede che si ripartiscano i seggi tra le liste che hanno raggiunto il 4%. Se restano seggi da assegnare si individuano i maggiori resti e, secondo la legge, «si considerano resti anche le cifre elettorali nazionali delle liste che non hanno raggiunto il quoziente elettorale nazionale». Interpretazione: vanno considerati anche i voti di chi non ha toccato il 4 per cento. Conseguenza: Lega e Idv perderebbero un seggio a testa, a vantaggio di Sinistra e libertà e Prc-Pdci.

La Stampa 17.6.09
Il prete pedofilo che imbarazza la Giunta Alemanno
di Giacomo Galeazzi


Bufera sulla decisione del Campidoglio di non costituirsi parte civile nel processo a carico di don Ruggero Conti, 56 anni, il parroco accusato di prostituzione minorile e atti sessuali su minori.
Pedofilo, secondo il capo d’imputazione, ma con «background» di garante per la famiglia e collaboratore del sindaco Gianni Alemanno per la Notte bianca della solidarietà. «E’ vergognoso che si protegga un grande elettore accusato di un reato infamante - attacca Francesco Storace, capogruppo de “La Destra” -. Il tribunale ha dato notizia di una lettera in cui il sindaco rinuncia a costituirsi parte civile». Poco dopo Alemanno corre ai ripari, rimuovendo dall’incarico Rita Camilli, il dirigente che ha applicato in maniera letterale il regolamento comunale che obbliga il Comune a costituirsi parte civile nelle violenze alle donne, ma non automaticamente in quelle sui minori. Il sindaco, in campagna elettorale, aveva inserito in una commissione di «saggi» don Ruggero, il sacerdote che avrebbe abusato per 10 anni di numerosi giovani affidati alle sue cure nell’oratorio o nei campeggi estivi. Un anno fa era stato arrestato nella parrocchia della Natività.
Le vicende contestate sarebbero avvenute tra il 1998 e il 2008 e vedono coinvolti minori maschi. In alcuni casi, secondo il pm, i ragazzi sarebbero stati indotti a «compiere o subire atti sessuali in cambio di denaro e di altra utilità, in genere capi d’abbigliamento». L’indagato avrebbe approfittato delle situazioni di disagio in cui si trovavano i minorenni, incluso il bambino affidato al prete dalla madre in pesanti difficoltà economiche. Il parroco avrebbe dovuto aiutarlo a studiare e, invece, avrebbe abusato del minore per una quarantina di volte in cambio di abiti o denaro, dai 10 ai 30 euro ogni volta. Stesso copione con un altro minorenne, con il quale avrebbe avuto quattro o cinque rapporti al mese. Avrebbe anche approfittato di un’altra vittima, dopo averla convinta a seguirlo nella sua abitazione.
Poi ci sono gli episodi avvenuti durante i campi estivi organizzati a Santa Caterina Valfurva o in Trentino. «Le accuse appaiono gravissime, perché riferiscono di un numero impressionante di abusi sessuali», si legge nelle motivazioni del Tribunale del Riesame. Nel processo, rinviato al 7 luglio, Mario Staderini dei Radicali ha utilizzato una norma dello statuto comunale che consente a qualsiasi cittadino di poter chiedere la costituzione di parte civile. Il presidente della sesta sezione penale Luciano Pugliese ha accolto la richiesta. Sarà la prima volta a Roma in un processo per abusi su minori.
«Suppliamo ad una precisa scelta dell’amministrazione comunale che ha deciso di non essere rappresentata - commenta Staderini -. Don Conti risulta essersi speso in campagna elettorale per Alemanno». Nessuno spazio per il dubbio tra chi lo dipinge come un dottor Jekyll e Mister Hyde, accusandolo di terribili nefandezze come l’aver abusato sessualmente di almeno sette giovani, e chi invece ne ha fatto «un martire.
Ieri all’udienza sono arrivati in centinaia dalla borgata Selva Candida, con tanto di t-shirt e scritte «Don Ruggero ti vogliamo bene». Hanno affollato l’aula del Tribunale guardando minacciosamente due delle presunte vittime. In aula c’era anche lui, don Conti. Nel pomeriggio, poi, Alemanno ha annunciato che ovvierà all’«errore burocratico», chiedendo alla corte la costituzione di parte civile.
Marinella Colombo, la madre milanese di due bimbi riportati in Germania, «è disperata e preannuncia lo sciopero della fame». Lo anticipa l’avvocato Gian Ettore Gassani, presidente nazionale dell’Ami (Associazione Matrimonialisti Italiani). Ai primi di maggio le Forze dell’ordine hanno prelevato a scuola i figli della signora Colombo, Leonardo e Nicolò (11 e 9 anni), per riportarli dal padre tedesco ai quali sono stati affidati dal giudice. Da allora la donna non ha più avuto contatti o notizie dei due bambini.