sabato 20 giugno 2009

l'Unità 20.6.09
Priapismo al potere
di Moni Ovadia


Il presidente del consiglio Silvio Berlusconi non riesce più a contenere l’alluvione di notizie, gossip, ricatti, segreti da boudoir, intemperanze sessuali che corrono sul filo. Il puzzle di questo personaggio da commedia all’italiana nella versione più strapaesana e pecoreccia si sta componendo in quella patetica verità che ancora, con indegna fedeltà servile, i suoi scherani e cortigiani si affannano a negare o ad attenuare. Siamo dunque governati da una specie di dottor Katzone, a scanso di equivoci preciso di non volermi riferire all’epiteto ingiurioso “cazzone” mascherandolo con una grafia cosmopolita, quanto al personaggio del superpriapico collezionista di femmine creato da Federico Fellini nella “Città delle Donne” ed interpretato da un indimenticabile Ettore Manni. Il maniacale e commosso rubricatore di femmine le esponeva in una galleria di immagini in merito ai loro attributi erotici e alle loro prestazioni sessuali dalle più ovvie alle più eccentriche dopo averne espunto qualsiasi riferimento di altra umanità. Ma i geni sanno creare figure sublimi attraverso l’iperbole del grottesco, i grandi lettrati come Gadda raccontano con ineguagliata maestria i rapporti fra potere ed erotismo, il suo “Eros e Priapo” dovrebbe essere lettura d’obbligo di questi tempi. Silvio Berlusconi invece, per ciò che la marea di indiscrezioni e rivelazioni porta a galla, si configura come la versione infima di quelle basse pulsioni. Il ragazzino fermato dalla polizia perché, armato di telecamera amatoriale riprendeva di nascosto le parti intime delle donne a loro insaputa, sembra essere il suddito epigono del nostro leader, la differenza sta solo nei mezzi. Stupisce e amareggia pensare al vasto consenso di cui gode presso l’elettorato femminile un uomo la cui visione della donna è confinata negli angusti confini del suo priapismo.

Repubblica 20.6.09
L´isolamento dello stregone
di Giuseppe D'Avanzo


Il battibecco in diretta tv tra il capo del governo e l´avvocato Ghedini («Come puoi pensare, Niccolò, che ti ho dato del "pazzo", ora sono io che mi offendo…») chiude una lunga stagione e ne annuncia una nuova, più incerta, dove nella sorridente e amabile stregoneria mediatica di Berlusconi affiorano disgregazioni e svuotamenti di cui nessuno, per il momento, può immaginare gli esiti. La politica di Arcore finora è stata soprattutto arma psicologica, sapientissimo governo di una macchina del consenso capace di distribuire gesti, parole, discorsi.
Inoculare passioni e fobie attraverso format semplificati: «l´uomo del fare», «i comunisti». Ispirare finte idee: «Saremo tutti felici». Fabbricare una scena di cartone: «I successi del governo che non lascia nessuno indietro». Indurre decisioni e, naturalmente, una propensione al voto.
Berlusconi aveva (e ha) il controllo pieno di un efficiente arsenale per affatturarsi il mondo e la realtà. Televisioni pubbliche e private; influenza diretta o indiretta su quotidiani e settimanali; dominio pieno dell´industria dell´intrattenimento che crea miti, stili di vita, desiderio, incantesimi. Indifferente a ogni self-restraint, Berlusconi ha usato quel ferro semiotico senza parsimonia e con calcoli freddi. Là dove c´era il «pieno» del potere (e la sua responsabilità, i suoi doveri, anche la sua sofferenza) è nato un «vuoto» dove tutto – ogni magia, ogni promessa, ogni favola – poteva felicemente trovar posto per durare un solo giorno perché il «pubblico» è "educato" a dar fede soltanto a «credenze» che possono essere cancellate o sostituite il giorno successivo («Tutti gli aquilani avranno le loro case in autunno»).
Le tecniche di questa nuova «civilizzazione», che ha reso indifferente sulla scena politica e nel discorso pubblico la domanda «che cosa accade davvero?», è stata manifesta nel corso del tempo. Il signore tecnocratico-populista scriveva l´agenda dell´attenzione pubblica. I media ubbidienti o gregari (la maggior parte) ne riproducevano l´eco. Discorsi precostituiti pronti all´uso ne assicuravano una «coda lunga». Infine, maschere salmodianti (in assetto variabile, Gasparri, Quagliariello, Bocchino, Cicchitto, Bonaiuti) li recitavano come filastrocche all´ora del tiggì.
Bene, la diavoleria non funziona più. Da due mesi Berlusconi è inchiodato su un´agenda che non ha scritto lui, che lo ha sorpreso e ancora lo stupisce. È costretto a inseguire una "realtà" (le feste di compleanno in periferia, le vacanze con le minorenni, l´ossessione per il sesso, le notti a pagamento) che non riesce a cancellare dalla pubblica attenzione. Più il premier si rifiuta di rispondere a legittime domande e all´opinione pubblica per liberarsi delle ombre e delle contraddizioni che oscurano i suoi comportamenti privati, tanto più è chiaro – ora, anche a chi l´ha a lungo negato – che la questione è politica, e il capo di un governo non se ne può sottrarre. I caudatari, nella corvée televisiva della sera, sono come intrappolati in un´alternativa del diavolo, in un gioco a perdere. La litania preconfezionata prevede di distruggere con parole arroventate la "realtà", di ridurla a questione privata e dunque protetta allo sguardo di chicchessia. Ma quanto più i corifei demoliscono tanto più le loro parole provocano imbarazzo anche nella loro area di consenso e spargono la convinzione che, se il presidente del consiglio tace, la ragione è nell´impossibilità di essere trasparente, di dire qualcosa senza correre il rischio di danneggiare se stesso. Peggio accade quando la controffensiva si fa gaglioffa. Come d´abitudine l´informazione al servizio del premier calpesta tutti coloro che sono in grado di dire una parola di verità. Così la signora, ospite a pagamento del premier nel «letto grande» di Palazzo Grazioli, diventa nei resoconti una pazza, una squilibrata, per di più puttana. Disegnata così la scena, crescono e non diminuiscono dubbi, domande, sconcerto. Ci si chiede quanto irresponsabile sia chi permette a un personaggio così avventuroso di entrare nella sua camera da letto, armato di videocamera e registratore. Per liberare il Cavaliere dall´accusa di pagare prostitute, c´è poi chi (Feltri su Libero) si spinge a giurare sulla sua impotenza: che bisogno ha di pagare una donna se il sesso gli è impedito? Il polemista non si accorge che, per salvare il suo Cavaliere, gli infligge un´umiliazione. Come capita anche all´avvocato-consigliere che definisce il suo "principe" innocente e, se non innocente, soltanto «utilizzatore finale» di quel corpo-merce.
Il vivamaria ci racconta come la stregoneria politica e mediatica si è infranta. Chiunque ha potuto vedere, nelle immagini di Sky dal Consiglio europeo di Bruxelles, il nuovo Berlusconi. Cupo, livoroso, spogliato del suo dinamismo estroverso. Il capo del governo freneticamente si inumidisce, sulle labbra, l´indice e il medio della mano destra. Sfoglia rapido la rassegna stampa. Con la sinistra regge il telefono e alza voce. E´ compulsivo. Nemmeno si accorge della telecamera. E´ a un consesso internazionale e deve occuparsi degli affari di bottega, da solo e direttamente, improvvisando, privo di una exit strategy. Non ha accanto consiglieri, spin doctor, staff. Il ministro che gli siede vicino, Frattini, finge di leggere e sembra imbarazzato da quel che sente. Sente che il premier deve rabbonire finanche l´avvocato finora bravo ad ingrassare soltanto le sue difficoltà, convinto com´è che l´affare sia penale e non politico.
Sono immagini che indicano l´isolamento del presidente del consiglio, la paralisi di chi – ripetendo come un mantra salvifico «spazzatura, spazzatura» – crede di poter esorcizzare le difficoltà che lo affliggono e lo occupano in modo esclusivo a dispetto delle sue responsabilità di governo. I fotogrammi di Bruxelles possono essere la fine della magia cesaristica, possono essere la conclusione di un sogno bonapartista, evocato da Gianfranco Fini come «impotente e inefficace», come nemico e minaccia di una democrazia «più forte, più rappresentativa, più partecipata». L´Italia berlusconiana sembra abbandonare le tentazioni – da Secondo Impero – del plebiscito. Nessuno sentirà l´assenza di Louis-Napoléon.

l'Unità 20.6.09
I mille volti di Patrizia. Escort, avventuriera o spia?
Ci si chiede perché un personaggio così screditato, nota a Bari come
una prostituta, riesca a entrare e documentare le serate a palazzo Grazioli
di Claudia Fusani


Come può una tipa come Patrizia D’Addario, prostituta di professione, nota da anni a polizia e carabinieri di Bari per aver denunciato e subìto violenze, minacce, truffe, una calamita di guai da cui è generalmente preferibile stare alla larga; come può, si diceva, una tipa così trascorrere due serate a palazzo Grazioli e festeggiare con il presidente del Consiglio l’elezione di Barak Obama? E soprattutto, perchè proprio adesso il Corriere della Sera, il primo quotidiano nazionale di sicuro non ostile al premier, ospita, pur a freni tirati, le accuse di un personaggio così screditato?
Saper rispondere a questa domanda significa trovare il pezzo mancante del puzzle Bari-gate e capirne, soprattutto, le conseguenze. Significa sapere se Patrizia D’Addario è una moderna Mata Hari, “scelta” per mettere in difficoltà il premier, infiltrarne la privacy e rivelarne i “vizi” privati addirittura documentandoli (è la tesi del complotto evocato da Berlusconi). O se, più banalmente, è un’avventuriera che dopo vari tentativi, tutti falliti, riesce a dare una svolta alla sua vita. Positiva o negativa ancora non si sa. Di sicuro ha gettato nel ridicolo il sistema di sicurezza nazionale che ogni paese deve poter garantire al proprio Presidente del Consiglio.
Patrizia D’Addario, dunque. Quarantadue anni, nata il 17 febbraio 1967 a Bari, ambiziosa, sognatrice, passione per la magia e il potere. Ha detto di sè al Corriere del Mezzogiorno il 21 gennaio 2004, un’intervista che è già un cult: «Gli uomini hanno paura di me, ho comportamenti arrischiati, quelli che loro usano per mostrare il loro vigore alle femmine. Io sono sempre stata intrepida». In quel momento della sua vita ha un nome d’arte - Patricia Brummel, uno dei tanti - e sta lanciando un calendario di nudi e trasparenze, un mezzo «per scialare con il corpo, l’ebrezza che provoca la nudità è l’illusione più bizzarra». A 30 anni fa una figlia con un imprenditore che poi uscirà presto dalla sua vita. La figlia vive tutt’oggi con lei e la nonna. Patrizia fa la modella, qualche apparizione a Telenorba e Tele Bari, servizi fotografici, qualche pubblicità, quella della Coca Cola le regala un altro nomignolo: «Coca». Ma la vera passione resta la magia. «Sono attratta dalla simulazione e dalla dissimulazione» racconta nell’intervista cult, «a 5 anni giocavo alla bambina invisibile e mi sentivo superiore». Da grande, per più di dieci anni, vive in America dove incontra e collabora con David Copperfield, Barry Collins, il mago Oronzo.
La magia e il sogno si frantumano in un attimo nel 1999 quando conosce Giuseppe B., detto Spaghetto, imprenditore edile barese che ben presto si rivela uno sfruttatore di prostitute armato di pistola. A questo punto parlano i mattinali di polizia e carabinieri. La fa lavorare in un appartamento in via Napoli, quartiere Palese: lei in una stanza, lui in quella accanto, dai 250 ai 500 euro a cliente, 2-3 mila euro al giorno; una collega con cui fa coppia, Marisa Scopece, il cui corpo viene trovato carbonizzato a Barletta. Dal 2005 l’archivio dei carabineri registra varie denunce per violenze, abusi, anche una truffa di 90 mila per la ristrutturazione di un casale di famiglia in zona Carbonara: Patrizia è sempre parte lesa, Giuseppe B, finisce in galera (lei lo inchioda grazie ad una registrazione) poi esce e continua a sfruttarla e perseguitarla.
Altro che magie e giochi di prestigio. Certo, Giampy Tarantino, il suo giro e le sue conoscenze, deve esserle sembrata un’altra occasione. L’ingresso a palazzo Grazioli, per ben due volte, la sensazione di avercela fatta. La candidatura in «Puglia prima di tutto», lista che fa capo al ministro Fitto, ne è la prova.
Ma prenderà solo sette voti. E il 31 maggio quando Berlusconi va a Bari non se la fila proprio e lei farà poi una piazzata alla sede del partito. Comincia, allora, a meditare la vendetta? O la mission era molto più antica nel tempo, almeno un anno prima? «Conserva la mia foto, ti potrà servire» dice il 31 maggio a un fotografo. E’ quella uscita su tutti i giornali, lei dietro che lo guarda, il premier di fianco.

Corriere della Sera 20.6.09
Il Cavaliere e la svolta invocata dagli amici
di Francesco Verderami


Palazzo Chigi L’attesa di un gesto per uscire dalla «condizione di minorità». Il Cavaliere «vittima della generosità»

L’ esortazione è stata pubblica e privata, perché non solo Giuliano Ferrara l’ha invitato a un mutamento radicale, a una rigenerazione. Anche Fedele Confalonieri, l’amico di una vita, confida in un «nuovo inizio».Serve una «palingenesi», questo è l’auspicio di chi tiene disinteressata­mente alle sorti di Silvio Berlusconi. Per­ché senza uno scatto del premier — co­me scriveva l’Elefantino sul Foglio l’al­tro ieri — si protrarrebbe un «clima da 24 luglio permanente». Ed è impensabi­le che la politica viva l’eterna vigilia di un crollo, la fine di un’era, quella berlu­sconiana, che il presi­dente della Camera nemmeno prevede. Ma non c’è dubbio che a lungo andare il clima che si respira nel Palaz­zo e nel Paese avrebbe un costo per la demo­crazia, potrebbe porta­re — come dice Gian­franco Fini — alla «sfiducia dei cittadi­ni verso le istituzioni».
È come se la nemesi si fosse abbattu­ta sul Cavaliere: per quindici anni il suo privato ha contribuito alle sue vittorie pubbliche, e adesso lo costringe sulla di­fensiva. E mentre in passato a Berlusco­ni veniva contestato il modo in cui si proponeva agli elettori e li conquistava, ora gli viene chiesto — gliel’ha chiesto ieri il quotidiano dei vescovi, Avvenire — «un chiarimento con l’opinione pub­blica » sui suoi fatti personali.
Tutti attendono un gesto da Silvio Berlusconi, coinvolto in una storia di fe­ste e di donnine che al momento ha mi­nato la sua immagine, non i suoi con­sensi. Al di là dei giochi di potere e di macchinazioni giudiziarie, il premier di­ce di sentirsi vittima anche di se stesso, «vittima cioè della mia generosità». È una valutazione complessiva, non per questo legata alle ultime vicende, che però riflette lo stato d’animo del Cavalie­re e anche il suo atteggiamento, le sue scelte che stupiscono, ma fino a un cer­to punto, chi lo conosce bene.
Malgrado gli ultimi due mesi siano stati costellati da errori mediatici e di tattica politica, malgrado la sua macchi­na di voti si sia inceppata, difende i col­laboratori più stretti e le loro mosse, con la stessa foga con cui difende se stesso. Perché non è stato solo Ferrara a criticare Nico­lò Ghedini per quel concetto, «utilizzatore finale», di cui pure l’av­vocato si è scusato. Ep­pure Berlusconi — a quanti gli facevano no­tare l’errore e i rischi che determinava — ha chiesto comprensione per il pena­­lista: «Poveretto, deve fare tante cose ogni giorno».
All’indomani delle elezioni europee, aveva sottratto Adriano Galliani alle ac­cuse di numerosi dirigenti del Pdl che gli addebitavano una percentuale nella perdita di consensi, dato che a due gior­ni dalle elezioni l’amministratore del Milan aveva rilasciato un’intervista alla Gazzetta dello Sport con la quale aveva di fatto annunciato la cessione di Kaká al Real Madrid. «È un amico di vecchia data. Non vi mettete pure voi, che già in famiglia...», era stata la risposta del pre­mier: «Il fatto è che c’era una perdita nel bilancio societario e non potevo ri­pianarla io, in un momento di crisi eco­nomica come questo». Eppure Berlusco­ni sapeva quanto avesse pesato l’addio del calciatore brasiliano. Alle sole Pro­vinciali di Milano, infatti, tremila sche­de erano state annullate dagli elettori, che dopo aver barrato il simbolo del Pdl avevano aggiunto: «Questo è per Kaká».
Tutti aspettano dal premier ciò che il premier però — almeno per il momen­to — non intende dare, perché si senti­rà pur vittima della sua generosità, «è così che mi fregano», ma si sente soprat­tutto al centro di oscure «trame», e se ora il fronte giudiziario è Bari, immagi­na se ne aprano altri a Palermo, a Mila­no, pare anche a Firenze. Non crede, al­meno così dà conto, a chi lo invita a guardare verso gli Stati Uniti, perché «con Obama abbiamo chiarito tutto, con la signora Clinton le relazioni sono eccellenti, e ho uno splendido rapporto con la presidente Pelosi».
No, è in Italia — a suo modo di vede­re — l’epicentro del terremoto, è verso i palazzi della politica nazionale che ten­de lo sguardo, e di Massimo D’Alema di­ce oggi che «usa mezzucci». Avrà anche ragione il premier quando rigetta certe accuse dell’opposizione, perché è diffici­le immaginarlo a capo di un regime se poi non ne controlla i gangli più impor­tanti, ed è esposto in questo modo. Em­blematica è l’immagine di ieri, con Ber­lusconi che confida al telefono di non sentirsi spiato, proprio mentre è sotto l’occhio furtivo di una telecamera.
Tuttavia per il premier resta il proble­ma di uscire da quella che Ferrara ha de­finito «l’incredibile condizione di mino­rità in cui si è ficcato». E resta il nodo di governare il Paese, di dare risposte agli interrogativi che il presidente della Ca­mera pone ormai da mesi, a partire dal­la necessità di varare una riforma dello Stato che sia condivisa dall’opposizio­ne, per passare alla costruzione di una forza, il Pdl, che secondo Fini «di fatto non è ancora nata»: «La Lega è l’unico partito vero in Italia».
Chissà se pensa anche a «Gianfran­co » quando dice di sentirsi vittima del­la sua stessa generosità, è certo che per misurare la distanza dal «cofondatore», il Cavaliere usa l’ironia: «Gianfranco al­la Camera ha otto commessi che lo se­guono ovunque. Io a palazzo Chigi ne ho uno solo». Ma non c’è sorriso sul vol­to di Berlusconi. Non era così che imma­ginava la vigilia di un G8 molto delica­to. Dovesse superarlo senza intoppi for­se inizierebbe per lui il 26 luglio.

Corriere della Sera 20.6.09
Un alone di incertezza sull'azione del governo
di Massimo Franco


La fase nuova Si è aperta una fase nuova, forse destinata a scheggiare la patina del successo del premier

Sarebbe ingiusto legare la probabile bocciatura del candidato italiano al vertice del Parlamento europeo alle vicissitudini private di Silvio Berlusconi. Ma c’è da giurarci: l’eventuale insuccesso verrà visto come controprova del logoramento progressivo del presidente del Consiglio. Se non altro perché aveva proiettato su Bruxelles le sue ambizioni di vittoria elettorale; e preannunciato un Pdl fondamentale nello scacchiere continentale. Alone d’incertezza sull’esecutivo
In realtà, è probabile che la posizione non sia stata né rafforzata né indebolita da quanto accade fra Bari e Ro­ma. Ma quello sfondo finisce per rivelare una sopravvalu­tazione del ruolo italiano, che adesso emerge insieme a problemi di colpo fuori controllo.
La reazione irritata di Berlusconi contro i giornali di­pende dal fatto che in questa fase, a torto o a ragione, gli sembrano dei nemici. Anche la sua stizza sorridente in conferenza stampa, però, comincia ad apparire sotto una luce un po’ diversa dal passato. Non trasmette più un sen­so di sicurezza, quanto un presagio di debolezza e di fragi­lità. È difficile dare torto al premier quando bolla come fantapolitica l’ipotesi di una congiura nel centrodestra per scalzarlo da palazzo Chigi. Della maggioranza rimane il padrone, seppure ormai a mezzadria con la Lega di Um­berto Bossi. Si può discutere se questo oggi rappresenti un elemento di stabilità o di precarietà della coalizione: è comunque un dato di fatto.
Ma all’ombra delle difese rocciose, della denuncia di complotti fra pezzi d’opposizione e di magistratura, è pal­pabile il nervosismo del capo del governo; e l’imbarazzo, autentico o ben studiato, di alcuni alleati. È come se cre­scesse la consapevolezza che si è aperta una fase nuova, forse destinata a scheggiare la patina del successo che Berlusconi è riuscito ad associare alla propria leadership. Per quanto da tempo ec­centrico rispetto alla strategia del Pdl, ieri il presidente della Came­ra, Gianfranco Fini, ha additato il pericolo che corrono il governo ed il Paese. Nessun rischio di instabilità; ma una per­dita progressiva di fidu­cia verso «il fondamento della democrazia».
Si tratta di una deriva verso la sfiducia nella politica, che non può essere data per avvenuta e dunque irreversi­bile. Ma certamente, oggi la capacità berlusconiana di ar­ginarla ed incanalarla sembra meno prepotente ed indi­scussa di appena un anno fa. È possibile che all’origine di questa magia inceppatasi improvvisamente ci sia quella che Berlusconi chiama la «spazzatura» di alcune inchie­ste giudiziarie: «rifiuti» dei quali giura si libererà come quelli a Napoli. E la sua reazione indignata ai contestatori di sinistra che ieri sera lo hanno fischiato a Cinisello Bal­samo, riflette la pressione a cui è sottoposto. Ma questo non basta a cancellare la sensazione di una difficoltà.
Lo dimostrano le richieste di chiarezza da parte di un mondo cattolico disorientato dagli scandali che lambisco­no il premier; l’alone di incertezza che si avverte nel go­verno; e, di nuovo, un contesto internazionale nel quale l’Italia berlusconiana si accorge di avere qualche amico meno del previsto. È un’incrinatura quasi impercettibile, e senza contraccolpi elettorali, a breve termine. Ma alla lunga può oscurare quanto di buono il governo ha fatto: dalla gestione del terremoto a quella di una situazione economica che può ancora creare tensioni sociali. Sareb­be grave se ci fosse una crisi sull’onda di quelle che il pre­mier chiama «trame giudiziarie»: e non solo perché si cre­erebbe un vuoto preoccupante.
Rimane da capire se Berlusconi sarà in grado di riem­pirlo, o contribuirà a crearlo.

Corriere della Sera 20.6.09
Riforme e storia
Ma il premier non è Catilina
di Nicola Tranfaglia


Caro Direttore, ho letto ieri sul Cor­riere una lunga lettera dell’onore­vole Deborah Bergamini che para­gona l’attuale presidente del Con­siglio Silvio Berlusconi al romano Catilina, accusato da Cicerone di una prima e di una seconda congiura, allontanato da Roma e sconfitto, attribuisce a Catilina una figura positiva e addirittura di innovatore e salva­tore della Repubblica romana. Portando il confronto storico a quello che sta succe­dendo nel nostro paese afferma che «gli op­timates di ieri che armarono le azioni di Ci­cerone erano i rappresentanti di una classe senatoriale gelosa custode di privilegi poli­tici ed economici».
«Gli optimates che violentano le regole di oggi — afferma l’onorevole Bergamini — sono potentati senza patria, politici me­diocri e polverosi intellettuali. Il potere non accetta gli imprevisti e spesso i grandi riformatori, gli uomini in grado di cambia­re la storia, si presentano all’appuntamen­to senza bussare. Questo li rende inaccetta­bili ».
Sono rimasto colpito dalla disinvoltura storica della parlamentare e dalla duplice forzatura: quella di chiudere di colpo il di­battito sempre aperto sulla figura di Catili­na rispetto alla quale gli storici esitano an­cora ad attribuirgli una funzione politica chiara e determinata. Ma soprattutto, di fronte a quella perdurante incertezza, mi è parso ancora più infondato e fragile il con­fronto tra Catilina e l’attuale presidente del Consiglio. La Bergamini li mette sullo stes­so piano come innovatori e, nel caso di Ber­lusconi, grandi riformatori.
Ma, lasciando da parte Catilina, si può dal punto di vista storico parlare di Berlu­sconi come di un grande riformatore? Io avrei al riguardo seri dubbi. Non si può ne­gare che l’attuale presidente del Consiglio si sia rivelato negli ultimi vent’anni un in­novatore: ha riunito la destra e l’ha succes­sivamente condotta a formare un solo parti­to politico, ha più volte sconfitto il cen­tro- sinistra e, aggiungerei, ha conquistato negli ultimi vent’anni un’egemonia politi­co- culturale legata alla sua visione del mon­do che si accorda per altro con i successi delle destre europee e americane dagli an­ni Settanta ad oggi.
Ma come si fa a parlare di Berlusconi co­me di un grande riformatore quando di ri­forme ne ha fatte pochissime, preoccupan­dosi soprattutto di fabbricare leggi ad per­sonam, per sé e per i suoi più diretti segua­ci (vedi il lodo Alfano approvato un anno fa) ne annuncia in continuazione ma poi trova ostacoli insuperabili sia nel cen­tro- destra che nella società italiana?
E si può dire che ci siano particolari ag­gressioni nei suoi confronti quando sono tutti i grandi giornali che parlano dei nu­merosi scandali e la stampa straniera in una situazione nella quale — fatto inaudi­to in tutto l’Occidente — il presidente del Consiglio è proprietario di tutte le televisio­ni commerciali, controlla i canali della Rai ed è in grado di influenzare fortemente il mercato pubblicitario?
Insomma, mi pare che il confronto con Catilina non regga sia per le incertezze per­duranti nella storia romana sia perché è im­possibile vedere lo scontro tra Berlusconi e i suoi avversari come quello tra un grande riformatore aggredito dai difensori di anti­chi privilegi.
Sicché, pur se in circostanze assai diver­se, viene alle labbra il celebre incipit di Ci­cerone alla sua orazione in Senato: «Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pa­zienza? ».

il Riformista 20.6.09
Bari in apnea: scosse sulla giunta Vendola
di Tommaso Labate


IL PUZZLE. A un passo dal voto, il capoluogo si interroga sul terremoto imminente. Nelle pagine dell'inchiesta aumentano i nomi targati pd. Finita l'indagine sulla sanitopoli del 2000.

Ancora ventiquattr'ore. Che diventano quasi sessanta, considerando che lunedì si voterà fino alle 15. A Bari, tra i corridoi semideserti della Procura e i tanti palchi elettorali su cui sono disseminati esponenti locali e nazionali di centrosinistra e centrodestra, si sussurra che tutto ciò che è emerso fino a oggi «è solo l'inizio». Di più, si sostiene sottovoce che il «filone Patrizia» delle inchieste sulla sanità, quello che riguarda le registrazioni della D'Addario a palazzo Grazioli, non è altro che «la punta di un iceberg». Un iceberg che potrebbe travolgere berluscones ortodossi ma anche fior di piddini. Un iceberg che potrebbe addirittura arrivare a minare la tenuta della giunta regionale guidata da Nichi Vendola.
Quanto può pesare l'atmosfera da cataclisma politico imminente che si respira nel capoluogo pugliese sulla sfida tra Emiliano e Di Cagno Abbrescia? Gianrico Carofiglio - magistrato, giallista e senatore del Pd - cerca di sdrammatizzare: «Mai visti così tanti giornalisti in giro per la città». Ma poi ammette: «Me lo sono chiesto anch'io se le "voci" possono incidere sul secondo turno delle comunali. E ancora non sono riuscito a trovare la risposta. Di sicuro non ci saranno elettori che si sposteranno da una parte all'altra. Ma l'astensionismo, questo sì, può crescere».
Lo scenario di cui sopra vale solo in assenza di nuovi sviluppi, certo. Ma, tempistica a parte, a Bari si ha la sensazione bipartisan che lo scandalo vero stia per arrivare. Non a caso, salvo le dichiarazioni quotidiane d'opposizione al governo, il Pd continua nella strategia di dribblare le rivelazioni della D'Addario. E pure i dipietristi, tolta qualche puntura di spillo di Luigi De Magistris (che pure in una dichiarazione ha "assolto" D'Alema), continuano a improntare le loro dichiarazioni a un bassissimo profilo.
L'attenzione di tutti, a Bari, è concentrata sulle ripercussioni che l'inchiesta della Procura potrebbe avere sull'attuale giunta di Vendola e su quella, targata Fitto, che l'ha preceduta al governo della Regione Puglia.
Tra le carte dei pm relative alla rete dell'imprenditore Giampaolo Tarantini c'è finito infatti Sandro Frisullo, vicepresidente della giunta, che ieri ha smentito (al Corriere) l'ipotesi di essere stato lui «il suggeritore di D'Alema» ma non ha potuto escludere il suo coinvolgimento nell'inchiesta.
Il secondo nome del Pd, secondo quanto riportato da Repubblica, è quello di Gero Grassi, deputato del Pd e capofila della corrente dei Popolari in Puglia. In una dichiarazione all'Ansa, l'interessato ha detto di «cadere dalle nuvole»: «Mai avuto rapporti con i fratelli Tarantini, non ho mai parlato con queste persone». Eppure, le notizie sulla comparizione del suo nome tra le carte dell'inchiesta sembrano reggere anche alla smentita. Con una sola precisazione: «Il nome di Grassi - dice una fonte affidabile al Riformista - è legato a vicende la cui rilevanza penale è tutta da dimostrare». Quali? Chissà. Una cosa è certa: Grassi, legato a Marini e Fioroni, è un personaggio chiave per la "stabilità" della giunta Vendola: oltre ad essere amico d'infanzia di «Nichi» (anche se di vedute politiche differenti - ex democristiano l'uno, ex comunista l'altro - sono cresciuti entrambi a Terlizzi), a lui si fa risalire la preistoria dell'avvento vendoliano alla scrivania ch'era stata di Fitto. A prendere per buona una leggenda che circola in Puglia da un lustro, fu proprio Grassi - con uno spostamento di voti in extremis - a determinare la vittoria di Vendola nelle primarie pugliesi del 2004 che lo videro vincitore a danno del favorito Francesco Boccia.
Ma è forse il «terzo uomo» quello che potrebbe tornare a mettere in imbarazzo il centrosinistra pugliese e il Pd nazionale: l'ex assessore regionale alla Sanità Alberto Tedesco, che lasciò la giunta per l'esplosione della prima Sanitopoli, si prepara a fare il suo ingresso a Palazzo Madama al posto di Paolo De Castro, fresco di elezione al parlamento europeo. Il centrosinistra pugliese trema ma il centrodestra non sta meglio. Le inchieste sulla Tecnohospital di Tarantini sono infatti due. Per la prima, incetrata su episodi di corruzzione nella sanità pubblica dal 2000 in poi (il governatore era Fitto), il sostituto procuratore Roberto Rossi si appresta a inviare agli indagati l'avviso di conclusione delle indagini.

l'Unità 20.6.09
Iran, Khamenei minaccia un bagno di sangue
di GA.B.


Khamenei all’opposizione: basta con le manifestazioni. «Se ci sarà spargimento di sangue, i leader della protesta ne saranno ritenuti responsabili», dice la Guida suprema parlando in pubblico a Teheran.
La Guida suprema si schiera con Ahmadinejad, che considera eletto senza brogli
Avviso a Mousavi: «Se ci saranno violenze, sarai considerato responsabile»

Ha atteso che trascorresse esattamente una settimana dal contestatissimo voto per le presidenziali. Poi, ieri, la Guida suprema Ali Khamenei, massima autorità della Repubblica islamica, ha battuto minacciosamente il pugno sul tavolo. Non saranno più tollerate altri cortei a Teheran. Se le agitazioni continueranno, le forze di sicurezza interverranno duramente.
SENZA EQUIVOCI
Khamenei ha usato un giro di parole che non dà adito ad equivoci: «Se ci sarà un bagno di sangue, i leader delle proteste ne saranno tenuti direttamente responsabili». Messaggio ai militanti: manifestando rischiate una repressione violenta. Messaggio ai dirigenti: se non bloccate il movimento finite in galera.
Primo destinatario dell’avvertimento è Mir Hossein Mousavi, che non accetta la sconfitta subita, secondo lui irregolarmente, dal capo di Stato uscente Mahmoud Ahmadinejad nelle elezioni del 12 giugno. Quel risultato è valido, ha sentenziato ieri Khamenei, parlando ad un’enorme folla radunatasi nel cortile dell’Università e nelle vie adiacenti per ascoltare dalla sua bocca il sermone del venerdì. «L’esito del voto viene dalle urne, non dalla strada -ha detto la Guida suprema tra le grida d’approvazione della folla-. Oggi la nazione iraniana ha bisogno di calma. Le nostre leggi non consentono i brogli, specialmente nella dimensione di undici milioni di schede». Tale è infatto il numero di consensi che secondo i conteggi ufficiali Ahmadinejad ha ottenuto in più rispetto al principale avversario. In percentuale, quasi il 63% contro circa il 34%.
Ahmadinejad era in prima fila ad ascoltare l’oratore. Le immagini televisive non hanno mostrato né Mousavi né importantissime personalità dello Stato solitamente presenti quando parla in pubblico la Guida suprema. Ad esempio l’ex-presidente Mohammad Khatami, o Akbar Hasehemi Rafsanjani. Quest’ultimo presiede il Consiglio degli esperti, cioè l’assemblea di teologi che ha fra i propri poteri anche la scelta della persona cui affidare la carica di Guida suprema. Khatami e Rafsanjani si sono apertamente schierati con Mousavi prima del voto, e in questi giorni ne hanno sostenuto con forza la richiesta di ritorno alle urne. Il controllo ferreo che viene esercitato sui media non permette di sapere se certi volti non siano comparsi sugli schermi perché assenti o per un deliberato intento censorio. In favore di Rafsanjani comunque Khamenei ha spezzato una lancia per difenderlo dalle accuse di corruzione rivoltegli da Ahmadinejad. «Lo conosco da 52 anni -ha affermato- e non l’ho mai visto arricchiersi illegalmente». Durissimo Khamenei con i governi stranieri, soprattutto americano e britannico, che interferiscono nelle vicende interne iraniane. Da parte degli Usa in particolare «le osservazioni sui diritti umani sono inaccettabili dopo quello che hanno fatto in Afghanistan, Iraq e altrove».
CORTEO CANCELLATO
Al discorso di Khamenei ha fatto seguito, almeno sino a tarda ora, l’assordante silenzio di Mousavi, che nei giorni passati aveva incitato i connazionali a scendere in piazza diffondendo comunicati sul suo sito online. Fonti vicine ai capi del movimento hanno fatto sapere in serata che la manifestazione annunciata per oggi sin da giovedì era stata cancellata.

l'Unità 20.6.09
Repressione o ritirata
Il Deng Xiaoping di Teheran
di Gabriel Bertinetto


Khamenei getta tutto il peso della sua carica istituzionale a sostegno di Ahmadinejad. Nel conflitto fra governo e blocco militare-integralista da un lato, opposizione e popolo in rivolta dall’altro, si schiera apertamente con i primi e accusa gli altri di sovversione. In tempi normali la Guida suprema agisce dietro le quinte, indirizza le strategie di governo ed influenza le decisioni più importanti, ma non rinuncia ad apparire come il capo di tutta la nazione e non di una fazione. Mousavi si è illuso forse che anche nell’emergenza Khamenei esercitasse le sue prerogative di leader numero uno, nel modo consueto. Accentuando anzi le potenzialità di arbitraggio, moderazione, mediazione offertegli dal ruolo. Per una settimana ha atteso che la Guida suprema e gli altri organismi politico-religiosi della Repubblica islamica gli tendessero la mano. Magari sperava che parte dell’establishment teocratico fosse pronto a rompere con Ahmadinejad. Forse ha sopravvalutato i contrasti emersi anche in campagna elettorale fra Ahmadinejad e una parte dell’alto clero.
Dopo il sermone di Khamenei, i leader del movimento anti-Ahmadinejad sono ad un bivio. Se fermano la protesta, non saranno più credibili agli occhi di coloro che si sono mobilitati per «riavere indietro i propri voti rubati». Se la rilanciano, proiettano il movimento in una dimensione di lotta assolutamente nuova, più contro il sistema che per la sua riforma. E rischiano, in questo secondo caso, una reazione violenta degli apparati di sicurezza. Si profila l’ombra sinistra di una Tiananmen iraniana. Con il discorso di ieri, Khamenei ha fatto chiaramente capire che se si arrivasse ad un punto di tensione troppo forte, lui non si tirerebbe affatto indietro. La Guida suprema non ci penserebbe due volte a vestire i panni dello Deng Xiaoping di Teheran.

Corriere della Sera 20.6.09
Intervista Parla Ebrahim Nabavi, il più noto autore satirico iraniano
Lo scrittore: «È un ultimatum Adesso temo la legge marziale»
di Alessandra Muglia


«Khamenei nella preghiera del venerdì ha dato un ultima­tum: la gente ora sa che se usci­rà ancora in strada a protestare pagherà un prez­zo molto alto.
Ma il monito è ri­volto soprattutto ai politici, da Mousavi a Khata­mi fino a Rafsanja­ni: vuole cancellar­li dalla scena politi­ca ».

Ebrahim Nabavi, penna satirica irania­na censurata dal regi­me, non si stupisce che l'ultimatum della Guida Suprema arrivi all'indo­mani dell'invito al dialogo rivol­to dagli ayatollah ai tre candida­ti «sconfitti».
Lui, che nel suo recente Iran. Gnomi e giganti. Paradossi e ma­lintesi (Spirali) prende di mira le contraddizioni del suo Paese, ha vissuto la situazione grotte­sca di essere arrestato a Teheran per «pubblicazioni menzogne­re » nello stesso giorno in cui gli veniva annunciato un premio per la miglior satira politica.
Altro paradosso: in Iran i re­clusi sono i più liberi, dice. Tant'è che non è mai riuscito a pubblicare così tanto nel suo Pa­ese come durante i suoi 18 mesi di cella. Dal suo rilascio vive esu­le in Belgio, a Overijse, alle por­te di Bruxelles, dove scrive libri e articoli (anche sul sito www.roozonline.com), condu­ce un programma per una radio olandese e un altro per una tv americana. Risponde al telefono sollevato dall'arrivo della sua compagna Sanam, che lo ha rag­giunto da Teheran alla vigilia dell'annunciata repressione.
Oggi è un giorno pericoloso per l'Iran, si teme la resa dei conti.
«Khamenei vuole che la gente resti a casa, così se nelle strade resta un manipolo di irriducibili potranno essere arrestati come ribelli. A partire dai leader di questo movimento, Mousavi e Khatami. Non mi stupirei se ve­nisse dichiarata la legge marzia­le » Perché la rabbia è esplosa ora?
«La gente non ne può più di Ahmadinejad, delle sue bugie e dei suoi insulti. E non si ricono­sce nel volto ridicolo dell'Iran che lui mostra agli incontri inter­nazionali, come ha fatto all'Onu e alla Columbia University».
Come andrà a finire secondo lei questa contesa tra piazza e regime?
«Vedo due possibilità: o si crea un governo fascista per 2-3 anni destinato a finire con rivo­luzione sanguinosa. Oppure Khamenei perde il potere…».
L'unico che può «sconfigger­lo » è il silente Rafsanjani.
«Sì, lui (il leader dell'Assem­blea degli esperti, ndr) ha porta­to Khamenei al potere e lui po­trebbe farlo cadere. So che sta cercando di convincere i mem­bri dell'Assemblea degli esperti a far saltare la Guida Suprema. Per spuntarla però deve portare dalla sua parte oltre metà dell' Assemblea. Finora non ce l'ha fatta, ma sta ancora lavorando in questa direzione».
Le manifestazioni di questi giorni sono state paragonate a quelle del 1979 a cui lei ha par­tecipato.
«Allora lo Scià non poteva ac­cettare che la gente non lo amas­se più e quando lo capì era trop­po tardi, il suo popolo non pote­va perdonarlo, era determinato ad andare fino in fondo. Proprio come oggi con Ahmadinejad. Ma adesso c'è una maggiore ma­turità politica rispetto ad allora: al tempo dello Scià i 40enni pen­savano come i 20enni di oggi. La società iraniana ha capito che, per vincere, questa protesta pacifica deve continuare. Oggi sono fiero di dire che sono ira­niano ».
Insomma ci sono più «gigan­ti » che «gnomi» rispetto a un tempo, per dirla con il suo ulti­mo libro?
«Sì anche se gli gnomi al go­verno tentano di abbassare l'in­telligenza dei giganti».
Come lei?
«Sì, e per fortuna sono in buo­na compagnia'.

Corriere della Sera 20.6.09
Fame nel mondo, superata la soglia del miliardo
di Giulio Benedetti


Rapporto Fao Prima volta nella storia. Colpito un sesto della popolazione del pianeta. Il demografo: «Un balzo senza precedenti»
Sono cento milioni in più solo nell’ultimo anno, 15 vivono nei Paesi industrializzati

ROMA — Nel mondo oltre un miliardo di persone soffre la fame. Un sesto della popola­zione del pianeta non dispone di una quantità di cibo ade­guata. Nell’ultimo anno 100 milioni di esseri umani hanno perso la possibilità di nutrirsi regolarmente. E tra questi 15 milioni vivono in Paesi svilup­pati. Il dato allarmante emer­ge dal periodico rapporto del­la Fao sulla fame nel mondo.
«La fame e la povertà pon­gono seriamente a rischio la si­curezza e la pace mondiale», avverte Jacques Diouf, diretto­re generale dell’agenzia del­l’Onu. Per Antonio Golini, de­mografo de «La Sapienza» di Roma, non ci sono preceden­ti: «Forse qualcosa di simile potrebbe essersi verificato nel ’29, ma non è mai successo che una crisi economica abbia portato in un anno alla fame 100 milioni di persone».
L’impatto si farà sentire in particolar modo nei Paesi in via di sviluppo, sommandosi alle preesistenti difficoltà cau­sate dagli alti costi dei prodot­ti agricoli (2006-2008), attra­verso la riduzione (25-30 per cento) delle risorse che i Paesi ricchi destinano agli aiuti umanitari, proprio nel mo­mento in cui ce ne sarebbe più bisogno, e la riduzione del­le rimesse da parte degli emi­grati. Per il direttore della Fao sono necessarie «azioni rapi­de e sostanziali». L’obiettivo di far scendere il numero dei poveri sotto i 420 milioni en­tro il 2015 appare, alla luce dei nuovi dati, molto incerto. Una prima risposta all’appello lan­ciato da Diouf potrebbe veni­re dal World food summit che si svolgerà a novembre a Ro­ma, alla presenza dei capi di Stato di tutto il mondo.
Nell’Asia e nel Pacifico, la re­gione più popolosa del mon­do e col maggior numero di persone sottonutrite (642 mi­lioni), coloro che soffrono la fame sono aumentati del 10,5 rispetto al 2008. Nell’Africa Sub-Sahariana (265 milioni) la crescita è stata dell'11,85. Nel Medio Oriente e nel Nord Africa (42 milioni) l’aumento è stato pari al 13,5. In America Latina e Caraibi (53 milioni) la denutrizione è cresciuta del 12,8. L’aumento più consisten­te di persone che non riesco­no a mettere insieme il pran­zo con la cena, sempre rispet­to al 2008, è avvenuto nelle na­zioni sviluppate: 15,4 per cen­to.
«Siamo in presenza di una pandemia da fame — spiega il professor Golini —. Difficile fare previsioni. Molto dipen­derà dalla tenuta dell’econo­mia cinese e indiana. In quei Paesi vivono 2 miliardi e mez­zo di persone». Per l’ecologo Gianni Gilioli, docente del­l’ateneo di Reggio Calabria, la crisi finanziaria ha solo peg­giorato l’impatto della specu­lazione sui prezzi agricoli. «Il mondo ha diritto ad avere un’agricoltura che ritorni ad essere capace di sfamare tutti i suoi cittadini. I dati della Fao tormentano la nostra coscien­za civile e cristiana», ha dichia­rato il ministro delle Politiche agricole, Luca Zaia.

l'Unità 20.6.09
La storia dei rifugiati eritrei di Milano
Senza più rifugio
di Maria Pace Ottieri


Scappano dall’Africa cercano aiuto in Italia ma trovano ostilità, botte, povertà, violenze. La storia dei rifugiati eritrei di Milano, accampati
come fantasmi scomodi in piazza Oberdan
Sono un esercito di vessati senza difesa: vulnerabili per eccellenza
Oggi è la loro giornata

La loro isola è uno slargo di asfalto, un rettangolo grigio circondato da un mare luccicante di automobili, l’unico riparo dal sole e dalla pioggia, una pensilina di ferro e cemento. Sono rifugiati politici eritrei e quest’angolo di Piazza Oberdan, a Milano, Porta Venezia, è la loro casa. Naufraghi urbani che si lavano alle fontanelle dei giardini pubblici antistanti, si sfamano alla mensa dei frati cappuccini, fumano sigarette chieste ai passanti, dormono su cartoni e in questi giorni, sulle facce compiacenti dei manifesti dei candidati alle recenti elezioni europee. «In Italy life is knife», si sente bisbigliare, il tono è sempre sommesso, nessuno ha voglia di parlare di sé, della sua storia, della fuga dal suo paese. Noi parliamo dei nostri diritti, non dei segreti della nostra vita, siamo stati riconosciuti come rifugiati, allora perché dobbiamo fare questa vita da cani?
Anzi i cani stanno meglio di noi, hanno un diritto qua in Italia, conosco un cane che i suoi padroni spendono quattrocentocinquanta euro al mese per dargli da mangiare e lo portano anche dal parrucchiere.
Un ragazzo giovanissimo legge un libro in tigrino alla fioca luce di un lampione. Alle sue spalle quattro ecuadoregni ubriachi schiamazzano e vomitano, ma nessuno ci fa caso, gli eritrei stanno seduti su uno stretto muretto, fieri, cupi, sfuggenti, lo sguardo nel vuoto. Di che cosa parlate tra voi durante la lunga giornata? Della nostra vita di merda, è come se uno ti fa entrare in casa come ospite e poi ti chiude in cantina, al buio, con i topi, è così l’Italia. La mattina all’alba arriva la polizia ed è guerra, si uniscono anche i connazionali che dormono sugli spalti erbosi dei giardini, qualcuno viene arrestato, gli altri si ricompongono come uno stormo di uccelli immemori dello spavento. Agli occhi dei passanti somigliano più a un branco di sparuti gatti randagi, difficile spiegare da dove si viene, come si vive in un paese dove un ragazzo può essere preso per la strada e costretto a una leva militare indefinita che dura dieci anni, o spedito al confine con l’Etiopia, mille chilometri dove una guerra permanente ti uccide, difficile anche dire che del tuo paese puoi avere nostalgia se fai una vita ancora peggiore.
La polizia qui arresta i poveri perché è più facile, mormora Gavriel, l’unico che ha voglia di parlare. È il più vecchio, ha combattuto a quindici anni per la liberazione dell’Eritrea dall’Etiopia, era molto coraggioso. Il suo gruppo l’ELF è stato soppiantato dall’EPLF , quello dell’attuale presidente, lui è diventato un oppositore. È scappato prima in Sudan, no problem, poi in Libia, l’inferno. Otto mesi di prigione ad Al Zawia, in settanta in una camera per venti, vessazioni continue e stupri di ragazzine, Gavriel le difende, si ribella, parla arabo. Il giorno dopo portano lui e il suo gruppo nel deserto e li lasciano lì a morire di sete. Trovano una macchina che li porta a Tripoli, Gavriel ha in tasca qualche migliaio di dollari mandati dalla sorella emigrata in America. A Tripoli lo arrestano con tutti i suoi compagni di viaggio, di nuovo la prigione. La polizia è d’accordo con i trafficanti, ti arrestano e ti rivendono e ti riarrestano. Dopo due tentativi andati a vuoto, la traversata in barca, 1200 dollari a testa da Zwara a Lampedusa, 153 persone, di cui tre morti in mare. Il poco italiano che sa Gavriel lo ha imparato in Puglia dove ha lavorato come bracciante, 25 euro al giorno per dodici ore di lavoro. Era riuscito a raggiungere Londra, ma poiché le sue impronte digitali erano state prese a Lampedusa, ha dovuto tornare qui.
L’Italia è un brutto paese, non ricorda niente, settemilaottocento di noi sono morti per la bandiera italiana, il sangue rosso di mio nonno Goitam Tosfu è qui, era un ascaro morto per voi. Addosta’ casa, lavoro, dottore? Addosta’ human rights? Quando il Signore porterà la sua lampada su di me, dice Gavriel mostrandomi il braccialetto con l’immagine di Gesù, forse qualcosa cambierà. Per un rifugiato la vita ha smesso di scorrere. In fuga da uno stato che lo minaccia, non trova, da parte dello stato in cui cerca riparo che un’ospitalità passiva, nominale. È l’ennesimo tradimento dell’Italia a cui gli eritrei, benché da sempre ignorati e usati, guardano come a una “casa madre” che non solo li aspetta, ma è pronta ad accoglierli e a proteggerli.
Due mesi fa insieme un folto gruppo di rifugiati eritrei, etiopi, somali e sudanesi, hanno occupato l’ala abbandonata da vent’anni di un ex albergo, un immenso edificio senz’acqua e senza luce ma con mille stanze. Di fronte alla porta a vetri, sui gradini della scalinata, hanno fatto prove di democrazia: divisi in quattro gruppi hanno eletto dei rappresentanti che parlassero almeno due delle quattro lingue, il tigrino, l’amarico, il somalo e l’arabo e decidessero come dividere le stanze fra tutti. È stato un momento di euforia, qualcuno si è subito messo al lavoro per coprire con cartoni e teli le finestre senza vetri, i colpi di martello rispondevano ai boati del treno che sfrecciava al di là della siepe. Due giorni dopo sono stati accerchiati dalla polizia in assetto di guerra e per resistere allo sgombro, hanno inscenato un sit in sui binari della vicina stazione e fermato per mezz’ora un treno di inferociti pendolari. La polizia li ha sollevati di peso, picchiati e ributtati per la strada. Erano poco meno di trecento, giovani, ma non forti. Da mesi vivevano all’addiaccio, tra loro c’erano anche una quarantina di donne e una decina i bambini, di cui uno di un mese, tutti con permesso umanitario, di richiedenti asilo, o riconosciuti come rifugiati. Hanno vagato, pesti, sfiniti, affamati per le strade di Bruzzano, alla periferia di Milano e si sono dispersi di nuovo nella città.
La maggior parte di loro è arrivata nell’ultimo anno a Lampedusa, ma molti sono qui da tempo. C’è chi ha esaurito il periodo di accoglienza in uno dei dormitori della città previsto dal Piano asilo ( in tutta Milano 320 posti, 500 in Lombardia) e chi invece è stato mandato via dai dormitori dopo soli tre mesi, per problemi di capienza, chi ha raggiunto altri paesi europei. Tutti vengono dal Corno d’Africa, Sudan, Somalia, Etiopia ed Eritrea, l’area africana più martoriata nell’ultimo decennio. Ci siamo mai chiesti da che cosa scappano? Le origini di queste ondate? Come mai gli eritrei hanno ricominciato a emigrare solo dal 2000 in avanti, quando la morsa della dittatura, forse la più efferata dell’ Africa contemporanea, ha avuto un’ulteriore stretta trasformando il Paese in un lager a cielo aperto?
Quella dei rifugiati non è un’emergenza, ma una conseguenza della Storia, non è un ennesimo e seriale fatto di cronaca, ma un fenomeno cronico, di fronte al quale i paesi ricchi non possono ignorare le loro responsabilità.
È mezzanotte passata, ora di dormire. Qualcuno attraversa la strada e dagli alberi dei giardini coglie un sacco a pelo, uno straccio, una coperta logora. Fra poco lo slargo di Piazza Oberdan sarà tappezzato di corpi stesi come nella fotografia di una strage.

l'Unità 20.6.09
Le ferite aperte dei più piccoli
Congo, Sudan, Pakistan, Sri Lanka... L’allarme dell’Unicef
sui bambini costretti a combattere o a prostituirsi, stuprati e affamati
di Umberto De Giovannangeli


Un grido d’allarme disperato. Un quadro agghiacciante. Un rapporto che scuote, o dovrebbe farlo, le coscienze. E che pone i potenti della Terra di fronte a responsabilità pesantissime. Nessuno può dire: non sapevo. Stuprati, arruolati negli eserciti, obbligati a prostituirsi: ben 21 milioni di bambini nelle zone di guerra di tutto il mondo incontrano questo destino. Nei migliori dei casi, soffrono la fame e non conoscono l'istruzione; nel peggiore, muoiono. È la fotografia dell’infanzia violata, presentata dall'Unicef in vista della Giornata mondiale dei profughi che cade oggi, 20 giugno. Negli ultimi decenni - ricorda l'Unicef- i bambini sono stati sempre più coinvolti nei conflitti in corso in tutto il mondo, sfruttati nelle guerre degli adulti come facchini, servitori, schiavi sessuali e anche come soldati
Sono 42 milioni i profughi nel mondo, uno su due è minorenne. In alcuni Stati, come la Repubblica Democratica del Congo (Rdc), la situazione è drammatica. La sorte di quattro sorelle congolesi ne è la sintesi: i soldati di una milizia le hanno violentate tutte. Una di loro era una bambina, di soli tre anni. È morta. Julien Harneis, direttore dell'Ufficio Unicef di Goma, Congo orientale, racconta della catastrofe nell'Est del Paese. «I profughi sono più di un milione, di cui molte donne e bambini, che vivono in estrema povertà, soffrono la fame, sono vittime di violenze e rapimenti», ha detto.Nella sola provincia di Kivu Sud, ci sono stati 2.283 stupri nel 2008. Quelli non rilevati sono ancora di più e solo il 6% delle vittime ha ricevuto soccorso nelle prime 72 ore. Quando le scuole non vengono bruciate, diventano centri di reclutamento per le forze armate: per l'Unicef ci sono ancora almeno 8.000 soldati bambini inquadrati nell'esercito. «La situazione peggiorerà nelle prossime settimane: si prevede un'azione militare di truppe congolesi e ruandesi», sottolinea Harneis.La Rdc è per l'Unicef «uno dei peggiori Stati al mondo dove nascere. Un posto dove tra chi ha meno di cinque anni, il 38% soffre di malnutrizione cronica e il 20% muore per malaria, diarrea o infezioni respiratorie. Neppure una persona su due ha l'acqua potabile».
Nel mondo ci sono poi 100 milioni di bambini che non vanno a scuola, la metà vive in zone in conflitto, dove gli stupri sono usati sempre di più come arma di guerra. Sono Paesi dove i bambini, costretti a scappare, sono obbligati a prostituirsi o a imbracciare un'arma. È una scelta che i minori fanno spesso per disperazione, per uno dei 56 eserciti che non rispetta il divieto di arruolarli.«Non solo in Congo i minori vivono in condizioni disperate - riflette Rudi Tarneden, portavoce dell'Unicef in Germania, il Paese dove l’agenzia dell’Onu per l’infanzia ha presentato in anteprima il rapporto - . Tutti i profughi provengono da Paesi in via di sviluppo, dove la popolazione è di giovanissimi». Solo in Iraq, ha aggiunto, «i profughi sono più di due milioni e mezzo e vivono in condizioni estreme. Molti sono bambini. Anche quando trovano riparo da parenti o amici, non hanno mezzi di sussistenza».«A causa delle operazioni militari contro i talebani in Pakistan, ci sono circa 2,5 milioni di profughi, tanti vivono in campi di fortuna - ha spiegato Tarneden -. I bambini non hanno sostentamento ed è estremamente ridotta la possibilità di andare a scuola o di essere vaccinati». Dalla fine della guerra civile in Sri Lanka, poi, «nel Nord dell'isola oltre 300mila persone, tra cui molte donne e bambini, vivono in un grande campo, in condizioni durissime. E non è neanche sicuro se potranno tornare a casa», aggiunge. L’ultima considerazione è un appello e, al tempo stesso, un potente j’accuse rivolti ai potenti della Terra: «Mentre l’attenzione dell'opinione pubblica si concentra soprattutto sulla crisi finanziaria, il dolore dei bambini che vivono in Congo, Sudan, Pakistan e Sri Lanka rischia di finire nel dimenticatoio», denuncia l’Unicef.

Repubblica 20.6.09
Se chiude la Scuola di musica di Fiesole
risponde Corrado Augias


Caro Augias, com'è possibile che in questo paese passi praticamente sotto silenzio la possibile chiusura dell''Orchestra Giovanile Italiana'? Il taglio di fondi pubblici e le inevitabili difficoltà di quelli privati a questo potrebbero portare. L'istituzione creata da Piero Farulli è il primo e ancora oggi unico percorso formativo per professori d'orchestra. Altri complessi come la Mahler di Abbado e la Cherubini di Muti sono istituzioni meritevoli, ma non di formazione. Nella scuola di Fiesole arrivano giovani da tutta Italia per lavorare nel giusto contesto e avviarsi a una carriera spesso assai significativa nelle maggiori orchestre, a cominciare da quella della Scala. Ora si minacciano tagli. Se tagliamo su queste cose tagliamo via il meglio della nostra cultura. Se diamo spazio a giovani energie, ragazzi che spesso associano la passione per la musica a altre specializzazioni, forse facciamo un investimento serio per la nostra società di domani. Mi creda, caro Augias, meglio cento orchestre (il Venezuela insegna!) di un inutile e temo dannoso ponte sullo Stretto. E potrei continuare a lungo sull''indotto'.
Mathias Deichmann mathias.de@alice.it

Ho letto anch'io con dolore la notizia uscita nei giorni scorsi che la benemerita scuola di musica di Fiesole potrebbe essere costretta a chiudere. Il suo bilancio, meno di un milione di euro annui, era sostenuto per la massima parte da fondazioni bancarie. Ora la crisi potrebbe spingere queste ultime a ridurre i loro contributi. Il pianista Andrea Lucchesini, direttore artistico della Fondazione ha messo il dito nella piaga ricordando che in Italia non si è ancora riusciti a dare facilitazioni fiscali agli sponsor di iniziative meritevoli come è senz'altro Fiesole. Gli allievi sono circa 80, ognuno di loro costa 10 mila euro l'anno compresa l'ospitalità. I docenti sono alcuni tra i migliori nomi del concertismo, a cominciare dal grande Salvatore Accardo, ma anche direttori di fama mondiale, compresi Claudio Abbado e Riccardo Muti, sono ospiti frequenti per quelle che si chiamano "masterclass". A che serve Fiesole? Serve ad imparare a suonare insieme, ad ascoltarsi, a formare quell'organico strumentale che assicura il "suono", la cifra, la firma, di una grande orchestra. Dopo le brutte notizie dei giorni scorsi, il maestro Accardo ha dichiarato al "Corriere della Sera": « La scuola di Fiesole è un'eccellenza musicale di cui l'Italia dovrebbe andar fiera. In nessun altro Paese verrebbe abbandonata». L'intuizione di un istituto del genere la ebbe trent'anni fa Piero Fa Frulli, già viola del mitico "Quartetto italiano", vedendo in quali povere condizioni si presentavano i diplomati dei conservatori alle audizioni. Trent'anni di lavoro che ora rischiano di andare in fumo.

Corriere della Sera 20.6.09
Atene Inaugurazione dopo 30 anni. Il British Museum: vi prestiamo i pezzi mancanti se riconoscete che sono nostri
Apre il super museo dell’Acropoli
Oggi il debutto, ma i marmi del Partenone restano in Gran Bretagna
di Antonio Ferrari


ATENE — L’ombra sinistra dello scozzese Thomas Bruce, settimo conte di Elgin, che nel 1799 fu nominato ambasciato­re britannico presso il sultano di Costantinopoli, si allunga e violenta la luce che illumina le vetrate del nuovo museo del­l’Acropoli, che verrà inaugura­to stamane. È un’ombra sini­stra perché Lord Elgin, con il permesso dell’impero ottoma­no, che allora occupava la Gre­cia, sottrasse dalla collina più celebre del mondo le statue più preziose, per inviarle a Londra. Dove si trovano ancora, esposte al Bri­tish Museum.
Decenni di sforzi per ottenerne la restitu­zione, nei quali si impe­gnarono da Lord Byron al­l’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, sono stati va­ni. Ma i greci non hanno inten­zione di rinunciare. Anzi, l’inau­gurazione di stamane, di fronte ad alcuni potenti della terra, è diventata l’occasione per rilan­ciare l’operazione-recupero, con la speranza di vederla rea­lizzata in occasione delle Olim­piadi del 2012, che si svolgeran­no a Londra. Far tornare a casa i preziosi marmi, quando il mondo celebrerà l’ennesima fe­sta dello sport, nata nell’antica Grecia, sarebbe davvero un bel gesto. Ma sul risultato è assai azzardato scommettere.
Per Atene le Olimpiadi, il Partenone, l’Ortodossia, la ban­diera e i confini nazionali sono valori che non conoscono schieramenti politici né socia­li. Per difenderli, l’orgoglioso Paese è pronto a tutto. Pur di cancellare, proprio con la vi­cenda dei marmi rimossi, quel­lo che è stato definito un «cri­mine culturale». Un conto, in­fatti, è l’asportazione di opere d’arte nella loro interezza, co­me è accaduto durante tutte le guerre, le rivoluzioni, e le occu­pazioni. Un conto è mutilare un corpo unico delle sue parti, come è accaduto con il Parte­none. Ecco perché l’inaugura­zione del Museo dell’Acropoli (3 livelli; 21000 metri quadrati, di cui 14000 riservati all’esposi­zione), ideato dall’architetto franco-svizzero Bernard Tschumi, è diventata la ram­pa di lancio dell’attacco deci­sivo a un recupero che i gre­ci ritengono non possibile ma doveroso.
Per ora i contatti con Lon­dra sono gelidi. Il British Museum ha annunciato d’essere disponibile alla re­stituzione dei marmi, in cam­bio di un accordo che ne garan­tisca la proprietà. Come dire: noi ve li prestiamo, ma sono nostri. La risposta è stata un ri­fiuto secco. La Grecia avanza un nugolo di ragioni, e non sol­tanto perché quello compiuto da Lord Elgin viene ritenuto quasi un tollerato furto, visto che il sultano di Costantinopoli fu spinto ad accettare la richie­sta dell’ambasciatore per piag­geria nei confronti di Londra; ma perché, più volte, la Gran Bretagna aveva opposto alle rei­terate pressioni una sola rispo­sta: «Nessun luogo in Grecia è adatto per difendere e proteg­gere dall’incuria del tempo le statue». Questa poteva essere una comprensibile giustifica­zione. Ma dopo aver atteso 30 anni, Atene oggi può offrire il più grande e moderno museo del pianeta, ai piedi dell’Acro­poli, per offrire un confortevo­le, sicuro e definitivo rifugio ai suoi preziosi cimeli.
La Grecia è attraversata, in queste ore, da brividi di orgo­glio nazionale, che non si av­vertivano dal 2004 quando, in pochi mesi, la squadra di cal­cio vinse a sorpresa l’Europeo, e i giochi olimpici, dopo un’at­tesa durata oltre cent’anni, tor­narono a casa e offrirono un’edizione che tutti gli osser­vatori, persino coloro che iro­nizzavano sulle capacità orga­nizzative del Paese, giudicaro­no perfetti, spendendo giudizi ammirati. Ora la battaglia è sui marmi del Partenone, e se si fa un pensiero all’ostinazione di Atene nell’impedire che la re­pubblica ex-jugoslava di Mace­donia possa fregiarsi del titolo di Macedonia (come il nome storico della regione greca do­ve nacque Alessandro Magno) si può concludere che pensare a qualche parziale compromes­so è quasi impossibile.

Corriere della Sera 20.6.09
Progetto europeo: ricreare neuroni specchio negli androidi
E’ in arrivo il robot che indovina i pensieri
Impara come un bimbo e interagisce con l’uomo
di Paola Caruso


I nuovi robot somigliano poco agli an­droidi di Asimov, ai C-3PO di Guerre Stella­ri o a «aNDRew» dell’Uomo bicentenario. Ma sono sempre più capaci e intelligenti. Per non dire «più umani». Sì, perché san­no anche fare esperienza: imparano come i bambini e interagiscono con l’uomo. Al punto che sono quasi in grado di intuire i comandi e i desideri del «creatore». E così gli tocchi la spalla e si girano, gli parli e ti rispondono, gli indichi la strada con il dito e la percorrono, gli spieghi come montare un tavolino e lo assemblano. Non solo per­ché sono stati programmati, ma perché «vivendo» assimilano informazioni ricor­dandole in maniera costruttiva.
Insomma, nessuna registrazione asetti­ca. Per produrre un cervello artificiale per robot che imiti bene il nostro lavorano di­versi team internazionali multidisciplina­ri: mix di ingegneri, neuroscienziati, infor­matici, psicologi e altri specialisti. Tre esempi europei su tutti sono: i ricercatori del progetto Jast (partecipano Germania, Olanda, Regno Unito, Portogallo e Grecia), quelli del progetto Paco-plus coordinato dalla Universitaet Karlsruhe in Germania o quelli dell’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit) di Genova che operano in collaborazio­ne con la scuola Sant’Anna di Pisa, l’Univer­sità di Ferrara e la società Telerobot. Tutti a caccia di software sempre più sofisticati per migliorare la «cyber-materia grigia» e per ottimizzare i dispositivi che devono funzionare come i nostri «neuroni spec­chio », ossia quei neuroni che ci permetto­no di capire e imparare. In par­ticolare il programma Jast pun­ta a rendere l’interazione uo­mo- macchina sempre più natu­rale, creando sistemi cognitivi artificiali che simulano i «neu­roni specchio» biologici e fa­cendo esperimenti in cui mac­chine e umani lavorano insie­me. L’obiettivo è: arrivare a ro­bot che si pongono domande da soli.
Le ricerche serviranno a sviluppare i ro­bot- colf per la casa, bipedi e non su ruote, che sappiano usare un coltello o un teleco­mando. Ma queste macchine hanno davve­ro un potere di intuizione? «Li definirei ap­prendisti perché possono imparare movi­menti semplici — spiega Giulio Sandini, di­rettore del dipartimento di robotica dell’Iit che ha costruito iCub (Cub in inglese signi­fica cucciolo), un robot bambino quasi in­telligente — ma esiste una barriera di ap­prendimento: non capiscono cosa succede intorno a loro». Secondo Sandini a blocca­re la loro intelligenza è il fatto che il nume­ro di connessioni che simulano i neuroni è limitato: «Nei robot le connessioni si realiz­zano con cavetti che hanno dimensioni molto grandi rispetto alle connessioni neu­ronali e sono in numero minore, senza di­menticare che i chip hanno due dimensio­ni, mentre i cervelli umani ne hanno tre». Questo vuol dire che siamo lontani dal ve­dere un «uomo bicentenario» girare per l’appartamento? «Per produrre un ro­bot- badante ci vogliono almeno 10 anni — afferma Roberto Cingolani, direttore dell’Iit — anche se si stanno facendo pro­gressi con i sistemi sempre più integrati».
Certo, le macchine vanno perfezionate, innanzitutto dal punto di vista energetico: l’alimentazione portatile non basta per staccarli dal cavo elettrico. Poi vanno mi­gliorati i materiali: carrozzerie soffici al po­sto di latta e bulloni. «Oggi se urti con il robot ti tagli» precisa Cingolani. Neanche all’uomo bicentenario piaceva la carena di metallo.

venerdì 19 giugno 2009

La traduzione in italiano dell'articolo di Claudio Ricciardi e Marcelo ContiEnvironmental Ethics 1 in Italiano Finale Corretto Rivisto Marcelo 16.05.09
l'Unità 19.12.09
L’ape regina e i Servizi
di Concita de Gregorio


La storia dell'imprenditore Giampaolo Tarantini merita un momento di attenzione. Produce protesi, la sua ditta ha sede a Bari, attraversa un cattivo momento. «E' in crisi di liquidità», ci racconta Massimo Solani. Dunque cosa fa un imprenditore in crisi di liquidità? È evidente, quello che farebbero tutti: affitta una villa in Costa Smeralda vicino a quella di Berlusconi. Spera, si vede, di piazzare le sue protesi. Frequentando i lidi e i locali della costa, quelli animati dal via vai di ragazze che arrivano dal cielo e dal mare - i motoscafi dove le fanciulle prendono il sole sorvegliati dai Carabinieri, tanto per la sicurezza dei sudditi ci sono le ronde - insomma girando con l'asciugamano in spalla Tarantini conosce l'Ape regina, la favorita del Presidente, quella che si dice voli con Apicella sull'Air force One e che male c'è, non è mica reato. L'Ape regina, al secolo Sabina Began sembrerebbe essere - dalle intercettazioni baresi, e non solo - la coordinatrice, per usare l'appropriato termine politico, delle centinaia di candidate all'harem del sultano. L'Ape e Tarantini diventano amici. Tarantini ha accesso alla villa. In breve la sua crisi di liquidità si risolve. Fioccano commesse e nuovi appalti. Le tristi vicende giudiziarie di cui era stato in passato oggetto si sciolgono come neve al sole sardo. Chi non vorrebbe avere come amico il presidente?, direbbe la professoressa del liceo di Noemi. Chi non vorrebbe vendere protesi agli emissari di Putin e di Topolanek?
Una vicenda fine impero che si cerca di liquidare come gossip (il Tg1, per esempio, dall'alto della sua autorevolezza parla d'altro) e che è invece diventata un problema per la sicurezza nazionale. Ricordate le parole della moglie? «Ho pregato chi gli sta vicino di aiutarlo come si fa con un uomo malato». Malato della sua ossessione senile per l'eterna giovinezza, la virilità. Anche Chirac lo racconta. L'ossessione di Berlusconi per le ragazze è da anni la prima occupazione di chi lo circonda. Gli procurano book e numeri di telefono, gli organizzano feste a pizze e champagne come quelle dell'argentino Menem. Qualunque escort di provincia può esibire una registrazione sul telefonino, l'abito blu di Monica Lewinski è preistoria. Ghedini è nel panico. Gianni Letta con il prefetto De Gennaro sono convocati al Comitato per la sicurezza, la prossima settimana, a spiegare cosa intenda Berlusconi quando dice «strategie oscure in cui sono coinvolti spezzoni dell'intelligence nazionale con parti deviate dei servizi stranieri». L'intelligence nazionale? La Cia? Di chi è la manina che diffonde le foto? C'entrano Obama, Putin, il gas, Gheddafi? Possibile che a monte della slavina ci sia Patrizia? Riprendiamo da dove ci eravamo lasciati ieri. Fini gelido cita il Deserto dei Tartari. Gli amici se ne vanno. Veronica aveva ragione: non l'hanno aiutato, anzi. Come si fa a farsi governare da un uomo che qualunque adolescente può inchiodare con una foto? Come può un uomo così ricattabile essere affidabile? Il presidente-utilizzatore ha una possibilità di uscirne, questo dicono i suoi stessi alleati. Ribaltare l'antico adagio. «Utilizzare» è meglio che comandare. Potrebbe essere d'accordo, in fondo.

l'Unità 19.12.09
Ferrara e Fini «diffidano» il Cavaliere
di Susanna Turco


Gianfranco Fini parla del «tenente Drogo che vive asserragliato nella fortezza Bastiani». Tutti pensano a Berlusconi, lui nega. «Forte reoccupazione» per il futuro serpeggia intanto nel Pdl. Finiani compresi.

Qualche anno fa, trovandosi a immaginare quale sarebbe potuta essere un giorno la conclusione della carriera politica di Silvio Berlusconi, Carlo De Benedetti azzardò: «Non so quale. Ma sarà drammatica, eccezionale, travolgerà tutto».
È più o meno questa, ormai, la preoccupazione che comincia a serpeggiare anche negli ambienti del centrodestra. Preoccupazione per un «lento declino» negli uni, sensazione negli altri che «piuttosto di un 25 luglio, rischiamo un 25 aprile, ossia una piazzale Loreto ma senza l’elemento tragico, con il banco che salta per colpa di qualche signorina». Prospettive non esenti da rischi che portano le prime file degli indiziati - come Gianfranco Fini - a negare un qualsiasi disegno per il post Berlusconi («se c’è un complotto odora di finanziario e clericale. E lui è un laico lontano dalla finanza», avverte il finiano Granata). E a lasciar trapelare - sempre Fini - una certa preoccupazione per gli scenari che si potrebbero disegnare.
Silvio come Drogo
Il presidente della Camera, peraltro, si è (involontariamente, assicurano) intestato la più efficace delle metafore della giornata. Silvio Berlusconi come il tenente Drogo, la Fortezza Bastiani come Palazzo Grazioli, il Deserto dei Tartari come l’Italia di oggi, vista con l’occhio del Cavaliere che dal suo fortino grida al complotto. La suggestione è tanto affascinante quanto implicita, il nome non viene pronunciato, è ovvio, e anzi si nega ogni malizia. Eppure il collegamento è inevitabile, quando Fini, aprendo il convegno su “Nazione, Cittadinanza, Costituzione”, accenna alla pulsione tutta italiana «che si traduce nel paventare l’aggressione di chissà quale nemico, interno o esterno». Nazionale o internazionale. Prosegue l’ex leader di An: «Non c’è modo migliore per tratteggiare tale ansia che rileggere il Deserto dei Tartari. Asserragliato nella Fortezza Bastiani, il tenente Drogo vive nella perenne attesa dei “barbari”. E quando i Tartari verranno, egli non li vedrà».
Il Cav. come Mele?
Parole che ben si armonizzano con la sferzante critica a Berlusconi pubblicata ieri da Giuliano Ferrara. «Un premier non si difende così», diceva l’Elefantino sul Foglio, «dunque si decida: o accetta di naufragare in un lieto fine fatto di feste e belle ragazze, oppure si mette in testa di ridare il senso e la dignità di una grande avventura». Altrimenti detto: torni a fare politica, o finirà travolto dallo scandalo, come Cosimo Mele. Il timore, peraltro, è lo stesso che serpeggia tra gli stessi parlamentari del Pdl. «C’è una forte preoccupazione», riferiscono alcuni tra i meno inclini a drammatizzare: «Non si teme tanto la scossa. Si percepisce però che la soglia della decenza è vicina e quindi il rischio di un arrestabile declino». Non per nulla,i l’indice di popolarità di Berlusconi è ormai crollato a 52. Intanto, nei vertici meno allineati del Pdl si ragiona sulla «pericolosa fase di incertezza che potrebbe aprirsi». «Ha detto bene Veronica Lario», dice un finiano: «Il dittatore non è Berlusconi, rischia di esserlo chi verrà dopo». Perché il Cavaliere non è un qualsiasi segretario Dc «che si fa da parte. Con lui crollerebbe un sistema, il vuoto sarebbe spaventoso. E chi pensa di gestirlo, potrebbe finire come l’apprendista stregone».

l'Unità 19.12.09
Nelle cancellerie europee il timore del premier ricattabile
di Umberto De Giovannangeli


La preoccupazione investe gli ambienti Nato. I membri dell’Alleanza hanno i nullaosta che danno accesso ai segreti degli armamenti nucleari. Il Times di Londra pone il problema

Dalla perplessità allo sconcerto. Dallo sconcerto alla preoccupazione. E all’affacciarsi di interrogativi inquietanti. A Bruxelles e nelle cancellerie europee più importanti. Gli scandali che investono il Cavaliere non vengono più considerati dagli alleati europei come vicende interne ad una Italia guidata da un primo ministro «eccentrico» e «donnaiolo».
Negli ambienti diplomatici occidentali non è passato inosservato un articolo apparso sull’autorevole Times nei giorni burrascosi del Noemigate. «L’Italia – rilevava il quotidiano londinese – quest’anno ospita il vertice del G8. In quel forum si tengono importanti discussioni dove i governi occidentali chiedono maggior cooperazione nella lotta al terrorismo e al crimine organizzato. Berlusconi – proseguiva il Times – si vede come amico di Vladimir Putin. Il suo Paese è un importante membro della Nato. È anche parte dell’Eurozona, che è messa alla prova della crisi finanziaria globale». Per concludere che «non sono solo gli elettori italiani a chiedersi cosa stia succedendo. Lo fanno anche gli alleati perplessi dell’Italia». Una perplessità che cresce con il crescere degli scandali che investono il Cavaliere. Ed è una perplessità, dice a l’Unità un’autorevole fonte diplomatica a Bruxelles, che non ha una sua identificazione di parte politica: essa, infatti, accomuna la Francia del conservatore Sarkozy alla Spagna del socialista Zapatero, dalla Germania della centrista Merkel alla Gran Bretagna del laburista Brown. A far discutere non è la caratura morale del premier italiano. L’interrogativo che comincia a farsi strada nelle cancellerie europee è molto più pesante. E riporta dritto alle considerazioni del Times.
L’Italia è parte della Nato, e ciò significa, ad esempio, che il primo ministro italiano è in possesso dei nullaosta dell’Alleanza atlantica che danno accesso ai segreti degli armamenti nucleari. Per questo la certezza della non ricattabilità del Cavaliere è una questione che travalica i confini nazionali e va ben oltre le polemiche interne. La risposta degli aedi del premier è nervosa. Molto nervosa. Adombra una mano internazionale che tiene le redini del «grande complotto». C’è chi scomoda Zapatero, chi (vedi prima pagina di Libero di qualche settimana fa) si spinge addirittura oltreoceano puntando l’indice accusatore contro il «Giuda» della Casa Bianca (Barack Obama) impegnato a spezzare la «diplomazia del gas» del duo Berlusconi-Putin. Questione di credibilità. In caduta libera. La Francia di Nicolas Sarkozy ha scavalcato l’Italia nella leadership euromediterranea.
Nel valzer delle poltrone che contano davvero in Europa – la presidenza della Commissione europea, l’Alto rappresentante per la politica estera e, se il Trattato di Lisbona entrerà in vigore, il presidente stabile dell’Ue – l’Italia del Cavaliere non «danza». Fuori dai giochi. L’unico posto rimasto da assegnare è quello di presidente dell’Europarlamento. Spetta allo schieramento vincitore delle elezioni europee: il Ppe. Berlusconi lancia la candidatura di Mario Mauro: «Credo che questa volta tocchi a noi», ribadisce il presidente del Consiglio all’apertura del vertice di Bruxelles del Partito popolare europeo. Fa sfoggio di ottimismo, Berlusconi, ma sa che la questione è tutt’altro che risolta. Ma sulla sua strada trova un concorrente agguerrito: il polacco Jerzy Buzek. La Polonia è in crescita di consensi e di credito a livello europeo, e può contare sul sostegno dell’Est e, sia pure non ancora formalizzato, della Cdu di Angela Merkel. Quel credito, e quella credibilità che stanno scemando per il Cavaliere. In Europa sembra iniziata l’ «operazione scaricamento».

Repubblica 19.6.09
Catilina, Marx e il Cavaliere
di Adriano Prosperi


Vedrà la Gelmini se la Bergamini ha bisogno degli esami di riparazione
L´onorevole Bergamini evoca la storia romana. Ma le analogie sono forzate

"Quousque tandem"... Fino a quando abuserai della nostra pazienza? La celebre frase di Cicerone ha garantito l´immortalità scolastica di Catilina offrendo una veste classica a ogni nostra impazienza. Ma che c´entra Catilina con la pazienza degli italiani? Moltissimo, almeno secondo quello che scrive l´onorevole Deborah Bergamini in una appassionata lettera al direttore del "Corriere della sera". L´onorevole, rimuginando una sua impazienza politica, ha avuto un´idea luminosa: Catilina come Berlusconi. Catilina era, secondo lei, un uomo "coraggioso e di parola", dotato di "profondo senso della Patria" anche se un po´ anticonformista. Fu, lei scrive, calunniato e demonizzato dai "poteri forti" che gli scatenarono contro il più grande avvocato dell´epoca, Cicerone, e lo fecero a pezzi con calunnie, lettere anonime, brogli elettorali. Una tragedia. Proprio quella che rivive oggi in Italia: qui c´è un "uomo che sta trasformando l´Italia", un nuovo Catilina. I suoi nemici, "potentati senza patria, politici mediocri e polverosi intellettuali" chiusi a riccio in procure politicizzate e redazioni di giornali, ostacolano il grande uomo. Proprio come accadde a Catilina.
Ora, ognuno ha il diritto di usare la storia per dirci che cosa pensa e che cosa vuole. Purchè sia chiaro che cosa vuol dire non staremo a scuotere per lui quella polvere dai libri . Ma il modello ha da essere somigliante. Catilina era sì un "uomo vizioso portatore del nuovo", secondo la descrizione che ne fornì Sallustio, uno storico non privo di simpatia per il personaggio. E fin qui ci siamo. Ma era anche un aristocratico spiantato, carico di debiti, che si era "messo a capo di una massa di diseredati", come si legge nella recente solida opera storica di uno specialista (Emanuele Narducci, Cicerone. La parola e la politica, ed. Laterza). Proiettare il profilo sociale dello spiantato Catilina su quello del Cavalier Berlusconi sembra quanto meno di malaugurio per un uomo che figura molto in alto nella statistica dei maggiori patrimoni del mondo. Catilina fu più volte battuto alle elezioni: e anche questo non corrisponde del tutto. Il due volte battuto Berlusconi (da Prodi) non sembra in crisi di voti e regge saldamente in pugno una maggioranza di quelle che una volta si definivano bulgare. Non come quel Catilina carico di debiti che tentò la via della sollevazione violenta mettendo insieme gente di ogni risma, veri e propri briganti insieme a un mondo popolare – plebe urbana, soldati e contadini poveri – attirati dalla sua promessa di cancellazione dei debiti e di distribuzione delle terre – quelle dello Stato. Il gioco può finire qui. Giudicherà il ministro Gelmini se l´onorevole ammiratrice di Catilina ha bisogno di esami di riparazione. Anche perchè in una incauta esibizione di cultura l´onorevole azzera tutto il suo patetico e drammatico disegno: scrive che il tragico della storia "fugge davanti alla farsa in cui si trasforma". Questo è puro Karl Marx, proprio lui, il comunista. Comunque sulla farsa siamo calorosamente d´accordo: farsa oscena, degna della comicità plautina, quella che siamo costretti a vivere. E ci sia consentita un´ultima osservazione polverosamente professorale: la definizione di Catilina – e di Berlusconi – come "rivoluzionario conservatore" è una citazione rivelatrice, più di quell´involontario Marx. Ci riporta a quel movimento tedesco di violenta critica della tradizione liberal-democratica che si definì della "Rivoluzione conservatrice" e confluì in gran parte nel nazismo. Naturalmente il sistema democratico e liberale consente anche all´onorevole deputata, come a tutti i fascisti di ritorno, la libertà di opinione. Senza garanzie di reciprocità. Come disse una volta Vittorio Foa all´on. Pisanò in un dibattito televisivo: "Se vinceva lei io sarei ancora in prigione. Avendo vinto io, lei è senatore della Repubblica e parla qui con me".

Corriere della Sera 19.6.09
Il premier smentisce le ipotesi di governi tecnici
Rischio logoramento che fa riaffiorare voci sulla successione
di Massimo Franco


L’ accenno è stato fatto per scansare voci e for­se speranze di una crisi a breve del governo. Ma smentendo davanti ai vertici di Fiat e sin­dacato che Giulio Tremonti e Mario Draghi possano prendere il suo posto a palazzo Chigi, ieri Silvio Berlusconi ha ammesso che se ne parla. Ha confermato implicitamente che la sua leader­ship sta subendo un lento processo di appannamento; e che sotto traccia qualcuno forse ha ricominciato ad accarezzare il progetto della successione: Magari incoraggiato da qualcuno degli avversari del Cavaliere. È verosimile che non si tratti né del ministro dell’Economia, né del governatore di Bankitalia; semmai, di questi piani Tremonti e Draghi sono vittime. C’è di più. Proprio per il modo in cui l’offen­siva contro il premier sta avve­nendo, qualunque possibilità di un delfinato riconosciuto diven­ta più difficile. Berlusconi non l’ha mai davvero preso in consi­derazione. Ed il sospetto che qual­cuno ci stia lavorando è destina­to ad acuire diffidenze e ostilità.
Il Pd gli chiede di dare spiegazioni sugli episodi nei quali secondo la magistratura sarebbe coinvolto; oppure di andarse­ne. Ma il presidente del Consiglio sa di avere dalla sua parte il timore diffuso che una crisi improvvisa e traumatica crei un pericoloso vuoto di potere. Una caduta sull’onda di un’offensi­va extrapolitica rischierebbe di lasciare il Paese senza una mag­gioranza; e con la prospettiva di un commissariamento di fatto dell’esecutivo, slegato dal responso elettorale: un ritorno agli ambigui governi «tecnici» dell’inizio degli Anni 90 del secolo scorso.
Va detto che si tratta di un’eventualità remota. Intanto, il si­stema politico non è delegittimato come allora. La difesa a spa­da tratta da parte del Pdl, e quella «da garante», vagamente pa­dronale, della Lega lasciano capire che per ora il pericolo non esiste. Viene rilanciata la tesi del complotto ordito da pezzi del­l’opposizione e della magistratura. Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, mostra un larvato scetticismo all’idea dell’«ag­gressione di un nemico, interno o esterno». Ma i più avvertiti nel centrodestra sanno che non si può prevedere quello che ac­cadrebbe se e quando Berlusconi decidesse o fosse costretto ad un passo indietro.
Sta affiorando un problema, però. Riguarda le incognite ed i contraccolpi provocati dal viavai di un’umanità assai variopin­ta nelle residenze del premier. Basti pensare alle domande po­ste a Bruxelles sull’opportunità della candidatura di Mario Mau­ro alla presidenza dell’Europarlamento, viste le vicende private del capo del governo italiano. Il suo avvocato e consigliere, Nic­colò Ghedini, ha già detto e ripetuto che Berlusconi non è ricat­tabile. Eppure, magari in modo strumentale, dall’opposizione fioccano domande pesanti, che rimandano alla zona grigia crea­ta da queste frequentazioni: perfino per la sicurezza nazionale. Forse sono questi aspetti collaterali a far riflettere ed a preoccu­pare maggiormente.

il Riformista 19.6.09
Può resistere, e lo farà. Ma potrà ancora governare?
Silvio, dimettiti
di Giampaolo Pansa


Perché Berlusconi deve dimettersi per il bene del Paese (e pure del Pdl)

In questi giorni mi è capitato di discutere in pubblico del mio nuovo libro. Gli incontri sono avvenuti tutti in regioni dell'Italia settentrionale, nel Nord Est e nel Nord Ovest. E fra i tanti venuti ad ascoltarmi, molti erano elettori del centrodestra. Parecchi di loro mi hanno rivolto, anche in privato, la medesima domanda: Silvio Berlusconi ce la farà a reggere di fronte agli attacchi che gli piovono addosso dai giornali e dai partiti dell'opposizione? Verrà costretto a dimettersi o sarà in grado di superare la bufera?
Chi me lo chiedeva, cercava da me una risposta chiara. Dico subito che non sono stato capace di darla. Adesso provo a mettere in ordine quello che ho tentato di dire. E soprattutto quel che ho sentito. Cominciando dall'elenco delle armi che il Cavaliere ha per resistere a un'offensiva sempre più incalzante.
L'arma più forte sono i tantissimi voti raccolti nelle ultime elezioni politiche. Questi voti hanno prodotto una maggioranza molto solida che gli consente di governare con sicurezza. Accanto a lui c'è un alleato, la Lega, che ha più pretese di un tempo, ma non sembra tentato di lasciarlo. Inoltre, Silvio possiede un carisma che nessun altro leader politico può vantare. Molti dei suoi elettori non si limitano a stimarlo: lo amano, lo considerano un alieno rispetto alla nauseante casta dei partiti, lo ritengono l'unico in grado di curare i mali del paese e di cambiarlo in meglio.
Infine il Cavaliere ha dalla sua la Costituzione. Non sarebbe possibile obbligarlo a dimettersi per cedere il passo a un governo di tecnici o fondato su una maggioranza diversa. Se lui decidesse di gettare la spugna, si dovrebbe formare un altro ministero di centrodestra. Come estrema possibilità ci sarebbe soltanto lo scioglimento delle Camere, seguito da nuove elezioni.
Messa in questo modo, la faccenda è di una chiarezza solare. Silvio si trova in una botte di ferro. Difeso da una corazza infrangibile. Nessun complotto può abbatterlo. I poteri forti, i partiti e i giornali che gli sono ostili perdono il loro tempo. Possono intossicare l'aria, avvelenare i pozzi, scovare dieci, cento, mille squinzie disposte a raccontare i festini erotici di Palazzo Grazioli o del villone in Sardegna. Ma non riusciranno a mandarlo al tappeto. Anzi, si ritroveranno loro alla canna del gas, sia pure sullo sfondo di un Paese in rovina. Un disastro che avrà un unico responsabile: i nemici del Cavaliere.
A questo punto, devo confessare che, più o meno, la penso nello stesso modo. Tranne su una questione. È quella del Paese in rovina. Grazie a Dio, l'Italia non è ancora così. Abbiamo una infinità di problemi. Ma non siamo al disastro. In apparenza viviamo come un anno fa, sia pure in presenza di tanti che hanno già perso il lavoro e devono fare i conti con l'ultimo centesimo della cassa integrazione. Tuttavia il futuro sembra nero. Nel Nord Est, persone che se ne intendono mi hanno anticipato quanto accadrà dopo la pausa di agosto: molte piccole e medie aziende non riapriranno.
Se andrà così, gli italiani, tutti, di centrodestra e di centrosinistra, dovranno poter contare su un governo all'altezza del compito. Fondato su una maggioranza compatta. E soprattutto guidato da un premier in grado di muoversi come un comandante in capo. Capace di esercitare con mano salda tutti i poteri che la Costituzione gli conferisce. Dotato di un'autorità indiscutibile, anche sotto il profilo morale. Tanto forte da essere il faro di un Paese disorientato, impaurito, pronto a sbandarsi quando l'orizzonte diventa fosco.
Ed ecco la domanda delle domande. Berlusconi è ancora in grado di essere questa guida, questo comandante, questo faro? La mia risposta è netta: temo di no. Lo dico senza infilarmi nella giungla dei retroscena. E senza affrontare il tema se la colpa sia sua o di chi guida da mesi la campagna contro di lui. Si può essere distrutti da un tir che t'investe senza che tu abbia fatto nulla per essere travolto. L'unico fatto a contare è che, dopo l'urto del tir, tu non sei più quello di prima.
È questa la condizione odierna del nostro premier. I fucili dei cacciatori lo hanno colpito. E il tiro al piccione continuerà. Neppure Silvio sa quel che può accadere. A essere nel mirino è la sua vita privata. E nelle vite private di tutti ci sono angoli nascosti dove si cela il diavolo. Ma non tutti sono presidenti del Consiglio. In ogni nazione, di premier ce n'è soltanto uno alla volta. Se a fare il piccione è lui, il rischio si espande e riguarda l'intero Paese.
Per questo la mia conclusione è la stessa che avevo esposto sul Riformista del 7 maggio. Molto in anticipo, quando la bufera era soltanto agli inizi. Senza malanimo, e in toni cortesi, quasi amichevoli, allora lo consigliai di dimettersi. Anche per sottrarsi alla pioggia di fango che prevedevo gli sarebbe caduta addosso. Oggi quel consiglio è diventato un imperativo.
Berlusconi deve preparare l'inevitabile transizione. Non ha mai voluto scegliersi un delfino, un successore. Vittima anche lui del "complesso dei migliori", che di solito viene attribuito alle sinistre, non ha costruito una gerarchia di vice-leader in grado di prendere il suo posto. Un errore pesante, dovuto alla convinzione di essere l'unico grande della politica italiana. E anche di essere immortale, pur avendo paura della vecchiaia e della morte, come ormai sappiamo.
Insomma, il Cavaliere deve lasciare Palazzo Chigi di sua volontà. Senza aspettare le calende greche. Soltanto così non distruggerà il Paese e il suo partito. Obbligando i milioni di elettori che l'hanno votato a pentirsi di averlo scelto come premier.
C'è un'ultima postilla, molto personale. Se mi chiedete come andrà a finire, la mia previsione è cupa: Berlusconi non mollerà mai il mazzo. E cercherà di andare avanti all'infinito. Per questo dobbiamo prepararci al peggio.

l'Unità 19.12.09
Gelmini toglie soldi alla scuola pubblica per darli alle private
Cgil: «È scontro»
di G.V.


L’ultima della Gelmini: un bonus per le scuole paritarie. L’onta vien da dire, l’ultima per la scuola pubblica. Il sindaco è pronto ad intensificare la mobilitazione contro questa politica.

La Gelmini non finisce mai nel suo compito di destrutturare la scuola pubblica. Ieri ha comunicato che se c’è da dare un sostegno economico va dato alle scuole paritarie. In un'intervista al «Corriere della Sera», Gelmini conferma la volontà di realizzare «una riforma che dia la possibilità di accedere ad un bonus a chi vuole frequentare» le scuole paritarie, «un pò come succede in Lombardia».
Polemiche
Le repliche non si sono fatte attendere. «Da mesi sosteniamo che l'obiettivo vero del ministro Gelmini è distruggere la scuola pubblica per far posto alle private. Finalmente si ammette che avevamo ragione», dice Mimmo Pantaleo, segretario generale Flc Cgil. «Le risorse da dare alle scuole paritarie sarebbero recuperate dai tagli alle scuole pubbliche, violentando la nostra Costituzione. Non si possono utilizzare strumentalmente i dati Ocse, che peraltro dimostrano come le politiche di questo Governo si muovono in direzione opposta rispetto ad un miglioramento della qualità negli apprendimenti, per sostenere che bisogna favorire le scuole private», ha aggiunto Pantaleo.
«Il ministro Gelmini e il Governo sappiano che, se è quella la strada che intendono perseguire, la mobilitazione riprenderà con un intensità ancora maggiore a partire dal primo giorno del nuovo anno scolastico - ha concluso - perché è in gioco il diritto all'istruzione per tutti che è tra i principi fondamentali della nostra Carta Costituzionale».
«Bonus scuole private? Gelmini intervenga piuttosto sullo scandalo del lavoro nero», ribatte Rino Di Meglio, coordinatore della Gilda degli Insegnanti. «Al ministro ricordiamo che l'articolo 33 della Costituzione afferma che enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione senza oneri per lo Stato. Aspettiamo inutilmente - ha aggiunto - da quasi tre mesi una risposta da parte del ministro rispetto allo scandalo, evidenziato soprattutto nel Sud del Paese, delle scuole private che sfruttano i docenti precari facendoli lavorare senza stipendio e contributi in cambio del punteggio da utilizzare nelle graduatorie statali. Un meccanismo perverso che rappresenta una forma di finanziamento occulto alle scuole private che così hanno personale gratis a volontà» «Di fronte a questo inequivocabile sistema di illegalità diffusa - dichiara Di Meglio anche in riferimento ai diplomifici - ci sembra quanto mai fuori luogo l'intenzione espressa dal ministro Gelmini di assegnare un bonus alle famiglie che vogliono iscrivere i propri figli alle scuole paritarie».
Infine il Pd. «Sta a vedere che dopo aver scippato con la mano destra il portafoglio alle scuole statali con tagli draconiani a risorse e personale dice manuela Ghizzoni, capogruppo pd nela commissione Cultura della Camera- adesso la Gelmini vuol farci credere che dando qualche spicciolo con la mano sinistra alle paritarie tramite i bonus si riqualifica la scuola italiana». «Un conto sono le paritarie e un conto i diplomifici- spiega la parlamentare- il bonus famigliare non distingue tra questi due modelli di scuola, ma distribuisce a pioggia le poche banconote avanzate dalla rapina che bonnie-gelmini e clyde-tremontì hanno fatto ai danni della scuola statale».

l'Unità 19.12.09
Il premio Nobel Shirin Ebadi: rivotiamo sotto controllo Onu
di Giuseppe Vittori


L’iraniana Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace e paladina dei diritti umani, chiede che Teheran dichiari «nullo e non valido» il risultato delle presidenziali e indica nuove elezioni sotto la supervisione delle Nazioni Unite.

Il premio Nobel per la pace iraniano Shirin Ebadi ha chiesto che Teheran dichiari «nullo e non valido» il risultato della sua contestata elezione presidenziale e tenga nuove elezioni sotto la supervisione delle Nazioni Unite. L'avvocata iraniana ha chiesto anche il rilascio incondizionato di circa 500 persone che sarebbero state arrestate la scorsa settimana. «La mia richiesta è che, per calmare le acque, le elezioni siano dichiarate nulle e non valide e nuove elezioni siano organizzate sotto la supervisione di istituzioni internazionali».
Ieri è stato arrestato in ospedale Ibrahim Yazdi, che nel governo iraniano ad interim del 1979 è stato vice primo ministro e ministro degli Esteri, ed è stato portato in carcere. Malato di tumore, ha 76 anni; dopo qualche ora lo hanno riportato in ospedale, non è chiaro se sotto custodia. Ibrahim Yazdi era uno stretto collaboratore dell'ex Guida Suprema dell'Iran, l'ayatollah Khomeini, ora è su posizioni liberali.
Nel mirino del governo anche . Faezeh e Mehdi Hashemi, i figli dell'ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, ora a capo di una delle massime istanze del regime, l'Assemblea degli esperti. Giacché hanno manifestato in piazza in questi giorni, gli è stato proibito di uscire dal paese. Faezeh Hashemi, ex deputata, ha tenuto un discorso a Teheran, davanti a decine di migliaia di oppositori. Eletta in Parlamento nel 1996 con una valanga di voti, con il suo stile casual e rispettoso delle regole islamiche - chador e scarpe da ginnastica - fece scalpore la sua battaglia a favore del diritto delle donne a praticare sport ed è stata vice-presidente del Comitato olimpico e promotrice delle Olimpiadi delle donne islamiche, nel 1998. L'altro figlio di Rafsanjani è Mehdi, 46 anni. Gia' vice-ministro del petrolio ai tempi di Khatami e manager di spicco della Compagnia nazionale del petrolio iraniana (Nioc) è considerato molto vicino al padre anche se il suo nome fu legato a una vicenda di corruzione. Ora è nel consiglio d'amministrazione delle «Università libere islamiche».

l'Unità 19.12.09
Clinton-Lieberman è gelo sulle colonie
E spunta il giallo dell’accordo segreto
di Umberto De Giovannangeli


Il ministro degli esteri israeliano rivendica la «crescita naturale» delle colonie, la gente si sposa e fa figli. La segretaria di Stato replica: non c’è nessun accordo, formale o informale. Gli insediamenti non si devono espandere.

Un incontro glaciale. Una divisione di fondo. Su questioni cruciali come lo stop agli insediamenti e il blocco di Gaza. Hillary Clinton contro Avigdor Lieberman: un match diplomatico ad alta tensione. Malgrado la richiesta americana di un blocco totale, nei suoi colloqui dell’altro ieri a Washington con la segretaria di Stato Usa, il ministro degli Esteri israeliano ha affermato che l'espansione è necessaria, in linea con la «crescita naturale» dei coloni. Lieberman, che abita in un insediamento, ha aggiunto che l’amministrazione americana precedente, quella di George W. Bush, aveva assicurato che questa visione era accettata da Washington. «In ogni posto del mondo, nascono bambini e la gente si sposa, qualcuno muore, e quindi non possiamo accettare di congelare completamente gli insediamenti - ha affermato il leader di Israel Beitenu (destra radicale laica) - penso dobbiamo mantenere la crescita naturale».
GELO AL VERTICE
Dal canto suo, la Clinton ha ripetuto la posizione americana, contraria all'espansione. «Vogliamo vedere uno stop agli insediamenti - ha detto la responsabile della diplomazia americana - pensiamo sia una parte importante ed essenziale dello sforzo per giungere ad una pace globale e alla creazione di uno Stato palestinese». La Clinton ha poi dichiarato che non esiste nessun accordo segreto con Israele sull'espansione degli insediamenti: «Guardando alla storia dell'amministrazione Bush - ha tagliato corto la segretaria di Stato - non vi è nessun accordo informale o orale» in questo senso.
Hillary si rompe il gomito
E proprio Hillary Clinton, dopo l'incontro, è stata protagonista di una brutta caduta mentre si stava recando alla Casa Bianca. Si è fratturata il gomito, e la prossima settimana sarà sottoposta a intervento chirurgico.
Un recente rapporto di B’tselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani, rileva che la crescita della popolazione dentro gli insediamenti israeliani nei territori occupati è quasi quattro volte maggiore che quella di Israele, contraddicendo ogni affermazione che questo incremento e dovuto alla «crescita naturale della popolazione». Secondo l'Ufficio Israeliano di Statistica la percentuale di incremento della popolazione negli insediamenti nell’ultimo quinquennio è stata dei 24.8% se comparata con il 6.6% in Israele.
PROTESTA FORMALE
Dalle colonie alla Striscia. Altro tema, altro contrasto tra Washington e Gerusalemme. Gli Stati Uniti hanno inviato una nota diplomatica a Israele nella quale si contesta la politica verso la Striscia di Gaza. Ad affermarlo è il quotidiano israeliano Haaretz, precisando che la nota è stata inviata tre settimane fa e che dell'argomento si è anche parlato durante l'incontro a Washington fra Lieberman e Hillary Clinton. Secondo fonti americane ed israeliane, la nota è stata seguita da una comunicazione verbale che spiega come l'amministrazione di Barack Obama consideri non costruttiva la posizione israeliana di legare progressi sull'apertura dei valichi con Gaza alla vicenda del soldato rapito Gilad Shalit, prigioniero nella Striscia dal giugno 2006. Il messaggio centrale della nota è che «se Israele ritiene che l’Autorità nazionale palestinese vada rafforzata rispetto ad Hamas, allora deve intraprendere i passi necessari nella Striscia». Il primo di questi passi è permettere l'afflusso di cibo e medicine. Ma Washington chiede anche che sia permesso il trasferimento di fondi fra le banche di Ramallah, in Cisgiordania, e quelle a Gaza, e che siano facilitate le importazioni e le esportazioni per incoraggiare la crescita economica.
Per quanto riguarda l’auspicato afflusso a Gaza di cemento e altro materiale per la ricostruzione dei danni causati dall'operazione militare israeliana «Piombo fuso» - oltre 1300 palestinesi uccisi, cinquemila i feriti, in maggioranza civili - gli Stati Uniti si dicono pronti a lavorare per la creazione di un meccanismo sotto gli auspici dell’Onu per assicurare che il materiale sia usato a scopi civili e non per la costruzione di fortificazioni per Hamas.

Repubblica 19.6.09
Se la Chiesa scopre i confessionali deserti
di Jenner Meletti


I cattolici non cercano più i preti per raccontare i propri peccati L´appello del Papa ai sacerdoti per salvare un sacramento

Ore ed ore nella "penitenzieria" del convento cappuccino di Santa Caterina, ad aspettare fedeli che arrivano dalla città e anche dai paesi delle vicine montagne. «Vengono da noi - racconta padre Enzo Redolfi - perché sanno che qui ci sono almeno un confessionale aperto e un frate pronto a concedere l´assoluzione al peccatore pentito. Purtroppo, però, i giovani non vengono quasi mai. Quelli sotto i quarant´anni sono mosche bianche». La fuga dal confessionale è iniziata ormai da anni. Secondo le ultime ricerche solo l´8 - 10% dei fedeli si confessa una volta al mese, il 2% più di una volta, il 50 - 60% una volta all´anno, al massimo due. Il 30% non si confessa mai. «Da me arrivano gli anziani - dice il frate cappuccino - e per loro la confessione non è cambiata. Fanno l´elenco dei loro piccoli peccati - si capisce che si sono preparati - aspettano la piccola penitenza e se ne vanno con l´anima più leggera. Ma l´assenza dei giovani racconta che, fra non molti anni, i nostri confessionali resteranno vuoti».
Sono nuovi, i confessionali di Santa Caterina. Ti puoi inginocchiare davanti alla grata, e il confessore intuisce il tuo volto. Ma c´è una piccola panca, su un lato, seduti sulla quale si può parlare e ascoltare senza essere visti. Inginocchiatoi e panche restano però sempre più vuoti. Nella lettera inviata ai preti di tutto il mondo, papa Benedetto XVI ieri ha detto che «i sacerdoti non debbono rassegnarsi a vedere deserti i loro confessionali, né limitarsi a constatare la disaffezione dei fedeli nei riguardi del sacramento della confessione».
Il 58% dei cattolici praticanti si confessa una volta all´anno. Il 30% non lo fa mai. Ecco perché Papa Ratzinger ha rivolto un appello ai sacerdoti. Chiamati a ridare senso a un sacramento che appare sempre meno necessario. Secondo gli esperti è cambiato il rapporto con il peccato. Ma anche quello con il prete, "mediatore" non più indispensabile. Tanto che ora il rischio, per la Chiesa, è una deriva verso il misticismo
"Quello è l´unico luogo dove puoi raccontare tutto te stesso senza paura"
"I giovani non vengono quasi mai, quelli sotto i 40 anni sono mosche bianche"
"Il rifiuto della mediazione del sacerdote porta all´isolamento dell´individuo"
"La cultura sacerdotale dei preti non è adeguata al nostro tempo"
Papa Ratzinger ricorda il Santo Curato d´Ars, capace di aspettare i fedeli in confessionale per 16 ore al giorno. Il padre confessore Enzo Redolfi ha ancora una piccola speranza. «C´è qualcuno che arriva non solo per presentare la lista dei peccati come fosse quella della spesa e chiedere il conto finale. C´è ancora chi cerca una guida spirituale e dopo la confessione si ferma a chiedere consigli. Del resto, il confessionale è l´unico luogo dove puoi raccontare tutto te stesso senza paura che altre persone possano conoscere i tuoi segreti. I pochi che cercano questa confidenza spirituale aprono davvero la loro anima e parlano di tutto. Ci sono le mogli che chiedono come possano riconquistare il marito, ci sono impiegati che vogliano sapere se, di fronte a certi comportamenti del datore di lavoro, debbano tacere o reagire. C´è anche chi viene a chiedere consigli sui candidati da votare. Ho ascoltato l´esortazione del Papa, quando ha detto che i confessionali sono vuoti da tutti e due i lati e che la diserzione dei fedeli a volte è preceduta dalla diserzione dei sacerdoti. È vero, non è facile essere un buon confessore. La saggezza umana e sacerdotale è fondamentale e per guidare gli altri al bene bisogna prima di tutto impegnarsi in una vita di santità».
L´abbandono del confessionale è confermato dal sociologo Pierpaolo Donati (fu allievo di Achille Ardigò), professore nell´ateneo bolognese e membro della Pontificia accademia di scienze sociali. «C´è una forte attenuazione, se non la scomparsa, del senso del peccato, soprattutto in quella che viene ritenuta la sfera privata che riguarda affetti, erotismo, sesso. Soprattutto i giovani pensano sia più grave non pagare le tasse, parcheggiare male, guidare ubriachi… insomma fare cose che possano danneggiare gli altri. Nella sfera intima, invece, ognuno si giudica da sé. C´è un´altra causa di questo disincanto, disaffezione o abbandono nei confronti della confessione. È venuta meno, anche nel mondo cattolico, la necessità della mediazione della Chiesa nel percorso di salvezza personale. Perdita di senso del peccato e assenza di mediazione sono tipici del mondo protestante e investono ormai da anni il mondo cattolico. Ma l´esperienza protestante ha portato conseguenze pesanti. In Scandinavia, poi in Gran Bretagna e nei Paesi Bassi il rifiuto della mediazione del sacerdote nella relazione con il soprannaturale ha portato all´isolamento dell´individuo e a un senso di solitudine. E l´abbandono della confessione ha preceduto l´abbandono della pratica religiosa. Noi il primo passo lo stiamo già compiendo. Senza una svolta, ci sarà presto un forte abbandono di tutta la pratica religiosa».
«Ha fatto bene il Papa - dice il professore di sociologia dei processi culturali e comunicativi - a parlare di confessionali vuoti da tutte e due le parti. I preti dovrebbero credere di più nella confessione. Ma la loro cultura sacerdotale non è adeguata al nostro tempo. Tanti ascoltano l´elenco di mancanze è omissioni riguardo ai comandamenti e alle norme ma non comprendono che la confessione - come diceva San Giovanni Maria Vianney, il curato d´Ars - è la medicina spirituale dell´anima. E fanno confusione fra anima e sistema psichico, anche a causa di una formazione che è astratta, teorica, libresca. Gli psichiatri fanno il loro mestiere, i sacerdoti hanno un´altra missione. Aiutano gli uomini a riconciliarsi con Dio e in questo cammino la confessione è uno strumento fondamentale. La persona che si confessa scarica pesi interiori, cerca un rapporto con il sacerdote, non è più una monade isolata. Confessarsi a un prete significa anche accettare la sua guida. Si può imparare da soli ad usare un computer, ma è impossibile diventare guida spirituale di se stessi».
Quasi tutti gli italiani si sono confessati almeno una volta. Il giorno che precedeva la prima comunione c´era l´incontro con il parroco o il cappellano. C´era tensione come a un esame. «Cosa ti ha chiesto? Che penitenza ti ha dato?». Recita dell´Atto di dolore, poi qualche Pater Noster o Ave Maria in ginocchio. «La confessione è fra i primi sacramenti che si ricevono - dice Franco Garelli, preside di Scienze politiche a Torino e docente di sociologia della religione - ed è anche fra i primi a scomparire. Un´ampia fetta di popolo che si dichiara cattolico e si ritiene ancora tale l´ha già abbandonata. Parliamo di quell´80% della popolazione che si dice cattolica ma non è praticante. Persone che continuano ad andare in chiesa saltuariamente, per un battesimo, un matrimonio, un funerale ma che non si avvicina più a un confessionale. "Confessarsi almeno una volta all´anno, a Pasqua", è un invito ormai senza risposta. E giorni prima di Pasqua i sacerdoti si preparano, sono pronti nei confessionali. Io li ho visti, in vana attesa, e mi sono chiesto: che sia scomparso il senso del peccato? Forse è così. Di certo, c´è quella che si può chiamare individualizzazione della fede. Tanti oggi ritengono di potersela vedere con Dio direttamente, e in questa fede fai da te c´è spazio anche per l´auto assoluzione. Il motivo è questo: si pensa al peccato solo verso gli altri e c´è meno l´idea di un peccato verso Dio».
L´abbandono del confessionale è provocato anche da sacerdoti che hanno perso un certo carisma. «Perché - si chiedono in tanti - io devo confessarmi davanti a un altro uomo? La confessione - dice il professor Franco Garelli - è stata colpita al cuore da chi, per decenni, l´ha trasformata in un arido racconto di peccati. L´uomo che si inginocchia in un confessionale avrebbe bisogno invece di un sacerdote preparato e capace di capire il mondo di oggi. Un prete che non è lì ad accettare il tuo elenco della spesa ma è in grado di proporsi come una vera e riconosciuta guida spirituale».
Nel suo convento di Rovereto, padre Enzo Redolfi continua a passare ore ed ore senza vedere un fedele dietro la grata. «Ma bisogna essere qui, quando un penitente viene a chiedere perdono. Io confesso da vent´anni e non sono in grado di fare una statistica perché sono passato da un convento all´altro e i conventi non sono parrocchie con fedeli residenti. Arriva da noi anche chi non vuole confessarsi davanti al proprio parroco, perché non gli piace o ci ha litigato. L´unico dato evidente è che sono spariti i giovani». Ci sono sacerdoti che confessano bambini e adulti fuori dal confessionale, in un banco della chiesa. «Io resto fedele alla tradizione. Il confessionale garantisce il segreto e il silenzio. Io resto qui ad aspettare e mi sento davvero utile. Chi altri può offrire luce, certezze, consigli, coraggio e consolazione?».

Corriere della Sera 19.6.09
Ma l'etica cattolica deve star fuori dalla valutazione degli scienziati
di Gilberto Corbellini


Commentando un mio artico­lo sul Sole24Ore di domenica, Giovanni Belardelli è d’accordo nella denuncia dei problemi che incontra l’Italia, diversamente dai paesi anglosassoni, ad adottare regole meritocratiche per far funzionare in modo efficiente e affidabile il sistema della ricerca. Però giudica «discutibile» la mia spiegazione, che chiama in causa una «mancata Riforma protestante». La mia, dice, è una tesi scontata, usata per spiegare diversi difetti di questo paese, che alla fine «spiega poco».
Non pretendevo di essere originale, e più che «pigro» il mio riferimento era annoiato. Perché al di là degli echi weberiani del mio argomento, ho letto migliaia di pagine che discutono come, opera­tivamente, il protestantesimo ha favori­to la nascita e la diffusione della scienza moderna. Alcuni di questi temi li tratto in un libro pubblicato presso Longane­si: Perché gli scienziati non sono perico­losi.
Belardelli dice anche che mi contrad­dico, perché cito la Spagna tra i paesi do­ve la valutazione funziona bene. E lì, l’eti­ca cattolica ha tradizionalmente una for­te presa. Io non penso né ho scritto che l’etica cattolica sarebbe incompatibile con l’uso di buoni sistemi di valutazio­ne: migliaia di scienziati italiani che so­no anche cattolici invocano i metodi di valutazione inventati nel mondo anglo­sassone. È quando l’etica cattolica viene proposta, dalle gerarchie religiose, qua­le unica e moralmente legittima fonte di indirizzo e decisione politica che nasco­no i problemi. In Spagna l’agenzia di va­lutazione è stata richiesta dai ricercatori che tornavano dagli Stati Uniti, dopo la caduta del regime franchista. Quindi l’in­fluenza politica dell’etica cattolica è sta­ta aggirata grazie a un’elite scientifica che ha impostato il sistema della valuta­zione da zero e guardando all’esempio statunitense. Nessuno si è poi azzardato a metterlo in discussione, dati i risultati. Comunque la chiesa cattolica, in Spa­gna, non risparmia agli scienziati violen­ti attacchi. Ma da quelle parti la laicità delle istituzioni è ben presidiata, e quin­di non si registrano gli effetti devastanti osservabili in Italia.

il Riformista 19.6.09
Il Vaticano ha 80 anni ma non li dimostra
Vita e miracoli di uno Stato anomalo
di Stefano Ceccanti


GOVERNI. Un libro di Francesco Clementi traccia la storia e il profilo degli strumenti giuridici e delle scelte politiche d'Oltretevere.

Il 7 giugno uno Stato "giovane" e piccolo ha festeggiato il suo compleanno con 80 candeline. È quello della Città del Vaticano. È lo stesso giorno in cui vennero allora depositati gli strumenti di ratifica dei Patti Lateranensi, che erano stati firmati il precedente 11 febbraio. Con un taglio giuridico-costituzionale, ma ovviamente all'incrocio con la storia, il diritto canonico e tutto ciò che serve, il giovane studioso Francesco Clementi ci guida ai misteri di questo Stato anomalo in un suo agile ma completo volume inserito nella collana dell'editore Il Mulino Si governano così. Dopo una premessa sul contesto geo-economico, si affrontano le varie tappe di storia costituzionale, il quadro ordinamentale interno e i rapporti con gli altri ordinamenti, l'organizzazione costituzionale dello Stato, gli strumenti giuridici della decisione politica, il sistema giudiziario, i diritti e le libertà.
Le ragioni della scelta di allora sono ricordate da Clementi soprattutto attraverso il richiamo a due papi. Il primo è Pio XI, che, lo stesso giorno della firma dei Patti, spiegò ai parroci di Roma che il nuovo Stato doveva avere «quel tanto di corpo che bastava per tenersi unita l'anima» e in particolare per «assicurare alla Santa Sede l'assoluta e visibile indipendenza (e a) garantirle una sovranità indiscutibile pur nel campo internazionale». Il secondo è Paolo VI che nel 1970, nel centenario della Breccia di Porta Pia parlò della perdita del potere temporale come di «un fausto evento per la Chiesa», essendosi dimostrato che l'indipendenza della Chiesa si era potuta affermare in modo ben più efficace ed evangelico rispetto alla sovranità su uno stato vero e proprio. Tra l'11 febbraio e il 7 giugno erano intervenute la ratifica interna dell'Italia (con la legge 27 maggio 1929, n. 810) e quella della Santa Sede (il 30 maggio da parte di Pio XI). La nascita del nuovo Stato era prevista esplicitamente nel Preambolo e nell'art. 3 del Trattato, siglato insieme al concordato l'11 febbraio. Allo scadere del 7 giugno e all'inizio del giorno 8 entravano in vigore le sei leggi fondamentali del nuovo Stato, costruite sapientemente dal giurista israelita Federico Cammeo.
L'identità del nuovo Stato si afferma progressivamente. Clementi mette in luce il passaggio dell'occupazione tedesca, sotto Pio XII, quando la pur ristretta sovranità territoriale fu utilizzata «come asilo e rifugio ai perseguitati». Segnala altresì, in ultimo, la nuova legge sulle fonti del diritto del 2009, che ha aggiunto ai tradizionali filtri posti alle leggi italiane affinché siano recepite all'interno dello Stato della Città del Vaticano anche un atto esplicito dell'autorità vaticana: essa è stata erroneamente interpretata da alcuni come una presa di distanza politica dallo Stato italiano e che invece va letta appunto nel percorso storico di 80 anni di progressiva affermazione della propria statualità. I non giuristi potranno capire meglio la distinzione tutt'altro che semplice tra lo Stato della Città del Vaticano e la soggettività internazionale della Santa Sede, essendo il primo lo strumento che rende possibile la seconda. Si può parlare del primo quando prevale il profilo territoriale e della seconda quando prevalgono quelli generali, politici, umanitari o religiosi. Tra le novità di una forma di Governo che non conosce formalmente la separazione dei poteri perché imputa al pontefice la pienezza di tutti i poteri, Clementi segnala però puntualmente la «progressiva delegazione del potere negli affari interni dello Stato» che fa da pendant «all'aumentare degli interventi del pontefice nel governo universale della Chiesa e, più in generale, nella scena mondiale» nonché, dopo la legge fondamentale del 2001 la «tendenza a marcare una distinzione fra gli organi che esercitano il potere legislativo e quelli che esercitano il potere esecutivo», pur legati entrambi a nomine pontificie. Inoltre Clementi ricorda che con Benedetto XVI sono nuovamente cambiate le regole per in Conclave e si è ritornati a richiedere per l'elezione del papa il superamento del'esigente quorum dei due terzi, anche quando si giunge al ballottaggio tra i primi due più votati.
Con delicatezza ma puntualità il libro evidenzia anche alcuni problemi, emersi anche nel rapporto con lo Stato italiano, a cominciare da quelli legati alle vicende dell'Istituto Opere di Religione, la banca vaticana. Vale per tutta la costruzione giuridica dello Stato la lezione richiamata da Clementi che si trae dal continuo cambiamento delle norme relative al Conclave: è così elevato il messaggio evangelico che questi strumenti mondani, per loro natura imperfetti, sono chiamati a servire, che essi vanno costantemente monitorati per evitare che da mezzi si trasformino in fini e pertanto costantemente modificati. In questo caso le norme costituzionali devono essere flessibili perché la rigidità spetta solo al Vangelo.

Corriere della Sera 19.6.09
A Salisburgo l’edizione della «Missa Defunctorum» diretta dal maestro Riccardo Muti
Quando Paisiello anticipò Haydn
Nel suo «Requiem» la prima vera sinfonia dell’età moderna
di Paolo Isotta


Somiglianze con la marcia funebre dell’«Eroica», ma anche delle musiche militari francesi e reminescenze di quelle delle bande pugliesi

Accadde a lungo, nel­l’Ottocento e nel Nove­cento, che scoperte o rinnovate esecuzioni di opere musicali modificassero il quadro stesso fin allora vigente della Storia della Musica. L’elen­co sarebbe così lungo da essere stucchevole. Ciò a volte si verifica ancora: un esempio è di oggi, quando al Festival di Pente­coste a Salisburgo Riccardo Muti ha diretto, in prima ese­cuzione contemporanea, la Missa Defunctorum di Gio­vanni Paisiello. Su questa composizione soffia il vento vorticoso della Storia Universale; sì che narrarne le vicen­de sarebbe motivo di un libro, non d’un articolo, a sé.
In sintesi. Paisiello aveva scritto una Requiem nel 1789. Dieci anni dopo, quando Pio VI, papa Braschi, si rifiutò di accettare le vergognose condizioni impostegli da Napole­one, la sacra Istituzione, appunto impersonata da Pio VI, venne fisicamente arrestata dal generale Berthier e dete­nuta fino al 1799, anno della liberazione dell’anima dal corpo, nella terribile fortezza di Valence, quasi il sovrano spirituale e temporale fosse un comune delinquente. Le odiose vicende della repubblica giacobina di Roma, supe­rate in efferatezza solo da quella napoletana, sono note. Papa Braschi ebbe diritto a una celebrazione funebre l’an­no dopo; ma a Napoli, a opera della Corte borbonica. Pai­siello rielaborò profondamente la Requiem tanto da far­ne altra e diversa composizione: ebbene, l’ascolto del pez­zo, per due cori e due orchestre, è tale che la prima Mis­sa Defunctorum della musica moderna diviene questa, anticipando, ma con una mano ben più elegiaca, quella di Berlioz. Il suo ethos avveniristico con moto pendolare alterna l’eroico colla tenerezza, e se di quest’ultima dispo­sizione dell’animo volessimo trovare un’eco, dovremmo volgere lo sguardo alla Requiem di Gabriel Fauré.
Cominciamo col dire che Paisiello è uno dei maggiori orchestratori del suo secolo: nella Requiem non vi sono trombe, tromboni e strumenti a percussione. I soli ottoni presenti sono i due corni per ciascuna orchestra, e a loro è affidata la Tuba mirum, con un effetto fantasmatico di evocazione concettuale da lunge. E ora dobbiamo men­zionare un elemento sconvolgente di novità. L’inventore del Poema Sinfonico è Haydn col Preludio della Creazio­ne, scritto in una forma di Sonata che simula equivoci tonali ed è genialmente raccorciata. Ma Paisiello pone in antiporta alla sua Requiem una Sinfonia, ch’è un pezzo sinfonico indipendente anche se penetra sottilmente per legami tonali e richiami motivici (l’insistere sul piede tro­caico, da sempre emblema funebre) l’intera opera. Ebbe­ne, questa Sinfonia, anticipante Haydn, sarebbe il primo vero Poema Sinfonico della Storia, se... Le due orchestre si alternano o sovrappongono sornuotando il dolore: ma con didascalie che spiegano gli intesi ethos e pathos di ciascuna sezione.
È indispensabile una digressione sulla musica «imitati­va » o «descrittiva». È invenzione tra il tardo Rinascimen­to e il Barocco; restando sempre ancorata a intenzione scherzosa od onomatopeica, alla quale non sfugge l’opus più famoso di Vivaldi, Le quattro stagioni, non a caso for­nito di Sonetti esplicativi di ogni imitazione. Siamo anco­ra nell’ambito di un’estetica che si attiene al motto «Ut natura poësis» inteso in totale ignoranza: in musica, di­co, ché altrimenti dovremmo risalire a Marsilio Ficino, il quale aveva già tutto compreso. Ripigliamo il «se...» la­sciato in sospeso per precisare che in realtà il solito gi­gante Haydn aveva già composto nel 1785 Le Sette Parole di Cristo in Croce, serie di Adagi strumentali, salvo Il ter­remoto (e che coraggio ci vuole a scrivere un’intera opera fatta solo di Adagi), ciascuno dei quali è un piccolo Poe­ma Sinfonico circoscritto nel genus ma mirabilmente di­verso nell’ethos: per orchestra. È uno dei suoi capolavori assoluti. Qui arriva Paisiello con la sua Sinfonia. Ma non dimentichiamo il fatto che Lesuer, disgraziatamente mae­stro di Berlioz, e ancor più disgraziatamente per noi e lui conoscitore del Greco antico, ha lasciato una biblioteca sterminata di brogliacci inediti (passim ed. Boschot) che osiamo sperare tali restino, nella quale denomina la «mu­sica imitativa» Pantomime hypocritique e la spiega, la vuole spiegare. Non c’è legame fra ciò e Paisiello.
Dura, la Sinfonia, un quarto d’ora ed, essendo in Do minore, fa troppe meravigliose incursioni, specie nello Sviluppo, nel tono di Fa minore, inteso allora come il ver­tice del dolore, che non possono essere casuali. A parte incredibili simiglianze colla Marcia funebre dell’Eroica, procede in contrappunto o echi tra le due orchestre che sentono l’influenza delle musiche militari francesi (ma, ricordo, senza gli ottoni, la percussione e l’oficleide indi­spensabili a un Francese per scrivere una Marcia Fune­bre) ovvero, come sostiene Riccardo Muti, sono la remi­nescenza delle Marce Funebri delle Bande pugliesi ascol­tate nella prima infanzia dal Maestro. In fatto, le due tesi sono esenti da contraddizione, vanno integrate e fuse. E le varie didascalie, Smanie, Pianto, Popolo afflitto e addo­lorato, non vanno intese nel senso dell’imitatio ma della idealizzazione neoclassica di sentimenti o fatti. La com­posizione, come dico, è imponente e straziante a un tem­po e meriterebbe anche un’esecuzione autonoma in sede sinfonica se non fosse che i legami con la Requiem intera verrebbero spezzati e confusi. Al testo della Messa da Re­quiem, Paisiello aggiunge, prima dell’Introitus, un coro indipendente, Quale funus e quattro Responsorï prima del Libera me.
Come faccia Paisiello a intonare un testo così eterocli­to e nell’ambito della Grande Forma sinfonica è mistero che lasceremo ad altri interpretare: ma basterebbe una ben condotta analisi della partitura dispiegante la struttu­razione dei rapporti tematici, tonali e motivici nella lun­ghissima composizione per arrivare a comprenderlo. Questo è ciò che, per atto pratico ma evidente intensissi­ma concentrazione intellettuale, ha fatto Riccardo Muti, al quale si deve, come dicevo in esordio, con tale esecu­zione una variata prospettiva della Storia della Musica che non verrà cangiata mai più. Trattandosi per la Re­quiem d’un testo severo, difficoltoso, di mirabile mano contrappuntistica, il successo entusiastico ha sorpreso me per primo.

Liberazione 19.6.09
Per la sinistra d'alternativa
di Salvatore Bonadonna


S`infittisce il dibattito sulle prospettive e sull`unità della sinistra: chi rivendica le occasioni mancate alcuni anni fa, chi attribuisce ad altri progetti inesistenti, chi rivendica definizioni nette di identità e, infine, chi mette veti e steccati verso le forze comuniste. In una situazione di crisi di sistema servirebbe una "Prima Internazionale" del terzo millennio e non la riproposizione di schemi che non colgono la realtà di oggi. Sinistra e libertà, dopo avere prodotto il danno a Rifondazione e a sé stessa, per bocca di Nencini pare sospinta a fare un partito, rilanciare la Rosa nel Pugno, predisporsi a possibili alleanze con il Pd, alzando lo steccato nei confronti di Rifondazione e della lista comunista. A questa arroganza, peraltro sterile, non si può rispondere alzando il vessillo di una sinistra anticapitalista e comunista capace di accogliere altre forze: occorre passare dalla difesa dei simboli alla costruzione concreta di politiche se non si vuole restare attaccati alle bandiere guardando il mondo del lavoro dirigersi verso la Lega o il Popolo delle Libertà. C`è un mondo pacifista, internazionalista, ambientalista, antirazzista e libertario che non appartiene alla tradizione comunista ma che mette in discussione il modello di sviluppo attuale; c`è il filone di pensiero liberale, che suscitava tanto interesse nei dirigenti comunisti italiani storici, i cui rappresentanti - Marco Pannella, in primo luogo - avanzano una critica al sistema politico attuale di certo condivisibile; la socialdemocrazia che fa i conti con la crisi che, di fatto, l`ha condotta al capolinea, si interroga sulle prospettive. Possiamo pensare di rispondere con l`affermazione della esistenza del Prc e della lista comunista? Ci accontentiamo di esistere e orgogliosamente vivacchiare o coltiviamo l`ambizione di essere parte, e possibilmente protagonisti, della costruzione del nuovo movimento operaio del terzo millennio? Se il tema principale che ha guidato le diverse e sciagurate scelte dei diversi e litigiosi spezzoni delle sinistre smette di essere la collocazione ed il ruolo dei suoi singoli dirigenti, politici o intellettuali che siano, forse può aprirsi la strada della costruzione del soggetto politico dell`alternativa al capitalismo in crisi di sistema; diversamente, il capitalismo continuerà ad avere, come ricorda Giorgio Ruffolo, "i secoli contati" e alla sinistra resterà solo da contare i mesi della propria sopravvivenza. E’evidente che questo ragionamento investe anche Rifondazione non solo per respingere l`accusa di chiusura ma, concretamente, per aprire una fase di verifica dell`insediamento sociale, capace di dare alimentazione nuova ad una identità storica. Per questo non mi ha convinto la posizione della maggioranza ribadita nella riunione del Comitato politico nazionale. Sono sicuro di non perdere nulla della mia personalità di militante del movimento operaio e comunista se mi apro ad un confronto con altri al fine di cambiare lo stato delle cose esistenti; potrò verificare aree di convergenza di analisi e di divergenza sulle proposte. Con questo spirito sarò all`assemblea che i Radicali hanno promosso per fine mese a Chianciano. Non mi convince la linea di un assemblaggio indistinto di tutte le forze di opposizione al governo Berlusconi e neppure quella di selezionare in astratto chi ammettere all`unità. Avverto l`esigenza di una nuova analisi di classe: banalmente, capire perché gli operai hanno votato Lega e vedere come esplode il conflitto inevitabile tra padrone leghista e l`operaio che ha votato Lega. Trovo decisivo, per la sinistra d`alternativa, capire come opera concretamente oggi quel rapporto sociale di produzione che Marx definiva "il capitale" e che oggi si declina in liberismo e anticapitalismo. Non basta lo schierarsi contro l`ideologia libèrista se non si costruisce la forza per contrastarla e penso che l`autonomia di una sinistra di alternativa, dal Pd e dalle opzioni moderate, risieda nella capacità di costruire questa forza che è sociale, culturale e politica. O non è!