lunedì 22 giugno 2009

Corriere della Sera 22.6.09
Mussolini e la sua amante Ida Dalser
Quando l’ignavia diventa il marchio di una nazione
Il volto cinico di una dittatura
di Alberto Melloni

C’è un’opera che gi­ra le sale cinema­tografiche e in­quieta l’Italia. È Vincere, il film di Marco Belloc­chio. Racconta la storia di Ida Dalser (una ragazza trentina con la quale Mussolini ha una storia sentimentale dalla quale nasce Benito Albino); le conse­guenze del matrimonio (che lei dichiara esistere, ma di cui spariscono le tracce) e l’infer­no manicomiale che la inghiot­te. Una storia che nel 2005 la provincia di Trento e la Gran­destoria portarono su RaiTre in una eccellente puntata.
A differenza del documenta­rio, però, il film di Bellocchio disloca le domande più inquie­tanti e tragiche dentro lo spet­tatore. Lo ustiona facendolo sentire impotente davanti al de­stino di Ida. Lo ossessiona con l’ossessione che lei ha nel dire «suo» un uomo che non lo è mai stato, mentre la maschera del Duce la insegue nei cine­giornali dell’Istituto Luce. Lo commuove col racconto di una maternità spezzata dalla reclu­sione in manicomio e delle ipo­crisie che cercano di raddolci­re questa violenza ultima di cui sarà vittima sacrificale immola­ta da una rete di complicità — nella quale ognuno sente che ora e qui potrebbe dare alla sciagurata Dalser consigli di ipocrisia, forse perfino quello più esilarante e sedativo che ci sia: «Legga Pascoli...» Non siamo, però, in presen­za di un film «politico». La po­litica che c’è in Vincere non è sullo schermo, ma dentro lo spettatore. Denuda i luoghi co­muni, i convincimenti banaliz­zanti, le edulcorazioni autoas­solutorie di cui sono piene la cultura italiana, la storia italia­na, la scena pubblica italiana. Quel che Bellocchio fa vedere è un capitolo separato e decisi­vo di Mussolini, come quelli della grande impresa di Renzo De Felice (al quale, mi sbaglie­rò, Vincere sarebbe piaciuto). «Mussolini il lurido», verreb­be da intitolare questo tomo supplementare: dopo due ore nelle quali la volgarità prepo­tente, il sopruso come stru­mento di seduzione, l’estetica della violenza corrono da un capo all’altro della memoria e dello schermo, fino a che la storia di Ida e Albino Benito en­tra in chi guarda, incomincia a girare, tagliente.
Diventa una parabola: quel­la della Dalser, che, come scris­se Sergio Luzzato parlando del citato documentario Rai, è una storia che è «più facile da rac­contare che da digerire». Ma la forza di Vincere è che a rac­contarla ci pensa Bellocchio. Lasciando a un «noi» di diver­se generazioni — a quella dei padri, a quella che i padri non può più interrogarli e a quella che ha dei figli — il compito di digerire i perché, i come mai, che come occhi di luce scandagliano la coscienza co­mune di una nazione stordita (a cui Giovanna Mezzogiorno dà volto e corpo) da un uomo goffo e superficiale, da un cava­liere dalle molte macchie e dal­le tante paure (di cui Filippo Ti­mi esalta le caricaturalità emo­tive), quasi che, oltre che co­me autobiografia, il fascismo d’improvviso apparisse come un autoscatto della nazione.
C’è infatti un mondo di me­dici e parenti, suore e baciapi­le, idioti e carogne che si muo­ve sullo sfondo del mondo ma­nicomiale che manduca i so­gni della quarantenne dichiara­ta demente. E che, anziché ca­pire la vicenda di questa Cas­sandra d’Italia (che crede di es­sere la sola rimasta fregata in un mondo di salvati e invece è solo la prima di un tutto), si adatta volentieri alla logica di un mediocre che sa solleticare il peggio di cui gli ignavi sono capaci — perfino gli ignavi col­ti, che pensano alla sedazione pascoliana, o gli ignavi in abi­to religioso, che il giorno della Conciliazione sentono alla ra­dio il trionfalismo di regime, anziché il grido dell’ingiustizia che gli si para innanzi.
Non tocca ai film spiegare il passato, pareggiare i conti, sve­lare chissà che. Nemmeno a un film come questo, che de­pura d’un colpo l’antifascismo dal peso della retorica che lo ha reso esangue. E non è a un opera d’arte, neppure a questa dove diventa arte la cucitura fra il girato e il repertorio Lu­ce, che si deve chiedere di spie­gare perché il fascismo è stato italiano. Ma la forza con cui Vincere chiede a ciascuno di di­re il suo perché, è propria del­la settima arte, quando viaggia a questo livello.

Repubblica 22.6.09
L'etica della democrazia
Dalla Rai a Mediaset: così un caso diventa "fantasma"
di Sebastiano Messina

Silenzi, omissioni, mezze notizie il Patrizia-gate cancellato dai tg
Nelle edizioni di sabato una vera e propria pietra tombale seppellisce l´inchiesta di Bari
L´80 per cento degli italiani che segue le notizie attraverso la tv non sa in pratica nulla della vicenda

È davvero possibile insabbiare uno scandalo che domina le prime pagine dei quotidiani nazionali, è al centro di un´inchiesta giudiziaria ed è finito immediatamente nei titoli della stampa internazionale?
Sì, è possibile. In questa Italia dove il presidente del Consiglio ha anche l´ultima parola sulle nomine dei direttori di cinque dei sei maggiori telegiornali, ormai non c´è più bisogno di contestare i fatti, i sospetti e le accuse: basta nasconderli, e oplà, la notizia non c´è più.
Quei quindici milioni di italiani che ogni sera si affidano ai telegiornali per sapere quello che è successo in Italia e nel mondo, quell´80 per cento di telespettatori che non leggono i giornali - dunque non leggeranno neanche questo articolo - e hanno la tv come unica fonte d´informazione, non hanno la più pallida idea di quello che è successo la settimana scorsa.
Già, cos´è successo? Proviamo a mettere in ordine i fatti, e confrontiamoli con quello che il Tg1 e il Tg5 hanno riferito ai loro fiduciosi telespettatori.
Mercoledì 17. Il «Corriere della Sera» pubblica in prima pagina un´intervista a una signora di Bari, Patrizia D´Addario, che racconta di essere stata pagata 2000 euro per partecipare a due feste a Palazzo Grazioli (residenza romana di Silvio Berlusconi), e dichiara di avere le prove di aver passato una notte in compagnia del presidente del Consiglio. E poiché chi l´ha pagata è un imprenditore della sanità, oggetto a Bari di un´inchiesta per presunte tangenti, il magistrato ipotizza un reato preciso: «induzione alla prostituzione». Su Berlusconi, dunque, aleggia il bruciante sospetto di essersi intrattenuto con una donna pagata per fare sesso con lui.
All´ora di pranzo, accendiamo il televisore. Il Tg5 delle 13, riferendo di «presunte irregolarità negli appalti della sanità privata», dà la notizia con queste parole: «Uno degli imprenditori si vantava di essere stato invitato a partecipare con delle ragazze a feste a Palazzo Grazioli». E vabbè, pensa il telespettatore, che male c´è a vantarsene? Dopodiché il cronista riferisce di «indagini per induzione alla prostituzione», ma evita accuratamente di dire chi avrebbe indotto chi, e soprattutto con chi la donna sarebbe stata indotta a prostituirsi. Mezz´ora dopo, il Tg1 entra in argomento con le parole di Berlusconi, che un conduttore compunto scandisce con tono severo: «Ancora una volta si riempiono i giornali di spazzatura e di falsità». E mentre uno si domanda di cosa stia parlando, il conduttore precisa: «Si parla di feste con la partecipazione di alcune ragazze». Tutto qui? Sì, tutto qui.
Il telespettatore non capisce come mai Berlusconi sia così infuriato, ma aspetta l´ora di cena per saperne di più. Attesa vana, perché i due telegiornali ripetono le formule criptiche dell´ora di pranzo: «Si parla di feste... «. Il Tg1, preoccupato di aver detto già troppo, aggiunge premuroso: «Tutto da verificare: potrebbe trattarsi di millanterie o altro». Dopodiché entrambi i tg rivelano che la faccenda ha un risvolto politico. Che non riguarda però il premier, ma D´Alema: colpevole di aver ipotizzato «una scossa» capace di destabilizzare il governo. Invece di spiegarci il nuovo «caso Berlusconi», dunque, entrambi apparecchiano un inesistente «caso D´Alema» sul quale concentrano la dose quotidiana di dichiarazioni in politichese stretto.
Giovedì 18 i magistrati di Bari interrogano cinque ragazze, i giornali inglesi titolano sulle «donne pagate alle feste di Berlusconi», ma il Tg1 delle 20 riesce a confondere ancora di più le idee al suo pubblico, spiegando che si indaga «sul presunto ingaggio di ragazze per avvicinare i potenti». Quali ragazze, e soprattutto quali potenti, non si sa. Il Tg5 della sera, invece, fa finalmente il nome di Patrizia D´Addario, e anche quello dell´imprenditore coinvolto, Gianpaolo Tarantini, spiegando che quest´ultimo potrebbe aver «tentato di ingraziarsi persone influenti». Il telespettatore immagina che queste «persone influenti» siano gli stessi «potenti» evocati dal Tg1, ma non gli viene dato neanche un indizio per capire chi siano.
Venerdì 19 Gianpaolo Tarantini - l´imprenditore indagato per «induzione alla prostituzione» - dà all´Ansa la sua versione dei fatti, l´opposizione chiede al premier di riferire in Parlamento e il quotidiano dei vescovi, «Avvenire», lo invita apertamente a discolparsi: «Occorre un chiarimento con l´opinione pubblica». Le notizie non mancano, ma il Tg1 di Minzolini comincia con un Berlusconi furioso: «Le trame giudiziarie e gli attacchi mediatici non mi butteranno giù!». Il nostro telespettatore è sempre più curioso di capire cosa diavolo stia succedendo, ma deve accontentarsi di quello che gli passa il convento di Mimun, ovvero il Tg5 delle 20: «Il premier ha commentato così le voci che per vari rivoli sono emerse in questi giorni». Quali voci? E dove sono emerse? Certo non al Tg5 (e neppure al Tg1).
Sabato 20 una delle ragazze coinvolte, Barbara Montereale, racconta a «Repubblica» cosa accadeva nelle feste di Palazzo Grazioli («Tutte lo chiamavano papi»), mentre si apprende che dalle registrazioni consegnate da Patrizia D´Addario ai magistrati si sentirebbe la voce di Berlusconi che dice: «Vai ad aspettarmi nel letto grande». Con questi tasselli il puzzle è quasi completo, e infatti l´indomani i giornali stranieri racconteranno la storia con dovizia di particolari. Per il Tg1 e il Tg5, invece, il caso è chiuso. Non un titolo, non un servizio, non una parola. Una pietra tombale ha seppellito l´inchiesta di Bari, i sospetti dei magistrati, l´imbarazzo del premier e le domande dell´opposizione. Cosa sia successo nelle misteriosissime feste di Palazzo Grazioli, il telespettatore italiano non è riuscito a saperlo. E forse non lo saprà mai, se aspetterà che glielo rivelino i tg di Berlusconia.

Repubblica 22.6.09
Tg, la macchina del silenzio
di Carlo Galli

Che l´uomo politico non debba essere vizioso è stato a lungo affermato dalla tradizione, tanto da quella pagana quanto da quella cristiana, attraverso una ricca trattatistica.
Si imponeva al principe, proprio perché fosse un buon politico, l´esercizio delle più comuni forme di moralità: la rettitudine, l´onestà, la mansuetudine, la magnanimità. Virtù umana e virtù civile del principe non dovevano divergere: la loro sconnessione era indizio di decadenza pubblica, non solo di privata malvagità
È in età moderna che si fa strada l´idea che i comportamenti privati dei politici possano essere irrilevanti politicamente, perché l´esistenza collettiva ha un´intrinseca e autonoma moralità, diversa da quella che riguarda i singoli individui. Così, nella tradizione aperta da Machiavelli e proseguita nella Ragion di Stato, i valori politici sono la sicurezza, la potenza e la gloria dello Stato; si tratta di fini e di ideali che consentono al governante, per realizzarli, comportamenti difformi dalla morale tradizionale; e poiché si chiede all´uomo politico solo il successo, con ogni mezzo, della sua azione politica, la sua vita privata non è più importante.
La distinzione fra morale e politica che così si istituisce è controversa, e viene a volte accettata e a volte respinta tanto dalle culture religiose quanto dal pensiero politico laico. La Chiesa cattolica ha di fatto concesso qualcosa alla distinzione, dato che - pur continuando ad affermare che la politica si fonda in ultima istanza sulla morale - ha rifiutato di far dipendere la legittimità di un uomo politico dalla moralità dei suoi comportamenti privati (fino a quando non fanno scandalo pubblico); mentre al contrario nel mondo protestante - meno nel luteranesimo e più nel calvinismo - si è lottato contro la corruzione e la peccaminosità dei principi, e si è preteso da loro, come da tutti i fedeli (ossia da tutti i cittadini), una linearità di comportamento morale che non distinguesse fra pubblico e privato. Certamente, ne sono nati fanatismi e ipocrisie, cacce alle streghe e conformismi; ma ne è nata anche l´attitudine delle pubbliche opinioni a chiedere conto ai potenti della loro integrità personale oltre che della loro capacità politica. Secondo uno stile che si è affermato pienamente negli Usa, un popolo di uomini liberi ha l´orgoglio di non farsi governare da politici corrotti.
Pare a molte delle culture politiche europee liberali che questo sia moralismo politico, per quanto di orientamento democratico. E quindi la tradizione liberaldemocratica tiene ferma la distinzione fra morale e politica, poiché crede nella separazione fra privato e pubblico; e auspica tanto dall´uomo politico quanto dal semplice cittadino il rispetto della morale (di una delle molte possibili morali) nei comportamenti privati, mentre esige che la conformità alla legge (che incorpora inevitabilmente diffuse credenze morali, ma che con la morale non coincide per nulla) sia la regola dell´agire pubblico di chiunque. Mentre le violazioni della morale sono faccende private (di privacy), rispetto alla legge sono concesse agli uomini politici (non ai semplici cittadini) deroghe e eccezioni, segreti e opacità, ma in misura molto limitata e esclusivamente per il superiore interesse della cosa pubblica.
Tutto chiaro, dunque? La liberaldemocrazia europea ha risolto la millenaria questione del rapporto fra morale e politica privatizzando la morale e giuridificando la politica? Per nulla. Infatti, come è assurdo immaginare una democrazia viva e vitale in una società di persone rispettose della legge ma tutte e sempre moralmente abiette, così è impensabile che un grande governante sia anche radicalmente e sistematicamente immorale nella vita privata. In realtà è evidente che la liberaldemocrazia per essere vitale deve negare tanto la piena sovrapposizione fra politica e morale quanto la loro totale separatezza, tanto il moralismo quanto il cinismo, e deve esigere che fra politica e morale si istituisca una qualche relazione. Questa - non formalizzabile in norme di legge eppure, per una sorta di istinto, chiara alle pubbliche opinioni informate - consiste in una sorta di analogia, ovvero in una vicinanza o almeno in una non radicale contrapposizione, fra il modo in cui un uomo di potere tratta coloro che gli sono vicini (la sua morale) e il modo in cui governa i cittadini, e risponde a loro (la sua politica). La legittimazione dei leader, insomma, non sta solo nell´aver vinto le elezioni, ma nel saper rispettare in ogni circostanza e in ogni momento il fine ultimo - politico e insieme morale - della democrazia, l´ethos democratico: la libertà degli individui, la dignità dei cittadini, l´umanità delle persone. Decadenza c´è quando di questa analogia - civile, e non fanatica - né i politici né i cittadini sentono la necessità.

Repubblica 22.6.09
Tra le donne che guidano i cortei "Alzatevi tutti, dobbiamo continuare"
di Roger Cohen

Un uomo accanto a me gli ha lanciato una pietra. Il comandante, senza battere ciglio, ha continuato a pregarli. C´erano dei cori: «Unisciti a noi, unisciti a noi!». La pattuglia si è ritirata verso via della Rivoluzione, dove folti gruppi di persone si spostavano vorticosamente avanti e indietro attaccati dalla milizia Basiji armata di bastoni e dagli agenti di polizia antisommossa vestiti di nero sulle loro motocicletta.
Nuvole di fumo nero aleggiavano sulla grande città nel tardo pomeriggio. Da alcune motociclette date alle fiamme si levavano grandi fiammate verso il cielo. L´ayatollah Ali Khamenei, la guida suprema, aveva approfittato del suo sermone del venerdì per dare un ultimatum a Teheran, minacciando «spargimento di sangue e caos» se fossero continuate le proteste di chi contestava il risultato delle elezioni.
Sabato li ha ottenuti entrambi, ma ha anche visto l´autorità della sua carica, fino ad allora sacrosanta, sfidata come non era mai successo da quando la rivoluzione del 1979 aveva generato la Repubblica islamica e concepito per lui un ruolo di guida a fianco al Profeta stesso. Una moltitudine di iraniani, sabato, ha spinto la sua lotta oltre un limite sacro dal quale sarà difficile poter tornare indietro.
Non so dove porterà questa sollevazione. Quello che so è che alcune unità delle polizia stanno vacillando. E che il comandante che parlava della sua famiglia non era solo. C´erano altri poliziotti che si lamentavano delle indisciplinate milizie Basiji. Alcune forze di sicurezza sono rimaste ferme a guardare.
So anche che le donne iraniane sono in prima linea. Da giorni, ormai, le vedo incoraggiare gli uomini meno coraggiosi ad andare avanti. Le ho viste percosse e poi ributtarsi nella mischia. «Perché state lì seduti?», ha gridato una donna a due uomini accovacciati sul marciapiede. «Alzatevi! Alzatevi!».
Un´altra donna, Mahin, 52 anni, occhi verdi, si trascinava piangendo in un vicolo, con le mani sul volto. Poi, incoraggiata dalle persone intorno a lei, ha raggiunto zoppicando la folla che si dirigeva verso piazza della Libertà. La accompagnavano le grida di «Morte al dittatore» e «Vogliamo la libertà».
C´era gente di tutte le età. Ho visto un anziano con le stampelle, impiegati di mezza età e bande di adolescenti. Diversamente dalle rivolte studentesche del 2003 e del 1999, questo movimento è ampio. Una donna mi ha chiesto: «Le Nazioni Unite non potrebbero aiutarci?». Le ho detto che ne dubito molto. «Allora», ha detto, «dobbiamo cavarcela da soli».
Nei pressi di via della Rivoluzione, mi sono ritrovato in una nuvola di gas lacrimogeno. Pochi minuti prima avevo acceso una sigaretta - non per abitudine ma per necessità - e un giovane mi è crollato davanti urlando: «Soffiami il fumo in faccia». Il fumo riduce in parte gli effetti del gas. Ho fatto quello che potevo e lui mi ha detto, in inglese: «Siamo con voi». Insieme al mio collega, siamo finiti in un vicolo cieco - a Teheran ce ne sono tanti - per sfuggire al bruciore del gas e alla polizia. Sono caduto boccheggiante in un portone, dove qualcuno aveva acceso un fuocherello in un piatto per alleviare l´irritazione.
Più tardi ci siamo diretti verso nord, guardinghi, attenti alle improvvise cariche della polizia, e abbiamo raggiunto piazza della Vittoria, dove si stava svolgendo un aspro scontro. Dei giovani spezzavano pietre e mattoni per poterli lanciare. Alcuni gruppi di persone si affollavano sui cavalcavia per filmare e incoraggiare i manifestanti. Una macchina ha preso fuoco. La folla avanzava e indietreggiava, affrontata da unità di polizia poco convinte.
Attraverso il fumo ho visto un manifesto con il viso severo di Khomeini che campeggiava sulle parole: «L´Islam è la religione della libertà». Più tardi, mentre calava la notte sulla capitale in tumulto, si sentivano degli spari in lontananza. Dai tetti della città, il grido di sfida «Allah-u-Akbar» - Dio è grande - risuonava nuovamente, come ogni notte dal giorno dei brogli elettorali. Sabato, però, sembrava più forte. Lo stesso grido si sentì nel 1979, solo perché una forma di assolutismo lasciasse il posto ad un´altra. L´Iran ha aspettato abbastanza per essere libero.
Copyright New York Times/la Repubblica. Traduzione di Luis E. Moriones

l'Unità 22.6.09
Gli affari sono affari
Al G8 sarà ospite gradito
Europa e Stati Uniti sotto accusa a Teheran. Tace Berlusconi, Frattini
«rispetta la sovranità» del Paese in cui è in corso una rude repressione
di Umberto De Giovannangeli

Basso profilo. Ancora più marcato se raffrontato con la dura presa di posizione che accomuna Washington a Londra, Parigi a Berlino. Basso profilo. È quello che connota il punto di vista del governo italiano di fronte alla «Primavera di Teheran». Silente il Cavaliere - un silenzio tanto più imbarazzante se confrontato con le prese di posizione della cancelliera tedesca Angela Merkel e del presidente francese Nicolas Sarkozy - a tenere la scena, si fa per dire, è Franco Frattini. A fronte delle drammatiche notizie che continuano ad arrivare da Teheran, il titolare della Farnesina dichiara: «L’Italia rispetta l’Iran, la sua sovranità e ne riconosce il ruolo importante sul piano regionale, a partire dall’Afghanistan alla cui stabilizzazione l’Iran può dare un contributo particolarmente utile, auspicabilmente già a partire dalla riunione del G8 a Trieste la settimana prossima».
Frattini, ribadisce l’invito a Teheran: «È in questo spirito positivo e costruttivo - spiega in una nota il ministro - che l’Italia ritiene sia pertanto nell’interesse dell’Iran stesso di adoperarsi per ricercare una stabilità interna che sia condivisa con la società civile, sostenibile e coerente con le grandi tradizioni di civiltà del Paese». «Con la violenza e la repressione - aggiunge Frattini - non si progredirebbe su questa strada positiva che l’intera comunità internazionale sta auspicando». E conclude ricordando che «il diritto alla salvaguardia delle vite umane viene prima di ogni altra cosa». Stop.
La parola d’ordine è: prudenza. Una prudenza che stride con quanto lo stesso Frattini ebbe a dire neanche un anno fa: con l’Iran del «novello Hitler» (Berlusconi dixit) «c’è un problema politico: non può essere un interlocutore dell’Italia chi dice che Israele debba essere cancellata dalla carta geografica».
Interlocutore politico, forse sì, forse no, no, ma gli affari, si sa, sono affari... E gli interessi commerciali rimangono di capitale importanza per l’Italia, in un Paese ricco di petrolio e gas come l’Iran (quarto produttore di greggio al mondo), con il quale esiste una consolidata tradizione di interscambi e progetti di sviluppo realizzati da imprese italiane.
L’Italia è stata, tra i Paesi dell’Unione Europea, il primo partner commerciale dell’Iran. Un dato che, risultato in crescita nel primo semestre i del 2008 rapportati allo stesso periodo del 2007. Ancora: programmi di assicurazione all’export dell’Italia verso l’Iran ammontano a circa 4,5 miliardi di euro e tra i Paesi dell’Unione Europea, l’Italia è seconda solo alla Germania. La SACE, principale Agenzia di Credito all’Esportazione in Italia che a tutt’oggi è al 100% di proprietà del Ministero del Tesoro, assicura le imprese che realizzano progetti e investimenti in Iran contro il rischio politico e commerciale di insolvenza - nota la Crbm (Campagna per la riforma della Banca Mondiale). Ed anche a livello creditizio i rapporti bilaterali sono significativi. Ansaldo, Mediobanca, Eni, Telecom, Capitalia, Montedison, Falck. Il gotha del capitalismo italiano non ha smesso di fare affari, del tutto leciti, con l’Iran khomeinista. Con l’Iran, oggi, di Mahmud Ahmadinejad. Domanda: questi affari possono far girare lo sguardo dall’altra parte mentre la «Primavera di Teheran» è repressa nel sangue?

Corriere della Sera 22.6.09
L’intervista Il regista Mohsen Makhmalbaf, amico di Mousavi e portavoce dell’Onda verde: «Sostenete il nuovo Mandela»
«Il mio appello a tutti i governi: non legittimate Ahmadinejad»
di Viviana Mazza

«Non è più solo una protesta per un’elezione. Questa è in un certo senso una rivoluzione»

«L’Italia non accetti il governo di Ahmadinejad. Come potete invitare un governo che uccide la sua gen­te? ». Mohsen Makhmalbaf lancia que­sto appello al nostro governo, che ha invitato l’Iran al G8 di Trieste. Makh­malbaf è un premiatissimo regista ira­niano, autore di Viaggio a Kandahar e di una quindicina di altri film tra cui Tempo d’amare, Pane e fiore, Il si­lenzio.
Mentre il governo iraniano im­pedisce ogni contatto con il leader dell’opposizione Mir Hossein Mousa­vi, Makhmalbaf, che lo conosce da vent’anni, è diventato il portavoce dell’amico, anche se rifiuta il titolo: «Cerco di dire quello che succede nel Paese, sono il portavoce del popolo che muore nelle strade», dice al tele­fono da Parigi. A Bruxelles, con la di­segnatrice Marjane Satrapi ( Persepo­lis) ha spiegato alla stampa che i risul­tati delle elezioni sono stati falsificati e ha chiesto ai governi stranieri di non riconoscere Ahmadinejad come presidente. Domani ripeterà l’appello a Roma con gli iraniani d’Italia.
Avete presentato come prova dei brogli la fotocopia di una lettera del ministero dell’Interno che mostra la vittoria di Mousavi con 19 milioni di voti. Ma dov’è il documento vero?
«Il documento vero è la gente nel­le strade. Negli ultimi 30 anni non ci sono state manifestazioni così, se non a favore del potere. E ora guarda­te: ci sono milioni di persone in stra­da, sono pronti a morire».
Come ha conosciuto Mousavi?
«Quand’era primo ministro. I con­servatori cercavano di censurare ogni cosa, ma lui era dalla parte degli artisti. Dopo aver girato Il matrimo­nio dei benedetti (1988, storia di un veterano della guerra con l’Iraq risen­tito per la vita migliore che conduce chi non ha combattuto, ndr) fui inter­rogato dalla polizia segreta. Fu bandi­to, ma Mousavi mi difese, anche se il film era critico. È un vero democrati­co».
Che contatti ha ora con lui?
«Sabato ho sentito uno dei suoi uo­mini. Poi alle 9, Mousavi ha parlato alla manifestazione di Teheran: gli ira­niani hanno diffuso la sua voce coi te­lefonini. L’ho sentita, l’ho riconosciu­to. Si è detto pronto a morire per il popolo. E poi: 'Abbasso il colpo di stato, abbasso il colpo di stato'. La po­lizia segreta controlla il suo ufficio, ha distrutto i mezzi di comunicazio­ne. Ma non lo controllano del tutto. E non lo arrestano perché la gente sa­rebbe furiosa, ma tagliano i contatti tra lui e il popolo».
In questo modo possono fermare le proteste?
«Sabato alle 4 era stato impedito a Mousavi di partecipare, ma la gente è andata lo stesso. Sono arrabbiati, vo­gliono il cambiamento vero, la demo­crazia, la pace e non la bomba atomi­ca. E’ più che una protesta per un’ele­zione, è in un certo senso una rivolu­zione. Khamenei spera che si stanchi­no, ma sono serissimi: 30 anni fa ab­biamo fatto la rivoluzione e abbiamo fallito; 12 anni fa abbiamo scelto Kha­tami ma le riforme non ci sono state, abbiamo fallito; 4 anni fa non siamo andati a votare, ha vinto Ahmadinejad; ora siamo andati ma abbiamo fallito ancora. C’è rimasta solo la rivoluzione e chiedere ai governi di aiutarci non rico­noscendo Ahmadi­nejad. Khamenei vuole che lo confermino, se no è indi­ce di un governo debole».
Mousavi è stato definito un mode­rato. Ora si dice pronto al martirio. E’ pronto a uno scontro duro?
«Prima della rivoluzione Mousavi era contro lo Scià, ma non gli piaceva­no i mullah. Quando Khomeini diven­ne leader della rivoluzione, attirò l’in­teresse di tutti, di destra e sinistra. Mousavi divenne premier, si occupa­va di economia e cultura ma si scon­trò con Khamenei, allora presidente. Il premier aveva più potere del presi­dente, ed era più socialista di Khame­nei. Quando Khamenei divenne la Guida, abolì il posto di premier, cac­ciò Mousavi. Da allo­ra è vissuto tra gli artisti. Era un rivolu­zionario, ma è cam­biato molto. Era un Che Guevara islami­co, oggi è più simile a Mandela e a Gan­dhi. Mousavi non vuole che gli irania­ni siano uccisi, e il movimento è non violento. Gli scioperi sarebbero una buona strategia. Diciamo alla gente: continuate la rivoluzione. Ma sono lo­ro a decidere come. Se Khamenei con­tinua a ucciderli o arresta Mousavi, la rabbia sarà grande, come 30 anni fa».

l'Unità 22.6.09
Gerusalemme, l'altro dio mi ha rubato la casa
di Maurizio Chierici

Non una riga sui giornali, Iran e la crisi che ci tormenta. Torneremo a parlare della vita quotidiana dei palestinesi dopo il prossimo massacro. Da 50 anni funziona così. Con l’ardire di una voce nel deserto, Mediterraneo, trasmissione di Rai Tv 3, spiega come funziona la fabbrica dei profughi. 70mila palestinesi stanno per essere allontanati dalle case nelle quali hanno trovato rifugio dopo la guerra 1948, dopo la guerra 1967, dopo la passeggiata di Sharon nei quartieri arabi della Città Santa. In fuga sotto le mura; espulsi ma almeno vicini alle strade dove nonni e padri sono nati. Adesso devono andar via. Il municipio ha espropriato i terreni nei quali - è detto - si trovano reperti storico religiosi che consolidano la memoria ebraica calpestata dai loro piedi. Sacrilegio. Case costruite senza permessi di costruzione. A dire il vero da 30 anni chiedono da 30 anni chiedono questi permessi; da 30 anni nessuno risponde. Adesso, la punizione.
«Il caos non rispetta nessuna piega della vita», sospira Abraham Yehoshua. E per evitare che il caos travolga la ragione, suggerisce il realismo: «Ogni volta che spunta la parola pace il discorso torna a Gerusalemme. Ciascuna parte ne pretende una fetta, più grande, meno grande. Sarebbe bello se ogni parte rinunciasse all’egoismo sulle pietre della città dove si è rivelata la volontà di Dio: può cambiare il nome, ma quel Dio è sempre lo stesso. Gerusalemme città del Dio che unisce e non divide non dovrebbe appartenere a nessuno». Speranza del grande scrittore intimorito dallo svanire del laicismo nella borghesia palestinese. L’integralismo religioso resta l’ultimo appiglio. Mentre i bulldozer distruggono le stanze della loro vita, nel ghetto dei campi profughi le ragazze smettono il rossetto e ritrovavano il velo. Si apre la nuova stagione di una rabbia difficile da controllare. Spaventa Amoz Oz, narratore israeliano che ha voglia di pace: «Con l’alibi del pericolo palestinese troppa gente fa troppe cose. Ogni volta che gli israeliani ascoltano l’espressione «il problema dei profughi», sentono un pugno nello stomaco. Centinaia di migliaia vivono in campi disumani. Per Israele la colpa è dei leader palestinesi che hanno cominciato la guerra nel 1948 e degli stessi profughi che hanno abbandonato le case sconvolti dal panico. Per gli arabi, la responsabilità è di Israele: espropria e distrugge con forza crudele. È venuto il momento di riconoscere apertamente la nostra partecipazione alla catastrofe. Non siamo i soli responsabili e i soli colpevoli, ma le nostre mani non sono pulite. Israele è sufficientemente forte per ammettere la propria parte di responsabilità e per accelerare le conclusioni». Ogni giorno la coda dei profughi si allunga. Nessuno spiega: profughi da dove? Dalle stanze che le macchine stanno sventrando qualche chilometro più in là. mchierici2@libero.it

Corriere della Sera 22.6.09
Il personaggio La bionda avvocatessa dello Jobbik minaccia: «Abbiamo rialzato la testa e non tollereremo più gli ebrei»
Krisztina Morvai l’antisemita. Un nuovo caso a Strasburgo
L’eurodeputata ungherese sarà accolta da un’ondata di proteste
di Luigi Offeddu

BRUXELLES — C’è anche lei, fra i nuovi arrivi al Parlamento Europeo, e sarà probabilmente il capogruppo degli euroscettici: bella, bionda, 46 anni, ottimi studi, l’avvocatessa Krisztina Morvai farà la sua figura fra i banchi di Strasburgo. Jobbik, il «Movimento per una migliore Un­gheria » che l’ha candidata, s’è con­quistato quasi il 15% dei voti e 3 seg­gi all’Europarlamento principalmen­te grazie a lei. Ha un solo problema, l’avvocatessa: i suoi rapporti con la comunità ebraica, in Ungheria e nel mondo.
Ultimo esempio, una sua dichiara­zione, riportata giorni fa dal quoti­diano israeliano Haaretz, e ripresa con indignazione da vari siti di orga­nizzazioni ebraiche: «Sarei contenta se coloro che si definiscono fieri ebrei ungheresi se ne andassero a giocherellare con i loro piccoli peni circoncisi, invece di insultare me».
Era la risposta agli attacchi di Ga­bor Barat, amministratore di un isti­tuto radiologico di New York, che di­cendosi «fiero di essere un emigrato ebreo e ungherese» aveva definito la Morvai «un caso psichiatrico, un mo­stro » per i suoi discorsi durante la campagna elettorale. La risposta, una sorta di missiva agli ebrei, anda­va anche più in là: «La gente come voi è abituata a vedere la gente come noi mettersi sull’attenti ogni volta che date sfogo alle vostre flatulenze. Dovreste per cortesia rendervi conto che tutto questo è finito. Abbiamo rialzato la testa e non tollereremo più il vostro tipo di terrore. Ci ripren­deremo il nostro Paese». Concetti rie­cheggiati da Gabor Vona, il presiden­te di Jobbik, subito dopo le elezioni: «Jobbik non parla solamente, ma tra­durrà le parole in azione. L’Ungheria appartiene agli ungheresi».
Le «riflessioni» dell’avvocatessa erano appena rimbalzate fra Buda­pest e Israele, che già arrivavano le prime reazioni. Il partito della destra moderata ungherese Fidesz (56,3% dei voti) bollava il pensiero della si­gnora come «inconcepibile e antise­mitico », e chiedeva delle scuse pub­bliche. L’ex ministro degli Esteri Ge­za Jeszenszky diceva che la Morvai si era «autoesclusa dalla vita pubbli­ca ». Il capo delle comunità ebraiche ungheresi, Gustav Zoltai, dichiarava che commenti simili dovrebbero escludere chiunque li faccia da un ruolo ufficiale nel Parlamento Euro­peo.
E proprio questo è ora il proble­ma. Perché la Morvai è stata eletta regolarmente, ma già si parla di qual­che protesta, almeno simbolica, che la attenderebbe alla prima comparsa in aula. Mentre da Parigi, il presiden­te del Congresso ebraico europeo, Moshe Kantor, auspica che si con­danni «nei termini più forti, l’uso vi­gliacco e cinico di un linguaggio an­tisemitico, razzista, e teso a incutere paura, da parte di alcuni candidati al­l’Europarlamento ».
L’avvocatessa non sembra preoc­cupata, anzi. Alle accuse di antisemi­tismo, risponde il bollettino di un sindacato di polizia ungherese: «Nel­la situazione di oggi, l’antisemiti­smo non è solo un nostro diritto, ma è dovere di ogni ungherese che ama la propria terra: non ci dobbia­mo preparare per la battaglia contro gli ebrei...così come dobbiamo pre­pararci a una guerra civile fra unghe­resi e zingari, fomentata dagli ebrei che si sfregano contenti le mani». Questo sindacato raccoglie circa il 10% dei poliziotti ungheresi. Il diret­tore del suo bollettino è una donna, Judit Szima, già colonnello della poli­zia. E candidata alle elezioni euro­pee, con Jobbik.

l'Unità 22.6.09
Il complesso fenomeno della depressione infantile e adolescenziale è in aumento
Male oscuro Sono molti i modi creativi per uscirne e affrontare la paura e la fatica di crescere
Quando il mondo va in briciole
di Manuela Trinci

Troppi bambini e ragazzi melanconici, annoiati e inappetenti: la depressione infantile o «malattia degli affetti» sembra dilagare: pandemia o diagnosi facili? E quali i rimedi?

Conquista il cuore col suo comportamento da perdente, Charlie Brown, il bambino dalla testa tonda che sempre ha bisogno di incoraggiamento, che sempre è tormentato da colpe e avvilimenti.
LA SINDROME DI CHARLIE BROWN
Non casualmente, quindi, lo psichiatra americano Symonds coniò per i ragazzini depressi il termine di «sindrome di Charlie Brown» proprio per poter spiegare, anche ai non addeti ai lavori, un quadro clinico sovrapponibile a quello del personaggio di Schulz, famoso per l’accettazione di un’esistenza candidata al fallimento e alla solitudine. E se ancora negli anni Ottanta si guardava in maniera interlocutoria a questa «malattia degli affetti» nei bambini, oggigiorno si vive in una sorta di allarme baby-depressione, amplificato dai soliti, inattendibili, dati statistici che vanno dal 4 al 7 al 12% nell’età scolare sino al 27,5% in adolescenza. Un vero e proprio boom del «male bambino» capace di far impallidire il pur notevole successo ottenuto nel medioevo dalla peste nera! Eppure è vero, anche i lattanti - se privati di affetti e sicurezze - esprimono difensivamente il loro congelamento affettivo attraverso il corpo, con disturbi del sonno, eczemi, disappetenza..., mentre per i ragazzini nell’età della ragione sono la noia cronica che li affligge, le crisi di pianto o di incontenibile eccitamento, i loro giochi che si abbozzano e mai decollano, i loro disegni dai paesaggi aridi, la mancanza di investimento e piacere, la ricerca tanto del «castigo» quanto della rassicurazione di essere amati, a far pensare di essere di fronte a piccoli melanconici, a bambini che davanti a un «dolore mentale» forte e insostenibile si «proteggono» con sentimenti di impotenza, disperazione e rassegnazione. Una modalità, dunque, di capitolazione e di ritirata. Ed è in questi termini difensivi che in ambito clinico si parla attualmente di depressione infantile, anche se, purtroppo, il vocabolario terapeutico imperante che ha contaminato il linguaggio di tutti i giorni ha reso la stessa depressione infantile una diagnosi dai confini slabbrati, una easy-etichetta gergale che rende più agevole sia il trattamento di comportamenti problematici sia quella ricerca di identità, tramite diagnosi, più rassicurante del balsamo di tigre! Ma non solo. Questa specie di oscura pandemia oltre ad aver creato un allarme generalizzato e paralizzante in genitori e insegnanti che sentono figli e allievi sempre sull’orlo di crisi, crolli e suicidi, ha fatto perdere di vista quale sia il limite fra i sentimenti normali di inadeguatezza, impotenza o colpa o rassegnazione, fra le temporanee reazioni depressive alla «perdita» e al dolore, fra bambini che entrano ed escono dallo stato affettivo depressivo (per poi arrivare a quella che gli psicologi chiamano una normale capacità di preoccuparsi e di ripare) e quello che possiamo considerare la fisionomia reale (quanto molteplice) del disturbo depressivo stesso.
SPACCATI IN DUE
Recuperare allora per i bambini un abbecedario degli affetti, una grammatica della vita interiore, contro quel pericoloso conformismo, che ha fatto della depressione il «male di crescere», diviene urgente. Per i più piccoli sbucano dai librini legioni di draghetti, conigli e pulcini e ranocchi dal muso lungo e mucche di pessimo umore che con le loro titubanze e inadeguatezze, danno voce e declinano quei malinconici sentimenti che ogni bambino sperimenta nella sua quotidiana «fatica di crescere». Per riprendersi, dunque, modi creativi di vivere la tristezza come la gioia, la sofferenza come la letizia, non mancano all’appello, in molti racconti o romanzi, neppure schiere di ragazzini o ragazzine introversi e solitari, tristi o abbattuti. Ragazzini che si sentono, magari, spaccati in due per la separazione dei genitori, o ragazzini che per il loro anomalo aspetto o per il cattivo andamento scolastico, o per un amore infelice si ritrovano con il mondo in briciole, oppure che si sentono rallentati in un mondo senza futuro.
Visioni multiple e polifonie dove non di rado si intrecciano il «dolore morale» dei figli all’umore malato, al disturbo mentale, dei genitori, la tragedia della guerra con lo svuotamento dei progetti di vita, le considerazioni serie con i consigli pratici: «Se sei depresso - suggerisce Charlie Brown - è d’aiuto appoggiare la testa al braccio e fissare il vuoto!»

l'Unità 22.6.09
«Nature»: il G8 della scienza è stato annullato senza spiegazioni
«Science»: l’istituto Italiano di tecnologia macina denaro senza risultati
La ricerca scientifica in Italia? Un vero disastro
di Pietro Greco

La politica della scienza italiana fa notizia. Se ne sono occupate due riviste scientifiche internazionali, «Nature» e «Science». Ma da entrambe le cronache la politica della scienza italiana esce a pezzi.
Nature, 17 giugno 2009: l’Italia cancella il G8 della scienza senza fornire spiegazione alcuna. Lasciando tutti sorpresi e irritati.
Science, 19 giugno 2009: molti vorrebbero imitare il Mit di Boston. A Genova hanno dimostrato che non è facile riuscirci. Non c’è dubbio: la politica della scienza italiana fa notizia. Se ne sono occupate due riviste scientifiche internazionali, l’inglese Nature e l’americana Science, appunto. Ma da entrambe le cronache la politica della scienza italiana ne esce a pezzi.
DALL’INGHILTERRA
Nature racconta di come l’Italia, in vista del round conclusivo del G8 che sotto la sua presidenza si terrà a L’Aquila dall’8 al 10 luglio, avrebbe dovuto organizzare anche il G8 della ricerca a Torino, una riunione dei ministri competenti degli 8 paesi più industrializzati insieme a quelli di cinque tra le principali economie emergenti (Cina, India, Sud Africa, Messico, Brasile). La riunione era stata preceduta da incontri, risoluzioni, documenti preparati dalla accademie scientifiche di questi paesi in vista di importanti appuntamenti, come quello si terrà a fine anno a Copenaghen sul clima. Ebbene, tutto questo è saltato. Non era mai successo nella storia del G8. Ed è saltato senza alcuna spiegazione ufficiale. Richiesto di fornirne una almeno ufficiosa a Nature, il ministro Gelmini, non ha risposto. Suscitando sconcerto nella redazione della rivista inglese, venduta ogni settimana in almeno mezzo milione di copie in tutto il mondo.
DALL’AMERICA
Science, invece, si occupa dell’Istituto Italiano di Tecnologia nato a Genova nel 2003 per volontà del Ministro Tremonti con un budget enorme convinto di poter costruire di punto in bianco in Italia un Istituto per l’innovazione tecnologica sul modello del Mit di Boston capace di stabilire un fecondo dialogo tra scienza e industria. Science riporta l’opinione a consuntivo del direttore scientifico dell’Iit, Roberto Cingolani. L’iniziativa si è rivelata un successo sia perché l’istituto ha 380 ricercatori, molti dei quali stranieri provenienti da 38 paesi diversi, sia perché sono stati pubblicati 400 articoli scientifici firmati da ricercatori che afferiscono all’Iit.
Ma Science riporta anche le voci critiche, secondo cui l’Istituto - che in sei anni ha gestito un budget di ben 518 milioni di euro - ha fallito il suo obiettivo principale: a tutt’oggi non c’è una sola azienda italiana che abbia investito nelle sue attività. Molti stranieri di prestigio hanno offerto il loro nome, ma non hanno assicurato la loro presenza nell’istituto. C’è poco coordinamento fra i tre settori di ricerca. C’è un conflitto di interessi piuttosto palese: il Presidente dell’Iit, Vittorio Grilli, è anche Direttore generale del Tesoro e, quindi, si trova in una posizione - riceve i soldi (come presidente dell’Iit) che egli stesso si assegna (come direttore generale del Tesoro) - che fuori d’Italia non è considerata un bene. Il commento di Science è ironico: tutti vogliono imitare il Mit di Boston, ma a Genova stanno scoprendo che non tutti sono d’accordo su come fare. La politica della ricerca italiana fa notizia. Purtroppo.

Repubblica 22.6.09
"Hitler invaderà l´Urss" una spia avvertì Stalin
La fonte era considerata dall´intelligence tra le più attendibili e sicure
di Leonardo Coen

Desecretate le carte dei servizi segreti di Mosca, un agente russo avvisò il Cremlino delle intenzioni naziste Ma nonostante tutto il leader georgiano decise di non agire per essere considerato vittima di un´aggressione

MOSCA. Il Servizio di spionaggio estero russo ha tolto i sigilli a un documento rimasto secretato per 68 anni, giusto alla vigilia delle celebrazioni della Grande Guerra Patriottica, come i russi chiamano l´entrata in guerra contro la Germania nazista, il 22 giugno del 1941: in esso si rivela come un informatore avesse avvertito Mosca dell´invasione nazista, precisandone la data e l´ora dell´attacco. Il messaggio fu spedito il 19 giugno 1941. La sera stessa Stalin sapeva esattamente quando tre milioni di soldati nazisti, 2mila aerei, 3000 carri armati, 750mila cavalli, suddivisi in tre gruppi di armate, avrebbero varcato la frontiera sovietica. Seppe anche che i tedeschi avrebbero seguito lo stesso percorso dei polacchi nel 1612 e di Napoleone nel 1812 per giungere a Mosca.
Eppure, per decenni, gli storici hanno parlato di "attacco sorpresa" e hanno descritto le angosciose giornate di incredulità di Stalin e del Politburo che seguirono i primi bombardamenti nazisti, nonostante le sempre più ricorrenti comunicazioni da parte di diplomatici ed agenti segreti che Hitler stava preparando l´attacco che seguirono ai primi bombardamenti aerei della dirigenza sovietica.
Il dubbio che Stalin fosse a conoscenza dei piani di Hitler ha diviso la storiografia, in mancanza di prove certe. Si sa, per esempio, che due dei gruppi di informatori sovietici a Berlino - quelli di Harnack e di Schulze-Boysen - inviarono dei rapporti in cui si affermava che i «tedeschi hanno completato tutte le misure militari preparatorie ad un attacco contro l´Unione Sovietica. Il colpo può essere sferrato in qualunque momento».
L´ultimo avviso fu ricevuto a Mosca la sera del 16 giugno 1941. Stalin non gli dette troppo peso: temeva che si trattasse di disinformazioni deliberate. Ma tre giorni dopo arrivò al Cremlino un messaggio assai più circostanziato. Con cifre, dislocazioni delle tre armate tedesche pronte ad invadere l´Unione Sovietica, la loro struttura bellica e il fatto che in campo avessero schierato il fior fiore delle forze corazzate veloci. La fonte era tra le più attendibili e sicure. Solo tre mesi prima, aveva comunicato a Mosca che l´Abwehr stavano consolidando in tutta fretta un dipartimento finalizzato contro l´Urss. Il nome in codice di costui era "Breitenbach", al secolo Willi Lemann, nato a Lipsia nel 1884 e uno dei capi responsabili della rete IV-E del controspionaggio nazista (Abwehr) che operava sul territorio tedesco (la sua divisione si occupava dei diplomatici stranieri).
Il 19 giugno del 1941 l´infiltrato Breitenbach contattò urgentemente il "residente" sovietico Zhuravljov e gli comunicò che la dirigenza nazista aveva approvato data e ora d´inizio dell´Operazione Barbarossa, quella che sarebbe diventata la più gigantesca invasione della storia militare: «L´attacco verrà sferrato alle 3 del mattino del 22 giugno». Lo spionaggio sovietico informò nei particolari il Politburo e Stalin. La fonte era considerata assolutamente attendibile: aveva cominciato a collaborare con l´Nkvd sovietico sin dal 1929, per convinzione ideologica. Un´altra spia russa, il celebre Richard Sorge, che operava in Giappone, aveva cercato di avvertire Mosca dell´imminente attacco sempre in quei giorni, ma i suoi moniti furono trascurati. Inoltre, secondo l´agiografia sovietica intitolata "Il compagno Sorge", il 15 giugno aveva comunicato a Mosca che la guerra sarebbe iniziata il 22 giugno, però dopo il suo arresto, Sorge negò di avere indicato la data esatta.
A dire il vero, da qualche tempo non trasmetteva più tutti i suoi dispacci, e ammise, dopo l´arresto, che non ricordava di avere mandato un messaggio con specificata una data. Dunque, l´unico ad averlo fatto con dovizia di particolari fu Lemann, scoperto e fucilato dalla Gestapo nel dicembre del 1942. Aveva 58 anni. Nel 1911 era entrato nella polizia di Berlino ma pochi anni dopo fu trasferito al controspionaggio. Fu lui a inviare a Mosca gli organigrammi della Gestapo, d´altra parte curava il settore dell´industria bellica nazista. Una "gola profonda" che procurò all´Urss documenti di fondamentale importanza. Rimasto ombra nell´ombra, sino ad oggi.

Corriere della Sera 22.6.09
Miti Un libro dello studioso Peter Schreiner capovolge la tradizionale visione di Costantinopoli
Bisanzio, inizio della modernità
Né decadente né marginale, la storia imperiale continua oggi
di Luciano Canfora

Un’antica mappa della città di Costantinopoli, fondata nel 330 d.C., che fu per lunghi secoli la capitale dell’Impero Romano d’Oriente e venne conquistata dagli ottomani nel 1453
Dovrebbe essere ormai chiaro che il «millennio» bizantino è uno dei passaggi decisivi della civiltà: unico caso nella storia d’Europa, di trapasso graduale dall’antichità al mondo moderno Fucina delle élites
Le istituzioni culturali forgiavano i gruppi dirigenti dell’impero.
Esistevano centri di tipo universitario diversi da quelli che più tardi sorsero in Occidente: avevano poco di «statale» e molto di «privato»

La casa editrice Beck di Monaco di Ba­viera, quando non si lascia prendere da furori lato sensu ideologici, pub­blica ottimi libri di erudizione specie nel campo dell’antichità e della storia bizanti­na. Basti pensare alla encomiabile tenacia con cui ha mantenuto in vita la «Byzantinische Zei­tschrift », organo della bizantinistica mondia­le, nonché il grande e insostituibile Handbuch der Altertumswissenschaft in cui apparve, alla fine del secolo XIX, la tuttora preziosa Storia della letteratura bizantina di Karl Krumba­cher, padre fondatore della disciplina. Fu nel campo del diritto che la Casa, negli anni Tren­ta, commise qualche sproposito di cui dovette poi dar conto al tempo della amministrazione statunitense della Baviera (1945-47). Ma pre­sto tornò sulla strada maestra, solo tempora­neamente abbandonata.

Anche i grandi editori scientifici debbono però adeguarsi alle esigenze del mercato (co­me, un tempo, alle esigenze della politica): per esempio alla richiesta proveniente dalle università (che sono sempre meno «universi­tarie ») di poter disporre di agili sintesi su gran­di temi o su intere epoche storiche. E Beck lo ha fatto al meglio, affidando a grandi speciali­sti il non facile compito. Così sono apparse sin­tesi essenzialissime sui Celti o sugli antichi Germani, sull’antica Atene, e addirittura Alexander Demandt, lo storico della Freie Uni­versität, specialista e cultore di Oswald Spen­gler, si è cimentato per tali collane con una sin­tesi dell’intera storia universale, come aveva fatto a suo tempo, in Italia, Gianni Rodari in un bellissimo libro per ragazzi.
Al maggiore bizantinista tedesco, Peter Schreiner, Beck ha affidato un piccolo, ma denso e aggiornato libro su Costantinopoli: Co­stantinopoli, storia e archeologia (2007), che ora esce in italiano, nei «Piccoli Saggi» della Salerno Editrice (Roma) col titolo Costantino­poli. Metropoli dai mille volti e la presentazione — che è ben più che una presentazione — di Silvia Ronchey.
Non era un compito facile, già perché il tema stesso è considerato (a torto) settoriale e unicamente «specialistico». E invece dovrebbe essere ormai chiaro che il «millennio» bizantino è uno dei passaggi decisivi della storia: unico caso, nella storia d’Europa, di trapasso graduale dall’antichità al mondo moderno. Non era un compito affatto agevole perché si trattava di andare due volte contro corrente: non solo contro il pregiudizio della marginalità di quella storia, ma anche contro l’idea vulgata di Bisanzio come impero immobile, impegnato unicamente nella millenaria attesa di poter defungere. Era poi necessario tener conto delle molte novità che la ricerca ha prodotto e presentare le nuove acquisizioni in forma pianamente espositiva. E lo sforzo è riuscito.
L’autore chiarisce sin dalle prime pagine quanto poco sia sopravvissuto della città bizan­tina ed in quali limiti ristretti si possa parlare di «archeologia» in una città così radicalmen­te trasformata dalla sua successiva storia. Ma quando passa ai temi più controversi, per esempio quello riguardante le istituzioni cultu­rali che forgiarono i gruppi dirigenti dell’impe­ro, è molto efficace nel rendere accessibile una tematica controversa e sottile. E chiarisce in che misura si possa parlare di istituzioni di tipo «universitario», quanto diverse esse fosse­ro dalle università che sorsero poi a Occiden­te, quanto (poco) di «statale» e quanto (mol­to) di privato ci fosse in tali istituzioni. Né vie­ne trascurato il contenuto dell’insegnamento che lì veniva impartito.
Ed in pari tempo è lo stesso ruolo della capi­tale che viene storicizzato, alla luce, tra l’altro, di ricerche recenti e meno recenti sulla impor­tanza culturale delle province orientali dell’im­pero, perse per sempre alla metà del secolo VII a seguito della conquista araba e, di conse­guenza, sulla nuova centralità, anche cultura­le, in cui Costantinopoli venne a trovarsi pro­prio a seguito di tali perdite. «Tuttavia — com­menta Schreiner — proprio quel momento non era il più adatto perché le Muse esiliate recuperassero nella capitale l’importanza che avevano avuto nelle antiche roccaforti della cultura».
L’altra faccia di questo problema — che for­se esula da una trattazione incentrata su Bisan­zio e nondimeno la completa — è la durata o meglio la permanenza del greco nelle provin­ce orientali (Siria, Palestina, Egitto) pur dopo la conquista araba. Su questo punto ci sono in­dizi contrastanti. Certo, un grande storico ara­bo vissuto all’incirca al tempo del Boccaccio, Ibn-Khaldun, scrive nella sua Muqaddina («Prolegomeni storici») che il califfo Omar aveva imposto che in tutti i territori conquista­ti si parlasse e si scrivesse unicamente l’arabo del Corano e che gli altri idiomi venissero ban­diti. Ma questa direttiva non si realizzò mai in modo granitico. Nella fattispecie le tracce scrit­te, attestanti l’uso del greco durano ancora ben oltre la conquista: si possono vedere, a ri­prova, le ultime tavole dell’album storico pale­ografico edito da Medea Norsa a Pisa nel 1939 ( La scrittura letteraria greca). Ed è ben noto che Hunain Ibn-Ishaq, nel suo commento a Ga­leno, descrive la collaborazione con altri dotti operanti ad Alessandria intorno al testo del grande scienziato di Pergamo. Insomma il gre­co si conservò anche fuori dell’impero e il con­tatto con l’impero rivale ebbe, nei secoli IX-X e oltre, reciproci, benefici, effetti culturali.
Schreiner conclude la sua ricostruzione ri­cordando l’ombra delle profezie escatologiche che prevedevano la fine della «città delle mera­viglie », la fine della Costantinopoli imperiale. Filofei profetava, secoli più tardi, che dopo la fine della seconda Roma sarebbe subentrata la terza Roma (Mosca) «e una quarta Roma non ci sarà». Formulazione efficace nel significare quanto la storia dell’impero apparentemente immobile di Bisanzio si prolunghi in realtà sin nel nostro presente.

Repubblica 22.6.09
Beethoven
Svelato il mistero di Elisa era la moglie dell´amico-rivale
di Andrea Tarquini

Per quasi duecento anni, dal 1810 quando il Maestro compose quel pezzo, a oggi, storici e critici della musica hanno tentato invano di scoprire a chi fosse dedicato. Oggi finalmente il mistero è risolto: «Fuer Elise», Per Elisa, fu scritto da Ludwig van Beethoven a Vienna per dedicarlo alla giovane, graziosa Elisabeth Roeckel, una soprano, allora promettente, che poi sposò l´amico-rivale di Beethoven, Johann Nepomuk Hummel.
È come se la leggenda tornasse ancora più viva. E infatti l´anno prossimo, le prove complete dell´origine di quella musica memorabile, saranno presentate ai Bonner Beethoven-Studien, il classico appuntamento di studio e rievocazione della vita e opere del maestro.
L´autore della scoperta è Klaus-Martin Kopitz, un autorevole esperto della biografia e delle opere di Ludwig van Beethoven. Nell´archivio del Wiener Stephansdom, cioè la suggestiva cattedrale che domina il centro di Vienna, Herr Kopitz si è imbattuto nelle carte che gli hanno fornito la chiave dell´enigma. La mitica Elise, per noi Elisa, era appunto Elisabeth Roeckel. Era la sorella minore di un cantante lirico, amico di Beethoven. Lei stessa aveva intrapreso una carriera di soprano, e poi s´innamorò e si sposò con l´amico, rivale del gigante della musica, cioè appunto Johann Nepomuk Hummel. Gli amici, e i conoscenti la chiamavano appunto, Elise. Non è ancora chiaro, precisa Kopitz, citato dal settimanale Der Spiegel, perché Beethoven dedicò quella composizione per pianoforte in do minore alla giovane soprano. Quel che si sa è che egli trascorreva volentieri il suo tempo passeggiando e chiaccherando con la giovane, graziosa Elisabeth. Non è tutto: dopo la morte di lui, Elise ebbe cura di conservare gelosamente una ciocca di capelli del maestro e una delle penne con cui egli scriveva le sue composizioni, per ricordo.
Il mistero svelato non risolve ogni enigma di Per Elisa. La musica che conosciamo oggi infatti è solo una parte, quella iniziale, dell´intero spartito. Il resto è andato disperso e quanto alla dedica si sono sentite in passato le più varie leggende. Max Unger, uno dei più autorevoli esperti di Beethoven nel 1923 scrisse 923 che la dedica originale del manoscritto sarebbe stata a Therese Malfatti von Rohrenbach zu Dezza, figlia del commerciante viennese Jacob Malfatti, nella vana speranza di un matrimonio con Therese che poi non avvenne mai.
Il mistero su quella musica magistrale convisse a lungo con l´enigma sulla presunta «unsterbliche Geliebte», una fantomatica «amante immortale» che Beethoven avrebbe avuto, o almeno amato nei suoi desideri e ispirato nel lavoro: si pensò alla contessa Giulietta Guicciardi, poi a Bettina von Brentano, la contessa Marie Erdoedy, poi Dorothea von Ertmann e molte altre fino alla "vera" Elisa che ispirò note che ancora oggi accendono emozioni.

Repubblica 22.6.09
Acropoli
Ecco il museo e riparte la sfida al British

Inaugurato ad Atene il gigantesco spazio che ospita i marmi del Partenone I greci tornano a chiedere la restituzione dei tesori trafugati ed esposti a Londra

Hanno fatto le cose in grande, all´antica: con una cerimonia solenne, evocativa. Un po´ come quando Delfi e Olimpia chiamavano qui, in Grecia, l´intero mondo di allora e tutti arrivavano. Adesso la Grecia aveva una sorpresa grande da mostrare: eccoli tutt´insieme i Marmi del Partenone, nel Nuovo Museo dell´Acropoli, ricomposti per la prima volta dopo più di due secoli dallo smembramento.
L´hanno voluta far conoscere, invitando presidenti, ministri della cultura, e Josè Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, e il direttore generale dell´Unesco. E l´hanno spiegato a tutti che questo è il Sancta Sanctorum dell´arte ateniese e che quelle sculture messe lì, così – con gli originali incastrati tra le copie dei pezzi ancora esposti al British Museum – per loro sono ancora sacre: erano meta della processione più affollata, del rito più sentito nell´Atene democratica di Pericle. Si saliva fino al Partenone, per ringraziare, nel giorno del suo compleanno, Athena Vergine (Parthenos) di aver scelto l´Attica, di averle donato l´ulivo e assicurarsi che continuasse a benedire la sua città.
Fu proprio Pericle a voler così bello il Partenone. Due architetti – Ictino e Callicrate – in 15 anni, dal 447 al 432 a.C., glielo realizzarono, fastoso come non mai: 69 metri e 54 centimetri per 30,87, con 17 colonne di 10 metri sui lati lunghi e otto sui lati corti. Ci pensò Fidia a farne un capolavoro di arti sacre: due frontoni scolpiti; un fregio che correva tutt´intorno scandito da bassorilievi mai visti prima così belli, e 92 metope che giocavano con il sole. All´interno una statua della dea – 12 metri di oro e avorio – stupì il mondo.
Il marmo delle sculture, con i millenni, ha perso i colori squillanti con cui era dipinto: si è fatto dei toni dell´ambra, quasi terroso. E così ora – ricomposto al terzo piano del museo – ritma con evidenza il gesso candido della settantina di copie inserite tra gli originali per reintegrare le composizioni: son messe lì a denunciare – con un solo colpo d´occhio – tutte le parti squartate via. È un bianco che urla: le copie in gesso son lì, ma pronte a esser smontate via per lasciar posto agli originali.
L´appello del presidente greco Karolos Papoulias – «È tempo che i Marmi tornino a casa!» – ha segnalato che il conto alla rovescia per il rientro in patria dei reperti più contesi del mondo comincia oggi.
I Greci ce l´hanno fatta a squassare la storia infinita, con loro che supplicano, cuore in mano, e il British imperiale che nicchia, cincischia, promette, delude. Stavolta giocano duro: ci hanno investito 130 milioni di euro, puntati tutti sul progettone di Bernard Tschumi, una delle star dell´architettura mondiale che – con il collega Michael Photiadis e Dimitrios Pandermalis, archeologo classico – ha studiato il modo per sistemare oltre 4000 pezzi: fregi enormi, e ceramiche di pochi grammi, roba da cerimonia e trofei assai profani.
Adesso il nuovo museo è lì – a 300 metri dalla spianata dei templi, proprio sotto l´Acropoli inquadrata nei suoi finestroni – pronto per 10 mila visitatori al giorno. Modernissimo, pieno di luce, con pavimenti trasparenti (per mostrare uno strato archeologico che era un peccato nascondere) è pronto a dar battaglia.
Qualche scaramuccia l´ha già affrontata: c´è chi l´ha attaccato perché troppo grande, troppo caro, troppo estraneo al quartierino in cui questo mastodonte di 23 mila metri quadri è atterrato: tre parallelepipedi rettangolari sovrapposti, con l´ultimo sfalsato per esser parallelo al Partenone.
Ma l´arte greca non si era mai vista così bene come qua dentro. Le polemiche ateniesi son nulla rispetto alla missione che l´intero paese gli affida: sconfiggere le resistenze del British Museum – polverizzare l´obiezione che Atene non aveva un museo all´altezza dei Marmi – e convincere i suoi manager (lasciati soli dal governo inglese. «Fatti loro!» han detto proprio ieri) a restituire ciò che Thomas Bruce, settimo conte di Elgin, ambasciatore inglese presso la Sublime Porta, fece segar via dal Partenone, accordandosi con i Turchi che allora occupavano la Grecia.
Era il 1801 quando si cominciò a sezionarlo, pezzo a pezzo: 56 lastre dal fregio (due terzi del totale), 15 metope, enormi schegge dai frontoni, una cariatide dell´Eretteo lì a fianco, furono staccate e imbarcate per la Gran Bretagna. Il conte pensava al business. Poi nel 1816, pieno di debiti, accettò di vendere – per l´equivalente di due milioni di euro – i reperti al governo inglese che li donò al British.
La Grecia cominciò a soffrirne allora. Lord Byron soffrì con lei. «Sono testimonianze della nostra prima democrazia», protestò al mondo nel 1982 Melina Mercouri, riaprendo il contenzioso.
Sarà che gli due ultimi millenni – tra Romani, Goti, Bizantini, Turchi, Nazisti e Colonnelli – non sono andati granché, quell´Atene di Pericle, Fidia & C. che il Partenone vollero lì, così, è rimasta viva, vicina. E santa è stata sempre, per più di 20 secoli, la Rocca della Vergine. Il suo Partenone divenne la Chiesa di Nostra Signora di Atene, poi moschea. I cannoni dei veneziani, all´arrembaggio qui nel 1687, decretarono l´inizio della fine.
Il fregio del corteo sacro per Athena fissa, come in un´istantanea, chi vi partecipava: gli efebi sono tornati a cavalcare, sfilano anche i portatori d´acqua. Più in là i ragazzi con i tori per il sacrificio. Ma i primi sono copie, i secondi son quelli originali, i terzi – anch´essi bianchissimi – riproduzioni. Ed è qui, al terzo piano – di fronte alla materializzazione anche cromatica di una separazione grottesca, con mezzo Partenone qui e mezzo lì, a 2000 chilometri – che il nuovo museo vince la guerra psicologica per cui è nato.
Il direttore del British Museum – pur invitato – non era presente all´inaugurazione.

Repubblica 22.6.09
Saint Paul De Vence. Mirò nel suo giardino
Fondazione Maeght. Dal 27 giugno

Pittori e scultori hanno collaborato strettamente con l'architetto Joseph-Lluis Sert, creando opere monumentali che si integrassero magnificamente con l'edificio della fondazione e la natura circostante, la macchia mediterranea caratteristica del sud della Francia. Tra questi anche Miró, uno dei protagonisti dell'arte del XX secolo, autore di un Labirinto di sculture e ceramiche, composto da un Grande Arco in cemento, dalla Lucertola e dalla Forca, del 1963, dall'Uccello solare e dall'Uccello lunare, del 1968. Non è tutto: l'artista ha voluto legare a questa istituzione un fondo eccezionale di opere, costituito da sculture, dipinti e disegni, già presentato al pubblico nel 1979. A trent'anni dall'evento, Maeght torna ad ospitare una grande mostra dedicata a Miró. Duecentocinquanta opere, dipinti e sculture, illustrano la storia di un legame profondo stabilitosi con l'artista spagnolo.

Repubblica 22.6.09
Roma. Palma Bucarelli. Il museo come avanguardia
Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea. Dal 26 giugno

Nel centenario della nascita, una grande mostra ricorda l'attività della Bucarelli che diresse il museo con criteri modernissimi tra il 1942 e il 1975, sostenuta da Lionello Venturi e Giulio Carlo Argan. Attività svolta nell'incremento delle collezioni, nella conoscenza di personalità del mondo artistico internazionale, come Picasso, Mondrian e Pollock, e nella promozione dell'arte italiana all'estero. A cominciare dalla mostra "Arte italiana contemporanea" del 1955. A lei si deve inoltre la sistemazione museografica delle raccolte. L'esposizione, curata da Mariastella Margozzi, raccoglie centocinquanta opere, dipinti, sculture, grafiche e fotografie d'epoca, insieme a interessante materiale d'archivio.

domenica 21 giugno 2009

l'Unità 21.6.09
L’ultimo parlamento italiano
Il governo dello spettacolo aveva già fatto la sua tournée a L’Aquila. I parlamentari di maggioranza sono declassati a loggione
di Furio Colombo


I giorni che stiamo vivendo dentro la sfortunata Repubblica Italiana, oscurata da quasi tutte le televisioni e disinformata da quasi tutti i giornali (anche se si intravedono le prime crepe nella diga che fino ad ora ha trattenuto e nascosto il liquame del regime) sono talmente vergognosi da renderci prigionieri di un dilemma: o parli solo del “casino Italia” come ha opportunamente intitolato Libero , o parli d’altro. Per esempio della folla esasperata di cittadini dell’Aquila e dell’Abruzzo che hanno sfidato la militarizzazione imposta alla città dai pasdaran della Protezione civile e sono venuti a Roma, davanti al Parlamento a dire la verità. Ovvero la loro vergogna e il loro imbarazzo per essere stati visitati e intrattenuti, a fari accesi e sotto le telecamere, da un finto capo del governo che in realtà era un abile imitatore e anzi, presumibilmente, un nemico giurato del buon governo. Quando si sono accorti del falso, dopo mesi di vita impossibile nelle tende gelate di notte, invivibili nella pioggia e roventi di sole, una specie di Guantanamo venduto per salvezza, sono venuti a Roma in cerca di verità. Non l’hanno trovata. Anche nei palazzi del potere, anche quando non ci sono feste indecorose a pagamento, non c’è il vero capo del governo, uno che accorre quando deve, promette quel che può, e mantiene subito e con rigore le promesse. C’è solo, lontano, incapace, furibondo e distratto “come uno che non sta bene” (fonte: Veronica Lario) l’attore che promette tutto e non sa mantenere niente.
Questo giornale ha dato ai lettori la cronaca di ciò che è accaduto davanti a Montecitorio, di quella folla costretta a rendersi conto della beffa subita dal governo, e dunque dallo Stato italiano, nel peggior momento della loro vita, uomini e donne, giovani e non giovani, che prima, nella loro vita, si erano dedicati alla famiglia, al lavoro, alle professioni, costretti adesso a sfilare con cartelli e striscioni come se esigessero un di più mentre denunciavano il niente. In quelle stesse ore, dentro Montecitorio, si celebrava l’altra parte della vergogna: una maggioranza parlamentare muta e succube di un governo che si occupa di trasporti per feste ma non di terremotati, e che tranquillamente promette la luna, tanto è un argomento di canzoni, non di politica. La vergogna era questa: la legge in discussione era per “Gli interventi urgenti in Abruzzo” e mancava di tutto. Mancava di soldi, di progetti, di idee, aveva saltato interi settori di attività essenziale (le scuole) e interi blocchi di cittadini, i cosiddetti proprietari di “seconde case” che non saranno ricostruite benché siano al secondo e al quarto piano dell’edificio la cui ricostruzione è teoricamente prevista. Non fissava date e non garantiva scadenze.
Tutta l’opposizione (Pd, Italia dei valori, Udc) si è impegnata, emendamento dopo emendamento, a riempire le inaccettabili omissioni, le inspiegabili incompetenze, a correggere l’ovvia e offensiva inutilità della legge. Lo spettacolo triste, durato per tre giorni, è stato il silenzio disciplinato della maggioranza di governo, uomini e donne solitamente vivi e aggressivi ridotti a una assemblea ottusa che non ascolta, non vede, non decide. Ha già deciso il governo. E così, come se questo fosse l’ultimo Parlamento, come se nessuno di questi parlamentari avesse un dopo in cui rendere conto e un elettorato che vorrà sapere, ogni emendamento dell’opposizione, per quanto utile e necessario è stato respinto, anche se diceva che non c’è più università, che è urgente ricostruire la Casa dello studente, che l’ospedale va rimesso in grado di funzionare, che dopo un simile terremoto è assurdo e impossibile distinguere fra prime e seconde case, che i soldi non bastano per cominciare, che occorrono date certe della ricostruzione, fasi realistiche, dati veri, sia per buona organizzazione sia per dare speranza. Lo spettacolo di ciò che è accaduto dentro Montecitorio, mentre fuori una folla di cittadini normali e per bene, è costretta a gridare la sua indignazione, era anche più desolante. Una parte sorda, cieca e muta del Parlamento taceva, evitava ogni confronto, si auto-proibiva qualunque discussione, respingeva in silenzio anche le proposte ispirate a esperienza, mitezza, buon senso. Il governo dello spettacolo aveva già fatto la sua tournée all’Aquila. Sta preparando, a carico dei disperati cittadini dell’Aquila il nuovo mega-spettacolo del G8. I parlamentari del partito di governo sono stati declassati a loggione. Tacciano, ignorino, lascino lavorare chi sa fare spettacolo. L’ultimo Parlamento ha abbassato la testa in segno di umile assenso.
Per fortuna non tanti nell’opposizione pensano ancora che sia estremista dire «no». In tanti si rendono conto, finalmente, che «no» è l’unica risposta possibile.

Repubblica 21.6.09
Un premier sotto ricatto e una suburra di Stato
di Eugenio Scalfari


Le eventuali dimissioni di Berlusconi dipenderanno dal suo senso di responsabilità e dalle pressioni che riceverà all´interno del governo e del partito
La domanda che milioni di persone sempre più disgustate si pongono è ormai martellante: quanto durerà questo sconcio? Come si uscirà da questo pantano?

Attorno al premier l´aria si fa sempre più viziata e rarefatta. Lo scollamento all´interno del suo gruppo dirigente è ormai visibile. Il distacco di settori consistenti del suo elettorato è anch´esso palese e lo ha certificato due giorni fa Gianfranco Fini quando ha detto che il governo è stabile ma cresce l´indifferenza e la sfiducia del corpo elettorale nei confronti della politica, aggiungendo che questo fenomeno rappresenta un pericolo molto serio per la democrazia.
Aumenta anche in modo esponenziale lo stupore dell´opinione pubblica internazionale e dei governi alleati in Europa e in America. Mai il prestigio del nostro paese nel mondo aveva raggiunto un così infimo livello.
Finora i "supporters" del Capo si rifugiavano nella condanna del "gossip", ma ormai anche questo esorcismo è caduto. Anzitutto perché la vita d´un capo di governo non consente distinzioni tra la sfera pubblica e quella privata. Poi perché è stato lo stesso interessato a pubblicizzare il preteso "gossip". Infine perché si è creata una situazione che ormai non è più oltre accettabile: il premier è ricattabile e ricattato e lo sarà sempre di più perché sono decine se non addirittura centinaia i potenziali ricattatori.
Un capo di governo nelle mani di ricattatori non può avere una vita politica lunga perché non può usare lo Stato e le sue istituzioni per soddisfare i ricattatori senza ampliare a dismisura il numero delle persone "informate dei fatti" e necessariamente coinvolte e compromesse nei fatti stessi.
Queste persone cominceranno a fargli il vuoto intorno, per ragioni di onestà personale o di salvaguardia a tutela della propria onorabilità.
Per opporsi a questa deriva che è già in atto il premier cercherà e sta già cercando di blindare la situazione, intimidire i possibili testimoni, mobilitare servizi segreti e polizie private allo scopo di rovesciare sui suoi accusatori la stessa quota di melma nella quale è lui che sta affondando. Se i palazzi e le ville di Stato sono diventate una suburra, la stessa sorte rischia di diffondersi a una società deturpata dalla corruzione.
La domanda che milioni di persone sempre più attonite e disgustate si pongono è ormai martellante e te la senti fare agli angoli delle strade, nelle centinaia di migliaia di lettere che "Internet" rovescia sui tavoli delle redazioni: quanto durerà questo sconcio? Come si uscirà da questo pantano?
C´è un passaparola assordante come un rombo di cannone, per usare le parole del Don Basilio del "Barbiere di Siviglia", e non c´è avvocato Ghedini che possa silenziarlo. Del resto gli stessi Gasparri, Cicchitto, Bondi, Bocchino, hanno smesso di ripetere i loro esorcismi. Ognuno dei potenti comincia a pensare a sé, a prepararsi una via di ritirata e di fuga.
* * *
Molti pretesti fin qui usati e ripetuti come giaculatorie stanno cadendo come foglie secche a cominciare da quello contro le toghe rosse. Non sono certo toghe rosse i magistrati della Procura di Bari, che avevano cominciato la loro inchiesta sulla sanità regionale pugliese, una Regione governata dal centrosinistra.
Strada facendo l´inchiesta si è imbattuta in Giampaolo Tarantini e, senza abbandonare il filone iniziale, altri filoni si sono aperti ed altri reati sono stati ipotizzati. Che cosa dovevano fare quei magistrati? Chiudere il coperchio o adempiere al loro dovere di titolari della pubblica accusa?
Resta l´intimidazione contro i giornali e i giornalisti, "vil razza dannata". Ma non tiene più neanche quella. Che cosa doveva fare il direttore del "Corriere della Sera", Ferruccio De Bortoli, di fronte alle dichiarazioni di Patrizia D´Addario e alla documentazione da lei esibita? Non pubblicare nulla e buttare tutto nel cestino? Ha fatto il suo dovere facendo cadere il suo pregiudizio contro un "gossip" che non è mai stato un semplice pettegolezzo ma, fin dal primo momento, una questione pubblica come noi l´abbiamo sempre ravvisata.
L´avvocato Ghedini vorrebbe ora, in nome e per conto del suo cliente, che il silenzio tombale sulle intercettazioni e sui processi penali in fase istruttoria fosse reso retroattivo e quindi esteso all´inchiesta della Procura di Bari. Una retroattività chiaramente incostituzionale che probabilmente non avrebbe una maggioranza neppure in un Parlamento dominato dal governo attuale e tanto meno la firma di promulgazione del capo dello Stato.
Il problema è a questo punto di una chiarezza elementare: un premier sotto ricatto che deve provare (provare, non affermare soltanto) che i fatti non sono quelli raccontati e provati dai suoi ricattatori; una vita privata del capo del governo costellata da stravizi, alimentata da una corte di ruffiani e gestita da persone ricompensate con scranni in Parlamento a Roma e a Strasburgo, che deturpa l´immagine dello Stato e del Paese e non può più oltre essere sopportata.
Se ne sono resi conto perfino Giuliano Ferrara sul "Foglio" e Giampiero Mughini su "Libero". Una sprovveduta parlamentare di centrodestra, in una sua lettera al "Corriere della Sera", è arrivata ad esaltare Lucio Sergio Catilina e l´ha paragonato a Silvio Berlusconi. La sprovveduta sa molto poco di Catilina, incallito debitore e uomo d´avventura, compromesso con le peggiori bande di eversori ed eversore egli stesso delle strutture della Res publica.
L´avventura di Catilina arrivò alla ribellione armata contro i Consoli e il Senato, ma è vero che una volta imboccata quella via senza ritorno Catilina si batté con coraggio e perse la vita sul campo di battaglia.
È questo lo sbocco che la sprovveduta prevede e la parte che assegna a Silvio Berlusconi? Un caimano che porta le sue truppe all´incendio della piazza e delle istituzioni? Sono questi i consiglieri del premier, "utilizzatore finale" di prostitute in una stanza dalla cui finestra presidenziale sventola il tricolore?
* * *
E´ legittimo tuttavia porsi il problema d´uno sbocco politico che tenga conto delle norme e delle consuetudini che regolano il sistema e sul rispetto delle quali vigila il presidente della Repubblica.
In caso di dimissioni del premier, anche se accompagnate dalla sua richiesta di scioglimento delle Camere, spetta al capo dello Stato di esaminare la possibilità che la maggioranza esistente esprima un altro premier o che si possa formare in Parlamento un´altra maggioranza. Solo nel caso che entrambe le possibilità si rivelino impraticabili il capo dello Stato procede allo scioglimento. In tal caso è possibile che il Quirinale designi una figura istituzionale che conduca il paese alle urne.
Nel caso specifico la figura istituzionale si può ravvisare nel presidente della Camera, che assomma in sé un duplice requisito: è la terza carica dello Stato ed è anche il co-fondatore, insieme a Berlusconi, del partito di maggioranza relativa. Può dunque essere incaricato di portare il paese al voto immediato o anche di portarcelo dopo avere adempiuto ad altre gravissime emergenze connesse con la crisi recessiva che non consente pausa nella gestione della politica economica.
Ma resta la domanda: si dimetterà Berlusconi?
Dipende dal suo senso di responsabilità – che a questo punto sembra piuttosto scarso e soffocato da un vero e proprio titanismo patologico – e dalle pressioni che il gruppo dirigente nel governo e nel partito vorrà esercitare su di lui.
Il paragone con il 25 luglio del 1943 è forzato. C´era una guerra già perduta, l´esercito anglo-americano già sbarcato in Sicilia, quello nazista largamente presente sul territorio, bombardamenti e rovine dovunque.
Qui si tratta invece di una suburra, di banchetti da Trimalcione, di un capo di governo ricattabile e ricattato, d´un rischio di avventura quanto mai incombente, d´un sistema di potere esteso e colluso. Basso impero senza impero, Vitellio o Eliogabalo, non Catilina.
Per certi aspetti stiamo molto meglio del 25 luglio, per altri purtroppo stiamo peggio.
Post Scriptum. Oggi si vota per i ballottaggi in molti e importanti Comuni e Province. L´esito è di grande importanza, anche con riguardo alla crisi politica che abbiamo qui analizzato. E´ dunque auspicabile che gli elettori non disertino le urne.
Si vota anche per il referendum sulla legge elettorale. Con quattro possibili comportamenti: non votare e far mancare il quorum, votare "sì", votare "no". Oppure votare in modo diverso per i tre quesiti referendari.
Credo probabile che il quorum non sia raggiunto. Personalmente non mi strapperei i capelli se questa previsione si rivelasse esatta.

Repubblica 21.6.09
Le Quote Rosa secondo il Cavaliere
di Natalia Aspesi


«Si è presentata al partito a marzo o aprile, ha chiamato il mio capo della segreteria dicendo che voleva candidarsi e l´abbiamo inserita come quota rosa, di cui c´è una percentuale da rispettare».
Vero o non vero, l´ha dichiarato Salvatore Greco, ex deputato e coordinatore della lista di centrodestra "La Puglia prima di tutto" parlando di Patrizia D´Addario, la showgirl o escort che, come fosse Eva Kant, va alle feste, anche a quelle del premier, munita di registratore, si immagina micro data la piccante esiguità del suo abbigliamento serale, figuriamoci quello notturno. La frase, per smentire di essere stato lui a contattare per primo la intraprendente signora, dà alcune simpatiche conferme a notizie che si erano perse nell´incasinamento (per dire confusione) della politica italiana: 1) almeno a livello di partito o di elezioni comunali, in questo caso baresi, esistono ancora le famose Quote Rosa di cui si era persa traccia; 2) C´è una certa difficoltà (maschile) a trovare signore che abbiano tutti i numeri, di avvenenza e disponibilità, da remunerare inserendole nel gruppo QR; 3) Se si pensa che sia più spiccio e più facile fare politica che fiction, basta presentarsi alla sede di un partito, non necessariamente con registratore ma di sicuro con il proprio photobook o calendario per far subito Quota Rosa, essere immediatamente inserita nelle liste e magari anche (non le due suddette signore però) eletta dovunque si eserciti la politica; comune, provincia, regione, Parlamento, italiano o europeo.
Soprattutto in quei luoghi, c´è posto, finalmente, per (quasi) tutte le donne. In particolar modo per quelle giuste passate alle giuste feste, nei giusti palazzi e ville, ovvio. Paiono molto lontani, e non lo sono, i tempi in cui le signore litigavano tra loro pro o contro le Quote Rosa: chi le trovava indispensabili per ricordare ai maschi che anche le donne avevano il diritto di fare cuccù o il gesto dell´ombrello dagli scranni del Parlamento, ma che, dato il loro (degli uomini) incatenamento alle poltrone, era necessaria addirittura una legge che rendesse questo diritto obbligatorio. Chi invece, come l´eroica Emma Bonino che ai tempi della sua campagna (ovviamente persa), "Emma for president", si era presentata come "L´uomo giusto per il Quirinale", trovava le quote femminili inutili e dannose, buone per l´Afghanistan ma non certo per un paese evoluto come l´Italia: dove secondo lei, si poteva, si può dimostrare il proprio valore senza tener conto del genere. Giusto, anche gli uomini erano d´accordo, le donne valgono troppo per contingentarle: e infatti nell´ottobre del 2005 alla camera le Quote Rosa ebbero 140 voti favorevoli e 452 contrari. Trasversalmente, a destra al centro e a sinistra. Con alcuni illuminanti commenti, tipo: "Queste non ci devono scassare la minchia". "Avranno la quota quando smetteranno di ragionare con quella parte che non è il cervello". "Vedove allegre… un pericolo per il Parlamento…".
Durante un drammatico Consiglio dei Ministri, la bella e giovane Stefania Prestigiacomo ministro delle Pari Opportunità, si impegnò sino alle lacrime, ma inutilmente, per ottenere le benedette Quote, un anno dopo ebbe uno scontro con la bella e giovane Mara Carfagna, allora deputata del suo stesso partito, Forza Italia; la quale, con la sua soave innocenza dichiarò, e non aveva torto, che ci voleva ben altro per risolvere i problemi delle donne: e forse per questa sua contrarietà che corrispondeva a quella della maggioranza del partito, appena possibile fu promossa Ministro proprio delle Pari (o impari) Opportunità. Nel 2006 l´Italia, quanto a Quote Rosa, era al 48° posto, e certo faceva una certa impressione che al primo ci fosse il Rwanda. Con le elezioni politiche del 2008, vinte abbondantemente dal Pdl, quel che viene chiamato ormai assurdamente "gentil sesso", ha ottenuto maggior visibilità, 21,1% alla Camera (più nel Pd, 65 seggi su 217, che nel Pdl, 54 su 273); 17,4 al Senato (più nel Pd, 36 seggi su 113, che nel Pdl, solo 13 su 147, forse perché ancora in vigore l´età minima, controproducente per le signore, di 40 anni). Però già da allora il discorso si stava spostando dalle Quote Rosa alle Quote Rosso Fuoco, cominciando, come voleva la signora Carfagna, "a selezionare dal basso", piuttosto che perder tempo con signore già in alto, magari, dio ne scampi, preparate ma fuori taglia.
Ma se le donne aspiravano ad avere più voce in Parlamento, soprattutto a portare nei luoghi del potere i problemi, i bisogni, i desideri delle donne, pare che quell´aspirazione si sia molto impolverata. Come se bastasse chiedere, e onorevole o disonorata, farebbe proprio lo stesso: in televisione, in Parlamento, sul set, bastano visibilità, successo e denaro, che oltretutto, nel caso delle cariche politiche, è un buon affare per l´eventuale filiera degli "utilizzatori", che al massimo se la cavano con una collanina alla escort aspirante parlamentare; che poi, se eletta, allo stipendio ci penseranno i contribuenti. Purtroppo bisogna averne il fisico, l´età, l´astuzia, lo stomaco, le giarrettiere e le foto col sedere per aria. E il promoter giusto, e le feste giuste. E l´indulgenza, e lo sguardo, e la generosità, e il favore, e l´autorizzazione di quegli uomini che, ragionando anche loro, si teme, "con quella parte che non è il cervello", non sono contrari ai "grandi quantitativi" di belle ragazze. Mai le donne, tutte le donne, sono state tanto lontane dalle cosiddette pari opportunità, dalla parità stessa, da una vera autonomia e naturalmente dalla gestione della politica, quella che conta.

Repubblica 21.6.09
Sui tg È arrivato il giorno del blackout
di Antonio Dipollina


E arrivò anche il giorno del blackout totale dei principali tg. Giusto, era giornata di silenzio elettorale, giusto era sabato e in qualche modo la settimana è corta, giusto sono tempi in cui la riflessione ogni tanto deve avere il sopravvento. Però, insomma. E quindi nello sconcerto generale in aumento, le questioni legate all´inchiesta che scotta sono sparite del tutto dai principali centri di informazione del paese, appunto i tg più seguiti. Al Tg1 devono aver pensato che era il momento della coerenza: dopo aver oscurato nei titoli di testa tutto quello che potesse avere a che fare con il caso in esame, devono aver pensato che a quel punto non c´era motivo di dare corso nel seguito del telegiornale. Se non l´annunciamo la notizia non c´è, insomma, altrimenti il pubblico rimane disorientato.
Intanto qualche altro tg, intanto tutti i siti internet di informazione, intanto i giornali riempiono le prime pagine, tirano fuori sempre nuovi particolari, fanno intravedere gli scenari futuri. Quelli, invece no: quelli che secondo le recenti indagini forniscono l´informazione primaria al 70 per cento degli italiani hanno deciso che tutta questa gente va accudita e rassicurata fino in fondo, che cedere a questo punto sarebbe disdicevole, che bisogna conservare tutta l´integrità dimostrata in questi giorni. La guardia si fa fino in fondo, incrollabili. Ma questa cosa deve andare avanti così davvero? Deve continuare fino in fondo in questo modo? Insomma, è ancora lunga? No, giusto per regolarsi. La gara a chi si stanca prima può essere divertente, però un minimo di tristezza e di indignazione inizia a farsi largo, ma davvero.

Repubblica 21.6.09
Domani su Current il docufilm "Citizen Berlusconi". Scelto lo slogan per il lancio
Il Cavaliere e la stampa


«C´è libertà d´informazione, allora perché non l´hai mai visto?», è questo lo slogan, scelto dal pubblico di Current, per il lancio della prima visione assoluta in Italia del film Citizen Berlusconi, domani alle 21.20 sul canale Sky 130. In occasione della messa in onda del controverso docufilm sui rapporti del Cavaliere con la stampa, diretto e realizzato nel 2003 da Andrea Cairola e Suna Grey, Current ha infatti chiesto al pubblico italiano del network di Al Gore, di aggiungere ai manifesti realizzati per la campagna di lancio del film, un quesito sull´informazione indipendente in Italia che funzionasse da slogan. Oltre 500 le proposte giunte in meno di una settimana sul sito www. current. it. Un unico vincitore: Trasparente, il nickname a cui va un riconoscimento di 1.750 euro. Questa la motivazione espressa da Current e pubblicata sul sito: «La domanda è semplice e va al nocciolo della questione: perché questo film non è mai stato visibile in Italia, se non in rete?». Citizen Berlusconi, prodotto e distribuito in Italia da SteFilm, è andato in onda nel 2003 sulla Tv pubblica americana Pbs e poi su altre televisioni pubbliche europee.

Repubblica 21.6.09
Quel desiderio di democrazia
di Bernardo Valli


Il potere clericale iraniano esce malconcio, e macchiato di sangue, dal voto espresso proprio nell´anno in cui è appena stato celebrato il trentesimo anniversario della Repubblica islamica. Le imponenti, appassionate manifestazioni nel centro di Teheran hanno inevitabilmente ricordato quelle che, altrettanto imponenti e appassionate, nel 1978 e ´79, vibrarono un colpo fatale alla monarchia dei Pahlevi e decisero l´avvento della teocrazia incarnata dall´ayatollah Khomeini.
Questa volta le manifestazioni denunciano come una truffa il risultato elettorale, e quindi sono rivolte contro coloro che nel regime clericale si sono resi colpevoli dell´inganno. Trent´anni fa le forze armate imperiali si decomposero, o si dichiararono neutrali, e lo scià restò indifeso di fronte alla rivolta popolare, e se ne dovette andare.
Adesso il regime investito dalle proteste di massa dispone invece di milizie armate, almeno per ora decise nei loro interventi repressivi. Mentre i manifestanti sono disarmati.
Nella settimana, tra il 12 e il 19 giugno, e ancora nella giornata di ieri, gli slogan dei manifestanti non sembravano diretti contro la Repubblica islamica in quanto tale. La folla scandiva spesso Allah akbar (Dio è il più grande), parole annuncianti la «chiamata alla preghiera», e scritte sulla bandiera iraniana. Ma al tempo stesso, chiedendo il rispetto del voto che pensano sia stato truccato, i manifestanti rivendicano il diritto alla democrazia. Al di là delle pratiche quotidiane, e degli intimi convincimenti, la religione musulmana sciita è integrata all´identità nazionale iraniana. Ed è quindi nel quadro dei suoi principi fondamentali che vengono denunciati gli abusi del potere clericale, o di una parte di esso, poiché anche i riformatori appartengono alla vecchia guardia della rivoluzione islamica. Tutto questo rivela una profonda divisione all´interno del regime. Le manifestazioni sembrano rispecchiare quella lotta intestina. Anche se le aspirazioni dei giovani, e in generale della società inurbata che si è modernizzata negli ultimi decenni, esprimono il genuino desiderio di democrazia.
Un desiderio che non può lasciarci indifferenti. La democrazia non si addice a una repubblica teocratica, la quale è di per sé un´evidente contraddizione. Una contraddizione che trent´anni dopo diventa esplosiva.
E´ in quanto responsabile degli abusi elettorali che l´ayatollah Ali Khamenei, la Guida suprema, massima autorità del potere clericale, vede il suo prestigio seriamente intaccato. Se non proprio a pezzi. In quanto a Mahmud Ahmadinejad, solennemente riconfermato capo dell´esecutivo dallo stesso Khamenei, si può dire che egli esce dalla vittoria elettorale come un presidente contestato da milioni di iraniani, insomma come un presidente dimezzato, perché su di lui continuerà a pesare il sospetto che la sua carica sia basata su una truffa.
Fondato o meno, quel sospetto non impedirà a Khamenei e ad Ahmadinejad di esercitare il potere e di rappresentare l´Iran nei rapporti con il resto del mondo.
Nell´attesa di imprevedibili conseguenze, dovute alle lotte in corso al vertice del regime, la Guida suprema e il Presidente della Repubblica saranno gli interlocutori indiretti o diretti della superpotenza che ha teso la mano alla Repubblica islamica e che attende una risposta nei prossimi mesi, prima della fine dell´anno, stando a quello che ha fatto capire Barack Obama.
Nonostante i rimproveri dei neocon, nostalgici del linguaggio in vigore durante la presidenza di Bush jr, Barack Obama ha seguito la situazione iraniana con giusta severità.
Non si è risparmiato, in più occasioni, nell´esprimere simpatia e solidarietà ai manifestanti di Teheran, senza tuttavia ricorrere agli anatemi un tempo lanciati con generosità dalla Casa Bianca contro la Repubblica islamica.
Nessuno, nella Washington ufficiale, l´ha definita «asse del male». E Barack Obama si è ben guardato dal prendere posizione in favore di uno dei candidati. Se l´avesse fatto sarebbe stato accusato di interferenza e comunque non avrebbe contribuito al successo del prescelto, poiché il suo intervento avrebbe urtato l´orgoglio e il nazionalismo degli iraniani. Ha invece fatto sapere che il futuro, eventuale interlocutore degli Stati Uniti sarà quello eletto dal popolo.
Adesso si possono avanzare seri dubbi sull´autenticità dell´elezione di Ahmadinejad. E tuttavia non si deve dimenticare che ci sono sempre stati dei dubbi sui riti democratici nella Repubblica islamica. Sussistevano anche prima dell´apertura diplomatica americana. La quale non viene certo agevolata da quel che è accaduto e potrebbe ancora accadere a Teheran. Essa rischia di essere ritardata da imprevedibili avvenimenti interni alla Repubblica islamica; e, se quegli avvenimenti fossero ancora più sanguinosi di quelli verificatisi finora, dal modo in cui le opinioni pubbliche democratiche li valuteranno. Ma la questione iraniana è al centro di un´operazione da cui dipendono sia il successo o meno in politica estera del presidente americano, sia i futuri rapporti tra il mondo musulmano e l´Occidente. Né si deve dimenticare il capitolo della proliferazione delle armi nucleari. L´operazione abbraccia direttamente l´area geopolitica più critica del pianeta. Un´area che va dalla Palestina all´Afghanistan. Dal Pakistan all´Iraq. E´ difficile archiviarla.
Per quanto coinvolti nelle lotte intestine, né Khamenei né Ahmadinejad ignorano il rischio di isolamento che corre la loro Repubblica islamica. Il primo è noto per il suo virulento anti-americanismo; il secondo è celebre per le provocazioni antisemite e anti occidentali. Ma nel discorso di venerdì, nel quale ha minacciato «un bagno di sangue» se le manifestazioni continueranno, e ha confermato l´elezione di Ahmadinejad, l´ayatollah Khamenei è stato persino patetico quando ha indicato l´Inghilterra come il nemico numero uno dell´Iran. Doveva puntare il dito contro qualche paese occidentale, e ha scelto, a sorpresa, il Regno Unito. Cosi ha tenuto fuori gli Stati Uniti. E ha evitato di sbattere la porta in faccia a Barack Obama. Anche Ahmadinejad, nel suo primo discorso, ha evitato le solite provocazioni. Neppure lui ha chiuso la porta.

l'Unità 21.6.09
Nessuno ha vinto se non c’è una stampa libera
di Jean-Francois Julliard


Vietato parlare di brogli, troppi giornalisti in carcere
troppi vincoli e censure sull’informazione dopo le elezioni
L’Europa non riconosca la vittoria di Ahmadinejad

I governi democratici non dovrebbero riconoscere la vittoria di Ahmadinejad in Iran. Un’elezione democratica implica media liberi di osservarne lo svolgimento e di fare inchieste su eventuali brogli. A Teheran non è così. La stampa straniera non può più lavorare. Ai corrispondenti è vietato uscire in strada e fare il loro lavoro. I media iraniani hanno l’ordine di pubblicare solo le informazioni che trattano della bella e larga vittoria del Presidente. Chi recalcitra, viene minacciato, picchiato o imprigionato. Di una dozzina non si hanno più notizie dal giorno delle elezioni. Nel migliore dei casi sono fuggiti, nel peggiore sono dietro le sbarre, con colleghi da tempo imprigionati.
È indispensabile che gli inviati e i corrispondenti stranieri restino in Iran e possano lavorare. Una volta partiti, c’è da scommettere che la repressione contro gli oppositori raddoppierà. Se il presidente Ahmadinejad non intende rispettare la libertà di stampa, bisognerà riportarlo a ragione. Se i capi di stato europei contestassero in modo chiaro i risultati elettorali forse il presidente iraniano cambierebbe linea. Barack Obama, dopo la disfatta degli Hezbollah libanesi, sogna un vero cambiamento in Medio Oriente. Anche lui non deve cedere.
La vicenda del nucleare iraniano non serva di scusa per restare in silenzio. Non è il momento di dichiarazioni prudenti. Berlino ha convocato, lunedì mattina, l’ambasciatore iraniano in Germania. Poi l’ha fatto la Francia. Bisogna continuare, esigere che il popolo iraniano abbia l’informazione di cui è oggi privo.
Non è possibile vincere un’elezione a suon di censura e giornalisti arrestati. La libertà di stampa è componente essenziale del processo elettorale. Ci sono stati, certo, per la prima volta dibattiti in tv, e i candidati hanno potuto esprimersi più liberamente del solito. Ma non basta. I media devono pure riportare le posizioni di chi contesta i risultati. È inaccettabile che il giornale di Mehdi Karoubi, candidato battuto, sia imbavagliato. Gli uomini di Ahmadinejad entrano nelle redazioni per sorvegliare il rispetto delle consegne.
Se gli inviati stranieri sfuggono alle manette, trovano gli stessi ostacoli dei colleghi iraniani. La rete telefonica è controllata, internet è censurato e a volte inaccessibile, le mail passano con difficoltà, come gli sms. Trasmettere immagini è quasi impossibile. Persino le onde della potente Bbc sono un disastro.
Non è tutto. C’è ancora la chiusura per una settimana dell’ufficio della tv satellite Al Arabya, l’obbligo di restare nella camera d’albergo per il corrispondente della catena tedesca Ard, l’espulsione di molti inviati delle tv europee. L’Unione europea devono difendere la libertà di espressione. Nessun governo avrebbe accettato di riconoscere i risultati di una buffonata come questa, se si fosse tenuta nel vecchio continente. Per l’Iran bisogna abbassare la guardia? Sarebbe una pugnalata per chi, in Iran, ha pensato che la sua scheda elettorale avrebbe potuto cambiare il suo destino. Gli stati democratici non prendano parte all’imbroglio delle elezioni iraniane.

Repubblica 21.6.09
Parla lo scrittore Kader Abdolah, costretto all'esilio dagli Ayatollah
"Il regime è più forte ma questi ragazzi non si fermeranno"


Questa protesta ha strappato la maschera al governo:ora è chiaro che si tratta di una dittatura Ma i religiosi non cederanno. In piazza si sta facendo la Storia

Parla al telefono con la voce che si spezza: «Per anni mi sono sentito in colpa perché ero scappato. E i miei amici erano rimasti lì a soffrire. Oggi li guardo mi sento di nuovo in colpa. Perché vorrei esseri lì con loro a lottare». Kader Abdolah è uno dei più importanti scrittori della diaspora iraniana degli ultimi anni. Il suo ultimo libro, "La casa nella moschea" (pubblicato in Italia da Iperborea), è il racconto di una famiglia la cui storia viene travolta dall´avvento della rivoluzione khomeinista, della voglia di cambiamento che affoga nella repressione degli ayatollah. La repressione e le stragi di cui si narra nelle sue pagine oggi, guardando le immagini di Teheran, sembrano più che mai attuali.
Signor Abdolah lei è fuggito dall´Iran perché perseguitato: cosa prova oggi guardando la gente andare contro quel potere che lei attacca sin dagli anni ‘80?
«È una cosa bellissima e allo stesso tempo dolorosa. I giovani ci stanno dicendo che abbiamo fatto qualcosa di sbagliato, che non siamo riusciti a cambiare le cose per loro e che ora è il loro momento. I genitori li guardano con le lacrime agli occhi quando escono di casa ma sanno che hanno ragione: quello che sta accadendo è triste, ma meraviglioso. Nessuno può dire cosa accadrà: questi ragazzi stanno facendo la Storia».
Quante possibilità hanno di avere successo?
«Poche perché il regime è forte. Ma questo è il seme da cui verrà il cambiamento nei prossimi anni. Mai i religiosi erano stati così divisi. Mai un esponente della classe politica al potere, come è da anni Moussavi, si è dovuto piegare alle richieste della piazza e cambiare le sue posizioni per seguire quelle della gente. La realtà è che questi ragazzi non hanno un leader, perché Moussavi non è per il cambiamento radicale che chiedono loro. E che l´Ayatollah Khameini non cederà».
Sta dicendo che questa è una rivoluzione inutile, almeno nel breve periodo?
«No, perché il regime non è già più lo stesso. I ragazzi hanno strappato la maschera scura dalla faccia di Khameini: ha sempre detto di essere il portavoce di Allah sulla Terra. Oggi tutti possono vedere che è un dittatore».
Un dittatore che non cederà, a suo parere. E i giovani: si fermeranno loro?
«Non so quanto potranno resistere. Una settimana fa non avrei detto che saremmo mai arrivati a questo punto, ma c´è in loro l´energia di trenta anni di umiliazione. La forza di chi aveva cacciato lo Scià e si è visto tradito dagli Ayatollah. Non gli importa nulla di morire, questa è la verità: anche se ne uccideranno cento non si fermeranno. Hanno arrestato i leader e i giornalisti: e questi ragazzi continuano a mandare notizie e filmati sul web. Ho visto in piazza moltissime ragazze: trent´anni fa erano poche. Oggi sono lì e si battono contro la polizia: sono il volto dell´Iran che vuole cambiare, quello che si riconosce nella moglie di Moussawi prima ancora che con lui. Non so se ce la faranno a vincere: ma so che non si fermeranno».
(fr. caf.)

Corriere della Sera 21.6.09
Il dilemma dell'Occidente
di Angelo Panebianco


Ciò che è acca­duto ha tutta l'aria di esse­re un salto di qualità irreversibile nel conflitto che oppone l'ala dura del regime iraniano ai riformisti. La manifesta­zione non autorizzata de­gli oppositori è stata af­frontata con la violenza dagli apparati repressivi. Un attentatore kamikaze si è contemporaneamente fatto esplodere presso il mausoleo di Khomeini (e si tratta, come ognun capi­sce, di un fatto di grande impatto simbolico). So­prattutto, Mousavi, il can­didato sconfitto alle ele­zioni per la Presidenza, si è ribellato apertamente al­la Guida Suprema Khame­nei, è sceso in piazza con gli oppositori, si è dichia­rato pronto a morire e ha chiesto l'azzeramento del­le elezioni («i brogli erano pianificati da mesi» ha detto). Non sappiamo co­me finirà questa prova di forza, anche se al momen­to le carte migliori (gli ap­parati della forza, le mili­zie armate) sembrano es­sere saldamente nelle ma­ni di Khamenei e di Ahma­dinejad. Sappiamo però che il mondo occidentale deve ora fronteggiare un terribile dilemma.
Prima che arrivassero le nuove notizie sulla pro­va di forza in atto a Tehe­ran, le difficoltà di fronte a cui si trova l'Occidente erano ben illustrate da una apparente contraddi­zione. Nello stesso mo­mento in cui l'Unione Eu­ropea (con fermezza) e l'Amministrazione Oba­ma (con circospezione) condannavano i brogli elettorali e le violenze del regime contro gli opposi­tori, l'Italia confermava di avere invitato, in accordo con gli Stati Uniti, il mini­stro degli Esteri iraniano Mottaki a partecipare alla conferenza sull'Afghani­stan che si terrà a Trieste, in occasione del G-8, dal 25 al 27 giugno. Cinica re­alpolitik?
No, la contraddizione era figlia di un dilemma autentico. Da un lato, c'è infatti la necessità di assi­curarsi la collaborazione di una potenza regionale del peso dell'Iran per veni­re a capo della guerra in Afghanistan (e per stabi­lizzare l'Iraq). Dall'altro la­to, c'è il fondato timore che l'evoluzione in atto in Iran, la scelta della Guida Suprema Khamenei di so­stenere Ahmadinejad, e la possibile, definitiva, scon­fitta delle componenti ri­formiste, possano irrigidi­re ulteriormente le posi­zioni internazionali del re­gime. Con gravissimi ri­schi per la pace.
Non c'è, al momento, molto che dall'esterno si possa fare per favorire un' evoluzione della politica di Teheran che sia coeren­te con le aspirazioni di li­bertà di tanti iraniani e fo­riera di cambiamenti nel­la politica estera del regi­me. Anzi, come è illustra­to dal dibattito americano (di cui il New York Times ha dato ieri un ampio re­soconto) è anche possibi­le che un aperto sostegno occidentale, soprattutto americano, agli opposito­ri di Ahmadinejad e di Khamenei possa risultare controproducente, possa essere proprio ciò che ser­ve all'ala dura del regime per gridare al complotto internazionale e sbarazzar­si con la violenza degli op­positori.
Ciò spiegherebbe, secondo questa interpretazione, la cautela diplomatica fin qui tenuta da Obama nonostante la netta presa di posizione, quasi unanime, del Congresso a favore degli oppositori scesi in piazza a Teheran. Se la situazione precipita è difficile che Obama possa mantenere a lungo la posizione prudente assunta.
Se, come allo stato degli atti sembra probabile (ma c'è sempre, in questi frangenti, la possibilità di svolte repentine e imprevedibili), il regolamento di conti in atto mettesse completamente fuori gioco le componenti più moderate del regime, la politica estera iraniana diventerebbe ancora più pericolosa di come oggi è.
Finora, gli estremismi di Ahmadinejad erano, a detta degli specialisti di politica iraniana, parzialmente frenati dalla necessità, per Khamenei, di tenere conto dell'equilibrio delle forze fra le diverse componenti del regime. Rotto quell'equilibrio, spostato definitivamente il baricentro verso l'ala dura, sarebbe difficile immaginare una politica estera iraniana meno aggressiva. Tanto più che i fallimenti economici interni richiederebbero, per essere nascosti, una escalation della conflittualità con il mondo esterno. Con ricadute sul conflitto israeliano-palestinese, sull'Iraq e su altri scacchieri.
Nel suo discorso in Egitto di due settimane fa Obama ha proposto al mondo islamico di voltare pagina. Una parte di quel mondo ha accolto con favore l'invito. Ma un'altra parte no.
Quel discorso, pur innovativo, aveva un punto debole. Che succede se gli «uomini di buona volontà» delle diverse civiltà e religioni non riescono a tenere sotto controllo i fanatici e i propagatori d'odio?
L'universo politico (come scriveva il giurista Carl Schmitt) è in realtà un «pluriverso»: oltre che per le possibilità di compromesso lascia sempre spazio per differenze e odi irriducibili. Mentre si offre il dialogo occorre disporre anche di strategie alternative. E' il tema di una discussione che appare assai serrata all'interno dell'Amministrazione americana. Se in Iran la situazione precipita, se la fazione di Ahmadinejad, sostenuta da Khamenei, si sbarazza, anche fisicamente, degli oppositori, Obama dovrà presto dotarsi di qualche carta di riserva.

Corriere della Sera 21.6.09
Intervista. Lo storico inglese sull’atteggiamento da tenere
«L’Occidente esporti solo idee e tolleranza»
Paul Kennedy: intervenire è una follia
di Ennio Caretto


WASHINGTON — Secondo lo storico Paul Kennedy — l’autore di Ascesa e declino delle grandi potenze e Il parlamento dell'uo­mo — il contributo che l’Occi­dente può dare all’Iran «è un contributo di idee e di tolleran­za ». Più che cercare d’interveni­re in quella che definisce «la len­ta, dolorosa alba della democra­zia in Iran», l’America e l’Euro­pa, dice lo storico, devono cerca­re di alimentarne i principi che la guidano, la libertà e l’egua­glianza.
Il richiamo di Obama agli ayatollah al rispetto dei diritti ci­vili e la rinuncia alla violenza rientra in questa strategia. Il pre­sidente si è forse esposto ad ac­cuse d’interferenza da parte di Teheran ma, aggiunge Kennedy, «appellarsi all’umanità e alla ra­gione è diverso dal prendere du­re misure».
Finora Obama non è stato troppo attendista? L’Iran non è sull’orlo dell’abisso?
«Credo che sostanzialmente il futuro dell’Iran sia nelle mani del popolo iraniano e che l’Ame­rica abbia un connotato così ne­gativo nell’Islam da rendere con­troproducente delle sue eventua­li iniziative. Storicamente, in si­tuazioni quale questa, i grandi statisti come Bismarck si sono astenuti dal prenderle. Quasi un secolo e mezzo fa, l’Europa dibat­té se intervenire nella guerra ci­vile americana. Ma se lo avesse fatto sarebbe stata una follia».
Potrà però Obama astenersi dall’adottare nuove sanzioni contro Teheran se la situazio­ne peggiorerà?
«Presumo che si aprirà un di­battito al riguardo dentro l’am­ministrazione e con gli alleati. Ma sono del parere che abbia più senso un confronto con un paese come la Corea del Nord che non un confronto con una nazione come l’Iran. Tra l’altro, noi ignoriamo chi abbia davvero vinto le elezioni, se le autorità iraniane siano davvero unite, se lo scontro sia davvero tra le for­ze religiose e quelle secolari co­me sembra. Il mondo iraniano è molto complesso».
La repressione in Iran non neutralizzerà il contributo che l’Occidente può dare al popolo iraniano?
«La repressione ha quasi sem­pre successo fisicamente, ma non intellettualmente. L’Iran è la nazione islamica che ha più studiosi, medici e ingegneri. È un’antica civiltà, ed è capace di cambiamenti per quanto difficili siano. Inoltre il dissenso si avva­le di un medium che qualsiasi dittatura è impreparata ad af­frontare, Internet. Non dimenti­chiamo che il linguaggio degli iraniani riparati in Occidente è secolare, non religioso».
Secondo lei, a Teheran è in corso una rivoluzione?
«Non saprei come definirla. Alle dimostrazioni prima del vo­to mi colpì che i maschi giovani fossero in maggioranza a favore dell’ordine musulmano, e le fem­mine giovani a favore dei cam­biamenti, un fatto che induce al­cuni a parlare di un movimento dei diritti civili, e quindi di un’in­surrezione pacifica. Comunque, è chiaro che l’Iran è in preda a gravi, anzi gravissime scosse. Noi vediamo quelle di Teheran, ma si verificano in altre città, co­me accadde a Marsiglia o Lilla nella rivoluzione francese».
È possibile una sua risoluzio­ne pacifica?
«Gli islamici dicono che se uno azzecca una previsione non è perché è intelligente ma per­ché è fortunato. Tuttavia dubito che le due parti trovino un accor­do. La situazione in Iran mi ricor­da la Guerra dei trent’anni nel­l’Europa del Seicento tra cattoli­ci e protestanti. Sono di fronte due mondi opposti. Il conflitto è appena incominciato e finirà so­lo con la vittoria di una delle due parti».
Attualmente non vincono gli ayatollah?
«Sì, ma credo che dietro le quinte la situazione resti in bili­co. È dalla caduta dello scià trent’anni fa che il potere religio­so non si trovava alle prese con un problema di tali dimensioni. Quanto a lungo potrà tenerlo sotto controllo? Solo la Cina s’il­lude di mantenere sempre lo sta­tus quo. Ma ripeto, nell’età di In­ternet se un paese vuole progre­dire è quasi impossibile fermar­lo ».

l'Unità 21.6.09
Gaza, due anni di isolamento
E Hamas è più forte
di Umberto De Giovannangeli


Nella Striscia c’è più sicurezza. Ma la situazione è drammatica. E i palestinesi pagano con povertà e disoccupazione la rottura con Fatah e Anp

Hamas e Gaza. Due anni dopo la presa del potere. Radiografia di un consenso che non è venuto meno. Nonostante il blocco imposto da Israele. Nonostante una guerra che ha provocato morte e distruzione. Osservatori ed esponenti politici palestinesi su una cosa convengono: Hamas ha posto fine al caos e all’anarchia nella Striscia e ha assicurato alla popolazione, anche se a caro prezzo, un minimo di stabilità. Prima che Hamas prendesse il potere c’erano, in lotta tra loro, 12 servizi di sicurezza «il cui solo scopo era di causare anarchia» dice Ihab al-Ghussein, portavoce del ministero per la sicurezza nel governo di fatto di Hamas, non riconosciuto dalla comunità internazionale. «Una forza di 14 mila persone, circa un quarto delle truppe al comando del Fatah - prosegue al-Ghussein - è riuscita a ridare sicurezza alla popolazione». È vero, risponde Talal Oukal, docente all’università al-Zahar di Gaza; ma poi aggiunge che la spaccatura tra Hamas e Fatah - con Gaza nelle mani di Hamas e la Cisgiordania, col placet di Israele, sotto il relativo controllo dell’Autorità palestinese e del Fatah, «è stata pagata a caro prezzo dai palestinesi».
Consenso e repressione Per Oukal le due linee di azione nei confronti di Israele - la lotta armata propugnata da Hamas e il dialogo sostenuto dal Fatah - «sono egualmente fallite». Inoltre il rigido blocco della Striscia imposto da Israele dopo la presa del potere di Hamas, afferma, hanno aggravato le difficoltà di vita a Gaza, dove la disoccupazione e la povertà hanno raggiunto livelli da record mondiale. Il blocco israeliano, denuncia Marwan Khalil, un ristoratore di 35 anni, ha fatto salire vertiginosamente i prezzi e causato la chiusura di negozi. «Sembra di vivere in prigione, abbiamo paura di ammalarci perché non è possibile partire da Gaza per ricevere adeguate cure mediche». Anche Khalil Abu Shamal, attivista sei diritti umani, accusa Israele e la comunità internazionale, e non direttamente Hamas, della drammatica situazione socio-economica nella Striscia.
A dispetto delle difficoltà economiche, del blocco, dei danni causati dall’offensiva militare israeliana lo scorso gennaio, è un fatto non contestato che il movimento islamico in due anni è riuscito a consolidarsi al potere a Gaza. È la convinzione dell’esponente di Hamas Ismail Radwan condivisa anche dal docente di scienze politiche Mukhaimar Abu Sàada. «A quanto pare - dice - l’assedio non ha dato i frutti che Israele sperava. Semmai ha rafforzato il potere di Hamas e anzi ne ha aumentato i consensi». Fehmi al-Zàarie, un portavoce del Fatah, accusa Hamas «di repressione delle libertà personali e collettive e dei diritti politici delle forze avversarie». È d’accordo anche Abu Shamala per il quale «la situazione di diritti umani, culturali, economici e sociali è peggiorata». Ma di ciò incolpa la rottura tra Hamas e Fatah.
La sfida qaedista A sfidare l’ordine garantito da Hamas nella Striscia sono i gruppi più estremi dell’arcipelago jihadista. Tra questi «Jaljalat», ossia «Tuono dirompente», nato due anni fa mentre Hamas conquistava il potere con la forza espellendo da Gaza gli uomini di Abu Mazen. Raccoglie fuoriusciti di Hamas ed ex militanti di un altro gruppo filo Al Qaeda, l’Esercito dell’Islam. In mesi recenti a Gaza sono venute alla ribalta altre sigle che si ispirano alla Jihad mondiale: fra questi «Jund Ansar-Allah» (I Soldati del Dio vincente), che hanno nelle loro file anche mujiaheddin stranieri, «Jaish al-Umma» (l’Esercito della Nazione), e l’Esercito dei credenti. Sono alcune centinaia di miliziani, oggi la spina nel fianco di Hamas. (ha collaborato Osama Hamdan)

il Riformista 21.6.09
Noi comunisti letterari della Napoli togliattiana
di Alberto Alfredo Tristano


Ermanno Rea. «Per un mese il Migliore non mi parlò mai di politica, solo di letteratura». Intervista-ritratto di un singolare gruppo di militanti. Da Massimo Caprara (recentemente scomparso), all'irregolare Renzo Lapiccirella («il partito scialacquò il suo talento»), a Giorgio Amendola («rigoroso e poco incline alle scapigliature»).
In alto, Massimo Caprara. Nella fotografia al centro, Giorgio Amendola. Qui sopra la copertina ...

Comunismo letterario. Delle diverse forme in cui si declinarono azioni e biografie del Pci, quella napoletana nel dopoguerra ebbe il fascino di una narrazione, quasi di un romanzo generazionale, così fitto di osservanti e dissidenti, sregolati e irregolari, apocalittici e apostati. Il cemento della militanza, un gradino sotto la battaglia per una Napoli finalmente nuova, per molti fu la letteratura, diffusa passione della meglio gioventù comunista partenopea. E acquista valore di rappresentazione collettiva quanto disse Massimo Caprara, scomparso martedì scorso, rievocando il primo incontro nel '44 con Palmiro Togliatti, di cui sarebbe diventato di lì a poco segretario particolare: «Per un mese il Migliore non mi parlò mai di politica. Solo di letteratura, italiana e francese».
Comunismo letterario fu dunque quel comunismo, secondo la definizione che ne dà Ermanno Rea in questa conversazione con il Riformista. Rea di quel gruppo fu militante, iscritto al partito negli anni Cinquanta, giornalista in forze alla redazione partenopea dell'Unità. Tempi rievocati nel libro "Mistero napoletano". «Ancora oggi sono rimasto con la testa in quegli uffici all'Angiporto Galleria. Uffici che sono la mia giovinezza, che per me si chiuse, almeno formalmente, quando decisi di lasciare Napoli, ma che ho ritrovato nella tardiva scrittura di "Mistero napoletano", vera e propria ricerca del tempo perduto. Quel libro sollevò molte polemiche e malumori. Sono convinto che la vecchia guardia del Pci sia stata incapace di sottoporre a un esame critico spregiudicato la vicenda vissuta, preferendo rimuoverla, ignorarla. Perché? Il fatto è che molti avevano abbracciato il comunismo in maniera acritica, con un'adesione di tipo fanatico. Ci furono invece, e io tra questi, coloro che la vissero senza sottrarsi alle sue dure contraddizioni. Eravamo un partito stalinista, in cui vigevano il culto della personalità e tante altre assurde anomalie antidemocratiche. Nello stesso tempo però quel partito conduceva grandi battaglie per il rinnovamento sociale, ponendosi come il rappresentante più intransigente della Costituzione. Che diventò la nostra bandiera. E c'era poi uno sforzo concreto per la modernizzazione di Napoli, per un riscatto che avrebbe dovuto bonificare il vicolo. Osservo con sbigottimento la scelta di quanti hanno smesso d'essere comunisti per diventare, con non meno fanatismo di prima, anti-comunisti. Vivendo il tutto con una nevrosi permanente: evidentemente il comunismo ha prodotti molti malati. Io, come altri, dopo i fatti d'Ungheria non mi sono più iscritto al partito, ma non rinnego, anzi rivendico la mia militanza a quel Pci, perché iscriversi a quel Pci fu la cosa migliore che un giovane animato da impegno sociale potesse fare allora».
L'adesione al partito comunista riguardò anche molti figli dell'alta borghesia cittadina. Togliatti scelse come suo braccio destro Caprara, preferendolo per esempio a Renzo Lapiccirella, personaggio scomodo del partito a Napoli, che con lo studio aveva riscattato le umilissime origini diventando medico, ma aveva poi anteposto alla medicina la militanza. La storia di Lapiccirella e del suo amore sfortunato con la suicida Francesca Spada è l'architrave del "Mistero". «Non so dire perché il partito scialacquò il talento di Lapiccirella e di tanti altri irregolari come lui. Ma è certo che la borghesia napoletana ci fornì alcune delle sue risorse migliori. Penso a Mario Palermo, avvocato di grande nome che segnò la strada a molti di noi. Penso a Renato Caccioppoli, matematico insigne, nipote dell'anarchico Bakunin, non organico al partito ma comunque nella sua orbita. E poi Giorgio Amendola, figlio di Giovanni, esponente della grande borghesia intellettuale e liberale. Non c'è dubbio che Amendola fu la figura più eminente del Pci napoletano di quel periodo e per lunghi anni a seguire, per il carisma che gli derivava anche dalla provenienza sociale, perché non bisogna dimenticare che il consenso si ottiene in molti modi, anche col cognome. Amendola fu un riferimento sicuro, gestendo sapientemente il Pci locale, in qualche caso senza rinunciare alla mano pesante. Era un uomo rigoroso e poco incline alle "scapigliature". Si racconta per esempio che una volta rimproverò Caccioppoli per un suo intervento pubblico svolto a braccio senza seguire una scaletta. Ma Caccioppoli era un istintivo, uno che viveva delle sue contraddizioni, con un rapporto critico rispetto al partito, vissuto né come chiesa né come inferno. Non apparteneva al genere degli affermativi, degli ortodossi. Viveva dei suoi dubbi. Come Lapiccirella. Come Francesca Spada. E tanti altri: i personaggi a cui io mi sentivo più legato».
«Amendola tenne le redini di un gruppo certamente multiforme, che avrebbe espresso molta classe dirigente del Paese, fino ai massimi livelli, anzi oggi al più alto in assoluto, e cioè la presidenza della Repubblica, con Giorgio Napolitano. Che, da amendoliano rigoroso, ha saputo vivere il suo comunismo senza lacerazioni, ma sempre conservando l'intelligenza del futuro. Con lui mi piace ricordare Maurizio Valenzi, grande sindaco di Napoli, di cui quest'anno festeggeremo i cento anni, vissuti con un impegno senza mai sussiego».
Il partito voleva dire anche il giornale. L'Unità. «Quando andai via da Napoli e mi fu proposto di lavorare nella stampa che noi chiamavamo "borghese", decisi piuttosto di farla finita con la scrittura, perché avrei vissuto la svolta come un tradimento. Mi misi così a fare il fotografo, in giro per il mondo. Sarei ritornato alla carta stampata solo alcuni anni dopo. Sin da ragazzo ho sognato di scrivere libri. Ma ho rimandato ripetute volte perché convinto che la vita bisognava conoscerla prima di raccontarla».
Ai primi di luglio la Bur manderà in libreria la trilogia napoletana che Rea è andato componendo nel corso degli anni: "Mistero napoletano", "La dismissione" dedicata all'Ilva di Bagnoli e il più recente "Napoli Ferrovia". Il titolo del volume sarà "Rosso Napoli. Trilogia dei ritorni e degli addii ": mille pagine di racconto su quel che è stata la città nell'ultimo cinquantennio.
E intanto Rea si prepara per un viaggio negli Stati Uniti: «Sarò nel Vermont per un incontri di lezioni universitarie dedicate all'Italia e agli italiani, intesi come figli della Controriforma. Il punto di partenza per queste conversazioni sarà un testo di Bertrando Spaventa, preziosa figura di filosofo legato all'hegelismo che a Napoli ebbe una scuola notevole, e che influenzò a mio parere anche l'attività del nostro Pci, che vi trasse il richiamo all'unità dello Stato e all'ordine, idea maturata nella città del caos e del sottosviluppo. Spaventa alla metà dell'800 scrisse un libro sul mondo etico di Giordano Bruno intitolato "Rinascimento, Riforma e Controriforma" in cui sostiene che il cittadino responsabile è stato inventato in Italia con l'Umanesimo e il Rinascimento, che mette l'uomo al centro del mondo. È il cittadino che vive secondo le regole, che cura la propria civiltà. Nell'analisi che del testo fa Eugenio Garin, tra i maggiori studiosi di Spaventa, questo cittadino con la Controriforma viene espulso dall'Italia lasciando il posto a un suddito deresponsabilizzato: l'uomo non è più al centro del mondo, anzi gli viene preclusa l'intraprendenza e l'autonomia di giudizio, e chi si azzarda a contravvenire alla regola è un eretico da eliminare. Di contro, Spaventa esalta il «carattere germanico de' Riformatori», che non credono nella povertà predicata dalla Chiesa ma piuttosto nel lavoro, anzi nel godere del proprio lavoro. Io ritengo che lo scandalo del suddito irresponsabile sia ancora tra noi, e che in Italia ne abbiamo avuto la migliore rappresentazione nella nostra più feroce commedia cinematografica, con i suoi "Mostri", i "Vitelloni", italiani un po' mammoni, un po' puttanieri, un po' imbroglioni. Guai naturalmente ad assumerli come ritratto del carattere nazionale, ma certamente alcuni elementi tendenziali di comportamento sono giusti e ahimé inalterati. Credo che lo dimostrino le attuali vicende che interessano il nostro presidente del Consiglio, che a me ricorda quell'Achille Lauro di cui cinquant'anni fa noi comunisti fummo avversari totali».
«L'idea del suddito irresponsabile introduce l'idea di come governare questo tipo di uomo, e nelle conversazioni in America introdurrò il tema della democrazia bloccata che ha caratterizzato la vicenda italiana durante la Guerra fredda. Democrazia bloccata: una specie di ossimoro, perché se è bloccata vuol dire che è una democrazia solo di forma. Come è possibile mantenere una democrazia solo sul piano formale? La risposta che mi sono dato è che questo avvenga svendendo la legalità per acquisire consenso. Il carburante della democrazia diventa così l'illegalità, l'impunità. Si pensi allo scandalo dei rifiuti tossici. Se ne parla riferendosi alla Campania, eppure mai si ricorda che, quel accade oggi lì, è accaduto anni prima al Nord, devastando il Po, l'Olona, il Lambro e così via. Il male della democrazia riguarda la nazione intera. E qui nasce l'accusa al ceto politico di ieri e tanto più di oggi: ma se sapevano perché non hanno parlato? E se non sapevano, perché non si sono dimessi per il loro mancato controllo, per la loro inconsapevolezza? A Napoli abbiamo visto le conseguenze più perverse di uno scempio che è nazionale. E a chi mi domanda al riguardo, rispondo: non chiedetemi cosa accade a Napoli, chiedetemi piuttosto cosa accade in Italia».

Repubblica 21.6.09
Naufragi
Nell'abisso e ritorno
di Giuseppe Montesano


Un rito di passaggio per il quale valgono i versi di Hölderlin: "Dove è pericolo, vi è anche salvezza"
Come Ulisse, forse gli scampati e i dispersi che siamo hanno ancora molto da raccontare
Da Gilgamesh a Moby Dick, Gulliver e Robinson Crusoe. Dall´Odissea al Titanic passando dai quadri di Turner, Delacroix e Géricault Un libro ripercorre l´idea romantica per eccellenza: perdersi nell´abisso e sopravvivere rigenerati Anche quando l´ignoto non è l´oceano, ma il mondo moderno, la mediocrità, la chiacchiera, il nulla

La nave è ferita, sfondata, immobilizzata da lastre di ghiaccio preistorico, forse è sconquassata da secoli, forse è stata morsa da marosi pietrificati un attimo fa, forse si è conservata nella frantumazione del gelo dai primordi della Creazione, o forse si sta spaccando ora negli occhi che guardano affascinati e atterriti: così appare il naufragio sublime che il pittore romantico Caspar David Friedrich dipinse due secoli fa e chiamò Mare di ghiaccio. Le immagini di Friedrich, insieme a quelle dei naufragi infuocati e tempestosi di Delacroix, e Géricault, e Turner, tornano in un bellissimo e agile libro di Esperanza Guillén Marcos pubblicato da Bollati Boringhieri: Naufragi. Immagini romantiche della disperazione. La Guillén parte dall´idea di Sublime in Kant per leggere nei naufragi in mare l´idea romantica di disfatta eroica, la figura avventurosa di un´esperienza del viaggio e del pericolo supremo che ossessionò i Romantici da Byron a Hugo. Ma la figura del naufragio è antichissima, e ambigua fin dalle origini.
In Mesopotamia, due millenni prima di Cristo, nel poema di Gilgamesh, il diluvio universale è una tempesta in cui i mari inferi salgono a galla e distruggono tutto tranne il battello di Gilgamesh, che sopravvive per ricostruire il mondo. Ma mille anni dopo, nella Grecia di Omero, il naufragio che sbatte Ulisse nudo davanti a Nausicaa è già diventato una metafora: Ulisse, lo scampato, non ricostruisce niente, racconta solo una storia.
Nell´epoca in cui i naufragi erano una realtà quotidiana, tra Cristoforo Colombo e il Colonialismo, l´affondamento di una nave e la morte di tutti tranne uno sembra assumere un senso positivo. È grazie a un naufragio che Robinson Crusoe scopre di saper vivere da solo nella Natura; in Swift è con un naufragio che Gulliver ha la rivelazione che il mondo cosiddetto civile è un universo falso, retto da leggi assurde; ed è un naufragio magico che nella Tempesta di Shakespeare ripristina l´ordine e fa trionfare la giustizia.
Sembra che il lavacro nelle acque in tempesta sia simile a un rito di passaggio, una prova che dà inizio a una trasformazione, un disastro per il quale valgono i versi di Hölderlin: «Là dove è pericolo, cresce anche la salvezza». E i primi veri poeti della modernità confermano questa idea di una prova iniziatica, che a loro però è vietata: nel Battello ebbro Rimbaud si augura che il battello della sua mente-corpo sia squassato dalle tempeste e che la sua chiglia «scoppi», ma cade in una quieta disperazione quando scopre che il naufragio rigeneratore è un sogno, e il battello ebbro è stato sostituito da una barchetta di carta che un bambino fa scivolare in una pozzanghera; Baudelaire nel Voyage invita il lettore a seguirlo «in fondo all´abisso», nel solo naufragio che può condurre ancora al «nuovo», ma il nuovo è possibile solo pagandolo con la morte: «O Morte, Vecchio Capitano, leviamo l´ancora…».
In forme variate all´infinito il tema di Ulisse che sopravvive per narrare non finisce, e arriva fino al Melville di Moby Dick: un immenso flashback narrato da Ismaele, il solo scampato al naufragio. Ma mentre raccontava l´ultima epica del naufragio nel Male, Melville stava inventando con Bartleby lo scrivano un´altra figura di naufragio, totalmente moderna e metaforica: il naufrago nell´anonimato del lavoro meccanizzato, il sopravvissuto perso in un mondo estraneo, l´impiegato universale privato dell´avventura e la cui sola resistenza al male è un lapidario «preferisco di no».
Il vecchio Melville, ex marinaio e scrittore fallito arenato per vivere in un impiego alla dogana di New York, ha capito che i viaggi sono finiti, e i naufragi sono ormai di altra specie. In America Kafka farà naufragare Karl Rossman nell´immensità spersonalizzata dell´America, e lo definirà "il disperso"; l´uomo di Sartre resterà chiuso in una stanza, naufrago nel Niente e nella Nausea; l´Io di Heidegger si perderà nell´Abgrund, l´abisso senza fondamento, o affogherà nella Chiacchiera; e, sepolto in una buca, immobile, con solo la testa fuori dal deserto, il sotto-essere di Beckett racconterà in Giorni felici la fine frivola e banale di ogni sublime.
Fine di tutto? No, qualcosa ancora galleggerà della vecchia metafora, affiorando in uno dei rari grandi poemi postmoderni, La fine del Titanic di Hans Magnus Enzensberger, dove, nell´anno di piombo 1978, si racconta il naufragio delle illusioni di progresso e di democrazia della Modernità, con un sopravvissuto che come Ulisse parla, ma parla una lingua indecifrabile: «Non era né un morto né un Messia, e nessuno comprese quel che diceva». Quel che diceva lo scampato del Titanic lo capiamo appena oggi, nel naufragio che nessuno vuole vedere e chiamare con il suo nome: forse gli scampati e i dispersi che siamo hanno ancora molto da raccontare.