martedì 23 giugno 2009

l’Unità 23.6.09
Torna il «Nuovo Cinema» di Pesaro vecchia formula ma vincente
Gli omaggi a Lattuada e al cinema israeliano
La lezione di Bellocchio
di dario Zonta


«Io quest’anno andrei a Pesaro!». Se dovessimo immaginare uno slogan per promuovere la 45°Mostra del Cinema Nuovo di Pesaro, useremmo questa frase per sottolineare «una» scelta precisa tra le molte offerte dell’estiva Italia cinematografica. Perché siamo innanzi a un evidente paradosso: da una parte c’è una moltitudine imprecisata di rassegne, eventi, omaggi, percorsi… l’allegra e spensiarata industria cultural cinematografica; dall’altra si registra una sostanziale crisi del «sistema festival», crisi culturale e politica e ora anche economica. Per fare un esempio: nell’ultima edizione del Festival di Bellaria, la contingente campagna local-elettorale del centrodestra si è concentrata proprio sullo storico festival (alla 27a edizione), definendolo «ciarpame di sinistra» e proponendosi di cancellarlo. Il centrodestra ha vinto e forse Bellaria non ci sarà più. Il comune romagnolo s’affaccia sulla stessa costa di quello di Pesaro e s’è nutrito per anni di uno stesso umore cinefilo e culturale. La Mostra di Pesaro certo è più solida e matura ma i brutti venti di questa nuova temperie aculturale battono sempre sullo stesso dente. Cinema uguale sinistra, festival uguale ciarpame di sinistra. Risultato: abbattere la tradizione e favorire il generico fiorire di manifestazioni pseudo-culturali.
Come difendersi? Gli organizzatori di Pesaro hanno fatto scelte precise: tenere alto il profilo, non rinnegare la tradizionale funzione, perpretare il proprio rigore, andare fino al fondo di una formula che si pensa non esaurita. Il programma di quest’anno garantisce la continuità: omaggi a un grande del cinema italiano (Lattuada) e a una cinematografia da scoprire o riscoprire (il nuovo cinema israeliano); apertura consueta alla fiction sperimentale e al documentario, lezione di un regista italiano (Marco Bellocchio sull’uso della musica), selezione di film da festival internazionali in piazza… e altro, consultabile sul sito www.pesarofilmfest.it. Io andrei a Pesaro perché sicuro di trovare il frutto di un lavoro serio e preciso.

Repubblica 23.6.09
Noi scrittori assassinati da Foucault
di John Banville


Ecco come il romanziere irlandese risponde alla teoria filosofica che sostiene l´inesistenza dell’autore
Il me stesso che scrive non è lo stesso che vedete
Non sappiamo cosa diciamo perché "veniamo parlati"

"Che importa chi sta parlando?" è la domanda che, in modo irritante, pone uno dei moribondi narratori di Beckett e il fatto che io non riesca a ricordarmi chi sia costituisce forse parte della risposta. In chiusura di Le parole e le cose Michel Foucault, notoriamente, riformulò la domanda durante le esequie –certamente premature – per la "morte", in generale, dell´autore. Se Beckett avesse conosciuto, cosa che probabilmente avvenne, l´opera di Foucault, avrebbe di certo approvato con grande entusiasmo la campagna, in un certo qual modo sinistra, dell´intellettuale francese per l´annichilimento dell´autorità del romanziere, o del poeta – o in verità dovremmo presumere, del filosofo-autorità sul proprio lavoro.
Per Foucault, come per molti altri fanatici delle paludi accademiche di circa una generazione fa, la risposta alla domanda di Beckett non è tanto un chi bensì un cosa. Secondo Foucault, non si tratta dell´autore che parla o scrive ciò che scrive, ma è il linguaggio stesso, con tutti i suoi echi e riverberi, i suoi sibili e ululati provenienti dall´oscura foresta del passato. Noi non sappiamo cosa diciamo quando parliamo, perché in realtà non parliamo, bensì veniamo parlati, e quello che noi pensiamo come un discorso razionale non è altro che un confuso barcollare nel sottobosco che i millenni di utilizzo hanno depositato sul suolo della foresta. La selva oscura di Dante è una boscaglia di parole logore nella quale non ci svegliamo mai totalmente.
La campagna del ventesimo secolo per declassare lo scrittore da creatore a strumento, da padrone del linguaggio, come Oscar Wilde lo intese, a suo schiavo, fu fortemente osteggiata da molti critici e accademici, specialmente in Inghilterra, dove la teoria è criticata e i neo Giacobini della cultura francese godono di una considerazione che è un miscuglio di disprezzo, paura e risentito divertimento. Fu il silenzio degli innocenti, comunque, a essere notevole. La maggior parte degli scrittori – ovvero gli scrittori creativi, come veniamo chiamati – si sottrassero al dibattito. Come mai, perché non protestammo mentre Foucault e i suoi compari cercavano di mandarci al macello? Credo si trattasse del fatto che sentivamo, con fastidio, ma con un certo sollievo, che il nostro segreto era stato scoperto, che la nostra essenziale non-esistenza, la nostra inesistente essenza, era venuta alla luce.
Qualche anno fa la Rte, la rete televisiva nazionale irlandese, commissionò un documentario su di me e sui miei lavori, dando enfasi, dietro mia insistenza, all´opera. Il direttore del programma, anch´egli un auteur, era acuto e perspicace e il programma che ne derivò eccellente, meritandosi, a giusto titolo, molti consensi. La prima domanda che mi pose, il primo giorno di riprese, fu, «Chi è ?». Sullo schermo appaio esitante per un lungo istante prima di fornire quella che all´improvviso mi sembrò l´unica risposta possibile. «Beh, vede», risposi, «non c´è nessun John Banville». In quel momento non capii del tutto che cosa intendessi. Certamente, e voi potete vederlo, esiste un John Banville, ed è il povero forcuto essere umano che si alza al mattino, si veste, fa colazione, si avventura fuori nel mondo quotidiano, che ha opinioni e va a votare alle elezioni, che ama i suoi bambini e che un giorno morirà. Ma quel John Banville non è lo stesso il cui nome appare sul dorso dei suoi libri. Non si tratta del John Banville che sogna una storia e la popola di personaggi. Non è il John Banville che se ne sta tutto il giorno seduto alla scrivania a lavorare sulle parole. Quell´altro, misterioso, John Banville è, in un parola, invisibile.
Più avanti nel documentario Rte – il cui titolo, a ogni modo, e non in maniera insignificante, era Essere John Banville – c´è una divertente e illuminante sequenza di stregoneria tecnica che mi vede seduto alla scrivania, ipoteticamente immerso nel lavoro, mentre allo stesso tempo un altro me, identico a quello seduto, gira per lo studio intento a prendersi cura delle piante di casa con un innaffiatore. È una bella metafora e illustra in modo arguto una delle tematiche principali che io e il regista seguimmo per tutto il programma – lo stesso tema, ovviamente, che sto trattando qui oggi, cioè, il tema della duplicità dello scrittore.
Quando faccio letture in pubblico o partecipo a prestigiose manifestazioni come questa, e incontro faccia a faccia alcuni dei miei lettori, mi sembra di cogliere nei loro occhi il sorgere di uno sguardo di leggero disappunto, di insoddisfazione. È come se la persona per la quale erano venuti, nella speranza di incontrarla, non si fosse presentata. È come se il John Banville dinanzi a loro, quello che cerca di fare del suo meglio per essere non solo cortese, ma anche plausibile, non fosse, in qualche modo, il John Banville che pensavano di conoscere dalle pagine dei miei libri. E hanno ragione – non è la stessa persona. Quel John Banville, gli voglio dire, quello che scrive le storie che loro ammirano, esiste solo quando questo John Banville si siede alla mia scrivania ogni mattina e impugna la mia penna, e cessa di esistere quando, giunta la sera, poso la penna.
Che relazione esiste tra questi due, lo scrittore che è visibile davanti a voi adesso e l´altro che se ne sta invisibile accanto a me? Tutti sperimentiamo questo dualismo, o qualcosa di molto simile, quando alla sera ci sdraiamo a letto per dormire. Per un po´ l´occupante si gira e si rigira, mentre con la mente ripercorre gli avvenimenti della giornata, preoccupato per gli errori e i misfatti e celebrando i piccoli trionfi. In breve, comunque, si leva da lui l´ectoplasmico altro, quello sognante, che prende il controllo e parte per uno sfrenato giro di piacere notturno, fatto di sgommate lungo tornanti, immersioni a profondità impossibili, svolazzando anche per aria, a volte, mentre figure bizzarramente familiari lo salutano e si prendono gioco di lui, oppure si gettano sul suo cammino facendo capriole e piangendo. Poi arriva il mattino e il suono stridulo della sveglia; il dormiente si sveglia e la sua vampiresca versione notturna si rintana ancora una volta nella cripta, nell´attesa di un altro crepuscolo.
Quello che sogna, quello che scrive: sono cugini di primo grado se non, in realtà, fratelli gemelli. E ora, sebbene io non sia sicuro chi di noi stia parlando, Banville e io vi porgiamo il nostro evanescente saluto di congedo e diventiamo... invisibili.
(traduzione di Rino Serù copyright 2008 by John Banville)

Repubblica 23.6.09
L’amnesia della morale
di Edmondo Berselli


In un paese tutto televisivo, da almeno due decenni la politica è stata sostituita dalle immagini dei telegiornali, unica autorappresentazione del potere.
Si capisce facilmente allora come negli ultimi giorni, nonostante le inchieste di giornali come la Repubblica, sia stato possibile azzerare lo scandalo della prostituzione di regime, oscurare i fatti e annullare il giudizio dell´opinione pubblica. È stato lo stesso Silvio Berlusconi a delineare la strategia: se tutti tacciono, lo scandalo scivola via, e del premier rimane soltanto l´immagine, colorata dalle tv compiacenti, di un uomo di Stato.
Anche questo in realtà è uno scandalo nello scandalo. La prova di una torsione così violenta da ridurre il paese al grado zero della politica. Perché ciò che colpisce, o piuttosto ciò che dovrebbe colpire oggi la coscienza generale, non è solo l´indifferenza anonima e spesso compiacente delle platee televisive, narcotizzate dalla "normalità" degli show privati organizzati dal circuito padronale berlusconiano. È piuttosto la sensazione "tragica" del degrado che ha contagiato uno dei vertici istituzionali. Ed è per questo che sorprende, e quanto, la sottovalutazione in cui prende forma il giudizio delle classi dirigenti, secondo il calcolo cinico per cui il potere può permettersi qualsiasi scarto rispetto alla regola collettiva.
Il risultato è semplice e spettacolare insieme. Nel racconto delle protagoniste, presunte soubrette o modelle, una sede di fatto istituzionale come Palazzo Grazioli, residenza del capo del governo, è stata ridotta a un privé di escort, ragazze disponibili, teatro di incontri intimi, corteggiamenti sotto l´occhio delle guardie del corpo. Villa Certosa in Sardegna si è trasfigurata in una location di spettacoli grotteschi, talvolta a quanto pare con le aspiranti meteorine in costume da Babbo Natale, in una specie di Hollywood Party strapaesano, o di seriale addio al celibato.
Tutto questo senza che ci sia stata una presa di distanza, o semplicemente un giudizio esplicito, da parte delle élite nazionali: anzi, nell´understatement generale, cioè nella condiscendenza di chi detiene responsabilità pubbliche e private, è come se le ragazze che si fotografano a vicenda nelle toilette di Palazzo Grazioli appartenessero anche stilisticamente a un mondo plausibile: il mondo di Noemi, il mondo di Casoria e delle feste notturne a strascico, il mondo notturno e terminale di Berlusconi e del berlusconismo. Come se quelle fotografie, quegli abiti, quei maquillage designassero lo standard stilistico dell´Italia contemporanea, una misura morale fisiologica, perfetta per i tempi, irriducibile a codici e status che non siano quelli negoziabili del denaro e del corpo.
Prudenze e cautele prelatizie hanno segnato le parole delle comunità di riferimento. Al di là dei giudizi, chiari ma volutamente interlocutori sul piano politico, di Avvenire, ossia il giornale della Conferenza episcopale, non si sentono in giro voci che stigmatizzino la trasformazione di Palazzo Grazioli e di Villa Certosa in una casa di bambole. Pochi sembrano essersi posti il problema della grave caduta che investe l´immagine del nostro paese sul piano internazionale, e ancora meno appaiono coloro che si pongono il dubbio di quale sarà il clima in cui si svolgerà il G8 dell´Aquila.
Pochissimi, infine, hanno affrontato il tema, colossale, dello scadimento della qualità, e della intrinseca legittimità, del nostro sistema democratico. Insomma, dovremmo essere tutti sotto choc, con una classe dirigente traumatizzata dalle lacerazioni comportamentali di un uomo come Berlusconi, che ha trasferito nel nulla dell´intrattenimento edonistico i contorni del governo, e invece stiamo assistendo a una dissonanza cognitiva perfetta, secondo cui tutto questo è normalità, naturale modernità del gusto, etica ed estetica canoniche, insomma il criterio senza eccezioni a cui ci si confà perché è il vero "pensiero unico" che accomuna nell´autocompiacenza le classi di comando.
Viene da chiedersi tuttavia se questa misura doppia, se il codice che attribuisce la dismisura del potere a chi lo detiene, sia compatibile con la semplice convivenza civile: e viene da rispondere che no, è troppa la distanza fra i saturnalia del sultano e la vita della gente comune. Gli arcana imperii sono tollerati quando risultano iscritti nel segreto, non quando diventano un´esibizione sfrontata e a suo modo feroce. Qui invece, con i ludi fotografici di Palazzo Grazioli, si evoca un vistoso vulnus democratico, dal momento che essi rappresentano la manifestazione sfacciata secondo cui al possessore del comando tutto è possibile, e tutto è dovuto, perfino l´indulgenza.
Ecco, in questo clima di sospensione morale, di fronte a una specie di sorda dichiarazione di irresponsabilità, c´è la minaccia che l´amnesia etica diventi una condizione reale di deficit democratico e civile. Alla fine la doppia misura, una che si applica a Berlusconi e una al popolo, ha un prezzo. Sono già state poste le premesse di una sudditanza. E la credibilità di un intero sistema, nella sua dimensione istituzionale, si dilegua. Resta soltanto la protervia del potere sostanziale, e dello spettacolo che ha allestito nella certezza dell´impunità. Tanto, nell´ipnosi del buio televisivo, quel prezzo lo pagheremo caro, e lo pagheremo noi.

l’Unità 23.6.09
Intervista a Bani Sadr, primo presidente dell’Iran khomeinista
«In Iran è rottura tra il regime e il popolo. Vincerà la democrazia»
di Gabriel Bertinetto


Il primo presidente: «Nel ’99 scesero in piazza gli studenti
oggi protesta l’intera nazione. Non ci sono solo giovani e ceti medi
ma anche operai e parte del clero. Il vero obiettivo è l’ayatollah Khamenei»

Al telefono da Parigi, Bani Sadr, primo presidente dell’Iran khomeinista. Ruppe quasi subito con la Republica islamica e fu costretto all’esilio.
«Come interpreta ciò che accade in Iran, presidente?
«Ormai è chiaro che il movimento punta direttamente contro Khamenei. È rottura fra regime e popolo. Qualunque cosa accada, il regime è condannato a sparire ed essere rimpiazzato dalla democrazia».
Diversamente dal passato questo movimento vuole cambiare il sistema anziché limitarsi a riforme interne?
«Anche in passato abbiamo avuto mobilitazioni di questo tipo, ma non di questa ampiezza. La protesta del 1999, circoscritta a Teheran e altre città universitarie, ebbe per protagonisti gli studenti. Oggi in lotta è l’insieme della nazione, donne, uomini, giovani, operai, insegnanti, e persino parte del clero. Non solo in alcuni grandi centri urbani, ma ovunque. In ogni città la notte ormai appartiene al popolo. Dai tetti delle case si alza il grido: «Allah è grande, abbasso Khamenei». Nessuno può spegnere quelle invocazioni. Non hanno abbastanza uomini e mezzi per entrare in ogni casa».
Non teme la forza e la fedeltà al governo degli apparati repressivi, Pasdaran e Basiji in particolare?
«Non sono così potenti come appare. I Pasdaran stessi sono divisi in fazioni, ognuna delle quali fa capo a un diverso leader. Persino Mousavi ha i suoi partigiani fra loro. Ecco perchè nessuno potrà usare i Pasdaran per una repressione vasta e diffusa. Inoltre, benché il regime sia poco sensibile all’opinione pubblica occidentale, lo è molto di più in ambito regionale e musulmano. Scatenare una repressione che ricordi i tempi dello Shah, danneggerebbe l’immagine del regime nel mondo islamico. Ecco perché non possono spingere la violenza oltre ogni limite. E poi la rivolta è troppo estesa, per essere affrontata con interventi quotidiani e prolungati».
Che giudizio dà su Mousavi?
«Fu primo ministro 8 anni ai tempi della guerra e della grande repressione lanciata da Khomeini. Il suo passato è indifendibile. Oggi qualcuno minaccia di fargli fare la fine mia, cioè esiliarlo. Altri gli preannunciano una condanna a morte. Nonostante tutto resiste. Spero continui. Ma anche se cedesse, il movimento non dipende da lui. Era già iniziato prima che lui contestasse l’esito del voto».
È credibile una frode elettorale di dimensioni così enormi?
«Sì, è avvenuta. Consideri che in Iran la macchina elettorale dispone di 32mila urne fisse e 14mila mobili. A parte il fatto che 15mila di queste urne erano sotto il pieno controllo dei Pasdaran, se calcoliamo che ogni elettore impieghi almeno un minuto per votare, nelle 13 tredici ore d’apertura dei seggi, al massimo riuscirebbero a andare in cabina 26-27 milioni di persone. Risulta che nelle urne siano state inserite 39 milioni di schede. Quei 12 milioni di differenza corrispondono alle schede precompilate e aggiunte per favorire l’exploit di Ahmadinejad. L’organizzatore dell’imbroglio è Khamenei».
Cosa deve fare la comunità internazionale in questa fase?
«Khamenei, Ahmadinejad, i Pasdaran accusano l’Occidente di ingerenza. Tenendo conto di ciò è meglio che i governi restino neutrali. Opposto il discorso per i media. Il sostegno dell’opinione pubblica internazionale è essenziale. Ai tempi della rivoluzione, i Paesi stranieri appoggiavano lo shah, oggi sono al contrario critici verso il potere. Ma l’interesse del popolo iraniano esige che si astengano dall’intervenire. Quando un giovane iraniano scende in piazza,deve sentirsi sicuro di lottare per i suoi diritti e non a vantaggio d’altri».
Per Obama, su alcuni temi, come la questione nucleare, c’è poca differenza fra Ahmadinejad e Mousavi. Lei che ne pensa?
«Immaginiamo che crolli il regime. Si torna alle urne e Mousavi prevale. Quel presidente Mousavi non sarà lo stesso presidente Mousavi che avrebbe potuto essere eletto dieci giorni fa. Perché la situazione sarà completamente diversa. E nel nuovo contesto creato dalla vittoria del movimento popolare, cambieranno le linee di politica interna ed estera. Anche in rapporto al nucleare».
Se lei fosse in Iran, che consigli darebbe agli oppositori?
«In primo luogo l’iniziativa dever restare in mano al movimento, che non deve lasciarsi usare in una lotta interna al regime. Oggi si combattono due guerre. Una fra due blocchi di potere, l’altra fra regime e popolo».
Secondo lei Mousavi sta tentando di inserirsi nei contrasti interni all’establishment?
«Si confrontano un blocco militare-finanziario che fa capo a Khamenei e Ahmadinejad, ed un blocco religioso-finanziario, al quale sono aggregate componenti eterogenee: riformatori, tradizionalisti, pragmatici. Ne fanno parte personalità come Rafsanjani, Khatami, lo stesso Mousavi. Se tutto si riduce allo scontro tra i due blocchi, la vittoria di uno o dell’altro significherà comunque un indebolimento del regime. Khamenei potrebbe anche battere i nemici interni all’establishment, ma resterebbe solo contro tutto il popolo».
Il popolo può vincere senza violenza?
«Certo. Se la protesta si estende e si generalizza, come sta accadendo, la violenza sarebbe addirittura controproducente. Quando lottavamo per rovesciare lo shah, invitavamo la gente ad offrire fiori ai militari».
Se le cose cambiassero radicalmente in Iran, tornerà in patria e svolgerà ancora un ruolo politico?
«Sono 28 anni che lavoro per organizzare la rivoluzione. Nessuno ci credeva, mi dicevano che la storia non si ripete. Ma sta accadendo. Sì, quando l’Iran sarà libero, tornerò. Attendo quel giorno da tanto tempo».

Repubblica 23.6.09
L’occasione perduta
di Renzo Guolo


Forse la protesta non farà cadere il regime ma incrina, ogni giorno di più, la sua legittimità. Tutto mostra che qualcosa si è rotto. La tragica morte in diretta di Neda, il cui volto è già divenuto un´icona globale che fa paura, tanto da vietare le celebrazioni del lutto.
La liquidatoria affermazione del Consiglio dei Guardiani sull´irrilevanza dei "tre milioni" di voti in più a favore di Ahmnadinejad, i numerosi arresti, il temibile monito dei Pasdaran, che si dicono pronti al "confronto rivoluzionario" con i dimostranti. Qualcosa si è rotto. E non solo perché sparare sui manifestanti rimanda alla memoria dei tenaci rivoltosi di un tempo divenuti tiranni: da sempre le rivoluzioni divenute istituzione agitano i fantasmi della controrivoluzione divorando i loro stessi figli; ma anche perché è saltato l´equilibrio del sistema. Il patto tra fazioni, fondamentale in un regime politico che non ha partiti ma è organizzato attorno a reti informali che ne svolgono le funzioni, esige che la Guida resti formalmente superpartes.
Certo, dopo la fine dell´era dell´unanimismo seguita alla scomparsa di Khomeini, Khamenei ha sempre cercato di far oscillare verso questo o quel candidato l´ago della bilancia. Ma sin qui le sue investiture assumevano carattere non ufficiale. La Guida non si schierava apertamente con questo o quel candidato. Si limitava a prendere atto della "volontà del popolo", magari dopo aver cercato di influenzarla schierando il suo potente apparato a favore del prescelto. Il discorso del venerdì di preghiera all´università di Teheran muta completamene il quadro. Khamenei non si limita a calare una pietra tombale sul risultato delle elezioni e a lanciare un duro monito a quanti non lo accettano. La Guida dice esplicitamente di riconoscersi nelle posizioni di Ahmadinejad anziché in quelle di Moussavi, violando apertamente le regole del gioco. Così Khamenei diventa esplicitamente parte, e non più arbitro tra fazioni. Constatazione che potrebbe sembrare un sofisma in un regime in cui "sovrano è colui che decide nello stato d´eccezione" ma, proprio perché i candidati erano tutti considerati khodi, di sistema, la caduta di quella finzione delegittima il ruolo della Guida.
Schierandosi apertamente con Ahmadinejad, Khamenei impone una nuova costituzione materiale. In tal modo, rinsalda l´asse con il sempre più potente "partito dei militari", mostrando di non poter più fare a meno del suo sostegno; ma sancisce, al contempo, la fine del patto non scritto che, dopo la morte di Khomeini, ha sin qui tenuto insieme le leadership della Repubblica Islamica. Una strategia che non rinuncia del tutto a cooptare, in posizione di maggiore debolezza, gli avversari che rinuncino allo scontro frontale. Così la Guida blandisce e fa sentire il suo peso su Rafsanjani, principale sponsor di Moussavi e, soprattutto leader dell´Assemblea degli Esperti, l´unico organo che, teoricamente, può destituirla. Per togliere ossigeno alla protesta, privandola di una sponda nel regime, Khamenei difende formalmente Rafsanjani dalle accuse di corruzione rivoltegli in campagna elettorale da Ahmadinejad. L´oggetto dello scambio politico è chiaro: la Guida fornisce all´antico rivale uno scudo che lo protegga dall´inimicizia assoluta dei radicali, indicandogli la via per giungere a un accordo che non lo spazzi dalla scena politica. Di contro, Rafsanjani, dovrebbe lasciare alla sua sorte Moussavi. Se Rafsanjani, come spesso ha fatto in passato, imboccasse quella via, le piazze iraniane, non potrebbero resistere a lungo. La forza che il movimento ha mostrato nei giorni del caos viene, infatti, in larga parte dall´appoggio che le fazioni perdenti gli hanno dato. Se il movimento rimanesse solo nelle strade, la repressione sarebbe spietata.
Khamenei ha molte frecce per ricondurre all´ordine il sin qui silente Rafsanjani, che conosce bene i segnali della Guida per averli ricevuti quand´era presidente. Anche allora, per evitare che la sua politica di modernizzazione tecnocratica si spingesse troppo avanti, venne arrestata una delle sue figlie. E´ accaduto nuovamente in queste convulse giornate, anche se solo per poche ore, quando Fazeh Hashemi, attivista politica, espressione del "femminismo islamista", e sostenitrice di Moussavi, è stata fermata dalla polizia. Insomma, il messaggio rivolto a Rafsanjani da Khamenei è chiaro: puoi salvarti, se rientri nei ranghi.
Nel frattempo, il bagno di sangue prospettato dalla Guida prende drammaticamente forma. Il bilancio delle vittime è destinato a crescere. Tanto più se, in una sorta di strategia della tensione in salsa iraniana, evocata dal misterioso attacco al Mausoleo di Khomeini, fosse giocata spregiudicatamente anche la carta del terrorismo. Saldare l´opposizione contro i brogli all´azione di gruppi come Mujahedin-e-Khalk, permetterebbe una repressione durissima. Uno sbocco che consentirebbe di regolare i conti con le fazioni rivali e con quella parte di popolo che osa manifestare contro la legittimità del potere. Uno scenario cupo, in cui la tenda tirata per oscurare l´informazione e l´annunciata revisione dei rapporti con i paesi occidentali accusati di interferenze, preparano un paesaggio dopo la battaglia dai profili sconvolgenti. Se questo è ciò che sta accadendo a Teheran, l´Occidente non può non prendere una posizione chiara: sarebbe stato opportuno che l´Italia avesse ritirato l´invito all´Iran al G8 dei ministri degli Esteri che si svolgerà nel week end a Trieste. Invece ieri il ministro Frattini ha atteso tutto il giorno dal regime una risposta, che non è mai arrivata: «Teheran ha perso un´occasione», ha commentato a sera il responsabile della Farnesina. Peccato. Forse un´occasione - di fermezza e chiarezza - l´ha persa l´Italia.

Repubblica 23.6.09
L´avvocato pacifista oggi a Bruxelles per un appello alla Ue: tornerò a Teheran ma ora sono più utile qui
"In Iran censura e violenza chiedo l´aiuto dell´Europa"
La Nobel Shirin Ebadi: le proteste non si fermeranno
Tutto il mondo ha visto quanto sono state pacifiche le manifestazioni. E quanto è stata violenta la risposta del governo
di Francesca Caferri


Avrebbe voluto tornare in Iran, ma i suoi amici l´hanno fermata. Da dieci giorni Shirin Ebadi è in Europa. Gli occhi sono fissi a Teheran, dove la premio Nobel si ripromette di rientrare fra pochi giorni, ma la scelta, per ora, è quella di rimanere lontana da casa, dove rischia l´arresto, per far sentire al mondo la voce dei riformisti iraniani. «Sono più utile fuori dal Paese che all´interno, dove regna la censura», spiega. La settimana scorsa la Ebadi è andata alle Nazioni Unite di Ginevra per chiedere che le elezioni siano annullate. Ieri ha ripetuto questo messaggio all´Alto rappresentante per la politica estera della Ue Javier Solana: nelle prossime ore lo ribadirà al Parlamento europeo.
Signora Ebadi, la tensione nel suo Paese è altissima. Si aspettava quello che è successo quando è partita, il giorno delle elezioni?
«No. Tutti si aspettavano che avrebbe vinto Moussavi. Era un´opinione condivisa. Poi ci sono stati quei risultati e le persone hanno cominciato a chiedersi dove fossero finiti i loro voti. Ed è esplosa la rabbia: non sono stati solo gli annunci sui falsi risultati che hanno fatto infuriare la gente. Ma soprattutto le premature congratulazioni della Guida suprema Khamenei ad Ahmadinejad. Nessuno poteva aspettarsi che le leggi venissero violate in questa maniera. Né tantomeno questo comportamento verso il popolo».
Quindi lei pensa che ci siano stati brogli nei risultati...
«Gli oppositori di Ahmadinejad e le persone che dimostrano in piazza lo pensano. Giustamente, ritengo. I raid dei poliziotti dopo il voto, quando sono stati attaccati i dormitori degli studenti universitari e molte persone sono state arrestate, rende questa ipotesi più credibile. Ma a questo punto il fatto più importante non sono più i brogli ma la maniera in cui sono state trattate le persone che partecipavano alle proteste. La gente che manifesta pacificamente non merita di ricevere pallottole come risposta. Nessuno immaginava che il governo fosse così crudele e violento. Sono state aggredite persone indifese: la Costituzione iraniana dice che le manifestazioni e i raduni pacifici devono essere consentiti. Questo non è stato rispettato. Tutto il mondo ha visto quanto pacifiche fossero le manifestazioni del popolo iraniano e quanto violenta la risposta».
Da fuori questa appare soprattutto come una rivolta di giovani e di donne: la sorprende?
«No. Sia i giovani che le donne negli ultimi anni hanno sofferto per la diseguaglianza, che comunque ha toccato tutta la popolazione. Volevano più libertà, non erano soddisfatti, volevano cambiare. Pensavano, come tanta gente, che i riformisti avrebbero vinto. Sarebbe andata così se non ci fossero stati i brogli che hanno portato alla vittoria di Ahmadinejad. Di fronte a questo il popolo iraniano ha chiesto di annullare le elezioni: e non si fermerà fino quando questo non succederà».
Anche se questo significherà più violenza?
«Le persone che sono a favore delle riforme non ricorrono alla violenza. Non è nel loro modo di comportarsi. La violenza è venuta dalla parte della polizia e del governo. Le proteste continueranno, la gente non userà la violenza, così come non l´ha usata fino a questo momento: in questa maniera otterrà i risultati che vuole».

Corriere della Sera 23.6.09
La rivolta di Teheran
Il regime forse sopravviverà. Ma la teocrazia islamica è finita
di Fareed Zakaria


Gli iraniani sanno che questa è la loro lotta, e vogliono che lo sia.
La crisi della Repubblica Islamica avrà ripercussioni in tutto il mondo musulmano.
Anche se l’Iran è sciita, mentre la maggior parte del mondo islamico è sunnita, l’ascesa al potere di Khomeini era stato uno shock per tutti i Paesi musulmani, un segno che il fondamentalismo islamico era una forza con cui fare i conti.
Alcuni Paesi, come l’Arabia Saudita, hanno cercato di neutralizzare quella forza. Altri, come l’Egitto, l’hanno repressa brutalmente. Ma l’Iran è diventato ovunque il simbolo dell’ascesa dell’Islam politico. Se ora cadrà, una fase storica trentennale cambierà corso.

Stiamo assistendo alla caduta della teocrazia islamica in Iran. Non intendo dire che il regime iraniano stia per crollare. Potrebbe anche succedere (e spero proprio che alla fine sarà così), ma i regimi repressivi possono durare a lungo. Stiamo assistendo al fallimento dell’ideologia sulla quale si basa il governo iraniano.
Nel 1970 il fondatore del regime, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, espose la sua personale interpretazione dell’Islam politico in una serie di conferenze. In questa interpretazione dell’Islam sciita, sosteneva che i giuristi islamici ricevono direttamente da Dio il potere di governare e custodire la società, di essere gli arbitri supremi non solo delle questioni morali, ma anche di quelle politiche. Quando Khomeini istituì la Repubblica Islamica dell’Iran, pose al suo centro questa idea, velayat-e faqih, il governo della Guida Suprema. La scorsa settimana questa ideologia ha subito un colpo fatale.
L’attuale Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, dichiarando che l’elezione di Mahmoud Ahmadinejad è «voluta da Dio», ha usato l’arma del velayat-e faqih, della ratifica divina. Milioni di iraniani non ci hanno creduto, convinti che il loro voto — uno dei diritti laici fondamentali consentiti dal sistema religioso iraniano— fosse stato tradito. Khamenei è stato così costretto ad accettare che vi fosse una verifica dei risultati. Il Consiglio dei Guardiani della Costituzione, l’organo costituzionale supremo iraniano, ha promesso di indagare, di incontrare i candidati e di contare nuovamente i voti. Khamenei ha capito che l’esistenza del regime è a rischio, e ha ora irrigidito la sua posizione, ma questo non basta a rimettere le cose a posto.
È ormai chiaro che oggi in Iran la legittimità non discende dall’autorità divina, ma dalla volontà popolare. Per trent’anni il regime iraniano ha esercitato il potere grazie al suo primato religioso, riuscendo a scomunicare chi osava sfidarlo.
Ora non funziona più, e i mullah lo sanno. Per milioni di iraniani, forse per la maggioranza della popolazione, il regime ha perso la sua legittimità.
Se gli alti ranghi del clero mettessero in dubbio il giudizio divino di Khamenei e affermassero che il Consiglio dei Guardiani è in errore, infliggerebbero un colpo mortale alle premesse fondamentali su cui si regge la Repubblica Islamica dell’Iran. Sarebbe come se un importante leader sovietico avesse affermato nel 1980 che le teorie di Marx sull’economia erano sbagliate.
La Repubblica Islamica potrebbe sopravvivere, ma verrebbe meno la sua legittimità. Il regime ha sicuramente le armi per vincere questa battaglia; anzi, sarà questo l’esito più probabile, ma dovrà ricorrere a misure drastiche: vietare le manifestazioni, arrestare gli studenti, punire i leader e imbavagliare la società civile. Comunque vada è ormai chiaro che in Iran milioni di persone non credono più all’ideologia del regime. Se questo vorrà mantenere il potere, dovrà farlo con i mezzi usati in Unione Sovietica negli ultimi anni dell’era Brèžnev, con la minaccia delle armi. «L’Iran assomiglierà all’Egitto», dice Reza Aslan, intellettuale di origini iraniane, alludendo a un regime che, dietro una facciata politica, si regge sui fucili e non sulle idee. (...) Nel suo sermone del venerdì Khamenei ha detto che dietro alle proteste di piazza che hanno sconvolto Teheran c’erano gli Stati Uniti, Israele e soprattutto la Gran Bretagna, un’accusa che sicuramente apparirà ridicola a molti iraniani. Ma non a tutti: il sospetto di maneggi da parte di potenze straniere è profondamente radicato anche tra gli iraniani più occidentalizzati. Il fatto che Obama sia stato cauto nel replicare rende ancor più difficile per Khamenei e ad Ahmadinejad ammantarsi della bandiera nazionalista.
I neoconservatori stanno criticando Obama per la sua cautela. Paul Wolfowitz, vice del segretario della difesa Donald Rumsfeld, ha paragonato la reazione della Casa Bianca alle esitazioni di Ronald Reagan durante le manifestazioni di protesta contro il regime di Ferdinand Marcos nelle Filippine. Ma l’analogia non regge. Marcos era una pedina americana, era al potere grazie agli Stati Uniti. I contestatori chiedevano a Reagan di ritirare il suo appoggio e di lasciare che gli eventi seguissero il loro corso.
L’Iran è invece un Paese indipendente, fortemente nazionalista, che nella sua storia ha subito interferenze politiche ed economiche da parte della Gran Bretagna e degli Stati Uniti.
Nel 1901 la Gran Bretagna si è praticamente appropriata dell’industria petrolifera iraniana; nel 1953 gli Stati Uniti hanno orchestrato un colpo di stato. Lo Scià fu soprattutto accusato di essere un fantoccio nelle mani degli americani. Come in molti altri Paesi con analoghi trascorsi (un altro esempio è l’India), anche in Iran il sentimento anti-imperialista è molto forte.

il Riformista 23.6.09
Forse non sapremo mai esattamente cos'è accaduto in Iran venerdì 12 giugno
L'Iran non vuole rischiare di finire come l'Urss
di Emanuele Ottolenghi


Forse non sapremo mai esattamente cos'è accaduto in Iran venerdì 12 giugno. Chi ha vinto veramente le elezioni e chi le ha perse, con che margini, e perché il regime ha deciso di annunciare la schiacciante "divina vittoria" di Mahmoud Ahmadinejad poche ore dopo la chiusura dei seggi. Possiamo suggerire un'interpretazione che ci aiuta a comprendere gli avvenimenti che sono seguiti e quanto ancora ci attende nei giorni a venire. Mir Hossein Mousavi non è l'uomo del cambiamento. Lo sfidante di Ahmadinejad in un recente passato ha mandato a morte migliaia di oppositori e ha avuto un ruolo chiave nelle decisioni segrete della Repubblica Islamica di procurarsi tecnologia nucleare - compresa la tecnologia necessaria per costruire le bombe atomiche - da un network di proliferazione gestito dallo scienziato pakistano Abdel Khader Khan.

Forse il Mousavi odierno non la pensa come vent'anni fa - solo un asino non cambia idea, aveva a dire Moshe Dayan - ma occorre molta immaginazione per descriverlo come un liberal-democratico. Mousavi è più Mikhail Gorbachev che Vaclav Havel insomma - potrebbe rappresentare un tentativo dell'ala più riformista del regime di pilotare il cambiamento senza violare certi confini inviolabili dei dettami della rivoluzione. Tanto più visto che dietro Mousavi c'è l'ex presidente Rafsanjani - un uomo di regime che riflette un pensiero più pragmatico ma che è il padre del programma nucleare iraniano, è uno degli uomini più ricchi (e corrotti) del regime e non ha mai digerito di essere estromesso dai centri nevralgici del potere da persone che non considera come suoi pari nella gerarchia clericale o nella scala sociale iraniana ancora relativamente rigida.
Ma Mousavi e la sua candidatura, insieme alle straordinarie risorse messe al suo servizio da Rafsanjani, hanno acceso un lume nella lunga notte della repressione iraniana e dato vita a una mobilitazione senza precedenti. Mousavi insomma ha risvegliato forze che la rivoluzione pensava di avere soppresso dopo la breve stagione riformista di Mohammad Khatami, forze che il regime temeva di non poter controllare. Se avesse vinto - se il regime gliela avesse data vinta - Mousavi avrebbe potuto trovarsi travolto dalle forze da lui stesso risvegliate, come Gorbachev vent'anni fa. L'uomo che per salvare il comunismo aveva inaugurato timide riforme nella speranza di pilotarle era finito col presiedere al funerale del comunismo prigioniero della sua dacia mentre fuori infuriava la rivoluzione democratica e il fallito tentativo di reprimerla dopo la perdita dell'impero. Ali Khamenei, il leader supremo della Repubblica Islamica conosce bene la storia del suo vicino russo e deve aver ragionato che se Mousavi avesse vinto l'Iran avrebbe potuto fare la stessa fine dell'Unione Sovietica - e Khamenei sarebbe finito come Gorbachev alla meglio, e Ceaucescu nel peggior dei casi. Un presidente riformista che cavalca la furia dei suoi sudditi stanchi di tre decadi di rivoluzione e di oppressione dei loro diritti più elementari in nome dell'Islam avrebbe finito coll'essere disarcionato, trascinando con sé nella polvere il regime intero e la sua soffocante museruola ideologica.
Che fare dunque? Semplice: impedire che la storia segua questo corso, a ogni costo. Il regime avrebbe potuto cavarsela con un imbroglio più modesto, annunciando una vittoria con margini più risicati e attendendo tempo a sufficienza da non destare sospetti. Ma una vittoria risicata - o peggio ancora la concessione di un secondo turno - avrebbero dato comunque adito ad accuse di brogli e comunque avrebbero galvanizzato l'opposizione. Occorreva schiacciare l'avversario insomma, non dargli legittimità. Il regime deve dunque aver deciso di annunciare un margine di vittoria per Ahmadinejad talmente ampio che contestarlo comportava un atto di tradimento contro la Rivoluzione. E un regime che corrompe il processo elettorale in maniera così sfacciata - invece che pilotarlo in maniera sofisticata e subdola - è per forza pronto a fare qualunque cosa per difenderne il risultato.
Le migliaia di giovani iraniani che marciano nelle strade di Teheran meritano il nostro appoggio e la nostra ammirazione. Invitare un inviato iraniano di un regime che massacra i propri cittadini a partecipare al G8 non è certo la miglior mossa di politica estera che l'Occidente può adottare in questo momento. Ce ne sono altre molto più opportune e adatte. Ma non dobbiamo farci illusioni sulla capacità della comunità internazionale e dei Paesi democratici in particolare di poter influire sul corso degli eventi. La partita che si sta giocando in Iran oggi è una partita per il futuro del regime iraniano, la sua natura e il suo corso. È una partita feroce, che si gioca sugli esiti di un vero e proprio colpo di Stato il cui scopo è di salvaguardare la rivoluzione islamica, contro le forze che potrebbero, a furor di popolo, attuare la controrivoluzione democratica. Vista la posta in gioco, il regime non esiterà a sparare sulla folla molte volte ancora. La vittoria di Ahmadinejad è un segnale per i suoi nemici che le massime autorità della rivoluzione vedono in lui il futuro dell'Iran. Lo difenderanno a caro prezzo, e sono pronti a un bagno di sangue.
L'esito di questa partita non è ancora deciso - potrebbe essere la Primavera di Praga o la Rivoluzione di Velluto. Tutto dipende, come sempre quando le masse si ergono contro gli aguzzini di un regime feroce e oppressore, dalla volontà degli uomini in divisa, si rispondere agli ordini di sparare sulla folla. Se i guardiani della rivoluzione, che ieri hanno minacciato di soffocare nel sangue le proteste, faranno quello che hanno promesso, la calma tornerà a Teheran nel giro di pochi giorni, e i martiri del giugno 2009 saranno morti invano. Non è detto che vada così - trent'anni fa lo Shah perse la sua partita anche grazie al fatto che il suo esercito non se la sentì di massacrare più i propri compatrioti. Questa volta potrebbe andare altrimenti. Anche perché in gioco non è soltanto la sopravvivenza di un monarca e le sue megalomanie, ma il futuro dell'Islam politico che dall'avvento della Repubblica Islamica in Iran agita il mondo islamico e ne ispira il suo fondamentalismo.

Repubblica 23.6.09
Sesso, questo sconosciuto la difficile arte di parlarne ai figli
Uno studio: poca confidenza crea tabù
Dopo la recente polemica sui preservativi nelle scuole, iniziativa bocciata dalla Chiesa
di Vera Schiavazzi


Che fare quando Giacomo, quindici anni, chiede di poter dormire con la sua ragazza (che non ci ha ancora presentato)? E come reagire a Giulia, sua coetanea, che si rifiuta di incontrare il ginecologo di famiglia ma in compenso cerca informazioni online sull´uso del profilattico? I genitori italiani sono in crisi di ispirazione e non sanno se, come e quando accettare la precoce vita sessuale dei figli (diciassette anni e mezzo è l´età della prima volta, ma il dato si abbassa per chi oggi ha vent´anni e al Nord le cose viaggiano più rapidamente, fino a spostare le lancette dai dieci ai dodici mesi prima). Resta, sullo sfondo, la profonda e pericolosa ignoranza dei ragazzi in materia di sesso, e l´ostracismo cattolico, espresso ancora pochi giorni fa dal vicario del Papa per Roma, il cardinal Agostino Vallini, di fronte alla mozione con la quale la Provincia rilanciava i preservativi gratuiti in tutti i licei: "Banalizza i sentimenti".
Intanto la Sigo (Società italiana di ginecologia e ostetricia), fornisce cifre che fanno pensare: «Una ragazza su tre sotto i 25 anni non utilizza alcun metodo per proteggersi, cresce il ricorso alla pillola del giorno dopo e quello all´aborto tra le under 14, salito in dieci anni dallo 0,5 all´1,2% dei casi - ha spiegato il presidente Giorgio Vittori - Le malattie trasmissibili crescono, la clamydia ad esempio è aumentata di dieci volte nell´ultimo decennio». A dover essere "formati" dovrebbero essere anzitutto padri e madri, spesso privi della confidenza necessaria a parlare di un tema così intimo con i figli. E a loro volta attanagliati dai dubbi, secondo una ricerca dell´associazione "Genitori domani": qual è l´età giusta? Accettare o no che si utilizzi la casa di famiglia? Acquistare personalmente i contraccettivi e farli trovare ai ragazzi? Sono soltanto alcune delle "domande frequenti" alle quali oltre il 45% delle madri e dei padri di ragazzi tra i 13 e i 18 anni non sanno dare risposta. Non così dissimili da quelle che gli stessi giovanissimi inviano (nascondendosi dietro nickname fantasiosi) ai blog che, come hanno fatto le Asl di Parma e di Sassuolo, offrono risposte mediche online anche a chi si presenta anonimamente: dal tuffo negli anni Cinquanta ("posso restare incinta se ho un rapporto orale?", spedito da Trilly02) all´autentico tormento esistenziale ("ho avuto due ragazze ma mi hanno lasciato, sarà un problema di dimensioni?" firmato Jack-controcorrente).
«È inevitabile che i genitori non riescano a parlare di sesso con i figli, se si ostinano a negare la loro stessa sessualità, i ricordi della loro adolescenza, se negano di aver vissuto anche loro le stesse emozioni e le stesse paure - spiega Maria Rita Parsi, psicologa e psicoterapeuta - Bisogna partire invece dal dato di fatto che già a 13 anni, ma in molti casi a 11, i figli sono raggiunti da informazioni più o meno distorte che arrivano soprattutto via Internet. La risposta? Stimolare la confidenza utilizzando i film e i romanzi». Ma a che età si può accettare senza paura che il figlio o la figlia affrontino la loro "prima volta", e le molte che seguiranno? «A quindici, sedici anni, quando il loro cervello è maturo ed è l´ora di esplorare e sperimentare. A quel punto, sarebbe un errore reprimerli, anche se molti ci arrivano più tardi. Meglio sottolineare l´importanza di questa esperienza e il fatto che unirsi ad un´altra persona è in sé qualcosa di buono».

Repubblica 23.6.09
Gli ultimi eretici
I 40 anni contro del Manifesto
di Nello Ajello


Nel 1969 un gruppo di esponenti del Pci fonda una rivista: sono Pintor, Rossanda, Magri, Parlato e altri intellettuali Nasce così un giornale fiero di essere minoranza critica
Contro la radiazione votarono Mussi, Lombardo Radice e Luporini
Dopo una liturgia macchinosa il partito comunista decise di sopprimere la pubblicazione

Ventitré giugno 1969, quarant´anni fa. Un gruppo di esponenti del Pci fonda a Roma una rivista mensile, il manifesto, che subito appare un caso esemplare di eresia politica. Stampata a Bari dalla casa editrice Dedalo e diretta da Lucio Magri e Rossana Rossanda, la rivista è promossa anche da Luigi Pintor, Aldo Natoli, Massimo Caprara e da altri intellettuali comunisti: Luciana Castellina, Valentino Parlato, Eliseo Milani, Lisetta Foa, Luca Trevisani. I promotori sono identificabili come una «nuova sinistra», vicina ad Ingrao. Così, almeno, è apparso fino all´XI congresso del Pci (1966). Tre anni più tardi, in quel XII congresso che elevò Enrico Berlinguer alla vicesegreteria con Luigi Longo, il gruppo ha ribadito la propria natura di minoranza critica. E´ stato proprio Berlinguer a far eleggerne nel Comitato centrale Rossanda, Natoli e Pintor. In nome di quella «discussione libera, e improntata a spirito di tolleranza» (così si è espresso) che sta prevalendo nel partito.
La prima idea di dar vita al periodico - in partenza Magri vorrebbe chiamarlo Il Principe - risale all´estate del ‘68. Un simpatizzante, Lucio Colletti, vi ravvisa la speranza che si apra «anche nel Pci il periodo della lotta politica palese». L´esordio è duro. Natoli parlerà di «mesi di angoscia». E così li ricorderà Massimo Caprara: «Dell´esperienza del manifesto», si legge nel suo volume Ritratti in rosso (Rubbettino, 1989), «mi rimarrà il nitore pacato e costruttivo di certe discussioni dell´estate del ‘68, nel cuore del movimento studentesco». Ed ecco effigiati, sotto la sua penna, i responsabili dell´avventura: «Rossanda lucidamente egemone, Pintor imprevedibile, ferratissimo Magri, Natoli rigoroso».
Ma che cosa c´è scritto nella rivista-scandalo? Vi si boccia l´idea di far svolgere a Mosca una conferenza dei partiti comunisti. Un devoto rilievo si riserva alla «rivoluzione culturale» cinese. Si biasimano certi anticipi di «compromesso» fra il Pci e la Dc. In tutto questo Rinascita coglierà «un primo passo verso un´azione di gruppo o di corrente, verso un´attività, lo si voglia o no, di tipo frazionistico». L´attacco porta la firma di Paolo Bufalini, un dirigente comunista di solito cauto e culturalmente sottile. Ma i tempi sono così: all´attenuarsi dell´obbedienza all´Urss non corrisponde una reale tolleranza nel dibattito interno.
Farà scalpore, nel numero 3 del manifesto, un titolo: Praga è sola. Si tesse un elogio della primavera di Dubcek, repressa da Mosca. Nel numero 4 appare una lettera che invano Pintor aveva inviato all´Unità: l´autore polemizza con Giorgio Amendola che ha sostenuto la necessità per i comunisti di entrare presto nel governo. Una fretta che ai protestatari della «nuova sinistra» appare impudica.
Era difficile valutare, all´epoca, quale reale pericolo per il Pci si racchiudesse nelle pagine del manifesto. Emergeva tuttavia un aspetto tutt´altro che formale della vicenda: il ripetersi, per l´occasione, d´un rituale trito e malinconico, alquanto odoroso di Curia. Il primo atto del cerimoniale era stato la convocazione, di fronte alla gerarchia di partito, degli eretici (una pratica che i funzionari pontifici chiamavano «la sacra udienza») per convincerli a ritrattare: di fatto, a Rossanda e Magri questo monito, risultato vano, era stato rivolto in extremis dai membri della direzione comunista. Sarebbe seguita su Rinascita - l´abbiamo visto - la «pubblica confutazione delle tesi». A fine ottobre apparve poi sull´Unità una notizia in cui si informava che «il compagno Alessandro Natta» si sarebbe assunto il compito di «procedere a un esame approfondito della questione relativa al manifesto». Natta era il presidente della Quinta commissione, una sorta di Congregazione del Sant´Uffizio in chiave laica. Si prevede che l´atto conclusivo del rituale sia l´emissione di una bolla in nome della «Chiesa docente».
La liturgia è macchinosa. La Commissione Natta termina i suoi facondi lavori deliberando la soppressione della rivista. Ma la decisione va discussa in Comitato Centrale. Lì, Enrico Berlinguer afferma: «Non basta riconoscere e garantire la legittimità del dissenso, resta il problema dei modi della sua espressione efficace». Le posizioni del manifesto vengono difese con dignità da Rossanda.
Il Comitato centrale, di nuovo convocato per il 25 e il 26 novembre, deliberò la «radiazione» dal Pci della stessa Rossanda, di Pintor e Natoli. La decisione era passata con i voti contrari, oltre che degli interessati, di Lucio Lombardo Radice, Cesare Luporini e Fabio Mussi; astenuti Giuseppe Chiarante, Sergio Garavini e Nicola Badaloni. Poco più tardi, un analogo «provvedimento amministrativo» venne adottato per Magri. Caprara vide cancellato il suo nome dal novero degli iscritti alla federazione di Napoli. Qualcosa di simile toccò a Parlato e Castellina.
In dicembre la Pravda vide in queste decisioni del Pci «la più ampia garanzia del consolidamento del partito e della difesa del centralismo democratico». Di fatto, una minaccia, proveniente da Mosca, riguardava un´azione di «frazionismo» da promuovere nel Pci, se si fosse mostrato troppo arrendevole, al suo interno, verso i «devianti». Qualcuno accennava al progetto di far nascere, in Italia, una rivista rigidamente filosovietica. Se ne indicavano sia il titolo, L´appello di Lenin, che gli ispiratori, Edoardo D´Onofrio e Ambrogio Donini.
Quando, nei primi mesi del 1971, il manifesto stava per trasformarsi in quotidiano, Luigi Pintor confidò, ad Umberto Eco ed a me che con lui ne discutevamo per L´Espresso, di guardare a un precedente da lui giudicato illustre, «l´esperienza dell´Unità dell´immediato dopoguerra», la quale s´era giovata di «un afflusso di giovani quadri venuti dalla Resistenza. Essi inventarono il giornale, impararono a farlo e lo fecero bene».
Valutare che cosa resti in piedi oggi della complessiva avventura del manifesto-giornale implicherebbe un discorso a parte. Si può soltanto ricordare che il foglio, uscito nell´aprile di trentott´anni fa, è l´unico superstite fra le testate quotidiane create dall´ultrasinistra in quei tempi difficili. «È solo un giornale», qui è ancora Pintor che parla. «Ma per noi è molto di più. Entrarci non è una scelta di mestiere ma un arruolamento volontario». La qualifica di eretico, che il partito aveva assegnata a lui e al suo gruppo, egli la rivendicava come un emblema morale.

Repubblica 23.6.09
Il libro "estremo" del filosofo Vladimir Jankélévitch
Così la vita e la morte diventano inseparabili
di Roberto Esposito


Il concentrarsi dell´attenzione sulla vita biologica nelle società contemporanee comporta interrogativi pressanti sulla sua fine

Come muore, chi muore? E quando – quanto tempo dura la morte, quando si comincia, e quando si finisce, di morire? Da dove, infine, essa arriva? Dall´esterno – oppure nasce e cresce dentro di noi, inestricabilmente avvinta alla vita che ci strappa? Domande estreme, senza risposte definitive, che da qualche tempo tornano ad incalzarci con un´urgenza, ed anche una violenza, che sembra restituirci un tratto spesso ed opaco del nostro tempo. Che proprio oggi si contesti il "Rapporto di Harvard" – che quaranta anni fa modificò la definizione della morte, spostandone l´indicatore dal cuore al cervello – non è un semplice caso. E´ l´esito dallo scontro aspro di interessi medici, giuridici e teologici sulla legittimità dei trapianti di organi tratti da corpi ancora sospesi tra la vita e la morte, contesi dalle loro potenze avverse. Così come i dilemmi laceranti sul destino di esseri ancora viventi, ma già abbandonati dalla vita di relazione nel silenzio agghiacciante del coma irreversibile.
Può sorprendere di trovare una tagliente anticipazione di tali dilemmi in un libro, pubblicato nel 1966, dal filosofo francese Vladimir Jankélévitch, e adesso tradotto da Einaudi per la cura di Enrica Lisciani Petrini (Il libro sarà presentato domani a Napoli all´Istituo di Studi Filosofici, con la partecipazione di Remo Bodei, Marino Niola e Vincenzo Vitiello). Come osserva Lisciani Petrini nella sua preziosa e illuminante introduzione, sapere della vita e incombenza della morte vanno colti nella loro inquietante connessione. È proprio il generale spostamento d´attenzione sulla vita umana, intesa nella sua dimensione biologica, che caratterizza le società contemporanee, a produrre, come per rimbalzo, un interrogativo altrettanto pressante sul fenomeno della morte. Già Michel Foucault aveva intravisto, nel cuore del Novecento, un collegamento sotterraneo tra incremento del sapere sulla vita e produzione di massa della morte. Nel momento in cui la vita di un dato popolo diventa il valore supremo, ad esso parrà legittimo sacrificare ogni altra vita che sembri danneggiarla o contaminarla.
Si può dire che, pur con una tonalità più teoretica, Jankélévitch lavori sullo stesso crinale che insieme separa ed congiunge vita e morte in un´unica, irresolubile, antinomia. Già orientato, lungo tutta la sua opera eterodossa e singolare, a indagare il punto di tangenza tra bene e male, virtù e vizio, soggetto e mondo, in questo testo egli spinge la propria interrogazione ai limiti estremi dell´esperienza umana con esiti che Levinas non esitò a definire "sconvolgenti". La morte è quell´Inevitabile, Intrattabile, Irriducibile che dobbiamo, eppure non possiamo, pensare. Che ci sfida ed ossessiona con la sua incombenza costante, ma che si ritrae nel momento stesso in cui cerchiamo di afferrarlo come "un astro che non si riesce più a vedere quando lo si fissa direttamente" (38). Nonostante i molteplici tentativi di addomesticarne la potenza distruttiva, o dichiarandola naturale o situandola fuori dal nostro campo di interesse, la morte è lì, davanti a noi, dentro di noi, come un cancro silenzioso che ci rode, fino a risucchiarci nel suo abisso senza fondo. La filosofia – da Platone a Leibniz – che ha cercato di incorporarla, e digerirla nelle pieghe del proprio sistema immunitario, ha sperimentato grandiosi fallimenti. Ma anche la grande arte che, da Dürer a Goya, da Baudelaire a Dostoevskij, ha cercato di guardarla in viso, di coglierne il mistero nello sguardo estatico e allucinato del morente, ha dovuto abbassare gli occhi.
Il motivo di questa inafferrabilità della morte sta nella sua assoluta inestricabilità dalla vita. Come l´autore spiega in uno dei suoi capitoli più avvincenti, la vita non può definire la morte perché non può distanziarsi da essa. Non soltanto nel senso, terribilmente evidente, che deve in ogni caso morire, ma anche in quello, ancora più radicale, che è definita, identificata, dalla morte. Perché è vero che non c´è morte che della vita, ma anche, all´inverso, che non c´è vita senza la morte. Il vivente è tale soltanto se è mortale. Chi non vive, non muore, ma chi non muore, non vive. Una roccia o un deserto possono essere anche eterni, ma perché non sono esseri viventi.
Da qui un´ultima considerazione. La curatrice si chiede molto opportunamente come mai, a pochi anni dal genocidio, un pensatore ebreo non vi faccia, in cinquecento pagine sulla morte, che poche e scarne allusioni. Personalmente avanzerei questa risposta, che trapela dalle pagine finali del libro: perché il nazismo non si è limitato a cancellare la vita, ma ha cercato di sottrarre alle sue vittime anche la morte. Ha fatto di esse, come il cacciatore Gracco di Kafka, esseri non più vivi, ma non ancora morti, dei morti viventi o dei vivi già morti, incapaci di vivere e di morire. Questo è l´inferno – scrive Jankélévitch – non la morte, ma "l´impossibilità di morire. L´uomo-né-vivo-né-morto è ridotto allo stato di cadavere ambulante" (446-7). Cosa altro erano i ‘musulmani´ di Auschwitz?

Corriere della Sera 23.6.09
Lombardia, il pd svanito
di Claudio Schirinzi


Una sfida a chi perdeva meno elettori: 250 mila tra quelli che il 6 giugno ave­vano scelto Podestà sono rimasti a casa. Pe­nati è riuscito a contenere le diserzioni: «solo» 91 mila. Troppe comunque e per me­no di mezzo punto di vantaggio la Provin­cia di Milano è passata al centrodestra.
Il miracolo non è riuscito. Rispetto al primo turno, Filippo Penati ce l’ha fatta a recuperare 158 mila voti su Guido Pode­stà, ma non è bastato: gliene sarebbero serviti altri 5 mila per conservare la guida della Provincia di Milano. E invece anche questa passa al centrodestra. Il candidato Pdl, in un contesto fortemente orientato verso la Lega Nord, è riuscito a spegnere l’unica voce istituzionale del centrosini­stra e fa della Lombardia che guarda al­l’Expo del 2015 un feudo incontrastato del centrodestra. Unica consolazione per Penati è quella di essere stato il più votato a Milano città: un segnale certamente non rassicurante per il sindaco Letizia Morat­ti.
Al primo turno Penati aveva salvato il centrosinistra dal «cappotto», costringen­do il candidato del centrodestra al ballot­taggio. La Provincia di Milano era l’unica in Lombardia a essere rimasta in gioco, mentre il Popolo della libertà strappava al Pd le province di Cremona, di Lodi e di Lecco; conquistava la nuova provincia di Monza e si confermava alla guida di quel­le di Bergamo, Brescia e Sondrio. Penati era riuscito a evitare il k.o., ma era arriva­to al ballottaggio con dieci punti di svan­taggio: 38 lui, 48 Podestà. Al secondo tur­no è stato protagonista di una grandissi­ma rimonta, ma non ce l’ha fatta e si è fer­mato al 49,80 per cento: meno di mezzo punto sotto il suo av­versario: poco più di quattromi­la voti.
Nella regione di Berlusconi e di Bossi la con­quista della Pro­vincia di Milano non aggiunge granché al­lo straordinario successo del Popolo della Liberta e della Lega già registrato al primo turno.
Il segnale più forte che esce dalle urne è certamente quello della disaffezione al voto. Rispetto al primo turno si contano 587 mila elettori in meno (erano stati un milione e 687 mila) e le defezioni hanno penalizzato soprattutto il centrodestra. Se Penati fosse riuscito a raggranellare quella manciata di voti in più che gli è mancata per battere Podestà, certamente nel centrodestra la Lega sarebbe finita sul banco degli imputati. In realtà l’asten­sione è stata troppo massiccia per ridur­la alle contese sui tre referendum. Forse in molti non sono andati a votare per sot­trarsi al macchinoso meccanismo di rifiu­tare tre schede e ritirare soltanto la quar­ta, quella del ballottaggio. Ma il partito del non voto ha ben altre dimensioni e forse anche motivazioni.
Il centrodestra lombardo ha dunque da­vanti a sé una navigazione tranquilla, al­meno nell’immediato, anche se all’oriz­zonte già si intravedono le turbolenze le­gate alla scelta del futuro presidente della Regione, con Formigoni che si prenota per il quarto mandato e la Lega che vor­rebbe un proprio candidato alle Regionali del 2010. Il centrosinistra, invece, deve ri­flettere sul «Fenomeno Penati», una figu­ra un po’ anomala nel panorama del Parti­to Democratico, uno dei pochi ad aver compreso che le preoccupazioni in mate­ria di sicurezza non possono essere liqui­date come semplici manifestazioni di raz­zismo. Qualcuno, nel suo stesso partito, lo ha accusato di «leghismo di sinistra», ma l’uomo è di quelli che cercano il con­senso più fra la gente che nei salotti. Un Penati «disoccupato» può preoccupare più d’uno nella stanza dei bottoni del Pd: è vero che fra due anni sarà il candidato naturale del centrosinistra per il Comune di Milano, ma nel frattempo?

il Riformista 23.6.09
Franceschini canta vittoria ma i numeri dicono altro
di Stefano Cappellini


«Comincia il declino della destra. Sarà un percorso lungo ma con lavoro e impegno porteremo avanti il cambiamento nel paese». Quello di Dario Franceschini non è un semplice commento ai ballottaggi: è un'autocandidatura al congresso del Partito democratico.
La sua corsa alla riconferma della leadership era scontata. Da ieri è ufficiosa. Probabilmente diventerà ufficiale nel giro di pochi giorni, in vista della riunione della direzione fissata per il 26 giugno, a meno che non prevalgano accordi per un ennesimo rinvio delle assise.
In effetti, è accaduto un fatto insolito: il Partito democratico ha vinto la sua prima tornata elettorale da quando esiste. Con l'eccezione di Milano, dove comunque Filippo Penati ha perso per un nulla, il centrosinistra ha prevalso al ballottaggio nelle sfide per le principali città: i comuni di Bari, Firenze e Bologna, la Provincia di Torino. Ha avuto la meglio nelle Province di Ferrara, Parma, Alessandria, Arezzo e nei Comuni di Avellino, Forlì, Ancona. L'impressione è quella, per usare ancora le parole del segretario, di «un risultato positivo».
Secondo turno. Il Pd tiene nelle regioni rosse, dove un tempo prevaleva nettamente. Esce più che dimezzato nel bilancio delle amministrazioni perse e sparisce dal lombardo-veneto.
Il continuo sprofondo elettorale - cominciato con le politiche del 2008, proseguito con la perdita del Campidoglio, i tracolli abruzzesi e sardi, il 26 per cento delle europee e il disastro del primo turno di queste amministrative - si è arrestato, regalando all'ex vicesegretario la possibilità di potersi per una volta presentare ai microfoni del dopo voto senza dover esibire i consueti toni da funerale e le solite «profonde riflessioni» da sviluppare.
Ma se la soddisfazione del leader e le sue speranze di rielezione al congresso sono legittime, certi toni ottimisti, o peggio trionfalistici, lo sono molto meno. Per ragioni che restano evidenti. Anche se le regole dei media prevedono due narrazioni distinte tra il primo turno e i ballottaggi - fino al punto da permettere che ci siano due vincitori diversi, il centrodestra in prima battuta, il centrosinistra in seconda - la realtà non si piega facilmente a questa lettura. Perché il bilancio delle amministrazioni dal centrosinistra racconta di un partito più che dimezzato in quello che è da sempre il suo patrimonio più solido: il governo dei territori.
Espulso da intere regioni, ieri il Pd ha perso gli ultimi bastioni del lombardo-veneto. Ormai quelle due regioni appaiono sulla carta geopolitica come un ininterrotto regno dell'asse Pdl-Lega a tutti i livelli istituzionali. Anche Venezia e Belluno, le uniche città del Veneto dove il centrosinistra ha stabilmente governato, hanno ceduto di schianto, sull'onda dello sfondamento leghista.
Ieri il centrosinistra si è confermato in gran parte delle amministrazioni delle regioni rosse. Ma questo successo è l'altra faccia del tracollo di due settimane fa, quando comuni e province che un tempo il centrosinistra avrebbe conquistato al primo colpo e sul velluto - come in Toscana ed Emilia - sono rimasti appesi al ballottaggio. Averli difesi è un risultato, ma non è qualcosa che si possa spacciare come un «successo». Soprattutto quando nel resto del paese non si ha notizia o quasi di situazioni al contrario. In sostanza, il Pd tiene a fatica, ma non mette alcuna bandierina sui domini del centrodestra. Certo, avesse difeso anche Milano il discorso sarebbe stato diverso, perché il valore simbolico di una vittoria di Penati nel cuore stesso del berlusconismo avrebbe alterato a favore dei democrat il metro di giudizio. Ma così non è stato, e illudersi che «il vento sia cambiato» è molto pericoloso.
L'affluenza è l'altro dato di cui non si può non tener conto. Alle cifre basse registrate in buona parte del paese, il centrosinistra ha storicamente da guadagnare. Non è un caso che la maggioranza sia tornata a parlare di abolizione del secondo turno. Avere elettori più fedeli e ligi al dovere non è un demerito e fa parte del gioco democratico. E l'opposizione può sempre pensare che parte di questo forte astensionismo sia punitivo nei confronti del premier. Ma nemmeno la più spericolata delle analisi può però sostenere che rappresenti un segnale di smottamento di consenso verso il Pd. Quello non c'è e non si vede all'orizzonte. E l'errore più grande che Franceschini e soci potrebbero commettere - ancora più grave se accadesse per ragioni di consenso congressuale - è edulcorare i risultati di questa tornata. Già alle europee il disastroso 26 per cento è stato a torto rimosso dal dibattito grazie all'inaspettato regalo delle urne, che hanno inchiodato il Pdl al 35 per cento. Raccontare a elettori e simpatizzanti che oggi è iniziata la rivincita su Berlusconi è un altro abbaglio.

lunedì 22 giugno 2009

Corriere della Sera 22.6.09
Mussolini e la sua amante Ida Dalser
Quando l’ignavia diventa il marchio di una nazione
Il volto cinico di una dittatura
di Alberto Melloni

C’è un’opera che gi­ra le sale cinema­tografiche e in­quieta l’Italia. È Vincere, il film di Marco Belloc­chio. Racconta la storia di Ida Dalser (una ragazza trentina con la quale Mussolini ha una storia sentimentale dalla quale nasce Benito Albino); le conse­guenze del matrimonio (che lei dichiara esistere, ma di cui spariscono le tracce) e l’infer­no manicomiale che la inghiot­te. Una storia che nel 2005 la provincia di Trento e la Gran­destoria portarono su RaiTre in una eccellente puntata.
A differenza del documenta­rio, però, il film di Bellocchio disloca le domande più inquie­tanti e tragiche dentro lo spet­tatore. Lo ustiona facendolo sentire impotente davanti al de­stino di Ida. Lo ossessiona con l’ossessione che lei ha nel dire «suo» un uomo che non lo è mai stato, mentre la maschera del Duce la insegue nei cine­giornali dell’Istituto Luce. Lo commuove col racconto di una maternità spezzata dalla reclu­sione in manicomio e delle ipo­crisie che cercano di raddolci­re questa violenza ultima di cui sarà vittima sacrificale immola­ta da una rete di complicità — nella quale ognuno sente che ora e qui potrebbe dare alla sciagurata Dalser consigli di ipocrisia, forse perfino quello più esilarante e sedativo che ci sia: «Legga Pascoli...» Non siamo, però, in presen­za di un film «politico». La po­litica che c’è in Vincere non è sullo schermo, ma dentro lo spettatore. Denuda i luoghi co­muni, i convincimenti banaliz­zanti, le edulcorazioni autoas­solutorie di cui sono piene la cultura italiana, la storia italia­na, la scena pubblica italiana. Quel che Bellocchio fa vedere è un capitolo separato e decisi­vo di Mussolini, come quelli della grande impresa di Renzo De Felice (al quale, mi sbaglie­rò, Vincere sarebbe piaciuto). «Mussolini il lurido», verreb­be da intitolare questo tomo supplementare: dopo due ore nelle quali la volgarità prepo­tente, il sopruso come stru­mento di seduzione, l’estetica della violenza corrono da un capo all’altro della memoria e dello schermo, fino a che la storia di Ida e Albino Benito en­tra in chi guarda, incomincia a girare, tagliente.
Diventa una parabola: quel­la della Dalser, che, come scris­se Sergio Luzzato parlando del citato documentario Rai, è una storia che è «più facile da rac­contare che da digerire». Ma la forza di Vincere è che a rac­contarla ci pensa Bellocchio. Lasciando a un «noi» di diver­se generazioni — a quella dei padri, a quella che i padri non può più interrogarli e a quella che ha dei figli — il compito di digerire i perché, i come mai, che come occhi di luce scandagliano la coscienza co­mune di una nazione stordita (a cui Giovanna Mezzogiorno dà volto e corpo) da un uomo goffo e superficiale, da un cava­liere dalle molte macchie e dal­le tante paure (di cui Filippo Ti­mi esalta le caricaturalità emo­tive), quasi che, oltre che co­me autobiografia, il fascismo d’improvviso apparisse come un autoscatto della nazione.
C’è infatti un mondo di me­dici e parenti, suore e baciapi­le, idioti e carogne che si muo­ve sullo sfondo del mondo ma­nicomiale che manduca i so­gni della quarantenne dichiara­ta demente. E che, anziché ca­pire la vicenda di questa Cas­sandra d’Italia (che crede di es­sere la sola rimasta fregata in un mondo di salvati e invece è solo la prima di un tutto), si adatta volentieri alla logica di un mediocre che sa solleticare il peggio di cui gli ignavi sono capaci — perfino gli ignavi col­ti, che pensano alla sedazione pascoliana, o gli ignavi in abi­to religioso, che il giorno della Conciliazione sentono alla ra­dio il trionfalismo di regime, anziché il grido dell’ingiustizia che gli si para innanzi.
Non tocca ai film spiegare il passato, pareggiare i conti, sve­lare chissà che. Nemmeno a un film come questo, che de­pura d’un colpo l’antifascismo dal peso della retorica che lo ha reso esangue. E non è a un opera d’arte, neppure a questa dove diventa arte la cucitura fra il girato e il repertorio Lu­ce, che si deve chiedere di spie­gare perché il fascismo è stato italiano. Ma la forza con cui Vincere chiede a ciascuno di di­re il suo perché, è propria del­la settima arte, quando viaggia a questo livello.

Repubblica 22.6.09
L'etica della democrazia
Dalla Rai a Mediaset: così un caso diventa "fantasma"
di Sebastiano Messina

Silenzi, omissioni, mezze notizie il Patrizia-gate cancellato dai tg
Nelle edizioni di sabato una vera e propria pietra tombale seppellisce l´inchiesta di Bari
L´80 per cento degli italiani che segue le notizie attraverso la tv non sa in pratica nulla della vicenda

È davvero possibile insabbiare uno scandalo che domina le prime pagine dei quotidiani nazionali, è al centro di un´inchiesta giudiziaria ed è finito immediatamente nei titoli della stampa internazionale?
Sì, è possibile. In questa Italia dove il presidente del Consiglio ha anche l´ultima parola sulle nomine dei direttori di cinque dei sei maggiori telegiornali, ormai non c´è più bisogno di contestare i fatti, i sospetti e le accuse: basta nasconderli, e oplà, la notizia non c´è più.
Quei quindici milioni di italiani che ogni sera si affidano ai telegiornali per sapere quello che è successo in Italia e nel mondo, quell´80 per cento di telespettatori che non leggono i giornali - dunque non leggeranno neanche questo articolo - e hanno la tv come unica fonte d´informazione, non hanno la più pallida idea di quello che è successo la settimana scorsa.
Già, cos´è successo? Proviamo a mettere in ordine i fatti, e confrontiamoli con quello che il Tg1 e il Tg5 hanno riferito ai loro fiduciosi telespettatori.
Mercoledì 17. Il «Corriere della Sera» pubblica in prima pagina un´intervista a una signora di Bari, Patrizia D´Addario, che racconta di essere stata pagata 2000 euro per partecipare a due feste a Palazzo Grazioli (residenza romana di Silvio Berlusconi), e dichiara di avere le prove di aver passato una notte in compagnia del presidente del Consiglio. E poiché chi l´ha pagata è un imprenditore della sanità, oggetto a Bari di un´inchiesta per presunte tangenti, il magistrato ipotizza un reato preciso: «induzione alla prostituzione». Su Berlusconi, dunque, aleggia il bruciante sospetto di essersi intrattenuto con una donna pagata per fare sesso con lui.
All´ora di pranzo, accendiamo il televisore. Il Tg5 delle 13, riferendo di «presunte irregolarità negli appalti della sanità privata», dà la notizia con queste parole: «Uno degli imprenditori si vantava di essere stato invitato a partecipare con delle ragazze a feste a Palazzo Grazioli». E vabbè, pensa il telespettatore, che male c´è a vantarsene? Dopodiché il cronista riferisce di «indagini per induzione alla prostituzione», ma evita accuratamente di dire chi avrebbe indotto chi, e soprattutto con chi la donna sarebbe stata indotta a prostituirsi. Mezz´ora dopo, il Tg1 entra in argomento con le parole di Berlusconi, che un conduttore compunto scandisce con tono severo: «Ancora una volta si riempiono i giornali di spazzatura e di falsità». E mentre uno si domanda di cosa stia parlando, il conduttore precisa: «Si parla di feste con la partecipazione di alcune ragazze». Tutto qui? Sì, tutto qui.
Il telespettatore non capisce come mai Berlusconi sia così infuriato, ma aspetta l´ora di cena per saperne di più. Attesa vana, perché i due telegiornali ripetono le formule criptiche dell´ora di pranzo: «Si parla di feste... «. Il Tg1, preoccupato di aver detto già troppo, aggiunge premuroso: «Tutto da verificare: potrebbe trattarsi di millanterie o altro». Dopodiché entrambi i tg rivelano che la faccenda ha un risvolto politico. Che non riguarda però il premier, ma D´Alema: colpevole di aver ipotizzato «una scossa» capace di destabilizzare il governo. Invece di spiegarci il nuovo «caso Berlusconi», dunque, entrambi apparecchiano un inesistente «caso D´Alema» sul quale concentrano la dose quotidiana di dichiarazioni in politichese stretto.
Giovedì 18 i magistrati di Bari interrogano cinque ragazze, i giornali inglesi titolano sulle «donne pagate alle feste di Berlusconi», ma il Tg1 delle 20 riesce a confondere ancora di più le idee al suo pubblico, spiegando che si indaga «sul presunto ingaggio di ragazze per avvicinare i potenti». Quali ragazze, e soprattutto quali potenti, non si sa. Il Tg5 della sera, invece, fa finalmente il nome di Patrizia D´Addario, e anche quello dell´imprenditore coinvolto, Gianpaolo Tarantini, spiegando che quest´ultimo potrebbe aver «tentato di ingraziarsi persone influenti». Il telespettatore immagina che queste «persone influenti» siano gli stessi «potenti» evocati dal Tg1, ma non gli viene dato neanche un indizio per capire chi siano.
Venerdì 19 Gianpaolo Tarantini - l´imprenditore indagato per «induzione alla prostituzione» - dà all´Ansa la sua versione dei fatti, l´opposizione chiede al premier di riferire in Parlamento e il quotidiano dei vescovi, «Avvenire», lo invita apertamente a discolparsi: «Occorre un chiarimento con l´opinione pubblica». Le notizie non mancano, ma il Tg1 di Minzolini comincia con un Berlusconi furioso: «Le trame giudiziarie e gli attacchi mediatici non mi butteranno giù!». Il nostro telespettatore è sempre più curioso di capire cosa diavolo stia succedendo, ma deve accontentarsi di quello che gli passa il convento di Mimun, ovvero il Tg5 delle 20: «Il premier ha commentato così le voci che per vari rivoli sono emerse in questi giorni». Quali voci? E dove sono emerse? Certo non al Tg5 (e neppure al Tg1).
Sabato 20 una delle ragazze coinvolte, Barbara Montereale, racconta a «Repubblica» cosa accadeva nelle feste di Palazzo Grazioli («Tutte lo chiamavano papi»), mentre si apprende che dalle registrazioni consegnate da Patrizia D´Addario ai magistrati si sentirebbe la voce di Berlusconi che dice: «Vai ad aspettarmi nel letto grande». Con questi tasselli il puzzle è quasi completo, e infatti l´indomani i giornali stranieri racconteranno la storia con dovizia di particolari. Per il Tg1 e il Tg5, invece, il caso è chiuso. Non un titolo, non un servizio, non una parola. Una pietra tombale ha seppellito l´inchiesta di Bari, i sospetti dei magistrati, l´imbarazzo del premier e le domande dell´opposizione. Cosa sia successo nelle misteriosissime feste di Palazzo Grazioli, il telespettatore italiano non è riuscito a saperlo. E forse non lo saprà mai, se aspetterà che glielo rivelino i tg di Berlusconia.

Repubblica 22.6.09
Tg, la macchina del silenzio
di Carlo Galli

Che l´uomo politico non debba essere vizioso è stato a lungo affermato dalla tradizione, tanto da quella pagana quanto da quella cristiana, attraverso una ricca trattatistica.
Si imponeva al principe, proprio perché fosse un buon politico, l´esercizio delle più comuni forme di moralità: la rettitudine, l´onestà, la mansuetudine, la magnanimità. Virtù umana e virtù civile del principe non dovevano divergere: la loro sconnessione era indizio di decadenza pubblica, non solo di privata malvagità
È in età moderna che si fa strada l´idea che i comportamenti privati dei politici possano essere irrilevanti politicamente, perché l´esistenza collettiva ha un´intrinseca e autonoma moralità, diversa da quella che riguarda i singoli individui. Così, nella tradizione aperta da Machiavelli e proseguita nella Ragion di Stato, i valori politici sono la sicurezza, la potenza e la gloria dello Stato; si tratta di fini e di ideali che consentono al governante, per realizzarli, comportamenti difformi dalla morale tradizionale; e poiché si chiede all´uomo politico solo il successo, con ogni mezzo, della sua azione politica, la sua vita privata non è più importante.
La distinzione fra morale e politica che così si istituisce è controversa, e viene a volte accettata e a volte respinta tanto dalle culture religiose quanto dal pensiero politico laico. La Chiesa cattolica ha di fatto concesso qualcosa alla distinzione, dato che - pur continuando ad affermare che la politica si fonda in ultima istanza sulla morale - ha rifiutato di far dipendere la legittimità di un uomo politico dalla moralità dei suoi comportamenti privati (fino a quando non fanno scandalo pubblico); mentre al contrario nel mondo protestante - meno nel luteranesimo e più nel calvinismo - si è lottato contro la corruzione e la peccaminosità dei principi, e si è preteso da loro, come da tutti i fedeli (ossia da tutti i cittadini), una linearità di comportamento morale che non distinguesse fra pubblico e privato. Certamente, ne sono nati fanatismi e ipocrisie, cacce alle streghe e conformismi; ma ne è nata anche l´attitudine delle pubbliche opinioni a chiedere conto ai potenti della loro integrità personale oltre che della loro capacità politica. Secondo uno stile che si è affermato pienamente negli Usa, un popolo di uomini liberi ha l´orgoglio di non farsi governare da politici corrotti.
Pare a molte delle culture politiche europee liberali che questo sia moralismo politico, per quanto di orientamento democratico. E quindi la tradizione liberaldemocratica tiene ferma la distinzione fra morale e politica, poiché crede nella separazione fra privato e pubblico; e auspica tanto dall´uomo politico quanto dal semplice cittadino il rispetto della morale (di una delle molte possibili morali) nei comportamenti privati, mentre esige che la conformità alla legge (che incorpora inevitabilmente diffuse credenze morali, ma che con la morale non coincide per nulla) sia la regola dell´agire pubblico di chiunque. Mentre le violazioni della morale sono faccende private (di privacy), rispetto alla legge sono concesse agli uomini politici (non ai semplici cittadini) deroghe e eccezioni, segreti e opacità, ma in misura molto limitata e esclusivamente per il superiore interesse della cosa pubblica.
Tutto chiaro, dunque? La liberaldemocrazia europea ha risolto la millenaria questione del rapporto fra morale e politica privatizzando la morale e giuridificando la politica? Per nulla. Infatti, come è assurdo immaginare una democrazia viva e vitale in una società di persone rispettose della legge ma tutte e sempre moralmente abiette, così è impensabile che un grande governante sia anche radicalmente e sistematicamente immorale nella vita privata. In realtà è evidente che la liberaldemocrazia per essere vitale deve negare tanto la piena sovrapposizione fra politica e morale quanto la loro totale separatezza, tanto il moralismo quanto il cinismo, e deve esigere che fra politica e morale si istituisca una qualche relazione. Questa - non formalizzabile in norme di legge eppure, per una sorta di istinto, chiara alle pubbliche opinioni informate - consiste in una sorta di analogia, ovvero in una vicinanza o almeno in una non radicale contrapposizione, fra il modo in cui un uomo di potere tratta coloro che gli sono vicini (la sua morale) e il modo in cui governa i cittadini, e risponde a loro (la sua politica). La legittimazione dei leader, insomma, non sta solo nell´aver vinto le elezioni, ma nel saper rispettare in ogni circostanza e in ogni momento il fine ultimo - politico e insieme morale - della democrazia, l´ethos democratico: la libertà degli individui, la dignità dei cittadini, l´umanità delle persone. Decadenza c´è quando di questa analogia - civile, e non fanatica - né i politici né i cittadini sentono la necessità.

Repubblica 22.6.09
Tra le donne che guidano i cortei "Alzatevi tutti, dobbiamo continuare"
di Roger Cohen

Un uomo accanto a me gli ha lanciato una pietra. Il comandante, senza battere ciglio, ha continuato a pregarli. C´erano dei cori: «Unisciti a noi, unisciti a noi!». La pattuglia si è ritirata verso via della Rivoluzione, dove folti gruppi di persone si spostavano vorticosamente avanti e indietro attaccati dalla milizia Basiji armata di bastoni e dagli agenti di polizia antisommossa vestiti di nero sulle loro motocicletta.
Nuvole di fumo nero aleggiavano sulla grande città nel tardo pomeriggio. Da alcune motociclette date alle fiamme si levavano grandi fiammate verso il cielo. L´ayatollah Ali Khamenei, la guida suprema, aveva approfittato del suo sermone del venerdì per dare un ultimatum a Teheran, minacciando «spargimento di sangue e caos» se fossero continuate le proteste di chi contestava il risultato delle elezioni.
Sabato li ha ottenuti entrambi, ma ha anche visto l´autorità della sua carica, fino ad allora sacrosanta, sfidata come non era mai successo da quando la rivoluzione del 1979 aveva generato la Repubblica islamica e concepito per lui un ruolo di guida a fianco al Profeta stesso. Una moltitudine di iraniani, sabato, ha spinto la sua lotta oltre un limite sacro dal quale sarà difficile poter tornare indietro.
Non so dove porterà questa sollevazione. Quello che so è che alcune unità delle polizia stanno vacillando. E che il comandante che parlava della sua famiglia non era solo. C´erano altri poliziotti che si lamentavano delle indisciplinate milizie Basiji. Alcune forze di sicurezza sono rimaste ferme a guardare.
So anche che le donne iraniane sono in prima linea. Da giorni, ormai, le vedo incoraggiare gli uomini meno coraggiosi ad andare avanti. Le ho viste percosse e poi ributtarsi nella mischia. «Perché state lì seduti?», ha gridato una donna a due uomini accovacciati sul marciapiede. «Alzatevi! Alzatevi!».
Un´altra donna, Mahin, 52 anni, occhi verdi, si trascinava piangendo in un vicolo, con le mani sul volto. Poi, incoraggiata dalle persone intorno a lei, ha raggiunto zoppicando la folla che si dirigeva verso piazza della Libertà. La accompagnavano le grida di «Morte al dittatore» e «Vogliamo la libertà».
C´era gente di tutte le età. Ho visto un anziano con le stampelle, impiegati di mezza età e bande di adolescenti. Diversamente dalle rivolte studentesche del 2003 e del 1999, questo movimento è ampio. Una donna mi ha chiesto: «Le Nazioni Unite non potrebbero aiutarci?». Le ho detto che ne dubito molto. «Allora», ha detto, «dobbiamo cavarcela da soli».
Nei pressi di via della Rivoluzione, mi sono ritrovato in una nuvola di gas lacrimogeno. Pochi minuti prima avevo acceso una sigaretta - non per abitudine ma per necessità - e un giovane mi è crollato davanti urlando: «Soffiami il fumo in faccia». Il fumo riduce in parte gli effetti del gas. Ho fatto quello che potevo e lui mi ha detto, in inglese: «Siamo con voi». Insieme al mio collega, siamo finiti in un vicolo cieco - a Teheran ce ne sono tanti - per sfuggire al bruciore del gas e alla polizia. Sono caduto boccheggiante in un portone, dove qualcuno aveva acceso un fuocherello in un piatto per alleviare l´irritazione.
Più tardi ci siamo diretti verso nord, guardinghi, attenti alle improvvise cariche della polizia, e abbiamo raggiunto piazza della Vittoria, dove si stava svolgendo un aspro scontro. Dei giovani spezzavano pietre e mattoni per poterli lanciare. Alcuni gruppi di persone si affollavano sui cavalcavia per filmare e incoraggiare i manifestanti. Una macchina ha preso fuoco. La folla avanzava e indietreggiava, affrontata da unità di polizia poco convinte.
Attraverso il fumo ho visto un manifesto con il viso severo di Khomeini che campeggiava sulle parole: «L´Islam è la religione della libertà». Più tardi, mentre calava la notte sulla capitale in tumulto, si sentivano degli spari in lontananza. Dai tetti della città, il grido di sfida «Allah-u-Akbar» - Dio è grande - risuonava nuovamente, come ogni notte dal giorno dei brogli elettorali. Sabato, però, sembrava più forte. Lo stesso grido si sentì nel 1979, solo perché una forma di assolutismo lasciasse il posto ad un´altra. L´Iran ha aspettato abbastanza per essere libero.
Copyright New York Times/la Repubblica. Traduzione di Luis E. Moriones

l'Unità 22.6.09
Gli affari sono affari
Al G8 sarà ospite gradito
Europa e Stati Uniti sotto accusa a Teheran. Tace Berlusconi, Frattini
«rispetta la sovranità» del Paese in cui è in corso una rude repressione
di Umberto De Giovannangeli

Basso profilo. Ancora più marcato se raffrontato con la dura presa di posizione che accomuna Washington a Londra, Parigi a Berlino. Basso profilo. È quello che connota il punto di vista del governo italiano di fronte alla «Primavera di Teheran». Silente il Cavaliere - un silenzio tanto più imbarazzante se confrontato con le prese di posizione della cancelliera tedesca Angela Merkel e del presidente francese Nicolas Sarkozy - a tenere la scena, si fa per dire, è Franco Frattini. A fronte delle drammatiche notizie che continuano ad arrivare da Teheran, il titolare della Farnesina dichiara: «L’Italia rispetta l’Iran, la sua sovranità e ne riconosce il ruolo importante sul piano regionale, a partire dall’Afghanistan alla cui stabilizzazione l’Iran può dare un contributo particolarmente utile, auspicabilmente già a partire dalla riunione del G8 a Trieste la settimana prossima».
Frattini, ribadisce l’invito a Teheran: «È in questo spirito positivo e costruttivo - spiega in una nota il ministro - che l’Italia ritiene sia pertanto nell’interesse dell’Iran stesso di adoperarsi per ricercare una stabilità interna che sia condivisa con la società civile, sostenibile e coerente con le grandi tradizioni di civiltà del Paese». «Con la violenza e la repressione - aggiunge Frattini - non si progredirebbe su questa strada positiva che l’intera comunità internazionale sta auspicando». E conclude ricordando che «il diritto alla salvaguardia delle vite umane viene prima di ogni altra cosa». Stop.
La parola d’ordine è: prudenza. Una prudenza che stride con quanto lo stesso Frattini ebbe a dire neanche un anno fa: con l’Iran del «novello Hitler» (Berlusconi dixit) «c’è un problema politico: non può essere un interlocutore dell’Italia chi dice che Israele debba essere cancellata dalla carta geografica».
Interlocutore politico, forse sì, forse no, no, ma gli affari, si sa, sono affari... E gli interessi commerciali rimangono di capitale importanza per l’Italia, in un Paese ricco di petrolio e gas come l’Iran (quarto produttore di greggio al mondo), con il quale esiste una consolidata tradizione di interscambi e progetti di sviluppo realizzati da imprese italiane.
L’Italia è stata, tra i Paesi dell’Unione Europea, il primo partner commerciale dell’Iran. Un dato che, risultato in crescita nel primo semestre i del 2008 rapportati allo stesso periodo del 2007. Ancora: programmi di assicurazione all’export dell’Italia verso l’Iran ammontano a circa 4,5 miliardi di euro e tra i Paesi dell’Unione Europea, l’Italia è seconda solo alla Germania. La SACE, principale Agenzia di Credito all’Esportazione in Italia che a tutt’oggi è al 100% di proprietà del Ministero del Tesoro, assicura le imprese che realizzano progetti e investimenti in Iran contro il rischio politico e commerciale di insolvenza - nota la Crbm (Campagna per la riforma della Banca Mondiale). Ed anche a livello creditizio i rapporti bilaterali sono significativi. Ansaldo, Mediobanca, Eni, Telecom, Capitalia, Montedison, Falck. Il gotha del capitalismo italiano non ha smesso di fare affari, del tutto leciti, con l’Iran khomeinista. Con l’Iran, oggi, di Mahmud Ahmadinejad. Domanda: questi affari possono far girare lo sguardo dall’altra parte mentre la «Primavera di Teheran» è repressa nel sangue?

Corriere della Sera 22.6.09
L’intervista Il regista Mohsen Makhmalbaf, amico di Mousavi e portavoce dell’Onda verde: «Sostenete il nuovo Mandela»
«Il mio appello a tutti i governi: non legittimate Ahmadinejad»
di Viviana Mazza

«Non è più solo una protesta per un’elezione. Questa è in un certo senso una rivoluzione»

«L’Italia non accetti il governo di Ahmadinejad. Come potete invitare un governo che uccide la sua gen­te? ». Mohsen Makhmalbaf lancia que­sto appello al nostro governo, che ha invitato l’Iran al G8 di Trieste. Makh­malbaf è un premiatissimo regista ira­niano, autore di Viaggio a Kandahar e di una quindicina di altri film tra cui Tempo d’amare, Pane e fiore, Il si­lenzio.
Mentre il governo iraniano im­pedisce ogni contatto con il leader dell’opposizione Mir Hossein Mousa­vi, Makhmalbaf, che lo conosce da vent’anni, è diventato il portavoce dell’amico, anche se rifiuta il titolo: «Cerco di dire quello che succede nel Paese, sono il portavoce del popolo che muore nelle strade», dice al tele­fono da Parigi. A Bruxelles, con la di­segnatrice Marjane Satrapi ( Persepo­lis) ha spiegato alla stampa che i risul­tati delle elezioni sono stati falsificati e ha chiesto ai governi stranieri di non riconoscere Ahmadinejad come presidente. Domani ripeterà l’appello a Roma con gli iraniani d’Italia.
Avete presentato come prova dei brogli la fotocopia di una lettera del ministero dell’Interno che mostra la vittoria di Mousavi con 19 milioni di voti. Ma dov’è il documento vero?
«Il documento vero è la gente nel­le strade. Negli ultimi 30 anni non ci sono state manifestazioni così, se non a favore del potere. E ora guarda­te: ci sono milioni di persone in stra­da, sono pronti a morire».
Come ha conosciuto Mousavi?
«Quand’era primo ministro. I con­servatori cercavano di censurare ogni cosa, ma lui era dalla parte degli artisti. Dopo aver girato Il matrimo­nio dei benedetti (1988, storia di un veterano della guerra con l’Iraq risen­tito per la vita migliore che conduce chi non ha combattuto, ndr) fui inter­rogato dalla polizia segreta. Fu bandi­to, ma Mousavi mi difese, anche se il film era critico. È un vero democrati­co».
Che contatti ha ora con lui?
«Sabato ho sentito uno dei suoi uo­mini. Poi alle 9, Mousavi ha parlato alla manifestazione di Teheran: gli ira­niani hanno diffuso la sua voce coi te­lefonini. L’ho sentita, l’ho riconosciu­to. Si è detto pronto a morire per il popolo. E poi: 'Abbasso il colpo di stato, abbasso il colpo di stato'. La po­lizia segreta controlla il suo ufficio, ha distrutto i mezzi di comunicazio­ne. Ma non lo controllano del tutto. E non lo arrestano perché la gente sa­rebbe furiosa, ma tagliano i contatti tra lui e il popolo».
In questo modo possono fermare le proteste?
«Sabato alle 4 era stato impedito a Mousavi di partecipare, ma la gente è andata lo stesso. Sono arrabbiati, vo­gliono il cambiamento vero, la demo­crazia, la pace e non la bomba atomi­ca. E’ più che una protesta per un’ele­zione, è in un certo senso una rivolu­zione. Khamenei spera che si stanchi­no, ma sono serissimi: 30 anni fa ab­biamo fatto la rivoluzione e abbiamo fallito; 12 anni fa abbiamo scelto Kha­tami ma le riforme non ci sono state, abbiamo fallito; 4 anni fa non siamo andati a votare, ha vinto Ahmadinejad; ora siamo andati ma abbiamo fallito ancora. C’è rimasta solo la rivoluzione e chiedere ai governi di aiutarci non rico­noscendo Ahmadi­nejad. Khamenei vuole che lo confermino, se no è indi­ce di un governo debole».
Mousavi è stato definito un mode­rato. Ora si dice pronto al martirio. E’ pronto a uno scontro duro?
«Prima della rivoluzione Mousavi era contro lo Scià, ma non gli piaceva­no i mullah. Quando Khomeini diven­ne leader della rivoluzione, attirò l’in­teresse di tutti, di destra e sinistra. Mousavi divenne premier, si occupa­va di economia e cultura ma si scon­trò con Khamenei, allora presidente. Il premier aveva più potere del presi­dente, ed era più socialista di Khame­nei. Quando Khamenei divenne la Guida, abolì il posto di premier, cac­ciò Mousavi. Da allo­ra è vissuto tra gli artisti. Era un rivolu­zionario, ma è cam­biato molto. Era un Che Guevara islami­co, oggi è più simile a Mandela e a Gan­dhi. Mousavi non vuole che gli irania­ni siano uccisi, e il movimento è non violento. Gli scioperi sarebbero una buona strategia. Diciamo alla gente: continuate la rivoluzione. Ma sono lo­ro a decidere come. Se Khamenei con­tinua a ucciderli o arresta Mousavi, la rabbia sarà grande, come 30 anni fa».

l'Unità 22.6.09
Gerusalemme, l'altro dio mi ha rubato la casa
di Maurizio Chierici

Non una riga sui giornali, Iran e la crisi che ci tormenta. Torneremo a parlare della vita quotidiana dei palestinesi dopo il prossimo massacro. Da 50 anni funziona così. Con l’ardire di una voce nel deserto, Mediterraneo, trasmissione di Rai Tv 3, spiega come funziona la fabbrica dei profughi. 70mila palestinesi stanno per essere allontanati dalle case nelle quali hanno trovato rifugio dopo la guerra 1948, dopo la guerra 1967, dopo la passeggiata di Sharon nei quartieri arabi della Città Santa. In fuga sotto le mura; espulsi ma almeno vicini alle strade dove nonni e padri sono nati. Adesso devono andar via. Il municipio ha espropriato i terreni nei quali - è detto - si trovano reperti storico religiosi che consolidano la memoria ebraica calpestata dai loro piedi. Sacrilegio. Case costruite senza permessi di costruzione. A dire il vero da 30 anni chiedono da 30 anni chiedono questi permessi; da 30 anni nessuno risponde. Adesso, la punizione.
«Il caos non rispetta nessuna piega della vita», sospira Abraham Yehoshua. E per evitare che il caos travolga la ragione, suggerisce il realismo: «Ogni volta che spunta la parola pace il discorso torna a Gerusalemme. Ciascuna parte ne pretende una fetta, più grande, meno grande. Sarebbe bello se ogni parte rinunciasse all’egoismo sulle pietre della città dove si è rivelata la volontà di Dio: può cambiare il nome, ma quel Dio è sempre lo stesso. Gerusalemme città del Dio che unisce e non divide non dovrebbe appartenere a nessuno». Speranza del grande scrittore intimorito dallo svanire del laicismo nella borghesia palestinese. L’integralismo religioso resta l’ultimo appiglio. Mentre i bulldozer distruggono le stanze della loro vita, nel ghetto dei campi profughi le ragazze smettono il rossetto e ritrovavano il velo. Si apre la nuova stagione di una rabbia difficile da controllare. Spaventa Amoz Oz, narratore israeliano che ha voglia di pace: «Con l’alibi del pericolo palestinese troppa gente fa troppe cose. Ogni volta che gli israeliani ascoltano l’espressione «il problema dei profughi», sentono un pugno nello stomaco. Centinaia di migliaia vivono in campi disumani. Per Israele la colpa è dei leader palestinesi che hanno cominciato la guerra nel 1948 e degli stessi profughi che hanno abbandonato le case sconvolti dal panico. Per gli arabi, la responsabilità è di Israele: espropria e distrugge con forza crudele. È venuto il momento di riconoscere apertamente la nostra partecipazione alla catastrofe. Non siamo i soli responsabili e i soli colpevoli, ma le nostre mani non sono pulite. Israele è sufficientemente forte per ammettere la propria parte di responsabilità e per accelerare le conclusioni». Ogni giorno la coda dei profughi si allunga. Nessuno spiega: profughi da dove? Dalle stanze che le macchine stanno sventrando qualche chilometro più in là. mchierici2@libero.it

Corriere della Sera 22.6.09
Il personaggio La bionda avvocatessa dello Jobbik minaccia: «Abbiamo rialzato la testa e non tollereremo più gli ebrei»
Krisztina Morvai l’antisemita. Un nuovo caso a Strasburgo
L’eurodeputata ungherese sarà accolta da un’ondata di proteste
di Luigi Offeddu

BRUXELLES — C’è anche lei, fra i nuovi arrivi al Parlamento Europeo, e sarà probabilmente il capogruppo degli euroscettici: bella, bionda, 46 anni, ottimi studi, l’avvocatessa Krisztina Morvai farà la sua figura fra i banchi di Strasburgo. Jobbik, il «Movimento per una migliore Un­gheria » che l’ha candidata, s’è con­quistato quasi il 15% dei voti e 3 seg­gi all’Europarlamento principalmen­te grazie a lei. Ha un solo problema, l’avvocatessa: i suoi rapporti con la comunità ebraica, in Ungheria e nel mondo.
Ultimo esempio, una sua dichiara­zione, riportata giorni fa dal quoti­diano israeliano Haaretz, e ripresa con indignazione da vari siti di orga­nizzazioni ebraiche: «Sarei contenta se coloro che si definiscono fieri ebrei ungheresi se ne andassero a giocherellare con i loro piccoli peni circoncisi, invece di insultare me».
Era la risposta agli attacchi di Ga­bor Barat, amministratore di un isti­tuto radiologico di New York, che di­cendosi «fiero di essere un emigrato ebreo e ungherese» aveva definito la Morvai «un caso psichiatrico, un mo­stro » per i suoi discorsi durante la campagna elettorale. La risposta, una sorta di missiva agli ebrei, anda­va anche più in là: «La gente come voi è abituata a vedere la gente come noi mettersi sull’attenti ogni volta che date sfogo alle vostre flatulenze. Dovreste per cortesia rendervi conto che tutto questo è finito. Abbiamo rialzato la testa e non tollereremo più il vostro tipo di terrore. Ci ripren­deremo il nostro Paese». Concetti rie­cheggiati da Gabor Vona, il presiden­te di Jobbik, subito dopo le elezioni: «Jobbik non parla solamente, ma tra­durrà le parole in azione. L’Ungheria appartiene agli ungheresi».
Le «riflessioni» dell’avvocatessa erano appena rimbalzate fra Buda­pest e Israele, che già arrivavano le prime reazioni. Il partito della destra moderata ungherese Fidesz (56,3% dei voti) bollava il pensiero della si­gnora come «inconcepibile e antise­mitico », e chiedeva delle scuse pub­bliche. L’ex ministro degli Esteri Ge­za Jeszenszky diceva che la Morvai si era «autoesclusa dalla vita pubbli­ca ». Il capo delle comunità ebraiche ungheresi, Gustav Zoltai, dichiarava che commenti simili dovrebbero escludere chiunque li faccia da un ruolo ufficiale nel Parlamento Euro­peo.
E proprio questo è ora il proble­ma. Perché la Morvai è stata eletta regolarmente, ma già si parla di qual­che protesta, almeno simbolica, che la attenderebbe alla prima comparsa in aula. Mentre da Parigi, il presiden­te del Congresso ebraico europeo, Moshe Kantor, auspica che si con­danni «nei termini più forti, l’uso vi­gliacco e cinico di un linguaggio an­tisemitico, razzista, e teso a incutere paura, da parte di alcuni candidati al­l’Europarlamento ».
L’avvocatessa non sembra preoc­cupata, anzi. Alle accuse di antisemi­tismo, risponde il bollettino di un sindacato di polizia ungherese: «Nel­la situazione di oggi, l’antisemiti­smo non è solo un nostro diritto, ma è dovere di ogni ungherese che ama la propria terra: non ci dobbia­mo preparare per la battaglia contro gli ebrei...così come dobbiamo pre­pararci a una guerra civile fra unghe­resi e zingari, fomentata dagli ebrei che si sfregano contenti le mani». Questo sindacato raccoglie circa il 10% dei poliziotti ungheresi. Il diret­tore del suo bollettino è una donna, Judit Szima, già colonnello della poli­zia. E candidata alle elezioni euro­pee, con Jobbik.

l'Unità 22.6.09
Il complesso fenomeno della depressione infantile e adolescenziale è in aumento
Male oscuro Sono molti i modi creativi per uscirne e affrontare la paura e la fatica di crescere
Quando il mondo va in briciole
di Manuela Trinci

Troppi bambini e ragazzi melanconici, annoiati e inappetenti: la depressione infantile o «malattia degli affetti» sembra dilagare: pandemia o diagnosi facili? E quali i rimedi?

Conquista il cuore col suo comportamento da perdente, Charlie Brown, il bambino dalla testa tonda che sempre ha bisogno di incoraggiamento, che sempre è tormentato da colpe e avvilimenti.
LA SINDROME DI CHARLIE BROWN
Non casualmente, quindi, lo psichiatra americano Symonds coniò per i ragazzini depressi il termine di «sindrome di Charlie Brown» proprio per poter spiegare, anche ai non addeti ai lavori, un quadro clinico sovrapponibile a quello del personaggio di Schulz, famoso per l’accettazione di un’esistenza candidata al fallimento e alla solitudine. E se ancora negli anni Ottanta si guardava in maniera interlocutoria a questa «malattia degli affetti» nei bambini, oggigiorno si vive in una sorta di allarme baby-depressione, amplificato dai soliti, inattendibili, dati statistici che vanno dal 4 al 7 al 12% nell’età scolare sino al 27,5% in adolescenza. Un vero e proprio boom del «male bambino» capace di far impallidire il pur notevole successo ottenuto nel medioevo dalla peste nera! Eppure è vero, anche i lattanti - se privati di affetti e sicurezze - esprimono difensivamente il loro congelamento affettivo attraverso il corpo, con disturbi del sonno, eczemi, disappetenza..., mentre per i ragazzini nell’età della ragione sono la noia cronica che li affligge, le crisi di pianto o di incontenibile eccitamento, i loro giochi che si abbozzano e mai decollano, i loro disegni dai paesaggi aridi, la mancanza di investimento e piacere, la ricerca tanto del «castigo» quanto della rassicurazione di essere amati, a far pensare di essere di fronte a piccoli melanconici, a bambini che davanti a un «dolore mentale» forte e insostenibile si «proteggono» con sentimenti di impotenza, disperazione e rassegnazione. Una modalità, dunque, di capitolazione e di ritirata. Ed è in questi termini difensivi che in ambito clinico si parla attualmente di depressione infantile, anche se, purtroppo, il vocabolario terapeutico imperante che ha contaminato il linguaggio di tutti i giorni ha reso la stessa depressione infantile una diagnosi dai confini slabbrati, una easy-etichetta gergale che rende più agevole sia il trattamento di comportamenti problematici sia quella ricerca di identità, tramite diagnosi, più rassicurante del balsamo di tigre! Ma non solo. Questa specie di oscura pandemia oltre ad aver creato un allarme generalizzato e paralizzante in genitori e insegnanti che sentono figli e allievi sempre sull’orlo di crisi, crolli e suicidi, ha fatto perdere di vista quale sia il limite fra i sentimenti normali di inadeguatezza, impotenza o colpa o rassegnazione, fra le temporanee reazioni depressive alla «perdita» e al dolore, fra bambini che entrano ed escono dallo stato affettivo depressivo (per poi arrivare a quella che gli psicologi chiamano una normale capacità di preoccuparsi e di ripare) e quello che possiamo considerare la fisionomia reale (quanto molteplice) del disturbo depressivo stesso.
SPACCATI IN DUE
Recuperare allora per i bambini un abbecedario degli affetti, una grammatica della vita interiore, contro quel pericoloso conformismo, che ha fatto della depressione il «male di crescere», diviene urgente. Per i più piccoli sbucano dai librini legioni di draghetti, conigli e pulcini e ranocchi dal muso lungo e mucche di pessimo umore che con le loro titubanze e inadeguatezze, danno voce e declinano quei malinconici sentimenti che ogni bambino sperimenta nella sua quotidiana «fatica di crescere». Per riprendersi, dunque, modi creativi di vivere la tristezza come la gioia, la sofferenza come la letizia, non mancano all’appello, in molti racconti o romanzi, neppure schiere di ragazzini o ragazzine introversi e solitari, tristi o abbattuti. Ragazzini che si sentono, magari, spaccati in due per la separazione dei genitori, o ragazzini che per il loro anomalo aspetto o per il cattivo andamento scolastico, o per un amore infelice si ritrovano con il mondo in briciole, oppure che si sentono rallentati in un mondo senza futuro.
Visioni multiple e polifonie dove non di rado si intrecciano il «dolore morale» dei figli all’umore malato, al disturbo mentale, dei genitori, la tragedia della guerra con lo svuotamento dei progetti di vita, le considerazioni serie con i consigli pratici: «Se sei depresso - suggerisce Charlie Brown - è d’aiuto appoggiare la testa al braccio e fissare il vuoto!»

l'Unità 22.6.09
«Nature»: il G8 della scienza è stato annullato senza spiegazioni
«Science»: l’istituto Italiano di tecnologia macina denaro senza risultati
La ricerca scientifica in Italia? Un vero disastro
di Pietro Greco

La politica della scienza italiana fa notizia. Se ne sono occupate due riviste scientifiche internazionali, «Nature» e «Science». Ma da entrambe le cronache la politica della scienza italiana esce a pezzi.
Nature, 17 giugno 2009: l’Italia cancella il G8 della scienza senza fornire spiegazione alcuna. Lasciando tutti sorpresi e irritati.
Science, 19 giugno 2009: molti vorrebbero imitare il Mit di Boston. A Genova hanno dimostrato che non è facile riuscirci. Non c’è dubbio: la politica della scienza italiana fa notizia. Se ne sono occupate due riviste scientifiche internazionali, l’inglese Nature e l’americana Science, appunto. Ma da entrambe le cronache la politica della scienza italiana ne esce a pezzi.
DALL’INGHILTERRA
Nature racconta di come l’Italia, in vista del round conclusivo del G8 che sotto la sua presidenza si terrà a L’Aquila dall’8 al 10 luglio, avrebbe dovuto organizzare anche il G8 della ricerca a Torino, una riunione dei ministri competenti degli 8 paesi più industrializzati insieme a quelli di cinque tra le principali economie emergenti (Cina, India, Sud Africa, Messico, Brasile). La riunione era stata preceduta da incontri, risoluzioni, documenti preparati dalla accademie scientifiche di questi paesi in vista di importanti appuntamenti, come quello si terrà a fine anno a Copenaghen sul clima. Ebbene, tutto questo è saltato. Non era mai successo nella storia del G8. Ed è saltato senza alcuna spiegazione ufficiale. Richiesto di fornirne una almeno ufficiosa a Nature, il ministro Gelmini, non ha risposto. Suscitando sconcerto nella redazione della rivista inglese, venduta ogni settimana in almeno mezzo milione di copie in tutto il mondo.
DALL’AMERICA
Science, invece, si occupa dell’Istituto Italiano di Tecnologia nato a Genova nel 2003 per volontà del Ministro Tremonti con un budget enorme convinto di poter costruire di punto in bianco in Italia un Istituto per l’innovazione tecnologica sul modello del Mit di Boston capace di stabilire un fecondo dialogo tra scienza e industria. Science riporta l’opinione a consuntivo del direttore scientifico dell’Iit, Roberto Cingolani. L’iniziativa si è rivelata un successo sia perché l’istituto ha 380 ricercatori, molti dei quali stranieri provenienti da 38 paesi diversi, sia perché sono stati pubblicati 400 articoli scientifici firmati da ricercatori che afferiscono all’Iit.
Ma Science riporta anche le voci critiche, secondo cui l’Istituto - che in sei anni ha gestito un budget di ben 518 milioni di euro - ha fallito il suo obiettivo principale: a tutt’oggi non c’è una sola azienda italiana che abbia investito nelle sue attività. Molti stranieri di prestigio hanno offerto il loro nome, ma non hanno assicurato la loro presenza nell’istituto. C’è poco coordinamento fra i tre settori di ricerca. C’è un conflitto di interessi piuttosto palese: il Presidente dell’Iit, Vittorio Grilli, è anche Direttore generale del Tesoro e, quindi, si trova in una posizione - riceve i soldi (come presidente dell’Iit) che egli stesso si assegna (come direttore generale del Tesoro) - che fuori d’Italia non è considerata un bene. Il commento di Science è ironico: tutti vogliono imitare il Mit di Boston, ma a Genova stanno scoprendo che non tutti sono d’accordo su come fare. La politica della ricerca italiana fa notizia. Purtroppo.

Repubblica 22.6.09
"Hitler invaderà l´Urss" una spia avvertì Stalin
La fonte era considerata dall´intelligence tra le più attendibili e sicure
di Leonardo Coen

Desecretate le carte dei servizi segreti di Mosca, un agente russo avvisò il Cremlino delle intenzioni naziste Ma nonostante tutto il leader georgiano decise di non agire per essere considerato vittima di un´aggressione

MOSCA. Il Servizio di spionaggio estero russo ha tolto i sigilli a un documento rimasto secretato per 68 anni, giusto alla vigilia delle celebrazioni della Grande Guerra Patriottica, come i russi chiamano l´entrata in guerra contro la Germania nazista, il 22 giugno del 1941: in esso si rivela come un informatore avesse avvertito Mosca dell´invasione nazista, precisandone la data e l´ora dell´attacco. Il messaggio fu spedito il 19 giugno 1941. La sera stessa Stalin sapeva esattamente quando tre milioni di soldati nazisti, 2mila aerei, 3000 carri armati, 750mila cavalli, suddivisi in tre gruppi di armate, avrebbero varcato la frontiera sovietica. Seppe anche che i tedeschi avrebbero seguito lo stesso percorso dei polacchi nel 1612 e di Napoleone nel 1812 per giungere a Mosca.
Eppure, per decenni, gli storici hanno parlato di "attacco sorpresa" e hanno descritto le angosciose giornate di incredulità di Stalin e del Politburo che seguirono i primi bombardamenti nazisti, nonostante le sempre più ricorrenti comunicazioni da parte di diplomatici ed agenti segreti che Hitler stava preparando l´attacco che seguirono ai primi bombardamenti aerei della dirigenza sovietica.
Il dubbio che Stalin fosse a conoscenza dei piani di Hitler ha diviso la storiografia, in mancanza di prove certe. Si sa, per esempio, che due dei gruppi di informatori sovietici a Berlino - quelli di Harnack e di Schulze-Boysen - inviarono dei rapporti in cui si affermava che i «tedeschi hanno completato tutte le misure militari preparatorie ad un attacco contro l´Unione Sovietica. Il colpo può essere sferrato in qualunque momento».
L´ultimo avviso fu ricevuto a Mosca la sera del 16 giugno 1941. Stalin non gli dette troppo peso: temeva che si trattasse di disinformazioni deliberate. Ma tre giorni dopo arrivò al Cremlino un messaggio assai più circostanziato. Con cifre, dislocazioni delle tre armate tedesche pronte ad invadere l´Unione Sovietica, la loro struttura bellica e il fatto che in campo avessero schierato il fior fiore delle forze corazzate veloci. La fonte era tra le più attendibili e sicure. Solo tre mesi prima, aveva comunicato a Mosca che l´Abwehr stavano consolidando in tutta fretta un dipartimento finalizzato contro l´Urss. Il nome in codice di costui era "Breitenbach", al secolo Willi Lemann, nato a Lipsia nel 1884 e uno dei capi responsabili della rete IV-E del controspionaggio nazista (Abwehr) che operava sul territorio tedesco (la sua divisione si occupava dei diplomatici stranieri).
Il 19 giugno del 1941 l´infiltrato Breitenbach contattò urgentemente il "residente" sovietico Zhuravljov e gli comunicò che la dirigenza nazista aveva approvato data e ora d´inizio dell´Operazione Barbarossa, quella che sarebbe diventata la più gigantesca invasione della storia militare: «L´attacco verrà sferrato alle 3 del mattino del 22 giugno». Lo spionaggio sovietico informò nei particolari il Politburo e Stalin. La fonte era considerata assolutamente attendibile: aveva cominciato a collaborare con l´Nkvd sovietico sin dal 1929, per convinzione ideologica. Un´altra spia russa, il celebre Richard Sorge, che operava in Giappone, aveva cercato di avvertire Mosca dell´imminente attacco sempre in quei giorni, ma i suoi moniti furono trascurati. Inoltre, secondo l´agiografia sovietica intitolata "Il compagno Sorge", il 15 giugno aveva comunicato a Mosca che la guerra sarebbe iniziata il 22 giugno, però dopo il suo arresto, Sorge negò di avere indicato la data esatta.
A dire il vero, da qualche tempo non trasmetteva più tutti i suoi dispacci, e ammise, dopo l´arresto, che non ricordava di avere mandato un messaggio con specificata una data. Dunque, l´unico ad averlo fatto con dovizia di particolari fu Lemann, scoperto e fucilato dalla Gestapo nel dicembre del 1942. Aveva 58 anni. Nel 1911 era entrato nella polizia di Berlino ma pochi anni dopo fu trasferito al controspionaggio. Fu lui a inviare a Mosca gli organigrammi della Gestapo, d´altra parte curava il settore dell´industria bellica nazista. Una "gola profonda" che procurò all´Urss documenti di fondamentale importanza. Rimasto ombra nell´ombra, sino ad oggi.

Corriere della Sera 22.6.09
Miti Un libro dello studioso Peter Schreiner capovolge la tradizionale visione di Costantinopoli
Bisanzio, inizio della modernità
Né decadente né marginale, la storia imperiale continua oggi
di Luciano Canfora

Un’antica mappa della città di Costantinopoli, fondata nel 330 d.C., che fu per lunghi secoli la capitale dell’Impero Romano d’Oriente e venne conquistata dagli ottomani nel 1453
Dovrebbe essere ormai chiaro che il «millennio» bizantino è uno dei passaggi decisivi della civiltà: unico caso nella storia d’Europa, di trapasso graduale dall’antichità al mondo moderno Fucina delle élites
Le istituzioni culturali forgiavano i gruppi dirigenti dell’impero.
Esistevano centri di tipo universitario diversi da quelli che più tardi sorsero in Occidente: avevano poco di «statale» e molto di «privato»

La casa editrice Beck di Monaco di Ba­viera, quando non si lascia prendere da furori lato sensu ideologici, pub­blica ottimi libri di erudizione specie nel campo dell’antichità e della storia bizanti­na. Basti pensare alla encomiabile tenacia con cui ha mantenuto in vita la «Byzantinische Zei­tschrift », organo della bizantinistica mondia­le, nonché il grande e insostituibile Handbuch der Altertumswissenschaft in cui apparve, alla fine del secolo XIX, la tuttora preziosa Storia della letteratura bizantina di Karl Krumba­cher, padre fondatore della disciplina. Fu nel campo del diritto che la Casa, negli anni Tren­ta, commise qualche sproposito di cui dovette poi dar conto al tempo della amministrazione statunitense della Baviera (1945-47). Ma pre­sto tornò sulla strada maestra, solo tempora­neamente abbandonata.

Anche i grandi editori scientifici debbono però adeguarsi alle esigenze del mercato (co­me, un tempo, alle esigenze della politica): per esempio alla richiesta proveniente dalle università (che sono sempre meno «universi­tarie ») di poter disporre di agili sintesi su gran­di temi o su intere epoche storiche. E Beck lo ha fatto al meglio, affidando a grandi speciali­sti il non facile compito. Così sono apparse sin­tesi essenzialissime sui Celti o sugli antichi Germani, sull’antica Atene, e addirittura Alexander Demandt, lo storico della Freie Uni­versität, specialista e cultore di Oswald Spen­gler, si è cimentato per tali collane con una sin­tesi dell’intera storia universale, come aveva fatto a suo tempo, in Italia, Gianni Rodari in un bellissimo libro per ragazzi.
Al maggiore bizantinista tedesco, Peter Schreiner, Beck ha affidato un piccolo, ma denso e aggiornato libro su Costantinopoli: Co­stantinopoli, storia e archeologia (2007), che ora esce in italiano, nei «Piccoli Saggi» della Salerno Editrice (Roma) col titolo Costantino­poli. Metropoli dai mille volti e la presentazione — che è ben più che una presentazione — di Silvia Ronchey.
Non era un compito facile, già perché il tema stesso è considerato (a torto) settoriale e unicamente «specialistico». E invece dovrebbe essere ormai chiaro che il «millennio» bizantino è uno dei passaggi decisivi della storia: unico caso, nella storia d’Europa, di trapasso graduale dall’antichità al mondo moderno. Non era un compito affatto agevole perché si trattava di andare due volte contro corrente: non solo contro il pregiudizio della marginalità di quella storia, ma anche contro l’idea vulgata di Bisanzio come impero immobile, impegnato unicamente nella millenaria attesa di poter defungere. Era poi necessario tener conto delle molte novità che la ricerca ha prodotto e presentare le nuove acquisizioni in forma pianamente espositiva. E lo sforzo è riuscito.
L’autore chiarisce sin dalle prime pagine quanto poco sia sopravvissuto della città bizan­tina ed in quali limiti ristretti si possa parlare di «archeologia» in una città così radicalmen­te trasformata dalla sua successiva storia. Ma quando passa ai temi più controversi, per esempio quello riguardante le istituzioni cultu­rali che forgiarono i gruppi dirigenti dell’impe­ro, è molto efficace nel rendere accessibile una tematica controversa e sottile. E chiarisce in che misura si possa parlare di istituzioni di tipo «universitario», quanto diverse esse fosse­ro dalle università che sorsero poi a Occiden­te, quanto (poco) di «statale» e quanto (mol­to) di privato ci fosse in tali istituzioni. Né vie­ne trascurato il contenuto dell’insegnamento che lì veniva impartito.
Ed in pari tempo è lo stesso ruolo della capi­tale che viene storicizzato, alla luce, tra l’altro, di ricerche recenti e meno recenti sulla impor­tanza culturale delle province orientali dell’im­pero, perse per sempre alla metà del secolo VII a seguito della conquista araba e, di conse­guenza, sulla nuova centralità, anche cultura­le, in cui Costantinopoli venne a trovarsi pro­prio a seguito di tali perdite. «Tuttavia — com­menta Schreiner — proprio quel momento non era il più adatto perché le Muse esiliate recuperassero nella capitale l’importanza che avevano avuto nelle antiche roccaforti della cultura».
L’altra faccia di questo problema — che for­se esula da una trattazione incentrata su Bisan­zio e nondimeno la completa — è la durata o meglio la permanenza del greco nelle provin­ce orientali (Siria, Palestina, Egitto) pur dopo la conquista araba. Su questo punto ci sono in­dizi contrastanti. Certo, un grande storico ara­bo vissuto all’incirca al tempo del Boccaccio, Ibn-Khaldun, scrive nella sua Muqaddina («Prolegomeni storici») che il califfo Omar aveva imposto che in tutti i territori conquista­ti si parlasse e si scrivesse unicamente l’arabo del Corano e che gli altri idiomi venissero ban­diti. Ma questa direttiva non si realizzò mai in modo granitico. Nella fattispecie le tracce scrit­te, attestanti l’uso del greco durano ancora ben oltre la conquista: si possono vedere, a ri­prova, le ultime tavole dell’album storico pale­ografico edito da Medea Norsa a Pisa nel 1939 ( La scrittura letteraria greca). Ed è ben noto che Hunain Ibn-Ishaq, nel suo commento a Ga­leno, descrive la collaborazione con altri dotti operanti ad Alessandria intorno al testo del grande scienziato di Pergamo. Insomma il gre­co si conservò anche fuori dell’impero e il con­tatto con l’impero rivale ebbe, nei secoli IX-X e oltre, reciproci, benefici, effetti culturali.
Schreiner conclude la sua ricostruzione ri­cordando l’ombra delle profezie escatologiche che prevedevano la fine della «città delle mera­viglie », la fine della Costantinopoli imperiale. Filofei profetava, secoli più tardi, che dopo la fine della seconda Roma sarebbe subentrata la terza Roma (Mosca) «e una quarta Roma non ci sarà». Formulazione efficace nel significare quanto la storia dell’impero apparentemente immobile di Bisanzio si prolunghi in realtà sin nel nostro presente.

Repubblica 22.6.09
Beethoven
Svelato il mistero di Elisa era la moglie dell´amico-rivale
di Andrea Tarquini

Per quasi duecento anni, dal 1810 quando il Maestro compose quel pezzo, a oggi, storici e critici della musica hanno tentato invano di scoprire a chi fosse dedicato. Oggi finalmente il mistero è risolto: «Fuer Elise», Per Elisa, fu scritto da Ludwig van Beethoven a Vienna per dedicarlo alla giovane, graziosa Elisabeth Roeckel, una soprano, allora promettente, che poi sposò l´amico-rivale di Beethoven, Johann Nepomuk Hummel.
È come se la leggenda tornasse ancora più viva. E infatti l´anno prossimo, le prove complete dell´origine di quella musica memorabile, saranno presentate ai Bonner Beethoven-Studien, il classico appuntamento di studio e rievocazione della vita e opere del maestro.
L´autore della scoperta è Klaus-Martin Kopitz, un autorevole esperto della biografia e delle opere di Ludwig van Beethoven. Nell´archivio del Wiener Stephansdom, cioè la suggestiva cattedrale che domina il centro di Vienna, Herr Kopitz si è imbattuto nelle carte che gli hanno fornito la chiave dell´enigma. La mitica Elise, per noi Elisa, era appunto Elisabeth Roeckel. Era la sorella minore di un cantante lirico, amico di Beethoven. Lei stessa aveva intrapreso una carriera di soprano, e poi s´innamorò e si sposò con l´amico, rivale del gigante della musica, cioè appunto Johann Nepomuk Hummel. Gli amici, e i conoscenti la chiamavano appunto, Elise. Non è ancora chiaro, precisa Kopitz, citato dal settimanale Der Spiegel, perché Beethoven dedicò quella composizione per pianoforte in do minore alla giovane soprano. Quel che si sa è che egli trascorreva volentieri il suo tempo passeggiando e chiaccherando con la giovane, graziosa Elisabeth. Non è tutto: dopo la morte di lui, Elise ebbe cura di conservare gelosamente una ciocca di capelli del maestro e una delle penne con cui egli scriveva le sue composizioni, per ricordo.
Il mistero svelato non risolve ogni enigma di Per Elisa. La musica che conosciamo oggi infatti è solo una parte, quella iniziale, dell´intero spartito. Il resto è andato disperso e quanto alla dedica si sono sentite in passato le più varie leggende. Max Unger, uno dei più autorevoli esperti di Beethoven nel 1923 scrisse 923 che la dedica originale del manoscritto sarebbe stata a Therese Malfatti von Rohrenbach zu Dezza, figlia del commerciante viennese Jacob Malfatti, nella vana speranza di un matrimonio con Therese che poi non avvenne mai.
Il mistero su quella musica magistrale convisse a lungo con l´enigma sulla presunta «unsterbliche Geliebte», una fantomatica «amante immortale» che Beethoven avrebbe avuto, o almeno amato nei suoi desideri e ispirato nel lavoro: si pensò alla contessa Giulietta Guicciardi, poi a Bettina von Brentano, la contessa Marie Erdoedy, poi Dorothea von Ertmann e molte altre fino alla "vera" Elisa che ispirò note che ancora oggi accendono emozioni.

Repubblica 22.6.09
Acropoli
Ecco il museo e riparte la sfida al British

Inaugurato ad Atene il gigantesco spazio che ospita i marmi del Partenone I greci tornano a chiedere la restituzione dei tesori trafugati ed esposti a Londra

Hanno fatto le cose in grande, all´antica: con una cerimonia solenne, evocativa. Un po´ come quando Delfi e Olimpia chiamavano qui, in Grecia, l´intero mondo di allora e tutti arrivavano. Adesso la Grecia aveva una sorpresa grande da mostrare: eccoli tutt´insieme i Marmi del Partenone, nel Nuovo Museo dell´Acropoli, ricomposti per la prima volta dopo più di due secoli dallo smembramento.
L´hanno voluta far conoscere, invitando presidenti, ministri della cultura, e Josè Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, e il direttore generale dell´Unesco. E l´hanno spiegato a tutti che questo è il Sancta Sanctorum dell´arte ateniese e che quelle sculture messe lì, così – con gli originali incastrati tra le copie dei pezzi ancora esposti al British Museum – per loro sono ancora sacre: erano meta della processione più affollata, del rito più sentito nell´Atene democratica di Pericle. Si saliva fino al Partenone, per ringraziare, nel giorno del suo compleanno, Athena Vergine (Parthenos) di aver scelto l´Attica, di averle donato l´ulivo e assicurarsi che continuasse a benedire la sua città.
Fu proprio Pericle a voler così bello il Partenone. Due architetti – Ictino e Callicrate – in 15 anni, dal 447 al 432 a.C., glielo realizzarono, fastoso come non mai: 69 metri e 54 centimetri per 30,87, con 17 colonne di 10 metri sui lati lunghi e otto sui lati corti. Ci pensò Fidia a farne un capolavoro di arti sacre: due frontoni scolpiti; un fregio che correva tutt´intorno scandito da bassorilievi mai visti prima così belli, e 92 metope che giocavano con il sole. All´interno una statua della dea – 12 metri di oro e avorio – stupì il mondo.
Il marmo delle sculture, con i millenni, ha perso i colori squillanti con cui era dipinto: si è fatto dei toni dell´ambra, quasi terroso. E così ora – ricomposto al terzo piano del museo – ritma con evidenza il gesso candido della settantina di copie inserite tra gli originali per reintegrare le composizioni: son messe lì a denunciare – con un solo colpo d´occhio – tutte le parti squartate via. È un bianco che urla: le copie in gesso son lì, ma pronte a esser smontate via per lasciar posto agli originali.
L´appello del presidente greco Karolos Papoulias – «È tempo che i Marmi tornino a casa!» – ha segnalato che il conto alla rovescia per il rientro in patria dei reperti più contesi del mondo comincia oggi.
I Greci ce l´hanno fatta a squassare la storia infinita, con loro che supplicano, cuore in mano, e il British imperiale che nicchia, cincischia, promette, delude. Stavolta giocano duro: ci hanno investito 130 milioni di euro, puntati tutti sul progettone di Bernard Tschumi, una delle star dell´architettura mondiale che – con il collega Michael Photiadis e Dimitrios Pandermalis, archeologo classico – ha studiato il modo per sistemare oltre 4000 pezzi: fregi enormi, e ceramiche di pochi grammi, roba da cerimonia e trofei assai profani.
Adesso il nuovo museo è lì – a 300 metri dalla spianata dei templi, proprio sotto l´Acropoli inquadrata nei suoi finestroni – pronto per 10 mila visitatori al giorno. Modernissimo, pieno di luce, con pavimenti trasparenti (per mostrare uno strato archeologico che era un peccato nascondere) è pronto a dar battaglia.
Qualche scaramuccia l´ha già affrontata: c´è chi l´ha attaccato perché troppo grande, troppo caro, troppo estraneo al quartierino in cui questo mastodonte di 23 mila metri quadri è atterrato: tre parallelepipedi rettangolari sovrapposti, con l´ultimo sfalsato per esser parallelo al Partenone.
Ma l´arte greca non si era mai vista così bene come qua dentro. Le polemiche ateniesi son nulla rispetto alla missione che l´intero paese gli affida: sconfiggere le resistenze del British Museum – polverizzare l´obiezione che Atene non aveva un museo all´altezza dei Marmi – e convincere i suoi manager (lasciati soli dal governo inglese. «Fatti loro!» han detto proprio ieri) a restituire ciò che Thomas Bruce, settimo conte di Elgin, ambasciatore inglese presso la Sublime Porta, fece segar via dal Partenone, accordandosi con i Turchi che allora occupavano la Grecia.
Era il 1801 quando si cominciò a sezionarlo, pezzo a pezzo: 56 lastre dal fregio (due terzi del totale), 15 metope, enormi schegge dai frontoni, una cariatide dell´Eretteo lì a fianco, furono staccate e imbarcate per la Gran Bretagna. Il conte pensava al business. Poi nel 1816, pieno di debiti, accettò di vendere – per l´equivalente di due milioni di euro – i reperti al governo inglese che li donò al British.
La Grecia cominciò a soffrirne allora. Lord Byron soffrì con lei. «Sono testimonianze della nostra prima democrazia», protestò al mondo nel 1982 Melina Mercouri, riaprendo il contenzioso.
Sarà che gli due ultimi millenni – tra Romani, Goti, Bizantini, Turchi, Nazisti e Colonnelli – non sono andati granché, quell´Atene di Pericle, Fidia & C. che il Partenone vollero lì, così, è rimasta viva, vicina. E santa è stata sempre, per più di 20 secoli, la Rocca della Vergine. Il suo Partenone divenne la Chiesa di Nostra Signora di Atene, poi moschea. I cannoni dei veneziani, all´arrembaggio qui nel 1687, decretarono l´inizio della fine.
Il fregio del corteo sacro per Athena fissa, come in un´istantanea, chi vi partecipava: gli efebi sono tornati a cavalcare, sfilano anche i portatori d´acqua. Più in là i ragazzi con i tori per il sacrificio. Ma i primi sono copie, i secondi son quelli originali, i terzi – anch´essi bianchissimi – riproduzioni. Ed è qui, al terzo piano – di fronte alla materializzazione anche cromatica di una separazione grottesca, con mezzo Partenone qui e mezzo lì, a 2000 chilometri – che il nuovo museo vince la guerra psicologica per cui è nato.
Il direttore del British Museum – pur invitato – non era presente all´inaugurazione.

Repubblica 22.6.09
Saint Paul De Vence. Mirò nel suo giardino
Fondazione Maeght. Dal 27 giugno

Pittori e scultori hanno collaborato strettamente con l'architetto Joseph-Lluis Sert, creando opere monumentali che si integrassero magnificamente con l'edificio della fondazione e la natura circostante, la macchia mediterranea caratteristica del sud della Francia. Tra questi anche Miró, uno dei protagonisti dell'arte del XX secolo, autore di un Labirinto di sculture e ceramiche, composto da un Grande Arco in cemento, dalla Lucertola e dalla Forca, del 1963, dall'Uccello solare e dall'Uccello lunare, del 1968. Non è tutto: l'artista ha voluto legare a questa istituzione un fondo eccezionale di opere, costituito da sculture, dipinti e disegni, già presentato al pubblico nel 1979. A trent'anni dall'evento, Maeght torna ad ospitare una grande mostra dedicata a Miró. Duecentocinquanta opere, dipinti e sculture, illustrano la storia di un legame profondo stabilitosi con l'artista spagnolo.

Repubblica 22.6.09
Roma. Palma Bucarelli. Il museo come avanguardia
Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea. Dal 26 giugno

Nel centenario della nascita, una grande mostra ricorda l'attività della Bucarelli che diresse il museo con criteri modernissimi tra il 1942 e il 1975, sostenuta da Lionello Venturi e Giulio Carlo Argan. Attività svolta nell'incremento delle collezioni, nella conoscenza di personalità del mondo artistico internazionale, come Picasso, Mondrian e Pollock, e nella promozione dell'arte italiana all'estero. A cominciare dalla mostra "Arte italiana contemporanea" del 1955. A lei si deve inoltre la sistemazione museografica delle raccolte. L'esposizione, curata da Mariastella Margozzi, raccoglie centocinquanta opere, dipinti, sculture, grafiche e fotografie d'epoca, insieme a interessante materiale d'archivio.