mercoledì 24 giugno 2009

l’Unità 24.6.09
La guerra feroce dei maschi sconfitti
di Valeria Viganò


Ieri a Milano l’ennesimo omicidio di una donna. Era davanti all’asilo nido col suo bambino di due anni in braccio. L’ex marito l’ha uccisa a coltellate. Erano separati da quattro mesi

Ieri. Un asilo nido come gli altri, a Milano est, un’ora solita della mattina, le 8 e 40. Una mamma che porta il figlio di due anni in braccio in mezzo a tante altre mamme. Un cortile prima dell'ingresso pieno di bambini. Lo scenario semplice delle chiacchiere e dei saluti, manine che si agitano, sorrisi affettuosi. Il mondo dell'infanzia viene profanato all’improvviso da un padre, pregiudicato sì, ma sempre padre. È accanto alla mamma che tiene abbracciato il figlio e contemporaneamente e fatalmente riceve una telefonata. Il padre ha con sé un coltello da cucina. Perché? In un baleno ficca l’arma in petto alla ex-moglie, lei barcolla, lui la colpisce quattro volte tra le urla di terrore di chi è presente. La ammazza. Ma prima che lei crolli, una bidella riesce a afferrare il piccolo e scappare via. Cronaca cruda di una violenza intollerabile. Cronaca che si ripete quasi quotidianamente in un elenco interminabile di vittime predestinate: tutte donne. Una vera e propria guerra sanguinaria contro un sesso che ha solo una colpa: non si sottomette più, non piega più la testa, non acconsente per dovere, pensa in autonomia, Si pensa libero come l’altro, il maschile.
La guerra disperata degli uomini usa molte armi cruente: pugni, calci, stupri, coltellate, pistolettate, fucilate. Passa per le grandi metropoli e i piccoli centri di provincia, da nord a sud. È perpetrata da maschi di ogni età. Le motivazioni di questa guerra passano da una debolezza piena di incapacità, da una cecità, un rifiuto, una pochezza, dalla rabbia che si fa forza belluina. La rabbia di non poter più pretendere di essere amati nei modi e nei tempi decisi da una sola parte, la loro. E la rabbia di non poter più gestire un matrimonio, una convivenza, i figli senza contraddittorio.
Gli uomini si sentono spodestati dalla maturazione femminile degli ultimi quarant’anni, dalla consapevolezza e dalla voglia di parità che le donne hanno pensato, elaborato, messo in atto tra mille fatiche ma alle quali non vogliono e non possono più rinunciare. La chiamerei desiderio di pari dignità della persona umana. Alla quale gli uomini non erano storicamente abituati e per la quale in questi quarant’anni non hanno speso che pochi spiccioli. Disinteressati, inermi o sempre più incazzati non hanno reagito con la riflessione, ma con l’incomprensione di un processo evolutivo della società civile nella sua interezza. Solo i più sensibili hanno ascoltato, provato a accompagnare il mutamento che toglieva loro potere e comando.
I molti maschi che non accettano la propria apparente sconfitta non l’hanno tollerato. Senza altre armi dialettiche hanno cominciato a la guerra su due fronti: il primo, appena meno violento, è la riproposizione non di un modello casalingo retrò ma di un modello femminile puttanesco di impronta televisiva, corroborato dal do ut des dei potenti; il secondo appartiene a chi non ha quel potere e nessuna merce di scambio. Troppi uomini che non accedono alla possibilità del ricatto usano la furia. Puniscono. Costringono. E, quando vedono che non riescono più a stare al passo con le donne che dicono di amare, le uccidono.

Repubblica 24.6.09
La verità che non può dire
di Giuseppe D’Avanzo


Berlusconi esige da noi, per principio e diritto divino, come se davvero fosse "unto dal Signore", la passiva accettazione dei suoi discorsi. Pretende che non ci siano repliche o rilievi alle sue parole. Reclama per sé il monopolio di un´apparenza che si cucina in casa con i cuochi di famiglia. Senza contraddittorio, senza una domanda, senza un´increspatura, senza la solidità dei fatti da lui addirittura non contraddetti, senza un estraneo nei dintorni. Vuole solo famigli e salariati. Con loro, il Cavaliere frantuma la realtà degradata che vive. La rimonta come gli piace a mano libera e ce la consegna pulita e illuminata bene. A noi tocca soltanto diventare spettatori – plaudenti – della sua performance. Berlusconi ci deve immaginare così rincitrulliti da illuderci di poter capire qualcosa di quel che accade (è accaduto) non servendoci di ciò che sappiamo, ma credendo a ciò che egli ci rivela dopo aver confuso e oscurato quel che già conosciamo. Quindi, via ogni fatto accertato o da lui confessato; via le testimonianze scomode; via documenti visivi; via i giornalisti impiccioni e ostinati che possono ricordarglieli; via anche l´anchorman gregario e quindi preferito; via addirittura la televisione canaglia che da una smorfia può rivelare uno stato d´animo e una debolezza.
Berlusconi, che pare aver smarrito il suo grandioso senso di sé, si rimpannuccia sul divano di casa affidandosi alle calde cure del direttore di Chi. Insensibile alle contraddizioni, non si accorge dell´impudico paradosso: censurare i presunti pettegolezzi dalle colonne di un settimanale della sua Mondadori, specializzato in gossip. Dimentico di quanto poca fortuna gli abbia portato il titolo di Porta a Porta (5 maggio) "Adesso parlo io" (di Veronica e di Noemi), ci riprova. "Adesso parlo io" strilla la copertina di Chi. Il palinsesto è unico.
In un´atmosfera da caminetto, il premier ricompone la solita scena patinata da fotoromanzo a cui non crede più nessuno, neppure nel suo campo. La tavolozza del colore è sempre quella: una famiglia unita nel ricordo sempre vivo di mamma Rosa e nell´affetto dei figli; l´amore per Veronica ferito – certo – ma impossibile da cancellare; la foto con il nipotino; una vita irreprensibile che non impone discolpa; l´ingenuità di un uomo generoso e accogliente che non si è accorto della presenza accanto a lui, una notte, di una "squillo" di cui naturalmente non ha bisogno e non ha pagato perché da macho latino conserva ancora il "piacere della conquista".
Acconciata così la sua esistenza che il più benevolo oggi definisce al contrario "licenziosa", chi la racconta in altro modo non può essere che un "nemico". Da un´inimicizia brutale sono animati i giornali che, insultati ma non smentiti, raccontano quel che accade nelle residenze del presidente. Antagonisti malevoli, prevenuti o interessati sono quegli editori che non azzittiscono d´imperio le loro redazioni. C´è qualcosa di luciferino (o di vagamente folle) nella pretesa che l´opinione pubblica – pur manipolata da un´informazione servile – s´ingozzi con questo intruglio. Dimentico di governare un Paese occidentale, una società aperta, una democrazia (ancora) liberale, il capo del governo pare convinto che, ripetendo con l´insistenza di un disco rotto, la litania della sua esemplare "storia italiana" possa rianimare l´ormai esausta passione nazionale per l´infallibilità della sua persona. È persuaso che, mentendo, gli riesca di sollecitare ancora un odio radicale (nell´odio ritrova le energie smarrite e il consenso dei "fanatizzati") contro chi intravede e racconta e si interroga – nell´interesse pubblico – sui lati bui della sua vita che ne pregiudicano la reputazione di uomo di governo e, ampiamente, la sua affidabilità internazionale. Berlusconi sembra non voler comprendere quanto grave – per sé e per il Paese – sia la situazione in cui si è cacciato e ha cacciato la rispettabilità dell´Italia. Ha voluto convertire, con un tocco magico e prepotente, le "preferite" del suo harem in titolari della sovranità popolare trasformando il suo privato in pubblico. Non ha saputo ancora spiegare, dopo averlo fatto con parole bugiarde, la frequentazione di minorenni che ora passeggiano, minacciose, dinanzi al portone di Palazzo Chigi. Ha intrattenuto rapporti allegri con un uomo che, per business, ha trasformato le tangenti alla politica in meretricio per i politici. Il capo del governo deve ora fronteggiare i materiali fonici raccolti nella sua stanza da letto da una prostituta e le foto scattate da "ragazze-immagine", qualsiasi cosa significhi, nel suo bagno privato mentre ogni giorno propone il nome nuovo di una "squillo" che ha partecipato alle feste a Villa Certosa o a Palazzo Grazioli (che pressione danno a Berlusconi, oggi?).
La quieta scena familiare proposta da Chi difficilmente riuscirà a ridurre la consistenza di quel che, all´inizio di questa storia tragica, si è intravisto e nel prosieguo si è irrobustito: la febbre di Berlusconi, un´inclinazione psicopatologica, una sexual addiction sfogata in "spettacolini" affollati di prostitute, minorenni, "farfalline", "tartarughine", "bamboline" coccolate da "Papi" tra materassi extralarge nei palazzi del governo ornati dal tricolore. Una condizione (uno scandalo) che impone di chiedere, con la moglie, quale sia oggi lo stato di salute del presidente del Consiglio; quale sia la sua vulnerabilità politica; quanta sia l´insicurezza degli affari di Stato; quale sia la sua ricattabilità personale. Come possono responsabilmente, questi "buchi", essere liquidati come affari privati?
La riduzione a privacy di questo deficit di autorità e autorevolezza non consentirà a Berlusconi di tirarsi su dal burrone in cui è caduto da solo. Ipotizzare un "mandato retribuito" per la "escort" che ricorda gli incontri con il presidente a Palazzo Grazioli è una favola grottesca prima di essere malinconica (la D´Addario è stata prima intercettata e poi convocata come persona informata dei fatti). Evocare un "complotto" di questo giornale è soltanto un atto di intimidazione inaccettabile.
Ripetendo sempre gli stessi passi come un automa, lo stesso ritornello come un cantante che conosce una sola canzone, Berlusconi appare incapace di dire quelle parole di verità che lo toglierebbero d´impaccio. Non può dirle, come è sempre più chiaro. La sua vita, e chi ne è stato testimone, non gli consente di dirle. È questo il macigno che oggi il capo del governo si porta sulle spalle. Non riuscirà a liberarsene mentendo. Non sempre la menzogna è più plausibile della realtà. Soprattutto quando un Paese desidera e si aspetta di sentire la verità su chi (e da chi) lo governa.

Repubblica 24.6.09
I giornali inglesi: il leader più sessista d’Europa. Die Welt: anche la Chiesa ora prende le distanze
La stampa estera e il Cavaliere "Scandalo sempre più grave"
di Enrico Franceschini


"Una tragedia che Mani Pulite sulla corruzione politica abbia condotto a tutto questo"

Londra - Il leader «più sessista d´Europa». Una versione «da fumetto» dello stereotipo del maschio italiano. Un primo ministro che continua a sorridere, mentre lo scandalo attorno a lui «si aggrava di giorno in giorno». Così i media britannici e di altri paesi europei descrivono Silvio Berlusconi, alle prese con gli ultimi sviluppi della vicenda cominciata con la 18enne Noemi Letizia e finita con le escort nella sua residenza romana. Se il premier sperava di ignorare le accuse, aspettando che passasse la tempesta, si sbagliava, riassume il Guardian di Londra: «E´ improbabile che passerà prima dell´arrivo in Italia dei leader mondiali per il summit del G8 del mese prossimo». E il Times titola sull´iniziativa, lanciata dalla rivista Micromega e ripresa da un gruppo di docenti universitarie di Milano, Padova e Perugia, di esortare le "first-lady" del G8 a «snobbare il summit», come protesta contro il «maschilista Berlusconi».
L´editoriale non firmato del Guardian, il secondo nel giro di poche settimane contro Berlusconi, è durissimo. «Il suo atteggiamento verso le donne è solo una tra la costellazione di ragioni per le quali gli italiani non avrebbero dovuto mandarlo per tre volte al potere. Il suo successo è un prodotto piuttosto che una causa del collasso del sistema politico italiano, un collasso che ha indebolito la sinistra e il centro, lasciando campo libero a opportunisti e xenofobi. E´ una tragedia che l´indagine giudiziaria di Mani pulite sulla corruzione politica, che sembrava promettere un grande rinnovamento della politica italiana, abbia condotto a tutto questo».
Per il Times, che gli dedica la copertina del suo inserto T2, Berlusconi interpreta il suo ruolo pubblico come una «via di mezzo tra un proprietario di night club e un attore da cabaret, una versione esagerata, da fumetto, dello stereotipo del maschio italiano: vanesio, borioso e sessualmente insicuro», simbolo di uomini cresciuti da madri iper-protettive, abituati fin dalla nascita a essere perdonati in tutto. «Ma sospetto che in questo caso», scrive l´articolista, Sarah Vine, «l´Italia non gliela perdonerà, perché c´è una cosa che gli italiani non sopportano e che diventerà ancora più evidente quando il mese prossimo Berlusconi ospiterà il G8: essere umiliati dai media stranieri. Farsi beccare con i calzoni abbassati è una tale brutta figura. E questo, in Italia, è un peccato imperdonabile».
Il tono non è diverso sul resto della stampa europea. In Germania, per esempio, il conservatore Die Welt, vicinissimo alla cancelleria e alla Cdu, scrive, in prima pagina, che la chiesa critica il premier e dà ampio risalto alle richieste di elezioni anticipate. Il giornale sottolinea quindi che il caso di Berlusconi «non è paragonabile a quello Clinton-Lewinsky», poiché «qui non si tratta di stagiste, ma di squillo professioniste». La vicenda resta all´attenzione anche dello spagnolo El Pais che giudica il «comportamento di Silvio Berlusconi «grave da un punto vista morale, civico e culturale e mina la dignità della donna».

Corriere della Sera 24.6.09
Un premier in bilico fra successi elettorali e amarezze personali
di Massimo Franco


La Lega promette lunga vita al governo di Silvio Berlusconi; e soprattutto più potere a se stessa. Ed il presidente del Consiglio registra l’afferma­zione della propria maggioranza nei ballottaggi di domeni­ca e lunedì scorsi in comuni e province con un misto di sod­disfazione politica e di amarezza privata. I contraccolpi elet­torali delle inchieste sulle sue frequentazioni femminili non ci sono stati: lo riconosce anche un avversario come Massi­mo D’Alema. Dal punto di vista psicologico, però, il premier appare turbato, se non segnato. La sua rivendicazione di non avere nulla di cui scusarsi per quello che è stato accusa­to di fare, è significativa e coerente col personaggio; e così l’irritazione nei confronti dei giornali. Il risultato è un Berlu­sconi premiato dal voto; abbracciato e insieme incalzato da Bossi; eppure sulla difensiva.
A insidiarlo non sono tanto le critiche scandalizzate di Fa­miglia cristiana, che sembra dare voce a settori circoscritti del mondo cattolico, finora non sostenuti pubblicamente dalle gerarchie ecclesiastiche: anche se le reazioni aggressi­ve del centrodestra contro il settimanale mostrano nervi scoperti. L’incognita riguarda l’eventualità che nei prossimi giorni possano arrivare altri schizzi di fango: una prospetti­va che danneggerebbe il capo del governo e l’Italia come Pa­ese ospitante del G8 all’Aquila, all’inizio di luglio. Che Berlu­sconi sia distratto dalle sue questioni private è confermato dal modo in cui ritorna sulle indagini a Bari, cercando di spiegare e spiegarsi quanto è accaduto; ma rinfocolando le polemiche.
Il ministro Ignazio La Russa intravede il pericolo, e gli ri­volge un invito accorato ad oc­cuparsi di politica. Rischi di cri­si non se ne vedono, nonostan­te l’Idv di Antonio Di Pietro di­ca di puntare ad una caduta del governo in tempi rapidi. Ma il Pdl deve fronteggiare una fase nuova. L’intesa con i leghisti è stata blindata dall’esito del vo­to: con un peso accresciuto del Carroccio, però. Come era pre­vedibile, Bossi già invoca la pre­sidenza di tre regioni del Nord pensando alle elezioni del 2010. Ed il «no» preventivo del governatore della Lombar­dia, Roberto Formigoni, fa capire che col tempo la trattativa fra Pdl e Carroccio potrebbe diventare laboriosa e fonte di tensioni.
In gioco è il primato nel Nord del Paese. E Palazzo Chigi dovrà assorbire la spinta già forte a modificare in senso le­ghista l’agenda del governo; e conciliarla con alcuni malu­mori del centrodestra al Sud: nella Sicilia dominata dal Pdl la crisi della giunta rimane aperta. Una vittoria alle regionali del prossimo anno presuppone un piano accurato e concor­de, da abbozzare al più presto. La coalizione sa di potere approfittare della fase di transizione che vive il Pd; ma sa anche che non durerà all’infinito. «Se questa è una sconfit­ta, perderei sempre così», ha ironizzato Berlusconi in rispo­sta al leader democratico, Dario Franceschini, certo di vede­re nei risultati del 21 e 22 giugno un declino del Pdl. A Palaz­zo Grazioli, residenza privata romana del premier, ieri si è tenuta una prima riunione della maggioranza.
Voleva essere una conferma che si stanno mettendo a punto le priorità dei prossimi dodici mesi. E forse era anche un modo per comunicare compattezza e dinamismo. La titu­banza di Berlusconi a parlare di successori tende a scorag­giare le voci sul suo logoramento; ed a dimostrare che i com­plotti dei quali ha parlato nei giorni scorsi riflettono mano­vre velleitarie. «L’Italia ha resistito, resiste e resisterà», assi­cura il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. E mette al primo posto fra le cose da fare la riforma del federalismo fiscale. È un modo per tornare alla politica, e per sottolinea­re l’azione del governo sul fronte della crisi economica. Ser­ve anche a sfuggire ad una cronaca che schiaccia il premier su un terreno scivoloso. E lo risucchia in una spirale della quale finisce per apparire vittima e responsabile.

Repubblica 24.6.09
La tv di Al Gore e Il film sul belpaese che nessuno voleva


Salutata come un mezzo evento, la prima tv di Citizen Berlusconi è in realtà l´anteprima più postdatata di tutti i tempi. Il film-documentario di Andrea Cairola e Susan Gray risale al 2003, è stato distribuito in dvd e su internet sono disponibili ampie visioni. Ma c´è voluto il canale Current (al numero 130 di Sky) per sancirne l´approdo televisivo, lunedì in prima serata. Sulle normali reti in teoria è più facile vedere il Papa che gioca a poker. Per l´occasione, agli autori è stata chiesta una sorta di rinfrescata, aggiungendo contributi recenti dei testimoni interpellati (da Travaglio a Sartori e così via). Per scoprire che da rinfrescare c´è poco, se non in peggio, per i noti motivi. E che la questione centrale in esame nel documento, l´ascesa politica di Berlusconi insieme ad alcuni annessi e connessi, è ancora lì tutta da decifrare. Ma inserito nella filiazione italiana del canale internazionale di Al Gore, il documento permette quasi di astrarsi dall´incantesimo in cui ci troviamo e provare a riconsiderare le storie narrate come se fossero successe altrove. Con risultati interessanti, tipo la voglia di essere altrove.

Corriere della Sera 24.6.09
Democratici
L’inversione di tendenza che non c’è
di Paolo Franchi


Afferma Dario Franceschini che d’ora in avanti il Pd può lavorare con serenità al proprio futuro perché i ballottaggi segnalano, finalmente, un’«inversione di tendenza». Non è per fare i guastafeste ma un simile giudizio non è solo troppo ottimistico. È sbagliato. E, a prenderlo alla lettera, anche pericoloso. Intendiamoci. Questo voto — come quello per il Parlamen­to europeo, e assai più di quello per il pri­mo turno delle amministrative — dimostra che anche il centrodestra (un centrodestra che pure ha messo le sue radici in molte re­altà locali dove tradizionalmente era assen­te o balbettava) incontra le sue difficoltà, maggiori di quanto si potesse ritenere alla vigilia: e la più grave tra queste risiede sen­za dubbio nell’appannamento, chiamiamo­lo così, del profilo del suo leader, sin qui in­discusso e indiscutibile. Si capisce bene, dunque, perché il segretario del Pd tira un sospiro di sollievo. Il suo partito non è usci­to schiantato dalla prova, come molti teme­vano, anzi, ha dato persino qualche segno di imprevista vitalità; e l’avversario ha gua­dagnato sì una quantità di comuni e di pro­vince, ma ha perso qualcosa di quell’aura di invincibilità che lo circondava e gettava l’opposizione in uno stato di frustrazione al­meno all’apparenza inguaribile. In molti ca­si (non in tutti) il Pd e i suoi partner sono riusciti a rimobilitare per il secondo turno il proprio elettorato più e meglio di quanto sia riuscito a farlo il centrodestra: anche questo è un segnale, e per nulla scontato.
Qualcosa si muove. Viste le condizioni di partenza, e le aspettative diffuse nell’uno e nell’altro fronte, non è poco. Fare ricorso al lessico politico della nostra giovinezza per parlare di «inversione di tendenza», però, è onestamente un po’ troppo. Sempre che, si capisce, per «inversione di tendenza» si intenda, oggi come allora, un mutamento percettibile negli orientamenti di fondo del Paese; l’incrinarsi di un’egemonia; uno spo­stamento da un campo all’altro di forze e di voti, ancora limitato sì, ma comunque visi­bile ad occhio nudo; un accenno di cambia­mento del clima politico. Di tutto questo, spiace doverlo ricordare a Franceschini, non c’è ancora traccia. E anzi ci sono indizi pesanti che continuano a parlare in senso contrario, e si chiamano, tanto per fare de­gli esempi, Sassuolo, Orvieto o Prato, città in cui fino a qualche tempo fa non si sape­va esattamente che cosa fosse la destra e che adesso dalla destra sono governate.
Fossimo nei panni del segretario del Pd, lasceremmo perdere le inversioni di tenden­za. E prenderemmo atto della realtà: i ballot­taggi sottolineano, come è ovvio, che la par­tita politica non è ufficialmente riaperta, ma ci dicono pure (ecco la novità) che non è neanche irrimediabilmente chiusa come si poteva pensare e come, in effetti, un po’ tutti pensavano. Cercare di riaprirla agli oc­chi dell’opinione pubblica e degli elettori, provandosi a dimostrare che un cambia­mento è nello stesso tempo possibile e au­spicabile, spetta in tutta evidenza all’opposi­zione, e in primo luogo al Partito democrati­co. Ieri, nonostante il parere contrario di Sergio Chiamparino, il Pd ha confermato che rispetterà i tempi previsti dal suo statu­to, e in autunno terrà congresso e primarie. Benissimo. Tutto sta a vedere quale congres­so e quali primarie i democratici vorranno e sapranno fare. Non sappiamo se il Pd colti­vi ancora una sua (indimostrata e indimo­strabile) vocazione maggioritaria o stia per cominciare a ragionare di nuovo in termini di alleanze: questo dovrebbe dircelo, se ci sarà, quello che un tempo si chiamava il di­battito congressuale. Ma in ogni caso a un grande partito di opposizione che si candi­da a governare non si chiede di chiudersi in se stesso smontando e rimontando alleanze interne più o meno sotterranee, più o meno trasversali, per meglio giocare al totosegre­tario. Si chiede prima di tutto di indicare un’idea di Italia un programma e un leader che questo Paese domani possa governarlo, considerando che stavolta ben difficilmen­te potrà essere Romano Prodi a cavare le ca­stagne dal fuoco. È a dir poco dubbio che il Pd possa accingersi a una simile impresa. Ma, se non è in grado neanche di provarci, farebbe meglio a prendere atto che il proget­to non tiene, e cercare altre strade.

il Riformista 24.6.09
Donne. Nelle manifestazioni sono in prima fila, Neda è diventata il loro simbolo. Il movimento "femminista" contro il potere
Nel destino della Persia c'è sempre un'Artemisia
di Alessandra Cardinale


Nel 563 a.C. a guidare le imponenti forze navali di Ciro il Grande, re della Persia, c'èra una donna che si chiamava Artemisia. Nel 2009 Artemisia ha quarantuno anni, vive a Teheran, è laureata in legge ma la famiglia non le ha mai permesso di lavorare. Un anno fa ha deciso di aderire alla campagna "One million signatures" lanciata da un gruppo di donne iraniane per denunciare la dittatura dei mullah che da trent'anni le disprezza, molesta e umilia.
Le donne in Iran costituiscono il 65 per cento della popolazione ma solo il 12 per cento è impiegato come forza lavoro e a tutte vengono negati i diritti fondamentali. Per questi motivi alcune delle fondatrici della campagna - Nafiseh Azad, Bigard Ebrahimi solo per citare dei nomi - sono state giudicate dal regime delle sovversive, frustate e detenute in carcere. Ma la raccolta delle firme è andata avanti fino alle elezioni del 12 giungo scorso grazie anche all'aiuto di donne come Artemisia. Sabato e domenica Artemisa è scesa nelle strade di Teheran con Zahra e Atefeh, le sue amiche più strette, perché voleva protestare contro la frode elettorale di Ahmadinejad e del suo "puparo" Khamenei. «I vicini ti ascoltano e le persone possono essere sbattute in prigione per quello che dicono o scrivono» scrive sul suo diario on-line «Ma tutto questo è contagioso. Tutto quello a cui voi state assistendo è il frutto di trent'anni di oppressione e ora ne abbiamo avuto abbastanza».
Artemisia, Zahra, Nafiseh, come Oxford-girl oppure Fatica_arroui o Yoyoyoram su Twitter sono iraniane non necessariamente delle femministe nel senso occidentale del termine, ma di certo delle combattenti per i diritti delle donne e delle ribelli per lo Stato iraniano. La ribellione ha a che fare con la passione per i temi universali e le immagini delle proteste ci raccontano che sono le iraniane, con o senza hijab, con il rossetto o senza un filo di trucco, a essere in prima fila agitando cartelloni con la scritta "1979 la rivoluzione per Khomeini, 2009 la rivoluzione per i diritti umani", a volte urlando «Allah u Akbar» (Dio è grande), a volte stringendo in mano un sasso. Alcune di queste istantanee diventano inevitabilmente dei simboli perché in grado di riassumere la complessità di un momento.
È quello che è successo con la morte di Neda Agha-Soltan, ventisei anni, studentessa di filosofia, uccisa sabato scorso durante la manifestazione a Teheran da un membro delle milizie Basij. A lei gli amici e la famiglia hanno già dedicato una pagina di Wikipedia. «Se prima ci si chiedeva se gli iraniani scesi in piazza erano in lotta per il loro voto o contro il regime teocratico impersonato dall'Ayatollah Ali Khamenei ora l'uccisione di Neda ha chiarito questo importante aspetto portando via gli ultimi brandelli di rispetto che gli iraniani avevano della Guida Suprema», ha spiegato Kelly Nikinejad direttrice del sito Teheranbureau.org in collegamento con la televisione americana Abc. «"Le donne che vediamo nelle strade di Teheran sono molto coraggiose» ha continuato «vengono picchiate ogni giorno ma tornano in piazza, dicono "mi fa male qui e qui" ma il giorno dopo sono lì e ancora, vengono accecate con lo spray al peperoncino ma non mollano, sono incredibili».
Parisa, una ragazza di ventitré anni, racconta sul suo blog che non ha intenzione di farsi spaventare dagli appelli del Consiglio dei Guardiani: «Tutte quelle donne e quegli uomini in strada mi hanno fatto pensare che il mio futuro potrebbbe essere diverso da quello di mia madre, per questo voglio continuare, perché voglio la libertà».
Anche nel 1970 le donne iraniane lottavano per i proprio diritti «ma ora» spiega Roya Hakakian, giornalista iraniana costretta a lasciare il suo Paese nel 1984, «il movimento femminista è parte integrante della protesta tout court contro il regime. Gli uomini che ne fanno parte, seppur con trent'anni di ritardo, hanno finalmente capito che il loro destino è legato inevitabilmente al destino di Parisa e di Artemisia e di qualsiasi donna iraniana».

il Riformista 24.6.09
Conversazione con Alastair Crooke, esperto di movimenti politici musulmani, consigliere del governo britannico ed editorialista del Guardian
«La vera contesa è sull'eredità di Khomeini»
di Joseph Zarlingo


Il suo ultimo libro si intitola Resistence. The essence of political Islam. Poco noto in Italia al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori, Alastair Crooke, fondatore del think tank Conflict forum, con sede a Beirut dove vive da anni, è considerato uno dei massimi esperti mondiali di movimenti politici musulmani e di politica mediorientale. Ha personalmente partecipato come mediatore alle trattative che hanno portato a diversi cessate il fuoco tra palestinesi e israeliani ed è ascoltato consigliere del governo britannico.
Come giudica la situazione in Iran?
La situazione è estremamente seria, anche se in Iran, contrariamente a quello che molti governi occidentali vorrebbero, non è in corso un movimento che punta al rovesciamento della Repubblica islamica nata dalla rivoluzione del 1979. Piuttosto, direi che si tratta di una contesa su chi sia il vero erede degli ideali su cui, oltre l'accento sull'Islam, l'ayatollah Khomeini ha basato la Rivoluzione contro lo Shah. Detto questo, però, non è da escludersi che tra i sostenitori di Mir Hossein Moussavi ci siano anche settori sociali che guardano oltre e fuori il quadro costituzionale della Repubblica islamica. Una parte delle proteste potrebbe essere sfruttata da questi settori per cercare di spingere in senso più radicale, ma non credo che la maggior parte dei manifestanti voglia un cambiamento completo di sistema.
In che senso la contesa è sull'eredità di Khomeini?
Khomeini e Ali Shariati rinnovarono profondamente lo sciismo, sganciandolo da quello che era il cosiddetto «sciisimo nero», quello del lamento, del conservatorismo tradizionale, dell'immobilismo. Oggi tanto Mahmud Ahmadinejad quanto Moussavi puntano a rinnovare quella spinta, anche se hanno opinioni molto diverse su come farlo. Moussavi ha reso chiaro fin dall'inizio della protesta contro i presunti brogli che non ha intenzione di rovesciare la Repubblica islamica. Anzi, si presenta come un figlio della Rivoluzione, un discepolo di Khomeini. La Rivoluzione portava con sé enormi promesse di riscatto sociale e di redistribuzione della ricchezza, che durante gli anni dello Shah era concentrata in poche famiglie. A causa della guerra con l'Iraq, quelle promesse sono state messe da parte negli anni della giovinezza della Repubblica. Ora, ma non da ora, molti iraniani pensano che sia il momento di mantenerle.
Questa non era anche la piattaforma su cui era stato eletto la prima volta Ahmadinejad?
Sì, lo era. Ahmadinejad era stato eletto anche con questo mandato. E anzi, nelle zone rurali dove il sostegno ad Ahmadinejad è più forte, molti credono ancora in quella promessa e pensano che il campo riformista potrebbe invece portare alla fine della Repubblica. Al di là degli eccessi delle forze di polizia e della repressione, Ahmadinejad e i conservatori hanno una base di consenso popolare, soprattutto fuori da Teheran.
Il Paese è quindi spaccato?
Il Paese non è mai stato del tutto d'accordo su quale sia il modo migliore per guardare al futuro e costruirlo, c'è sempre stato molto dibattito nell'establishment della Repubblica. Ci sono sempre state divisioni, in Iran, tra i diversi settori sociali e tra le diverse componenti dello stato. Ciò che è successo è che queste divisioni, forse anche a causa della difficile situazione economica del paese, sono diventate più acute e profonde. Le divergenze di opinione, peraltro, non riguardano solo i comuni cittadini, ma attraversano tutto il corpo istituzionale della Repubblica islamica.
Come pensa che potrebbe finire questo braccio di ferro?
Non penso che in Iran ci sia una di quelle rivoluzioni colorate che piacciono in occidente. Mousavi, secondo me, sta cercando di guadagnare quanto più spazio possibile per il campo riformista, che dopo la stagione di Khatami negli anni novanta, è stato sconfitto dai conservatori. È difficile fare previsioni, ma credo che si potrebbe arrivare a un compromesso che potrebbe spostare l'asse della politica di Ahmadinejad su alcuni temi interni e forse anche internazionali. Per quanto Ahmadinejad non sembri incline al compromesso. D'altra parte, quale politico anche occidentale lo sarebbe se davvero avesse vinto le elezioni con un margine così ampio?

Corriere della Sera 24.6.09
L’intervista. Il filosofo Ramin Jahanbegloo legge gli avvenimenti di questi giorni come una crisi di legittimità del sistema
«È un movimento democratico gandhiano»
di Viviana Mazza


«Stiamo vivendo un momento 'gandhiano' in Iran» dice Ramin Jahanbegloo, il filosofo iraniano incarcerato nel 2006 nel suo Pae­se con l’accusa di sostenere la «ri­voluzione di velluto», oggi docen­te di Storia contemporanea del­­l’Iran a Toronto.
Nel suo libro pubblicato a di­cembre, Leggere Gandhi a Tehe­ran (Marsilio), Jahanbegloo indi­viduava nella riflessione gandhia­na percorsi di nonviolenza per promuovere sviluppi liberali nel mondo islamico, a cominciare dal­l’Iran. Ma l’«Onda verde» ha superato le sue stesse aspetta­tive.
Mousavi, come dicono alcuni, è un Gandhi islamico?
«No, non lo defi­nirei un Gandhi isla­mico. Ha mostrato molto coraggio, ma per essere un Gandhi devi essere a un altro livello di psicologia umana, avere qualità profetiche. Forse Mousavi ha preso la via di Gandhi senza rendersene conto. D’altra parte Gandhi diceva che la nonviolenza è antica quanto le montagne: chiunque si trovi da­vanti all’ingiustizia è spesso porta­to alla nonviolenza. E così è diven­tata una strategia rilevante per il movimento iraniano».
Il movimento ha superato dunque Mousavi?
«Se Gandhi adottò l’arcolaio co­me simbolo della nonviolenza, il movimento in Iran all’inizio ha as­sunto Mousavi come simbolo, ma poi ha trovato in Neda la madre della resistenza nonviolenta. Que­ste manifestazioni senza prece­denti in 30 anni sono spesso viste come uno scontro tra i sostenitori di Mousavi e Ahmadinejad, ma credo che le richieste vadano ol­tre le elezioni e oltre Mousavi: è in corso una crisi di legittimità del sistema. C’è una dialettica tra coloro che cercano la democrazia con metodi non violenti e il pote­re che usa la violenza. E’ un movi­mento per il cambiamento, fatto soprattutto di giovani, frustrati da economia, politica e società. Gandhi diceva: devi essere il cam­biamento che vuoi vedere nel mondo. Persone come Neda, la studentessa di filosofia caduta sot­to i proiettili, mostrano che la gio­ventù in Iran è abbastanza matu­ra da portare al cambiamento».
Lei credeva che i giovani ira­niani non fossero pronti?
«Per lungo tempo, tutti hanno pensato che fossero vittima di quella che chiamo 'sindrome di James Dean': che fossero ribelli senza causa, senza spessore etico, edonisti, individualisti, egoisti. Ma stanno mostrando di possede­re il senso della solidarietà, della reciprocità, della nonviolenza» .
L’islam ha nella sua tradizio­ne il fondamento spirituale per una disobbedienza civile non vio­lenta?
«Tutti i tipi di religione e di spi­ritualità hanno un potenziale non violento accanto a un potenziale violento. Non vedo contraddizio­ne tra spiritualità e nonviolenza».
E l’Iran ha una tradizione simi­le?
«La rivoluzione del 1979 è stata essa stessa un movimento nonvio­lento contro la dittatura. Nella sto­ria abbiamo avuto tanti tiranni, ma molti dei nostri eroi sono figu­re mistiche e religiose non violen­te ».
Obama dice che «renderà te­stimonianza » al coraggio degli iraniani. Per il Wall Street Jour­nal è una dichiarazione «gan­dhiana »: è «la testimonianza che dà potere all’approccio non­violento rendendo pubblica la sofferenza privata».
«Credo che non sia un approc­cio 'gandhiano', ma cauto. Da quando è al potere, ha cercato il dialogo con l’Iran, ma si trova in una situazione complicata. Se la violenza nelle strade dovesse au­mentare, sarà difficile un dialogo tra Iran e Stati Unit, e anche tra Iran ed Europa. L’Iran si trova in un momento cruciale sia per la po­litica interna che estera. Il 'genio' della nonviolenza è uscito dalla lampada ed è difficile che possa rientrarvi. Né Obama né Berlusco­ni né Sarkozy possono ignorarlo. Ma hanno fatto bene a non fare di­chiarazioni più aggressive. Non devono dare la sensazione che il movimento sia diretto dagli stra­nieri ».
Che probabilità di successo ha la protesta?
«L’unico modo è che resti non­violenta o sarà una carneficina. Credo che possano non solo avere la solidarietà del mondo ma an­che quella di parte della nomenk­­latura. E anche se l’attuale regime dovesse prevalere e Ahmadinejad restare, il cambiamento arriverà nei mesi e anni a venire. E’ già cambiata la mentalità della gente. Il paradigma repubblicano, moto­re della rivoluzione del ’79, e il principio di sovranità popolare so­no stati violati dal paradigma au­toritario. Non credo però che la re­sistenza porterà a una rivoluzione di velluto. Ciò che è accaduto in Cecoslovacchia e nell’Est europeo potrebbe non accadere in Iran. Ma ciò che conta è lo spessore mo­rale di ogni iraniano, è sfidare l'il­legittimità della violenza, è la vo­lontà di costruire il futuro del­­l’Iran sull’idea di verità».

Repubblica 24.6.09
Lo scrittore iraniano Majd: controproducente sostenere l’opposizione
"Gli Usa costretti alla prudenza come per la Cina di Tienanmen"
S’è aperta una nuova era. Alla fine la leadership dovrà tenere conto delle richieste di cambiamento
di Alix Van Buren


Si dice a Washington che Hooman Majd, autore del bestseller The Ayatollah begs to differ (l´Ayatollah non è d´accordo), sia dotato di una sfera di cristallo insostituibile nell´interpretare la società iraniana. Perciò quando Majd, iraniano di nascita, consigliere dell´ex presidente Khatami, parla al telefono, viene naturale domandargli quanto siano nitidi i pronostici dell´Occidente sulla protesta iraniana. E lui, di rimando: «Vi prego, smettete di parlare di rivolta. S´illude chi vede indebolito il regime. Questo è il grido di rabbia di un popolo defraudato, sì, del voto, ma in larga parte leale alla Repubblica islamica. Infatti, osservi i poteri che contano: l´esercito, la Guardia rivoluzionaria, i Basij sono con lo Stato. Hanno i numeri e, in più, le armi».
Signor Majd, lei sta prospettando una Tiananmen iraniana?
«Il rischio era grande sabato scorso, con tre milioni per le vie a dimostrare. Però, malgrado le morti devastanti di giovani iraniani, l´esercito non è intervenuto con i carri armati».
E allora in che senso?
«Nell´impossibilità del mondo esterno d´intervenire. Però, sa cosa arrivo a dirle? Che è un bene. La prudenza di Obama e dell´Europa rafforzano l´opposizione. L´ascesa dei riformisti è nell´interesse nazionale dell´America. Ogni presa di posizione offuscherebbe l´immagine delle forze del cambiamento, bollandole come strumenti dell´Occidente. Soprattutto, sarà decisivo lo scontro all´interno della leadership».
Lei cosa s´aspetta dai riformisti di Moussavi e Rafsanjani?
«Si rumoreggia che Rafsanjani, a capo dell´Assemblea dei Saggi, stia manovrando per destituire il Leader Khamenei, ma non è certo. Né probabilmente lui ha i voti per riuscirvi».
Gli altri leader religiosi, che peso avranno?
«Se parliamo di figure come il Grande Ayatollah Sanei, Khatami o Karroubi, il loro sostegno all´opposizione è significativo. È la dimostrazione che assistiamo a un pubblico parapiglia al più alto livello della Repubblica islamica. Ecco, la leadership religiosa ha assunto i tratti dei Borgia del XVI secolo. Però nulla sarà più come prima».
Che cos´è cambiato?
«Il 12 giugno in Iran s´è aperta una nuova era. La gente si è espressa e vuole essere ascoltata. Alla fine la leadership dovrà tenere conto delle richieste di cambiamento».
E se prevarrà Ahmadinejad?
«Persino lui dovrà rendersi disponibile al dialogo con l´America, perché questa è la richiesta pressante. Lui non potrà ignorarla».

il Riformista 24.6.09
Perché i criminali fascisti sono scampati alla Norimberga bis
di Boris Pahor


STORIA INVISIBILE. Per ipocrisia e diplomatico amor patrio, non si è fatto il processo contro le truppe italiane che avevano «bonificato» da sloveni e croati il Friuli Venezia Giulia.

Quando mi è stato proposto di dire dell'invisibile, il tema lo trovai importante ma ci tenni a specificare che vorrei interessarmi dell'invisibile con la i minuscola, ciò perché parlando dell'Invisibile con la "I" maiuscola il più delle volte si intende la trascendenza, il recondito Al di là, di cui veramente all'infuori di alcune congetture poco potrei affermare. Certo, si potrebbe rimproverarmi di ridurre l'Invisibile con la "I" maiuscola solo al mondo sconosciuto dell'Oltretomba mentre l'anima è anche invisibile, come ente spirituale, quindi necessariamente partecipe anche della trascendenza. Come, allora, penso di escluderla?
Non ci penso affatto, anzi, come partecipante alla vita degli esseri umani, della società umana mi interesso delle idee, delle azioni dei suoi componenti, composti a loro volta da corpo e anima. Almeno così pare. Perché prendendo, ad esempio, in esame il titolo del libro del deportato francese Robert Antelme, L'espèce humaine, e quello del libro di Primo Levi Se questo è un uomo, la parte spirituale dell'essere umano è di dubbia consistenza e difficilmente accettabile come tale. Purtroppo di questo invisibile devo trattare anche senza essere preparato per la parte che compete alla psicologia, alla psicanalisi e alle altre discipline specifiche.
Come punto di partenza riferirei ciò che nel mio racconto, conosciuto con il titolo di Necropoli (nelle traduzioni francese, inglese ed esperanto con il titolo corrispondente a Pellegrino tra le ombre) mi domandavo, erano vent'anni dalla fine del secondo conflitto mondiale: le popolazioni europee come reagiranno alla catastrofe vissuta, dato che l'atmosfera in cui vivono è pregna del male assoluto, dell'obbrobrio della distruzione di milioni di esseri umani, arsi per ragioni di razza da una parte, per ragioni di lotta antifascista e antinazista dall'altra.
Quel finimondo che poi fu completato con l'inaudita capacità di distruzione della potenza atomica ha certo, come un'invisibile energia maligna, invaso gli animi. Come faranno, inconsci come sono di questa loro infezione interna, in qualche maniera, a metabolizzarla? Ad ogni modo ci vorrà del tempo, se, e qui sta il problema principale, non saranno senza saperlo succubi, non solo dell'influenza perniciosa depositata nell'inconscio, ma dei raggiri di cui saranno vittime.
Per quanto mi riguarda già allora constatavo che i popoli dell'Europa non avevano reagito come le tremende prove vissute lo richiedevano, invece di uno scontro radicale di fronte al vissuto annullamento della normale etica, è prevalsa la tendenza a un accomodamento e, poi, a un inserimento più o meno attivo nello scontro tra il mondo occidentale e l'oriente comunista.
Purtroppo ci troviamo su un campo vasto e arduo che ora oltre agli storici stanno studiando i sociologi e gli psicologi, come già anticipatamente ho accennato. Ciò che da parte mia posso constatare personalmente è la disposizione confusa degli animi di fronte alla tendenza di non rendere visibile una parte della storia. Così, ad esempio, da noi non si fa conoscere la realtà della dittatura fascista tra le due guerre a scapito della popolazione slovena e quella croata nella Venezia Giulia, la distruzione delle case di cultura, le imposizioni di nomi e cognomi italiani, una "bonifica etnica", come la chiamarono, veramente unica, i macroprocessi, le centinaia di incarcerazioni, le condanne a morte, i centomila esuli.
Un'altra propensione riguardo all'invisibile per partito preso ce lo dà l'occultamento delle nefandezze fasciste durante la guerra, perché esponendole pubblicamente si metterebbe in troppa cattiva luce le forze armate ligie alla volontà del Duce. Così nel 1946 era già tutto preparato per un processo contro i comandanti tedeschi criminali di guerra, una Norimberga italiana, ma non se ne fece niente, perché «l'Italia, che in un primo momento aveva visto con favore la seconda Norimberga, non aveva però nessuna intenzione di consegnare i nostri generali, a partire da Roatta, a loro volta sotto accusa per crimini di guerra commessi come alleati dell'Asse».
Non giudicati e non puniti i criminali, restano così invisibili all'opinione pubblica italiana i misfatti nella parte della Slovenia occupata nel 1941 e annessa come Provincia di Lubiana. Da un resoconto dell'A.N.P.I. risultano 13.100 morti tra ostaggi, partigiani uccisi e deportati deceduti nei campi di Rab-Arbe, Gonars, Monigo Chiesanuova, Grumello, Visco e in altri. Inoltre 12.773 case distrutte e 8.850 danneggiate.
Certo, da una posizione generale da cui sono partito, ora ho preso brevemente in esame solo la maniera unilaterale di prendere in considerazione dei fatti particolari, ma lo sto facendo perché direttamente interessato, come lo sono per l'esperienza del nazismo. Il quesito si pone infatti dal fatto che da parte tedesca il male procurato dai nazisti non solo è stato riconosciuto ma ne è anche stata chiesta scusa. Ciò la guida della Repubblica democratica italiana finora non ha trovato necessario di fare. Solo qualche raro personaggio, come per esempio, Paolo Milano, che durante l'incontro del PEN Club internazionale a Bled in Slovenia nel 1965, dopo una mia esposizione della barbarie fascista subita durante un quarto di secolo, mi chiese privatamente perdono in nome della cultura italiana.
Non so come le relazioni di amicizia tra i rappresentanti del popolo italiano e di quello sloveno si evolveranno in fatto di realtà visibili e invisibili, ma sono molto preoccupato, quando leggo di migliaia e migliaia di scolari e studenti che ogni anno in febbraio vengono da noi per la Giornata del Ricordo senza essere messi al corrente di tutta la storia, di tutte le responsabilità, di tutte le memorie, di tutti i ricordi. Sì, mi domando in quale spirito di comune creatività per una amichevole convivenza si possa sperare. E penso che, forse, un primo passo potrebbe farlo l'autorità competente facendola visibile, pubblicandola, e facendo soprattutto conoscere, durante le lezioni di storia delle classi superiori, la Relazione della Commissione storico-culturale italo-slovena che, un tempo istituita dai governi italiano e sloveno, è finora rimasta nel cassetto tanto durante un governo di destra come durante quello di sinistra.

Repubblica 24.6.09
Gli anni ‘70 visti dall’America
L’evoluzione del Pci, il sequestro Moro e il rimpianto del leader scomparso, il terrorismo e l'elezione di Wojtyla nei documenti della Cia e dell’Fbi raccolti in volume da Umberto Gentiloni
di Simonetta Fiori


L´Italia degli anni Settanta vista da Washington - e ricostruita sui documenti del Dipartimento di Stato, della Cia, dell´Fbi, della Casa Bianca e di diversi fondi presidenziali - è più rassicurante di come ci viene raccontata oggi dagli "storici" di corte e, nonostante il ripetuto allarme per la "questione comunista", meno caricaturale rispetto al pericolo rosso ancora oggi rilanciato dai tarantolati dell´anticomunismo. Un paese confuso, instabile, guardato con diffidenza, ma non privo di risorse inattese. Un´Italia sospesa - recita il titolo del nuovo saggio di Umberto Gentiloni Silveri, professore di Storia contemporanea all´Università di Teramo - né eterodiretta dagli Usa o da Mosca né portatrice di una peculiarità autonoma nella cornice dell´Europa postbellica, ma fisiologicamente calata dentro il quadro della guerra fredda (sottotitolo, La crisi degli anni Settanta vista da Washington, Einaudi, pagg. 238, euro 28).
Tra i numerosi nodi di quel decennio, da qualche tempo sotto la lente della storiografia più agguerrita, può colpire la parabola dell´intelligence Usa sulla "questione comunista". Se il compromesso storico viene inizialmente osservato con molta apprensione per i rischi connessi all´ingresso del Pci nel governo italiano, la severità del giudizio tende a mitigarsi a conclusione del decennio. Ancora nel 1977 il futuro ambasciatore a Roma Richard N. Gardner viene dissuaso da Henry Kissinger dall´accettare l´incarico diplomatico in Italia «per non passare alla storia come l´ambasciatore Usa che perde l´Italia finita nel campo avverso». La presenza in Italia del più grande partito comunista d´Occidente - sintetizza Zbigniew Brzezinski, assistente di Carter per la sicurezza nazionale - è avvertita come «il più grave problema politico degli Stati Uniti in Europa».
Anche al principio del decennio, la nuova legge sul divorzio era stata accolta dall´amministrazione Usa con atteggiamenti contraddittori: da una parte si elogia lo Stato italiano che «dopo oltre un secolo dalla sua nascita è finalmente riuscito a darsi una limitata legislazione in materia di divorzio» - si legge in una nota dell´intelligence redatta il 3 dicembre 1970 - dall´altra se ne temono le conseguenze sulla tenuta del quadro politico, l´esplosione di una "guerra di religione", soprattutto un´insidiosa collusione tra Dc e Pci (come recita un memorandum del Dipartimento di Stato scritto nell´aprile del 1970). Pur mantenendosi vigile per la cospicua presenza comunista nella penisola, nella seconda metà dei Settanta l´amministrazione americana - soprattutto sotto la guida di Carter - si caratterizza per una più articolata lettura del Pci, tenuto sempre distante dalla cabina di comando, ma valorizzato nella sua progressiva autonomia da Mosca.
La svolta, nel rapporto con i comunisti italiani, è rappresentata nel marzo del 1978 dal sequestro di Aldo Moro, l´altro artefice dell´intesa tra i due grandi partiti popolari. Le carte del Dipartimento di Stato restituiscono una crescente preoccupazione degli osservatori a Washington: la politica di Moro era stata liquidata come "un ponte verso l´ignoto", ora il suo rapimento diventa un "ponte verso l´abisso". Può essere significativo il memorandum redatto il 27 aprile del 1978, ancora in parti consistenti secretato, presentato la prima volta da Gentiloni nel corso di un convegno sull´Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. «Il timore dell´abisso», spiega lo storico, «si fonda su due elementi molto evidenti: l´assenza di Moro dalla vita politica e l´incapacità del governo di trovare il leader imprigionato». Alle critiche degli anni precedenti sull´uomo "sfuggente" ed "enigmatico", subentra il rimpianto per le capacità di Moro di "garantire l´unità della Dc" e di svolgere un ruolo di controllo nella collaborazione con i comunisti. I quali - nei rapporti dell´intelligence - dismettono i panni del nemico da combattere, per diventare le sentinelle dell´ordine democratico minacciato dal terrorismo.
Prima del sequestro Moro - documenta Gentiloni - «le carte americane si interrogavano sui possibili rapporti dei brigatisti con il Pci e con le centrali del comunismo internazionale. Fino al 1977, con osservazioni anche superficiali, gli Usa tentano di evidenziare il nesso tra fenomeni terroristici e settori della sinistra storica. Sarà la collaborazione tra Dc e Pci nell´emergenza di quelle settimane a spostare l´ottica dell´intelligence americana». Soprattutto dopo l´assassinio di Moro mutano toni e giudizi all´indirizzo del partito di Enrico Berlinguer, del quale vengono elogiate "la fermezza" e "la capacità reattiva". Il leader comunista italiano cresce in affidabilità democratica, come attesta tra gli altri un documento redatto dalla Cia nel giugno del 1982, dopo il colpo di Stato di Jaruzelski in Polonia. «Le continue polemiche tra il Pci e Mosca hanno portato la relazione tra i due partiti a un punto molto critico, fino a una probabile frattura ideologica», recita la nota. In altre parole, «Berlinguer è molto distante da Mosca e lo sarà ancor di più», come si legge in un altro resoconto.
L´Italia sospesa restituisce anche il paziente lavoro di tessitura da parte del Pci nei confronti del Dipartimento di Stato americano. Vi sono impegnati uomini di punta, da Giorgio Napolitano a Pietro Ingrao e Franco Calamandrei. Nutrita la mole di documenti, conservata all´Istituto Gramsci, che fotografa le difficoltà iniziali nell´incontro tra mondi lontani, anche i non pochi ostacoli incontrati da Napolitano nell´ottenere il visto per gli Stati Uniti (cui fa riferimento il 20 maggio del 1975 una lettera di Joseph La Palombara, politologo dell´Università di Yale). Soltanto nel marzo del 1978 - nei giorni del sequestro Moro - il futuro presidente della Repubblica riesce ad arrivare sul suolo americano, ospite delle più prestigiose università e sotto i velati auspici dell´amministrazione Carter.
Tra i documenti ancora inediti in Italia, può colpire una nota della Cia all´indomani dell´elezione di Karol Wojtyla, il 16 ottobre del 1978. Tempestiva appare l´analisi degli agenti. «Un papa polacco», si legge, «avrà un effetto di lungo periodo su una grande varietà di questioni legate ai rapporti stato-chiesa». E ancora: «Avrà un effetto profondo sui partiti comunisti di paesi cattolici quali Italia, Francia e Spagna. I comunisti di questi paesi potranno forse sentirsi più liberi di manifestare la propria indipendenza da Mosca». Insomma, la comparsa sulla scena mondiale di Giovanni Paolo II appare subito un´autentica svolta, capace di mettere in discussione «le linee portanti della politica sovietica, a partire dalla conclusione della seconda guerra mondiale». Una scintilla che potrebbe rivoluzionare il vecchio continente, aggiunge l´intelligence. Più che un´analisi, una profezia.

Repubblica 24.6.09
"Le emozioni ferite", il nuovo libro di Eugenio Borgna
Il tempo della gioia e quello della felicità
di Luciana Sica


Il noto psichiatra torna a scavare nell´interiorità con un lavoro a metà tra il saggistico e il letterario insistendo sull´aspetto temporale di ogni movimento dell´anima

Le penombre della malinconia, le angosce senza oggetto, il sentimento della nostalgia, le ossessioni della colpa, le ferite dell´ansia, i rimpianti, le attese, le intermittenze del cuore: sono i temi - sempre uguali e sempre diversi - che ama trattare Eugenio Borgna, con una sua cifra personalissima.
Nel capitolo più sorprendente del suo nuovo libro - Le emozioni ferite (Feltrinelli, pagg. 222, euro 17) - l´autore si avventura invece in un territorio del tutto inedito rispetto al suo abituale lavoro di introspezione, e più in generale pochissimo esplorato, scavando nell´esperienza improvvisa e fragilissima della gioia. Da sempre molto si è pensato e si è scritto sulla condizione della felicità, ma non sull´immediatezza e sull´intemporalità della gioia che brucia in un istante, "nel presente del presente agostiniano", o anche - scriveva in una lettera Rilke - «La felicità ha il suo contrario nell´infelicità, la gioia non ha contrario, per questo è il più puro dei sentimenti».
È Borgna a ricorrere alle citazioni, e nelle sue pagine si affastellano, ma l´uso che ne fa non è mai vanesio. Per restituire il "nocciolo metafisico" dell´esperienza emozionale della gioia è al Diario di Etty Hillesum che rimanda, a un documento straordinario pubblicato da Adelphi negli anni Ottanta. L´autrice olandese, uccisa ad Auschwitz, ha scritto pagine segnate da quella che Borgna definisce "la nostalgia dell´infinito", sempre interna all´emozione della gioia. Anche in un campo di concentramento, Etty è misteriosamente capace di viverla, sorretta da una sua incredibile forza intima: «Ma cosa credete, che non veda il filo spinato, non veda i forni, non veda il dominio della morte, sì, ma vedo anche uno spicchio di cielo, e questo spicchio di cielo ce l´ho nel cuore, e in questo spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza. Non ci credete? Invece è così».
Del resto "le emozioni ferite" non sono soltanto quelle enigmatiche e apparentemente indecifrabili della vita psicopatologica ma anche quelle della più normale quotidianità, tenute però spesso segrete: sono comunque stati d´animo che chiedono di essere compresi e riconosciuti, dimensioni essenziali della condizione umana, anche forme e modalità della conoscenza - secondo il pensiero moderno.
In questo suo nuovo scavo nell´interiorità, Borgna insiste molto sull´aspetto temporale di ogni singola emozione, di ogni movimento dell´anima. Scrive: «Quando si parla di tempo non ci si riferisce, ovviamente, al tempo dell´orologio ma al tempo soggettivo, al tempo vissuto: il tempo interiore della speranza è il futuro come quello dell´attesa, il tempo interiore della nostalgia e della tristezza è il passato, benché con incrinature diverse, il tempo della gioia è il presente così friabile e così inafferrabile, il tempo dell´ira è il presente dilatato, e deformato, in slanci di aggressività, il tempo dell´ansia è il futuro: un futuro che si rivive come già realizzato nelle ombre dolorose di una morte vissuta come imminente».
A metà tra il saggistico e il letterario, tra il rigore dell´analisi e il virtuosismo del linguaggio, Le emozioni ferite di Eugenio Borgna sembrano il nuovo tassello di un´opera che si presenta sempre più coerente al suo interno, quasi un corpus unico, seppure aperto, un viaggio a tappe nei paesaggi della vita interiore, nei significati profondi della malattia e in certi nuclei psicotici della normalità - nelle condizioni comuni dell´esistenza umana che sfuggono alle classificazioni diagnostiche. Alla soglia dei settantanove anni, ancora "primario emerito" dell´Ospedale Maggiore di Novara e libero docente all´università di Milano, Borgna non ha mai smesso di coniugare certe sue personali inquietudini con i gusti intellettuali dell´umanista idiosincratico all´algore degli specialismi - conoscendo Proust e Tolstoj, Sylvia Plath e Antonia Pozzi, Heidegger e Lévinas almeno quanto Jaspers e Binswanger.
Non si tratta solo di un suo modo di pensare il dolore psichico, ma anche di un suo modo di stare al mondo, ed è in questo connubio che si rintraccia l´assoluta singolarità della scrittura di Borgna, così ostile al grigiore dei tecnicismi, quel piacere di esprimersi in un linguaggio apertamente metaforico, capace di restituire l´intensità degli affetti. Oltre alla competenza professionale dello psichiatra, si coglie la sensibilità acutissima di un uomo estraneo alle varianti intellettuali del cinismo: è intatta la sua passione per l´umanità più sofferente, non si è affatto arresa al disincanto e neppure alle sciatterie culturali di quella psichiatria "organicista", oggi dominante, che lui non esita a definire barbara.

Corriere della Sera 24.6.09
Le prime riprese della miniserie prodotta dalla Rai e da Claudia Mori sul «padre» della legge 180
Il ribelle Basaglia un eroe da fiction contro i manicomi
Fabrizio Gifuni nei panni dello psichiatra «Fu incompreso anche dai comunisti»
di Emilia Costantini


In tv le vicende di un reduce di guerra ridotto al mutismo e di un ex partigiano sottoposto a terapie crudeli

OSTIA — «Non bisogna allungare il vestito, basta accorciare il degen­te ». «Sono spettinata, vorrei pettinar­mi. Non possiedo un pettine. Ho dirit­to a un pettine!». Slogan, o piuttosto, appelli accorati, scritti sui muri da chi ha perso la dignità di essere umano: il malato di mente.
È dedicata a Franco Basaglia, colui che sconvolse il mondo dei manico­mi, la miniserie prodotta da Rai Fic­tion con la Ciao Ragazzi di Claudia Mori, in onda su Raiuno nella prossi­ma stagione. Fabrizio Gifuni è prota­gonista con Vittoria Puccini, per la re­gia e sceneggiatura di Marco Turco.
Prima c’era la città dei matti, il ma­nicomio, con tutto il suo corredo di orrori piccoli e grandi. Letti di conten­zione, camicie di forza, celle d’isola­mento, elettrochoc punitivi. In tutto il mondo occidentale, nessuno aveva mai messo in discussione il manico­mio. Almeno fino all’inizio degli anni ’60 quando, in una città di provincia del nord Italia, un giovane psichiatra ribelle provocò un incendio impensa­bile fino a qualche tempo prima.
Nella cittadina di Ostia, alle porte di Roma, nella vecchia residenza di una colonia estiva è ricostruita la casa Rosa Luxembourg, ovvero quella che era la residenza del direttore del­l’ospedale di Trieste, dove Basaglia, al­la metà degli anni ’70, creò la prima casa-famiglia, un altro passo verso quel radicale cambiamento che culmi­nerà nella legge 180. «Ma l’avventura parte da prima - avverte Gifuni - la sua esperienza prende le mosse dallo choc che, nel 1961, il giovane medico subisce quando va a lavorare all’ospe­dale di Gorizia: lui non vede un luogo di cura, ma un lager nazista. Sbarre al­le finestre, sevizie, torture. Per lui è una rivelazione ed entra in crisi pro­fonda. Basaglia è indignato. E si sente impotente: cosa può fare per cambia­re tutto questo? La risposta è una so­la: il manicomio va distrutto».
Il giovane psichiatra si trova di fronte «casi» come quello di Boris, re­duce da una guerra terribile che lo ha ridotto al mutismo, che viene «cura­to » con l’elettrochoc. Oppure Furlan, ex partigiano, sottoposto a terapie crudeli. E poi c’è Margherita (interpre­tata dalla Puccini): una ragazza bella e piena di vita, con l’unica «tara» di avere una madre ossessionata dalla colpa di averla concepita con un sol­dato americano, che poi l’ha abbando­nata. Un «peccato» che la madre scari­ca sulla figlia, abbandonadola in un istituto di suore che, per domare il ca­rattere ribelle della ragazza, la fanno ricoverare in un ospedale psichiatri­co, dove Margherita, diventata ingo­vernabile, viene tenuta in una gabbia come una bestia feroce. Interviene la Puccini: «Il mio personaggio, real­mente esistito come gli altri, oggi ver­rebbe definito una borderline. Ma a quell’epoca, gente così veniva consi­derata matta e riunchiusa. Ho visto un’intervista che è stata fatta in tempi recenti a Margherita, che ora ha circa 60 anni e vive tranquilla con due ami­che: parlando di Basaglia, si commuo­veva, le si illuminavano gli occhi, lo descriveva come il suo salvatore».
La realtà che si trova di fronte Basa­glia, dunque, è terrificante. E con la moglie Franca Ongaro, donna corag­giosa che diventerà in seguito parla­mentare, decide di cambiare quella realtà. Spiega il regista: «Comincia a scardinare i cancelli della psichiatria e a liberare una ad una le persone rin­chiuse, cancellando per sempre dai lo­ro corpi e dalle loro menti il duplice marchio del pericolo e dello scanda­lo, che le leggi e la mentalità dell’epo­ca conferivano alla follia». E nel 1973, quando Basaglia si trova già a Trieste, i «matti» escono dall’ospedale e inva­dono la città con Marco Cavallo, una macchina teatrale costruita dentro l’ospedale, una sorta di cavallo di Troia, nella cui pancia ogni degente aveva riposto le proprie speranze, de­sideri, aspirazioni. «Il suo principale obiettivo - riprende Gifuni - è rimette­re al centro l’uomo, il paziente. E il medico non deve esercitare il suo po­tere, ma il suo sapere, mettendosi al servizio del suo ruolo pubblico. Il suo pensiero è da 'eretico' della psichia­tria di quel tempo. Un pensiero che non viene compreso neanche dal Par­tito Comunista. C’è una scena nel film, realmente avvenuta, in cui Basa­glia parla nell’aula del gruppo parla­mentare a Montecitorio e i comunisti lo guardano come fosse un matto».
Al di là del medico, che tipo di uo­mo era? «Era dotato di carisma, ironi­co, sempre sorridente, uno spirito ar­guto che spiazzava l’interlocutore. La sua formazione scientifica era rigoro­sissima, ma arricchita da una forma­zione filosofica: l’unico maestro che riconosceva era Sartre». Un egocentri­co? «Aveva la giocosa irresponsabilità del bambino e dell’artista, che poteva apparire egocentrismo, data la forte personalità. Ma in realtà era tutto il contrario: ha dedicato la sua vita agli altri».

Liberazione 23.6.09
«La repressione è inutile. Ormai il regime è finito»
di Guido Caldiron


Nei giorni scorsi ha chiesto ai leader occidentali di non intervenire sulla situazione iraniana per non offire al regime possibili appigli per denunciare "ingerenze" o "manipolazioni straniere" su quello che definisce come «un movimento spontaneo e autorganizzato». Del resto non c'è bisogno di accellerazioni, perché il regime dei mullah, per lui, sta già cadendo.
Abolhassan Banisadr è stato il primo Presidente della Repubblica Islamica dell'Iran, incarico che ha ricoperto dal 4 febbraio del 1980 al 22 giugno del 1981, quando è stato deposto dall'Ayatollah Khomeini. Tra i maggiori leader studenteschi iraniani, Banisadr partecipò ai movimenti di protesta contro lo Scià fin dagli anni Sessanta e, costretto a fuggire, rientrò nel paese quando la Rivoluzione stava per scoppiare, nel febbraio del 1979. Fu lo stesso Khomeini a volerlo alla guida del paese per non dare l'impressione che l'Iran rivoluzionario fosse guidato soltanto da religiosi. Una cautela che durò ben poco: dapprima Banisadr fu vittima di alcuni attentati, a cui scampò per puro caso, e poi fu allontano dal potere dall'Ayatollah che incarnava la deriva teocratica della Rivoluzione. Fuggito in Francia, l'ex premier iraniano vive da allora a Evreux, alle porte di Parigi, mantenendo viva la memoria di una Rivoluzione che fu tradita da una parte dei suoi ispiratori e trasformata in un regime autoritario.
Lei è stato uno dei protagonisti della Rivoluzione del 1979, le piazze iraniane di oggi le sembrano assomigliare a quelle di allora?
Forse le immagini che si vedono in televisione possono far pensare a quanto accaduto trent'anni fa, ma in realtà credo che le cose siano molto diverse e in ogni caso è diversa la realtà sociale e politica in cui hanno luogo. Quello che si può dire è che il movimento di oggi potrebbe completare e portare a compimento quanto si è lasciato incompiuto alla fine degli anni Settanta. Mi spiego. Nel 1979 le strutture del potere ruotavano intorno alla monarchia e al clero, l'economia si divideva tra la borghesia dei bazar nelle città e i grandi proprietari terrieri nelle campagne. La rottura che intervenne allora nella società iraniana fece in realtà seguito a delle trasformazioni economiche e produttive che erano state introdotte dalla stessa dittatura dello Scià che aveva cercato di modernizzare, sebbene in senso autoritario, il paese. Poi, la rivoluzione abbattè a sua volta la monarchia, vale a dire uno dei due pilastri tradizionali del potere nel mio paese. Oggi il quesito che ci si deve porre riguarda la possibilità o meno che il movimento in corso in Iran sia in grado di scardinare anche l'altro perno centrale del potere, vale a dire il ruolo del clero sciita. Per gli iraniani si tratta di girare una pagina che si sarebbe voluta e dovuta girare già trent'anni fa, concludere quel processo di trasformazione che a causa del tradimento di Khomeini e dei mullah non riuscimmo a portare a termine. La rivoluzione del 1979 si concluse con l'instaurazione della dittatura dei mullah, esattamente quel potere che oggi nelle strade del mio paese si vuole abbattere. E se anche il regime potrà avere nell'immediato ragione delle proteste, il processo che si è messo in moto nel mio paese non credo possa essere più fermato: la dittatura dei mullah è condannata alla scomparsa.
Nel corso dell'ultimo decennio non sono mancati in Iran dei movimenti di contestazione come quello sorto nelle univeristà intorno al 2000 e soffocato dalla repressione. Le mobilitazioni di oggi sembrano però avere una "base sociale" molto più larga assomigliando, almeno in questo, alle piazze rivoluzionarie del 1979. Cosa ne pensa?
Effettivamente oggi non si può parlare di una mobilitazione studentesca perché ad essere coinvolti sono tutti i settori della società iraniana. Certo, ci sono gli studenti che rappresentano in qualche modo il motore della protesta, ma accanto a loro ci sono gli operai, gli insegnati, la gente dei bazar e talvolta anche dei religiosi. Inoltre le manifestazioni si susseguono non solo a Teheran, ma anche in tutte la altre città di provincia. Si tratta di un movimento di massa che coinvolge una parte significativa della società. Quanto ai paragoni con la Rivoluzione del'79 vorrei sottolineare un elemento a mio avviso di grande interesse: allora le manifestazioni si protrassero per più di un anno prima che il regime dello Scià crollasse. All'inizio non si trattava nemmeno di mobilitazioni quotidiane come sta accadendo invece oggi, potevano passare anche trenta o quaranta giorni tra un corteo e l'altro. Nel frattempo intervenivano l'esercito e le forze dell'ordine, spesso si sparava sulla folla in modo sistematico, eppure la gente si ritrovava nuovamente a riempire strade e piazze a ogni nuovo appuntamento cone le proteste. Solo nell'ultimo mese le manifestazioni divennero quotidiane, coinvolgendo tutta la popolazione, compresi gli impiegati dell'amministrazione dello Scià e i lavoratori dell'industria petrolifera. Questo fino alla cacciata dei Pahlavi dal paese. Oggi siamo al decimo giorno di mobilitazione e le piazze non si sono mai svuotate, e questo malgrado la repressione e i morti. Giorno dopo giorno le persone si ritrovano a sfilare per strada e esprimere la loro rabbia senza paura. E ora si comincia a parlare di uno sciopero generale che blocchi tutto l'Iran.
Accanto alle spinte che vengono dalle piazze, crede che il regime potrà conoscere una sorta di "autoriforma" visto che anche il principale avversario elettorale di Ahmadinejad, Moussavi, proviene dall'establishment?
Da questo punto di vista le cose sono cambiate con il passare dei giorni. Fino a venerdi scorso, infatti, quando la massima autorità della Repubblica Islamica, l'Ayatollah Kamenei ha preso pubblicamente posizione in favore di Ahmadinejad, in piazza si erano levati pochi slogan contro di lui, mentre il cuore della protesta aveva riguardato l'esito delle elezioni, le modalità del voto e dello scrutinio delle schede. Poi, dopo che Kamenei è intervenuto per lanciare le sue minacce ai manifestanti e per dire che nulla doveva cambiare e che il popolo aveva espresso con il voto il suo appoggio al regime, tutto è cambiato. A quel punto infatti nelle piazze iraniane si sono cominciati a sentire anche slogan contro di lui e contro lo stesso sistema di potere che rappresenta. Ques'esempio serve a indicare come gli iraniani chiedendo semplicemente una verifica del voto e trasparenza hanno nei fatti messo in discussione gli stessi meccanismi di funzionamento del "sistema". A questo punto l'idea che il regime possa cambiare dall'interno sembra superata dai fatti: chiedere democrazia e una legalità che rispetti ogni cittadino e le sue scelte, è diventato inconciliabile con la continuazione del potere dei mullah.
Ahmadinejad e Kamenei continuano a negare ogni apertura ai contestatori e se la prendono con le "ingerenze straniere", intanto le piazze continuano però a riempirsi. Quali scenari si possono aprire ora per l'Iran?
Credo che quanto sta accadendo per le strade dell'Iran non possa più essere fermato, potrà accadere per qualche tempo ma non per il futuro: la dittatura religiosa è finita. Detto questo è difficile prevedere i passi concreti che ciascuno potrà fare fin dalle prossime ore. Ragionando in teoria, si possono però fare alcune ipotesi. La prima è che il Presidente Ahmadinejad decida di dimettersi e si organizzino nuove elezioni per dimostrare che il regime tutto sommato funziona. Ipotesi che è però stata fin qui smentita dai fatti e dalle parole di Kamenei, autorità suprema del paese e protettore di Ahmadinejad. Un'altra ipotesi riguarda la possibilità di cui si è già avuta traccia, anche se non su larga scala, che si scateni una repressione sistematica e generalizzata per far sì che il movimento si fermi. In questo senso ci sono stati segnali molto duri: sia Moussavi che Karrubi, l'altro candidato riformista che si è presentato alle elezioni, sono stati minacciati se non avessero abbandonato la guida delle proteste e i basiji, i membri della milizia popolare, sono arrivati a chiedere la loro incriminazione e la loro condanna a morte. Ovviamente c'è poi l'ipotesi che prevede, come sta poi accadendo almeno in parte nei fatti, che gli ex candidati dell'opposizione e la gente che continua a riempire le piazze non facciano alcun passo indietro e che i due blocchi in cui si divide oggi la politica iraniana finiscano per misurarsi fino in fondo. Da una parte Ahmadinejad e Kamenei e il loro sistema di potere corrotto e mafioso e dall'altra tutte le opposizioni riunite, oltre a Moussavi e Karrubi anche i riformatori dell'ex Presidente Khatami e quella parte del clero sciita che fa rifemento all'Ayatollah Rafsanjani.
Lei ha dovuto abbandonare l'Iran nel 1981, oggi le sembra possibile immaginare di poter tornare in un paese che abbia finalmente ritrovato la libertà e la democrazia?
Lo spero con tutto me stesso. In questi anni sono stato uno dei pochi politici iraniani che dall'esilio hanno immaginato che il loro paese si potesse liberare non attraverso la lotta armata o solo per una implosione del regime. Ho sempre detto e pensato che sarebbe stato un movimento di massa, spontaneo e autorganizzato a riportare a Teheran democrazia e libertà. Oggi so che il regime religioso sta per cadere e che l'Iran potrà tornare ad essere un paese libero e indipendente.

Liberazione 23.6.09
La grandiosa lotta delle donne iraniane
di Lidia Menapace


Mi pare importantissimo che il nostro giornale voglia sottolineare ciò che dovrebbe essere visibile a tutti, e cioè la straordinaria presenza delle donne di qualsiasi età nel movimento iraniano.
Questa decisione smuove dentro di me ricordi che cominciano da lontano. La prima immagine è quella della allora giovane figlia di Rafsanjani in visita a Roma, che chiede di incontrare le femministe romane: veniamo invitate all'ambasciata dell'Iran e decidiamo di andarci tutte a capo scoperto e braccia nude (era estate). L'ambasciata ci accoglie con l'aria condizionata al massino, sicchè corriamo a tirar fuori dalle borse tutti gli scialletti le sciarpe i foulard che abbiamo, e si comincia, capendo che tra popoli antichi l'esercizio della allusione è comune. La giovane iraniana è vestita di un abito beige accollato, maniche lunghe, calze di cotone bianco e sembra una monachina, ha in capo una specie di copricapo da suora.
Appena incomincia a parlare appare molto colta anche di cultura italiana, libera, capace politicamente e capiamo che per il corpo delle donne il vestiario è simbolicamente fortissimo, e quando viene trasformato dal corpo-mente della donna che lo abita, questo è un successo ancora più grande.
Comunque con lei è una conversazione molto bella, di vera rapida relazione tra noi. Chiediamo di una giovane adultera lapidata e ci dice che su pressione delle donne il giudice che ha emesso la barbara sentenza è stato cacciato ecc. A un certo punto chiediamo se il velo è d'obbligo per il Corano e improvvisamente da una stanza appresso esce un giovane che dice essere lui autorizzato a rispondere su materia religiosa. E' un giovane bellissimo, un bello impossibile, sembra la canzone della Nannini. Dice che il corpo della donna deve essere tenuto coperto perché provoca eccitazione e ciò deve essere riservato al solo marito. Restiamo incredule che una cosa così si possa ufficialmente sostenere. Ma, a proposito di eccitazione, qualcuna tra noi comincia ad ammiccare: in fin dei conti il bello impossibile è abbastanza eccitante e allora incominciamo a dirgli che i suoi occhi eccitano e soprattutto il bel collo bianco muscoloso e nudo che esce dal colletto della camicia: il povero scappa!
Anni dopo a Pechino, l'Udi, di cui faccio parte, incontra donne islamiche e discutiamo un po' fra noi su come debbono essere valutate le varie delegazioni dei paesi islamici. Le delegazioni degli Emirati vengono dette "Ong dei governi" dalle libere donne islamiche di altre delegazioni. E ci dicono che sotto gli abiti neri e le mascherine a tutto volto hanno macchine fotografiche che cavano fuori appena vedono una donna dai tratti mediorientali a capo scoperto. Sicché da allora tutte noi appena vediamo una donna tutta velata ci mettiamo davanti a quelle che vuole fotografare: debbono esserci un tot di mie foto nei loro archivi.
E a questo punto non posso non ricordare la donna iraniana esule a Parigi che narra la sua storia. Era studente all'università di Teheran quando cadde lo Schah Reza Pahlevì e per esprimersi contro la occidentalizzazione forzata che egli aveva imposto anche vietando il velo, se lo era appunto rimesso in capo. Appena torna a casa, sua madre che la vede velata scoppia a piangere e le dice: «Tu non sai che cosa c'è, che cosa c'era sotto il velo!» e madre e figlia si raccontano molte complicate cose su come il progresso economico tecnico sociale possa legarsi anche al più tremendo regresso culturale e religioso.
E se veniamo al movimento odierno è stato quasi simbolicamente rappresentato dalla campagna elettorale durante la quale il primo avversario di Ahmadinejad fa comizi e viaggi insieme alla moglie che dicono anche sua ispiratrice politica. E mentre vado ad Adria per un ultimo comizio per il ballottaggio viene a prendermi alla stazione una compagna iraniana che sta lì e che con altri immigrati e immigrate forniti di cittadinanza hanno sostenuto la nostra lista fino dal primo turno. Considero ciò un grande titolo di gloria. La compagna iraniana spera per il suo paese, parla, è contenta.
E le immagini che ci arrivano sono un vero trionfo di ragazze a capo scoperto, di giovani donne ridenti e disinvolte col velo, di donne mature più caute e con abiti più tradizionali: ma è del tutto evidente che le donne sono uno dei punti più importanti sui quali si gioca la partita. E quando sugli schermi compare il volto della figlia di Rafsanjani scarcerata dopo essere stata presa durante i "disordini"; e poi l'avvocata esule premio Nobel per i diritti civili, sentiamo donne col velo magari, ma che sanno bene quali sono i diritti e citano testi di legge e denunciano le illegalità. Mentre sulla piazza i ragazzi del movimento si chinano sgomenti e commossi sul corpo della loro giovanissima compagna uccisa.
Viene fuori una lotta grandiosa per la liberazione gestita insieme tra donne molto diverse tra loro. E da tutto il popolo giovane e consapevole. Lasciare che possa spegnersi o che venga violentemente spenta una tale primavera politica del mondo sarebbe un vero crimine: è dovere di chiunque gridare che non si possono reprimere diritti fondamentali, un simile bisogno di libertà e cammino di liberazione, quando appaiono. Si capisce o no che non si tratta di vedere se Obama ce la fa o se ce la fa l'Inghilterra, secondo logiche imperiali? E se Obama non farebbe bene a diffidare di troppo zelanti e servili alleati? Se bisogna criticare l'invito dell'Iran a Venezia? Bisogna chiedere che le Nazioni unite chiamino l'Iran a rendere conto della soppressione delle fondamentali libertà civili e politiche della maggioranza della popolazione e della legalità di un evento elettorale del quale i risultati escono due ore dopo chiusi i seggi e il controllo consisterebbe nel sostenere che si sono trovati tre milioni in più degli elettori, ma ciò non fa problema! Che l'Iran renda noti i suoi straordinari metodi di conteggio dei voti, che compriamo tutti il brevetto.
Non dobbiamo permettere che le cose del mondo vengano gestite da un uomo solo o da scambi invisibili tra pochi. E per tutti e soprattutto per tutte deve essere chiaro che non si può scambiare aiuiti alle banche con guerra in Afghanistan, borse e oppressione delle donne. Per le donne arrivare ad essere cittadine passa per la scuola e l'università, l'accesso al lavoro e alla società, non per l'essere veline. In questo senso l'Iran insegna. Secondo me, se si potesse affidare la risoluzione dei problemi iraniani a un comitato di molte donne, come è successo al concerto di Milano per l'Abruzzo, verrebbe fuori che siamo anche capaci di organizzarci e di essere efficaci (talvolta persino più degli uomini: parlo di concerti ovviamente).

martedì 23 giugno 2009

l’Unità 23.6.09
Torna il «Nuovo Cinema» di Pesaro vecchia formula ma vincente
Gli omaggi a Lattuada e al cinema israeliano
La lezione di Bellocchio
di dario Zonta


«Io quest’anno andrei a Pesaro!». Se dovessimo immaginare uno slogan per promuovere la 45°Mostra del Cinema Nuovo di Pesaro, useremmo questa frase per sottolineare «una» scelta precisa tra le molte offerte dell’estiva Italia cinematografica. Perché siamo innanzi a un evidente paradosso: da una parte c’è una moltitudine imprecisata di rassegne, eventi, omaggi, percorsi… l’allegra e spensiarata industria cultural cinematografica; dall’altra si registra una sostanziale crisi del «sistema festival», crisi culturale e politica e ora anche economica. Per fare un esempio: nell’ultima edizione del Festival di Bellaria, la contingente campagna local-elettorale del centrodestra si è concentrata proprio sullo storico festival (alla 27a edizione), definendolo «ciarpame di sinistra» e proponendosi di cancellarlo. Il centrodestra ha vinto e forse Bellaria non ci sarà più. Il comune romagnolo s’affaccia sulla stessa costa di quello di Pesaro e s’è nutrito per anni di uno stesso umore cinefilo e culturale. La Mostra di Pesaro certo è più solida e matura ma i brutti venti di questa nuova temperie aculturale battono sempre sullo stesso dente. Cinema uguale sinistra, festival uguale ciarpame di sinistra. Risultato: abbattere la tradizione e favorire il generico fiorire di manifestazioni pseudo-culturali.
Come difendersi? Gli organizzatori di Pesaro hanno fatto scelte precise: tenere alto il profilo, non rinnegare la tradizionale funzione, perpretare il proprio rigore, andare fino al fondo di una formula che si pensa non esaurita. Il programma di quest’anno garantisce la continuità: omaggi a un grande del cinema italiano (Lattuada) e a una cinematografia da scoprire o riscoprire (il nuovo cinema israeliano); apertura consueta alla fiction sperimentale e al documentario, lezione di un regista italiano (Marco Bellocchio sull’uso della musica), selezione di film da festival internazionali in piazza… e altro, consultabile sul sito www.pesarofilmfest.it. Io andrei a Pesaro perché sicuro di trovare il frutto di un lavoro serio e preciso.

Repubblica 23.6.09
Noi scrittori assassinati da Foucault
di John Banville


Ecco come il romanziere irlandese risponde alla teoria filosofica che sostiene l´inesistenza dell’autore
Il me stesso che scrive non è lo stesso che vedete
Non sappiamo cosa diciamo perché "veniamo parlati"

"Che importa chi sta parlando?" è la domanda che, in modo irritante, pone uno dei moribondi narratori di Beckett e il fatto che io non riesca a ricordarmi chi sia costituisce forse parte della risposta. In chiusura di Le parole e le cose Michel Foucault, notoriamente, riformulò la domanda durante le esequie –certamente premature – per la "morte", in generale, dell´autore. Se Beckett avesse conosciuto, cosa che probabilmente avvenne, l´opera di Foucault, avrebbe di certo approvato con grande entusiasmo la campagna, in un certo qual modo sinistra, dell´intellettuale francese per l´annichilimento dell´autorità del romanziere, o del poeta – o in verità dovremmo presumere, del filosofo-autorità sul proprio lavoro.
Per Foucault, come per molti altri fanatici delle paludi accademiche di circa una generazione fa, la risposta alla domanda di Beckett non è tanto un chi bensì un cosa. Secondo Foucault, non si tratta dell´autore che parla o scrive ciò che scrive, ma è il linguaggio stesso, con tutti i suoi echi e riverberi, i suoi sibili e ululati provenienti dall´oscura foresta del passato. Noi non sappiamo cosa diciamo quando parliamo, perché in realtà non parliamo, bensì veniamo parlati, e quello che noi pensiamo come un discorso razionale non è altro che un confuso barcollare nel sottobosco che i millenni di utilizzo hanno depositato sul suolo della foresta. La selva oscura di Dante è una boscaglia di parole logore nella quale non ci svegliamo mai totalmente.
La campagna del ventesimo secolo per declassare lo scrittore da creatore a strumento, da padrone del linguaggio, come Oscar Wilde lo intese, a suo schiavo, fu fortemente osteggiata da molti critici e accademici, specialmente in Inghilterra, dove la teoria è criticata e i neo Giacobini della cultura francese godono di una considerazione che è un miscuglio di disprezzo, paura e risentito divertimento. Fu il silenzio degli innocenti, comunque, a essere notevole. La maggior parte degli scrittori – ovvero gli scrittori creativi, come veniamo chiamati – si sottrassero al dibattito. Come mai, perché non protestammo mentre Foucault e i suoi compari cercavano di mandarci al macello? Credo si trattasse del fatto che sentivamo, con fastidio, ma con un certo sollievo, che il nostro segreto era stato scoperto, che la nostra essenziale non-esistenza, la nostra inesistente essenza, era venuta alla luce.
Qualche anno fa la Rte, la rete televisiva nazionale irlandese, commissionò un documentario su di me e sui miei lavori, dando enfasi, dietro mia insistenza, all´opera. Il direttore del programma, anch´egli un auteur, era acuto e perspicace e il programma che ne derivò eccellente, meritandosi, a giusto titolo, molti consensi. La prima domanda che mi pose, il primo giorno di riprese, fu, «Chi è ?». Sullo schermo appaio esitante per un lungo istante prima di fornire quella che all´improvviso mi sembrò l´unica risposta possibile. «Beh, vede», risposi, «non c´è nessun John Banville». In quel momento non capii del tutto che cosa intendessi. Certamente, e voi potete vederlo, esiste un John Banville, ed è il povero forcuto essere umano che si alza al mattino, si veste, fa colazione, si avventura fuori nel mondo quotidiano, che ha opinioni e va a votare alle elezioni, che ama i suoi bambini e che un giorno morirà. Ma quel John Banville non è lo stesso il cui nome appare sul dorso dei suoi libri. Non si tratta del John Banville che sogna una storia e la popola di personaggi. Non è il John Banville che se ne sta tutto il giorno seduto alla scrivania a lavorare sulle parole. Quell´altro, misterioso, John Banville è, in un parola, invisibile.
Più avanti nel documentario Rte – il cui titolo, a ogni modo, e non in maniera insignificante, era Essere John Banville – c´è una divertente e illuminante sequenza di stregoneria tecnica che mi vede seduto alla scrivania, ipoteticamente immerso nel lavoro, mentre allo stesso tempo un altro me, identico a quello seduto, gira per lo studio intento a prendersi cura delle piante di casa con un innaffiatore. È una bella metafora e illustra in modo arguto una delle tematiche principali che io e il regista seguimmo per tutto il programma – lo stesso tema, ovviamente, che sto trattando qui oggi, cioè, il tema della duplicità dello scrittore.
Quando faccio letture in pubblico o partecipo a prestigiose manifestazioni come questa, e incontro faccia a faccia alcuni dei miei lettori, mi sembra di cogliere nei loro occhi il sorgere di uno sguardo di leggero disappunto, di insoddisfazione. È come se la persona per la quale erano venuti, nella speranza di incontrarla, non si fosse presentata. È come se il John Banville dinanzi a loro, quello che cerca di fare del suo meglio per essere non solo cortese, ma anche plausibile, non fosse, in qualche modo, il John Banville che pensavano di conoscere dalle pagine dei miei libri. E hanno ragione – non è la stessa persona. Quel John Banville, gli voglio dire, quello che scrive le storie che loro ammirano, esiste solo quando questo John Banville si siede alla mia scrivania ogni mattina e impugna la mia penna, e cessa di esistere quando, giunta la sera, poso la penna.
Che relazione esiste tra questi due, lo scrittore che è visibile davanti a voi adesso e l´altro che se ne sta invisibile accanto a me? Tutti sperimentiamo questo dualismo, o qualcosa di molto simile, quando alla sera ci sdraiamo a letto per dormire. Per un po´ l´occupante si gira e si rigira, mentre con la mente ripercorre gli avvenimenti della giornata, preoccupato per gli errori e i misfatti e celebrando i piccoli trionfi. In breve, comunque, si leva da lui l´ectoplasmico altro, quello sognante, che prende il controllo e parte per uno sfrenato giro di piacere notturno, fatto di sgommate lungo tornanti, immersioni a profondità impossibili, svolazzando anche per aria, a volte, mentre figure bizzarramente familiari lo salutano e si prendono gioco di lui, oppure si gettano sul suo cammino facendo capriole e piangendo. Poi arriva il mattino e il suono stridulo della sveglia; il dormiente si sveglia e la sua vampiresca versione notturna si rintana ancora una volta nella cripta, nell´attesa di un altro crepuscolo.
Quello che sogna, quello che scrive: sono cugini di primo grado se non, in realtà, fratelli gemelli. E ora, sebbene io non sia sicuro chi di noi stia parlando, Banville e io vi porgiamo il nostro evanescente saluto di congedo e diventiamo... invisibili.
(traduzione di Rino Serù copyright 2008 by John Banville)

Repubblica 23.6.09
L’amnesia della morale
di Edmondo Berselli


In un paese tutto televisivo, da almeno due decenni la politica è stata sostituita dalle immagini dei telegiornali, unica autorappresentazione del potere.
Si capisce facilmente allora come negli ultimi giorni, nonostante le inchieste di giornali come la Repubblica, sia stato possibile azzerare lo scandalo della prostituzione di regime, oscurare i fatti e annullare il giudizio dell´opinione pubblica. È stato lo stesso Silvio Berlusconi a delineare la strategia: se tutti tacciono, lo scandalo scivola via, e del premier rimane soltanto l´immagine, colorata dalle tv compiacenti, di un uomo di Stato.
Anche questo in realtà è uno scandalo nello scandalo. La prova di una torsione così violenta da ridurre il paese al grado zero della politica. Perché ciò che colpisce, o piuttosto ciò che dovrebbe colpire oggi la coscienza generale, non è solo l´indifferenza anonima e spesso compiacente delle platee televisive, narcotizzate dalla "normalità" degli show privati organizzati dal circuito padronale berlusconiano. È piuttosto la sensazione "tragica" del degrado che ha contagiato uno dei vertici istituzionali. Ed è per questo che sorprende, e quanto, la sottovalutazione in cui prende forma il giudizio delle classi dirigenti, secondo il calcolo cinico per cui il potere può permettersi qualsiasi scarto rispetto alla regola collettiva.
Il risultato è semplice e spettacolare insieme. Nel racconto delle protagoniste, presunte soubrette o modelle, una sede di fatto istituzionale come Palazzo Grazioli, residenza del capo del governo, è stata ridotta a un privé di escort, ragazze disponibili, teatro di incontri intimi, corteggiamenti sotto l´occhio delle guardie del corpo. Villa Certosa in Sardegna si è trasfigurata in una location di spettacoli grotteschi, talvolta a quanto pare con le aspiranti meteorine in costume da Babbo Natale, in una specie di Hollywood Party strapaesano, o di seriale addio al celibato.
Tutto questo senza che ci sia stata una presa di distanza, o semplicemente un giudizio esplicito, da parte delle élite nazionali: anzi, nell´understatement generale, cioè nella condiscendenza di chi detiene responsabilità pubbliche e private, è come se le ragazze che si fotografano a vicenda nelle toilette di Palazzo Grazioli appartenessero anche stilisticamente a un mondo plausibile: il mondo di Noemi, il mondo di Casoria e delle feste notturne a strascico, il mondo notturno e terminale di Berlusconi e del berlusconismo. Come se quelle fotografie, quegli abiti, quei maquillage designassero lo standard stilistico dell´Italia contemporanea, una misura morale fisiologica, perfetta per i tempi, irriducibile a codici e status che non siano quelli negoziabili del denaro e del corpo.
Prudenze e cautele prelatizie hanno segnato le parole delle comunità di riferimento. Al di là dei giudizi, chiari ma volutamente interlocutori sul piano politico, di Avvenire, ossia il giornale della Conferenza episcopale, non si sentono in giro voci che stigmatizzino la trasformazione di Palazzo Grazioli e di Villa Certosa in una casa di bambole. Pochi sembrano essersi posti il problema della grave caduta che investe l´immagine del nostro paese sul piano internazionale, e ancora meno appaiono coloro che si pongono il dubbio di quale sarà il clima in cui si svolgerà il G8 dell´Aquila.
Pochissimi, infine, hanno affrontato il tema, colossale, dello scadimento della qualità, e della intrinseca legittimità, del nostro sistema democratico. Insomma, dovremmo essere tutti sotto choc, con una classe dirigente traumatizzata dalle lacerazioni comportamentali di un uomo come Berlusconi, che ha trasferito nel nulla dell´intrattenimento edonistico i contorni del governo, e invece stiamo assistendo a una dissonanza cognitiva perfetta, secondo cui tutto questo è normalità, naturale modernità del gusto, etica ed estetica canoniche, insomma il criterio senza eccezioni a cui ci si confà perché è il vero "pensiero unico" che accomuna nell´autocompiacenza le classi di comando.
Viene da chiedersi tuttavia se questa misura doppia, se il codice che attribuisce la dismisura del potere a chi lo detiene, sia compatibile con la semplice convivenza civile: e viene da rispondere che no, è troppa la distanza fra i saturnalia del sultano e la vita della gente comune. Gli arcana imperii sono tollerati quando risultano iscritti nel segreto, non quando diventano un´esibizione sfrontata e a suo modo feroce. Qui invece, con i ludi fotografici di Palazzo Grazioli, si evoca un vistoso vulnus democratico, dal momento che essi rappresentano la manifestazione sfacciata secondo cui al possessore del comando tutto è possibile, e tutto è dovuto, perfino l´indulgenza.
Ecco, in questo clima di sospensione morale, di fronte a una specie di sorda dichiarazione di irresponsabilità, c´è la minaccia che l´amnesia etica diventi una condizione reale di deficit democratico e civile. Alla fine la doppia misura, una che si applica a Berlusconi e una al popolo, ha un prezzo. Sono già state poste le premesse di una sudditanza. E la credibilità di un intero sistema, nella sua dimensione istituzionale, si dilegua. Resta soltanto la protervia del potere sostanziale, e dello spettacolo che ha allestito nella certezza dell´impunità. Tanto, nell´ipnosi del buio televisivo, quel prezzo lo pagheremo caro, e lo pagheremo noi.

l’Unità 23.6.09
Intervista a Bani Sadr, primo presidente dell’Iran khomeinista
«In Iran è rottura tra il regime e il popolo. Vincerà la democrazia»
di Gabriel Bertinetto


Il primo presidente: «Nel ’99 scesero in piazza gli studenti
oggi protesta l’intera nazione. Non ci sono solo giovani e ceti medi
ma anche operai e parte del clero. Il vero obiettivo è l’ayatollah Khamenei»

Al telefono da Parigi, Bani Sadr, primo presidente dell’Iran khomeinista. Ruppe quasi subito con la Republica islamica e fu costretto all’esilio.
«Come interpreta ciò che accade in Iran, presidente?
«Ormai è chiaro che il movimento punta direttamente contro Khamenei. È rottura fra regime e popolo. Qualunque cosa accada, il regime è condannato a sparire ed essere rimpiazzato dalla democrazia».
Diversamente dal passato questo movimento vuole cambiare il sistema anziché limitarsi a riforme interne?
«Anche in passato abbiamo avuto mobilitazioni di questo tipo, ma non di questa ampiezza. La protesta del 1999, circoscritta a Teheran e altre città universitarie, ebbe per protagonisti gli studenti. Oggi in lotta è l’insieme della nazione, donne, uomini, giovani, operai, insegnanti, e persino parte del clero. Non solo in alcuni grandi centri urbani, ma ovunque. In ogni città la notte ormai appartiene al popolo. Dai tetti delle case si alza il grido: «Allah è grande, abbasso Khamenei». Nessuno può spegnere quelle invocazioni. Non hanno abbastanza uomini e mezzi per entrare in ogni casa».
Non teme la forza e la fedeltà al governo degli apparati repressivi, Pasdaran e Basiji in particolare?
«Non sono così potenti come appare. I Pasdaran stessi sono divisi in fazioni, ognuna delle quali fa capo a un diverso leader. Persino Mousavi ha i suoi partigiani fra loro. Ecco perchè nessuno potrà usare i Pasdaran per una repressione vasta e diffusa. Inoltre, benché il regime sia poco sensibile all’opinione pubblica occidentale, lo è molto di più in ambito regionale e musulmano. Scatenare una repressione che ricordi i tempi dello Shah, danneggerebbe l’immagine del regime nel mondo islamico. Ecco perché non possono spingere la violenza oltre ogni limite. E poi la rivolta è troppo estesa, per essere affrontata con interventi quotidiani e prolungati».
Che giudizio dà su Mousavi?
«Fu primo ministro 8 anni ai tempi della guerra e della grande repressione lanciata da Khomeini. Il suo passato è indifendibile. Oggi qualcuno minaccia di fargli fare la fine mia, cioè esiliarlo. Altri gli preannunciano una condanna a morte. Nonostante tutto resiste. Spero continui. Ma anche se cedesse, il movimento non dipende da lui. Era già iniziato prima che lui contestasse l’esito del voto».
È credibile una frode elettorale di dimensioni così enormi?
«Sì, è avvenuta. Consideri che in Iran la macchina elettorale dispone di 32mila urne fisse e 14mila mobili. A parte il fatto che 15mila di queste urne erano sotto il pieno controllo dei Pasdaran, se calcoliamo che ogni elettore impieghi almeno un minuto per votare, nelle 13 tredici ore d’apertura dei seggi, al massimo riuscirebbero a andare in cabina 26-27 milioni di persone. Risulta che nelle urne siano state inserite 39 milioni di schede. Quei 12 milioni di differenza corrispondono alle schede precompilate e aggiunte per favorire l’exploit di Ahmadinejad. L’organizzatore dell’imbroglio è Khamenei».
Cosa deve fare la comunità internazionale in questa fase?
«Khamenei, Ahmadinejad, i Pasdaran accusano l’Occidente di ingerenza. Tenendo conto di ciò è meglio che i governi restino neutrali. Opposto il discorso per i media. Il sostegno dell’opinione pubblica internazionale è essenziale. Ai tempi della rivoluzione, i Paesi stranieri appoggiavano lo shah, oggi sono al contrario critici verso il potere. Ma l’interesse del popolo iraniano esige che si astengano dall’intervenire. Quando un giovane iraniano scende in piazza,deve sentirsi sicuro di lottare per i suoi diritti e non a vantaggio d’altri».
Per Obama, su alcuni temi, come la questione nucleare, c’è poca differenza fra Ahmadinejad e Mousavi. Lei che ne pensa?
«Immaginiamo che crolli il regime. Si torna alle urne e Mousavi prevale. Quel presidente Mousavi non sarà lo stesso presidente Mousavi che avrebbe potuto essere eletto dieci giorni fa. Perché la situazione sarà completamente diversa. E nel nuovo contesto creato dalla vittoria del movimento popolare, cambieranno le linee di politica interna ed estera. Anche in rapporto al nucleare».
Se lei fosse in Iran, che consigli darebbe agli oppositori?
«In primo luogo l’iniziativa dever restare in mano al movimento, che non deve lasciarsi usare in una lotta interna al regime. Oggi si combattono due guerre. Una fra due blocchi di potere, l’altra fra regime e popolo».
Secondo lei Mousavi sta tentando di inserirsi nei contrasti interni all’establishment?
«Si confrontano un blocco militare-finanziario che fa capo a Khamenei e Ahmadinejad, ed un blocco religioso-finanziario, al quale sono aggregate componenti eterogenee: riformatori, tradizionalisti, pragmatici. Ne fanno parte personalità come Rafsanjani, Khatami, lo stesso Mousavi. Se tutto si riduce allo scontro tra i due blocchi, la vittoria di uno o dell’altro significherà comunque un indebolimento del regime. Khamenei potrebbe anche battere i nemici interni all’establishment, ma resterebbe solo contro tutto il popolo».
Il popolo può vincere senza violenza?
«Certo. Se la protesta si estende e si generalizza, come sta accadendo, la violenza sarebbe addirittura controproducente. Quando lottavamo per rovesciare lo shah, invitavamo la gente ad offrire fiori ai militari».
Se le cose cambiassero radicalmente in Iran, tornerà in patria e svolgerà ancora un ruolo politico?
«Sono 28 anni che lavoro per organizzare la rivoluzione. Nessuno ci credeva, mi dicevano che la storia non si ripete. Ma sta accadendo. Sì, quando l’Iran sarà libero, tornerò. Attendo quel giorno da tanto tempo».

Repubblica 23.6.09
L’occasione perduta
di Renzo Guolo


Forse la protesta non farà cadere il regime ma incrina, ogni giorno di più, la sua legittimità. Tutto mostra che qualcosa si è rotto. La tragica morte in diretta di Neda, il cui volto è già divenuto un´icona globale che fa paura, tanto da vietare le celebrazioni del lutto.
La liquidatoria affermazione del Consiglio dei Guardiani sull´irrilevanza dei "tre milioni" di voti in più a favore di Ahmnadinejad, i numerosi arresti, il temibile monito dei Pasdaran, che si dicono pronti al "confronto rivoluzionario" con i dimostranti. Qualcosa si è rotto. E non solo perché sparare sui manifestanti rimanda alla memoria dei tenaci rivoltosi di un tempo divenuti tiranni: da sempre le rivoluzioni divenute istituzione agitano i fantasmi della controrivoluzione divorando i loro stessi figli; ma anche perché è saltato l´equilibrio del sistema. Il patto tra fazioni, fondamentale in un regime politico che non ha partiti ma è organizzato attorno a reti informali che ne svolgono le funzioni, esige che la Guida resti formalmente superpartes.
Certo, dopo la fine dell´era dell´unanimismo seguita alla scomparsa di Khomeini, Khamenei ha sempre cercato di far oscillare verso questo o quel candidato l´ago della bilancia. Ma sin qui le sue investiture assumevano carattere non ufficiale. La Guida non si schierava apertamente con questo o quel candidato. Si limitava a prendere atto della "volontà del popolo", magari dopo aver cercato di influenzarla schierando il suo potente apparato a favore del prescelto. Il discorso del venerdì di preghiera all´università di Teheran muta completamene il quadro. Khamenei non si limita a calare una pietra tombale sul risultato delle elezioni e a lanciare un duro monito a quanti non lo accettano. La Guida dice esplicitamente di riconoscersi nelle posizioni di Ahmadinejad anziché in quelle di Moussavi, violando apertamente le regole del gioco. Così Khamenei diventa esplicitamente parte, e non più arbitro tra fazioni. Constatazione che potrebbe sembrare un sofisma in un regime in cui "sovrano è colui che decide nello stato d´eccezione" ma, proprio perché i candidati erano tutti considerati khodi, di sistema, la caduta di quella finzione delegittima il ruolo della Guida.
Schierandosi apertamente con Ahmadinejad, Khamenei impone una nuova costituzione materiale. In tal modo, rinsalda l´asse con il sempre più potente "partito dei militari", mostrando di non poter più fare a meno del suo sostegno; ma sancisce, al contempo, la fine del patto non scritto che, dopo la morte di Khomeini, ha sin qui tenuto insieme le leadership della Repubblica Islamica. Una strategia che non rinuncia del tutto a cooptare, in posizione di maggiore debolezza, gli avversari che rinuncino allo scontro frontale. Così la Guida blandisce e fa sentire il suo peso su Rafsanjani, principale sponsor di Moussavi e, soprattutto leader dell´Assemblea degli Esperti, l´unico organo che, teoricamente, può destituirla. Per togliere ossigeno alla protesta, privandola di una sponda nel regime, Khamenei difende formalmente Rafsanjani dalle accuse di corruzione rivoltegli in campagna elettorale da Ahmadinejad. L´oggetto dello scambio politico è chiaro: la Guida fornisce all´antico rivale uno scudo che lo protegga dall´inimicizia assoluta dei radicali, indicandogli la via per giungere a un accordo che non lo spazzi dalla scena politica. Di contro, Rafsanjani, dovrebbe lasciare alla sua sorte Moussavi. Se Rafsanjani, come spesso ha fatto in passato, imboccasse quella via, le piazze iraniane, non potrebbero resistere a lungo. La forza che il movimento ha mostrato nei giorni del caos viene, infatti, in larga parte dall´appoggio che le fazioni perdenti gli hanno dato. Se il movimento rimanesse solo nelle strade, la repressione sarebbe spietata.
Khamenei ha molte frecce per ricondurre all´ordine il sin qui silente Rafsanjani, che conosce bene i segnali della Guida per averli ricevuti quand´era presidente. Anche allora, per evitare che la sua politica di modernizzazione tecnocratica si spingesse troppo avanti, venne arrestata una delle sue figlie. E´ accaduto nuovamente in queste convulse giornate, anche se solo per poche ore, quando Fazeh Hashemi, attivista politica, espressione del "femminismo islamista", e sostenitrice di Moussavi, è stata fermata dalla polizia. Insomma, il messaggio rivolto a Rafsanjani da Khamenei è chiaro: puoi salvarti, se rientri nei ranghi.
Nel frattempo, il bagno di sangue prospettato dalla Guida prende drammaticamente forma. Il bilancio delle vittime è destinato a crescere. Tanto più se, in una sorta di strategia della tensione in salsa iraniana, evocata dal misterioso attacco al Mausoleo di Khomeini, fosse giocata spregiudicatamente anche la carta del terrorismo. Saldare l´opposizione contro i brogli all´azione di gruppi come Mujahedin-e-Khalk, permetterebbe una repressione durissima. Uno sbocco che consentirebbe di regolare i conti con le fazioni rivali e con quella parte di popolo che osa manifestare contro la legittimità del potere. Uno scenario cupo, in cui la tenda tirata per oscurare l´informazione e l´annunciata revisione dei rapporti con i paesi occidentali accusati di interferenze, preparano un paesaggio dopo la battaglia dai profili sconvolgenti. Se questo è ciò che sta accadendo a Teheran, l´Occidente non può non prendere una posizione chiara: sarebbe stato opportuno che l´Italia avesse ritirato l´invito all´Iran al G8 dei ministri degli Esteri che si svolgerà nel week end a Trieste. Invece ieri il ministro Frattini ha atteso tutto il giorno dal regime una risposta, che non è mai arrivata: «Teheran ha perso un´occasione», ha commentato a sera il responsabile della Farnesina. Peccato. Forse un´occasione - di fermezza e chiarezza - l´ha persa l´Italia.

Repubblica 23.6.09
L´avvocato pacifista oggi a Bruxelles per un appello alla Ue: tornerò a Teheran ma ora sono più utile qui
"In Iran censura e violenza chiedo l´aiuto dell´Europa"
La Nobel Shirin Ebadi: le proteste non si fermeranno
Tutto il mondo ha visto quanto sono state pacifiche le manifestazioni. E quanto è stata violenta la risposta del governo
di Francesca Caferri


Avrebbe voluto tornare in Iran, ma i suoi amici l´hanno fermata. Da dieci giorni Shirin Ebadi è in Europa. Gli occhi sono fissi a Teheran, dove la premio Nobel si ripromette di rientrare fra pochi giorni, ma la scelta, per ora, è quella di rimanere lontana da casa, dove rischia l´arresto, per far sentire al mondo la voce dei riformisti iraniani. «Sono più utile fuori dal Paese che all´interno, dove regna la censura», spiega. La settimana scorsa la Ebadi è andata alle Nazioni Unite di Ginevra per chiedere che le elezioni siano annullate. Ieri ha ripetuto questo messaggio all´Alto rappresentante per la politica estera della Ue Javier Solana: nelle prossime ore lo ribadirà al Parlamento europeo.
Signora Ebadi, la tensione nel suo Paese è altissima. Si aspettava quello che è successo quando è partita, il giorno delle elezioni?
«No. Tutti si aspettavano che avrebbe vinto Moussavi. Era un´opinione condivisa. Poi ci sono stati quei risultati e le persone hanno cominciato a chiedersi dove fossero finiti i loro voti. Ed è esplosa la rabbia: non sono stati solo gli annunci sui falsi risultati che hanno fatto infuriare la gente. Ma soprattutto le premature congratulazioni della Guida suprema Khamenei ad Ahmadinejad. Nessuno poteva aspettarsi che le leggi venissero violate in questa maniera. Né tantomeno questo comportamento verso il popolo».
Quindi lei pensa che ci siano stati brogli nei risultati...
«Gli oppositori di Ahmadinejad e le persone che dimostrano in piazza lo pensano. Giustamente, ritengo. I raid dei poliziotti dopo il voto, quando sono stati attaccati i dormitori degli studenti universitari e molte persone sono state arrestate, rende questa ipotesi più credibile. Ma a questo punto il fatto più importante non sono più i brogli ma la maniera in cui sono state trattate le persone che partecipavano alle proteste. La gente che manifesta pacificamente non merita di ricevere pallottole come risposta. Nessuno immaginava che il governo fosse così crudele e violento. Sono state aggredite persone indifese: la Costituzione iraniana dice che le manifestazioni e i raduni pacifici devono essere consentiti. Questo non è stato rispettato. Tutto il mondo ha visto quanto pacifiche fossero le manifestazioni del popolo iraniano e quanto violenta la risposta».
Da fuori questa appare soprattutto come una rivolta di giovani e di donne: la sorprende?
«No. Sia i giovani che le donne negli ultimi anni hanno sofferto per la diseguaglianza, che comunque ha toccato tutta la popolazione. Volevano più libertà, non erano soddisfatti, volevano cambiare. Pensavano, come tanta gente, che i riformisti avrebbero vinto. Sarebbe andata così se non ci fossero stati i brogli che hanno portato alla vittoria di Ahmadinejad. Di fronte a questo il popolo iraniano ha chiesto di annullare le elezioni: e non si fermerà fino quando questo non succederà».
Anche se questo significherà più violenza?
«Le persone che sono a favore delle riforme non ricorrono alla violenza. Non è nel loro modo di comportarsi. La violenza è venuta dalla parte della polizia e del governo. Le proteste continueranno, la gente non userà la violenza, così come non l´ha usata fino a questo momento: in questa maniera otterrà i risultati che vuole».

Corriere della Sera 23.6.09
La rivolta di Teheran
Il regime forse sopravviverà. Ma la teocrazia islamica è finita
di Fareed Zakaria


Gli iraniani sanno che questa è la loro lotta, e vogliono che lo sia.
La crisi della Repubblica Islamica avrà ripercussioni in tutto il mondo musulmano.
Anche se l’Iran è sciita, mentre la maggior parte del mondo islamico è sunnita, l’ascesa al potere di Khomeini era stato uno shock per tutti i Paesi musulmani, un segno che il fondamentalismo islamico era una forza con cui fare i conti.
Alcuni Paesi, come l’Arabia Saudita, hanno cercato di neutralizzare quella forza. Altri, come l’Egitto, l’hanno repressa brutalmente. Ma l’Iran è diventato ovunque il simbolo dell’ascesa dell’Islam politico. Se ora cadrà, una fase storica trentennale cambierà corso.

Stiamo assistendo alla caduta della teocrazia islamica in Iran. Non intendo dire che il regime iraniano stia per crollare. Potrebbe anche succedere (e spero proprio che alla fine sarà così), ma i regimi repressivi possono durare a lungo. Stiamo assistendo al fallimento dell’ideologia sulla quale si basa il governo iraniano.
Nel 1970 il fondatore del regime, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, espose la sua personale interpretazione dell’Islam politico in una serie di conferenze. In questa interpretazione dell’Islam sciita, sosteneva che i giuristi islamici ricevono direttamente da Dio il potere di governare e custodire la società, di essere gli arbitri supremi non solo delle questioni morali, ma anche di quelle politiche. Quando Khomeini istituì la Repubblica Islamica dell’Iran, pose al suo centro questa idea, velayat-e faqih, il governo della Guida Suprema. La scorsa settimana questa ideologia ha subito un colpo fatale.
L’attuale Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, dichiarando che l’elezione di Mahmoud Ahmadinejad è «voluta da Dio», ha usato l’arma del velayat-e faqih, della ratifica divina. Milioni di iraniani non ci hanno creduto, convinti che il loro voto — uno dei diritti laici fondamentali consentiti dal sistema religioso iraniano— fosse stato tradito. Khamenei è stato così costretto ad accettare che vi fosse una verifica dei risultati. Il Consiglio dei Guardiani della Costituzione, l’organo costituzionale supremo iraniano, ha promesso di indagare, di incontrare i candidati e di contare nuovamente i voti. Khamenei ha capito che l’esistenza del regime è a rischio, e ha ora irrigidito la sua posizione, ma questo non basta a rimettere le cose a posto.
È ormai chiaro che oggi in Iran la legittimità non discende dall’autorità divina, ma dalla volontà popolare. Per trent’anni il regime iraniano ha esercitato il potere grazie al suo primato religioso, riuscendo a scomunicare chi osava sfidarlo.
Ora non funziona più, e i mullah lo sanno. Per milioni di iraniani, forse per la maggioranza della popolazione, il regime ha perso la sua legittimità.
Se gli alti ranghi del clero mettessero in dubbio il giudizio divino di Khamenei e affermassero che il Consiglio dei Guardiani è in errore, infliggerebbero un colpo mortale alle premesse fondamentali su cui si regge la Repubblica Islamica dell’Iran. Sarebbe come se un importante leader sovietico avesse affermato nel 1980 che le teorie di Marx sull’economia erano sbagliate.
La Repubblica Islamica potrebbe sopravvivere, ma verrebbe meno la sua legittimità. Il regime ha sicuramente le armi per vincere questa battaglia; anzi, sarà questo l’esito più probabile, ma dovrà ricorrere a misure drastiche: vietare le manifestazioni, arrestare gli studenti, punire i leader e imbavagliare la società civile. Comunque vada è ormai chiaro che in Iran milioni di persone non credono più all’ideologia del regime. Se questo vorrà mantenere il potere, dovrà farlo con i mezzi usati in Unione Sovietica negli ultimi anni dell’era Brèžnev, con la minaccia delle armi. «L’Iran assomiglierà all’Egitto», dice Reza Aslan, intellettuale di origini iraniane, alludendo a un regime che, dietro una facciata politica, si regge sui fucili e non sulle idee. (...) Nel suo sermone del venerdì Khamenei ha detto che dietro alle proteste di piazza che hanno sconvolto Teheran c’erano gli Stati Uniti, Israele e soprattutto la Gran Bretagna, un’accusa che sicuramente apparirà ridicola a molti iraniani. Ma non a tutti: il sospetto di maneggi da parte di potenze straniere è profondamente radicato anche tra gli iraniani più occidentalizzati. Il fatto che Obama sia stato cauto nel replicare rende ancor più difficile per Khamenei e ad Ahmadinejad ammantarsi della bandiera nazionalista.
I neoconservatori stanno criticando Obama per la sua cautela. Paul Wolfowitz, vice del segretario della difesa Donald Rumsfeld, ha paragonato la reazione della Casa Bianca alle esitazioni di Ronald Reagan durante le manifestazioni di protesta contro il regime di Ferdinand Marcos nelle Filippine. Ma l’analogia non regge. Marcos era una pedina americana, era al potere grazie agli Stati Uniti. I contestatori chiedevano a Reagan di ritirare il suo appoggio e di lasciare che gli eventi seguissero il loro corso.
L’Iran è invece un Paese indipendente, fortemente nazionalista, che nella sua storia ha subito interferenze politiche ed economiche da parte della Gran Bretagna e degli Stati Uniti.
Nel 1901 la Gran Bretagna si è praticamente appropriata dell’industria petrolifera iraniana; nel 1953 gli Stati Uniti hanno orchestrato un colpo di stato. Lo Scià fu soprattutto accusato di essere un fantoccio nelle mani degli americani. Come in molti altri Paesi con analoghi trascorsi (un altro esempio è l’India), anche in Iran il sentimento anti-imperialista è molto forte.

il Riformista 23.6.09
Forse non sapremo mai esattamente cos'è accaduto in Iran venerdì 12 giugno
L'Iran non vuole rischiare di finire come l'Urss
di Emanuele Ottolenghi


Forse non sapremo mai esattamente cos'è accaduto in Iran venerdì 12 giugno. Chi ha vinto veramente le elezioni e chi le ha perse, con che margini, e perché il regime ha deciso di annunciare la schiacciante "divina vittoria" di Mahmoud Ahmadinejad poche ore dopo la chiusura dei seggi. Possiamo suggerire un'interpretazione che ci aiuta a comprendere gli avvenimenti che sono seguiti e quanto ancora ci attende nei giorni a venire. Mir Hossein Mousavi non è l'uomo del cambiamento. Lo sfidante di Ahmadinejad in un recente passato ha mandato a morte migliaia di oppositori e ha avuto un ruolo chiave nelle decisioni segrete della Repubblica Islamica di procurarsi tecnologia nucleare - compresa la tecnologia necessaria per costruire le bombe atomiche - da un network di proliferazione gestito dallo scienziato pakistano Abdel Khader Khan.

Forse il Mousavi odierno non la pensa come vent'anni fa - solo un asino non cambia idea, aveva a dire Moshe Dayan - ma occorre molta immaginazione per descriverlo come un liberal-democratico. Mousavi è più Mikhail Gorbachev che Vaclav Havel insomma - potrebbe rappresentare un tentativo dell'ala più riformista del regime di pilotare il cambiamento senza violare certi confini inviolabili dei dettami della rivoluzione. Tanto più visto che dietro Mousavi c'è l'ex presidente Rafsanjani - un uomo di regime che riflette un pensiero più pragmatico ma che è il padre del programma nucleare iraniano, è uno degli uomini più ricchi (e corrotti) del regime e non ha mai digerito di essere estromesso dai centri nevralgici del potere da persone che non considera come suoi pari nella gerarchia clericale o nella scala sociale iraniana ancora relativamente rigida.
Ma Mousavi e la sua candidatura, insieme alle straordinarie risorse messe al suo servizio da Rafsanjani, hanno acceso un lume nella lunga notte della repressione iraniana e dato vita a una mobilitazione senza precedenti. Mousavi insomma ha risvegliato forze che la rivoluzione pensava di avere soppresso dopo la breve stagione riformista di Mohammad Khatami, forze che il regime temeva di non poter controllare. Se avesse vinto - se il regime gliela avesse data vinta - Mousavi avrebbe potuto trovarsi travolto dalle forze da lui stesso risvegliate, come Gorbachev vent'anni fa. L'uomo che per salvare il comunismo aveva inaugurato timide riforme nella speranza di pilotarle era finito col presiedere al funerale del comunismo prigioniero della sua dacia mentre fuori infuriava la rivoluzione democratica e il fallito tentativo di reprimerla dopo la perdita dell'impero. Ali Khamenei, il leader supremo della Repubblica Islamica conosce bene la storia del suo vicino russo e deve aver ragionato che se Mousavi avesse vinto l'Iran avrebbe potuto fare la stessa fine dell'Unione Sovietica - e Khamenei sarebbe finito come Gorbachev alla meglio, e Ceaucescu nel peggior dei casi. Un presidente riformista che cavalca la furia dei suoi sudditi stanchi di tre decadi di rivoluzione e di oppressione dei loro diritti più elementari in nome dell'Islam avrebbe finito coll'essere disarcionato, trascinando con sé nella polvere il regime intero e la sua soffocante museruola ideologica.
Che fare dunque? Semplice: impedire che la storia segua questo corso, a ogni costo. Il regime avrebbe potuto cavarsela con un imbroglio più modesto, annunciando una vittoria con margini più risicati e attendendo tempo a sufficienza da non destare sospetti. Ma una vittoria risicata - o peggio ancora la concessione di un secondo turno - avrebbero dato comunque adito ad accuse di brogli e comunque avrebbero galvanizzato l'opposizione. Occorreva schiacciare l'avversario insomma, non dargli legittimità. Il regime deve dunque aver deciso di annunciare un margine di vittoria per Ahmadinejad talmente ampio che contestarlo comportava un atto di tradimento contro la Rivoluzione. E un regime che corrompe il processo elettorale in maniera così sfacciata - invece che pilotarlo in maniera sofisticata e subdola - è per forza pronto a fare qualunque cosa per difenderne il risultato.
Le migliaia di giovani iraniani che marciano nelle strade di Teheran meritano il nostro appoggio e la nostra ammirazione. Invitare un inviato iraniano di un regime che massacra i propri cittadini a partecipare al G8 non è certo la miglior mossa di politica estera che l'Occidente può adottare in questo momento. Ce ne sono altre molto più opportune e adatte. Ma non dobbiamo farci illusioni sulla capacità della comunità internazionale e dei Paesi democratici in particolare di poter influire sul corso degli eventi. La partita che si sta giocando in Iran oggi è una partita per il futuro del regime iraniano, la sua natura e il suo corso. È una partita feroce, che si gioca sugli esiti di un vero e proprio colpo di Stato il cui scopo è di salvaguardare la rivoluzione islamica, contro le forze che potrebbero, a furor di popolo, attuare la controrivoluzione democratica. Vista la posta in gioco, il regime non esiterà a sparare sulla folla molte volte ancora. La vittoria di Ahmadinejad è un segnale per i suoi nemici che le massime autorità della rivoluzione vedono in lui il futuro dell'Iran. Lo difenderanno a caro prezzo, e sono pronti a un bagno di sangue.
L'esito di questa partita non è ancora deciso - potrebbe essere la Primavera di Praga o la Rivoluzione di Velluto. Tutto dipende, come sempre quando le masse si ergono contro gli aguzzini di un regime feroce e oppressore, dalla volontà degli uomini in divisa, si rispondere agli ordini di sparare sulla folla. Se i guardiani della rivoluzione, che ieri hanno minacciato di soffocare nel sangue le proteste, faranno quello che hanno promesso, la calma tornerà a Teheran nel giro di pochi giorni, e i martiri del giugno 2009 saranno morti invano. Non è detto che vada così - trent'anni fa lo Shah perse la sua partita anche grazie al fatto che il suo esercito non se la sentì di massacrare più i propri compatrioti. Questa volta potrebbe andare altrimenti. Anche perché in gioco non è soltanto la sopravvivenza di un monarca e le sue megalomanie, ma il futuro dell'Islam politico che dall'avvento della Repubblica Islamica in Iran agita il mondo islamico e ne ispira il suo fondamentalismo.

Repubblica 23.6.09
Sesso, questo sconosciuto la difficile arte di parlarne ai figli
Uno studio: poca confidenza crea tabù
Dopo la recente polemica sui preservativi nelle scuole, iniziativa bocciata dalla Chiesa
di Vera Schiavazzi


Che fare quando Giacomo, quindici anni, chiede di poter dormire con la sua ragazza (che non ci ha ancora presentato)? E come reagire a Giulia, sua coetanea, che si rifiuta di incontrare il ginecologo di famiglia ma in compenso cerca informazioni online sull´uso del profilattico? I genitori italiani sono in crisi di ispirazione e non sanno se, come e quando accettare la precoce vita sessuale dei figli (diciassette anni e mezzo è l´età della prima volta, ma il dato si abbassa per chi oggi ha vent´anni e al Nord le cose viaggiano più rapidamente, fino a spostare le lancette dai dieci ai dodici mesi prima). Resta, sullo sfondo, la profonda e pericolosa ignoranza dei ragazzi in materia di sesso, e l´ostracismo cattolico, espresso ancora pochi giorni fa dal vicario del Papa per Roma, il cardinal Agostino Vallini, di fronte alla mozione con la quale la Provincia rilanciava i preservativi gratuiti in tutti i licei: "Banalizza i sentimenti".
Intanto la Sigo (Società italiana di ginecologia e ostetricia), fornisce cifre che fanno pensare: «Una ragazza su tre sotto i 25 anni non utilizza alcun metodo per proteggersi, cresce il ricorso alla pillola del giorno dopo e quello all´aborto tra le under 14, salito in dieci anni dallo 0,5 all´1,2% dei casi - ha spiegato il presidente Giorgio Vittori - Le malattie trasmissibili crescono, la clamydia ad esempio è aumentata di dieci volte nell´ultimo decennio». A dover essere "formati" dovrebbero essere anzitutto padri e madri, spesso privi della confidenza necessaria a parlare di un tema così intimo con i figli. E a loro volta attanagliati dai dubbi, secondo una ricerca dell´associazione "Genitori domani": qual è l´età giusta? Accettare o no che si utilizzi la casa di famiglia? Acquistare personalmente i contraccettivi e farli trovare ai ragazzi? Sono soltanto alcune delle "domande frequenti" alle quali oltre il 45% delle madri e dei padri di ragazzi tra i 13 e i 18 anni non sanno dare risposta. Non così dissimili da quelle che gli stessi giovanissimi inviano (nascondendosi dietro nickname fantasiosi) ai blog che, come hanno fatto le Asl di Parma e di Sassuolo, offrono risposte mediche online anche a chi si presenta anonimamente: dal tuffo negli anni Cinquanta ("posso restare incinta se ho un rapporto orale?", spedito da Trilly02) all´autentico tormento esistenziale ("ho avuto due ragazze ma mi hanno lasciato, sarà un problema di dimensioni?" firmato Jack-controcorrente).
«È inevitabile che i genitori non riescano a parlare di sesso con i figli, se si ostinano a negare la loro stessa sessualità, i ricordi della loro adolescenza, se negano di aver vissuto anche loro le stesse emozioni e le stesse paure - spiega Maria Rita Parsi, psicologa e psicoterapeuta - Bisogna partire invece dal dato di fatto che già a 13 anni, ma in molti casi a 11, i figli sono raggiunti da informazioni più o meno distorte che arrivano soprattutto via Internet. La risposta? Stimolare la confidenza utilizzando i film e i romanzi». Ma a che età si può accettare senza paura che il figlio o la figlia affrontino la loro "prima volta", e le molte che seguiranno? «A quindici, sedici anni, quando il loro cervello è maturo ed è l´ora di esplorare e sperimentare. A quel punto, sarebbe un errore reprimerli, anche se molti ci arrivano più tardi. Meglio sottolineare l´importanza di questa esperienza e il fatto che unirsi ad un´altra persona è in sé qualcosa di buono».

Repubblica 23.6.09
Gli ultimi eretici
I 40 anni contro del Manifesto
di Nello Ajello


Nel 1969 un gruppo di esponenti del Pci fonda una rivista: sono Pintor, Rossanda, Magri, Parlato e altri intellettuali Nasce così un giornale fiero di essere minoranza critica
Contro la radiazione votarono Mussi, Lombardo Radice e Luporini
Dopo una liturgia macchinosa il partito comunista decise di sopprimere la pubblicazione

Ventitré giugno 1969, quarant´anni fa. Un gruppo di esponenti del Pci fonda a Roma una rivista mensile, il manifesto, che subito appare un caso esemplare di eresia politica. Stampata a Bari dalla casa editrice Dedalo e diretta da Lucio Magri e Rossana Rossanda, la rivista è promossa anche da Luigi Pintor, Aldo Natoli, Massimo Caprara e da altri intellettuali comunisti: Luciana Castellina, Valentino Parlato, Eliseo Milani, Lisetta Foa, Luca Trevisani. I promotori sono identificabili come una «nuova sinistra», vicina ad Ingrao. Così, almeno, è apparso fino all´XI congresso del Pci (1966). Tre anni più tardi, in quel XII congresso che elevò Enrico Berlinguer alla vicesegreteria con Luigi Longo, il gruppo ha ribadito la propria natura di minoranza critica. E´ stato proprio Berlinguer a far eleggerne nel Comitato centrale Rossanda, Natoli e Pintor. In nome di quella «discussione libera, e improntata a spirito di tolleranza» (così si è espresso) che sta prevalendo nel partito.
La prima idea di dar vita al periodico - in partenza Magri vorrebbe chiamarlo Il Principe - risale all´estate del ‘68. Un simpatizzante, Lucio Colletti, vi ravvisa la speranza che si apra «anche nel Pci il periodo della lotta politica palese». L´esordio è duro. Natoli parlerà di «mesi di angoscia». E così li ricorderà Massimo Caprara: «Dell´esperienza del manifesto», si legge nel suo volume Ritratti in rosso (Rubbettino, 1989), «mi rimarrà il nitore pacato e costruttivo di certe discussioni dell´estate del ‘68, nel cuore del movimento studentesco». Ed ecco effigiati, sotto la sua penna, i responsabili dell´avventura: «Rossanda lucidamente egemone, Pintor imprevedibile, ferratissimo Magri, Natoli rigoroso».
Ma che cosa c´è scritto nella rivista-scandalo? Vi si boccia l´idea di far svolgere a Mosca una conferenza dei partiti comunisti. Un devoto rilievo si riserva alla «rivoluzione culturale» cinese. Si biasimano certi anticipi di «compromesso» fra il Pci e la Dc. In tutto questo Rinascita coglierà «un primo passo verso un´azione di gruppo o di corrente, verso un´attività, lo si voglia o no, di tipo frazionistico». L´attacco porta la firma di Paolo Bufalini, un dirigente comunista di solito cauto e culturalmente sottile. Ma i tempi sono così: all´attenuarsi dell´obbedienza all´Urss non corrisponde una reale tolleranza nel dibattito interno.
Farà scalpore, nel numero 3 del manifesto, un titolo: Praga è sola. Si tesse un elogio della primavera di Dubcek, repressa da Mosca. Nel numero 4 appare una lettera che invano Pintor aveva inviato all´Unità: l´autore polemizza con Giorgio Amendola che ha sostenuto la necessità per i comunisti di entrare presto nel governo. Una fretta che ai protestatari della «nuova sinistra» appare impudica.
Era difficile valutare, all´epoca, quale reale pericolo per il Pci si racchiudesse nelle pagine del manifesto. Emergeva tuttavia un aspetto tutt´altro che formale della vicenda: il ripetersi, per l´occasione, d´un rituale trito e malinconico, alquanto odoroso di Curia. Il primo atto del cerimoniale era stato la convocazione, di fronte alla gerarchia di partito, degli eretici (una pratica che i funzionari pontifici chiamavano «la sacra udienza») per convincerli a ritrattare: di fatto, a Rossanda e Magri questo monito, risultato vano, era stato rivolto in extremis dai membri della direzione comunista. Sarebbe seguita su Rinascita - l´abbiamo visto - la «pubblica confutazione delle tesi». A fine ottobre apparve poi sull´Unità una notizia in cui si informava che «il compagno Alessandro Natta» si sarebbe assunto il compito di «procedere a un esame approfondito della questione relativa al manifesto». Natta era il presidente della Quinta commissione, una sorta di Congregazione del Sant´Uffizio in chiave laica. Si prevede che l´atto conclusivo del rituale sia l´emissione di una bolla in nome della «Chiesa docente».
La liturgia è macchinosa. La Commissione Natta termina i suoi facondi lavori deliberando la soppressione della rivista. Ma la decisione va discussa in Comitato Centrale. Lì, Enrico Berlinguer afferma: «Non basta riconoscere e garantire la legittimità del dissenso, resta il problema dei modi della sua espressione efficace». Le posizioni del manifesto vengono difese con dignità da Rossanda.
Il Comitato centrale, di nuovo convocato per il 25 e il 26 novembre, deliberò la «radiazione» dal Pci della stessa Rossanda, di Pintor e Natoli. La decisione era passata con i voti contrari, oltre che degli interessati, di Lucio Lombardo Radice, Cesare Luporini e Fabio Mussi; astenuti Giuseppe Chiarante, Sergio Garavini e Nicola Badaloni. Poco più tardi, un analogo «provvedimento amministrativo» venne adottato per Magri. Caprara vide cancellato il suo nome dal novero degli iscritti alla federazione di Napoli. Qualcosa di simile toccò a Parlato e Castellina.
In dicembre la Pravda vide in queste decisioni del Pci «la più ampia garanzia del consolidamento del partito e della difesa del centralismo democratico». Di fatto, una minaccia, proveniente da Mosca, riguardava un´azione di «frazionismo» da promuovere nel Pci, se si fosse mostrato troppo arrendevole, al suo interno, verso i «devianti». Qualcuno accennava al progetto di far nascere, in Italia, una rivista rigidamente filosovietica. Se ne indicavano sia il titolo, L´appello di Lenin, che gli ispiratori, Edoardo D´Onofrio e Ambrogio Donini.
Quando, nei primi mesi del 1971, il manifesto stava per trasformarsi in quotidiano, Luigi Pintor confidò, ad Umberto Eco ed a me che con lui ne discutevamo per L´Espresso, di guardare a un precedente da lui giudicato illustre, «l´esperienza dell´Unità dell´immediato dopoguerra», la quale s´era giovata di «un afflusso di giovani quadri venuti dalla Resistenza. Essi inventarono il giornale, impararono a farlo e lo fecero bene».
Valutare che cosa resti in piedi oggi della complessiva avventura del manifesto-giornale implicherebbe un discorso a parte. Si può soltanto ricordare che il foglio, uscito nell´aprile di trentott´anni fa, è l´unico superstite fra le testate quotidiane create dall´ultrasinistra in quei tempi difficili. «È solo un giornale», qui è ancora Pintor che parla. «Ma per noi è molto di più. Entrarci non è una scelta di mestiere ma un arruolamento volontario». La qualifica di eretico, che il partito aveva assegnata a lui e al suo gruppo, egli la rivendicava come un emblema morale.

Repubblica 23.6.09
Il libro "estremo" del filosofo Vladimir Jankélévitch
Così la vita e la morte diventano inseparabili
di Roberto Esposito


Il concentrarsi dell´attenzione sulla vita biologica nelle società contemporanee comporta interrogativi pressanti sulla sua fine

Come muore, chi muore? E quando – quanto tempo dura la morte, quando si comincia, e quando si finisce, di morire? Da dove, infine, essa arriva? Dall´esterno – oppure nasce e cresce dentro di noi, inestricabilmente avvinta alla vita che ci strappa? Domande estreme, senza risposte definitive, che da qualche tempo tornano ad incalzarci con un´urgenza, ed anche una violenza, che sembra restituirci un tratto spesso ed opaco del nostro tempo. Che proprio oggi si contesti il "Rapporto di Harvard" – che quaranta anni fa modificò la definizione della morte, spostandone l´indicatore dal cuore al cervello – non è un semplice caso. E´ l´esito dallo scontro aspro di interessi medici, giuridici e teologici sulla legittimità dei trapianti di organi tratti da corpi ancora sospesi tra la vita e la morte, contesi dalle loro potenze avverse. Così come i dilemmi laceranti sul destino di esseri ancora viventi, ma già abbandonati dalla vita di relazione nel silenzio agghiacciante del coma irreversibile.
Può sorprendere di trovare una tagliente anticipazione di tali dilemmi in un libro, pubblicato nel 1966, dal filosofo francese Vladimir Jankélévitch, e adesso tradotto da Einaudi per la cura di Enrica Lisciani Petrini (Il libro sarà presentato domani a Napoli all´Istituo di Studi Filosofici, con la partecipazione di Remo Bodei, Marino Niola e Vincenzo Vitiello). Come osserva Lisciani Petrini nella sua preziosa e illuminante introduzione, sapere della vita e incombenza della morte vanno colti nella loro inquietante connessione. È proprio il generale spostamento d´attenzione sulla vita umana, intesa nella sua dimensione biologica, che caratterizza le società contemporanee, a produrre, come per rimbalzo, un interrogativo altrettanto pressante sul fenomeno della morte. Già Michel Foucault aveva intravisto, nel cuore del Novecento, un collegamento sotterraneo tra incremento del sapere sulla vita e produzione di massa della morte. Nel momento in cui la vita di un dato popolo diventa il valore supremo, ad esso parrà legittimo sacrificare ogni altra vita che sembri danneggiarla o contaminarla.
Si può dire che, pur con una tonalità più teoretica, Jankélévitch lavori sullo stesso crinale che insieme separa ed congiunge vita e morte in un´unica, irresolubile, antinomia. Già orientato, lungo tutta la sua opera eterodossa e singolare, a indagare il punto di tangenza tra bene e male, virtù e vizio, soggetto e mondo, in questo testo egli spinge la propria interrogazione ai limiti estremi dell´esperienza umana con esiti che Levinas non esitò a definire "sconvolgenti". La morte è quell´Inevitabile, Intrattabile, Irriducibile che dobbiamo, eppure non possiamo, pensare. Che ci sfida ed ossessiona con la sua incombenza costante, ma che si ritrae nel momento stesso in cui cerchiamo di afferrarlo come "un astro che non si riesce più a vedere quando lo si fissa direttamente" (38). Nonostante i molteplici tentativi di addomesticarne la potenza distruttiva, o dichiarandola naturale o situandola fuori dal nostro campo di interesse, la morte è lì, davanti a noi, dentro di noi, come un cancro silenzioso che ci rode, fino a risucchiarci nel suo abisso senza fondo. La filosofia – da Platone a Leibniz – che ha cercato di incorporarla, e digerirla nelle pieghe del proprio sistema immunitario, ha sperimentato grandiosi fallimenti. Ma anche la grande arte che, da Dürer a Goya, da Baudelaire a Dostoevskij, ha cercato di guardarla in viso, di coglierne il mistero nello sguardo estatico e allucinato del morente, ha dovuto abbassare gli occhi.
Il motivo di questa inafferrabilità della morte sta nella sua assoluta inestricabilità dalla vita. Come l´autore spiega in uno dei suoi capitoli più avvincenti, la vita non può definire la morte perché non può distanziarsi da essa. Non soltanto nel senso, terribilmente evidente, che deve in ogni caso morire, ma anche in quello, ancora più radicale, che è definita, identificata, dalla morte. Perché è vero che non c´è morte che della vita, ma anche, all´inverso, che non c´è vita senza la morte. Il vivente è tale soltanto se è mortale. Chi non vive, non muore, ma chi non muore, non vive. Una roccia o un deserto possono essere anche eterni, ma perché non sono esseri viventi.
Da qui un´ultima considerazione. La curatrice si chiede molto opportunamente come mai, a pochi anni dal genocidio, un pensatore ebreo non vi faccia, in cinquecento pagine sulla morte, che poche e scarne allusioni. Personalmente avanzerei questa risposta, che trapela dalle pagine finali del libro: perché il nazismo non si è limitato a cancellare la vita, ma ha cercato di sottrarre alle sue vittime anche la morte. Ha fatto di esse, come il cacciatore Gracco di Kafka, esseri non più vivi, ma non ancora morti, dei morti viventi o dei vivi già morti, incapaci di vivere e di morire. Questo è l´inferno – scrive Jankélévitch – non la morte, ma "l´impossibilità di morire. L´uomo-né-vivo-né-morto è ridotto allo stato di cadavere ambulante" (446-7). Cosa altro erano i ‘musulmani´ di Auschwitz?

Corriere della Sera 23.6.09
Lombardia, il pd svanito
di Claudio Schirinzi


Una sfida a chi perdeva meno elettori: 250 mila tra quelli che il 6 giugno ave­vano scelto Podestà sono rimasti a casa. Pe­nati è riuscito a contenere le diserzioni: «solo» 91 mila. Troppe comunque e per me­no di mezzo punto di vantaggio la Provin­cia di Milano è passata al centrodestra.
Il miracolo non è riuscito. Rispetto al primo turno, Filippo Penati ce l’ha fatta a recuperare 158 mila voti su Guido Pode­stà, ma non è bastato: gliene sarebbero serviti altri 5 mila per conservare la guida della Provincia di Milano. E invece anche questa passa al centrodestra. Il candidato Pdl, in un contesto fortemente orientato verso la Lega Nord, è riuscito a spegnere l’unica voce istituzionale del centrosini­stra e fa della Lombardia che guarda al­l’Expo del 2015 un feudo incontrastato del centrodestra. Unica consolazione per Penati è quella di essere stato il più votato a Milano città: un segnale certamente non rassicurante per il sindaco Letizia Morat­ti.
Al primo turno Penati aveva salvato il centrosinistra dal «cappotto», costringen­do il candidato del centrodestra al ballot­taggio. La Provincia di Milano era l’unica in Lombardia a essere rimasta in gioco, mentre il Popolo della libertà strappava al Pd le province di Cremona, di Lodi e di Lecco; conquistava la nuova provincia di Monza e si confermava alla guida di quel­le di Bergamo, Brescia e Sondrio. Penati era riuscito a evitare il k.o., ma era arriva­to al ballottaggio con dieci punti di svan­taggio: 38 lui, 48 Podestà. Al secondo tur­no è stato protagonista di una grandissi­ma rimonta, ma non ce l’ha fatta e si è fer­mato al 49,80 per cento: meno di mezzo punto sotto il suo av­versario: poco più di quattromi­la voti.
Nella regione di Berlusconi e di Bossi la con­quista della Pro­vincia di Milano non aggiunge granché al­lo straordinario successo del Popolo della Liberta e della Lega già registrato al primo turno.
Il segnale più forte che esce dalle urne è certamente quello della disaffezione al voto. Rispetto al primo turno si contano 587 mila elettori in meno (erano stati un milione e 687 mila) e le defezioni hanno penalizzato soprattutto il centrodestra. Se Penati fosse riuscito a raggranellare quella manciata di voti in più che gli è mancata per battere Podestà, certamente nel centrodestra la Lega sarebbe finita sul banco degli imputati. In realtà l’asten­sione è stata troppo massiccia per ridur­la alle contese sui tre referendum. Forse in molti non sono andati a votare per sot­trarsi al macchinoso meccanismo di rifiu­tare tre schede e ritirare soltanto la quar­ta, quella del ballottaggio. Ma il partito del non voto ha ben altre dimensioni e forse anche motivazioni.
Il centrodestra lombardo ha dunque da­vanti a sé una navigazione tranquilla, al­meno nell’immediato, anche se all’oriz­zonte già si intravedono le turbolenze le­gate alla scelta del futuro presidente della Regione, con Formigoni che si prenota per il quarto mandato e la Lega che vor­rebbe un proprio candidato alle Regionali del 2010. Il centrosinistra, invece, deve ri­flettere sul «Fenomeno Penati», una figu­ra un po’ anomala nel panorama del Parti­to Democratico, uno dei pochi ad aver compreso che le preoccupazioni in mate­ria di sicurezza non possono essere liqui­date come semplici manifestazioni di raz­zismo. Qualcuno, nel suo stesso partito, lo ha accusato di «leghismo di sinistra», ma l’uomo è di quelli che cercano il con­senso più fra la gente che nei salotti. Un Penati «disoccupato» può preoccupare più d’uno nella stanza dei bottoni del Pd: è vero che fra due anni sarà il candidato naturale del centrosinistra per il Comune di Milano, ma nel frattempo?

il Riformista 23.6.09
Franceschini canta vittoria ma i numeri dicono altro
di Stefano Cappellini


«Comincia il declino della destra. Sarà un percorso lungo ma con lavoro e impegno porteremo avanti il cambiamento nel paese». Quello di Dario Franceschini non è un semplice commento ai ballottaggi: è un'autocandidatura al congresso del Partito democratico.
La sua corsa alla riconferma della leadership era scontata. Da ieri è ufficiosa. Probabilmente diventerà ufficiale nel giro di pochi giorni, in vista della riunione della direzione fissata per il 26 giugno, a meno che non prevalgano accordi per un ennesimo rinvio delle assise.
In effetti, è accaduto un fatto insolito: il Partito democratico ha vinto la sua prima tornata elettorale da quando esiste. Con l'eccezione di Milano, dove comunque Filippo Penati ha perso per un nulla, il centrosinistra ha prevalso al ballottaggio nelle sfide per le principali città: i comuni di Bari, Firenze e Bologna, la Provincia di Torino. Ha avuto la meglio nelle Province di Ferrara, Parma, Alessandria, Arezzo e nei Comuni di Avellino, Forlì, Ancona. L'impressione è quella, per usare ancora le parole del segretario, di «un risultato positivo».
Secondo turno. Il Pd tiene nelle regioni rosse, dove un tempo prevaleva nettamente. Esce più che dimezzato nel bilancio delle amministrazioni perse e sparisce dal lombardo-veneto.
Il continuo sprofondo elettorale - cominciato con le politiche del 2008, proseguito con la perdita del Campidoglio, i tracolli abruzzesi e sardi, il 26 per cento delle europee e il disastro del primo turno di queste amministrative - si è arrestato, regalando all'ex vicesegretario la possibilità di potersi per una volta presentare ai microfoni del dopo voto senza dover esibire i consueti toni da funerale e le solite «profonde riflessioni» da sviluppare.
Ma se la soddisfazione del leader e le sue speranze di rielezione al congresso sono legittime, certi toni ottimisti, o peggio trionfalistici, lo sono molto meno. Per ragioni che restano evidenti. Anche se le regole dei media prevedono due narrazioni distinte tra il primo turno e i ballottaggi - fino al punto da permettere che ci siano due vincitori diversi, il centrodestra in prima battuta, il centrosinistra in seconda - la realtà non si piega facilmente a questa lettura. Perché il bilancio delle amministrazioni dal centrosinistra racconta di un partito più che dimezzato in quello che è da sempre il suo patrimonio più solido: il governo dei territori.
Espulso da intere regioni, ieri il Pd ha perso gli ultimi bastioni del lombardo-veneto. Ormai quelle due regioni appaiono sulla carta geopolitica come un ininterrotto regno dell'asse Pdl-Lega a tutti i livelli istituzionali. Anche Venezia e Belluno, le uniche città del Veneto dove il centrosinistra ha stabilmente governato, hanno ceduto di schianto, sull'onda dello sfondamento leghista.
Ieri il centrosinistra si è confermato in gran parte delle amministrazioni delle regioni rosse. Ma questo successo è l'altra faccia del tracollo di due settimane fa, quando comuni e province che un tempo il centrosinistra avrebbe conquistato al primo colpo e sul velluto - come in Toscana ed Emilia - sono rimasti appesi al ballottaggio. Averli difesi è un risultato, ma non è qualcosa che si possa spacciare come un «successo». Soprattutto quando nel resto del paese non si ha notizia o quasi di situazioni al contrario. In sostanza, il Pd tiene a fatica, ma non mette alcuna bandierina sui domini del centrodestra. Certo, avesse difeso anche Milano il discorso sarebbe stato diverso, perché il valore simbolico di una vittoria di Penati nel cuore stesso del berlusconismo avrebbe alterato a favore dei democrat il metro di giudizio. Ma così non è stato, e illudersi che «il vento sia cambiato» è molto pericoloso.
L'affluenza è l'altro dato di cui non si può non tener conto. Alle cifre basse registrate in buona parte del paese, il centrosinistra ha storicamente da guadagnare. Non è un caso che la maggioranza sia tornata a parlare di abolizione del secondo turno. Avere elettori più fedeli e ligi al dovere non è un demerito e fa parte del gioco democratico. E l'opposizione può sempre pensare che parte di questo forte astensionismo sia punitivo nei confronti del premier. Ma nemmeno la più spericolata delle analisi può però sostenere che rappresenti un segnale di smottamento di consenso verso il Pd. Quello non c'è e non si vede all'orizzonte. E l'errore più grande che Franceschini e soci potrebbero commettere - ancora più grave se accadesse per ragioni di consenso congressuale - è edulcorare i risultati di questa tornata. Già alle europee il disastroso 26 per cento è stato a torto rimosso dal dibattito grazie all'inaspettato regalo delle urne, che hanno inchiodato il Pdl al 35 per cento. Raccontare a elettori e simpatizzanti che oggi è iniziata la rivincita su Berlusconi è un altro abbaglio.