giovedì 25 giugno 2009

l’Unità 25.6.09
La stampa straniera: «Passato il limite della decenza»
Dal «New York Times» all’«Independent», l’inchiesta di Bari e i suoi strascichi tengono banco sui media di tutto il mondo: «Il presidente del Consiglio nuoce al prestigio del paese»»
di C.Z.


La stampa estera non molla la presa su Berlusconi. Anche ieri i maggiori quotidiani del mondo si sono occupati nelle loro edizioni cartacee e online dell’inchiesta di Bari e dei suoi strascichi. Senza risparmiare, anche stavolta, dure critiche. A tenere banco è soprattutto l'intervista del premier al settimanale Chi, in cui attacca una delle teste dell'inchiesta pugliese, Patrizia D'Addario.
New York Times Il caso Berlusconi arriva anche Oltreoceano. Il New York Times in un articolo intitolato «Berlusconi si difende mentre scema la tolleranza dell’Italia per i suoi peccatucci», riporta l'intervista del premier rilasciata al settimanale Chi. Il quotidiano nota anche che Berlusconi ha vinto le elezioni, ma con un margine più basso delle aspettative. La sua residenza romana ha acquisito un’immagine da «Playboy Mansion».
The Times In una corrispondenza da Roma, dal titolo «Berlusconi nega di aver pagato per fare sesso in casa sua», si riporta l'intervista del premier citando anche il duro attacco di don Antonio Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana, che nella rubrica delle lettere del giornale scrive: «Berlusconi ha passato il limite della decenza».
The Independent punta ai risultati delle ultime elezioni amministrative, notando che «al di fuori dei confini dell'Italia sarebbe inconcepibile che un leader si comporti come un Imperatore di Roma antica senza pagare gravi conseguenze politiche».
La Vanguardia Il quotidiano catalano in un editoriale intitolato «Il prestigio dell'Italia», scrive che «Silvio Berlusconi ha un problema, un grosso problema: la sua vita privata sta cominciando a nuocere al prestigio dell'Italia nel mondo». Secondo il giornale di Barcellona, «l'Italia, un paese per il quale sentiamo grande rispetto e apprezzamento, merita un potere serio».
Le Monde Il giornale francese si sofferma sulle elezioni dello scorso weekend, e titola «Risultati in chiaroscuro per Silvio Berlusconi nelle elezioni locali», domandandosi quale peso abbiano avuto nell'esito politico le rivelazioni sulla vita privata del premier.
Sueddeutsche Zeitung Il quotidiano tedesco in un articolo interno, dà «Un consiglio a Berlusconi»: «basta con il privato, si concentri sul governo».

l’Unità 25.6.09
Dieci quesiti sul premier «privato»
Un comportamento che rende ricattabili mina la sicurezza, scardina le regole etiche e che ci ridicolizza, non riguarda tutti noi?
di Nando Dalla Chiesa


Gossip da Novella 2000 o affare di Stato? Credere al Tg1 o alla stampa di tutto il mondo? In proposito avrei anch’io, come si usa, dieci interrogativi da proporre.
Primo. A quanto pare il premier trascorre parte ragguardevole del suo tempo coltivando un universo di giovani donne. Pensando a invitarle, a intrattenerle, a inseguirle per telefono, a disegnare e acquistare regali per loro, a raccomandarle. Avere un capo del governo che si dedica a questo invece di lavorare per il paese, e che anzi per loro diserta appuntamenti ufficiali in cui è già stato annunciato, è un fatto privato o un fatto pubblico?
Secondo. Il capo del governo ha trasformato una sede privata (palazzo Grazioli) nella nuova vera sede della presidenza del Consiglio. Alla luce di quello che abbiamo saputo, su questa scelta ha senz’altro giocato un ruolo importante la possibilità di sbarazzarsi degli accertamenti troppo rigorosi di Palazzo Chigi sugli ospiti in entrata e in uscita. Il fatto che la sede del governo cambi per meglio consentire il viavai incontrollato di una folta corte pittoresca e border-line è un fatto privato o un fatto pubblico?
Terzo. Le molte giovani donne che hanno rapporti di amicizia, di tenerezza e di complicità con il capo del governo vengono ricompensate e talora risarcite con incarichi di rilievo nella politica, con candidature a ogni livello, dalle Europee alle Circoscrizionali, con posti nella pubblica amministrazione o enti vari. Il fatto che si sia affermato questo criterio di scelta per reclutare la classe dirigente è un fatto privato o un fatto pubblico?
Quarto. La normativa sulle intercettazioni telefoniche approvata dal Senato ha preso il via dalla pubblicazione di registrazioni che riguardavano le relazioni e i problemi del capo del governo con alcune giovani signore dello spettacolo, e dunque dalla preoccupazione del capo del governo di tutelare questa sua sfera di intimità. Vivere in un paese che per queste ragioni viene costretto ad abbassare la guardia contro la criminalità è un fatto privato o un fatto pubblico?
Quinto. Il capo del governo è visibilmente sotto ricatto. Chi ha fotografato, chi ha filmato, chi ha visto, chi ha sentito. Un numero sterminato di persone che deve essere zittito o acquietato (anche con posti e carriere). Ma può permettersi un paese di essere governato di chi è nella condizione di subire ricatti senza fine? Ed è questo è un fatto privato o un fatto pubblico?
Sesto. Da quel che ci è stato raccontato, donne sconosciute possono entrare nella dimora del presidente del Consiglio, fare foto e registrare. C’è una questione di vulnerabilità del governo. Chi evoca complotti ogni giorno non faticherà a capire che, una volta scoperta l’infallibile via d’ingresso, anche una potenza straniera ostile potrebbe avere accesso a informazioni privilegiate. È questo un fatto privato o un fatto pubblico?
Settimo. Imprenditori arricchiti in pochi anni sono in grado di stringere rapporti preferenziali con il capo di governo facendo «bella figura» con lui grazie alla raccolta e consegna a domicilio di donne giovani e piacenti a pagamento. Che effetti ha sul sistema degli appalti, sulle cordate in affari, sulle concessioni, un rapporto preferenziale di questo tipo? Ed è questo un fatto privato o un fatto pubblico?
Ottavo. Una ragazza senz’arte né parte, invitata a cena dal capo del governo, reclama di essere pagata perché «non lo faccio mica per la gloria». In qualunque paese un invito a cena dal capo del governo è motivo di orgoglio. Qui no, non più. Come se Cenerentola chiedesse di essere pagata dal Principe. Ma se il prestigio della carica cade tanto in basso, anche a causa dei comportamenti del capo del governo medesimo, è questo un fatto privato o un fatto pubblico?
Nono. I giornali di tutto il mondo scrivono ciò che le nostre tv tacciono. Il nostro governo è lo zimbello dell’Occidente. È questo un fatto privato o un fatto pubblico?
Decimo e ultimo interrogativo. Siccome la centralità politico-culturale dell’harem si è sviluppata di pari passo con lo svuotamento del Parlamento e l’imbavagliamento dell’informazione, si assiste a un surreale scivolamento istituzionale: dalla repubblica parlamentare verso il sultanato. È questo un fatto privato o un fatto pubblico?
P.S. Le stesse ossessioni del capo del governo segnalano qualche sua difficoltà ad essere, come dicevano i latini, «compos sui» (Veronica: mio marito non sta bene). L’equilibrio psichico di un capo di governo è un fatto privato o un fatto pubblico?

l’Unità 25.6.09
Il maschilismo del premier
Care first lady disertate il G8 di Berlusconi
di Angelica Mucchi Faina


In un articolo che scrissi per l’Unità nel 2004 mi lamentavo per l’uso di uno sgangherato linguaggio sessista da parte dell’allora presidente del Consiglio Berlusconi e dei suoi “uomini” (la presenza di donne, ora come allora, era considerata irrilevante). Forse ricorderete le battutacce sul Primo Ministro finlandese, una donna, che Berlusconi disse di voler benevolmente corteggiare allo scopo di trarne vantaggi economici per il nostro Paese.
Non immaginavo, allora, che cinque anni dopo mi sarei trovata a promuovere, insieme ad altre due psicologhe sociali che insegnano all’università, un appello alle First Lady dei Paesi del G8 perché disertino l’appuntamento italiano. Quest’atto vuole essere una provocazione e dimostrare con forza che noi donne italiane siamo state molto (forse troppo) pazienti e fino ad oggi abbastanza (forse troppo) silenziose, ma che adesso non ne possiamo davvero più. Ora si tratta di fatti, non più solo di parole, e veramente i comportamenti che Berlusconi e la sua degna compagine ci indignano profondamente come donne, come docenti, come italiane. Si è passato ogni limite, la situazione è scaduta sempre più e con effetti devastanti. E non mi riferisco solo all’immagine dell’Italia che questa delegittimazione costante e sistematica delle donne trasmette all’estero (basta un’occhiata ai più importanti quotidiani europei per rendersene conto), né solo ai criteri da Tv show con i quali sono state selezionate le candidate alle scorse elezioni. Mi riferisco alle ricadute che questi comportamenti possono produrre sulle nuove generazioni, le quali crescono assistendo ad un simile spettacolo di arroganza del potere e di sopraffazione maschile. Ecco i modelli che sono proposti ai giovani dell’era Berlusconi: prepotenza e maschilismo ai ragazzi, disponibilità, ammiccamenti e intrighi alle ragazze. E noi psicologhe sappiamo bene quale deleterio impatto possano avere gli esempi negativi, soprattutto se circondati da un’aura di celebrità.
Abbiamo così raccolto, in maniera del tutto informale e in pochissimi giorni, più di cinquecento firme, duecento adesioni di docenti e ricercatrici universitarie a cui si sono subito aggiunti donne e uomini esterni all’università. Altre continuano ad arrivare al sito http://www.firmiamo.it/appellofirstladies. Invitiamo chiunque condivida le nostre idee, donna o uomo che sia, a visitare il sito per leggere l’appello e per firmare.
Infine, come reagiranno le First Lady? Siamo abbastanza sicure che in cuor loro appoggeranno la nostra protesta, ma sappiamo anche che protocolli e ufficialità renderanno problematico per loro prendere una posizione drastica come quella che chiediamo. Ma chissà mai che qualche parola di appoggio e solidarietà, anche velata, compaia in qualche intervista o discorso ufficiale.

l’Unità 25.6.09
Riparte alla Camera il testo sul fine vita
Sacconi: «È urgente»
di SU.TU.


Et voilà, tra un Bari-gate e l’ennesima foto de La Certosa, rispunta alla Camera il disegno di legge sul biotestamento. Ne ha riparlato ieri, d’improvviso, il ministro del Welfare Maurizio Sacconi, dicendo a L’Avvenire che si tratta di una «urgenza per il governo». Alcuni dicono si tratti di un modo per tornare all’«agenda di governo», altri di uno stratagemma per fare qualcosa di «gradito alla Chiesa». In ogni caso la tempistica è sospetta, e l’«urgenza» ancor di di più. Perché proprio dopo il caso Englaro e il sì del Senato, la maggioranza aveva ritenuto più opportuno accantonare un testo considerato eccessivamente restrittivo persino da una discreta fetta dei deputati di maggioranza.
Liberali, socialisti e finiani, infatti, si erano più o meno velatamente detti contrari alla parte più controversa del testo, quella che impedisce di rifiutare alimentazione e idratazione artificiali. Alcuni di loro avevano anche abbozzato delle modifiche. A breve, dunque, il fronte del no potrebbe tornare a farsi sentire. E così per la maggioranza, risolto un problema, se ne aprirà un altro.

l’Unità 25.6.09
La materia oscura dell’Universo nelle mani di una donna
Conversando con Lucia Votano, Direttrice dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso
di Cristiana Pulcinelli


A partire da settembre andrà a dirigere i laboratori di fisica del Gran Sasso. È la prima donna chiamata dal consiglio direttivo dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) a svolgere questo compito e ne è orgogliosa. Lucia Votano, 61 anni, dedica la sua nomina a suo figlio e alla memoria del marito che è morto pochi anni fa: «Mio figlio ha avuto la forza di accettare una madre che non era sempre presente. Mio marito mi ha dato la sua piena collaborazione senza la quale non ce l’avrei mai fatta».
È preoccupata?
«Diciamo che sento il peso della responsabilità: vado a dirigere dei laboratori unici al mondo».
Ci può spiegare che cosa sono i laboratori del Gran Sasso?
«Sono laboratori sotterranei dedicati ad un campo particolare della fisica: la fisica astroparticellare che è nata dall’incontro tra la fisica delle particelle, l’astrofisica e la cosmologia. È un campo che si è molto sviluppato negli ultimi decenni. Noi osserviamo fenomeni rari, ad esempio la cattura dei neutrini da un collasso stellare. Per fare questo abbiamo bisogno di un luogo protetto, cioè schermato dai raggi cosmici, le particelle che provengono dallo spazio e che colpiscono la Terra da ogni direzione. La montagna che sovrasta i laboratori scherma quasi totalmente questi raggi permettendo così di eliminare il disturbo di fondo. In questo modo possiamo osservare gli eventi e catturare le particelle che ci interessano».
Ci conferma che quelli del Gran Sasso sono i laboratori di questo genere più grandi del mondo?
«Sono i più grandi, ma anche i più attrezzati e i più facili da raggiungere. Generalmente si utilizzano le vecchie miniere per costruire laboratori di questo genere, ma l’accesso alla miniera è problematico. La struttura del Gran Sasso invece è al livello dell’autostrada: vi si accede dal tunnel che porta da Teramo a L’Aquila. Non è un vantaggio solo per il personale che vi lavora, ma anche per gli esperimenti: apparati in qualche caso anche da migliaia di tonnellate. È vero che vengono assemblati all’interno del laboratorio, ma anche i singoli pezzi che li compongono sono grandi e pesanti: invece di dover essere calati attraverso ascensori, qui vengono semplicemente portati all’interno a bordo dei camion. Una bella semplificazione. Tutto questo, accanto all’altissimo livello degli esperimenti, ha fatto sì che nei nostri laboratori vengano persone da tutto il mondo: tutti gli esperimenti sono collaborazioni internazionali».
Di che esperimenti si tratta?
«I filoni principali sono lo studio dei neutrini solari, la materia oscura e l’indagine sulla natura e la massa del neutrino anche attraverso lo studio del fascio di neutrini creati al Cern di Ginevra e indirizzati al Gran Sasso. Si tratta di esperimenti che cercano di rispondere ad alcune domande fondamentali della fisica: di che cosa è fatta la materia oscura? Qual è la natura del neutrino? Cosa sappiamo dell’interno del Sole? Cosa accade quando scoppia una supernova?»
Perché parlare di neutrini e di supernova è importante?
«Il neutrino è una delle particelle fondamentali che intervengono nei processi di interazione della materia in tutto l’Universo. Saperne di più vorrebbe dire conoscere meglio la struttura intima della materia».
E la materia oscura?
«Non possiamo vederla e non sappiamo di cosa sia fatta, ma costituisce il 90% della massa della nostra galassia. È difficile pensarlo, ma la materia così come la conosciamo è solo una piccola percentuale, circa il 5%, di quella contenuta nell’intero Universo. Di tutto il resto sappiamo che esiste perché ne vediamo gli effetti in maniera indiretta, ma non sappiamo esattamente cosa sia. Recentemente sono state ipotizzate particelle particolari, chiamate Wimp (Weakly Interacting Massive Particle), di cui potrebbe essere fatta la materia oscura. Gli esperimenti che si svolgono al Gran Sasso potrebbero dirci qualcosa di più».
Come è arrivata a questo incarico?
«Mi sono laureata in fisica nel 1971 alla Sapienza di Roma, poi, dopo alcune borse di studio, sono diventata dipendente dell’Infn. Prima ho lavorato a Frascati, poi qui al Gran Sasso, ma nel frattempo ho fatto esperimenti in vari posti del mondo».
Quali sono le ragioni che l’hanno spinta a studiare fisica?
«Devo tutto a un professore non molto bravo. Facevo il liceo classico e, quando arrivai all’ultimo anno, mi accorsi di avere una preparazione in matematica e fisica insufficiente per affrontare la maturità. Così decisi di prendere lezioni private. Da quel momento mi si è aperto un mondo. Ho capito quanto un bravo insegnante possa influenzare profondamente le scelte di una persona».
Lei sarà la prima donna a dirigere un laboratorio dell’Infn. Come mai?
«Ci sono state e ci sono altre donne direttrici di sezioni Infn, ma mai nessuna a capo di un laboratorio. È quindi un ulteriore passo in avanti per l’Infn. Accade da noi quello che accade anche in altri settori: le ricercatrici al primo livello sono un discreto numero, ma quando si sale nella carriera, il numero diminuisce. Però voglio anche vedere il lato positivo delle cose: se stavolta è stata nominata una donna vuol dire che la situazione sta diventando più favorevole».
Ci può descrivere com’è la situazione finanziaria?
«L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare sta soffrendo già da diversi anni, benché abbia una buona fama internazionale da spendere. Il fatto è che i finanziamenti non possono rimanere costanti o addirittura diminuire, se si vuole mantenere il passo bisogna investire. La questione più preoccupante è il reclutamento di giovani: se il flusso non è continuo e programmato anche quando i blocchi o le strozzature dovessero finire, ci troveremmo senza persone di talento perché non le abbiamo allevate».
Perché un paese dovrebbe finanziare queste ricerche?
«Noi facciamo ricerca fondamentale o di base, ma senza questo tipo di ricerca qualunque altra ricerca applicativa si inaridisce. Qualsiasi tecnologia osserviamo oggi, dall’elettricità ai satelliti, dai Gps ai telefonini, non è altro che il sottoprodotto della ricerca di base».
E un giovane perché dovrebbe scegliere questa strada?
«Perché, pur tra mille difficoltà e rinunce, potrebbe capitargli di andare a lavorare con piacere».

Repubblica 25.6.09
L’invisibile dentro la materia
di Nicola Cabibbo


I passi della fisica dalla lezione di Colombo, alle esplorazioni di Galileo sulla ricerca del "troppo piccolo per essere visto", fino alla meccanica dei quanti
Le tecniche sperimentate nei laboratori di Frascati e quelle future di Ginevra
Le nuove infinite possibilità offerte nello studio delle particelle elementari
Il testo che pubblichiamo verrà letto stasera da al Festival della Milanesiana.

«Ci sono più cose nei cieli e nella terra, Horatio, di quanto sogni la tua filosofia».
Con Amleto, rappresentato tra il 1599 e il 1600, siamo alla soglia della transizione dal mondo della filosofia a quello della scienza. I segnali sono nell´aria, dalla nuova astronomia di Copernico e di Tycho Brahe alla filosofia di Giordano Bruno. Per guardare in faccia l´invisibile bisognava però seguire la lezione di Cristoforo Colombo: muoversi, andare a cercare, sporcarsi le mani, passare dal pensiero all´azione.
Spetta a Galileo fare il primo passo. Galileo aveva seguito la lezione di Colombo, si era sporcato le mani per perfezionare le lenti del suo telescopio. Con la scoperta dei satelliti di Giove - le Stelle Medicee - delle montagne sulla luna, di una miriade di stelle mai viste prima, delle fasi di Venere e delle macchie solari, si era lanciato nella conquista dell´invisibile.
Il telescopio di Galileo apre l´esplorazione del "grande ma troppo lontano", e pochi anni dopo, nel 1624, lo stesso Galilei inaugura la ricerca del "troppo piccolo per essere visto" con un nuovo strumento, il microscopio, che affida ai naturalisti della Accademia dei Lincei.
Dobbiamo ricordare un´altra invenzione della scuola di Galilei, il barometro di Torricelli. Al di sopra della colonnina di mercurio si forma il vuoto, e nasce così una tecnologia essenziale per i moderni acceleratori, strumento di elezione per lo studio dei nuclei e dei loro componenti elementari, ma che hanno tante applicazioni nell´industria e nella medicina. Il telescopio e il microscopio acuiscono la vista, ma la rivoluzione si compie combinando questi strumenti con un´idea più antica: sostituire alla visione diretta quella mediata da una immagine, sia essa una pittura, una scultura, o una fotografia. Si apre così una infinità di nuove possibilità, fino ai metodi di visualizzazione usati nello studio delle particelle elementari. L´immagine può essere prodotta dalla luce visibile, ma anche da radiazione di lunghezza d´onda minore - raggi ultravioletti, raggi X, raggi gamma - o di lunghezza d´onda maggiore - gli infrarossi o addirittura le onde radio, in un radar o in un radiotelescopio. E ancora possiamo usare onde sonore, nell´ecografia, o fasci di elettroni, nel microscopio elettronico.
Una semplice spruzzata di limatura di ferro permette di visualizzare le linee di forza di un campo magnetico. Qualsiasi cosa che possa essere misurata - la pressione o l´umidità dell´atmosfera, le quotazioni della borsa, la febbre di un malato - può trasformarsi in immagine, e dato che un´immagine vale più di tante parole, la visualizzazione di dati scientifici si sta affermando come una disciplina a sé, dovunque in rapido sviluppo.
La lunghezza d´onda della radiazione determina i limiti alle dimensioni degli oggetti che si possono vedere. Se la distanza tra due dettagli in un oggetto è molto minore di una lunghezza d´onda, essi rifletteranno la luce, o altra radiazione, con la stessa fase e saranno quindi indistinguibili. Con la luce visibile, ad esempio, che si estende dai 0.38 micron (millesimi di millimetro) per il violetto ai 0.75 micron per il rosso, si potranno vedere distintamente batteri, di qualche micron, ma non dei virus che sono tipicamente cento volte più piccoli. Immagini più dettagliate richiedono lunghezze d´onda più piccole. Per superare i limiti della luce visibile bisogna quindi passare alla luce ultravioletta, o ai raggi X, o a fasci di elettroni.
La ricerca del piccolo ci ha rivelato una struttura complessa. Anzitutto gli atomi, i blocchetti del grande Lego della materia. Partendo dagli atomi si formano le molecole, dalle più semplici alle più complesse, come il Dna che codifica la materia vivente, o quelle nanostrutture, assemblaggi di centinaia o migliaia di atomi che sono alla base delle più promettenti tecnologie dei materiali.
Gli atomi sono essi stessi strutture complesse, composti da elettroni che ruotano intorno a un nucleo centrale, diecimila volte più piccolo. I nuclei sono composti da protoni, dotati di una carica elettrica positiva, e neutroni, elettricamente neutri. Il nucleo più semplice, quello dell´idrogeno, contiene un singolo protone. All´estremo opposto i nuclei più pesanti, come quello dell´uranio, che contengono oltre duecento tra protoni e neutroni. A loro volta protoni e neutroni sono composti da quark, particelle che allo stato delle conoscenze sono considerate elementari, cioè non ulteriormente scomponibili.
Con gli atomi, i nuclei e le particelle elementari entriamo nel regno della meccanica quantistica, un mondo strano e diverso, in cui non possiamo guardare un oggetto senza disturbarlo. La radiazione luminosa è composta da quanti, la cui energia è inversamente proporzionale alla lunghezza d´onda: a lunghezza d´onda più piccola corrisponde un´energia più elevata. Ed ecco il problema: per studiare un atomo dobbiamo usare quanti di luce la cui energia è sufficiente a disturbarne la struttura. Nel regno dei quanti l´osservazione modifica necessariamente l´oggetto osservato. Ma c´è di più: tutte le particelle, elettroni inclusi, si comportano come onde. C´è quindi una confusione di ruoli tra l´elettrone che circola in un atomo e il quanto di luce che usiamo per osservarlo. Ambedue sono particelle che si comportano come onde, osservatore ed osservato si confondono.
Guardare una particella significa farla scontrare con altre, siano esse quanti di luce, elettroni, o anche protoni, e registrare le conseguenze dell´interazione. Tanto maggiore l´energia delle particelle, tanto minore sarà la loro lunghezza d´onda, e di conseguenza più piccoli i dettagli che potranno essere rivelati. Per massimizzare l´energia totale delle particelle che si scontrano, la soluzione più efficace è rappresentata dai collisori, macchine in cui si fanno scontrare frontalmente due fasci di particelle di alta energia. Questa tecnica è stata sperimentata per la prima volta nei Laboratori di Frascati dell´INFN all´inizio degli anni Sessanta in una piccola macchina, ADA, realizzata sotto la direzione di Bruno Touschek, e la sua ultima espressione è LHC, il gigantesco collisore di protoni - 27 chilometri di circonferenza - che sta per entrare in funzione al CERN di Ginevra. L´energia dell´urto può trasformarsi in nuove particelle, tra cui molte che per la loro vita effimera non si trovano in natura. Tra le scoperte più sensazionali, i quanti delle interazioni deboli, i bosoni W e Z, e tre nuovi quark, l´ultimo dei quali, il quark t (top) è la più pesante particella sinora nota, quasi duecento volte la massa di un protone.
Lo sviluppo della fisica delle particelle ha offerto il campo a una eccitante gara tra teoria ed esperimento. In molti casi la teoria ha sopravanzato l´esperimento, prevedendo ad esempio le caratteristiche e la massa dei bosoni W e Z. Altre volte l´esperimento ha portato a scoperte inattese, come quella di una asimmetria tra materia ed antimateria. L´insieme dei fatti sinora accertati si inquadra nel cosiddetto Modello Standard, affinato e verificato con grande precisione negli ultimi decenni. Molti indizi mostrano però che il lavoro è ben lungi dall´essere completo. Il Modello Standard è ancora imperfetto, perché non comprende una corretta descrizione quantistica della forza di gravitazione. Un secondo indizio proviene dalla cosmologia: gran parte della materia nell´universo, la cosiddetta materia oscura, è composta da particelle mai osservate nei nostri laboratori. I teorici stanno mettendo a punto le possibili teorie del futuro, prima tra tutte la cosiddetta teoria delle stringhe. Ma solo l´incontro tra teoria ed esperimento, come ha insegnato Galilei, porterà un progresso decisivo, ed è quindi forte l´attesa per quanto il nuovo collisore LHC del CERN potrà rivelare.

Repubblica 25.6.09
40mila anni fa l’uomo scoprì la melodia
Scoperto il flauto dell’uomo di Neanderthal
di Elena Dusi


Uno studio degli archeologi dell´università di Tubinga sui reperti trovati in una grotta nella Germania del Sud Lo strumento, il più antico finora disponibile, fu ricavato dall´osso di un´ala di grifone e era lungo 34 centimetri
Quando l´Europa fu colonizzata nel Paleolitico esisteva già una tradizione musicale

Quattro flauti, la statuina di una donna dalle forme generose, i resti di una cena sontuosa a base di carne. A Hohle Fels, nella Germania del sud, tra i 35 e i 40mila anni fa dev´essersi svolta una serata squisita. Una festa, o più probabilmente un rito legato alla fecondità. Ma sono stati soprattutto i flauti a impressionare gli archeologi dell´università di Tubinga, che la scorsa estate hanno scavato nella grotta 20 chilometri a ovest di Ulm ritrovando i resti di quella cena del paleolitico superiore.
Uno dei quattro flauti, ricavato dall´osso di un´ala di grifone, lungo 22 centimetri (ma prima di spezzarsi arrivava a 34) e con un diametro di 8 millimetri, capace di suonare 5 note (tanti sono i fori sul suo fusto) è lo strumento musicale più antico mai trovato finora. Un oggetto simile, scoperto nel 1995 sempre in Germania tra le montagne del Giura è infatti stato declassato a semplice osso intaccato dai denti di un animale selvatico. Il flauto di Hohle Fels invece è inconfondibile, con la sua imboccatura intagliata a "V" e le scanalature laddove le dita dovevano essere appoggiate.
«Il grifone, con un´apertura alare di due metri e mezzo, aveva ossa perfette» spiegano Nicholas Conard e Susanne Munzel, autori del ritrovamento. A poca distanza, per fugare ogni dubbio, sono stati trovati altri tre esemplari simili (ma ridotti in frammenti più piccoli) scavati nell´avorio delle zanne di mammuth con una procedura che presuppone una grande abilità manuale (bisognava sezionare la zanna in due, scavare un solco lungo le due metà e poi ricongiungerle) e fa presupporre l´esistenza di strumenti musicali ancora più antichi. A 70 centimetri dal flauto più grande nella grotta di Hohle Fels è riemersa anche una statuina di 35mila anni d´età, la più antica rappresentazione scultorea di un corpo femminile. Molti altri resti di flauto, datati intorno a 30mila anni fa, furono trovati in passato nei siti di Francia e Austria, ricavati dalle ossa delle ali di uccelli (fra cui i cigni) privati del midollo al loro interno.
La musica nel Paleolitico doveva essere un piacere diffuso, concludono gli archeologi che oggi raccontano la scoperta su Nature: «Esisteva già una tradizione musicale consolidata nel momento in cui i primi umani iniziavano a colonizzare l´Europa. E la scoperta è ancora più importante se pensiamo che a suono e canto non sono legati un aumento delle chance di sopravvivenza o della capacità riproduttiva. Almeno non in modo diretto».
Ma quali fossero i ritmi dei primi Homo sapiens, se al suono si accompagnasse una danza o particolari riti religiosi, rimane oggetto di speculazione. La mancanza di indizi non ha impedito l´anno scorso al jazzista britannico Simon Thorne di organizzare a Cardiff un concerto intitolato "La musica dei Neanderthal", una specie che ha convissuto per un periodo con i sapiens ma si è estinta intorno ai 30mila anni fa. Thorne si è basato sulla teoria che parte dalla forma delle vertebre del collo di questi primitivi per dedurre che la loro voce doveva essere acuta e ritmata, e i loro "discorsi" non troppo dissimili da una canzone rap.
Anche se la sua ricostruzione della musica della preistoria ha valore più che altro come curiosità, è chiaro che già 35-40mila anni fa in nostri antenati non si accontentavano di mangiare, dormire e riprodursi. I primi barlumi di arte e cultura si stavano affacciando all´orizzonte della specie umana (a quest´epoca risalgono anche i primi monili) e la musica, fra le varie arti, non era seconda a pittura e scultura.

Repubblica 25.6.09
Giorgio Manzi, paleoantropologo: "Fu uno dei segreti del successo"
"Andare oltre la sopravvivenza ecco il segreto dei nostri avi"
di e.d.


Roma. «Non solo cacciatori. Quei precursori dell´homo sapiens avevano già iniziato a riempire il mondo dei loro simboli. Non si accontentavano di sopravvivere, sentivano il bisogno di esprimere il proprio mondo interiore» spiega Giorgio Manzi, paleoantropologo dell´università La Sapienza a Roma.
C´erano già altre forme d´arte all´epoca?
«Rare, inizieranno a diffondersi poco più tardi. Ma spesso nei siti dell´epoca troviamo statue di donne molto procaci che chiamiamo "Veneri preistoriche". Probabilmente simboli di fecondità».
Ha idea di come fosse la musica primitiva?
«La combinazione di flauti e Veneri ci fa immaginare dei riti accompagnati dalla musica e legati alla fertilità. Probabilmente esisteva anche una forma di danza. Ma ricostruire quelle prime melodie non è certo possibile».
In quel momento storico i primi sapiens convivevano con i Neanderthal. Anche questi ultimi amavano la musica?
«No, solo i primi sapiens, che sono i precursori dell´umanità moderna mentre i Neanderthal si sono estinti poco dopo. Non è escluso che questa capacità di andare oltre la mera sopravvivenza, sviluppando arte e socialità, sia stata proprio il segreto del successo dei nostri antenati e la causa della scomparsa dei loro cugini Neanderthal, che pure avevano un cervello di dimensioni simili».

Corriere della Sera 25.6.09
Digitalizzate le 21 mila carte dell’Opera del Duomo. Finora disponibili solo il 7 per cento delle fonti
La vera storia della cupola di Firenze
Brunelleschi «manager» in cantiere. In 20 anni di lavori un solo incidente mortale
di Pierluigi Panza


Il 19 agosto del 1418 fu bandito un concorso a Firenze. Si prometteva­no 200 fiorini d’oro a chi fosse sta­to in grado di «voltare» la cupola della nuova cattedrale di Santa Maria del Fiore, iniziata un secolo prima. Dalla me­tà del Trecento, la corporazione dell’Arte della Lana aveva commissionato numero­si modelli per la cupola, come quelli di Giovanni di Lapo Ghini e di Neri di Fiora­vanti. Ma nessuno era riuscito a realizzar­li, perché prevedevano una campata su­periore a 62 braccia (circa 30 metri). Pip­po, un orologiaio di quarant’anni figlio del notaio ser Brunellesco, presentò un suo modello di macchina di cantiere adatta a costruirla, sfidando il già noto Lorenzo Ghiberti. Ci stava lavorando dal maggio 1417. E Pippo, come Leon Battista Alberti chiamava Filippo Brunelleschi, fu l’uomo che riuscì a «costruire un cielo so­pra Firenze».
Non è che la storia dell’arte ogni volta sia da riscrivere, consegnando al cimite­ro dell’usato Manetti, Vasari, Sanpaolesi, Battisti, Bruschi, o anche il narrativo Ross King. Ma certo l’iniziativa Gli Anni della Cupola, ovvero la digitalizzazione critica dei 21 mila documenti dell’intero archivio dell’Opera di Santa Maria del Fio­re diretta da Margaret Haines (con la col­laborazione di Gabriella Battista, Rolf Ba­gemihl, Patrizia Salvadori, Lucia Sandri; Max Planck Institut, ECHO, Cnr di Pisa, Regione Toscana, fondazioni Getty e Mel­low), che sarà presentata lunedì a Firen­ze dopo 15 anni di lavoro (via della Cano­nica 1, ore 12, www.operaduomo.firen­ze/ cupola), svela particolari sulla figura di Brunelleschi e sul ruolo determinante delle maestranze. E consente di scrivere nuove microstorie sulla Firenze cresciuta intorno al cantiere del Duomo.
Si tratta della digitalizzazione critica e regesto di documenti amministrativi che vanno sotto il nome di «bastardelli di de­liberazioni », registri e quaderni di cassa. Non ci sono disegni. «Sino ad oggi la bi­bliografia sul ventennio di costruzione della cupola, dal 1417 al 1436, è basata so­lo sul 7% dei documenti che erano dispo­nibili agli studiosi», afferma la Haines (Harvard e Villa I Tatti). «Con questo pro­getto gli studiosi potranno reinterpreta­re la storia di quegli anni avendo a dispo­sizione il restante 93% gratuitamente su internet».
I documenti raccontano la storia di protagonisti e comparse dei 7.300 giorni del cantiere del provveditore Brunelle­schi — o come lo si scriveva allora, Bru­nelescho, Brunelesscho, Brunellescho, Brunellesco, Brunellesscho, Brunellezo — che funzionò come una specie «di pri­ma forma di 'management' edilizio», racconta la Haines. «Brunelleschi è il provveditore e a lui va ascritta la cupola. Certo. Ma dai documenti emerge una co­ralità costante nelle scelte del cantiere, merito dell’Opera del Duomo che non so­lo sostenne economicamente la costru­zione, ma fornì una struttura capace di sperimentare in corso d’opera le inven­zioni dell’architetto, specie grazie al so­stegno del capo mastro Battista D’Anto­nio ». Questo che emerge è un quadro sto­rico significativo, poiché testimonia il protrarsi del modello medioevale di can­tiere, come deposito di un sapere qualifi­cato, ma anonimo e collettivo, anche agli albori dell’età dell’«architetto» come ide­atore di un proprio progetto. Stagione che nasce ufficialmente nel 1452 con il «De re aedificatoria» di Alberti.
I documenti digitalizzati permettono varie osservazioni a questo proposito. Si scopre che nei vent’anni di costruzione della cupola ci fu solo un operaio morto e 8 feriti (come per la costruzione della Torre Eiffel e della diga di Assuan). Mor­to di cui l’Opera sostenne il costo dei fu­nerali. I documenti permettono di conta­re e misurare i componenti lapidei della cupola, che provenivano per la maggior parte da falde dalla cava di Trassinaia a Vincigliata, e dalla cava dei Salviati a Fie­sole. Dettagli inediti emergono sulle mae­stranze: massimo 50, ma generalmente dalle 25 alle 30 unità stabili per sedici an­ni di costruzione. Ufficiali pubblici, in turni di 6 per la durata di 4 mesi, control­lavano l’avanzamento dei lavori. In 480 tra notabili e grandi mercanti della città si occuparono di quello che occorreva per mandare avanti i lavori, che mai eb­bero interruzioni.
Emerge dal minutissimo lavoro critico anche qualche lotta tra i protagonisti. Il grande «occhio» di vetro istoriato con l’Incoronazione della Vergine per il tam­buro della cupola, presentato da Donatel­lo nel 1434, vince su quello del provvedi­tore Ghiberti. La sfida tra questo e Brunel­leschi, invece, «viene vinta da quest’ulti­mo a partire dai nuovi patti del 1426, quando, per la prima volta, guadagna il triplo: «Filippo di ser Brunellescho gho­vernatore della chupola maggiore» rice­ve fiorini 8 per un mese «a regime di 100 fiorini l’anno»; «Lorenzo di Bartolucio orafo sopra ghoverno della chupola mag­giore » prende fiorini 3 al mese. Brunelle­schi diventa così il «firmatario» della cu­pola e nel ’33 viene addirittura fatto arre­stare proprio perché «titolare» del cantie­re, ma non iscritto all’arte dei Maestri.
Brunelleschi vinse le sfida grazie so­prattutto all’ideazione della cosiddetta «colla» o «edificio dei buoi», una mac­china a tre marce (e una retro), azionata da una coppia di buoi, che gli consentì di alzare grandi pesi in quota, eludendo co­sì il problema della centinatura della vol­ta, costruita a doppia calotta. I documen­ti testimoniano di un Brunelleschi seve­ro con il bovaro che li conduce: gli sot­trae denaro per il tempo perduto («scio­perio ») durante le revisioni della «machi­na ». I registri documentano anche l’attivi­tà in cantiere del pittore Paolo Uccello e dello scultore Bernardo Ciuffagni.
L’archivio dell’Opera fu duramente colpito dall’alluvione del ’66. I codici uti­lizzati da «Gli anni della cupola», tranne quattro su trenta, furono danneggiati. Il «restauro virtuale» è stato reso possibile grazie alla collaborazione con l’Istituto per le Scienze di restauro Fachhochschu­le di Colonia, che nel torrido luglio del 1999 mandò esperti ad eseguire migliaia di riprese digitali a illuminazione ultra­violetta a bassa intensità. Per quanto ri­guarda l’edizione di testi, «è nostra in­tenzione — dicono i curatori — integra­re le fonti dell’Archivio dell’Opera di San­ta Maria del Fiore con la documentazio­ne riguardante l’Opera contenuta nell’ar­chivio della sua istituzione madre, l’Arte della Lana, conservato nell’Archivio di Stato di Firenze». Per una completa ana­lisi di quegli anni andrebbero esplorati anche gli archivi dello Spedale degli In­nocenti e di San Lorenzo. Riutilizzati non come «feticci» ma come carne viva, documenti come questi sapranno avvici­nare i grandi artisti del passato, sottraen­doli dalla sfera del mito dove li collocaro­no Vasari e Bellori.

Corriere della Sera 25.6.09
Gli scritti filosofici di Sossio Giametta
Le ali di Nietzsche e il volo di Icaro
di Raffaele La Capria


La crisi speculativa coincide con quella della civiltà europea, il tramonto dell’Occidente

Chi leggerà gli elzeviri filosofici di Sossio Giametta raccolti nel volume Il volo di Ica­ro (Il Prato editore, pp. 372, e 15) sappia che questi scritti, brevi e chiari, sono la sintesi di un lungo lavorio preceden­te, di uno studio e un’applica­zione durati anni, da quando Giametta iniziò la collabora­zione con Giorgio Colli e Maz­zino Montinari, responsabili dell’edizione critica di tutte le opere di Nietzsche pubblicata da Adelphi. A lui, a Sossio Gia­metta, alla sua passione e alla sua laboriosità, si devono le molte traduzioni di Nietz­sche, e anche quelle dell’Etica di Spinoza, e di gran parte del­le opere di Schopenhauer. In­somma, questi elzeviri non so­lo hanno un pedigree di alta qualificazione culturale, ma toccano problemi filosofici di fondamentale importanza. De­vo premettere che io non so­no un cultore della materia, come si dice, e non ho una mente filosofica, ma so che la filosofia è una dimensione co­stitutiva della persona, così co­me la dimensione razionale, quella estetica, quella politi­ca, quella affettiva, e dunque questi elzeviri possono aiuta­re anche uno come me a capi­re molti problemi che sonnec­chiavano nel mio animo e ogni tanto apparivano in for­ma di domande cui sentivo di dover trovare una risposta. La prima di queste domande, quella che tutti ad un certo momento si pongono, riguar­da il rapporto con quella real­tà misteriosa ed enigmatica che è l’esistenza del mondo in sé, nella sua totalità. Pur re­stando indecifrabile, la filoso­fia lo rende pensabile — se­condo i canoni umani. Nel li­bro che ho citato Giametta scrive: «Ciascun essere viven­te è oggettivamente una inter­pretazione del mondo», e di conseguenza, anche senza rendersene conto, lo antropo­morfizza. Ed è questo che fac­ciamo tutti continuamente.
Accennerò a qualcuno dei punti per me più interessanti di questo libro che, per come è scritto, è destinato anche al lettore comune. Nel capitolo su scienza e filosofia si affer­ma che il metodo sperimenta­le (quello scientifico) va consi­derato come un limite e non come un’arma vincente, per­ché trova proprio nell’espe­rienza empirica un limite che non oltrepassa, mentre la filo­sofia può oltrepassarlo. Il mi­to di Icaro, che dà il titolo al libro, a questo allude, al volo che ad un certo punto è desti­nato a una precipitosa caduta. In un altro capitolo sono enunciati due nuovi princìpi, il principio di organicità e quello di massima determina­zione: il principio di organici­tà, che viene opposto a quello di meccanicità, e quello di massima determinazione, che si oppone a quello di indeter­minazione di Heisenberg.
Quanto a Nietzsche, Gia­metta potrebbe ripetere: «Va­gliami il lungo studio e il gran­de amore/ che m’ha fatto cer­car lo tuo volume» per la fre­quentazione di una vita che lui ha avuto con i testi del grande contestatore. A questo proposito fa osservare che la crisi della filosofia, che in Nietzsche si verifica, coincide con la crisi della civiltà euro­pea, con quel tramonto del­l’Occidente di cui la Prima e la Seconda guerra mondiale so­no l’evento conclusivo.
In questa parte si discute anche, tentando di darne una spiegazione diversa da quella corrente, sulla vera origine del fascismo e del comuni­smo, cercando in altri termini la chiave di comprensione de­gli ultimi due secoli di storia. Nietzsche giustamente non è considerato solo un filosofo, ma anche un poeta, uno psico­logo, un filologo e un morali­sta (come Montaigne) ed è questo suo multiforme aspet­to che lo distingue dagli altri filosofi. Egli è infine un dia­gnostico di quella crisi della civiltà occidentale di cui s’è detto. Il suo nichilismo libera l’uomo dai dettami che veniva­no dall’alto e dall’esterno, e gli restituisce libertà e respon­sabilità, con tutte le enormi conseguenze positive e negati­ve che questo ha comportato. Sono questi ed altri i temi e i motivi che rendono interes­sante Il volo di Icaro, un libro che anche nella forma propo­ne un uso particolare della scrittura di tipo aforistico, prendendo a modello alcuni esempi illustri del passato.

Il Foglio 25.6.09
Berlinguer ti voglio male
di Emanuele Macaluso


Anticipiamo l’articolo che apparirà nel prossimo numero della rivista "Le nuove ragioni del socialismo"

Nel venticinquesimo anniversario della sua scomparsa, la figura di Enrico Berlinguer è stata oggetto di discussioni, serie e meno serie, che inevitabilmente hanno richiamato il ruolo svolto dal Pci nella tormentata vicenda della democrazia italiana. Il ricordo della morte di Berlinguer suscita in me tante emozioni nel ricordo di una lunga comune militanza e anche perché, come direttore dell’Unità, vissi intensamente, in sintonia con milioni di persone, i giorni della sua agonia che seguirono il momento in cui si accasciò sul palco dal quale parlava ai cittadini dì Padova. infatti in quei giorni era in corso la campagna elettorale europea in un clima politico arroventato. Il Pci, in quella competizione, sull’onda dell’emozione che suscitò la morte di Berlinguer, si affermò come primo partito, sfiorando il 34 per cento dei voti e superando per la prima volta la Dc. Eppure quel successo, ottenuto con e per Berlinguer, segnò anche l’inizio di un declino del Pci segnalato, nei mesi e negli anni successivi, dai risultati del referendum per l’abolizione della legge sulla scala mobile (motivo di uno scontro durissimo con Craxi), dalle elezioni amministrative e da quelle politiche del 1987, Segretario del Pci era Alessandro Natta. Ma ecco il punto che in queste note vorrei discutere - il declino del Pci è dovuto al fatto che non ha più una guida forte, autorevole, popolare come quella di Berlinguer? O già con lui, si era aperta una crisi di ruolo del Pci, in un quadro in cui incubava una crisi del sistema? Si è più volte detto e scritto che Berlinguer aveva intuito i caratteri della eri- si, come testimonia la sua intervista a Scalfari sulla "questione morale", quando parlava della degenerazione dei partiti che occupavano lo spazio che doveva essere riservato allo Stato ecc. L’osservazione è giusta. Tuttavia c’è da chiedersi se il Pci fece un’analisi adeguata sulle cause che producevano quegli effetti e se elaborò una strategia per affrontare una crisi di sistema che lo coinvolgeva. Teniamo ben presente che parliamo della fase politica che si apre dopo che, con l’assassinio di Aldo Moro (1978), si era sostanzialmente sciolta la maggioranza che aveva retto ì governi di solidarietà nazionale presieduti da Giulio Andreotti. Tuttavia, nel congresso dei 1979 il Pci considera ancora valida la strategia che aveva dato vita ai governi di solidarietà, cioè un’alleanza con il Psi e con la Dc. Una politica che Berlinguer non identificava con il "compromesso storico" dato che metteva l’accento sul permanere di alcune emergenze che la giustificavano (crisi economica, inflazione, terrorismo). Ma era una politica che stava entro quello schema, lo schema togliattiano. Dopo la crisi dei governi di solidarietà e le elezioni del 1979 nella Dc i gruppi che avevano subito, ma non condiviso, la politica di Moro sì riorganizzarono, muovono una controffensiva moderata, vincono il congresso e riallacciano un rapporto privilegiato con il Psi di Craxi. Il quale aveva già archiviato la politica di alternativa alla Dc. Un successo consentito dal fatto che la direzione della Dc di Zaccagnini era fragile (Galloni vicesegretario attaccava il Pci ma non sapeva cosa fare) e dall’incertezza e oscillazione del Pci. II quale già subiva e, al tempo stesso, alimentava la conflittualità col Psi di Craxi. Berlinguer vede in questo resuscitato rapporto tra Psi e Dc un segno di una crisi di fondo, di sistema, e ha ragione. Infatti né la Dc del dopo Moro, né il Psi di Craxi colgono i segnali di crisi di un sistema senza alternative e ricambio di direzione politica. Moro, che aveva intuito i caratteri della crisi, non voleva portare il Pci al governo, ma tentò di rivitalizzare il sistema prefigurando alternative in cui fosse coinvolto il Pci, partito di governo. Berlinguer, però, tentò di reagire all’intesa Dc-Psi con la formula astratta dell’alternativa democratica (il Pci perno di un governo di salute pubblica), con la "diversità comunista", con una battaglia politica, parlamentare e di massa volta a dimostrare che ormai senza il Pci al governo il paese non è governabile. Sul piano internazionale, nel corso della crisi polacca (1981) Berlinguer, dopo la dichiarazione fondamentale sul Patto Atlantico, fatta nel 1976, aveva accresciuto il distacco dall’Urss. Si parlò di uno strappo irrecuperabile. Ed era vero, Il Pcus di Breznev osteggiava l’ingresso del Pci nell’area di governo più di quanto l’osteggiasse il governo americano guidato da Carter. Tuttavia, Berlinguer, allargava le distanze dall’Urss, ma non aveva mai messo in discussione l’identità comunista del partito e la sua vocazione anticapitalista, terzomondista e antimperialista. Cioè c’erano gli "strappi" ma non c’era una revisione di fondo, tale da collocare il partito nell’area del socialismo europeo. Enrico allacciò rapporti con alcuni leader socialisti, Palme, Mitterrand, Willy Brandt, sui temi del terzo mondo e della pace ma volle sempre mantenere non solo il nome, ma l’identità comunista. Poteva il Pci che rivendicava quella identità (nella versione italiana della via democratica), rompere tutti gli sbarramenti nazionali e internazionali e competere, non solo per la partecipazione, ma per la guida del governo? Questo fu il senso della sfida berlingueriana con la svolta del 1981. L’esperienza della solidarietà nazionale, vissuta anche criticamente, infatti, aveva fatto maturare nel gruppo dirigente il convincimento che il Pci poteva mantenere la sua identità comunista ed essere forza di governo. La contraddizione consisteva nel fatto che mentre si diceva convintamente che Moro era stato assassinato per bloccare un processo politico che innovava il sistema, facendo cadere la pregiudiziale anticomunista, dall’altro si pensava possibile un quadro politico più spostato a sinistra, col Pci al governo, da quello che aveva ispirato fa politica morotea. Ma il Pci non aveva tutto l’interesse di mantenere aperte le porte della politica di solidarietà nazionale che le forze conservatrici combattevano con tutte le armi? Anche perché sullo stesso fronte c’era tutto l’estremismo di sinistra quello che lottava alla luce del sole e quello che aveva scelto la lotta armata. La Dc si adegua subito alla spinta che la vuole come asse dell’area moderata e anticomunista, anche perché Zaccagnini e la sinistra non hanno più una politica. E il Psi che si sente schiacciato dal compromesso Dc-Pci cerca di uscirne offrendo alla Dc dorotea un’alternativa possibile, facendole pagare il prezzo del suo protagonismo che si concretizzerà nella presidenza di Craxi. Il Pci aveva due strade: reinterpretare la politica di solidarietà nazionale negando la leadership alla Dc e dando spazio al Psi col quale aprire un dialogo in termini nuovi; oppure sfidare il Psi sul terreno di un revisionismo di fondo che avrebbe collocato il partito nell’area del socialismo e giuocare la carta dell’alternativa alla Dc che Craxi si accingeva a mollare, Berlinguer come ho accennato, scelse invece una "terza via" (sempre disastrose le terze vie!). A questo proposito, mi ricordo che nel 1980 feci un’intervista al Mondo per dire che bisognava ricostruire la maggioranza della solidarietà nazionale (Dc-Psi-Pci) ma la direzione del governo doveva essere affidata a un socialista e non più a un Dc. Mi fu chiesto se quel socialista poteva essere Craxi e risposi di sì. Non capivo come sì potesse fare un accordo di governo col Psi, tagliando fuori il suo segretario. Non pensavo che quel governo potesse facilmente nascere, ma era un’occasione per mantenere un rapporto col Psi, non rompere il dialogo con la Dc e non dare alibi alla svolta moderata. Invece la segreteria del Pci, con un metodo inusuale, (l’aveva fatto nel 1947 con Terracini) emanò un comunicato per dire che si trattava di mie idee personali. Il che era vero, ma quel comunicato preparava la svolta isolazionista dell’81. Un segnale in questo senso era già venuto quando il Presidente della Repubblica aveva dato l’incarico per fare il governo a Ugo La Malfa e Berlinguer negò il suo sostegno. L’errore di fondo, a mio avviso, parte dalla sottovalutazione di tutti i processi sociali, politici e culturali che prepararono e consentirono la vittoria della Thatcher e di Reagan, di quella che fu chiamata la rivoluzione conservatrice. Il pentapartito, in Italia, sul piano della politica estera (gli euromissili) e su quelli della politica interna (decreto sulla scala mobile, progetti di rilancio del capitalismo e dei consumismo, promessa di riforme nel sistema politico che esprimevano anche una modernizzazione della società) era sulla scia di quell’ondata che coinvolgerà l’Europa. Il Pci, come una gran parte della sinistra europea, ebbe una posizione difensiva (simile a quella dei sindacati e dei laburisti inglesi) e non seppe mettere in campo una politica riformatrice adeguata a quella "rivoluzione". Ecco perché ho parlato di una crisi di ruolo del Pci. Tuttavia, il pentapartito craxiano che era su quella scia consumò la sua spinta, archiviò le riforme, tirò a campare in un giuoco di potere perverso. L’89 trova, quindi, forze di governo e di opposizione impreparate a cogliere il mutamento epocale che si produsse con il crollo del muro di Berlino. De Mita e Craxi si contendono la direzione politica di una sistema che va disfacendosi. Craxi pensa di tornare, costi quel che costi, a Palazzo Chigi e ricorre sempre più a finanziamenti illegali, non si fida più nemmeno del suo partito e non si accorge che va a sbattere. Occhetto e i suoi compagni con la svolta della Bolognina collocano il nuovo partito nel limbo e pensano di rifondare ed esprimere tutta la sinistra, e anche lui non si accorge che va a sbattere. All’inizio degli anni Novanta la crisi del sistema finisce di consumarsi tra promesse di svolta e rinnovamenti e con Tangentopoli che ne suggella la fine agevolando l’arrivo di uno dei beneficiari: Silvio Berlusconi. Non c’era più Berlinguer, ma quelli che abusivamente ritenevano di essere i suoi più fedeli eredi, che costituirono il gruppo dirigente del Pds.

mercoledì 24 giugno 2009

l’Unità 24.6.09
La guerra feroce dei maschi sconfitti
di Valeria Viganò


Ieri a Milano l’ennesimo omicidio di una donna. Era davanti all’asilo nido col suo bambino di due anni in braccio. L’ex marito l’ha uccisa a coltellate. Erano separati da quattro mesi

Ieri. Un asilo nido come gli altri, a Milano est, un’ora solita della mattina, le 8 e 40. Una mamma che porta il figlio di due anni in braccio in mezzo a tante altre mamme. Un cortile prima dell'ingresso pieno di bambini. Lo scenario semplice delle chiacchiere e dei saluti, manine che si agitano, sorrisi affettuosi. Il mondo dell'infanzia viene profanato all’improvviso da un padre, pregiudicato sì, ma sempre padre. È accanto alla mamma che tiene abbracciato il figlio e contemporaneamente e fatalmente riceve una telefonata. Il padre ha con sé un coltello da cucina. Perché? In un baleno ficca l’arma in petto alla ex-moglie, lei barcolla, lui la colpisce quattro volte tra le urla di terrore di chi è presente. La ammazza. Ma prima che lei crolli, una bidella riesce a afferrare il piccolo e scappare via. Cronaca cruda di una violenza intollerabile. Cronaca che si ripete quasi quotidianamente in un elenco interminabile di vittime predestinate: tutte donne. Una vera e propria guerra sanguinaria contro un sesso che ha solo una colpa: non si sottomette più, non piega più la testa, non acconsente per dovere, pensa in autonomia, Si pensa libero come l’altro, il maschile.
La guerra disperata degli uomini usa molte armi cruente: pugni, calci, stupri, coltellate, pistolettate, fucilate. Passa per le grandi metropoli e i piccoli centri di provincia, da nord a sud. È perpetrata da maschi di ogni età. Le motivazioni di questa guerra passano da una debolezza piena di incapacità, da una cecità, un rifiuto, una pochezza, dalla rabbia che si fa forza belluina. La rabbia di non poter più pretendere di essere amati nei modi e nei tempi decisi da una sola parte, la loro. E la rabbia di non poter più gestire un matrimonio, una convivenza, i figli senza contraddittorio.
Gli uomini si sentono spodestati dalla maturazione femminile degli ultimi quarant’anni, dalla consapevolezza e dalla voglia di parità che le donne hanno pensato, elaborato, messo in atto tra mille fatiche ma alle quali non vogliono e non possono più rinunciare. La chiamerei desiderio di pari dignità della persona umana. Alla quale gli uomini non erano storicamente abituati e per la quale in questi quarant’anni non hanno speso che pochi spiccioli. Disinteressati, inermi o sempre più incazzati non hanno reagito con la riflessione, ma con l’incomprensione di un processo evolutivo della società civile nella sua interezza. Solo i più sensibili hanno ascoltato, provato a accompagnare il mutamento che toglieva loro potere e comando.
I molti maschi che non accettano la propria apparente sconfitta non l’hanno tollerato. Senza altre armi dialettiche hanno cominciato a la guerra su due fronti: il primo, appena meno violento, è la riproposizione non di un modello casalingo retrò ma di un modello femminile puttanesco di impronta televisiva, corroborato dal do ut des dei potenti; il secondo appartiene a chi non ha quel potere e nessuna merce di scambio. Troppi uomini che non accedono alla possibilità del ricatto usano la furia. Puniscono. Costringono. E, quando vedono che non riescono più a stare al passo con le donne che dicono di amare, le uccidono.

Repubblica 24.6.09
La verità che non può dire
di Giuseppe D’Avanzo


Berlusconi esige da noi, per principio e diritto divino, come se davvero fosse "unto dal Signore", la passiva accettazione dei suoi discorsi. Pretende che non ci siano repliche o rilievi alle sue parole. Reclama per sé il monopolio di un´apparenza che si cucina in casa con i cuochi di famiglia. Senza contraddittorio, senza una domanda, senza un´increspatura, senza la solidità dei fatti da lui addirittura non contraddetti, senza un estraneo nei dintorni. Vuole solo famigli e salariati. Con loro, il Cavaliere frantuma la realtà degradata che vive. La rimonta come gli piace a mano libera e ce la consegna pulita e illuminata bene. A noi tocca soltanto diventare spettatori – plaudenti – della sua performance. Berlusconi ci deve immaginare così rincitrulliti da illuderci di poter capire qualcosa di quel che accade (è accaduto) non servendoci di ciò che sappiamo, ma credendo a ciò che egli ci rivela dopo aver confuso e oscurato quel che già conosciamo. Quindi, via ogni fatto accertato o da lui confessato; via le testimonianze scomode; via documenti visivi; via i giornalisti impiccioni e ostinati che possono ricordarglieli; via anche l´anchorman gregario e quindi preferito; via addirittura la televisione canaglia che da una smorfia può rivelare uno stato d´animo e una debolezza.
Berlusconi, che pare aver smarrito il suo grandioso senso di sé, si rimpannuccia sul divano di casa affidandosi alle calde cure del direttore di Chi. Insensibile alle contraddizioni, non si accorge dell´impudico paradosso: censurare i presunti pettegolezzi dalle colonne di un settimanale della sua Mondadori, specializzato in gossip. Dimentico di quanto poca fortuna gli abbia portato il titolo di Porta a Porta (5 maggio) "Adesso parlo io" (di Veronica e di Noemi), ci riprova. "Adesso parlo io" strilla la copertina di Chi. Il palinsesto è unico.
In un´atmosfera da caminetto, il premier ricompone la solita scena patinata da fotoromanzo a cui non crede più nessuno, neppure nel suo campo. La tavolozza del colore è sempre quella: una famiglia unita nel ricordo sempre vivo di mamma Rosa e nell´affetto dei figli; l´amore per Veronica ferito – certo – ma impossibile da cancellare; la foto con il nipotino; una vita irreprensibile che non impone discolpa; l´ingenuità di un uomo generoso e accogliente che non si è accorto della presenza accanto a lui, una notte, di una "squillo" di cui naturalmente non ha bisogno e non ha pagato perché da macho latino conserva ancora il "piacere della conquista".
Acconciata così la sua esistenza che il più benevolo oggi definisce al contrario "licenziosa", chi la racconta in altro modo non può essere che un "nemico". Da un´inimicizia brutale sono animati i giornali che, insultati ma non smentiti, raccontano quel che accade nelle residenze del presidente. Antagonisti malevoli, prevenuti o interessati sono quegli editori che non azzittiscono d´imperio le loro redazioni. C´è qualcosa di luciferino (o di vagamente folle) nella pretesa che l´opinione pubblica – pur manipolata da un´informazione servile – s´ingozzi con questo intruglio. Dimentico di governare un Paese occidentale, una società aperta, una democrazia (ancora) liberale, il capo del governo pare convinto che, ripetendo con l´insistenza di un disco rotto, la litania della sua esemplare "storia italiana" possa rianimare l´ormai esausta passione nazionale per l´infallibilità della sua persona. È persuaso che, mentendo, gli riesca di sollecitare ancora un odio radicale (nell´odio ritrova le energie smarrite e il consenso dei "fanatizzati") contro chi intravede e racconta e si interroga – nell´interesse pubblico – sui lati bui della sua vita che ne pregiudicano la reputazione di uomo di governo e, ampiamente, la sua affidabilità internazionale. Berlusconi sembra non voler comprendere quanto grave – per sé e per il Paese – sia la situazione in cui si è cacciato e ha cacciato la rispettabilità dell´Italia. Ha voluto convertire, con un tocco magico e prepotente, le "preferite" del suo harem in titolari della sovranità popolare trasformando il suo privato in pubblico. Non ha saputo ancora spiegare, dopo averlo fatto con parole bugiarde, la frequentazione di minorenni che ora passeggiano, minacciose, dinanzi al portone di Palazzo Chigi. Ha intrattenuto rapporti allegri con un uomo che, per business, ha trasformato le tangenti alla politica in meretricio per i politici. Il capo del governo deve ora fronteggiare i materiali fonici raccolti nella sua stanza da letto da una prostituta e le foto scattate da "ragazze-immagine", qualsiasi cosa significhi, nel suo bagno privato mentre ogni giorno propone il nome nuovo di una "squillo" che ha partecipato alle feste a Villa Certosa o a Palazzo Grazioli (che pressione danno a Berlusconi, oggi?).
La quieta scena familiare proposta da Chi difficilmente riuscirà a ridurre la consistenza di quel che, all´inizio di questa storia tragica, si è intravisto e nel prosieguo si è irrobustito: la febbre di Berlusconi, un´inclinazione psicopatologica, una sexual addiction sfogata in "spettacolini" affollati di prostitute, minorenni, "farfalline", "tartarughine", "bamboline" coccolate da "Papi" tra materassi extralarge nei palazzi del governo ornati dal tricolore. Una condizione (uno scandalo) che impone di chiedere, con la moglie, quale sia oggi lo stato di salute del presidente del Consiglio; quale sia la sua vulnerabilità politica; quanta sia l´insicurezza degli affari di Stato; quale sia la sua ricattabilità personale. Come possono responsabilmente, questi "buchi", essere liquidati come affari privati?
La riduzione a privacy di questo deficit di autorità e autorevolezza non consentirà a Berlusconi di tirarsi su dal burrone in cui è caduto da solo. Ipotizzare un "mandato retribuito" per la "escort" che ricorda gli incontri con il presidente a Palazzo Grazioli è una favola grottesca prima di essere malinconica (la D´Addario è stata prima intercettata e poi convocata come persona informata dei fatti). Evocare un "complotto" di questo giornale è soltanto un atto di intimidazione inaccettabile.
Ripetendo sempre gli stessi passi come un automa, lo stesso ritornello come un cantante che conosce una sola canzone, Berlusconi appare incapace di dire quelle parole di verità che lo toglierebbero d´impaccio. Non può dirle, come è sempre più chiaro. La sua vita, e chi ne è stato testimone, non gli consente di dirle. È questo il macigno che oggi il capo del governo si porta sulle spalle. Non riuscirà a liberarsene mentendo. Non sempre la menzogna è più plausibile della realtà. Soprattutto quando un Paese desidera e si aspetta di sentire la verità su chi (e da chi) lo governa.

Repubblica 24.6.09
I giornali inglesi: il leader più sessista d’Europa. Die Welt: anche la Chiesa ora prende le distanze
La stampa estera e il Cavaliere "Scandalo sempre più grave"
di Enrico Franceschini


"Una tragedia che Mani Pulite sulla corruzione politica abbia condotto a tutto questo"

Londra - Il leader «più sessista d´Europa». Una versione «da fumetto» dello stereotipo del maschio italiano. Un primo ministro che continua a sorridere, mentre lo scandalo attorno a lui «si aggrava di giorno in giorno». Così i media britannici e di altri paesi europei descrivono Silvio Berlusconi, alle prese con gli ultimi sviluppi della vicenda cominciata con la 18enne Noemi Letizia e finita con le escort nella sua residenza romana. Se il premier sperava di ignorare le accuse, aspettando che passasse la tempesta, si sbagliava, riassume il Guardian di Londra: «E´ improbabile che passerà prima dell´arrivo in Italia dei leader mondiali per il summit del G8 del mese prossimo». E il Times titola sull´iniziativa, lanciata dalla rivista Micromega e ripresa da un gruppo di docenti universitarie di Milano, Padova e Perugia, di esortare le "first-lady" del G8 a «snobbare il summit», come protesta contro il «maschilista Berlusconi».
L´editoriale non firmato del Guardian, il secondo nel giro di poche settimane contro Berlusconi, è durissimo. «Il suo atteggiamento verso le donne è solo una tra la costellazione di ragioni per le quali gli italiani non avrebbero dovuto mandarlo per tre volte al potere. Il suo successo è un prodotto piuttosto che una causa del collasso del sistema politico italiano, un collasso che ha indebolito la sinistra e il centro, lasciando campo libero a opportunisti e xenofobi. E´ una tragedia che l´indagine giudiziaria di Mani pulite sulla corruzione politica, che sembrava promettere un grande rinnovamento della politica italiana, abbia condotto a tutto questo».
Per il Times, che gli dedica la copertina del suo inserto T2, Berlusconi interpreta il suo ruolo pubblico come una «via di mezzo tra un proprietario di night club e un attore da cabaret, una versione esagerata, da fumetto, dello stereotipo del maschio italiano: vanesio, borioso e sessualmente insicuro», simbolo di uomini cresciuti da madri iper-protettive, abituati fin dalla nascita a essere perdonati in tutto. «Ma sospetto che in questo caso», scrive l´articolista, Sarah Vine, «l´Italia non gliela perdonerà, perché c´è una cosa che gli italiani non sopportano e che diventerà ancora più evidente quando il mese prossimo Berlusconi ospiterà il G8: essere umiliati dai media stranieri. Farsi beccare con i calzoni abbassati è una tale brutta figura. E questo, in Italia, è un peccato imperdonabile».
Il tono non è diverso sul resto della stampa europea. In Germania, per esempio, il conservatore Die Welt, vicinissimo alla cancelleria e alla Cdu, scrive, in prima pagina, che la chiesa critica il premier e dà ampio risalto alle richieste di elezioni anticipate. Il giornale sottolinea quindi che il caso di Berlusconi «non è paragonabile a quello Clinton-Lewinsky», poiché «qui non si tratta di stagiste, ma di squillo professioniste». La vicenda resta all´attenzione anche dello spagnolo El Pais che giudica il «comportamento di Silvio Berlusconi «grave da un punto vista morale, civico e culturale e mina la dignità della donna».

Corriere della Sera 24.6.09
Un premier in bilico fra successi elettorali e amarezze personali
di Massimo Franco


La Lega promette lunga vita al governo di Silvio Berlusconi; e soprattutto più potere a se stessa. Ed il presidente del Consiglio registra l’afferma­zione della propria maggioranza nei ballottaggi di domeni­ca e lunedì scorsi in comuni e province con un misto di sod­disfazione politica e di amarezza privata. I contraccolpi elet­torali delle inchieste sulle sue frequentazioni femminili non ci sono stati: lo riconosce anche un avversario come Massi­mo D’Alema. Dal punto di vista psicologico, però, il premier appare turbato, se non segnato. La sua rivendicazione di non avere nulla di cui scusarsi per quello che è stato accusa­to di fare, è significativa e coerente col personaggio; e così l’irritazione nei confronti dei giornali. Il risultato è un Berlu­sconi premiato dal voto; abbracciato e insieme incalzato da Bossi; eppure sulla difensiva.
A insidiarlo non sono tanto le critiche scandalizzate di Fa­miglia cristiana, che sembra dare voce a settori circoscritti del mondo cattolico, finora non sostenuti pubblicamente dalle gerarchie ecclesiastiche: anche se le reazioni aggressi­ve del centrodestra contro il settimanale mostrano nervi scoperti. L’incognita riguarda l’eventualità che nei prossimi giorni possano arrivare altri schizzi di fango: una prospetti­va che danneggerebbe il capo del governo e l’Italia come Pa­ese ospitante del G8 all’Aquila, all’inizio di luglio. Che Berlu­sconi sia distratto dalle sue questioni private è confermato dal modo in cui ritorna sulle indagini a Bari, cercando di spiegare e spiegarsi quanto è accaduto; ma rinfocolando le polemiche.
Il ministro Ignazio La Russa intravede il pericolo, e gli ri­volge un invito accorato ad oc­cuparsi di politica. Rischi di cri­si non se ne vedono, nonostan­te l’Idv di Antonio Di Pietro di­ca di puntare ad una caduta del governo in tempi rapidi. Ma il Pdl deve fronteggiare una fase nuova. L’intesa con i leghisti è stata blindata dall’esito del vo­to: con un peso accresciuto del Carroccio, però. Come era pre­vedibile, Bossi già invoca la pre­sidenza di tre regioni del Nord pensando alle elezioni del 2010. Ed il «no» preventivo del governatore della Lombar­dia, Roberto Formigoni, fa capire che col tempo la trattativa fra Pdl e Carroccio potrebbe diventare laboriosa e fonte di tensioni.
In gioco è il primato nel Nord del Paese. E Palazzo Chigi dovrà assorbire la spinta già forte a modificare in senso le­ghista l’agenda del governo; e conciliarla con alcuni malu­mori del centrodestra al Sud: nella Sicilia dominata dal Pdl la crisi della giunta rimane aperta. Una vittoria alle regionali del prossimo anno presuppone un piano accurato e concor­de, da abbozzare al più presto. La coalizione sa di potere approfittare della fase di transizione che vive il Pd; ma sa anche che non durerà all’infinito. «Se questa è una sconfit­ta, perderei sempre così», ha ironizzato Berlusconi in rispo­sta al leader democratico, Dario Franceschini, certo di vede­re nei risultati del 21 e 22 giugno un declino del Pdl. A Palaz­zo Grazioli, residenza privata romana del premier, ieri si è tenuta una prima riunione della maggioranza.
Voleva essere una conferma che si stanno mettendo a punto le priorità dei prossimi dodici mesi. E forse era anche un modo per comunicare compattezza e dinamismo. La titu­banza di Berlusconi a parlare di successori tende a scorag­giare le voci sul suo logoramento; ed a dimostrare che i com­plotti dei quali ha parlato nei giorni scorsi riflettono mano­vre velleitarie. «L’Italia ha resistito, resiste e resisterà», assi­cura il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. E mette al primo posto fra le cose da fare la riforma del federalismo fiscale. È un modo per tornare alla politica, e per sottolinea­re l’azione del governo sul fronte della crisi economica. Ser­ve anche a sfuggire ad una cronaca che schiaccia il premier su un terreno scivoloso. E lo risucchia in una spirale della quale finisce per apparire vittima e responsabile.

Repubblica 24.6.09
La tv di Al Gore e Il film sul belpaese che nessuno voleva


Salutata come un mezzo evento, la prima tv di Citizen Berlusconi è in realtà l´anteprima più postdatata di tutti i tempi. Il film-documentario di Andrea Cairola e Susan Gray risale al 2003, è stato distribuito in dvd e su internet sono disponibili ampie visioni. Ma c´è voluto il canale Current (al numero 130 di Sky) per sancirne l´approdo televisivo, lunedì in prima serata. Sulle normali reti in teoria è più facile vedere il Papa che gioca a poker. Per l´occasione, agli autori è stata chiesta una sorta di rinfrescata, aggiungendo contributi recenti dei testimoni interpellati (da Travaglio a Sartori e così via). Per scoprire che da rinfrescare c´è poco, se non in peggio, per i noti motivi. E che la questione centrale in esame nel documento, l´ascesa politica di Berlusconi insieme ad alcuni annessi e connessi, è ancora lì tutta da decifrare. Ma inserito nella filiazione italiana del canale internazionale di Al Gore, il documento permette quasi di astrarsi dall´incantesimo in cui ci troviamo e provare a riconsiderare le storie narrate come se fossero successe altrove. Con risultati interessanti, tipo la voglia di essere altrove.

Corriere della Sera 24.6.09
Democratici
L’inversione di tendenza che non c’è
di Paolo Franchi


Afferma Dario Franceschini che d’ora in avanti il Pd può lavorare con serenità al proprio futuro perché i ballottaggi segnalano, finalmente, un’«inversione di tendenza». Non è per fare i guastafeste ma un simile giudizio non è solo troppo ottimistico. È sbagliato. E, a prenderlo alla lettera, anche pericoloso. Intendiamoci. Questo voto — come quello per il Parlamen­to europeo, e assai più di quello per il pri­mo turno delle amministrative — dimostra che anche il centrodestra (un centrodestra che pure ha messo le sue radici in molte re­altà locali dove tradizionalmente era assen­te o balbettava) incontra le sue difficoltà, maggiori di quanto si potesse ritenere alla vigilia: e la più grave tra queste risiede sen­za dubbio nell’appannamento, chiamiamo­lo così, del profilo del suo leader, sin qui in­discusso e indiscutibile. Si capisce bene, dunque, perché il segretario del Pd tira un sospiro di sollievo. Il suo partito non è usci­to schiantato dalla prova, come molti teme­vano, anzi, ha dato persino qualche segno di imprevista vitalità; e l’avversario ha gua­dagnato sì una quantità di comuni e di pro­vince, ma ha perso qualcosa di quell’aura di invincibilità che lo circondava e gettava l’opposizione in uno stato di frustrazione al­meno all’apparenza inguaribile. In molti ca­si (non in tutti) il Pd e i suoi partner sono riusciti a rimobilitare per il secondo turno il proprio elettorato più e meglio di quanto sia riuscito a farlo il centrodestra: anche questo è un segnale, e per nulla scontato.
Qualcosa si muove. Viste le condizioni di partenza, e le aspettative diffuse nell’uno e nell’altro fronte, non è poco. Fare ricorso al lessico politico della nostra giovinezza per parlare di «inversione di tendenza», però, è onestamente un po’ troppo. Sempre che, si capisce, per «inversione di tendenza» si intenda, oggi come allora, un mutamento percettibile negli orientamenti di fondo del Paese; l’incrinarsi di un’egemonia; uno spo­stamento da un campo all’altro di forze e di voti, ancora limitato sì, ma comunque visi­bile ad occhio nudo; un accenno di cambia­mento del clima politico. Di tutto questo, spiace doverlo ricordare a Franceschini, non c’è ancora traccia. E anzi ci sono indizi pesanti che continuano a parlare in senso contrario, e si chiamano, tanto per fare de­gli esempi, Sassuolo, Orvieto o Prato, città in cui fino a qualche tempo fa non si sape­va esattamente che cosa fosse la destra e che adesso dalla destra sono governate.
Fossimo nei panni del segretario del Pd, lasceremmo perdere le inversioni di tenden­za. E prenderemmo atto della realtà: i ballot­taggi sottolineano, come è ovvio, che la par­tita politica non è ufficialmente riaperta, ma ci dicono pure (ecco la novità) che non è neanche irrimediabilmente chiusa come si poteva pensare e come, in effetti, un po’ tutti pensavano. Cercare di riaprirla agli oc­chi dell’opinione pubblica e degli elettori, provandosi a dimostrare che un cambia­mento è nello stesso tempo possibile e au­spicabile, spetta in tutta evidenza all’opposi­zione, e in primo luogo al Partito democrati­co. Ieri, nonostante il parere contrario di Sergio Chiamparino, il Pd ha confermato che rispetterà i tempi previsti dal suo statu­to, e in autunno terrà congresso e primarie. Benissimo. Tutto sta a vedere quale congres­so e quali primarie i democratici vorranno e sapranno fare. Non sappiamo se il Pd colti­vi ancora una sua (indimostrata e indimo­strabile) vocazione maggioritaria o stia per cominciare a ragionare di nuovo in termini di alleanze: questo dovrebbe dircelo, se ci sarà, quello che un tempo si chiamava il di­battito congressuale. Ma in ogni caso a un grande partito di opposizione che si candi­da a governare non si chiede di chiudersi in se stesso smontando e rimontando alleanze interne più o meno sotterranee, più o meno trasversali, per meglio giocare al totosegre­tario. Si chiede prima di tutto di indicare un’idea di Italia un programma e un leader che questo Paese domani possa governarlo, considerando che stavolta ben difficilmen­te potrà essere Romano Prodi a cavare le ca­stagne dal fuoco. È a dir poco dubbio che il Pd possa accingersi a una simile impresa. Ma, se non è in grado neanche di provarci, farebbe meglio a prendere atto che il proget­to non tiene, e cercare altre strade.

il Riformista 24.6.09
Donne. Nelle manifestazioni sono in prima fila, Neda è diventata il loro simbolo. Il movimento "femminista" contro il potere
Nel destino della Persia c'è sempre un'Artemisia
di Alessandra Cardinale


Nel 563 a.C. a guidare le imponenti forze navali di Ciro il Grande, re della Persia, c'èra una donna che si chiamava Artemisia. Nel 2009 Artemisia ha quarantuno anni, vive a Teheran, è laureata in legge ma la famiglia non le ha mai permesso di lavorare. Un anno fa ha deciso di aderire alla campagna "One million signatures" lanciata da un gruppo di donne iraniane per denunciare la dittatura dei mullah che da trent'anni le disprezza, molesta e umilia.
Le donne in Iran costituiscono il 65 per cento della popolazione ma solo il 12 per cento è impiegato come forza lavoro e a tutte vengono negati i diritti fondamentali. Per questi motivi alcune delle fondatrici della campagna - Nafiseh Azad, Bigard Ebrahimi solo per citare dei nomi - sono state giudicate dal regime delle sovversive, frustate e detenute in carcere. Ma la raccolta delle firme è andata avanti fino alle elezioni del 12 giungo scorso grazie anche all'aiuto di donne come Artemisia. Sabato e domenica Artemisa è scesa nelle strade di Teheran con Zahra e Atefeh, le sue amiche più strette, perché voleva protestare contro la frode elettorale di Ahmadinejad e del suo "puparo" Khamenei. «I vicini ti ascoltano e le persone possono essere sbattute in prigione per quello che dicono o scrivono» scrive sul suo diario on-line «Ma tutto questo è contagioso. Tutto quello a cui voi state assistendo è il frutto di trent'anni di oppressione e ora ne abbiamo avuto abbastanza».
Artemisia, Zahra, Nafiseh, come Oxford-girl oppure Fatica_arroui o Yoyoyoram su Twitter sono iraniane non necessariamente delle femministe nel senso occidentale del termine, ma di certo delle combattenti per i diritti delle donne e delle ribelli per lo Stato iraniano. La ribellione ha a che fare con la passione per i temi universali e le immagini delle proteste ci raccontano che sono le iraniane, con o senza hijab, con il rossetto o senza un filo di trucco, a essere in prima fila agitando cartelloni con la scritta "1979 la rivoluzione per Khomeini, 2009 la rivoluzione per i diritti umani", a volte urlando «Allah u Akbar» (Dio è grande), a volte stringendo in mano un sasso. Alcune di queste istantanee diventano inevitabilmente dei simboli perché in grado di riassumere la complessità di un momento.
È quello che è successo con la morte di Neda Agha-Soltan, ventisei anni, studentessa di filosofia, uccisa sabato scorso durante la manifestazione a Teheran da un membro delle milizie Basij. A lei gli amici e la famiglia hanno già dedicato una pagina di Wikipedia. «Se prima ci si chiedeva se gli iraniani scesi in piazza erano in lotta per il loro voto o contro il regime teocratico impersonato dall'Ayatollah Ali Khamenei ora l'uccisione di Neda ha chiarito questo importante aspetto portando via gli ultimi brandelli di rispetto che gli iraniani avevano della Guida Suprema», ha spiegato Kelly Nikinejad direttrice del sito Teheranbureau.org in collegamento con la televisione americana Abc. «"Le donne che vediamo nelle strade di Teheran sono molto coraggiose» ha continuato «vengono picchiate ogni giorno ma tornano in piazza, dicono "mi fa male qui e qui" ma il giorno dopo sono lì e ancora, vengono accecate con lo spray al peperoncino ma non mollano, sono incredibili».
Parisa, una ragazza di ventitré anni, racconta sul suo blog che non ha intenzione di farsi spaventare dagli appelli del Consiglio dei Guardiani: «Tutte quelle donne e quegli uomini in strada mi hanno fatto pensare che il mio futuro potrebbbe essere diverso da quello di mia madre, per questo voglio continuare, perché voglio la libertà».
Anche nel 1970 le donne iraniane lottavano per i proprio diritti «ma ora» spiega Roya Hakakian, giornalista iraniana costretta a lasciare il suo Paese nel 1984, «il movimento femminista è parte integrante della protesta tout court contro il regime. Gli uomini che ne fanno parte, seppur con trent'anni di ritardo, hanno finalmente capito che il loro destino è legato inevitabilmente al destino di Parisa e di Artemisia e di qualsiasi donna iraniana».

il Riformista 24.6.09
Conversazione con Alastair Crooke, esperto di movimenti politici musulmani, consigliere del governo britannico ed editorialista del Guardian
«La vera contesa è sull'eredità di Khomeini»
di Joseph Zarlingo


Il suo ultimo libro si intitola Resistence. The essence of political Islam. Poco noto in Italia al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori, Alastair Crooke, fondatore del think tank Conflict forum, con sede a Beirut dove vive da anni, è considerato uno dei massimi esperti mondiali di movimenti politici musulmani e di politica mediorientale. Ha personalmente partecipato come mediatore alle trattative che hanno portato a diversi cessate il fuoco tra palestinesi e israeliani ed è ascoltato consigliere del governo britannico.
Come giudica la situazione in Iran?
La situazione è estremamente seria, anche se in Iran, contrariamente a quello che molti governi occidentali vorrebbero, non è in corso un movimento che punta al rovesciamento della Repubblica islamica nata dalla rivoluzione del 1979. Piuttosto, direi che si tratta di una contesa su chi sia il vero erede degli ideali su cui, oltre l'accento sull'Islam, l'ayatollah Khomeini ha basato la Rivoluzione contro lo Shah. Detto questo, però, non è da escludersi che tra i sostenitori di Mir Hossein Moussavi ci siano anche settori sociali che guardano oltre e fuori il quadro costituzionale della Repubblica islamica. Una parte delle proteste potrebbe essere sfruttata da questi settori per cercare di spingere in senso più radicale, ma non credo che la maggior parte dei manifestanti voglia un cambiamento completo di sistema.
In che senso la contesa è sull'eredità di Khomeini?
Khomeini e Ali Shariati rinnovarono profondamente lo sciismo, sganciandolo da quello che era il cosiddetto «sciisimo nero», quello del lamento, del conservatorismo tradizionale, dell'immobilismo. Oggi tanto Mahmud Ahmadinejad quanto Moussavi puntano a rinnovare quella spinta, anche se hanno opinioni molto diverse su come farlo. Moussavi ha reso chiaro fin dall'inizio della protesta contro i presunti brogli che non ha intenzione di rovesciare la Repubblica islamica. Anzi, si presenta come un figlio della Rivoluzione, un discepolo di Khomeini. La Rivoluzione portava con sé enormi promesse di riscatto sociale e di redistribuzione della ricchezza, che durante gli anni dello Shah era concentrata in poche famiglie. A causa della guerra con l'Iraq, quelle promesse sono state messe da parte negli anni della giovinezza della Repubblica. Ora, ma non da ora, molti iraniani pensano che sia il momento di mantenerle.
Questa non era anche la piattaforma su cui era stato eletto la prima volta Ahmadinejad?
Sì, lo era. Ahmadinejad era stato eletto anche con questo mandato. E anzi, nelle zone rurali dove il sostegno ad Ahmadinejad è più forte, molti credono ancora in quella promessa e pensano che il campo riformista potrebbe invece portare alla fine della Repubblica. Al di là degli eccessi delle forze di polizia e della repressione, Ahmadinejad e i conservatori hanno una base di consenso popolare, soprattutto fuori da Teheran.
Il Paese è quindi spaccato?
Il Paese non è mai stato del tutto d'accordo su quale sia il modo migliore per guardare al futuro e costruirlo, c'è sempre stato molto dibattito nell'establishment della Repubblica. Ci sono sempre state divisioni, in Iran, tra i diversi settori sociali e tra le diverse componenti dello stato. Ciò che è successo è che queste divisioni, forse anche a causa della difficile situazione economica del paese, sono diventate più acute e profonde. Le divergenze di opinione, peraltro, non riguardano solo i comuni cittadini, ma attraversano tutto il corpo istituzionale della Repubblica islamica.
Come pensa che potrebbe finire questo braccio di ferro?
Non penso che in Iran ci sia una di quelle rivoluzioni colorate che piacciono in occidente. Mousavi, secondo me, sta cercando di guadagnare quanto più spazio possibile per il campo riformista, che dopo la stagione di Khatami negli anni novanta, è stato sconfitto dai conservatori. È difficile fare previsioni, ma credo che si potrebbe arrivare a un compromesso che potrebbe spostare l'asse della politica di Ahmadinejad su alcuni temi interni e forse anche internazionali. Per quanto Ahmadinejad non sembri incline al compromesso. D'altra parte, quale politico anche occidentale lo sarebbe se davvero avesse vinto le elezioni con un margine così ampio?

Corriere della Sera 24.6.09
L’intervista. Il filosofo Ramin Jahanbegloo legge gli avvenimenti di questi giorni come una crisi di legittimità del sistema
«È un movimento democratico gandhiano»
di Viviana Mazza


«Stiamo vivendo un momento 'gandhiano' in Iran» dice Ramin Jahanbegloo, il filosofo iraniano incarcerato nel 2006 nel suo Pae­se con l’accusa di sostenere la «ri­voluzione di velluto», oggi docen­te di Storia contemporanea del­­l’Iran a Toronto.
Nel suo libro pubblicato a di­cembre, Leggere Gandhi a Tehe­ran (Marsilio), Jahanbegloo indi­viduava nella riflessione gandhia­na percorsi di nonviolenza per promuovere sviluppi liberali nel mondo islamico, a cominciare dal­l’Iran. Ma l’«Onda verde» ha superato le sue stesse aspetta­tive.
Mousavi, come dicono alcuni, è un Gandhi islamico?
«No, non lo defi­nirei un Gandhi isla­mico. Ha mostrato molto coraggio, ma per essere un Gandhi devi essere a un altro livello di psicologia umana, avere qualità profetiche. Forse Mousavi ha preso la via di Gandhi senza rendersene conto. D’altra parte Gandhi diceva che la nonviolenza è antica quanto le montagne: chiunque si trovi da­vanti all’ingiustizia è spesso porta­to alla nonviolenza. E così è diven­tata una strategia rilevante per il movimento iraniano».
Il movimento ha superato dunque Mousavi?
«Se Gandhi adottò l’arcolaio co­me simbolo della nonviolenza, il movimento in Iran all’inizio ha as­sunto Mousavi come simbolo, ma poi ha trovato in Neda la madre della resistenza nonviolenta. Que­ste manifestazioni senza prece­denti in 30 anni sono spesso viste come uno scontro tra i sostenitori di Mousavi e Ahmadinejad, ma credo che le richieste vadano ol­tre le elezioni e oltre Mousavi: è in corso una crisi di legittimità del sistema. C’è una dialettica tra coloro che cercano la democrazia con metodi non violenti e il pote­re che usa la violenza. E’ un movi­mento per il cambiamento, fatto soprattutto di giovani, frustrati da economia, politica e società. Gandhi diceva: devi essere il cam­biamento che vuoi vedere nel mondo. Persone come Neda, la studentessa di filosofia caduta sot­to i proiettili, mostrano che la gio­ventù in Iran è abbastanza matu­ra da portare al cambiamento».
Lei credeva che i giovani ira­niani non fossero pronti?
«Per lungo tempo, tutti hanno pensato che fossero vittima di quella che chiamo 'sindrome di James Dean': che fossero ribelli senza causa, senza spessore etico, edonisti, individualisti, egoisti. Ma stanno mostrando di possede­re il senso della solidarietà, della reciprocità, della nonviolenza» .
L’islam ha nella sua tradizio­ne il fondamento spirituale per una disobbedienza civile non vio­lenta?
«Tutti i tipi di religione e di spi­ritualità hanno un potenziale non violento accanto a un potenziale violento. Non vedo contraddizio­ne tra spiritualità e nonviolenza».
E l’Iran ha una tradizione simi­le?
«La rivoluzione del 1979 è stata essa stessa un movimento nonvio­lento contro la dittatura. Nella sto­ria abbiamo avuto tanti tiranni, ma molti dei nostri eroi sono figu­re mistiche e religiose non violen­te ».
Obama dice che «renderà te­stimonianza » al coraggio degli iraniani. Per il Wall Street Jour­nal è una dichiarazione «gan­dhiana »: è «la testimonianza che dà potere all’approccio non­violento rendendo pubblica la sofferenza privata».
«Credo che non sia un approc­cio 'gandhiano', ma cauto. Da quando è al potere, ha cercato il dialogo con l’Iran, ma si trova in una situazione complicata. Se la violenza nelle strade dovesse au­mentare, sarà difficile un dialogo tra Iran e Stati Unit, e anche tra Iran ed Europa. L’Iran si trova in un momento cruciale sia per la po­litica interna che estera. Il 'genio' della nonviolenza è uscito dalla lampada ed è difficile che possa rientrarvi. Né Obama né Berlusco­ni né Sarkozy possono ignorarlo. Ma hanno fatto bene a non fare di­chiarazioni più aggressive. Non devono dare la sensazione che il movimento sia diretto dagli stra­nieri ».
Che probabilità di successo ha la protesta?
«L’unico modo è che resti non­violenta o sarà una carneficina. Credo che possano non solo avere la solidarietà del mondo ma an­che quella di parte della nomenk­­latura. E anche se l’attuale regime dovesse prevalere e Ahmadinejad restare, il cambiamento arriverà nei mesi e anni a venire. E’ già cambiata la mentalità della gente. Il paradigma repubblicano, moto­re della rivoluzione del ’79, e il principio di sovranità popolare so­no stati violati dal paradigma au­toritario. Non credo però che la re­sistenza porterà a una rivoluzione di velluto. Ciò che è accaduto in Cecoslovacchia e nell’Est europeo potrebbe non accadere in Iran. Ma ciò che conta è lo spessore mo­rale di ogni iraniano, è sfidare l'il­legittimità della violenza, è la vo­lontà di costruire il futuro del­­l’Iran sull’idea di verità».

Repubblica 24.6.09
Lo scrittore iraniano Majd: controproducente sostenere l’opposizione
"Gli Usa costretti alla prudenza come per la Cina di Tienanmen"
S’è aperta una nuova era. Alla fine la leadership dovrà tenere conto delle richieste di cambiamento
di Alix Van Buren


Si dice a Washington che Hooman Majd, autore del bestseller The Ayatollah begs to differ (l´Ayatollah non è d´accordo), sia dotato di una sfera di cristallo insostituibile nell´interpretare la società iraniana. Perciò quando Majd, iraniano di nascita, consigliere dell´ex presidente Khatami, parla al telefono, viene naturale domandargli quanto siano nitidi i pronostici dell´Occidente sulla protesta iraniana. E lui, di rimando: «Vi prego, smettete di parlare di rivolta. S´illude chi vede indebolito il regime. Questo è il grido di rabbia di un popolo defraudato, sì, del voto, ma in larga parte leale alla Repubblica islamica. Infatti, osservi i poteri che contano: l´esercito, la Guardia rivoluzionaria, i Basij sono con lo Stato. Hanno i numeri e, in più, le armi».
Signor Majd, lei sta prospettando una Tiananmen iraniana?
«Il rischio era grande sabato scorso, con tre milioni per le vie a dimostrare. Però, malgrado le morti devastanti di giovani iraniani, l´esercito non è intervenuto con i carri armati».
E allora in che senso?
«Nell´impossibilità del mondo esterno d´intervenire. Però, sa cosa arrivo a dirle? Che è un bene. La prudenza di Obama e dell´Europa rafforzano l´opposizione. L´ascesa dei riformisti è nell´interesse nazionale dell´America. Ogni presa di posizione offuscherebbe l´immagine delle forze del cambiamento, bollandole come strumenti dell´Occidente. Soprattutto, sarà decisivo lo scontro all´interno della leadership».
Lei cosa s´aspetta dai riformisti di Moussavi e Rafsanjani?
«Si rumoreggia che Rafsanjani, a capo dell´Assemblea dei Saggi, stia manovrando per destituire il Leader Khamenei, ma non è certo. Né probabilmente lui ha i voti per riuscirvi».
Gli altri leader religiosi, che peso avranno?
«Se parliamo di figure come il Grande Ayatollah Sanei, Khatami o Karroubi, il loro sostegno all´opposizione è significativo. È la dimostrazione che assistiamo a un pubblico parapiglia al più alto livello della Repubblica islamica. Ecco, la leadership religiosa ha assunto i tratti dei Borgia del XVI secolo. Però nulla sarà più come prima».
Che cos´è cambiato?
«Il 12 giugno in Iran s´è aperta una nuova era. La gente si è espressa e vuole essere ascoltata. Alla fine la leadership dovrà tenere conto delle richieste di cambiamento».
E se prevarrà Ahmadinejad?
«Persino lui dovrà rendersi disponibile al dialogo con l´America, perché questa è la richiesta pressante. Lui non potrà ignorarla».

il Riformista 24.6.09
Perché i criminali fascisti sono scampati alla Norimberga bis
di Boris Pahor


STORIA INVISIBILE. Per ipocrisia e diplomatico amor patrio, non si è fatto il processo contro le truppe italiane che avevano «bonificato» da sloveni e croati il Friuli Venezia Giulia.

Quando mi è stato proposto di dire dell'invisibile, il tema lo trovai importante ma ci tenni a specificare che vorrei interessarmi dell'invisibile con la i minuscola, ciò perché parlando dell'Invisibile con la "I" maiuscola il più delle volte si intende la trascendenza, il recondito Al di là, di cui veramente all'infuori di alcune congetture poco potrei affermare. Certo, si potrebbe rimproverarmi di ridurre l'Invisibile con la "I" maiuscola solo al mondo sconosciuto dell'Oltretomba mentre l'anima è anche invisibile, come ente spirituale, quindi necessariamente partecipe anche della trascendenza. Come, allora, penso di escluderla?
Non ci penso affatto, anzi, come partecipante alla vita degli esseri umani, della società umana mi interesso delle idee, delle azioni dei suoi componenti, composti a loro volta da corpo e anima. Almeno così pare. Perché prendendo, ad esempio, in esame il titolo del libro del deportato francese Robert Antelme, L'espèce humaine, e quello del libro di Primo Levi Se questo è un uomo, la parte spirituale dell'essere umano è di dubbia consistenza e difficilmente accettabile come tale. Purtroppo di questo invisibile devo trattare anche senza essere preparato per la parte che compete alla psicologia, alla psicanalisi e alle altre discipline specifiche.
Come punto di partenza riferirei ciò che nel mio racconto, conosciuto con il titolo di Necropoli (nelle traduzioni francese, inglese ed esperanto con il titolo corrispondente a Pellegrino tra le ombre) mi domandavo, erano vent'anni dalla fine del secondo conflitto mondiale: le popolazioni europee come reagiranno alla catastrofe vissuta, dato che l'atmosfera in cui vivono è pregna del male assoluto, dell'obbrobrio della distruzione di milioni di esseri umani, arsi per ragioni di razza da una parte, per ragioni di lotta antifascista e antinazista dall'altra.
Quel finimondo che poi fu completato con l'inaudita capacità di distruzione della potenza atomica ha certo, come un'invisibile energia maligna, invaso gli animi. Come faranno, inconsci come sono di questa loro infezione interna, in qualche maniera, a metabolizzarla? Ad ogni modo ci vorrà del tempo, se, e qui sta il problema principale, non saranno senza saperlo succubi, non solo dell'influenza perniciosa depositata nell'inconscio, ma dei raggiri di cui saranno vittime.
Per quanto mi riguarda già allora constatavo che i popoli dell'Europa non avevano reagito come le tremende prove vissute lo richiedevano, invece di uno scontro radicale di fronte al vissuto annullamento della normale etica, è prevalsa la tendenza a un accomodamento e, poi, a un inserimento più o meno attivo nello scontro tra il mondo occidentale e l'oriente comunista.
Purtroppo ci troviamo su un campo vasto e arduo che ora oltre agli storici stanno studiando i sociologi e gli psicologi, come già anticipatamente ho accennato. Ciò che da parte mia posso constatare personalmente è la disposizione confusa degli animi di fronte alla tendenza di non rendere visibile una parte della storia. Così, ad esempio, da noi non si fa conoscere la realtà della dittatura fascista tra le due guerre a scapito della popolazione slovena e quella croata nella Venezia Giulia, la distruzione delle case di cultura, le imposizioni di nomi e cognomi italiani, una "bonifica etnica", come la chiamarono, veramente unica, i macroprocessi, le centinaia di incarcerazioni, le condanne a morte, i centomila esuli.
Un'altra propensione riguardo all'invisibile per partito preso ce lo dà l'occultamento delle nefandezze fasciste durante la guerra, perché esponendole pubblicamente si metterebbe in troppa cattiva luce le forze armate ligie alla volontà del Duce. Così nel 1946 era già tutto preparato per un processo contro i comandanti tedeschi criminali di guerra, una Norimberga italiana, ma non se ne fece niente, perché «l'Italia, che in un primo momento aveva visto con favore la seconda Norimberga, non aveva però nessuna intenzione di consegnare i nostri generali, a partire da Roatta, a loro volta sotto accusa per crimini di guerra commessi come alleati dell'Asse».
Non giudicati e non puniti i criminali, restano così invisibili all'opinione pubblica italiana i misfatti nella parte della Slovenia occupata nel 1941 e annessa come Provincia di Lubiana. Da un resoconto dell'A.N.P.I. risultano 13.100 morti tra ostaggi, partigiani uccisi e deportati deceduti nei campi di Rab-Arbe, Gonars, Monigo Chiesanuova, Grumello, Visco e in altri. Inoltre 12.773 case distrutte e 8.850 danneggiate.
Certo, da una posizione generale da cui sono partito, ora ho preso brevemente in esame solo la maniera unilaterale di prendere in considerazione dei fatti particolari, ma lo sto facendo perché direttamente interessato, come lo sono per l'esperienza del nazismo. Il quesito si pone infatti dal fatto che da parte tedesca il male procurato dai nazisti non solo è stato riconosciuto ma ne è anche stata chiesta scusa. Ciò la guida della Repubblica democratica italiana finora non ha trovato necessario di fare. Solo qualche raro personaggio, come per esempio, Paolo Milano, che durante l'incontro del PEN Club internazionale a Bled in Slovenia nel 1965, dopo una mia esposizione della barbarie fascista subita durante un quarto di secolo, mi chiese privatamente perdono in nome della cultura italiana.
Non so come le relazioni di amicizia tra i rappresentanti del popolo italiano e di quello sloveno si evolveranno in fatto di realtà visibili e invisibili, ma sono molto preoccupato, quando leggo di migliaia e migliaia di scolari e studenti che ogni anno in febbraio vengono da noi per la Giornata del Ricordo senza essere messi al corrente di tutta la storia, di tutte le responsabilità, di tutte le memorie, di tutti i ricordi. Sì, mi domando in quale spirito di comune creatività per una amichevole convivenza si possa sperare. E penso che, forse, un primo passo potrebbe farlo l'autorità competente facendola visibile, pubblicandola, e facendo soprattutto conoscere, durante le lezioni di storia delle classi superiori, la Relazione della Commissione storico-culturale italo-slovena che, un tempo istituita dai governi italiano e sloveno, è finora rimasta nel cassetto tanto durante un governo di destra come durante quello di sinistra.

Repubblica 24.6.09
Gli anni ‘70 visti dall’America
L’evoluzione del Pci, il sequestro Moro e il rimpianto del leader scomparso, il terrorismo e l'elezione di Wojtyla nei documenti della Cia e dell’Fbi raccolti in volume da Umberto Gentiloni
di Simonetta Fiori


L´Italia degli anni Settanta vista da Washington - e ricostruita sui documenti del Dipartimento di Stato, della Cia, dell´Fbi, della Casa Bianca e di diversi fondi presidenziali - è più rassicurante di come ci viene raccontata oggi dagli "storici" di corte e, nonostante il ripetuto allarme per la "questione comunista", meno caricaturale rispetto al pericolo rosso ancora oggi rilanciato dai tarantolati dell´anticomunismo. Un paese confuso, instabile, guardato con diffidenza, ma non privo di risorse inattese. Un´Italia sospesa - recita il titolo del nuovo saggio di Umberto Gentiloni Silveri, professore di Storia contemporanea all´Università di Teramo - né eterodiretta dagli Usa o da Mosca né portatrice di una peculiarità autonoma nella cornice dell´Europa postbellica, ma fisiologicamente calata dentro il quadro della guerra fredda (sottotitolo, La crisi degli anni Settanta vista da Washington, Einaudi, pagg. 238, euro 28).
Tra i numerosi nodi di quel decennio, da qualche tempo sotto la lente della storiografia più agguerrita, può colpire la parabola dell´intelligence Usa sulla "questione comunista". Se il compromesso storico viene inizialmente osservato con molta apprensione per i rischi connessi all´ingresso del Pci nel governo italiano, la severità del giudizio tende a mitigarsi a conclusione del decennio. Ancora nel 1977 il futuro ambasciatore a Roma Richard N. Gardner viene dissuaso da Henry Kissinger dall´accettare l´incarico diplomatico in Italia «per non passare alla storia come l´ambasciatore Usa che perde l´Italia finita nel campo avverso». La presenza in Italia del più grande partito comunista d´Occidente - sintetizza Zbigniew Brzezinski, assistente di Carter per la sicurezza nazionale - è avvertita come «il più grave problema politico degli Stati Uniti in Europa».
Anche al principio del decennio, la nuova legge sul divorzio era stata accolta dall´amministrazione Usa con atteggiamenti contraddittori: da una parte si elogia lo Stato italiano che «dopo oltre un secolo dalla sua nascita è finalmente riuscito a darsi una limitata legislazione in materia di divorzio» - si legge in una nota dell´intelligence redatta il 3 dicembre 1970 - dall´altra se ne temono le conseguenze sulla tenuta del quadro politico, l´esplosione di una "guerra di religione", soprattutto un´insidiosa collusione tra Dc e Pci (come recita un memorandum del Dipartimento di Stato scritto nell´aprile del 1970). Pur mantenendosi vigile per la cospicua presenza comunista nella penisola, nella seconda metà dei Settanta l´amministrazione americana - soprattutto sotto la guida di Carter - si caratterizza per una più articolata lettura del Pci, tenuto sempre distante dalla cabina di comando, ma valorizzato nella sua progressiva autonomia da Mosca.
La svolta, nel rapporto con i comunisti italiani, è rappresentata nel marzo del 1978 dal sequestro di Aldo Moro, l´altro artefice dell´intesa tra i due grandi partiti popolari. Le carte del Dipartimento di Stato restituiscono una crescente preoccupazione degli osservatori a Washington: la politica di Moro era stata liquidata come "un ponte verso l´ignoto", ora il suo rapimento diventa un "ponte verso l´abisso". Può essere significativo il memorandum redatto il 27 aprile del 1978, ancora in parti consistenti secretato, presentato la prima volta da Gentiloni nel corso di un convegno sull´Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. «Il timore dell´abisso», spiega lo storico, «si fonda su due elementi molto evidenti: l´assenza di Moro dalla vita politica e l´incapacità del governo di trovare il leader imprigionato». Alle critiche degli anni precedenti sull´uomo "sfuggente" ed "enigmatico", subentra il rimpianto per le capacità di Moro di "garantire l´unità della Dc" e di svolgere un ruolo di controllo nella collaborazione con i comunisti. I quali - nei rapporti dell´intelligence - dismettono i panni del nemico da combattere, per diventare le sentinelle dell´ordine democratico minacciato dal terrorismo.
Prima del sequestro Moro - documenta Gentiloni - «le carte americane si interrogavano sui possibili rapporti dei brigatisti con il Pci e con le centrali del comunismo internazionale. Fino al 1977, con osservazioni anche superficiali, gli Usa tentano di evidenziare il nesso tra fenomeni terroristici e settori della sinistra storica. Sarà la collaborazione tra Dc e Pci nell´emergenza di quelle settimane a spostare l´ottica dell´intelligence americana». Soprattutto dopo l´assassinio di Moro mutano toni e giudizi all´indirizzo del partito di Enrico Berlinguer, del quale vengono elogiate "la fermezza" e "la capacità reattiva". Il leader comunista italiano cresce in affidabilità democratica, come attesta tra gli altri un documento redatto dalla Cia nel giugno del 1982, dopo il colpo di Stato di Jaruzelski in Polonia. «Le continue polemiche tra il Pci e Mosca hanno portato la relazione tra i due partiti a un punto molto critico, fino a una probabile frattura ideologica», recita la nota. In altre parole, «Berlinguer è molto distante da Mosca e lo sarà ancor di più», come si legge in un altro resoconto.
L´Italia sospesa restituisce anche il paziente lavoro di tessitura da parte del Pci nei confronti del Dipartimento di Stato americano. Vi sono impegnati uomini di punta, da Giorgio Napolitano a Pietro Ingrao e Franco Calamandrei. Nutrita la mole di documenti, conservata all´Istituto Gramsci, che fotografa le difficoltà iniziali nell´incontro tra mondi lontani, anche i non pochi ostacoli incontrati da Napolitano nell´ottenere il visto per gli Stati Uniti (cui fa riferimento il 20 maggio del 1975 una lettera di Joseph La Palombara, politologo dell´Università di Yale). Soltanto nel marzo del 1978 - nei giorni del sequestro Moro - il futuro presidente della Repubblica riesce ad arrivare sul suolo americano, ospite delle più prestigiose università e sotto i velati auspici dell´amministrazione Carter.
Tra i documenti ancora inediti in Italia, può colpire una nota della Cia all´indomani dell´elezione di Karol Wojtyla, il 16 ottobre del 1978. Tempestiva appare l´analisi degli agenti. «Un papa polacco», si legge, «avrà un effetto di lungo periodo su una grande varietà di questioni legate ai rapporti stato-chiesa». E ancora: «Avrà un effetto profondo sui partiti comunisti di paesi cattolici quali Italia, Francia e Spagna. I comunisti di questi paesi potranno forse sentirsi più liberi di manifestare la propria indipendenza da Mosca». Insomma, la comparsa sulla scena mondiale di Giovanni Paolo II appare subito un´autentica svolta, capace di mettere in discussione «le linee portanti della politica sovietica, a partire dalla conclusione della seconda guerra mondiale». Una scintilla che potrebbe rivoluzionare il vecchio continente, aggiunge l´intelligence. Più che un´analisi, una profezia.

Repubblica 24.6.09
"Le emozioni ferite", il nuovo libro di Eugenio Borgna
Il tempo della gioia e quello della felicità
di Luciana Sica


Il noto psichiatra torna a scavare nell´interiorità con un lavoro a metà tra il saggistico e il letterario insistendo sull´aspetto temporale di ogni movimento dell´anima

Le penombre della malinconia, le angosce senza oggetto, il sentimento della nostalgia, le ossessioni della colpa, le ferite dell´ansia, i rimpianti, le attese, le intermittenze del cuore: sono i temi - sempre uguali e sempre diversi - che ama trattare Eugenio Borgna, con una sua cifra personalissima.
Nel capitolo più sorprendente del suo nuovo libro - Le emozioni ferite (Feltrinelli, pagg. 222, euro 17) - l´autore si avventura invece in un territorio del tutto inedito rispetto al suo abituale lavoro di introspezione, e più in generale pochissimo esplorato, scavando nell´esperienza improvvisa e fragilissima della gioia. Da sempre molto si è pensato e si è scritto sulla condizione della felicità, ma non sull´immediatezza e sull´intemporalità della gioia che brucia in un istante, "nel presente del presente agostiniano", o anche - scriveva in una lettera Rilke - «La felicità ha il suo contrario nell´infelicità, la gioia non ha contrario, per questo è il più puro dei sentimenti».
È Borgna a ricorrere alle citazioni, e nelle sue pagine si affastellano, ma l´uso che ne fa non è mai vanesio. Per restituire il "nocciolo metafisico" dell´esperienza emozionale della gioia è al Diario di Etty Hillesum che rimanda, a un documento straordinario pubblicato da Adelphi negli anni Ottanta. L´autrice olandese, uccisa ad Auschwitz, ha scritto pagine segnate da quella che Borgna definisce "la nostalgia dell´infinito", sempre interna all´emozione della gioia. Anche in un campo di concentramento, Etty è misteriosamente capace di viverla, sorretta da una sua incredibile forza intima: «Ma cosa credete, che non veda il filo spinato, non veda i forni, non veda il dominio della morte, sì, ma vedo anche uno spicchio di cielo, e questo spicchio di cielo ce l´ho nel cuore, e in questo spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza. Non ci credete? Invece è così».
Del resto "le emozioni ferite" non sono soltanto quelle enigmatiche e apparentemente indecifrabili della vita psicopatologica ma anche quelle della più normale quotidianità, tenute però spesso segrete: sono comunque stati d´animo che chiedono di essere compresi e riconosciuti, dimensioni essenziali della condizione umana, anche forme e modalità della conoscenza - secondo il pensiero moderno.
In questo suo nuovo scavo nell´interiorità, Borgna insiste molto sull´aspetto temporale di ogni singola emozione, di ogni movimento dell´anima. Scrive: «Quando si parla di tempo non ci si riferisce, ovviamente, al tempo dell´orologio ma al tempo soggettivo, al tempo vissuto: il tempo interiore della speranza è il futuro come quello dell´attesa, il tempo interiore della nostalgia e della tristezza è il passato, benché con incrinature diverse, il tempo della gioia è il presente così friabile e così inafferrabile, il tempo dell´ira è il presente dilatato, e deformato, in slanci di aggressività, il tempo dell´ansia è il futuro: un futuro che si rivive come già realizzato nelle ombre dolorose di una morte vissuta come imminente».
A metà tra il saggistico e il letterario, tra il rigore dell´analisi e il virtuosismo del linguaggio, Le emozioni ferite di Eugenio Borgna sembrano il nuovo tassello di un´opera che si presenta sempre più coerente al suo interno, quasi un corpus unico, seppure aperto, un viaggio a tappe nei paesaggi della vita interiore, nei significati profondi della malattia e in certi nuclei psicotici della normalità - nelle condizioni comuni dell´esistenza umana che sfuggono alle classificazioni diagnostiche. Alla soglia dei settantanove anni, ancora "primario emerito" dell´Ospedale Maggiore di Novara e libero docente all´università di Milano, Borgna non ha mai smesso di coniugare certe sue personali inquietudini con i gusti intellettuali dell´umanista idiosincratico all´algore degli specialismi - conoscendo Proust e Tolstoj, Sylvia Plath e Antonia Pozzi, Heidegger e Lévinas almeno quanto Jaspers e Binswanger.
Non si tratta solo di un suo modo di pensare il dolore psichico, ma anche di un suo modo di stare al mondo, ed è in questo connubio che si rintraccia l´assoluta singolarità della scrittura di Borgna, così ostile al grigiore dei tecnicismi, quel piacere di esprimersi in un linguaggio apertamente metaforico, capace di restituire l´intensità degli affetti. Oltre alla competenza professionale dello psichiatra, si coglie la sensibilità acutissima di un uomo estraneo alle varianti intellettuali del cinismo: è intatta la sua passione per l´umanità più sofferente, non si è affatto arresa al disincanto e neppure alle sciatterie culturali di quella psichiatria "organicista", oggi dominante, che lui non esita a definire barbara.

Corriere della Sera 24.6.09
Le prime riprese della miniserie prodotta dalla Rai e da Claudia Mori sul «padre» della legge 180
Il ribelle Basaglia un eroe da fiction contro i manicomi
Fabrizio Gifuni nei panni dello psichiatra «Fu incompreso anche dai comunisti»
di Emilia Costantini


In tv le vicende di un reduce di guerra ridotto al mutismo e di un ex partigiano sottoposto a terapie crudeli

OSTIA — «Non bisogna allungare il vestito, basta accorciare il degen­te ». «Sono spettinata, vorrei pettinar­mi. Non possiedo un pettine. Ho dirit­to a un pettine!». Slogan, o piuttosto, appelli accorati, scritti sui muri da chi ha perso la dignità di essere umano: il malato di mente.
È dedicata a Franco Basaglia, colui che sconvolse il mondo dei manico­mi, la miniserie prodotta da Rai Fic­tion con la Ciao Ragazzi di Claudia Mori, in onda su Raiuno nella prossi­ma stagione. Fabrizio Gifuni è prota­gonista con Vittoria Puccini, per la re­gia e sceneggiatura di Marco Turco.
Prima c’era la città dei matti, il ma­nicomio, con tutto il suo corredo di orrori piccoli e grandi. Letti di conten­zione, camicie di forza, celle d’isola­mento, elettrochoc punitivi. In tutto il mondo occidentale, nessuno aveva mai messo in discussione il manico­mio. Almeno fino all’inizio degli anni ’60 quando, in una città di provincia del nord Italia, un giovane psichiatra ribelle provocò un incendio impensa­bile fino a qualche tempo prima.
Nella cittadina di Ostia, alle porte di Roma, nella vecchia residenza di una colonia estiva è ricostruita la casa Rosa Luxembourg, ovvero quella che era la residenza del direttore del­l’ospedale di Trieste, dove Basaglia, al­la metà degli anni ’70, creò la prima casa-famiglia, un altro passo verso quel radicale cambiamento che culmi­nerà nella legge 180. «Ma l’avventura parte da prima - avverte Gifuni - la sua esperienza prende le mosse dallo choc che, nel 1961, il giovane medico subisce quando va a lavorare all’ospe­dale di Gorizia: lui non vede un luogo di cura, ma un lager nazista. Sbarre al­le finestre, sevizie, torture. Per lui è una rivelazione ed entra in crisi pro­fonda. Basaglia è indignato. E si sente impotente: cosa può fare per cambia­re tutto questo? La risposta è una so­la: il manicomio va distrutto».
Il giovane psichiatra si trova di fronte «casi» come quello di Boris, re­duce da una guerra terribile che lo ha ridotto al mutismo, che viene «cura­to » con l’elettrochoc. Oppure Furlan, ex partigiano, sottoposto a terapie crudeli. E poi c’è Margherita (interpre­tata dalla Puccini): una ragazza bella e piena di vita, con l’unica «tara» di avere una madre ossessionata dalla colpa di averla concepita con un sol­dato americano, che poi l’ha abbando­nata. Un «peccato» che la madre scari­ca sulla figlia, abbandonadola in un istituto di suore che, per domare il ca­rattere ribelle della ragazza, la fanno ricoverare in un ospedale psichiatri­co, dove Margherita, diventata ingo­vernabile, viene tenuta in una gabbia come una bestia feroce. Interviene la Puccini: «Il mio personaggio, real­mente esistito come gli altri, oggi ver­rebbe definito una borderline. Ma a quell’epoca, gente così veniva consi­derata matta e riunchiusa. Ho visto un’intervista che è stata fatta in tempi recenti a Margherita, che ora ha circa 60 anni e vive tranquilla con due ami­che: parlando di Basaglia, si commuo­veva, le si illuminavano gli occhi, lo descriveva come il suo salvatore».
La realtà che si trova di fronte Basa­glia, dunque, è terrificante. E con la moglie Franca Ongaro, donna corag­giosa che diventerà in seguito parla­mentare, decide di cambiare quella realtà. Spiega il regista: «Comincia a scardinare i cancelli della psichiatria e a liberare una ad una le persone rin­chiuse, cancellando per sempre dai lo­ro corpi e dalle loro menti il duplice marchio del pericolo e dello scanda­lo, che le leggi e la mentalità dell’epo­ca conferivano alla follia». E nel 1973, quando Basaglia si trova già a Trieste, i «matti» escono dall’ospedale e inva­dono la città con Marco Cavallo, una macchina teatrale costruita dentro l’ospedale, una sorta di cavallo di Troia, nella cui pancia ogni degente aveva riposto le proprie speranze, de­sideri, aspirazioni. «Il suo principale obiettivo - riprende Gifuni - è rimette­re al centro l’uomo, il paziente. E il medico non deve esercitare il suo po­tere, ma il suo sapere, mettendosi al servizio del suo ruolo pubblico. Il suo pensiero è da 'eretico' della psichia­tria di quel tempo. Un pensiero che non viene compreso neanche dal Par­tito Comunista. C’è una scena nel film, realmente avvenuta, in cui Basa­glia parla nell’aula del gruppo parla­mentare a Montecitorio e i comunisti lo guardano come fosse un matto».
Al di là del medico, che tipo di uo­mo era? «Era dotato di carisma, ironi­co, sempre sorridente, uno spirito ar­guto che spiazzava l’interlocutore. La sua formazione scientifica era rigoro­sissima, ma arricchita da una forma­zione filosofica: l’unico maestro che riconosceva era Sartre». Un egocentri­co? «Aveva la giocosa irresponsabilità del bambino e dell’artista, che poteva apparire egocentrismo, data la forte personalità. Ma in realtà era tutto il contrario: ha dedicato la sua vita agli altri».

Liberazione 23.6.09
«La repressione è inutile. Ormai il regime è finito»
di Guido Caldiron


Nei giorni scorsi ha chiesto ai leader occidentali di non intervenire sulla situazione iraniana per non offire al regime possibili appigli per denunciare "ingerenze" o "manipolazioni straniere" su quello che definisce come «un movimento spontaneo e autorganizzato». Del resto non c'è bisogno di accellerazioni, perché il regime dei mullah, per lui, sta già cadendo.
Abolhassan Banisadr è stato il primo Presidente della Repubblica Islamica dell'Iran, incarico che ha ricoperto dal 4 febbraio del 1980 al 22 giugno del 1981, quando è stato deposto dall'Ayatollah Khomeini. Tra i maggiori leader studenteschi iraniani, Banisadr partecipò ai movimenti di protesta contro lo Scià fin dagli anni Sessanta e, costretto a fuggire, rientrò nel paese quando la Rivoluzione stava per scoppiare, nel febbraio del 1979. Fu lo stesso Khomeini a volerlo alla guida del paese per non dare l'impressione che l'Iran rivoluzionario fosse guidato soltanto da religiosi. Una cautela che durò ben poco: dapprima Banisadr fu vittima di alcuni attentati, a cui scampò per puro caso, e poi fu allontano dal potere dall'Ayatollah che incarnava la deriva teocratica della Rivoluzione. Fuggito in Francia, l'ex premier iraniano vive da allora a Evreux, alle porte di Parigi, mantenendo viva la memoria di una Rivoluzione che fu tradita da una parte dei suoi ispiratori e trasformata in un regime autoritario.
Lei è stato uno dei protagonisti della Rivoluzione del 1979, le piazze iraniane di oggi le sembrano assomigliare a quelle di allora?
Forse le immagini che si vedono in televisione possono far pensare a quanto accaduto trent'anni fa, ma in realtà credo che le cose siano molto diverse e in ogni caso è diversa la realtà sociale e politica in cui hanno luogo. Quello che si può dire è che il movimento di oggi potrebbe completare e portare a compimento quanto si è lasciato incompiuto alla fine degli anni Settanta. Mi spiego. Nel 1979 le strutture del potere ruotavano intorno alla monarchia e al clero, l'economia si divideva tra la borghesia dei bazar nelle città e i grandi proprietari terrieri nelle campagne. La rottura che intervenne allora nella società iraniana fece in realtà seguito a delle trasformazioni economiche e produttive che erano state introdotte dalla stessa dittatura dello Scià che aveva cercato di modernizzare, sebbene in senso autoritario, il paese. Poi, la rivoluzione abbattè a sua volta la monarchia, vale a dire uno dei due pilastri tradizionali del potere nel mio paese. Oggi il quesito che ci si deve porre riguarda la possibilità o meno che il movimento in corso in Iran sia in grado di scardinare anche l'altro perno centrale del potere, vale a dire il ruolo del clero sciita. Per gli iraniani si tratta di girare una pagina che si sarebbe voluta e dovuta girare già trent'anni fa, concludere quel processo di trasformazione che a causa del tradimento di Khomeini e dei mullah non riuscimmo a portare a termine. La rivoluzione del 1979 si concluse con l'instaurazione della dittatura dei mullah, esattamente quel potere che oggi nelle strade del mio paese si vuole abbattere. E se anche il regime potrà avere nell'immediato ragione delle proteste, il processo che si è messo in moto nel mio paese non credo possa essere più fermato: la dittatura dei mullah è condannata alla scomparsa.
Nel corso dell'ultimo decennio non sono mancati in Iran dei movimenti di contestazione come quello sorto nelle univeristà intorno al 2000 e soffocato dalla repressione. Le mobilitazioni di oggi sembrano però avere una "base sociale" molto più larga assomigliando, almeno in questo, alle piazze rivoluzionarie del 1979. Cosa ne pensa?
Effettivamente oggi non si può parlare di una mobilitazione studentesca perché ad essere coinvolti sono tutti i settori della società iraniana. Certo, ci sono gli studenti che rappresentano in qualche modo il motore della protesta, ma accanto a loro ci sono gli operai, gli insegnati, la gente dei bazar e talvolta anche dei religiosi. Inoltre le manifestazioni si susseguono non solo a Teheran, ma anche in tutte la altre città di provincia. Si tratta di un movimento di massa che coinvolge una parte significativa della società. Quanto ai paragoni con la Rivoluzione del'79 vorrei sottolineare un elemento a mio avviso di grande interesse: allora le manifestazioni si protrassero per più di un anno prima che il regime dello Scià crollasse. All'inizio non si trattava nemmeno di mobilitazioni quotidiane come sta accadendo invece oggi, potevano passare anche trenta o quaranta giorni tra un corteo e l'altro. Nel frattempo intervenivano l'esercito e le forze dell'ordine, spesso si sparava sulla folla in modo sistematico, eppure la gente si ritrovava nuovamente a riempire strade e piazze a ogni nuovo appuntamento cone le proteste. Solo nell'ultimo mese le manifestazioni divennero quotidiane, coinvolgendo tutta la popolazione, compresi gli impiegati dell'amministrazione dello Scià e i lavoratori dell'industria petrolifera. Questo fino alla cacciata dei Pahlavi dal paese. Oggi siamo al decimo giorno di mobilitazione e le piazze non si sono mai svuotate, e questo malgrado la repressione e i morti. Giorno dopo giorno le persone si ritrovano a sfilare per strada e esprimere la loro rabbia senza paura. E ora si comincia a parlare di uno sciopero generale che blocchi tutto l'Iran.
Accanto alle spinte che vengono dalle piazze, crede che il regime potrà conoscere una sorta di "autoriforma" visto che anche il principale avversario elettorale di Ahmadinejad, Moussavi, proviene dall'establishment?
Da questo punto di vista le cose sono cambiate con il passare dei giorni. Fino a venerdi scorso, infatti, quando la massima autorità della Repubblica Islamica, l'Ayatollah Kamenei ha preso pubblicamente posizione in favore di Ahmadinejad, in piazza si erano levati pochi slogan contro di lui, mentre il cuore della protesta aveva riguardato l'esito delle elezioni, le modalità del voto e dello scrutinio delle schede. Poi, dopo che Kamenei è intervenuto per lanciare le sue minacce ai manifestanti e per dire che nulla doveva cambiare e che il popolo aveva espresso con il voto il suo appoggio al regime, tutto è cambiato. A quel punto infatti nelle piazze iraniane si sono cominciati a sentire anche slogan contro di lui e contro lo stesso sistema di potere che rappresenta. Ques'esempio serve a indicare come gli iraniani chiedendo semplicemente una verifica del voto e trasparenza hanno nei fatti messo in discussione gli stessi meccanismi di funzionamento del "sistema". A questo punto l'idea che il regime possa cambiare dall'interno sembra superata dai fatti: chiedere democrazia e una legalità che rispetti ogni cittadino e le sue scelte, è diventato inconciliabile con la continuazione del potere dei mullah.
Ahmadinejad e Kamenei continuano a negare ogni apertura ai contestatori e se la prendono con le "ingerenze straniere", intanto le piazze continuano però a riempirsi. Quali scenari si possono aprire ora per l'Iran?
Credo che quanto sta accadendo per le strade dell'Iran non possa più essere fermato, potrà accadere per qualche tempo ma non per il futuro: la dittatura religiosa è finita. Detto questo è difficile prevedere i passi concreti che ciascuno potrà fare fin dalle prossime ore. Ragionando in teoria, si possono però fare alcune ipotesi. La prima è che il Presidente Ahmadinejad decida di dimettersi e si organizzino nuove elezioni per dimostrare che il regime tutto sommato funziona. Ipotesi che è però stata fin qui smentita dai fatti e dalle parole di Kamenei, autorità suprema del paese e protettore di Ahmadinejad. Un'altra ipotesi riguarda la possibilità di cui si è già avuta traccia, anche se non su larga scala, che si scateni una repressione sistematica e generalizzata per far sì che il movimento si fermi. In questo senso ci sono stati segnali molto duri: sia Moussavi che Karrubi, l'altro candidato riformista che si è presentato alle elezioni, sono stati minacciati se non avessero abbandonato la guida delle proteste e i basiji, i membri della milizia popolare, sono arrivati a chiedere la loro incriminazione e la loro condanna a morte. Ovviamente c'è poi l'ipotesi che prevede, come sta poi accadendo almeno in parte nei fatti, che gli ex candidati dell'opposizione e la gente che continua a riempire le piazze non facciano alcun passo indietro e che i due blocchi in cui si divide oggi la politica iraniana finiscano per misurarsi fino in fondo. Da una parte Ahmadinejad e Kamenei e il loro sistema di potere corrotto e mafioso e dall'altra tutte le opposizioni riunite, oltre a Moussavi e Karrubi anche i riformatori dell'ex Presidente Khatami e quella parte del clero sciita che fa rifemento all'Ayatollah Rafsanjani.
Lei ha dovuto abbandonare l'Iran nel 1981, oggi le sembra possibile immaginare di poter tornare in un paese che abbia finalmente ritrovato la libertà e la democrazia?
Lo spero con tutto me stesso. In questi anni sono stato uno dei pochi politici iraniani che dall'esilio hanno immaginato che il loro paese si potesse liberare non attraverso la lotta armata o solo per una implosione del regime. Ho sempre detto e pensato che sarebbe stato un movimento di massa, spontaneo e autorganizzato a riportare a Teheran democrazia e libertà. Oggi so che il regime religioso sta per cadere e che l'Iran potrà tornare ad essere un paese libero e indipendente.

Liberazione 23.6.09
La grandiosa lotta delle donne iraniane
di Lidia Menapace


Mi pare importantissimo che il nostro giornale voglia sottolineare ciò che dovrebbe essere visibile a tutti, e cioè la straordinaria presenza delle donne di qualsiasi età nel movimento iraniano.
Questa decisione smuove dentro di me ricordi che cominciano da lontano. La prima immagine è quella della allora giovane figlia di Rafsanjani in visita a Roma, che chiede di incontrare le femministe romane: veniamo invitate all'ambasciata dell'Iran e decidiamo di andarci tutte a capo scoperto e braccia nude (era estate). L'ambasciata ci accoglie con l'aria condizionata al massino, sicchè corriamo a tirar fuori dalle borse tutti gli scialletti le sciarpe i foulard che abbiamo, e si comincia, capendo che tra popoli antichi l'esercizio della allusione è comune. La giovane iraniana è vestita di un abito beige accollato, maniche lunghe, calze di cotone bianco e sembra una monachina, ha in capo una specie di copricapo da suora.
Appena incomincia a parlare appare molto colta anche di cultura italiana, libera, capace politicamente e capiamo che per il corpo delle donne il vestiario è simbolicamente fortissimo, e quando viene trasformato dal corpo-mente della donna che lo abita, questo è un successo ancora più grande.
Comunque con lei è una conversazione molto bella, di vera rapida relazione tra noi. Chiediamo di una giovane adultera lapidata e ci dice che su pressione delle donne il giudice che ha emesso la barbara sentenza è stato cacciato ecc. A un certo punto chiediamo se il velo è d'obbligo per il Corano e improvvisamente da una stanza appresso esce un giovane che dice essere lui autorizzato a rispondere su materia religiosa. E' un giovane bellissimo, un bello impossibile, sembra la canzone della Nannini. Dice che il corpo della donna deve essere tenuto coperto perché provoca eccitazione e ciò deve essere riservato al solo marito. Restiamo incredule che una cosa così si possa ufficialmente sostenere. Ma, a proposito di eccitazione, qualcuna tra noi comincia ad ammiccare: in fin dei conti il bello impossibile è abbastanza eccitante e allora incominciamo a dirgli che i suoi occhi eccitano e soprattutto il bel collo bianco muscoloso e nudo che esce dal colletto della camicia: il povero scappa!
Anni dopo a Pechino, l'Udi, di cui faccio parte, incontra donne islamiche e discutiamo un po' fra noi su come debbono essere valutate le varie delegazioni dei paesi islamici. Le delegazioni degli Emirati vengono dette "Ong dei governi" dalle libere donne islamiche di altre delegazioni. E ci dicono che sotto gli abiti neri e le mascherine a tutto volto hanno macchine fotografiche che cavano fuori appena vedono una donna dai tratti mediorientali a capo scoperto. Sicché da allora tutte noi appena vediamo una donna tutta velata ci mettiamo davanti a quelle che vuole fotografare: debbono esserci un tot di mie foto nei loro archivi.
E a questo punto non posso non ricordare la donna iraniana esule a Parigi che narra la sua storia. Era studente all'università di Teheran quando cadde lo Schah Reza Pahlevì e per esprimersi contro la occidentalizzazione forzata che egli aveva imposto anche vietando il velo, se lo era appunto rimesso in capo. Appena torna a casa, sua madre che la vede velata scoppia a piangere e le dice: «Tu non sai che cosa c'è, che cosa c'era sotto il velo!» e madre e figlia si raccontano molte complicate cose su come il progresso economico tecnico sociale possa legarsi anche al più tremendo regresso culturale e religioso.
E se veniamo al movimento odierno è stato quasi simbolicamente rappresentato dalla campagna elettorale durante la quale il primo avversario di Ahmadinejad fa comizi e viaggi insieme alla moglie che dicono anche sua ispiratrice politica. E mentre vado ad Adria per un ultimo comizio per il ballottaggio viene a prendermi alla stazione una compagna iraniana che sta lì e che con altri immigrati e immigrate forniti di cittadinanza hanno sostenuto la nostra lista fino dal primo turno. Considero ciò un grande titolo di gloria. La compagna iraniana spera per il suo paese, parla, è contenta.
E le immagini che ci arrivano sono un vero trionfo di ragazze a capo scoperto, di giovani donne ridenti e disinvolte col velo, di donne mature più caute e con abiti più tradizionali: ma è del tutto evidente che le donne sono uno dei punti più importanti sui quali si gioca la partita. E quando sugli schermi compare il volto della figlia di Rafsanjani scarcerata dopo essere stata presa durante i "disordini"; e poi l'avvocata esule premio Nobel per i diritti civili, sentiamo donne col velo magari, ma che sanno bene quali sono i diritti e citano testi di legge e denunciano le illegalità. Mentre sulla piazza i ragazzi del movimento si chinano sgomenti e commossi sul corpo della loro giovanissima compagna uccisa.
Viene fuori una lotta grandiosa per la liberazione gestita insieme tra donne molto diverse tra loro. E da tutto il popolo giovane e consapevole. Lasciare che possa spegnersi o che venga violentemente spenta una tale primavera politica del mondo sarebbe un vero crimine: è dovere di chiunque gridare che non si possono reprimere diritti fondamentali, un simile bisogno di libertà e cammino di liberazione, quando appaiono. Si capisce o no che non si tratta di vedere se Obama ce la fa o se ce la fa l'Inghilterra, secondo logiche imperiali? E se Obama non farebbe bene a diffidare di troppo zelanti e servili alleati? Se bisogna criticare l'invito dell'Iran a Venezia? Bisogna chiedere che le Nazioni unite chiamino l'Iran a rendere conto della soppressione delle fondamentali libertà civili e politiche della maggioranza della popolazione e della legalità di un evento elettorale del quale i risultati escono due ore dopo chiusi i seggi e il controllo consisterebbe nel sostenere che si sono trovati tre milioni in più degli elettori, ma ciò non fa problema! Che l'Iran renda noti i suoi straordinari metodi di conteggio dei voti, che compriamo tutti il brevetto.
Non dobbiamo permettere che le cose del mondo vengano gestite da un uomo solo o da scambi invisibili tra pochi. E per tutti e soprattutto per tutte deve essere chiaro che non si può scambiare aiuiti alle banche con guerra in Afghanistan, borse e oppressione delle donne. Per le donne arrivare ad essere cittadine passa per la scuola e l'università, l'accesso al lavoro e alla società, non per l'essere veline. In questo senso l'Iran insegna. Secondo me, se si potesse affidare la risoluzione dei problemi iraniani a un comitato di molte donne, come è successo al concerto di Milano per l'Abruzzo, verrebbe fuori che siamo anche capaci di organizzarci e di essere efficaci (talvolta persino più degli uomini: parlo di concerti ovviamente).