l’Unità 24.6.09
La guerra feroce dei maschi sconfitti
di Valeria ViganòIeri a Milano l’ennesimo omicidio di una donna. Era davanti all’asilo nido col suo bambino di due anni in braccio. L’ex marito l’ha uccisa a coltellate. Erano separati da quattro mesi
Ieri. Un asilo nido come gli altri, a Milano est, un’ora solita della mattina, le 8 e 40. Una mamma che porta il figlio di due anni in braccio in mezzo a tante altre mamme. Un cortile prima dell'ingresso pieno di bambini. Lo scenario semplice delle chiacchiere e dei saluti, manine che si agitano, sorrisi affettuosi. Il mondo dell'infanzia viene profanato all’improvviso da un padre, pregiudicato sì, ma sempre padre. È accanto alla mamma che tiene abbracciato il figlio e contemporaneamente e fatalmente riceve una telefonata. Il padre ha con sé un coltello da cucina. Perché? In un baleno ficca l’arma in petto alla ex-moglie, lei barcolla, lui la colpisce quattro volte tra le urla di terrore di chi è presente. La ammazza. Ma prima che lei crolli, una bidella riesce a afferrare il piccolo e scappare via. Cronaca cruda di una violenza intollerabile. Cronaca che si ripete quasi quotidianamente in un elenco interminabile di vittime predestinate: tutte donne. Una vera e propria guerra sanguinaria contro un sesso che ha solo una colpa: non si sottomette più, non piega più la testa, non acconsente per dovere, pensa in autonomia, Si pensa libero come l’altro, il maschile.
La guerra disperata degli uomini usa molte armi cruente: pugni, calci, stupri, coltellate, pistolettate, fucilate. Passa per le grandi metropoli e i piccoli centri di provincia, da nord a sud. È perpetrata da maschi di ogni età. Le motivazioni di questa guerra passano da una debolezza piena di incapacità, da una cecità, un rifiuto, una pochezza, dalla rabbia che si fa forza belluina. La rabbia di non poter più pretendere di essere amati nei modi e nei tempi decisi da una sola parte, la loro. E la rabbia di non poter più gestire un matrimonio, una convivenza, i figli senza contraddittorio.
Gli uomini si sentono spodestati dalla maturazione femminile degli ultimi quarant’anni, dalla consapevolezza e dalla voglia di parità che le donne hanno pensato, elaborato, messo in atto tra mille fatiche ma alle quali non vogliono e non possono più rinunciare. La chiamerei desiderio di pari dignità della persona umana. Alla quale gli uomini non erano storicamente abituati e per la quale in questi quarant’anni non hanno speso che pochi spiccioli. Disinteressati, inermi o sempre più incazzati non hanno reagito con la riflessione, ma con l’incomprensione di un processo evolutivo della società civile nella sua interezza. Solo i più sensibili hanno ascoltato, provato a accompagnare il mutamento che toglieva loro potere e comando.
I molti maschi che non accettano la propria apparente sconfitta non l’hanno tollerato. Senza altre armi dialettiche hanno cominciato a la guerra su due fronti: il primo, appena meno violento, è la riproposizione non di un modello casalingo retrò ma di un modello femminile puttanesco di impronta televisiva, corroborato dal do ut des dei potenti; il secondo appartiene a chi non ha quel potere e nessuna merce di scambio. Troppi uomini che non accedono alla possibilità del ricatto usano la furia. Puniscono. Costringono. E, quando vedono che non riescono più a stare al passo con le donne che dicono di amare, le uccidono.
Repubblica 24.6.09
La verità che non può dire
di Giuseppe D’AvanzoBerlusconi esige da noi, per principio e diritto divino, come se davvero fosse "unto dal Signore", la passiva accettazione dei suoi discorsi. Pretende che non ci siano repliche o rilievi alle sue parole. Reclama per sé il monopolio di un´apparenza che si cucina in casa con i cuochi di famiglia. Senza contraddittorio, senza una domanda, senza un´increspatura, senza la solidità dei fatti da lui addirittura non contraddetti, senza un estraneo nei dintorni. Vuole solo famigli e salariati. Con loro, il Cavaliere frantuma la realtà degradata che vive. La rimonta come gli piace a mano libera e ce la consegna pulita e illuminata bene. A noi tocca soltanto diventare spettatori – plaudenti – della sua performance. Berlusconi ci deve immaginare così rincitrulliti da illuderci di poter capire qualcosa di quel che accade (è accaduto) non servendoci di ciò che sappiamo, ma credendo a ciò che egli ci rivela dopo aver confuso e oscurato quel che già conosciamo. Quindi, via ogni fatto accertato o da lui confessato; via le testimonianze scomode; via documenti visivi; via i giornalisti impiccioni e ostinati che possono ricordarglieli; via anche l´anchorman gregario e quindi preferito; via addirittura la televisione canaglia che da una smorfia può rivelare uno stato d´animo e una debolezza.
Berlusconi, che pare aver smarrito il suo grandioso senso di sé, si rimpannuccia sul divano di casa affidandosi alle calde cure del direttore di Chi. Insensibile alle contraddizioni, non si accorge dell´impudico paradosso: censurare i presunti pettegolezzi dalle colonne di un settimanale della sua Mondadori, specializzato in gossip. Dimentico di quanto poca fortuna gli abbia portato il titolo di Porta a Porta (5 maggio) "Adesso parlo io" (di Veronica e di Noemi), ci riprova. "Adesso parlo io" strilla la copertina di Chi. Il palinsesto è unico.
In un´atmosfera da caminetto, il premier ricompone la solita scena patinata da fotoromanzo a cui non crede più nessuno, neppure nel suo campo. La tavolozza del colore è sempre quella: una famiglia unita nel ricordo sempre vivo di mamma Rosa e nell´affetto dei figli; l´amore per Veronica ferito – certo – ma impossibile da cancellare; la foto con il nipotino; una vita irreprensibile che non impone discolpa; l´ingenuità di un uomo generoso e accogliente che non si è accorto della presenza accanto a lui, una notte, di una "squillo" di cui naturalmente non ha bisogno e non ha pagato perché da macho latino conserva ancora il "piacere della conquista".
Acconciata così la sua esistenza che il più benevolo oggi definisce al contrario "licenziosa", chi la racconta in altro modo non può essere che un "nemico". Da un´inimicizia brutale sono animati i giornali che, insultati ma non smentiti, raccontano quel che accade nelle residenze del presidente. Antagonisti malevoli, prevenuti o interessati sono quegli editori che non azzittiscono d´imperio le loro redazioni. C´è qualcosa di luciferino (o di vagamente folle) nella pretesa che l´opinione pubblica – pur manipolata da un´informazione servile – s´ingozzi con questo intruglio. Dimentico di governare un Paese occidentale, una società aperta, una democrazia (ancora) liberale, il capo del governo pare convinto che, ripetendo con l´insistenza di un disco rotto, la litania della sua esemplare "storia italiana" possa rianimare l´ormai esausta passione nazionale per l´infallibilità della sua persona. È persuaso che, mentendo, gli riesca di sollecitare ancora un odio radicale (nell´odio ritrova le energie smarrite e il consenso dei "fanatizzati") contro chi intravede e racconta e si interroga – nell´interesse pubblico – sui lati bui della sua vita che ne pregiudicano la reputazione di uomo di governo e, ampiamente, la sua affidabilità internazionale. Berlusconi sembra non voler comprendere quanto grave – per sé e per il Paese – sia la situazione in cui si è cacciato e ha cacciato la rispettabilità dell´Italia. Ha voluto convertire, con un tocco magico e prepotente, le "preferite" del suo harem in titolari della sovranità popolare trasformando il suo privato in pubblico. Non ha saputo ancora spiegare, dopo averlo fatto con parole bugiarde, la frequentazione di minorenni che ora passeggiano, minacciose, dinanzi al portone di Palazzo Chigi. Ha intrattenuto rapporti allegri con un uomo che, per business, ha trasformato le tangenti alla politica in meretricio per i politici. Il capo del governo deve ora fronteggiare i materiali fonici raccolti nella sua stanza da letto da una prostituta e le foto scattate da "ragazze-immagine", qualsiasi cosa significhi, nel suo bagno privato mentre ogni giorno propone il nome nuovo di una "squillo" che ha partecipato alle feste a Villa Certosa o a Palazzo Grazioli (che pressione danno a Berlusconi, oggi?).
La quieta scena familiare proposta da Chi difficilmente riuscirà a ridurre la consistenza di quel che, all´inizio di questa storia tragica, si è intravisto e nel prosieguo si è irrobustito: la febbre di Berlusconi, un´inclinazione psicopatologica, una sexual addiction sfogata in "spettacolini" affollati di prostitute, minorenni, "farfalline", "tartarughine", "bamboline" coccolate da "Papi" tra materassi extralarge nei palazzi del governo ornati dal tricolore. Una condizione (uno scandalo) che impone di chiedere, con la moglie, quale sia oggi lo stato di salute del presidente del Consiglio; quale sia la sua vulnerabilità politica; quanta sia l´insicurezza degli affari di Stato; quale sia la sua ricattabilità personale. Come possono responsabilmente, questi "buchi", essere liquidati come affari privati?
La riduzione a privacy di questo deficit di autorità e autorevolezza non consentirà a Berlusconi di tirarsi su dal burrone in cui è caduto da solo. Ipotizzare un "mandato retribuito" per la "escort" che ricorda gli incontri con il presidente a Palazzo Grazioli è una favola grottesca prima di essere malinconica (la D´Addario è stata prima intercettata e poi convocata come persona informata dei fatti). Evocare un "complotto" di questo giornale è soltanto un atto di intimidazione inaccettabile.
Ripetendo sempre gli stessi passi come un automa, lo stesso ritornello come un cantante che conosce una sola canzone, Berlusconi appare incapace di dire quelle parole di verità che lo toglierebbero d´impaccio. Non può dirle, come è sempre più chiaro. La sua vita, e chi ne è stato testimone, non gli consente di dirle. È questo il macigno che oggi il capo del governo si porta sulle spalle. Non riuscirà a liberarsene mentendo. Non sempre la menzogna è più plausibile della realtà. Soprattutto quando un Paese desidera e si aspetta di sentire la verità su chi (e da chi) lo governa.
Repubblica 24.6.09
I giornali inglesi: il leader più sessista d’Europa. Die Welt: anche la Chiesa ora prende le distanze
La stampa estera e il Cavaliere "Scandalo sempre più grave"
di Enrico Franceschini"Una tragedia che Mani Pulite sulla corruzione politica abbia condotto a tutto questo"
Londra - Il leader «più sessista d´Europa». Una versione «da fumetto» dello stereotipo del maschio italiano. Un primo ministro che continua a sorridere, mentre lo scandalo attorno a lui «si aggrava di giorno in giorno». Così i media britannici e di altri paesi europei descrivono Silvio Berlusconi, alle prese con gli ultimi sviluppi della vicenda cominciata con la 18enne Noemi Letizia e finita con le escort nella sua residenza romana. Se il premier sperava di ignorare le accuse, aspettando che passasse la tempesta, si sbagliava, riassume il Guardian di Londra: «E´ improbabile che passerà prima dell´arrivo in Italia dei leader mondiali per il summit del G8 del mese prossimo». E il Times titola sull´iniziativa, lanciata dalla rivista Micromega e ripresa da un gruppo di docenti universitarie di Milano, Padova e Perugia, di esortare le "first-lady" del G8 a «snobbare il summit», come protesta contro il «maschilista Berlusconi».
L´editoriale non firmato del Guardian, il secondo nel giro di poche settimane contro Berlusconi, è durissimo. «Il suo atteggiamento verso le donne è solo una tra la costellazione di ragioni per le quali gli italiani non avrebbero dovuto mandarlo per tre volte al potere. Il suo successo è un prodotto piuttosto che una causa del collasso del sistema politico italiano, un collasso che ha indebolito la sinistra e il centro, lasciando campo libero a opportunisti e xenofobi. E´ una tragedia che l´indagine giudiziaria di Mani pulite sulla corruzione politica, che sembrava promettere un grande rinnovamento della politica italiana, abbia condotto a tutto questo».
Per il Times, che gli dedica la copertina del suo inserto T2, Berlusconi interpreta il suo ruolo pubblico come una «via di mezzo tra un proprietario di night club e un attore da cabaret, una versione esagerata, da fumetto, dello stereotipo del maschio italiano: vanesio, borioso e sessualmente insicuro», simbolo di uomini cresciuti da madri iper-protettive, abituati fin dalla nascita a essere perdonati in tutto. «Ma sospetto che in questo caso», scrive l´articolista, Sarah Vine, «l´Italia non gliela perdonerà, perché c´è una cosa che gli italiani non sopportano e che diventerà ancora più evidente quando il mese prossimo Berlusconi ospiterà il G8: essere umiliati dai media stranieri. Farsi beccare con i calzoni abbassati è una tale brutta figura. E questo, in Italia, è un peccato imperdonabile».
Il tono non è diverso sul resto della stampa europea. In Germania, per esempio, il conservatore Die Welt, vicinissimo alla cancelleria e alla Cdu, scrive, in prima pagina, che la chiesa critica il premier e dà ampio risalto alle richieste di elezioni anticipate. Il giornale sottolinea quindi che il caso di Berlusconi «non è paragonabile a quello Clinton-Lewinsky», poiché «qui non si tratta di stagiste, ma di squillo professioniste». La vicenda resta all´attenzione anche dello spagnolo El Pais che giudica il «comportamento di Silvio Berlusconi «grave da un punto vista morale, civico e culturale e mina la dignità della donna».
Corriere della Sera 24.6.09
Un premier in bilico fra successi elettorali e amarezze personali
di Massimo FrancoLa Lega promette lunga vita al governo di Silvio Berlusconi; e soprattutto più potere a se stessa. Ed il presidente del Consiglio registra l’affermazione della propria maggioranza nei ballottaggi di domenica e lunedì scorsi in comuni e province con un misto di soddisfazione politica e di amarezza privata. I contraccolpi elettorali delle inchieste sulle sue frequentazioni femminili non ci sono stati: lo riconosce anche un avversario come Massimo D’Alema. Dal punto di vista psicologico, però, il premier appare turbato, se non segnato. La sua rivendicazione di non avere nulla di cui scusarsi per quello che è stato accusato di fare, è significativa e coerente col personaggio; e così l’irritazione nei confronti dei giornali. Il risultato è un Berlusconi premiato dal voto; abbracciato e insieme incalzato da Bossi; eppure sulla difensiva.
A insidiarlo non sono tanto le critiche scandalizzate di Famiglia cristiana, che sembra dare voce a settori circoscritti del mondo cattolico, finora non sostenuti pubblicamente dalle gerarchie ecclesiastiche: anche se le reazioni aggressive del centrodestra contro il settimanale mostrano nervi scoperti. L’incognita riguarda l’eventualità che nei prossimi giorni possano arrivare altri schizzi di fango: una prospettiva che danneggerebbe il capo del governo e l’Italia come Paese ospitante del G8 all’Aquila, all’inizio di luglio. Che Berlusconi sia distratto dalle sue questioni private è confermato dal modo in cui ritorna sulle indagini a Bari, cercando di spiegare e spiegarsi quanto è accaduto; ma rinfocolando le polemiche.
Il ministro Ignazio La Russa intravede il pericolo, e gli rivolge un invito accorato ad occuparsi di politica. Rischi di crisi non se ne vedono, nonostante l’Idv di Antonio Di Pietro dica di puntare ad una caduta del governo in tempi rapidi. Ma il Pdl deve fronteggiare una fase nuova. L’intesa con i leghisti è stata blindata dall’esito del voto: con un peso accresciuto del Carroccio, però. Come era prevedibile, Bossi già invoca la presidenza di tre regioni del Nord pensando alle elezioni del 2010. Ed il «no» preventivo del governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, fa capire che col tempo la trattativa fra Pdl e Carroccio potrebbe diventare laboriosa e fonte di tensioni.
In gioco è il primato nel Nord del Paese. E Palazzo Chigi dovrà assorbire la spinta già forte a modificare in senso leghista l’agenda del governo; e conciliarla con alcuni malumori del centrodestra al Sud: nella Sicilia dominata dal Pdl la crisi della giunta rimane aperta. Una vittoria alle regionali del prossimo anno presuppone un piano accurato e concorde, da abbozzare al più presto. La coalizione sa di potere approfittare della fase di transizione che vive il Pd; ma sa anche che non durerà all’infinito. «Se questa è una sconfitta, perderei sempre così», ha ironizzato Berlusconi in risposta al leader democratico, Dario Franceschini, certo di vedere nei risultati del 21 e 22 giugno un declino del Pdl. A Palazzo Grazioli, residenza privata romana del premier, ieri si è tenuta una prima riunione della maggioranza.
Voleva essere una conferma che si stanno mettendo a punto le priorità dei prossimi dodici mesi. E forse era anche un modo per comunicare compattezza e dinamismo. La titubanza di Berlusconi a parlare di successori tende a scoraggiare le voci sul suo logoramento; ed a dimostrare che i complotti dei quali ha parlato nei giorni scorsi riflettono manovre velleitarie. «L’Italia ha resistito, resiste e resisterà», assicura il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. E mette al primo posto fra le cose da fare la riforma del federalismo fiscale. È un modo per tornare alla politica, e per sottolineare l’azione del governo sul fronte della crisi economica. Serve anche a sfuggire ad una cronaca che schiaccia il premier su un terreno scivoloso. E lo risucchia in una spirale della quale finisce per apparire vittima e responsabile.
Repubblica 24.6.09
La tv di Al Gore e Il film sul belpaese che nessuno volevaSalutata come un mezzo evento, la prima tv di Citizen Berlusconi è in realtà l´anteprima più postdatata di tutti i tempi. Il film-documentario di Andrea Cairola e Susan Gray risale al 2003, è stato distribuito in dvd e su internet sono disponibili ampie visioni. Ma c´è voluto il canale Current (al numero 130 di Sky) per sancirne l´approdo televisivo, lunedì in prima serata. Sulle normali reti in teoria è più facile vedere il Papa che gioca a poker. Per l´occasione, agli autori è stata chiesta una sorta di rinfrescata, aggiungendo contributi recenti dei testimoni interpellati (da Travaglio a Sartori e così via). Per scoprire che da rinfrescare c´è poco, se non in peggio, per i noti motivi. E che la questione centrale in esame nel documento, l´ascesa politica di Berlusconi insieme ad alcuni annessi e connessi, è ancora lì tutta da decifrare. Ma inserito nella filiazione italiana del canale internazionale di Al Gore, il documento permette quasi di astrarsi dall´incantesimo in cui ci troviamo e provare a riconsiderare le storie narrate come se fossero successe altrove. Con risultati interessanti, tipo la voglia di essere altrove.
Corriere della Sera 24.6.09
Democratici
L’inversione di tendenza che non c’è
di Paolo FranchiAfferma Dario Franceschini che d’ora in avanti il Pd può lavorare con serenità al proprio futuro perché i ballottaggi segnalano, finalmente, un’«inversione di tendenza». Non è per fare i guastafeste ma un simile giudizio non è solo troppo ottimistico. È sbagliato. E, a prenderlo alla lettera, anche pericoloso. Intendiamoci. Questo voto — come quello per il Parlamento europeo, e assai più di quello per il primo turno delle amministrative — dimostra che anche il centrodestra (un centrodestra che pure ha messo le sue radici in molte realtà locali dove tradizionalmente era assente o balbettava) incontra le sue difficoltà, maggiori di quanto si potesse ritenere alla vigilia: e la più grave tra queste risiede senza dubbio nell’appannamento, chiamiamolo così, del profilo del suo leader, sin qui indiscusso e indiscutibile. Si capisce bene, dunque, perché il segretario del Pd tira un sospiro di sollievo. Il suo partito non è uscito schiantato dalla prova, come molti temevano, anzi, ha dato persino qualche segno di imprevista vitalità; e l’avversario ha guadagnato sì una quantità di comuni e di province, ma ha perso qualcosa di quell’aura di invincibilità che lo circondava e gettava l’opposizione in uno stato di frustrazione almeno all’apparenza inguaribile. In molti casi (non in tutti) il Pd e i suoi partner sono riusciti a rimobilitare per il secondo turno il proprio elettorato più e meglio di quanto sia riuscito a farlo il centrodestra: anche questo è un segnale, e per nulla scontato.
Qualcosa si muove. Viste le condizioni di partenza, e le aspettative diffuse nell’uno e nell’altro fronte, non è poco. Fare ricorso al lessico politico della nostra giovinezza per parlare di «inversione di tendenza», però, è onestamente un po’ troppo. Sempre che, si capisce, per «inversione di tendenza» si intenda, oggi come allora, un mutamento percettibile negli orientamenti di fondo del Paese; l’incrinarsi di un’egemonia; uno spostamento da un campo all’altro di forze e di voti, ancora limitato sì, ma comunque visibile ad occhio nudo; un accenno di cambiamento del clima politico. Di tutto questo, spiace doverlo ricordare a Franceschini, non c’è ancora traccia. E anzi ci sono indizi pesanti che continuano a parlare in senso contrario, e si chiamano, tanto per fare degli esempi, Sassuolo, Orvieto o Prato, città in cui fino a qualche tempo fa non si sapeva esattamente che cosa fosse la destra e che adesso dalla destra sono governate.
Fossimo nei panni del segretario del Pd, lasceremmo perdere le inversioni di tendenza. E prenderemmo atto della realtà: i ballottaggi sottolineano, come è ovvio, che la partita politica non è ufficialmente riaperta, ma ci dicono pure (ecco la novità) che non è neanche irrimediabilmente chiusa come si poteva pensare e come, in effetti, un po’ tutti pensavano. Cercare di riaprirla agli occhi dell’opinione pubblica e degli elettori, provandosi a dimostrare che un cambiamento è nello stesso tempo possibile e auspicabile, spetta in tutta evidenza all’opposizione, e in primo luogo al Partito democratico. Ieri, nonostante il parere contrario di Sergio Chiamparino, il Pd ha confermato che rispetterà i tempi previsti dal suo statuto, e in autunno terrà congresso e primarie. Benissimo. Tutto sta a vedere quale congresso e quali primarie i democratici vorranno e sapranno fare. Non sappiamo se il Pd coltivi ancora una sua (indimostrata e indimostrabile) vocazione maggioritaria o stia per cominciare a ragionare di nuovo in termini di alleanze: questo dovrebbe dircelo, se ci sarà, quello che un tempo si chiamava il dibattito congressuale. Ma in ogni caso a un grande partito di opposizione che si candida a governare non si chiede di chiudersi in se stesso smontando e rimontando alleanze interne più o meno sotterranee, più o meno trasversali, per meglio giocare al totosegretario. Si chiede prima di tutto di indicare un’idea di Italia un programma e un leader che questo Paese domani possa governarlo, considerando che stavolta ben difficilmente potrà essere Romano Prodi a cavare le castagne dal fuoco. È a dir poco dubbio che il Pd possa accingersi a una simile impresa. Ma, se non è in grado neanche di provarci, farebbe meglio a prendere atto che il progetto non tiene, e cercare altre strade.
il Riformista 24.6.09
Donne. Nelle manifestazioni sono in prima fila, Neda è diventata il loro simbolo. Il movimento "femminista" contro il potere
Nel destino della Persia c'è sempre un'Artemisia
di Alessandra CardinaleNel 563 a.C. a guidare le imponenti forze navali di Ciro il Grande, re della Persia, c'èra una donna che si chiamava Artemisia. Nel 2009 Artemisia ha quarantuno anni, vive a Teheran, è laureata in legge ma la famiglia non le ha mai permesso di lavorare. Un anno fa ha deciso di aderire alla campagna "One million signatures" lanciata da un gruppo di donne iraniane per denunciare la dittatura dei mullah che da trent'anni le disprezza, molesta e umilia.
Le donne in Iran costituiscono il 65 per cento della popolazione ma solo il 12 per cento è impiegato come forza lavoro e a tutte vengono negati i diritti fondamentali. Per questi motivi alcune delle fondatrici della campagna - Nafiseh Azad, Bigard Ebrahimi solo per citare dei nomi - sono state giudicate dal regime delle sovversive, frustate e detenute in carcere. Ma la raccolta delle firme è andata avanti fino alle elezioni del 12 giungo scorso grazie anche all'aiuto di donne come Artemisia. Sabato e domenica Artemisa è scesa nelle strade di Teheran con Zahra e Atefeh, le sue amiche più strette, perché voleva protestare contro la frode elettorale di Ahmadinejad e del suo "puparo" Khamenei. «I vicini ti ascoltano e le persone possono essere sbattute in prigione per quello che dicono o scrivono» scrive sul suo diario on-line «Ma tutto questo è contagioso. Tutto quello a cui voi state assistendo è il frutto di trent'anni di oppressione e ora ne abbiamo avuto abbastanza».
Artemisia, Zahra, Nafiseh, come Oxford-girl oppure Fatica_arroui o Yoyoyoram su Twitter sono iraniane non necessariamente delle femministe nel senso occidentale del termine, ma di certo delle combattenti per i diritti delle donne e delle ribelli per lo Stato iraniano. La ribellione ha a che fare con la passione per i temi universali e le immagini delle proteste ci raccontano che sono le iraniane, con o senza hijab, con il rossetto o senza un filo di trucco, a essere in prima fila agitando cartelloni con la scritta "1979 la rivoluzione per Khomeini, 2009 la rivoluzione per i diritti umani", a volte urlando «Allah u Akbar» (Dio è grande), a volte stringendo in mano un sasso. Alcune di queste istantanee diventano inevitabilmente dei simboli perché in grado di riassumere la complessità di un momento.
È quello che è successo con la morte di Neda Agha-Soltan, ventisei anni, studentessa di filosofia, uccisa sabato scorso durante la manifestazione a Teheran da un membro delle milizie Basij. A lei gli amici e la famiglia hanno già dedicato una pagina di Wikipedia. «Se prima ci si chiedeva se gli iraniani scesi in piazza erano in lotta per il loro voto o contro il regime teocratico impersonato dall'Ayatollah Ali Khamenei ora l'uccisione di Neda ha chiarito questo importante aspetto portando via gli ultimi brandelli di rispetto che gli iraniani avevano della Guida Suprema», ha spiegato Kelly Nikinejad direttrice del sito Teheranbureau.org in collegamento con la televisione americana Abc. «"Le donne che vediamo nelle strade di Teheran sono molto coraggiose» ha continuato «vengono picchiate ogni giorno ma tornano in piazza, dicono "mi fa male qui e qui" ma il giorno dopo sono lì e ancora, vengono accecate con lo spray al peperoncino ma non mollano, sono incredibili».
Parisa, una ragazza di ventitré anni, racconta sul suo blog che non ha intenzione di farsi spaventare dagli appelli del Consiglio dei Guardiani: «Tutte quelle donne e quegli uomini in strada mi hanno fatto pensare che il mio futuro potrebbbe essere diverso da quello di mia madre, per questo voglio continuare, perché voglio la libertà».
Anche nel 1970 le donne iraniane lottavano per i proprio diritti «ma ora» spiega Roya Hakakian, giornalista iraniana costretta a lasciare il suo Paese nel 1984, «il movimento femminista è parte integrante della protesta tout court contro il regime. Gli uomini che ne fanno parte, seppur con trent'anni di ritardo, hanno finalmente capito che il loro destino è legato inevitabilmente al destino di Parisa e di Artemisia e di qualsiasi donna iraniana».
il Riformista 24.6.09
Conversazione con Alastair Crooke, esperto di movimenti politici musulmani, consigliere del governo britannico ed editorialista del Guardian
«La vera contesa è sull'eredità di Khomeini»
di Joseph ZarlingoIl suo ultimo libro si intitola Resistence. The essence of political Islam. Poco noto in Italia al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori, Alastair Crooke, fondatore del think tank Conflict forum, con sede a Beirut dove vive da anni, è considerato uno dei massimi esperti mondiali di movimenti politici musulmani e di politica mediorientale. Ha personalmente partecipato come mediatore alle trattative che hanno portato a diversi cessate il fuoco tra palestinesi e israeliani ed è ascoltato consigliere del governo britannico.
Come giudica la situazione in Iran?
La situazione è estremamente seria, anche se in Iran, contrariamente a quello che molti governi occidentali vorrebbero, non è in corso un movimento che punta al rovesciamento della Repubblica islamica nata dalla rivoluzione del 1979. Piuttosto, direi che si tratta di una contesa su chi sia il vero erede degli ideali su cui, oltre l'accento sull'Islam, l'ayatollah Khomeini ha basato la Rivoluzione contro lo Shah. Detto questo, però, non è da escludersi che tra i sostenitori di Mir Hossein Moussavi ci siano anche settori sociali che guardano oltre e fuori il quadro costituzionale della Repubblica islamica. Una parte delle proteste potrebbe essere sfruttata da questi settori per cercare di spingere in senso più radicale, ma non credo che la maggior parte dei manifestanti voglia un cambiamento completo di sistema.
In che senso la contesa è sull'eredità di Khomeini?
Khomeini e Ali Shariati rinnovarono profondamente lo sciismo, sganciandolo da quello che era il cosiddetto «sciisimo nero», quello del lamento, del conservatorismo tradizionale, dell'immobilismo. Oggi tanto Mahmud Ahmadinejad quanto Moussavi puntano a rinnovare quella spinta, anche se hanno opinioni molto diverse su come farlo. Moussavi ha reso chiaro fin dall'inizio della protesta contro i presunti brogli che non ha intenzione di rovesciare la Repubblica islamica. Anzi, si presenta come un figlio della Rivoluzione, un discepolo di Khomeini. La Rivoluzione portava con sé enormi promesse di riscatto sociale e di redistribuzione della ricchezza, che durante gli anni dello Shah era concentrata in poche famiglie. A causa della guerra con l'Iraq, quelle promesse sono state messe da parte negli anni della giovinezza della Repubblica. Ora, ma non da ora, molti iraniani pensano che sia il momento di mantenerle.
Questa non era anche la piattaforma su cui era stato eletto la prima volta Ahmadinejad?
Sì, lo era. Ahmadinejad era stato eletto anche con questo mandato. E anzi, nelle zone rurali dove il sostegno ad Ahmadinejad è più forte, molti credono ancora in quella promessa e pensano che il campo riformista potrebbe invece portare alla fine della Repubblica. Al di là degli eccessi delle forze di polizia e della repressione, Ahmadinejad e i conservatori hanno una base di consenso popolare, soprattutto fuori da Teheran.
Il Paese è quindi spaccato?
Il Paese non è mai stato del tutto d'accordo su quale sia il modo migliore per guardare al futuro e costruirlo, c'è sempre stato molto dibattito nell'establishment della Repubblica. Ci sono sempre state divisioni, in Iran, tra i diversi settori sociali e tra le diverse componenti dello stato. Ciò che è successo è che queste divisioni, forse anche a causa della difficile situazione economica del paese, sono diventate più acute e profonde. Le divergenze di opinione, peraltro, non riguardano solo i comuni cittadini, ma attraversano tutto il corpo istituzionale della Repubblica islamica.
Come pensa che potrebbe finire questo braccio di ferro?
Non penso che in Iran ci sia una di quelle rivoluzioni colorate che piacciono in occidente. Mousavi, secondo me, sta cercando di guadagnare quanto più spazio possibile per il campo riformista, che dopo la stagione di Khatami negli anni novanta, è stato sconfitto dai conservatori. È difficile fare previsioni, ma credo che si potrebbe arrivare a un compromesso che potrebbe spostare l'asse della politica di Ahmadinejad su alcuni temi interni e forse anche internazionali. Per quanto Ahmadinejad non sembri incline al compromesso. D'altra parte, quale politico anche occidentale lo sarebbe se davvero avesse vinto le elezioni con un margine così ampio?
Corriere della Sera 24.6.09
L’intervista. Il filosofo Ramin Jahanbegloo legge gli avvenimenti di questi giorni come una crisi di legittimità del sistema
«È un movimento democratico gandhiano»
di Viviana Mazza«Stiamo vivendo un momento 'gandhiano' in Iran» dice Ramin Jahanbegloo, il filosofo iraniano incarcerato nel 2006 nel suo Paese con l’accusa di sostenere la «rivoluzione di velluto», oggi docente di Storia contemporanea dell’Iran a Toronto.
Nel suo libro pubblicato a dicembre, Leggere Gandhi a Teheran (Marsilio), Jahanbegloo individuava nella riflessione gandhiana percorsi di nonviolenza per promuovere sviluppi liberali nel mondo islamico, a cominciare dall’Iran. Ma l’«Onda verde» ha superato le sue stesse aspettative.
Mousavi, come dicono alcuni, è un Gandhi islamico?
«No, non lo definirei un Gandhi islamico. Ha mostrato molto coraggio, ma per essere un Gandhi devi essere a un altro livello di psicologia umana, avere qualità profetiche. Forse Mousavi ha preso la via di Gandhi senza rendersene conto. D’altra parte Gandhi diceva che la nonviolenza è antica quanto le montagne: chiunque si trovi davanti all’ingiustizia è spesso portato alla nonviolenza. E così è diventata una strategia rilevante per il movimento iraniano».
Il movimento ha superato dunque Mousavi?
«Se Gandhi adottò l’arcolaio come simbolo della nonviolenza, il movimento in Iran all’inizio ha assunto Mousavi come simbolo, ma poi ha trovato in Neda la madre della resistenza nonviolenta. Queste manifestazioni senza precedenti in 30 anni sono spesso viste come uno scontro tra i sostenitori di Mousavi e Ahmadinejad, ma credo che le richieste vadano oltre le elezioni e oltre Mousavi: è in corso una crisi di legittimità del sistema. C’è una dialettica tra coloro che cercano la democrazia con metodi non violenti e il potere che usa la violenza. E’ un movimento per il cambiamento, fatto soprattutto di giovani, frustrati da economia, politica e società. Gandhi diceva: devi essere il cambiamento che vuoi vedere nel mondo. Persone come Neda, la studentessa di filosofia caduta sotto i proiettili, mostrano che la gioventù in Iran è abbastanza matura da portare al cambiamento».
Lei credeva che i giovani iraniani non fossero pronti?
«Per lungo tempo, tutti hanno pensato che fossero vittima di quella che chiamo 'sindrome di James Dean': che fossero ribelli senza causa, senza spessore etico, edonisti, individualisti, egoisti. Ma stanno mostrando di possedere il senso della solidarietà, della reciprocità, della nonviolenza» .
L’islam ha nella sua tradizione il fondamento spirituale per una disobbedienza civile non violenta?
«Tutti i tipi di religione e di spiritualità hanno un potenziale non violento accanto a un potenziale violento. Non vedo contraddizione tra spiritualità e nonviolenza».
E l’Iran ha una tradizione simile?
«La rivoluzione del 1979 è stata essa stessa un movimento nonviolento contro la dittatura. Nella storia abbiamo avuto tanti tiranni, ma molti dei nostri eroi sono figure mistiche e religiose non violente ».
Obama dice che «renderà testimonianza » al coraggio degli iraniani. Per il Wall Street Journal è una dichiarazione «gandhiana »: è «la testimonianza che dà potere all’approccio nonviolento rendendo pubblica la sofferenza privata».
«Credo che non sia un approccio 'gandhiano', ma cauto. Da quando è al potere, ha cercato il dialogo con l’Iran, ma si trova in una situazione complicata. Se la violenza nelle strade dovesse aumentare, sarà difficile un dialogo tra Iran e Stati Unit, e anche tra Iran ed Europa. L’Iran si trova in un momento cruciale sia per la politica interna che estera. Il 'genio' della nonviolenza è uscito dalla lampada ed è difficile che possa rientrarvi. Né Obama né Berlusconi né Sarkozy possono ignorarlo. Ma hanno fatto bene a non fare dichiarazioni più aggressive. Non devono dare la sensazione che il movimento sia diretto dagli stranieri ».
Che probabilità di successo ha la protesta?
«L’unico modo è che resti nonviolenta o sarà una carneficina. Credo che possano non solo avere la solidarietà del mondo ma anche quella di parte della nomenklatura. E anche se l’attuale regime dovesse prevalere e Ahmadinejad restare, il cambiamento arriverà nei mesi e anni a venire. E’ già cambiata la mentalità della gente. Il paradigma repubblicano, motore della rivoluzione del ’79, e il principio di sovranità popolare sono stati violati dal paradigma autoritario. Non credo però che la resistenza porterà a una rivoluzione di velluto. Ciò che è accaduto in Cecoslovacchia e nell’Est europeo potrebbe non accadere in Iran. Ma ciò che conta è lo spessore morale di ogni iraniano, è sfidare l'illegittimità della violenza, è la volontà di costruire il futuro dell’Iran sull’idea di verità».
Repubblica 24.6.09
Lo scrittore iraniano Majd: controproducente sostenere l’opposizione
"Gli Usa costretti alla prudenza come per la Cina di Tienanmen"
S’è aperta una nuova era. Alla fine la leadership dovrà tenere conto delle richieste di cambiamento
di Alix Van BurenSi dice a Washington che Hooman Majd, autore del bestseller The Ayatollah begs to differ (l´Ayatollah non è d´accordo), sia dotato di una sfera di cristallo insostituibile nell´interpretare la società iraniana. Perciò quando Majd, iraniano di nascita, consigliere dell´ex presidente Khatami, parla al telefono, viene naturale domandargli quanto siano nitidi i pronostici dell´Occidente sulla protesta iraniana. E lui, di rimando: «Vi prego, smettete di parlare di rivolta. S´illude chi vede indebolito il regime. Questo è il grido di rabbia di un popolo defraudato, sì, del voto, ma in larga parte leale alla Repubblica islamica. Infatti, osservi i poteri che contano: l´esercito, la Guardia rivoluzionaria, i Basij sono con lo Stato. Hanno i numeri e, in più, le armi».
Signor Majd, lei sta prospettando una Tiananmen iraniana?
«Il rischio era grande sabato scorso, con tre milioni per le vie a dimostrare. Però, malgrado le morti devastanti di giovani iraniani, l´esercito non è intervenuto con i carri armati».
E allora in che senso?
«Nell´impossibilità del mondo esterno d´intervenire. Però, sa cosa arrivo a dirle? Che è un bene. La prudenza di Obama e dell´Europa rafforzano l´opposizione. L´ascesa dei riformisti è nell´interesse nazionale dell´America. Ogni presa di posizione offuscherebbe l´immagine delle forze del cambiamento, bollandole come strumenti dell´Occidente. Soprattutto, sarà decisivo lo scontro all´interno della leadership».
Lei cosa s´aspetta dai riformisti di Moussavi e Rafsanjani?
«Si rumoreggia che Rafsanjani, a capo dell´Assemblea dei Saggi, stia manovrando per destituire il Leader Khamenei, ma non è certo. Né probabilmente lui ha i voti per riuscirvi».
Gli altri leader religiosi, che peso avranno?
«Se parliamo di figure come il Grande Ayatollah Sanei, Khatami o Karroubi, il loro sostegno all´opposizione è significativo. È la dimostrazione che assistiamo a un pubblico parapiglia al più alto livello della Repubblica islamica. Ecco, la leadership religiosa ha assunto i tratti dei Borgia del XVI secolo. Però nulla sarà più come prima».
Che cos´è cambiato?
«Il 12 giugno in Iran s´è aperta una nuova era. La gente si è espressa e vuole essere ascoltata. Alla fine la leadership dovrà tenere conto delle richieste di cambiamento».
E se prevarrà Ahmadinejad?
«Persino lui dovrà rendersi disponibile al dialogo con l´America, perché questa è la richiesta pressante. Lui non potrà ignorarla».
il Riformista 24.6.09
Perché i criminali fascisti sono scampati alla Norimberga bis
di Boris PahorSTORIA INVISIBILE. Per ipocrisia e diplomatico amor patrio, non si è fatto il processo contro le truppe italiane che avevano «bonificato» da sloveni e croati il Friuli Venezia Giulia.
Quando mi è stato proposto di dire dell'invisibile, il tema lo trovai importante ma ci tenni a specificare che vorrei interessarmi dell'invisibile con la i minuscola, ciò perché parlando dell'Invisibile con la "I" maiuscola il più delle volte si intende la trascendenza, il recondito Al di là, di cui veramente all'infuori di alcune congetture poco potrei affermare. Certo, si potrebbe rimproverarmi di ridurre l'Invisibile con la "I" maiuscola solo al mondo sconosciuto dell'Oltretomba mentre l'anima è anche invisibile, come ente spirituale, quindi necessariamente partecipe anche della trascendenza. Come, allora, penso di escluderla?
Non ci penso affatto, anzi, come partecipante alla vita degli esseri umani, della società umana mi interesso delle idee, delle azioni dei suoi componenti, composti a loro volta da corpo e anima. Almeno così pare. Perché prendendo, ad esempio, in esame il titolo del libro del deportato francese Robert Antelme, L'espèce humaine, e quello del libro di Primo Levi Se questo è un uomo, la parte spirituale dell'essere umano è di dubbia consistenza e difficilmente accettabile come tale. Purtroppo di questo invisibile devo trattare anche senza essere preparato per la parte che compete alla psicologia, alla psicanalisi e alle altre discipline specifiche.
Come punto di partenza riferirei ciò che nel mio racconto, conosciuto con il titolo di Necropoli (nelle traduzioni francese, inglese ed esperanto con il titolo corrispondente a Pellegrino tra le ombre) mi domandavo, erano vent'anni dalla fine del secondo conflitto mondiale: le popolazioni europee come reagiranno alla catastrofe vissuta, dato che l'atmosfera in cui vivono è pregna del male assoluto, dell'obbrobrio della distruzione di milioni di esseri umani, arsi per ragioni di razza da una parte, per ragioni di lotta antifascista e antinazista dall'altra.
Quel finimondo che poi fu completato con l'inaudita capacità di distruzione della potenza atomica ha certo, come un'invisibile energia maligna, invaso gli animi. Come faranno, inconsci come sono di questa loro infezione interna, in qualche maniera, a metabolizzarla? Ad ogni modo ci vorrà del tempo, se, e qui sta il problema principale, non saranno senza saperlo succubi, non solo dell'influenza perniciosa depositata nell'inconscio, ma dei raggiri di cui saranno vittime.
Per quanto mi riguarda già allora constatavo che i popoli dell'Europa non avevano reagito come le tremende prove vissute lo richiedevano, invece di uno scontro radicale di fronte al vissuto annullamento della normale etica, è prevalsa la tendenza a un accomodamento e, poi, a un inserimento più o meno attivo nello scontro tra il mondo occidentale e l'oriente comunista.
Purtroppo ci troviamo su un campo vasto e arduo che ora oltre agli storici stanno studiando i sociologi e gli psicologi, come già anticipatamente ho accennato. Ciò che da parte mia posso constatare personalmente è la disposizione confusa degli animi di fronte alla tendenza di non rendere visibile una parte della storia. Così, ad esempio, da noi non si fa conoscere la realtà della dittatura fascista tra le due guerre a scapito della popolazione slovena e quella croata nella Venezia Giulia, la distruzione delle case di cultura, le imposizioni di nomi e cognomi italiani, una "bonifica etnica", come la chiamarono, veramente unica, i macroprocessi, le centinaia di incarcerazioni, le condanne a morte, i centomila esuli.
Un'altra propensione riguardo all'invisibile per partito preso ce lo dà l'occultamento delle nefandezze fasciste durante la guerra, perché esponendole pubblicamente si metterebbe in troppa cattiva luce le forze armate ligie alla volontà del Duce. Così nel 1946 era già tutto preparato per un processo contro i comandanti tedeschi criminali di guerra, una Norimberga italiana, ma non se ne fece niente, perché «l'Italia, che in un primo momento aveva visto con favore la seconda Norimberga, non aveva però nessuna intenzione di consegnare i nostri generali, a partire da Roatta, a loro volta sotto accusa per crimini di guerra commessi come alleati dell'Asse».
Non giudicati e non puniti i criminali, restano così invisibili all'opinione pubblica italiana i misfatti nella parte della Slovenia occupata nel 1941 e annessa come Provincia di Lubiana. Da un resoconto dell'A.N.P.I. risultano 13.100 morti tra ostaggi, partigiani uccisi e deportati deceduti nei campi di Rab-Arbe, Gonars, Monigo Chiesanuova, Grumello, Visco e in altri. Inoltre 12.773 case distrutte e 8.850 danneggiate.
Certo, da una posizione generale da cui sono partito, ora ho preso brevemente in esame solo la maniera unilaterale di prendere in considerazione dei fatti particolari, ma lo sto facendo perché direttamente interessato, come lo sono per l'esperienza del nazismo. Il quesito si pone infatti dal fatto che da parte tedesca il male procurato dai nazisti non solo è stato riconosciuto ma ne è anche stata chiesta scusa. Ciò la guida della Repubblica democratica italiana finora non ha trovato necessario di fare. Solo qualche raro personaggio, come per esempio, Paolo Milano, che durante l'incontro del PEN Club internazionale a Bled in Slovenia nel 1965, dopo una mia esposizione della barbarie fascista subita durante un quarto di secolo, mi chiese privatamente perdono in nome della cultura italiana.
Non so come le relazioni di amicizia tra i rappresentanti del popolo italiano e di quello sloveno si evolveranno in fatto di realtà visibili e invisibili, ma sono molto preoccupato, quando leggo di migliaia e migliaia di scolari e studenti che ogni anno in febbraio vengono da noi per la Giornata del Ricordo senza essere messi al corrente di tutta la storia, di tutte le responsabilità, di tutte le memorie, di tutti i ricordi. Sì, mi domando in quale spirito di comune creatività per una amichevole convivenza si possa sperare. E penso che, forse, un primo passo potrebbe farlo l'autorità competente facendola visibile, pubblicandola, e facendo soprattutto conoscere, durante le lezioni di storia delle classi superiori, la Relazione della Commissione storico-culturale italo-slovena che, un tempo istituita dai governi italiano e sloveno, è finora rimasta nel cassetto tanto durante un governo di destra come durante quello di sinistra.
Repubblica 24.6.09
Gli anni ‘70 visti dall’America
L’evoluzione del Pci, il sequestro Moro e il rimpianto del leader scomparso, il terrorismo e l'elezione di Wojtyla nei documenti della Cia e dell’Fbi raccolti in volume da Umberto Gentiloni
di Simonetta FioriL´Italia degli anni Settanta vista da Washington - e ricostruita sui documenti del Dipartimento di Stato, della Cia, dell´Fbi, della Casa Bianca e di diversi fondi presidenziali - è più rassicurante di come ci viene raccontata oggi dagli "storici" di corte e, nonostante il ripetuto allarme per la "questione comunista", meno caricaturale rispetto al pericolo rosso ancora oggi rilanciato dai tarantolati dell´anticomunismo. Un paese confuso, instabile, guardato con diffidenza, ma non privo di risorse inattese. Un´Italia sospesa - recita il titolo del nuovo saggio di Umberto Gentiloni Silveri, professore di Storia contemporanea all´Università di Teramo - né eterodiretta dagli Usa o da Mosca né portatrice di una peculiarità autonoma nella cornice dell´Europa postbellica, ma fisiologicamente calata dentro il quadro della guerra fredda (sottotitolo, La crisi degli anni Settanta vista da Washington, Einaudi, pagg. 238, euro 28).
Tra i numerosi nodi di quel decennio, da qualche tempo sotto la lente della storiografia più agguerrita, può colpire la parabola dell´intelligence Usa sulla "questione comunista". Se il compromesso storico viene inizialmente osservato con molta apprensione per i rischi connessi all´ingresso del Pci nel governo italiano, la severità del giudizio tende a mitigarsi a conclusione del decennio. Ancora nel 1977 il futuro ambasciatore a Roma Richard N. Gardner viene dissuaso da Henry Kissinger dall´accettare l´incarico diplomatico in Italia «per non passare alla storia come l´ambasciatore Usa che perde l´Italia finita nel campo avverso». La presenza in Italia del più grande partito comunista d´Occidente - sintetizza Zbigniew Brzezinski, assistente di Carter per la sicurezza nazionale - è avvertita come «il più grave problema politico degli Stati Uniti in Europa».
Anche al principio del decennio, la nuova legge sul divorzio era stata accolta dall´amministrazione Usa con atteggiamenti contraddittori: da una parte si elogia lo Stato italiano che «dopo oltre un secolo dalla sua nascita è finalmente riuscito a darsi una limitata legislazione in materia di divorzio» - si legge in una nota dell´intelligence redatta il 3 dicembre 1970 - dall´altra se ne temono le conseguenze sulla tenuta del quadro politico, l´esplosione di una "guerra di religione", soprattutto un´insidiosa collusione tra Dc e Pci (come recita un memorandum del Dipartimento di Stato scritto nell´aprile del 1970). Pur mantenendosi vigile per la cospicua presenza comunista nella penisola, nella seconda metà dei Settanta l´amministrazione americana - soprattutto sotto la guida di Carter - si caratterizza per una più articolata lettura del Pci, tenuto sempre distante dalla cabina di comando, ma valorizzato nella sua progressiva autonomia da Mosca.
La svolta, nel rapporto con i comunisti italiani, è rappresentata nel marzo del 1978 dal sequestro di Aldo Moro, l´altro artefice dell´intesa tra i due grandi partiti popolari. Le carte del Dipartimento di Stato restituiscono una crescente preoccupazione degli osservatori a Washington: la politica di Moro era stata liquidata come "un ponte verso l´ignoto", ora il suo rapimento diventa un "ponte verso l´abisso". Può essere significativo il memorandum redatto il 27 aprile del 1978, ancora in parti consistenti secretato, presentato la prima volta da Gentiloni nel corso di un convegno sull´Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. «Il timore dell´abisso», spiega lo storico, «si fonda su due elementi molto evidenti: l´assenza di Moro dalla vita politica e l´incapacità del governo di trovare il leader imprigionato». Alle critiche degli anni precedenti sull´uomo "sfuggente" ed "enigmatico", subentra il rimpianto per le capacità di Moro di "garantire l´unità della Dc" e di svolgere un ruolo di controllo nella collaborazione con i comunisti. I quali - nei rapporti dell´intelligence - dismettono i panni del nemico da combattere, per diventare le sentinelle dell´ordine democratico minacciato dal terrorismo.
Prima del sequestro Moro - documenta Gentiloni - «le carte americane si interrogavano sui possibili rapporti dei brigatisti con il Pci e con le centrali del comunismo internazionale. Fino al 1977, con osservazioni anche superficiali, gli Usa tentano di evidenziare il nesso tra fenomeni terroristici e settori della sinistra storica. Sarà la collaborazione tra Dc e Pci nell´emergenza di quelle settimane a spostare l´ottica dell´intelligence americana». Soprattutto dopo l´assassinio di Moro mutano toni e giudizi all´indirizzo del partito di Enrico Berlinguer, del quale vengono elogiate "la fermezza" e "la capacità reattiva". Il leader comunista italiano cresce in affidabilità democratica, come attesta tra gli altri un documento redatto dalla Cia nel giugno del 1982, dopo il colpo di Stato di Jaruzelski in Polonia. «Le continue polemiche tra il Pci e Mosca hanno portato la relazione tra i due partiti a un punto molto critico, fino a una probabile frattura ideologica», recita la nota. In altre parole, «Berlinguer è molto distante da Mosca e lo sarà ancor di più», come si legge in un altro resoconto.
L´Italia sospesa restituisce anche il paziente lavoro di tessitura da parte del Pci nei confronti del Dipartimento di Stato americano. Vi sono impegnati uomini di punta, da Giorgio Napolitano a Pietro Ingrao e Franco Calamandrei. Nutrita la mole di documenti, conservata all´Istituto Gramsci, che fotografa le difficoltà iniziali nell´incontro tra mondi lontani, anche i non pochi ostacoli incontrati da Napolitano nell´ottenere il visto per gli Stati Uniti (cui fa riferimento il 20 maggio del 1975 una lettera di Joseph La Palombara, politologo dell´Università di Yale). Soltanto nel marzo del 1978 - nei giorni del sequestro Moro - il futuro presidente della Repubblica riesce ad arrivare sul suolo americano, ospite delle più prestigiose università e sotto i velati auspici dell´amministrazione Carter.
Tra i documenti ancora inediti in Italia, può colpire una nota della Cia all´indomani dell´elezione di Karol Wojtyla, il 16 ottobre del 1978. Tempestiva appare l´analisi degli agenti. «Un papa polacco», si legge, «avrà un effetto di lungo periodo su una grande varietà di questioni legate ai rapporti stato-chiesa». E ancora: «Avrà un effetto profondo sui partiti comunisti di paesi cattolici quali Italia, Francia e Spagna. I comunisti di questi paesi potranno forse sentirsi più liberi di manifestare la propria indipendenza da Mosca». Insomma, la comparsa sulla scena mondiale di Giovanni Paolo II appare subito un´autentica svolta, capace di mettere in discussione «le linee portanti della politica sovietica, a partire dalla conclusione della seconda guerra mondiale». Una scintilla che potrebbe rivoluzionare il vecchio continente, aggiunge l´intelligence. Più che un´analisi, una profezia.
Repubblica 24.6.09
"Le emozioni ferite", il nuovo libro di Eugenio Borgna
Il tempo della gioia e quello della felicità
di Luciana SicaIl noto psichiatra torna a scavare nell´interiorità con un lavoro a metà tra il saggistico e il letterario insistendo sull´aspetto temporale di ogni movimento dell´anima
Le penombre della malinconia, le angosce senza oggetto, il sentimento della nostalgia, le ossessioni della colpa, le ferite dell´ansia, i rimpianti, le attese, le intermittenze del cuore: sono i temi - sempre uguali e sempre diversi - che ama trattare Eugenio Borgna, con una sua cifra personalissima.
Nel capitolo più sorprendente del suo nuovo libro - Le emozioni ferite (Feltrinelli, pagg. 222, euro 17) - l´autore si avventura invece in un territorio del tutto inedito rispetto al suo abituale lavoro di introspezione, e più in generale pochissimo esplorato, scavando nell´esperienza improvvisa e fragilissima della gioia. Da sempre molto si è pensato e si è scritto sulla condizione della felicità, ma non sull´immediatezza e sull´intemporalità della gioia che brucia in un istante, "nel presente del presente agostiniano", o anche - scriveva in una lettera Rilke - «La felicità ha il suo contrario nell´infelicità, la gioia non ha contrario, per questo è il più puro dei sentimenti».
È Borgna a ricorrere alle citazioni, e nelle sue pagine si affastellano, ma l´uso che ne fa non è mai vanesio. Per restituire il "nocciolo metafisico" dell´esperienza emozionale della gioia è al Diario di Etty Hillesum che rimanda, a un documento straordinario pubblicato da Adelphi negli anni Ottanta. L´autrice olandese, uccisa ad Auschwitz, ha scritto pagine segnate da quella che Borgna definisce "la nostalgia dell´infinito", sempre interna all´emozione della gioia. Anche in un campo di concentramento, Etty è misteriosamente capace di viverla, sorretta da una sua incredibile forza intima: «Ma cosa credete, che non veda il filo spinato, non veda i forni, non veda il dominio della morte, sì, ma vedo anche uno spicchio di cielo, e questo spicchio di cielo ce l´ho nel cuore, e in questo spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza. Non ci credete? Invece è così».
Del resto "le emozioni ferite" non sono soltanto quelle enigmatiche e apparentemente indecifrabili della vita psicopatologica ma anche quelle della più normale quotidianità, tenute però spesso segrete: sono comunque stati d´animo che chiedono di essere compresi e riconosciuti, dimensioni essenziali della condizione umana, anche forme e modalità della conoscenza - secondo il pensiero moderno.
In questo suo nuovo scavo nell´interiorità, Borgna insiste molto sull´aspetto temporale di ogni singola emozione, di ogni movimento dell´anima. Scrive: «Quando si parla di tempo non ci si riferisce, ovviamente, al tempo dell´orologio ma al tempo soggettivo, al tempo vissuto: il tempo interiore della speranza è il futuro come quello dell´attesa, il tempo interiore della nostalgia e della tristezza è il passato, benché con incrinature diverse, il tempo della gioia è il presente così friabile e così inafferrabile, il tempo dell´ira è il presente dilatato, e deformato, in slanci di aggressività, il tempo dell´ansia è il futuro: un futuro che si rivive come già realizzato nelle ombre dolorose di una morte vissuta come imminente».
A metà tra il saggistico e il letterario, tra il rigore dell´analisi e il virtuosismo del linguaggio, Le emozioni ferite di Eugenio Borgna sembrano il nuovo tassello di un´opera che si presenta sempre più coerente al suo interno, quasi un corpus unico, seppure aperto, un viaggio a tappe nei paesaggi della vita interiore, nei significati profondi della malattia e in certi nuclei psicotici della normalità - nelle condizioni comuni dell´esistenza umana che sfuggono alle classificazioni diagnostiche. Alla soglia dei settantanove anni, ancora "primario emerito" dell´Ospedale Maggiore di Novara e libero docente all´università di Milano, Borgna non ha mai smesso di coniugare certe sue personali inquietudini con i gusti intellettuali dell´umanista idiosincratico all´algore degli specialismi - conoscendo Proust e Tolstoj, Sylvia Plath e Antonia Pozzi, Heidegger e Lévinas almeno quanto Jaspers e Binswanger.
Non si tratta solo di un suo modo di pensare il dolore psichico, ma anche di un suo modo di stare al mondo, ed è in questo connubio che si rintraccia l´assoluta singolarità della scrittura di Borgna, così ostile al grigiore dei tecnicismi, quel piacere di esprimersi in un linguaggio apertamente metaforico, capace di restituire l´intensità degli affetti. Oltre alla competenza professionale dello psichiatra, si coglie la sensibilità acutissima di un uomo estraneo alle varianti intellettuali del cinismo: è intatta la sua passione per l´umanità più sofferente, non si è affatto arresa al disincanto e neppure alle sciatterie culturali di quella psichiatria "organicista", oggi dominante, che lui non esita a definire barbara.
Corriere della Sera 24.6.09
Le prime riprese della miniserie prodotta dalla Rai e da Claudia Mori sul «padre» della legge 180
Il ribelle Basaglia un eroe da fiction contro i manicomi
Fabrizio Gifuni nei panni dello psichiatra «Fu incompreso anche dai comunisti»
di Emilia CostantiniIn tv le vicende di un reduce di guerra ridotto al mutismo e di un ex partigiano sottoposto a terapie crudeli
OSTIA — «Non bisogna allungare il vestito, basta accorciare il degente ». «Sono spettinata, vorrei pettinarmi. Non possiedo un pettine. Ho diritto a un pettine!». Slogan, o piuttosto, appelli accorati, scritti sui muri da chi ha perso la dignità di essere umano: il malato di mente.
È dedicata a Franco Basaglia, colui che sconvolse il mondo dei manicomi, la miniserie prodotta da Rai Fiction con la Ciao Ragazzi di Claudia Mori, in onda su Raiuno nella prossima stagione. Fabrizio Gifuni è protagonista con Vittoria Puccini, per la regia e sceneggiatura di Marco Turco.
Prima c’era la città dei matti, il manicomio, con tutto il suo corredo di orrori piccoli e grandi. Letti di contenzione, camicie di forza, celle d’isolamento, elettrochoc punitivi. In tutto il mondo occidentale, nessuno aveva mai messo in discussione il manicomio. Almeno fino all’inizio degli anni ’60 quando, in una città di provincia del nord Italia, un giovane psichiatra ribelle provocò un incendio impensabile fino a qualche tempo prima.
Nella cittadina di Ostia, alle porte di Roma, nella vecchia residenza di una colonia estiva è ricostruita la casa Rosa Luxembourg, ovvero quella che era la residenza del direttore dell’ospedale di Trieste, dove Basaglia, alla metà degli anni ’70, creò la prima casa-famiglia, un altro passo verso quel radicale cambiamento che culminerà nella legge 180. «Ma l’avventura parte da prima - avverte Gifuni - la sua esperienza prende le mosse dallo choc che, nel 1961, il giovane medico subisce quando va a lavorare all’ospedale di Gorizia: lui non vede un luogo di cura, ma un lager nazista. Sbarre alle finestre, sevizie, torture. Per lui è una rivelazione ed entra in crisi profonda. Basaglia è indignato. E si sente impotente: cosa può fare per cambiare tutto questo? La risposta è una sola: il manicomio va distrutto».
Il giovane psichiatra si trova di fronte «casi» come quello di Boris, reduce da una guerra terribile che lo ha ridotto al mutismo, che viene «curato » con l’elettrochoc. Oppure Furlan, ex partigiano, sottoposto a terapie crudeli. E poi c’è Margherita (interpretata dalla Puccini): una ragazza bella e piena di vita, con l’unica «tara» di avere una madre ossessionata dalla colpa di averla concepita con un soldato americano, che poi l’ha abbandonata. Un «peccato» che la madre scarica sulla figlia, abbandonadola in un istituto di suore che, per domare il carattere ribelle della ragazza, la fanno ricoverare in un ospedale psichiatrico, dove Margherita, diventata ingovernabile, viene tenuta in una gabbia come una bestia feroce. Interviene la Puccini: «Il mio personaggio, realmente esistito come gli altri, oggi verrebbe definito una borderline. Ma a quell’epoca, gente così veniva considerata matta e riunchiusa. Ho visto un’intervista che è stata fatta in tempi recenti a Margherita, che ora ha circa 60 anni e vive tranquilla con due amiche: parlando di Basaglia, si commuoveva, le si illuminavano gli occhi, lo descriveva come il suo salvatore».
La realtà che si trova di fronte Basaglia, dunque, è terrificante. E con la moglie Franca Ongaro, donna coraggiosa che diventerà in seguito parlamentare, decide di cambiare quella realtà. Spiega il regista: «Comincia a scardinare i cancelli della psichiatria e a liberare una ad una le persone rinchiuse, cancellando per sempre dai loro corpi e dalle loro menti il duplice marchio del pericolo e dello scandalo, che le leggi e la mentalità dell’epoca conferivano alla follia». E nel 1973, quando Basaglia si trova già a Trieste, i «matti» escono dall’ospedale e invadono la città con Marco Cavallo, una macchina teatrale costruita dentro l’ospedale, una sorta di cavallo di Troia, nella cui pancia ogni degente aveva riposto le proprie speranze, desideri, aspirazioni. «Il suo principale obiettivo - riprende Gifuni - è rimettere al centro l’uomo, il paziente. E il medico non deve esercitare il suo potere, ma il suo sapere, mettendosi al servizio del suo ruolo pubblico. Il suo pensiero è da 'eretico' della psichiatria di quel tempo. Un pensiero che non viene compreso neanche dal Partito Comunista. C’è una scena nel film, realmente avvenuta, in cui Basaglia parla nell’aula del gruppo parlamentare a Montecitorio e i comunisti lo guardano come fosse un matto».
Al di là del medico, che tipo di uomo era? «Era dotato di carisma, ironico, sempre sorridente, uno spirito arguto che spiazzava l’interlocutore. La sua formazione scientifica era rigorosissima, ma arricchita da una formazione filosofica: l’unico maestro che riconosceva era Sartre». Un egocentrico? «Aveva la giocosa irresponsabilità del bambino e dell’artista, che poteva apparire egocentrismo, data la forte personalità. Ma in realtà era tutto il contrario: ha dedicato la sua vita agli altri».
Liberazione 23.6.09
«La repressione è inutile. Ormai il regime è finito»
di Guido CaldironNei giorni scorsi ha chiesto ai leader occidentali di non intervenire sulla situazione iraniana per non offire al regime possibili appigli per denunciare "ingerenze" o "manipolazioni straniere" su quello che definisce come «un movimento spontaneo e autorganizzato». Del resto non c'è bisogno di accellerazioni, perché il regime dei mullah, per lui, sta già cadendo.
Abolhassan Banisadr è stato il primo Presidente della Repubblica Islamica dell'Iran, incarico che ha ricoperto dal 4 febbraio del 1980 al 22 giugno del 1981, quando è stato deposto dall'Ayatollah Khomeini. Tra i maggiori leader studenteschi iraniani, Banisadr partecipò ai movimenti di protesta contro lo Scià fin dagli anni Sessanta e, costretto a fuggire, rientrò nel paese quando la Rivoluzione stava per scoppiare, nel febbraio del 1979. Fu lo stesso Khomeini a volerlo alla guida del paese per non dare l'impressione che l'Iran rivoluzionario fosse guidato soltanto da religiosi. Una cautela che durò ben poco: dapprima Banisadr fu vittima di alcuni attentati, a cui scampò per puro caso, e poi fu allontano dal potere dall'Ayatollah che incarnava la deriva teocratica della Rivoluzione. Fuggito in Francia, l'ex premier iraniano vive da allora a Evreux, alle porte di Parigi, mantenendo viva la memoria di una Rivoluzione che fu tradita da una parte dei suoi ispiratori e trasformata in un regime autoritario.
Lei è stato uno dei protagonisti della Rivoluzione del 1979, le piazze iraniane di oggi le sembrano assomigliare a quelle di allora?
Forse le immagini che si vedono in televisione possono far pensare a quanto accaduto trent'anni fa, ma in realtà credo che le cose siano molto diverse e in ogni caso è diversa la realtà sociale e politica in cui hanno luogo. Quello che si può dire è che il movimento di oggi potrebbe completare e portare a compimento quanto si è lasciato incompiuto alla fine degli anni Settanta. Mi spiego. Nel 1979 le strutture del potere ruotavano intorno alla monarchia e al clero, l'economia si divideva tra la borghesia dei bazar nelle città e i grandi proprietari terrieri nelle campagne. La rottura che intervenne allora nella società iraniana fece in realtà seguito a delle trasformazioni economiche e produttive che erano state introdotte dalla stessa dittatura dello Scià che aveva cercato di modernizzare, sebbene in senso autoritario, il paese. Poi, la rivoluzione abbattè a sua volta la monarchia, vale a dire uno dei due pilastri tradizionali del potere nel mio paese. Oggi il quesito che ci si deve porre riguarda la possibilità o meno che il movimento in corso in Iran sia in grado di scardinare anche l'altro perno centrale del potere, vale a dire il ruolo del clero sciita. Per gli iraniani si tratta di girare una pagina che si sarebbe voluta e dovuta girare già trent'anni fa, concludere quel processo di trasformazione che a causa del tradimento di Khomeini e dei mullah non riuscimmo a portare a termine. La rivoluzione del 1979 si concluse con l'instaurazione della dittatura dei mullah, esattamente quel potere che oggi nelle strade del mio paese si vuole abbattere. E se anche il regime potrà avere nell'immediato ragione delle proteste, il processo che si è messo in moto nel mio paese non credo possa essere più fermato: la dittatura dei mullah è condannata alla scomparsa.
Nel corso dell'ultimo decennio non sono mancati in Iran dei movimenti di contestazione come quello sorto nelle univeristà intorno al 2000 e soffocato dalla repressione. Le mobilitazioni di oggi sembrano però avere una "base sociale" molto più larga assomigliando, almeno in questo, alle piazze rivoluzionarie del 1979. Cosa ne pensa?
Effettivamente oggi non si può parlare di una mobilitazione studentesca perché ad essere coinvolti sono tutti i settori della società iraniana. Certo, ci sono gli studenti che rappresentano in qualche modo il motore della protesta, ma accanto a loro ci sono gli operai, gli insegnati, la gente dei bazar e talvolta anche dei religiosi. Inoltre le manifestazioni si susseguono non solo a Teheran, ma anche in tutte la altre città di provincia. Si tratta di un movimento di massa che coinvolge una parte significativa della società. Quanto ai paragoni con la Rivoluzione del'79 vorrei sottolineare un elemento a mio avviso di grande interesse: allora le manifestazioni si protrassero per più di un anno prima che il regime dello Scià crollasse. All'inizio non si trattava nemmeno di mobilitazioni quotidiane come sta accadendo invece oggi, potevano passare anche trenta o quaranta giorni tra un corteo e l'altro. Nel frattempo intervenivano l'esercito e le forze dell'ordine, spesso si sparava sulla folla in modo sistematico, eppure la gente si ritrovava nuovamente a riempire strade e piazze a ogni nuovo appuntamento cone le proteste. Solo nell'ultimo mese le manifestazioni divennero quotidiane, coinvolgendo tutta la popolazione, compresi gli impiegati dell'amministrazione dello Scià e i lavoratori dell'industria petrolifera. Questo fino alla cacciata dei Pahlavi dal paese. Oggi siamo al decimo giorno di mobilitazione e le piazze non si sono mai svuotate, e questo malgrado la repressione e i morti. Giorno dopo giorno le persone si ritrovano a sfilare per strada e esprimere la loro rabbia senza paura. E ora si comincia a parlare di uno sciopero generale che blocchi tutto l'Iran.
Accanto alle spinte che vengono dalle piazze, crede che il regime potrà conoscere una sorta di "autoriforma" visto che anche il principale avversario elettorale di Ahmadinejad, Moussavi, proviene dall'establishment?
Da questo punto di vista le cose sono cambiate con il passare dei giorni. Fino a venerdi scorso, infatti, quando la massima autorità della Repubblica Islamica, l'Ayatollah Kamenei ha preso pubblicamente posizione in favore di Ahmadinejad, in piazza si erano levati pochi slogan contro di lui, mentre il cuore della protesta aveva riguardato l'esito delle elezioni, le modalità del voto e dello scrutinio delle schede. Poi, dopo che Kamenei è intervenuto per lanciare le sue minacce ai manifestanti e per dire che nulla doveva cambiare e che il popolo aveva espresso con il voto il suo appoggio al regime, tutto è cambiato. A quel punto infatti nelle piazze iraniane si sono cominciati a sentire anche slogan contro di lui e contro lo stesso sistema di potere che rappresenta. Ques'esempio serve a indicare come gli iraniani chiedendo semplicemente una verifica del voto e trasparenza hanno nei fatti messo in discussione gli stessi meccanismi di funzionamento del "sistema". A questo punto l'idea che il regime possa cambiare dall'interno sembra superata dai fatti: chiedere democrazia e una legalità che rispetti ogni cittadino e le sue scelte, è diventato inconciliabile con la continuazione del potere dei mullah.
Ahmadinejad e Kamenei continuano a negare ogni apertura ai contestatori e se la prendono con le "ingerenze straniere", intanto le piazze continuano però a riempirsi. Quali scenari si possono aprire ora per l'Iran?
Credo che quanto sta accadendo per le strade dell'Iran non possa più essere fermato, potrà accadere per qualche tempo ma non per il futuro: la dittatura religiosa è finita. Detto questo è difficile prevedere i passi concreti che ciascuno potrà fare fin dalle prossime ore. Ragionando in teoria, si possono però fare alcune ipotesi. La prima è che il Presidente Ahmadinejad decida di dimettersi e si organizzino nuove elezioni per dimostrare che il regime tutto sommato funziona. Ipotesi che è però stata fin qui smentita dai fatti e dalle parole di Kamenei, autorità suprema del paese e protettore di Ahmadinejad. Un'altra ipotesi riguarda la possibilità di cui si è già avuta traccia, anche se non su larga scala, che si scateni una repressione sistematica e generalizzata per far sì che il movimento si fermi. In questo senso ci sono stati segnali molto duri: sia Moussavi che Karrubi, l'altro candidato riformista che si è presentato alle elezioni, sono stati minacciati se non avessero abbandonato la guida delle proteste e i basiji, i membri della milizia popolare, sono arrivati a chiedere la loro incriminazione e la loro condanna a morte. Ovviamente c'è poi l'ipotesi che prevede, come sta poi accadendo almeno in parte nei fatti, che gli ex candidati dell'opposizione e la gente che continua a riempire le piazze non facciano alcun passo indietro e che i due blocchi in cui si divide oggi la politica iraniana finiscano per misurarsi fino in fondo. Da una parte Ahmadinejad e Kamenei e il loro sistema di potere corrotto e mafioso e dall'altra tutte le opposizioni riunite, oltre a Moussavi e Karrubi anche i riformatori dell'ex Presidente Khatami e quella parte del clero sciita che fa rifemento all'Ayatollah Rafsanjani.
Lei ha dovuto abbandonare l'Iran nel 1981, oggi le sembra possibile immaginare di poter tornare in un paese che abbia finalmente ritrovato la libertà e la democrazia?
Lo spero con tutto me stesso. In questi anni sono stato uno dei pochi politici iraniani che dall'esilio hanno immaginato che il loro paese si potesse liberare non attraverso la lotta armata o solo per una implosione del regime. Ho sempre detto e pensato che sarebbe stato un movimento di massa, spontaneo e autorganizzato a riportare a Teheran democrazia e libertà. Oggi so che il regime religioso sta per cadere e che l'Iran potrà tornare ad essere un paese libero e indipendente.
Liberazione 23.6.09
La grandiosa lotta delle donne iraniane
di Lidia MenapaceMi pare importantissimo che il nostro giornale voglia sottolineare ciò che dovrebbe essere visibile a tutti, e cioè la straordinaria presenza delle donne di qualsiasi età nel movimento iraniano.
Questa decisione smuove dentro di me ricordi che cominciano da lontano. La prima immagine è quella della allora giovane figlia di Rafsanjani in visita a Roma, che chiede di incontrare le femministe romane: veniamo invitate all'ambasciata dell'Iran e decidiamo di andarci tutte a capo scoperto e braccia nude (era estate). L'ambasciata ci accoglie con l'aria condizionata al massino, sicchè corriamo a tirar fuori dalle borse tutti gli scialletti le sciarpe i foulard che abbiamo, e si comincia, capendo che tra popoli antichi l'esercizio della allusione è comune. La giovane iraniana è vestita di un abito beige accollato, maniche lunghe, calze di cotone bianco e sembra una monachina, ha in capo una specie di copricapo da suora.
Appena incomincia a parlare appare molto colta anche di cultura italiana, libera, capace politicamente e capiamo che per il corpo delle donne il vestiario è simbolicamente fortissimo, e quando viene trasformato dal corpo-mente della donna che lo abita, questo è un successo ancora più grande.
Comunque con lei è una conversazione molto bella, di vera rapida relazione tra noi. Chiediamo di una giovane adultera lapidata e ci dice che su pressione delle donne il giudice che ha emesso la barbara sentenza è stato cacciato ecc. A un certo punto chiediamo se il velo è d'obbligo per il Corano e improvvisamente da una stanza appresso esce un giovane che dice essere lui autorizzato a rispondere su materia religiosa. E' un giovane bellissimo, un bello impossibile, sembra la canzone della Nannini. Dice che il corpo della donna deve essere tenuto coperto perché provoca eccitazione e ciò deve essere riservato al solo marito. Restiamo incredule che una cosa così si possa ufficialmente sostenere. Ma, a proposito di eccitazione, qualcuna tra noi comincia ad ammiccare: in fin dei conti il bello impossibile è abbastanza eccitante e allora incominciamo a dirgli che i suoi occhi eccitano e soprattutto il bel collo bianco muscoloso e nudo che esce dal colletto della camicia: il povero scappa!
Anni dopo a Pechino, l'Udi, di cui faccio parte, incontra donne islamiche e discutiamo un po' fra noi su come debbono essere valutate le varie delegazioni dei paesi islamici. Le delegazioni degli Emirati vengono dette "Ong dei governi" dalle libere donne islamiche di altre delegazioni. E ci dicono che sotto gli abiti neri e le mascherine a tutto volto hanno macchine fotografiche che cavano fuori appena vedono una donna dai tratti mediorientali a capo scoperto. Sicché da allora tutte noi appena vediamo una donna tutta velata ci mettiamo davanti a quelle che vuole fotografare: debbono esserci un tot di mie foto nei loro archivi.
E a questo punto non posso non ricordare la donna iraniana esule a Parigi che narra la sua storia. Era studente all'università di Teheran quando cadde lo Schah Reza Pahlevì e per esprimersi contro la occidentalizzazione forzata che egli aveva imposto anche vietando il velo, se lo era appunto rimesso in capo. Appena torna a casa, sua madre che la vede velata scoppia a piangere e le dice: «Tu non sai che cosa c'è, che cosa c'era sotto il velo!» e madre e figlia si raccontano molte complicate cose su come il progresso economico tecnico sociale possa legarsi anche al più tremendo regresso culturale e religioso.
E se veniamo al movimento odierno è stato quasi simbolicamente rappresentato dalla campagna elettorale durante la quale il primo avversario di Ahmadinejad fa comizi e viaggi insieme alla moglie che dicono anche sua ispiratrice politica. E mentre vado ad Adria per un ultimo comizio per il ballottaggio viene a prendermi alla stazione una compagna iraniana che sta lì e che con altri immigrati e immigrate forniti di cittadinanza hanno sostenuto la nostra lista fino dal primo turno. Considero ciò un grande titolo di gloria. La compagna iraniana spera per il suo paese, parla, è contenta.
E le immagini che ci arrivano sono un vero trionfo di ragazze a capo scoperto, di giovani donne ridenti e disinvolte col velo, di donne mature più caute e con abiti più tradizionali: ma è del tutto evidente che le donne sono uno dei punti più importanti sui quali si gioca la partita. E quando sugli schermi compare il volto della figlia di Rafsanjani scarcerata dopo essere stata presa durante i "disordini"; e poi l'avvocata esule premio Nobel per i diritti civili, sentiamo donne col velo magari, ma che sanno bene quali sono i diritti e citano testi di legge e denunciano le illegalità. Mentre sulla piazza i ragazzi del movimento si chinano sgomenti e commossi sul corpo della loro giovanissima compagna uccisa.
Viene fuori una lotta grandiosa per la liberazione gestita insieme tra donne molto diverse tra loro. E da tutto il popolo giovane e consapevole. Lasciare che possa spegnersi o che venga violentemente spenta una tale primavera politica del mondo sarebbe un vero crimine: è dovere di chiunque gridare che non si possono reprimere diritti fondamentali, un simile bisogno di libertà e cammino di liberazione, quando appaiono. Si capisce o no che non si tratta di vedere se Obama ce la fa o se ce la fa l'Inghilterra, secondo logiche imperiali? E se Obama non farebbe bene a diffidare di troppo zelanti e servili alleati? Se bisogna criticare l'invito dell'Iran a Venezia? Bisogna chiedere che le Nazioni unite chiamino l'Iran a rendere conto della soppressione delle fondamentali libertà civili e politiche della maggioranza della popolazione e della legalità di un evento elettorale del quale i risultati escono due ore dopo chiusi i seggi e il controllo consisterebbe nel sostenere che si sono trovati tre milioni in più degli elettori, ma ciò non fa problema! Che l'Iran renda noti i suoi straordinari metodi di conteggio dei voti, che compriamo tutti il brevetto.
Non dobbiamo permettere che le cose del mondo vengano gestite da un uomo solo o da scambi invisibili tra pochi. E per tutti e soprattutto per tutte deve essere chiaro che non si può scambiare aiuiti alle banche con guerra in Afghanistan, borse e oppressione delle donne. Per le donne arrivare ad essere cittadine passa per la scuola e l'università, l'accesso al lavoro e alla società, non per l'essere veline. In questo senso l'Iran insegna. Secondo me, se si potesse affidare la risoluzione dei problemi iraniani a un comitato di molte donne, come è successo al concerto di Milano per l'Abruzzo, verrebbe fuori che siamo anche capaci di organizzarci e di essere efficaci (talvolta persino più degli uomini: parlo di concerti ovviamente).