domenica 28 giugno 2009

l’Unità 28.6.09
Canti di rivolta repressi casa per casa dai basiji. La denuncia di Human Rights Watch
Denunce sui blog: «Ci sono nuovi scontri». Ahmadinejad minaccia l’Occidente
Teheran protesta di notte. Pugno duro delle milizie
di Umberto De Giovannangeli


La protesta viaggia anche nella notte. E nei canti che si propagano dalle case di Teheran. Brutalmente repressi dalle milizie del regime. Che si scaglia contro l’ingerenza. Mousavi: no al riconteggio, si rivoti.

La protesta è anche un canto che si propaga nella notte dai tetti di Teheran. Il coraggio della protesta è anche nel volto fiero delle madri di quanto hanno pagato con la loro vita l’aver rivendicato in piazza verità e giustizia.
La sfida continua
Come ad un ordine prestabilito, i primi cori di protesta si sono levati tutti insieme da tetti, terrazze e giardini di Teheran la sera del 13 giugno, poche ore dopo l'annuncio ufficiale della rielezione alla presidenza di Mahmud Ahmadinejad. Grida di «Allah Akbar» (Dio è grande) e di «Morte al dittatore», le stesse della rivoluzione del 1979. Da allora si ripetono ogni sera, ma notizie di interventi dei miliziani islamici Basiji per fermare la protesta sono circolate negli ultimi giorni e sono state apertamente confermate ieri dall'organizzazione umanitaria Human Rights Watch (Hrw).«I Basiji conducono brutali raid notturni nelle case per fermare i cori di protesta», ha dichiarato Sarah Leah Whitson, responsabile per il Medio Oriente dell'organizzazione, affermando che i miliziani «irrompono nelle case e terrorizzano la gente intimando di non cantare». Per adesso, comunque, «Allah Akbar» e «Morte al dittatore» continuano ad essere gridati puntualmente ogni sera da molte case di Teheran. Le prime voci si levano alle 22.00. Gradualmente se ne aggiungono altre, di uomini, donne, bambini, fino a dar vita a cori che si rispondono da un'area all'altra, per spegnersi dopo dieci o quindici minuti.
CARCERI E TORTURE
Le centinaia di persone arrestate nel corso delle manifestazioni dei giorni scorsi a Teheran, tenute in isolamento nella prigione di Evin, nella capitale iraniana, «patiscono torture e maltrattamenti» sistematici. A denunciarlo è Reporter senza Frontiere (Rsf), ricordando che sono 33 i giornalisti ancora detenuti nel carcere. «La prigione di Evin, come lo stadio di Santiago del Cile nel 1973 dopo il golpe, è diventato un sanguinoso centro di detenzione», sottolinea l'associazione: «Numerose testimonianze ci fanno temere che la tortura ed i maltrattamenti all'interno del carcere siano sistematici, in particolare nel settore 209». E mentre i blogger danno notizia di nuovi scontri di piazza, il leader dell'opposizione, Mir Hossein Mousavi , ha respinto la proposta del regime di ricontare il 10% dei voti della contestata elezione presidenziale del 12 giugno, secondo quanto dichiara un suo alleato all’agenzia Reuters.
Dalla repressione allo scontro diplomatico. Teheran reagisce duramente alla posizione assunta l’altro ieri dal G8 sulle elezioni iraniane e allontana ulteriormente qualsiasi possibilità di dialogo a breve termine con una comunità internazionale costretta ad assistere attonita - dopo i morti in piazza - a un’escalation di violenza verbale anche nelle dichiarazioni diplomatiche. Dalla capitale iraniana sono stati accusati di «interferenze» i Paesi del G8 per la dichiarazione congiunta dell’altro ieri, in cui si chiedeva lo stop immediato delle violenze e una soluzione della crisi attraverso il dialogo democratico e pacifico.
MONITO AL G8
Il portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, Hassan Qashqavi, si è «rammaricato» della posizione assunta dai ministri degli Esteri del G8 che «interferisce nelle elezioni iraniane». L’Iran ricorda al G8 che la consultazione si è svolta in «un'atmosfera di libera e corretta competizione» e che elezioni di questo tipo «non si trovano nelle società occidentali, che affermano di essere democratiche». Poche ore dopo, a rincarare la dose è lo stesso Ahmadinejad: l’Iran, tuona il presidente rieletto e contestato, «trascinerà per la collottola in giudizio» quei Paesi che hanno criticato le elezioni e la sanguinosa repressione in Iran.

l’Unità 28.6.09
Con la dittatura la repubblica islamica non andrà lontano
Che fine ha fatto la rivoluzione del ‘79? Gli avvenimenti delle ultime settimane dicono che l’esperimento può finire
di Robert Fisk


La più nauseante fotografia della tragedia iraniana non è stata quella dei dimostranti insanguinati di Teheran, bensì una foto della Reuters che ritrae l’ex principe iraniano Reza Pahlavi «che tratteneva le lacrime» a Washington mentre diceva che la giovane Neda Agha Sultan uccisa una settimana fa dagli scherani di Ahmadinejad «ora rimarrà per sempre nel mio cuore. Ho aggiunto Neda all’elenco delle mie figlie», ha detto il figlio dello spietato e brutale Scià di Persia.
Inutile dire che il figlio della Luce degli Ariani non ha aggiunto «all’elenco delle sue figlie» le migliaia di donne altrettanto giovani e innocenti torturate a morte dalla sadica polizia segreta di suo padre. No, non credo che lo Scià Reza Palhavi abbia messo questa giovane donna «nel suo cuore». Ma, d’altro canto, non lo hanno fatto nemmeno i religiosi sciiti che sostennero il colpo di Stato anglo-americano contro Mohammed Mossadeq, democraticamente eletto in Iran nel 1953. All’epoca la massima autorità religiosa di Teheran fu inviata a Qom per convincere il principale Ayatollah di quei tempi, Sayed Mohammad Hossein Boroujerdi, ad emettere una fatwa per incitare ad una guerra santa contro i comunisti del partito Tudeh alleato di Mossadeq e a schierarsi dalla parte della religione e del trono. Stando alle voci sembra sia stato un certo Ruhollah Khomeini a spingere Boroujerdi a compiere questo passo.
L’analisi del golpe fatta dalla Cia – che, ovviamente, è stato ricordato con crescente entusiasmo da Ahmadinejad e dai suoi sodali nelle ultime settimane – comprende anche un colloquio quanto mai rivelatore tra Kermit Roosevelt, capo della Cia a Teheran, e Winston Churchill, che era ormai agli ultimi mesi del suo mandato da primo ministro. «È stata una occasione estremamente commovente», diceva il rapporto della Cia riguardo all’incontro Roosevelt-Churchill.
«Il primo ministro sembrava in cattive condizioni di salute. Non ci sentiva bene; di tanto in tanto aveva qualche difficoltà ad esprimersi e sembrava non riuscisse a vedere bene con l’occhio sinistro. Ciò nonostante non riusciva a trattenere il suo entusiasmo per l’operazione. Fu talmente gentile da spingersi a dire che avrebbe voluto avere «qualche anno» di meno per poter servire agli ordini di Roosevelt. La nostra operazione ci aveva fornito una inattesa e meravigliosa opportunità che avrebbe potuto cambiare l’intero quadro del Medio Oriente». Sembrano le parole di Condoleezza Rice. Ricordate quando parlò delle «doglie» di un nuovo Medio Oriente proprio mentre i libanesi venivano massacrati dalle bombe israeliane nel 2006? Ma «l’intero quadro» di Churchill cambiò davvero – nel 1979.
Che ne è della famosa rivoluzione? Fu realmente un promettente ritorno ai valori fondamentali dell’Islam sciita, un ritorno all’età dell’oro di Ali e Hussein quando il dominio islamico non poteva coesistere con un governo laico? È questa la vulgata che circola in questi giorni a Teheran. Questa è la storia cui Khamenei sostiene di credere: che l’Ayatollah Khomeini – qualunque cosa abbia consigliato a Boroujerdi nel 1953 – riportò l’Iran alla purezza delle radici sciite dell’Islam quando non si tentava nemmeno di separare la religione dal potere secolare.
Per una straordinaria coincidenza è stato appena pubblicato un nuovo libro scritto dal professor Nader Hashemi dell’università di Denver, che rappresenta l’opera più illuminante e chiarificatrice sugli ultimi drammatici avvenimenti iraniani. Il titolo, molto accademico, non fa onore al testo: «Islam, secolarismo e democrazia liberale: verso una teoria democratica delle società musulmane». Ecco una agghiacciante citazione di Hashemi riferita a Khomeini quando l’Ayatollah era in esilio nella città irachena di Najaf nel 1970. «Questo slogan della separazione tra religione e politica e della richiesta di impedire agli studiosi islamici di intervenire negli affari politici e sociali è stato coniato e diffuso dagli imperialisti; sono solo le persone non religiose che ripetono questo ritornello. Quando mai all’epoca del Profeta religione e politica sono state separate? È mai esistito un gruppo di religiosi contrapposto ad un gruppo di politici e di leader?».
Nel 1999 l’Ayatollah Abolghassem Khazali, già membro del Consiglio dei Guardiani, tornò sul tema dicendo che «quando un giurista del valore dell’Ayatollah Mesbah Yazdi» – non a caso oggi fedele seguace di Ahmadinejad e aspirante Leader Supremo dopo Khamenei – «dice qualcosa, bisogna rispondere solamente ‘ascolto e obbedisco’. Se c’è un pericolo, viene dallo slogan della ‘società civile’ e ora la situazione è arrivata al punto che l’esistenza di Dio è argomento di dibattito nelle universita’».
Nessuna meraviglia quindi se la settimana scorsa l’università di Teheran è stata messa a sacco e devastata dalla milizia Basiji. Nessuna meraviglia se ora l’atteggiamento «secolare» di Mirhossein Mousavi è così pericoloso per il regime. Ma, come osserva Hashemi – e stanno qui le traballanti fondamenta del regime iraniano – «quasi tutti convengono sul fatto che la dottrina dell’Ayatollah Khomeini del “governo del giurista islamico” ha segnato una significativa rottura con la tradizione sciita per quanto attiene ai rapporti tra religione e politica. Molti Ayatollah di primo piano del mondo sciita erano fortemente critici nei confronti della dottrina politica di Khomeini in quanto ritenuta una innovazione e una radicale rottura con il ruolo storicamente moderato svolto dai religiosi nella società politica».
E queste sono le conseguenze. Khomeini ha inventato il cosiddetto «velayat-e faqih» (governo del Leader Supremo). La Repubblica Islamica non era mai stata concepita nella storia islamica. È un tentativo, un esperimento che potrebbe continuare o potrebbe anche interrompersi. Le ultime due settimane lasciano intendere che c’e’ molto da lavorare affinché possa sopravvivere. Nel frattempo ricordiamo quanto disse Mossadeq 46 anni fa: «Una nazione non va da nessuna parte sotto l’ombra della dittatura».
© The Independent, Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 28.6.09
Il silenzio e la tragedia
Io iraniano, tradito dalla mia Italia
di Hamid Ziarati


Quanto vale la vita di un iraniano? Decisamente meno di quella di un americano, di un italiano o di un europeo in generale. E quanto vale la vita di un’iraniana? In Iran, per la legge islamica, vale la metà di quella di un uomo. E in Italia? Per gli italiani? Quanto vale la vita di un’iraniana come Neda? Sedicenne, avvolta nella gabbia del velo obbligatorio in una galera a cielo aperto chiamata Repubblica Islamica, e tanti sogni nel cassetto. Per i Pasdaran la sua vita valeva una pallottola conficcata nel suo petto e qualche litro d’acqua per lavare dall’asfalto della strada la scia di sangue lasciata da Neda. Quanto vale la vita di Neda per l’Italia e per chi la rappresenta? A giudicare dalle parole fino ad ora pronunciate del ministro Frattini, vale quanto il suo dispiacere per la «non ancora annunciata presenza» dei rappresentati del regime iraniano al convegno sull’Afghanistan e sul Pakistan a Trieste. Quanto vale la vita di Neda che ha espiato con la vita la sua colpa di non essere nata in un Paese libero? Onorevole Frattini, per Lei quanto valeva la vita di Neda? Nulla. Apparentemente meno di niente. Solo le lacrime di chi ha avuto il coraggio di guardarla agonizzare in quei pochi infernali istanti su YouTube e null’altro. E Lei, signor ministro, quel video l’ha visto?
In questi giorni di orrore, non so perché, non riesco più ad appassionarmi alle notizie che provengono dal mio Paese adottivo: l’Italia. Seguo con trepidazione tutte le notizie provenienti dall’Iran, il mio Paese d’origine, ma non riesco più ad ascoltare un telegiornale italiano fino alla fine. Vorrei essere orgoglioso del Paese che mi ha dato asilo e mi ha adottato come un figlio, in cui ho trovato una vita ancora libera, un Paese sulla cui bandiera ho giurato nel 2000, di cui ho sposato una cittadina dopo il giuramento e alla cui crescita economica ho contribuito con il mio lavoro. Io vorrei essere fiero della mia cittadinanza italiana, vorrei essere orgoglioso del mio Paese adottivo di fronte ai miei compatrioti iraniani, un Paese che ha portato all’Onu la moratoria sulla pena di morte.
Mi sforzo tanto, lo giuro, ma mi viene difficile esserne orgoglioso in questi giorni. E diventa sempre più difficile non essere avvilito di fronte a questa diplomazia inetta che attende di stringere la mano del vincitore e spera di veder arrivare in Italia quelle degli assassini di Neda al convegno del G8 a Trieste. Questa politica bieca che antepone agli interessi economici (l’Italia è il terzo partner economico dei mullah) il destino di 70 milioni di persone.
Mi guardo intorno, e nel futuro prossimo del mio Paese adottivo non vedo altro che l’uscita imminente nelle librerie delle memorie di una escort o lo sbandierare promesse che non si avverano mai. Fatemi cambiare idea! Fatelo per Neda! Rendetemi un iraniano orgoglioso d’essere italiano!

Repubblica 28.6.09
Le motociclette di Teheran e i ragazzi di Twitter
di Vanna Vannuccini


La polizia antisommossa usa quelle rosse; i "bassiji", le milizie volontarie khomeiniste, i pesanti motorini indiani Sono il simbolo e lo strumento della repressione iraniana: armi a due ruote che piombano sulla folla disarmata lasciandosi dietro sangue e morte. Sono come i carri armati di Tienanmen, ma non danno nell´occhio
Il regime conosce i vantaggi tattici di queste unità da quando venivano lanciate contro gli iracheni nella guerra contro Saddam

Ancora una volta, all´ultimo momento, un portone si apre, una serranda si alza per offrire rifugio ai manifestanti inseguiti a tutta velocità da una falange di polizia antisommossa che travolge la gente come birilli su un tavolo da biliardo. Gruppi di cittadini stanno cercando invano di arrivare al Parlamento, dove è stata fissata per il nono giorno consecutivo una manifestazione di protesta contro la gigantesca frode elettorale che ha regalato la vittoria al presidente uscente, Ahmadinejad, e defraudato il candidato a cui tutti sanno di aver dato il proprio voto, Mir Hossein Moussavi.
Poco prima la strada era stata bloccata dai bassiji, le milizie volontarie che Khomeini creò come modello di devozione fino alla morte alla Repubblica islamica (bassiji significa appunto mobilitati) e che ora vengono usati come strumenti d´intimidazione e di repressione. Da un vicolo dietro una moschea ne erano usciti un centinaio, armati di randelli, di fruste, con i caschi e i giubbotti antiproiettile sopra gli abiti civili. I manifestanti - ormai solo giovani, ragazzi e moltissime ragazze - si erano difesi, appiccando il fuoco ai cassonetti e lanciando sassi raccolti nel cantiere di un palazzo in costruzione. I bassiji erano arretrati, tra le grida di giubilo di tutti gli abitanti della strada. Ma il giubilo era durato poco. Subito dopo era piombata sulla strada la polizia antisommossa. Il suo passaggio aveva lasciato la strada come un campo di battaglia abbandonato, dappertutto sangue, zainetti, occhiali spezzati.
Se uno le paragona ai carri armati turriti che vent´anni fa il governo di Pechino mandò contro gli studenti sulla piazza Tienanmen, le motociclette dei poliziotti antisommossa di Teheran possono sembrare un gioco da ragazzi, e comunque qualcosa di improvvisato. Non è così. Le unità in motocicletta che piombano sulla folla possono fare altrettanti morti di un carro armato, con il vantaggio che le loro immagini in tv non equivalgono come quelle dei carri armati all´ammissione della bancarotta morale e politica di un governo. Il regime teocratico conosce i vantaggi tattici delle unità in motocicletta già dal tempo in cui, estremamente mobili e veloci, venivano lanciate sugli obiettivi iracheni durante la guerra contro Saddam Hussein. Nelle parate militari a Teheran, accanto ai supertecnologici missili Shahab-3, sfilano sempre anche le motociclette. Quelle pesanti che in occidente si chiamano streetfighters, e i grossi motorini di fabbricazione indiana con un bassij alla guida mentre un altro sta in piedi sul sedile posteriore col lanciarazzi in spalla.
Per quanto tempo si potrà tenere sotto chiave una gioventù che è più di due terzi della popolazione? Mi chiede una giovane amica. Ormai perfino Twitter non funziona quasi più. La mancanza di comunicazione, insieme alla repressione selvaggia, ha finito per bloccare un movimento spontaneo, nato perché ognuno sapeva chi aveva votato e non voleva subire un affronto così umiliante. «A voi occidentali potrà sembrare un paradosso», mi diceva questa amica accompagnandomi per le strade di Teheran, «ma noi giovani abbiamo sempre creduto che il nostro voto contasse, avesse importanza». Essere nati dopo la rivoluzione significa qualcosa in Iran. Significa per esempio credere nella Repubblica. In quegli elementi repubblicani dello Stato teocratico che all´inizio erano, almeno sotto il profilo retorico, prevalenti, mentre il potere assoluto del Leader non era ancora stato precisamente definito e si confondeva con il carisma personale di Khomeini. «Ai nostri genitori molte frasi fatte sulla partecipazione dei cittadini, o sull´islam che doveva consentire un governo giusto, apparivano ipocrite, ma noi in qualche modo ci credevamo. Per questo non eravamo andati a votare negli anni passati, era un gesto per manifestare la nostra disapprovazione». L´esperienza della rivoluzione era stata paradossale soprattutto per le donne, la cui partecipazione alla vita politica veniva valorizzata mentre si imponeva loro uno status d´inferiorità.
Per anni, dopo la delusione dovuta alla mancata realizzazione delle promesse di riforma di Khatami, il presidente che avevano eletto in massa nel 1997, i giovani iraniani erano sembrati l´incarnazione dell´apatia politica. Si esercitavano nell´escapismo: la chitarra, l´arte, lo yoga, le meditazioni nel deserto, la droga. Studiavano psicologia per capire chi erano e come tutto quello che era accaduto fosse potuto accadere. Il fuori e il dentro, il pubblico e il privato erano mondi separati. Fuori l´obbedienza alla regole islamiche, il silenzio, la simulazione. Dentro la frustrazione, e per chi se lo poteva permettere uno stile di vita occidentale. Una tensione a volte insostenibile.
La speranza che la protesta pacifica nella capitale e in tutte le maggiori città iraniane avrebbe avuto qualche effetto è durata quasi una settimana. All´inizio la teocrazia era sembrata per un momento indecisa, il rinvio al Consiglio dei Guardiani del riesame delle schede aveva fatto sperare che il Leader supremo Khamenei, che si era schierato per Ahmadinejad prima ancora del risultato definitivo del voto, si sarebbe lasciato convincere dalle centinaia di migliaia di persone in piazza. Che ci sarebbero state nuove elezioni, o un ballottaggio, o almeno qualche concessione. Ma dopo la preghiera del venerdì, tutti i sogni sono svaniti. In quella preghiera il Leader ha messo tutto il suo peso accanto a quello di Ahmadinejad, contro la tradizione khomeinista che vedeva la Guida suprema al di sopra delle parti.
«Un colpo di Stato deciso perché i radicali si sentono sotto assedio, dall´interno perché conoscono lo scontento della popolazione, dall´esterno per via della mano tesa di Obama: Khamenei è sicuro che anche il più piccolo spiraglio porterebbe al crollo del sistema islamico. Come in Unione sovietica aveva portato al crollo del sistema comunista», mi aveva detto un analista iraniano, ora in carcere: «Indipendentemente da come va a finire questa resterà una data memorabile nella storia della Repubblica islamica. Una mezza democrazia e una mezza teocrazia, come era stata finora, non potrà più esserlo: o avremo una dittatura in piena regola, oppure ci saranno riforme importanti. Questo è il senso della lotta di potere di questi giorni».

Repubblica 28.6.09
Giovani vittime e carnefici divisi dai signori della morte
di Bijan Zarmandili


Sempre meno Ali, Hussein, Mohammad, Fatemè, i nomi della tradizione islamica, e sempre più Atash (Fuoco), Negah (lo sguardo), Sahar, (Alba), Shab Naz (carezza della notte) e poi, Neda (Suono), Neda appunto: «Siamo tutti Neda», si grida in questi giorni nelle piazze di Teheran. «Il mio nome è Abdollah, ma mi chiami pure Shervin», ti dice il ragazzo che per caso conosci in un taxi, oppure in una riunione di parenti che frequenti di rado. Lo vedi costantemente mettersi la mano sui capelli, resi rigidi dal gel, per assicurarsi che non cambino verso. Porta dei jeans strappati e una maglietta colorata su cui leggi «Don´t worry be happy»: per un istante ti senti disorientato e non ti rendi conto dove sei, nei pressi della Sorbona, a Islington, a via Caracciolo a Napoli, oppure a Amir Abad di Teheran? Poi, in un filmato su Youtube girato lo scorso sabato, vedi Abdollah-Shervin a terra in piazza Azadi, con la faccia dipinta di verde, e su di lui un altro giovane della sua stessa età, con i pantaloni neri, la camicia bianca abbottonata fino al collo e la barba incolta che lo sta bastonando: «Bokoshesh, kafarè», «ammazzalo, è ateo», lo incita un altro.
Sono due tipologie urbane della gioventù della Repubblica islamica: uno con sintomi più immediati della perdita d´identità, che rifiuta il proprio nome, illudendosi di vivere in un mondo immaginario, sui modelli visti nei film che compra al mercato nero; l´altro che invece si è trasformato in un automa, con il compito di ripulire il Paese in nome di un islam puro, di una rivoluzione che ha già divorato i suoi migliori uomini e ideali. E sia gli uni che gli altri rischiano di costruire una società acefala, un corpo enorme con una testa vuota.
Quei movimenti di corpi in fuga, di passi disperatamente allungati, quei volti sconvolti, occhi arrossati dai gas lacrimogeni, ragazze con l´hejab, ragazzi in t-shirt che si fanno scudo e si aiutano a vicenda a liberarsi dagli aguzzini con il manganello e la pistola, la loro mimica simile a quella di tutti gli altri giovani del mondo, sono i primi disperati tentativi di riempire quel vuoto: un vuoto che spesso viene colmato dagli strateghi della morte. Eppure i giovani iraniani trasformati in vittime e carnefici appartengono tutti a una società fortemente urbanizzata in un brevissimo lasso di tempo. La sola capitale è popolata da oltre tredici milioni di persone e rappresenta il modello sociale urbano più avanzato del Paese.
E i modelli occidentalizzati non sono una novità: già nei primi del Novecento, con lo sviluppo di una borghesia commerciale, la gioventù aveva adottato diverse forme della modernità occidentale. Ma in quella stessa fase anche i giovani delle periferie e delle prime bidonvilles cercavano i propri modelli, trovandoli in un bullismo che aveva le sue radici nelle tradizioni religiose e nel feudalesimo iranico. Un divario tra la modernità e le tradizioni che il regime teocratico e la smisurata urbanizzazione hanno esasperato, fornendo oggi una base sicura agli apparati della repressione, ai gruppi radicali: un serbatoio di risorse umane nelle immense periferie, mentre l´altra gioventù, quella della classe media e dei ceti più elevati, tra jeans strappati, gel sui capelli e ritmo di rap nella testa, si fa ammazzare pur di essere libera.

Corriere della Sera 28.6.09
Il regime tenta di estorcere confessioni, raid contro chi grida dai tetti
Ahmadinejad contro Usa e Ue: «Basta con le interferenze»
Iran, gli oppositori sotto tortura


Tutto un complotto stranie­ro, ripetono da giorni le autori­tà e i media di Stato iraniani. Le proteste contro le elezioni del 12 giugno sarebbero una «rivoluzione di velluto» («falli­ta ») appoggiata da americani ed europei (che ieri il presiden­te riconfermato Ahmadinejad ha accusato ancora di interferi­re), e dai sionisti. Un complot­to finanziato dalla Cia e ispira­to dai media stranieri. Cosa manca? Solo le prove.
Le autorità stanno torturan­do i politici riformisti arresta­ti, denuncia Amnesty interna­tional citando «fonti credibi­li », per farli confessare in tv (come i giovani manifestanti che dicono in onda: «Siamo terroristi»). Secondo diversi si­ti iraniani, lo scopo finale è di implicare Mir Hussein Mousa­vi e Mehdi Karroubi, i candida­ti riformisti sconfitti, nel pre­sunto complotto. I compagni di carcere di tre consulenti di Mousavi (ed ex ministri di Khatami) li avrebbero sentiti urlare sotto interrogatorio nel­la sezione 209 di Evin (quella dei prigionieri politici). I tre sono Mostafa Tajzadeh, Abdol­lah Ramezanzadeh e Mohsen Aminzadesh. Anche Reporters sans frontières teme che i dete­nuti siano torturati. Non pos­sono vedere i parenti, non han­no avvocati. Si trova a Evin an­che Saeed Hajjarian, ex consu­lente di Khatami, finito sulla sedia a rotelle dopo un tentati­vo di assassinarlo nel 2000. Ha bisogno di costante assistenza medica. La giornalista di Rooz Online Nooshabeh Amiri ha in­tervistato sua moglie, Vagihe Marsoosi, che lo ha visto l’al­tro ieri per pochi minuti. «Un agente filmava l’incontro — di­ce Amiri —. Lui ha pianto per tutto il tempo. Ha detto che non l’hanno picchiato. Ma la moglie, un medico, dice che era in condizioni fisiche terri­bili ».
Accusa le autorità anche Hu­man Rights Watch: «I parami­litari basiji conducono brutali raid notturni nelle case», affer­ma l’organizzazione per i dirit­ti umani, «distruggendo inte­re strade e quartieri» di Tehe­ran per fermare i canti di prote­sta intonati ogni sera alle 10, l’unico modo ormai per espri­mere la rabbia. Non più. «La scorsa notte (23 giugno, ndr) i basiji sono venuti nel quartie­re per intimidire chi gridava Allahu Akbar (Dio è grande) dai tetti — ha raccontato una donna —. Hanno preso a calci le porte, sono entrati nelle ca­se, hanno picchiato i residen­ti ». Avrebbero smontato le pa­rabole che consentono di guar­dare i media stranieri. E secon­do i blogger, ieri è stata repres­sa sul nascere una protesta del­le madri delle vittime della re­pressione. Il massimo organi­smo di arbitrato, presieduto dall'ex presidente Rafsanjani, ha chiesto ai candidati sconfit­ti di «cooperare con il Consi­glio dei Guardiani» che sta ri­contando il 10% dei voti (sul web Mousavi e Karroubi rifiu­tano, vogliono nuove elezio­ni) e ai loro sostenitori di «ob­bedire alla Guida suprema». A Evin, Hajjarian piangeva. «Co­nosco mio marito — ha detto la dottoressa Marsoosi —. Piange per l’Iran».

Corriere della Sera 28.6.09
Il braccio violento degli ayatollah
Le «anime nere» del regime che dirigono la repressione
di Guido Olimpio


WASHINGTON – Sono le anime nere. Capaci di repri­mere la protesta popolare sen­za avere il minimo rimorso, prigionieri dei loro dogmi e convinti di godere di una in­vestitura divina. Agiscono nel solco tracciato chi li ha prece­duti nella storia della Repub­blica Islamica. Come Sadegh Khalkhali, lo spietato capo delle Corti islamiche, un uo­mo che non riusciva a ricorda­re quante persone avesse mandato a morire e Asedol­lah Lajevardi, il responsabile del carcere di Evin sopranno­minato «il macellaio». Morti da tempo, hanno lasciato gli arnesi del supplizio ad altri.
In cima alla piramide c’è Mesbah Yazdi, l’ayatollah ul­traconservatore che ispira e protegge, sotto il profilo dot­trinario, il capo dello stato Ah­madinejad. Lui governa a col­pi di fatwa. Con l’ultima ha au­torizzato a far fuori i riformi­sti. Discreta e influente la posi­zione del figlio di Khatami, Mojtaba. È il filtro che proteg­ge la Guida, è il guardiano che disciplina i contatti ma nutre ambizioni politiche che spera di alimentare andando a braccetto con i radicali. Ve­glia sull’ortodossia l’ayatollah Ahmad Jannati, 83 anni, capo del Consiglio dei guardiani, distintosi per aver bocciato molte candidature riformiste. Agli ideologi si aggiungono quelli che fanno il lavoro spor­co. Uomini di legge, sbirri, mi­liziani. È stato rivelato che ma­nifestanti, bloggers e dissi­denti passeranno sotto l’oc­chio severo del procuratore islamico Saed Mortazavi, il magistrato che dovrà coordi­nare i processi dove la con­danna è già stata scritta. Per­ché il giudice si è sempre mo­­strato inflessibile nel tappare la bocca a chiunque contesti. Ha fatto chiudere giornali, ha mandato in prigione giovani studenti, ha minacciato le fa­miglie degli arrestati con pres­sioni d’ogni tipo e se ne è an­che vantato. Mortazavi è stato poi coinvolto nel caso della fo­tografa irano-canadese Zahra Kazemi, morta sotto tortura nel 2003. Al procuratore piace la ribalta: si è fatto fotografa­re alle esecuzioni di opposito­ri ed è andato in tv per mo­strare il materiale sequestrato «alle spie».
Ad alimentare i processi provvederà un sofisticato ap­parato repressivo coordinato da un quadrumvirato dove brilla la stella di Alì Jafari, il re­sponsabile dei 120 mila pasda­ran. Quando Khamenei lo ha messo alla guida dei pretoria­ni gli ha affidato una missio­ne speciale: quella di contra­stare una possibile «rivoluzio­ne di velluto» in Iran. E Jafari ha ristrutturato i pasdaran in base alla «dottrina del mosai­co », decentralizzandoli in 31 dipartimenti. Inoltre ha desi­gnato le Brigate «Al Zahra» e «Ashoura» come reparti anti sommossa. Ma, risvolto più importante, ha reintegrato la milizia Basij nei pasdaran pro­prio per avere una forza d’ur­to in caso di una sfida nelle piazze. A questo fine ha nomi­nato — nel luglio 2008 — co­mandante dei Basij un ex stu­dente del seminario del­l’imam Khomeini, l’hojatole­slam Hussein Taeb. Una scelta mirata. Per gli oppositori il ge­rarca in turbante ha una soli­da base ideologica ed ha gui­dato la facoltà Cultura all’ate­neo Hussein, istituto dove si sono formati gli ufficiali pa­sdaran. Jafari e Taeb condivi­dono un obiettivo dichiarato: la «protezione dei risultati del­la rivoluzione». E per questo sono pronti a usare ogni mez­zo. Con loro collaborano le ombre della Vevak, oltre 30 mila agenti che dipendono dal ministro dell’Intelligence, Gholam Mohsen Ezhei. Espo­nente del clero, si è distinto nel denunciare il presunto ap­poggio straniero ai dimostran­ti. Accuse scontate e fasulle che però possono bastare per mandare un uomo sul patibo­lo.

Corriere della Sera 28.6.09
Strobe Talbott: «Effetto Obama sui giovani di Teheran»
di Federico Fubini


VENEZIA — La chiama «una risonanza fra l'effetto Ba­rack Obama e quello che accade nelle strade di Tehe­ran ». Poi Strobe Talbott, presidente della Brookings Insti­tutions di Washington, vice segretario di Stato con Bill Clinton e ora molto vicino a Hillary, quasi si impressio­na davanti alla sua stessa idea, o alla dimensione degli eventi. «Qualunque altra ipotesi è valida — frena — nes­suno capisce fino in fondo le dinamiche dell'Iran oggi».
Lei però sospetta che il discorso di Obama al mon­do musulmano dal Cairo dia più coraggio ai ragazzi delle piazze di Teheran?
«Penso che la voglia di Obama di tendere la sua mano, anziché mostrare un pugno chiuso, contribuisca alle con­vinzioni di larghe parti della popolazione in Iran: sono coloro che non vogliono un Paese isolato, ostile all'Occi­dente e soprattutto agli Stati Uniti».
In sintesi, c'è un effetto Obama sull'Iran.
«Certo, c'è un effetto Obama e sta giocando un ruolo nelle aspirazioni di molti iraniani, in particolare i più gio­vani, cosmopoliti e sintonizzati con il mondo esterno, quelli che usano Internet di continuo e vogliono essere parte del mondo. A loro Obama sostanzialmente sta di­cendo: vogliamo che voi siate parte del mondo».
La Casa Bianca aveva aperto in qualche modo al dia­logo con il regime.
Questa repressione la mette in imbarazzo?
«Non vedo perché do­vrebbe: Obama non ha mai sostenuto il regi­me. Piuttosto, ha mo­strato di capire che l'Iran è una società com­plessa. È un Paese più democratico di molti al­tri nel Medio Oriente, Turchia esclusa, direi il più democratico dopo — guarda un po' — Isra­ele. Ma la Casa Bianca non si è mai giocata la reputazione sulle scelte del regime: ha solo ri­cordato che siamo di fronte a un Paese in mo­vimento, ricco di grup­pi con cui dovremmo parlare se vogliono parlare con noi. I fatti lo conferma­no ».
Eppure per i repubblicani, e certi democratici, Oba­ma non sostiene abbastanza i giovani nelle piazze di Teheran.
«Sì: il presidente su questo incassa bordate sul fronte interno, ma credo abbia assolutamente ragione a mostra­re una certa cautela. Applaudire e incoraggiare i manife­stanti da Washington non li aiuterebbe affatto, al contra­rio sarebbe visto come il bacio della morte del Grande Satana. E i ragazzi che chiedono più democrazia laggiù sono i primi a non volere la benedizione americana: vo­gliono che l'America tenga la bocca chiusa».
A causa delle sanzioni, i gruppi petroliferi dell'Ue hanno rinunciato ai più recenti giacimenti in gara in Iran ma sono subentrati i cinesi. Le sanzioni servono davvero?
«Sono uno strumento decisivo per gestire la questio­ne nucleare. Assistiamo a eventi spiegabili solo con l'aspirazione dell'Iran ad avere armi atomiche in violazio­ne del Trattato di non proliferazione. In questa situazio­ne, ci occorre la carota del dialogo ma anche il bastone delle sanzioni. A maggior ragione, visto che credo l'op­zione di un attacco militare sull'Iran sia irrealistica. An­che la Russia e la Cina, che siedono in Consiglio di sicu­rezza dell'Onu, dovranno dare più sostegno a questo ap­proccio».

Repubblica 28.6.09
La scomunica del comunismo
Quando Pio XII scomunicò i comunisti
di Marco Politi


Sessant´anni fa, il primo luglio 1949, Pio XII decretava la "morte ecclesiastica" per chi aderiva al Pci o anche soltanto gli forniva appoggio politico. Un gesto che si inseriva nel clima della Guerra fredda ma che suscitò perplessità perfino dentro al Vaticano e al partito cattolico. E soprattutto una condanna che non valse a sradicare la falce e martello e che fu poi sepolta, anche se mai formalmente revocata, dalla distinzione tra errore ed errante di Giovanni XXIII

Scomunicati, privati della comunione, del matrimonio religioso, del funerale religioso: questa la sorte decretata da Pio XII per chi aderiva al Partito comunista o gli dava appoggio politico o soltanto leggeva «libri, riviste, giornali che difendono la dottrina e l´azione comunista». Persino chi diffondeva un volantino incappava nella morte ecclesiastica.
Il decreto, emanato il primo luglio 1949 dal Sant´Uffizio, tecnicamente era una riposta a quattro quesiti. Se sia lecito aderire ai partiti comunisti o sostenerli; se sia lecito pubblicare o diffondere stampa comunista; se i cristiani che abbiano «coscientemente e deliberatamente» compiuto una di queste azioni possano essere «ammessi ai sacramenti»; se i cristiani, che professano e difendono la dottrina comunista, «materialistica e anticristiana», debbano incorrere nella scomunica quali «apostati della fede cattolica». La conclusione si espresse in tre secchi no e un sì categorico: scomunica totale per i cristiani fautori del Partito comunista, salvo l´abiura e il ritorno all´ovile dei politicamente pentiti.
Così Pio XII, che non aveva mai scomunicato il nazismo e che da Segretario di Stato vaticano aveva spinto i vescovi tedeschi a non ostacolare l´adesione dei cattolici al Partito nazista pur di stringere il concordato con il Reich hitleriano, impugnò l´arma della scomunica contro i comunisti. Fu un gesto segnatamente marcato da preoccupazioni politiche italiane, anche se a valenza generale. Pio XI aveva già condannato nove volte il marxismo. La decisione di Pio XII si inserisce nel clima della Guerra fredda e della cortina di ferro appena instaurata. A Praga il colpo di stato aveva sepolto la democrazia in Cecoslovacchia, il sistema stalinista si impadroniva dell´Europa orientale, l´Italia aveva aderito al Patto atlantico.
Fu un «colpo duro» per i comunisti italiani, ricorda Pietro Ingrao, allora neo-deputato e dirigente all´Unità, perché interveniva dopo la sconfitta del Fronte popolare alle elezioni politiche del 1948. Un colpo specialmente per la gente semplice, che aderiva al Partito comunista per motivi di riscatto politico e non per ideologia «materialista». Raniero La Valle, all´epoca studente cattolico della Fuci, non dimentica la storia di una coppia della Sabina: lui comunista, lei cattolica e incinta. La sera prima della celebrazione religiosa il parroco chiese allo sposo l´abiura. Al suo rifiuto, la chiesa il giorno dopo restò chiusa. La coppia vagò tutta la giornata per trovare un´altra chiesa finché un prete non li unì in una cappella di campagna. La donna andò poi dal vescovo per chiedere conto del fatto e alle motivazioni del prelato rispose, indicando il ventre gravido: «Questo non lo avrete».
Non tutti condivisero la scelta di Pio XII. In Vaticano, è il ricordo del cardinale Silvestrini, «il Pro-segretario di Stato Tardini era perplesso all´idea che si avessero milioni di scomunicati». E anche Andreotti, allora sottosegretario, rammenta che il premier De Gasperi «non era favorevole alla decisione, pur considerandola in linea di principio giusta: temeva le polemiche che ne sarebbero derivate alla Chiesa e gli esiti più negativi che positivi». Il defunto ex Segretario di Stato vaticano Casaroli dirà nelle sue memorie che Pio XII considerava suo «gravissimo dovere» mettere in guardia dalla minaccia comunista, ma ammette che la scomunica «di rado (produsse) conversioni», cioè ripensamenti politici negli elettori e militanti del Pci. Ingrao concorda: «Alla fine la feroce campagna ecclesiastica non incise». Il comunismo italiano non fu sradicato; il dialogo fra comunisti e cattolici andò avanti, proseguirono persino contatti segreti fra esponenti comunisti e rappresentanti del mondo ecclesiastico; Togliatti, segretario del Pci, tenne la barra sul rifiuto dell´anticlericalismo e l´attenzione al cattolicesimo. «Finì che un giorno - racconta Ingrao - una personalità come padre Balducci mi fece fare una predica dal pulpito nella sua chiesa».
Il peso politico della scomunica durò appena parte degli anni Cinquanta. Come scrive Andrea Tornielli nel suo recente libro su Paolo VI, ancora nel 1953 il sostituto Segretario di Stato vaticano Montini (futuro papa) indirizza una lettera al rettore dell´Università cattolica per deplorare qualsiasi intervento della rivista Vita e Pensiero a favore della collaborazione con i «marxisti» (in questo caso i socialisti di Nenni). Ma già emergevano le spinte alla collaborazione fra Dc e Psi, che negli anni Sessanta portarono al governo di centro-sinistra.La scomunica fu dimenticata, rimase sepolta dalla distinzione di Giovanni XXIII tra dottrine e persone, dal rifiuto del concilio Vaticano II di decretare una nuova condanna del «comunismo ateo», dall´esplosione del ‘68 che spostò a sinistra pezzi consistenti del mondo cattolico, dall´accordo di governo tra Moro e Berlinguer.
Una reliquia del passato come il Sillabo, anch´esso mai formalmente abrogato.

Repubblica 28.6.09
Quelle torce in fiamme
di Agostino Paravicini Bagliani


La scomunica pone un fedele nell´impossibilità di celebrare la comunione, ossia l´Eucarestia; comporta dunque una separazione temporanea dalla comunità ecclesiale. Il nesso tra scomunica e Eucarestia ha radici storiche antiche. Nel 1215, il concilio Lateranense IV decretò che i fedeli avevano l´obbligo di fare la comunione una volta all´anno, il giorno di Pasqua; e chi non si fosse comunicato in quel giorno si sarebbe auto-scomunicato ipso facto. La scomunica era allora già da tempo divenuta anche strumento di lotta politica. Da quasi due secoli, il papato aveva infatti dato vita a un rito di scomunica contro i "ribelli" della Chiesa che si celebrò fino a metà del Quattrocento tre volte all´anno (Giovedì Santo, Ascensione, 18 novembre), poi, per molti altri secoli, una sola volta all´anno, il Giovedì Santo (Coena Domini).
Nel suo Viaggio in Italia (1580), Montaigne descrive così il rito: il Giovedì Santo, il papa sale in Vaticano sulla Loggia delle benedizioni, assistito dai cardinali e tenendo in mano una torcia. A un suo lato, un canonico di San Pietro legge ad alta voce la bolla in latino che scomunica «una infinita serie di gente, tra gli altri gli Ugonotti (imperversava allora in Francia la "guerra di religione" tra cattolici e protestanti), e tutti i principi che occupano terre della Chiesa». La bolla viene tradotta in italiano dal cardinale che sta accanto al papa, dall´altro lato. Il papa lancia poi la torcia accesa verso il popolo e così fanno due cardinali. Il lancio delle torce provoca confusione tra il popolo che si accapiglia per ottenerne dei pezzi. La torcia è simbolo delle fiamme dell´inferno, al quale rinvia il colore nero del tessuto posto sul parapetto che viene sostituito da un tessuto di altro colore quando il papa, alla fine del rito, dà la benedizione e promulga l´indulgenza.
In quegli stessi anni, tra il 1560 e il 1580, ossia nel periodo più forte della Controriforma (concilio di Trento), due grandi pittori, Giorgio Vasari e Federico Zuccari, illustrano il rito pontificio di scomunica in due affreschi. Il primo mette in scena una delle più celebri scomuniche medievali, quella lanciata da papa Gregorio IX (1227-1241) contro l´imperatore Federico II (1227, 1239). Il secondo quella contro il re d´Inghilterra Enrico VIII (1538) da parte di papa Paolo III Farnese (1534-1549): lo Zuccari stava affrescando alcune sale pubbliche di Palazzo Farnese a Caprarola. In ambedue questi affreschi, il papa tiene in mano la torcia accesa che sta per lanciare tra la folla.
Prima che fosse costruita, nella seconda metà del Quattrocento, la Loggia delle benedizioni, il rito veniva celebrato sulla scalinata di San Pietro da una tribuna in legno. Il 15 aprile 1462, Pio II scomunicò «ed espulse dalla Chiesa di Cristo» due «fratelli tiranni, uno di Rimini, l´altro di Cesena, Sigismondo e Domenico Malatesta». L´effigie di Sigismondo fu «pubblicamente bruciata in due luoghi, davanti alla scalinata di San Pietro e nel Campo dei Fiori perché non credeva alla vita futura, e asseriva, con lingua ostinata e proterva, che l´anima perisce nel corpo».
Nei secoli precedenti, il rito si svolgeva regolarmente per lo più in Laterano, dove i papi risiedettero fino all´inizio del Trecento, dapprima da una tribuna in legno sulla piazza, poi da una loggia - quella costruita da Bonifacio VIII (1294-1303) - che serviva, ci ricorda ancora il Platina verso il 1475, a celebrare le "esecrazioni" ossia le scomuniche in contumacia dei "ribelli" della Chiesa. Lì il papa avrebbe scomunicato il re di Francia Filippo il Bello.
Il rito pontificio di scomunica accompagna dunque un periodo lunghissimo di storia politica del papato, da quel lontano Undicesimo secolo in cui il papato medievale si trasformò sotto la spinta della Riforma gregoriana e della lotta per la "libertà della Chiesa", fino al tardo Settecento. Soltanto allora, negli anni 1770, dopo un secolo di forti polemiche proprio nei confronti della legittimità della scomunica politica (Thomas Hobbes), il papato abbandonò il rito e la Loggia vaticana fu usata da allora in poi - fino ai giorni nostri - soltanto per le benedizioni papali, oltre che per l´annuncio di un nuovo papa (habemus papam…).

Repubblica 28.6.09
La disputa sull’età scientifica della Sindone
risponde Corrado Augias


Caro Augias, Repubblica del 14 giugno riportava con evidenza la scoperta, sulla Sacra Sindone, di scritte che potrebbero essere interpretate come l'atto di morte di Gesù Cristo. Si accenna al fatto che l'analisi del radiocarbonio ha dimostrato che la Sindone ha meno di otto secoli, ma si aggiunge che con la chimica non si sa mai. In un certo senso è vero: le datazioni scientifiche hanno un margine di incertezza. Nel caso specifico, possiamo dire che la Sindone è stata fabbricata in un arco di tempo che può andare dal 1262 al 1384. Ma la probabilità che abbia duemila anni è zero, come peraltro ha ammesso il cardinale Ballestrero che aveva promosso lo studio scientifico del reperto. Forse chi ha una fede cieca nei miracoli può credere che si possa avvolgere un corpo (e il relativo atto di morte) in un telo tessuto dodici secoli dopo. Ma molti altri lettori ragionano diversamente. Le scritte ritrovate non possono mettere in discussione il fatto che la Sindone è, al di là di ogni ragionevole dubbio, una creazione medievale.
Guido Barbujani Dipartimento di Biologia ed Evoluzione Università di Ferrara

Sul numero del 16 febbraio 1989, l'autorevole rivista Nature ha pubblicato un importante saggio sul tema intitolato «Radiocarbon Dating of the Shroud of Turin». Nell'ottobre 1987 l'arcivescovo di Torino, custode della Sindone, scelse tre laboratori per l'esame del lenzuolo: Arizona, Oxford, Zurigo. L'articolo descrive le precauzioni con le quali tre lembi di tessuto di 10x70 mm. e del peso di 50 mg vennero prelevati alla presenza di numerosi testimoni. Le conclusioni sono che con un'attendibilità intorno al 95% il lenzuolo può essere datato in un periodo compreso tra il 1260 e il 1390 «prova conclusiva che la Sindone di Torino è medievale». In un libro appena pubblicato («I templari e la Sindone di Cristo» il Mulino ed.) la studiosa Barbare Frale non si occupa direttamente della datazione concentrandosi piuttosto sul fatto che «questi frati guerrieri. custodirono per un certo tempo la Sindone e in essa contemplavano la prova che il Cristo era davvero passato attraverso la morte». La Frale espone però anche le ragioni per le quali l'esame al radiocarbonio potrebbe non essere definitivo: «secondo alcuni il metodo seguito non avrebbe rispettato le regole di una procedura scientifica». Inoltre i risultati potrebbero essere stati falsati dalla circostanza che la Sindone: « è un reperto archeologico che ha subìto numerosissime forme di contaminazione e sulla storia del quale c'è ancora moltissimo da scoprire». La Chiesa si mostra in ogni caso molto cauta, anche perché, scrive la Frale « Il giorno in cui dovesse dichiarare la sindone vero lenzuolo funebre di Gesù, diventerebbe molto difficile continuare a fare esami scientifici su di essa».

il Riformista 28.6.09
Una notte bianca per i Templari e la loro Sindone
di Paolo Rodari


OSTENSIONE. Torino, Primavera del 2010: il lenzuolo di lino che si dice abbia avvolto il corpo di Gesù appena morto verrà esposto in pubblico. È l'ultima fatica di un telo che ha attraversato secoli di storia coi suoi misteri in parte ancora irrisolti. Le ultime scoperte parlano dei Templari, i membri dell'ordine militare-religioso più potente del Medioevo, i quali, una volta perso il Santo Sepolcro, conservarono «l'idolo» in un posto segreto e sconosciuto ai più: li difendeva dalle eresie e dalle insidie del mondo.

Dopo quelle di Berlino (1997) e di Parigi (2002) - le prime -, ecco l'ultima, un'edizione straordinaria, talmente straordinaria che per organizzarla ci vorrà più o meno un anno: andrà in scena, infatti, nella primavera del 2010. Cosa? Una «notte bianca» particolare, in quanto sacra. Ovvero, tutta dedicata, in quel di Torino, alla Sindone, all'ostensione di quel «tessuto di lino di buona qualità» (questo tecnicamente s'intende per Sindone) conservato nel Duomo della città e sul quale è visibile l'immagine di un uomo che reca i segni di torture e maltrattamenti seguiti a una crocifissione. «È l'immagine di Cristo?», si domandano da anni storici e scienziati. Difficile rispondere. La Sindone è un mistero che, per il momento, trascende risposte certe e certificate.
Una notte bianca di ostensione della Sindone - tale la vuole la diocesi torinese - non è un'idea strampalata. La Sindone, in fondo, è come la Sacra Scrittura: va osservata, letta, guardata. E poi spetta al pubblico, alla gente, ai lettori, aprirsi a ciò che trasmette o, al contrario, chiudersi. In fondo, qui sta il segreto del successo di questo lenzuolo di lino: dice e non dice, mostra e nasconde. Per chi la guarda con l'occhio della fede svela parecchio. Per chi la guarda con occhiali diversi, probabilmente dice altro.
Già, gli occhiali. Sono tanti quelli usati per guardare e sviscerare il sacro telo. Molti di questi li hanno indossati, in tempi recenti e non, scrittori e studiosi. La maggior parte per dibattere attorno alla sua autenticità: è o non è il lenzuolo funebre di Gesù? Le bibliografie più complete mostrano oggi più di ottocento testi dedicati all'argomento. Tanti quelli dell'oggi scomparso vaticanista del Messaggero Orazio Petrosillo. Quindi, l'ultimo lavoro di un altro vaticanista e scrittore, Marco Tosatti, il quale nel recente Inchiesta sulla Sindone, spiega come l'indagine condotta con il metodo del radiocarbonio (che nel 1988 definì il lenzuolo «un falso medievale riconducibile a un'epoca compresa tra il 1260 e il 1390») sia viziata da un grave errore di calcolo matematico, riscontrato, tra gli altri, da docenti dell'Università La Sapienza di Roma.
Tesi del carbonio a parte, le interpretazioni sull'origine del lenzuolo di lino custodito a Torino sono innumerevoli. Secondo L'Ultimo Segreto di da Vinci di David Zurdo e Angel Gutierrez, la Sindone sarebbe in realtà una copia, eseguita da Leonardo da Vinci.
Secondo In Profezia, di Marco Buticchi, il lenzuolo venne utilizzato semplicemente per avvolgere l'ultimo Gran Maestro dell'Ordine dei Templari, Giacomo di Molay.
Ecco, i Templari. In La Fratellanza della Sacra Sindone di Julia Navarro, la Sindone autentica sarebbe ancora in possesso loro (dei Templari), mentre la «copia» conservata a Torino sarebbe in realtà una «copia mistica», data dal contatto della Sindone autentica con un lenzuolo simile. Questo contatto avrebbe causato il trasferimento dell'immagine da un lenzuolo all'altro e spiegherebbe perché la Sindone sarebbe in negativo.
Le tesi dei Templari, che mostrano insomma il legame del sacro ordine con il sacro lenzuolo, non sono del tutto ardite. Anzi. Anche Tosatti, nel suo lavoro, pur senza entrare nel merito dell'ipotesi che il lenzuolo sia o non sia una copia, non si esime dal sostenere che nel lasso di tempo che va dal 1204 al 1353 la Sindone possa essere stata custodita dai Templari i quali non si esposero vista la scomunica che colpiva coloro che sottraevano reliquie.
A onor del vero, il primo a mostrare il legame tra la Sindone e i Templari fu Ian Wilson. Questi, nel 1978, pubblicò La Sindone di Torino. Il lenzuolo funebre di Gesù Cristo: qui Wilson mostrò come nella storia del lenzuolo di lino vi sia un vistoso buco, uno spazio di circa mezzo secolo (dal 1204 al 1353), durante il quale quest'oggetto in un certo senso scompare dalle fonti storiche.
Di Wilson e della sua tesi, ma soprattutto della custodia del telo da parte dell'ordine religioso-militare più potente del Medioevo, ne parla Barbara Frale (ufficiale dell'Archivio Segreto vaticano), nell'appena dato alle stampe I Templari e la Sindone di Cristo. Anche per lei i Templari custodirono la Sindone. O meglio, la custodirono e venerarono per un certo lasso di tempo i maggiori dignitari dell'ordine là dove era conservato il tesoro centrale.
Per loro, per i Templari, il lenzuolo di lino oggi custodito a Torino era, senza mezzi termini, il vero sudario funebre di Gesù Cristo. E proprio per questo motivo, in un'epoca di confusione dottrinale diffusa in gran parte dalla stessa Chiesa, la Sindone rappresentava un potente antidoto contro il proliferare delle eresie. Un antidoto al quale i Templari si attaccarono convintamente.
Frale spiega che tutto ebbe inizio dopo il 1250. Perduta Gerusalemme, i Templari sentirono sempre più il bisogno di mantenere un contatto fisico, concreto, con i luoghi della vita di Cristo. Così si fecero ideare delle reliquie personali da portare addosso come difesa contro i peccati dell'anima e i rischi delle battaglie. Prima della perdita del Tempio, infatti, era loro uso portare nella basilica del Santo Sepolcro delle cordicelle, simbolo dei voti religiosi del Tempio: le poggiavano sulla pietra dove era stato deposto il cadavere di Gesù dopo la crocifissione. In questo modo, rendevano le cordicelle delle inestimabili reliquie della Passione di Cristo, reliquie da tenere sempre con sé a difesa dalle insidie. Perduto il Sepolcro a motivo della conquista di Saladino, dovettero consacrare le corde con qualcosa di diverso. E questo qualcosa di diverso era appunto la Sindone, custodita probabilmente nella città di Acri. L'«idolo», lo chiamavano le persone esterne all'ordine, perché nessuno, se non gli stessi Templari, sapeva esattamente di cosa si trattasse. Tutti sapevano che i Templari custodivano qualcosa di misterioso, ma non sapevano cosa fosse.
La Sindone, quella conservata oggi a Torino, lasciò dunque un segno indelebile nella vita dei Templari. E del resto non poteva che essere così: la caratteristica principale è che sul telo appaiono l'impronta e l'immagine di un individuo corrispondenti e praticamente fuse assieme: restituiscono la sagoma di un uomo come se vi fosse fuso dentro. È un soggetto adulto ma giovane, contratto nel tipico rigor mortis che caratterizza la muscolatura dei cadaveri nelle prime ore dopo il decesso, e porta ovunque i segni di traumi e violenze. Quest'uomo, insomma, chiunque fosse, è stato letteralmente massacrato. Sul volto ha un'impronta ematica legata al singolare fenomeno dell'ematoidrosi o «sudore di sangue»: è un processo raro che si presenta quando un soggetto subisce un fortissimo stress emotivo, in seguito al quale i vasi sanguigni della cute si dilatano e si provoca una specie di emorragia nelle ghiandole sudoriparie. Preso il cranio si trova l'impronta di tredici ferite inferte da oggetti appuntiti tutti dello stesso tipo, disposti nella parte superiore della testa a formare una specie di elmo o casco, i quali hanno provocato diversi rivoli di sangue rappreso. E così, di seguito, una scia di segni eloquenti come quella ferita da arma da punto e taglio inferta fra la quinta e la sesta costola nella metà destra del torace.
Gli indizi, dunque, sono tanti. Ma dire che quell'impronta sul lenzuolo di lino sia l'impronta del corpo defunto di Cristo è oggi ancora impossibile. Anche perché ciò che non si sa è come quella impronta si sia formata. Come non si sa come sia stato possibile che, a un certo punti, sia passata nelle mani dei Templari. Con ogni probabilità si può risalire alla data in cui i Templari non la custodirono più: lo scioglimento dell'ordine imposto per motivi politici nel 1312 e la morte sul rogo dell'ultimo Grande Maestro nel 1312 la consegnarono forzatamente ad altri custodi. Una consegna che, comunque, arrivò dopo che la stessa Sindone lasciò tracce indelebili sulla spiritualità e sulle usanze liturgiche dell'ordine religioso-militare più potente del Medioevo: i Templari.

Corriere della Sera 28.6.09
Teorie sulla «programmazione» del cervello
L’imprevedibilità della natura umana contro la psicologia evoluzionistica
di David Brooks


Non credo ci sia mai stata un’epoca percorsa da tante e così disparate teorie sulla natura umana quanto quella attuale. Gli economisti hanno la loro opinione: tutti gli esseri razionali sono calcolatori e corrono dietro agli incentivi. Dal punto di vista dei cristiani, invece, si parla di peccato originale e del cammino del credente in un mondo segnato dal male. E poi ci sono gli psicologi evoluzionistici, bravissimi ad attirare l’attenzione dei media. Per il 99% della storia umana, osservano costoro, la nostra specie è vissuta all’interno di piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori.
Coloro che sono sopravvissuti hanno sviluppato certi modelli mentali, trasmessi poi alle generazioni successive attraverso il patrimonio genetico. Alcuni di questi tratti potrebbero tornarci utili anche nell’epoca moderna: i bambini, per esempio, hanno la capacità di imparare il linguaggio a velocità sorprendente. Altre caratteristiche si sono rivelate invece nocive: gli esseri umani, purtroppo, sono ingordi di cibi grassi e dolci. Nel 2000 Geoffrey Miller, psicologo evoluzionistico, ha pubblicato un libro (The mating mind), nel quale sostiene che il processo di selezione sessuale nelle prime comunità umane abbia gettato le basi di molti comportamenti ancora oggi riscontrabili. In alcuni casi si tratta di qualità fisiche: gli uomini preferiscono le donne con un rapporto vita-fianchi di 0,7 (vale a dire una vita di 60 cm e fianchi di 90 cm). Le donne preferiscono uomini di statura più alta e di qualche anno più grandi. Altre caratteristiche sono più sottili.
Gli uomini, sostiene Miller, sono più generosi nel lasciare la mancia al ristorante, perché programmati per far sfoggio di agiatezza. L’adulto medio americano conosce circa 60.000 parole, molte di più di quelle strettamente necessarie. E se abbiamo a disposizione tante parole, è perché ci piace lasciarci lusingare e coccolare verbalmente dal nostro partner.
Di recente Miller ha pubblicato un altro libro, Spent, nel quale interpreta le nostre scelte consumistiche secondo le teorie della psicologia evoluzionistica.
La tesi fondamentale è che ciascuno di noi è nato con una dose specifica e individuale di sei grandi caratteristiche: intelligenza, apertura verso le novità, diligenza, piacevolezza, stabilità emotiva e capacità comunicativa. Tali moduli sono innati sia negli esseri umani che in altre specie animali. Siamo tutti narcisi, afferma Miller.
Passiamo gran parte della nostra vita a vantare la nostra bravura per attirare i partner. Anche nel caso in cui non siamo naturalmente intelligenti o estroversi, siamo sempre pronti ad acquistare prodotti e marche che diano l’impressione giusta.
L’autore ipotizza che l’autolesionismo delle ragazzine che si tagliuzzano il corpo sia un modo per dimostrare la loro resistenza alle infezioni. La psicologia evoluzionistica ha fatto il suo tempo e oggi è in declino. Sharon Begley la prende di mira nel Newsweek di questa settimana, con piglio deciso, anche se un po’ esagerato, ma sicuramente spassosissimo.
Spent è la prova che si è fatto ricorso a questa teoria per spiegare più di quanto sia ammissibile. Il primo problema è che, lungi dall’essere pre-programmato con una serie di modelli mentali innati, come asseriscono gli psicologi evoluzionistici, il nostro cervello è un organo eccezionalmente fluido e plastico. E l’evoluzione è un processo spesso più rapido di quanto sinora immaginato e oggi sappiamo che per produrre alterazioni genetiche non occorrono centinaia di migliaia di anni. Per di più, gli esseri umani si sono evoluti per adattarsi agli ambienti più svariati. Circostanze diverse possono coinvolgere selettivamente diversi potenziali genetici. Il comportamento individuale può variare enormemente da un contesto all’altro. Il bulletto arrogante nel campo sportivo forse è una pecorella nell’ora di matematica. Ogni essere umano sa attivare un caleidoscopio di ipotesi mentali e ricorrere alle più svariate strategie cognitive per risolvere gli stessi problemi. La psicologia evoluzionistica, invece, presuppone che la natura umana sia stata plasmata centinaia di migliaia di anni fa e poi la sua storia si sia in un certo senso arrestata. Ma la natura umana si adatta al flusso incessante di informazioni, facilitando l’interazione tra quelle più antiche, contenute nei geni, e quelle correnti, che le giungono dal mondo contemporaneo, in una fusione continua e singolarissima. Il secondo è un problema che la psicologia evoluzionistica condivide con l’economia: il suo individualismo esasperato, secondo il quale gli individui nascono con alcune caratteristiche e tendono a sfruttarle al massimo nella lotta per la sopravvivenza. Ma gli individui non vengono formati prima di accedere alla società, bensì creati proprio dall’interazione sociale. La nostra identità è forgiata dai ritmi particolari dell’attenzione materna, dal patrimonio condiviso di idee, simboli e azioni che ci compenetrano ogni istante della nostra vita. Fare shopping non è semplicemente uno strumento rivelatore dei nostri tratti innati e permanenti. Per alcuni, costituisce anche un modo per sperimentare le novità, nell’incessante processo di creazione e scoperta di sé. La psicologia evoluzionistica sbaglia nel pretendere che ogni comportamento umano corrisponda a un’unica teoria universale, inattaccabile dai condizionamenti di tempo e luogo. E senza via d’uscita.

Corriere della Sera 28.6.09
Sensi. Il volume di Waldemar Deonna
Un organo che è alla base di molte conoscenze, miti, religioni e credenze
Quel che gli occhi vedono e dicono al di là del reale
di Gillo Dorfles


Che l’occhio, di tutti gli organi del nostro corpo, sia al primo posto, è più che ov­vio: dei «cinque sensi» la vi­sta è certo la privilegiata; ma quella che è un’altra preroga­tiva di questo senso è la sua portata simbolica: non ci so­no «regni» vegetali, animali celestiali, dove un occhio — fisico, divino, ciclopico, sata­nico — non intervenga, per il bene (l’occhio di Dio) o per il male (del «malocchio» abbia­mo tutti, credo, una certa esperienza).
Non è dunque un caso che uno studioso come Walde­mar Deonna (noto archeolo­go di origine danese e profon­do conoscitore delle misterio­se analogie sensoriali) abbia dedicato un agile volume (corredato da imponenti no­te scientifiche) al problema del Simbolismo dell’occhio, a cura di Sabrina Stroppa e con una lucida introduzione di Carlo Ossola (Bollati Borin­ghieri, pp. 338, e 35). Natural­mente il volume non trascura i dati storici, fisiologici, mito­logici, eccetera — normali e patologici — riferiti all’oc­chio, ma quello che più inte­ressa è appunto la rassegna minuziosa dei diversi settori e dei diversi frangenti in cui l’occhio si è trasformato da organo fisico a squisito fatto­re metaforico.
Sarebbe impossibile non solo riassumere ma soltanto elencare gli infiniti esempi d’un simbolismo dell’occhio: certamente nessun altro orga­no corporeo ha avuto una sua controfigura metaforica tan­to per segnare un pericolo, quanto per sottolineare una protezione, tanto trasferito al mondo vegetale, quanto agli «occhi» d’una «occhieggian­te » pelliccia animale. L’oc­chio è stato non solo il trami­te di quasi ogni «conoscen­za » dell’uomo, ma è stato alla base di molte religioni, cre­denze, e leggende: così esisto­no esempi di monoftalmia simbolica; e, per contro di es­seri soprannaturali provvisti di tre, quattro, centinaia, di occhi: esseri con quattro oc­chi come il cane Argo, o vice­versa esseri monocoli come il Ciclope; mentre, come è no­to, un «terzo occhio» (identi­ficabile coll’epifisi o glandola pineale) sarebbe la possibile sede di una visione soprasen­sibile. A questo proposito, non è un caso se l’autore, ac­costandosi agli aspetti para­normali della visione, cita il famoso caso della medium Hélène Smith che, nei suoi di­pinti esoterici, partiva sem­pre da un occhio simbolico.
Se è vero che ogni metafo­ra racchiude un elemento di verità che spesso sopravanza la consueta denotazione d’un determinato termine; possia­mo senz’altro estendere an­che all’occhio — e alle meta­fore che dallo stesso proma­nano — la probabilità di que­sta affermazione; non solo nella speranza che l’«occhio di Dio» ci protegga, e che il «malocchio» del diavolo (o di chi per lui) non ci persegui­ti; ma soprattutto per render­ci conto che ogni nostro sguardo non deve soltanto os­servare quanto ci circonda, ma deve permetterci di «ve­dere » anche quello che l’oc­chio di solito non «guarda».

l’Unità 28.6.09
Parlamento in ostaggio
Quando il governo si crede onnipotente la maggioranza si inchina in silenzio
E il lavoro d’Aula diventa uno strano concetto
di Furio Colombo


Non so molto, purtroppo, dell’Osservatorio civico sul Parlamento italiano autore del rapporto «Camere aperte» e sulle organizzazioni «Openpolis», «Controllo cittadino» e «Cittadinanza attiva». Sono la fonte di innumerevoli articoli sul cattivo e scarso funzionamento dei parlamentari e del Parlamento. Se vivi e lavori in una delle due Camere della Repubblica italiana, sai che hanno ragione: «Lo spettacolo è desolante». Per citare il titolo di uno dei molti quotidiani che hanno dato diffusione all’indagine di «Openpolis»: «Solo 24 onorevoli su 900 lavorano a pieno ritmo». (Il Secolo XIX, 17 giugno 2009).
Ma un senso di desolazione anche più grande assale chi abbia familiarità col devastato lavoro parlamentare, quando ti spiegano come e in base a che cosa, le organizzazioni «di sorveglianza» che abbiamo citato hanno valutato il lavoro in aula e selezionato il miglior rendimento di Deputati e Senatori. Leggo che «sono andati a vedere quante volte ogni parlamentare è stato firmatario o co-firmatario di un atto (disegno di legge, mozione, interpellanza, interrogazione, risoluzione, ordine del giorno), quanti interventi ha fatto in assemblea o in commissione, se è stato relatore di un Ddl. Ad ogni iniziativa corrisponde un punteggio da 1 a 10. «L’indice di attività medio di un parlamentare è 2.34». Inevitabile la domanda: come è possibile immaginare un «parlamentare medio», quando il comportamento in aula è per forza molto diverso a seconda che il parlamentare appartenga alla maggioranza di governo o a uno dei tre schieramenti di opposizione (Pd, Idv, Udc)?
Comunque la diversità di comportamento è facile da immaginare. Chi sostiene il governo non propone, non interviene, non disturba il voto al decreto o proposta di legge del governo. Teme il rallentamento. Il governo, si sa, vuole tempi stretti di cui vantarsi. La sua maggioranza cerca di garantire con il silenzio quei tempi stretti.
Teoricamente il compito dei deputati di opposizione è di interferire per impedire o almeno per ritoccare un decreto o una proposta di legge. Ma è il gruppo di cui fai parte alla Camera o al Senato che ti chiede di intervenire, lo chiede a tutti, lo chiede a pochi, lo chiede a nessuno. La quantità di interventi in aula raramente è improvvisata o spontanea. Ciascun gruppo parlamentare ha autorità e potere per provocare o proibire (o almeno scoraggiare) tali interventi. In un passaggio del rapporto, passaggio che è stato citato solo da Dagospia, chi scrive è stato giudicato «il deputato più ribelle». Il giudizio si riferisce, probabilmente, ai voti contro il trattato militare Italia-Libia e contro la legge leghista sul federalismo fiscale.
«Ribelle» vale o non vale come titolo di buon lavoro parlamentare? Posso dire che non sono stati assegnati punti. Ma la questione che serve di più a capire lo stato delle cose nel Parlamento italiano, è la visione distorta di chi crede di poter giudicare da alcune formalità la vita politica di un Paese in condizioni di emergenza. Tutto ciò si vede bene nel punto in cui leggiamo che «in un anno, su 4016 disegni di legge presentati solo 653 sono stati presi in considerazione mentre quelli diventati legge sono la miseria di 68. Su 68 leggi approvate, 61 erano proposte del governo, segno che l’aula ha oggi più che mai un ruolo quasi notarile». L’affermazione merita un commento.
Primo: 68 leggi, se rispondessero a un disegno di costruzione sensata della vita giuridica di un Paese, non sono poche. Se mai sono tante, sono troppe. Posso far sapere ai lettori che, nello stesso periodo, Camera e Senato americani hanno superato di poco la metà del pacchetto di leggi italiane che ai nostri osservatori sembra misero. Secondo: nel Parlamento italiano, Deputati e Senatori non decidono che cosa discutere, non hanno alcun ruolo in proposito. Lo decidono i capigruppo, che ricevono l’ordine dai capi partito. In aula non sale la proposta del parlamentare ma discendono decisioni politiche prese più in alto e altrove. Terzo: per forza quasi tutte le leggi approvate sono di governo. Quando il governo si crede onnipotente, come in questa triste stagione della politica italiana, lo stato di dominio si accentua perché la vasta maggioranza di cui gode si inchina in silenzio. Quarto: mai dimenticare la legge elettorale con cui sono stati votati gli attuali Deputati e Senatori. Si tratta di «nominati» in liste blindate di partito. È naturale la domanda: perché non si ribellano? La risposta è semplice, triste e già inclusa in quanto ho cercato di spiegare: questo Parlamento è ostaggio di un governo che si piega malvolentieri a ciò che resta della democrazia

Repubblica 28.6.09
"Independent" e "Times" dedicano due pagine ciascuno al caso. E indicano Draghi come successore
"Ultimi giorni alla corte di Re Silvio" la stampa inglese parla di dimissioni
di Enrico Franceschini


londra - «Gli ultimi giorni della corte di re Silvio» s´intitola un paginone dell´Independent di ieri. E il Times, con altre due pagine, ipotizza che le pressioni per costringere Berlusconi a dimettersi continueranno «fino all´autunno», indicando il governatore di Bankitalia Mario Draghi, come possibile premier ad interim. Il caso rimane al centro dell´attenzione dei media e dell´opinione pubblica mondiale, in particolare in Gran Bretagna, dove la stampa appare colpita da una vicenda a base di "sesso, bugie e videotape", parafrasando un noto film.
«Berlusconi sembrava immune dagli scandali, ma le sensazionali notizie di caroselli sessuali a base di feste, modelle e denaro stanno facendo sentire il loro peso sul primo ministro», scrive l´ex corrispondente da Roma dell´Independent, Peter Popham. L´attenzione è puntata anche sulle crescenti critiche della Chiesa cattolica, «che sta cominciando quietamente a tenere Berlusconi a distanza». L´articolo sottolinea che perfino uno dei suoi più fidati consiglieri del premier, Giuliano Ferrara, direttore del Foglio, ha tracciato «un´analogia tra l´attuale situazione di Berlusconi e quella di Mussolini il 24 luglio 1943», il giorno prima che il duce fu destituito dal re. «La defezione di Ferrara», scrive Popham, «fa parte degli effetti collaterali del divorzio chiesto da Veronica Lario», poiché Il Foglio è parzialmente di proprietà della moglie del premier.
Il Times pubblica un´intervista a Barbara Montereale. Quando a gennaio fu invitata in Sardegna nella villa del premier, dice la giovane, «c´erano un sacco di ragazze che non si conoscevano tra loro», in un´atmosfera «quasi competitiva». Per la sua presenza conferma di aver ricevuto 11 mila euro: mille dall´uomo d´affari Giampaolo Tarantini, che l´accompagnava, e 10 mila da Berlusconi, come «regalo». Un secondo articolo nota che la squadra del premier si sente «in stato d´assedio», con l´economia che continua a declinare, e Draghi («indicato da alcuni come possibile premier a interim» se Berlusconi dovesse dimettersi) che accusa il governo di «non avere una credibile via d´uscita» dalla recessione. Il Times rileva che Berlusconi affida sempre più spesso il compito di apparire in pubblico a Gianni Letta, dando la colpa all´artrite che lo affligge. L´articolo ipotizza anche che la salute «potrebbe essere una scusa» per rassegnare le dimissioni.

Corriere della Sera 28.6.09
Il congresso L’ex vicepremier propone un confronto sulla laicità. Sì di Pannella
Rutelli ai radicali: voi arricchite i democratici


CHIANCIANO — Francesco Rutelli tende la mano ai radica­li. Considera la loro assenza dal Parlamento «una povertà so­verchiante nel confronto sulle scelte fondamentali». Vuole che siano interlocutori privile­giati del Pd quando si discute di problemi etici e diritti civili. Perché gli riconosce una ric­chezza intellettuale di cui il cen­trosinistra dovrebbe avvalersi. Queste cose Rutelli non è venu­to a dirle di persona all'assem­blea di Chianciano. Le ha comu­nicate attraverso una lettera in­dirizzata a Marco Pannella e ad Emma Bonino. Non dimentico del fatto che all'inizio la fonte da cui trasse la sua forza politi­ca fu proprio il partito radicale, Rutelli descrive i radicali come una delle «rare comunità» con cui è possibile un dialogo.
E allora ecco la scelta oppor­tuna di aprire con loro un con­fronto «sulle condizioni dell' umanesimo laico». Rutelli, che è stato spesso accusato di una eccessiva vicinanza alle tesi del­la Chiesa sui temi etici, solleci­ta un confronto coi radicali pro­prio su argomenti che toccano la coscienza. E ritiene che «in uno Stato laico» questi proble­mi non debbano essere stru­mentalizzati «in senso politi­cante né confessionale».
Pannella, naturalmente, con­corda in pieno. Sulle questioni etiche, secondo lui, la maggio­ranza degli italiani manifesta «nei comportamenti» di essere in assoluta sintonia coi radica­li. Il vecchio leader vorrebbe che il Pd se ne rendesse conto. Questi tre giorni di assemblea a Chianciano sono in fondo una riflessione su quale dev'es­sere il rapporto col Pd. Un rap­porto difficile, se non addirittu­ra impossibile, a giudizio della Bonino, considerando l'atteg­giamento di chiusura di France­schini e compagni. E dunque quale futuro per i radicali? La speranza è di coagulare quei gruppi privi di rappresentanza parlamentare, liberali, sociali­sti, laici. Possibilmente in vista di una formazione unica. L'in­certezza è sui tempi. Il sociali­sta Riccardo Nencini preme per «organizzarsi subito», men­tre il Pd è alle prese col congres­so. Ma un altro socialista, Save­rio Zavettieri, più realista, spo­sta la possibilità di un'azione comune alle prossime elezioni.

il Riformista 28.6.09
Io, elettore Pd convinto da Franceschini all'astensione
È meglio che il Pd muoia
di Giampaolo Pansa


Diciamoci la verità: il Partito Democratico è un giovin signore che sta morendo. Vale la pena di tenerlo in vita? Per poi vederlo di nuovo in agonia poco tempo dopo? So di dare un dolore a molti che hanno creduto in questo esperimento. Ma l'esperimento è fallito. Meglio prenderne atto e finirla qui. Cercando di immaginare un'altra strada per i riformisti italiani.
Tra quelli che hanno creduto nel Pd c'è anche il sottoscritto. Avevo poca fiducia nel suo leader, Walter Veltroni. Mi sembrava un peso piuma a confronto di un Berlusconi peso massimo. Per di più, aveva alle spalle una serie di sconfitte. Tanto che scrissi un Bestiario intitolato: "La favola del Perdente di successo". Confesso che, lì per lì, mi sembrò un pezzo carogna. Poi mi dissi: per chi scrive sui giornali la cattiveria non è mai troppa.
Alle elezioni politiche dell'aprile 2008 ho votato Pd, pur intuendo che sarebbe stato battuto dall'armata del Cavaliere. A sconfitta avvenuta, ho pensato: pazienza, il Pd andrà avanti lo stesso, il ragazzo si farà le ossa e resterà in campo. Diamogli fiducia. Un partito nuovo non s'improvvisa in qualche mese.
Invece è accaduto il disastro. Nuove sconfitte elettorali in Abruzzo e in Sardegna. Le dimissioni di Walter. L'ingresso in scena del vice, Dario Franceschini. Una scelta presentata come obbligatoria, ma disastrosa. Il suo primo discorso mi è bastato. E senza essere un mago, ho compreso che la baracca non avrebbe retto. Non è una colpa essere sciocchi. Ma se uno sciocco prende la guida di un partito, soltanto il Padreterno può salvare lui, i suoi iscritti, i suoi elettori.
La campagna elettorale per le europee e le amministrative ha ribadito le previsioni più cupe. Una catastrofe politica e d'immagine. Inutile rievocarla, perché è robaccia dell'altro ieri. Al momento del voto, ho deciso di astenermi. Come altri elettori del Pd, non mi sono presentato al seggio. Era la prima volta che lo facevo in tanti anni. Ma non ho esitato a farlo.
Tuttavia, all'orizzonte intravedevo uno spiraglio di luce. Franceschini aveva giurato che in autunno avrebbe lasciato la sedia di segretario, cedendo il posto ad altri. Me lo vedo davanti ancora adesso, quando dichiara alla tivù: «Il mio compito si conclude in ottobre!». Aveva un tono ispirato e, al tempo stesso, tagliente. E l'ho quasi ammirato. Mi sono detto: finalmente uno della casta riconosce i propri limiti e se ne ritorna a casa.
Erano tutte balle. Il tragico Dario ci ha preso per i fondelli. Infatti eccolo di nuovo qua, a dirci: ci ho ripensato, voglio restare segretario del partito, dunque si aprano le danze! Danze di guerra, naturalmente. Contro un altro candidato, Pier Luigi Bersani. E subito dopo, ecco apparire gli schieramenti dei ras democratici. A cominciare dall'eterno Max D'Alema a fianco di Bersani. E dal redivivo Uolter Veltroni a dar man forte allo spergiuro Franceschini.
A quel punto ho immaginato che poteva esserci una terza via. Vale a dire un candidato nuovo: Sergio Chiamparino, il sindaco di Torino. Ho pensato a lui per una serie di motivi. Il Chiampa è un politico serio. Non urla. Non aggredisce l'avversario. Non sbrocca, ossia non parla a vanvera. Ha buon senso. È radicato sul territorio, come si usa dire. Se occorre, sa essere duro, ma conosce il valore della trattativa. Insomma, ecco uno in grado di far uscire il Pd dalle secche in cui si è arenato. E di riportarlo in mare aperto.
Sino a qualche giorno fa, volevo dedicare il Bestiario tutto a lui. E fare una dichiarazione di voto a suo favore. Poi ci ho riflettuto. Quel che leggo sul Riformista e sugli altri giornali, mi dice che nel Pd lo scontro sul leader si sta mutando in una guerra civile. Clan contro clan. Tutti contro tutti. Pioggia di pallottole al veleno. Vale la pena di gettare in un conflitto all'ultimo sangue un uomo come Chiamparino? O anche un altro politico per bene come lui?
La mia risposta è no. E il mio no mi suggerisce un'ipotesi diversa. Anche il Pd è un amalgama non riuscito. Ex comunisti ed ex democristiani non ce la fanno a convivere nello stesso partito. Chiunque sia il nuovo segretario, la loro guerra continuerà. Sempre più maligna e distruttiva.
Ma allora è meglio dichiarare che l'esperimento è fallito. E scrivere la parola fine. Il Pd è praticamente morto. Cercare di mantenerlo in vita sarebbe un'impresa non soltanto vana, ma dannosa. Anzi, tragicamente grottesca. Il risultato potrebbe essere uno soltanto: un cadavere che cammina. Del tutto incapace di contrastare il centrodestra. E meno che mai in grado di batterlo alle prossime elezioni.
Dunque ai democratici non resta che una scelta: dividersi e andare ciascuno per la propria strada. Quelli che vengono dai Ds possono dar vita a un partito socialdemocratico e riformista. Cercando un accordo con i reduci del Psi rimasti nel centrosinistra. E con le aree della sinistra radicale che non vogliono essere le frange lunatiche dell'anticapitalismo.
Lo stesso vale per i post democristiani della Margherita. Anche per loro c'è una via di uscita: trovare un accordo con l'Udc di Cesa e Casini. E dar vita a un nuovo partito centrista, sordo a tutte le sirene del berlusconismo. Un vecchio motto dice: marciare divisi per colpire uniti. È bene che la truppa dei democratici, a cominciare dai capi, se ne ricordino.
Comunque, come sostiene il saggio, per prima cosa bisogna vivere e poi filosofare. Il Pd sta morendo. Salvate il salvabile. In caso contrario, rassegnatevi alla dittatura del Cavaliere. Escort comprese.

Corriere della Sera 28.6.09
Grazie agli incentivi del governo tedesco la quota delle energie rinnovabili ha raggiunto il 14%. Nel nostro Paese i sussidi più alti nell’area Ue
Il sole catturato dal deserto nei piani di Germania e Italia
Impianti in Africa per l’energia da importare in Europa
di Danilo Taino


BERLINO — Sembreranno file in­finite di sedie a sdraio, nella sabbia del deserto del Nord Africa. Blu, co­me lo sono i pannelli solari. Si chia­ma Desertec ed è un progetto da 400 miliardi (sì, miliardi) di euro che sarà lanciato il 13 luglio a Mo­naco. L’idea è del gigante assicurati­vo Munich Re, che ha messo insie­me un gruppo di imprese per realiz­zare un vecchio sogno: produrre energia pulita dove c’è molto sole ed esportarla in Europa. Secondo il piano, dal 2019 il Vecchio Continen­te potrebbe essere approvvigiona­to, per il 15% dei suoi consumi, da energia solare in arrivo dal Sahara. Alla conferenza ci saranno impre­se come Deutsche Bank, Siemens, Rwe, E.On, il governo di Berlino, la Lega Araba, il Club di Roma, centri di studio tedeschi e probabilmente anche imprese italiane e spagnole. Una cosa seria. Non risolverà il pro­blema della dipendenza energetica da aree politicamente instabili e non sarà facile da realizzare. Ma è il segno che il sole è pronto a fare un salto di qualità nell’economia del mondo e che la Germania dirige le danze.
Nonostante il Paese non sia un paradiso tropicale, da quasi un ven­tennio i governi tedeschi — ancor più quello in carica di Angela Me­rkel — incentivano lo sviluppo del­le tecnologie per estrarre energia dal sole. Dal 2004 in modo aggressi­vo. Il risultato di questa politica (e dell’amore dei tedeschi per l’am­biente) è che la Germania produce oltre il 14% dei suoi consumi elettri­ci da energie rinnovabili (anche vento e biomasse). Se ci fosse più sole, i risultati sarebbero straordi­nari. L’incentivo, simile a quello ita­liano ma precedente, consiste nel fatto che lo Stato compra dai priva­ti (anche famiglie) l’energia solare prodotta con pannelli e non consu­mata a un prezzo più alto di quello di mercato: un sussidio per incenti­vare le fonti rinnovabili. Interi quar­tieri, ad esempio in città come Fri­burgo e Ulm, hanno tetti a pannelli fotovoltaici. Alcune cittadine, Mar­burg per dire, tendono a rendere obbligatorio il sistema solare sul tetto. Grandi aree sono dedicate al­lo stesso scopo: a fine 2008, un ex campo d’aviazione della Germania Est — Waldpolenz — è diventato il primo o secondo parco fotovoltai­co del mondo: 40 megawatt. Nel Paese ci sono 160 istituti che fanno ricerca nel campo. Il primo produt­tore mondiale di celle fotovoltai­che è tedesco, Q-cell, e i grandi gruppi, a partire da Siemens, sono coinvolti nelle diverse fasi del pro­cesso. L’idea dei tedeschi è che quella del sole (ma anche del ven­to) sia l’industria del futuro, in gran parte destinata all’export. Tra dieci anni — calcola il professor Ei­cke Weber, del Fraunhofer di Fri­burgo, nel campo, l’istituto forse più importante al mondo — «l’energia solare costerà meno del­l’energia tradizionale, il fotovoltai­co avrà una grande diffusione. I Pa­esi che si occupano in modo positi­vo e aggressivo di questa tecnolo­gia avranno un futuro migliore. I lettori del Corriere della Sera do­vrebbero rendersene conto».
In effetti, l’Italia se n’è resa con­to, almeno in teoria. Attraverso il Conto Energia (non troppo diver­so dal meccanismo tedesco), il mercato della Penisola è diventato il più generoso in Europa in fatto di sussidi (da 36 a 49 centesimi al chilowattora), tanto che attrae molti investitori dall’estero. Uno studio recente della Scuola di Ma­nagement del Politecnico di Mila­no prevede che nel 2011 si raggiun­geranno i 1.200 megawatt di poten­za fotovoltaica installata grazie agli incentivi del Conto Energia, cifra oltre la quale il sussidio dovrà cala­re. Ciò nonostante, lo stesso stu­dio stima che nel 2012 si possa arri­vare (nello scenario migliore) a 2.430 megawatt installati. Una for­te crescita: 37 mila impianti in eser­cizio, 5 mila dei quali creati nel pri­mo trimestre del 2009 (il mercato, oggi, vale mille miliardi, il triplo se si conta l’indotto).
Non solo. L’Italia potrebbe esse­re — grazie al rendimento dei siste­mi fotovoltaici e al calo dei loro co­sti — il primo Paese al mondo a rag­giungere la parità dei prezzi di ener­gia solare e energia tradizionale: se­condo qualcuno già l’anno prossi­mo, più probabilmente un po’ do­po. I sussidi dovranno a quel punto essere ridotti fino ad arrivare a zero ma per il settore si aprirà una sta­gione nuova. Il problema è che la burocrazia ne ostacola lo sviluppo, con cavilli, ostacoli e un sistema di autorizzazioni diverse da comune a comune. Anche così in Italia il setto­re attraversa un boom, che sarebbe maggiore se non ci fosse stata la cri­si finanziaria, la quale, calcola il Po­litecnico, nel 2009 farà perdere 300 megawatt di potenza installata.
Il Vaticano ha messo i pannelli sulla Sala Nervi con un progetto ita­lo- tedesco, la Sicilia è giustamente all’avanguardia e a Noto si dovreb­be realizzare una delle centrali foto­voltaiche più grandi al mondo, l’Enel finirà quest’anno un impian­to da 5 megawatt con una tecnolo­gia innovativa. E il colonnello Gheddafi ha parlato poche settima­ne fa con l’amministratore delega­to dell’Eni Paolo Scaroni di un gran­de progetto per coprire di pannelli solari parte del deserto libico meri­dionale: energia a basso costo per i Paesi confinanti più poveri. Sedie a sdraio ovunque.

sabato 27 giugno 2009

Corriere della Sera 27.6.09
In prima fila. L’editorialista americano spiega le due settimane trascorse a raccontare la protesta
La Teheran di Cohen: «Ho visto il coraggio»
di Paolo Valentino


WASHINGTON — Ha ricevuto molte email in questi giorni, Roger Cohen. E molte con un tema ricorrente: i media tradizionali contano ancora, hanno un ruolo importante. «Credo ci sia della verità: al fondo ciò che conta per rac­contare un avvenimento è la visione sul terreno», dice al telefono dalla sua casa di Brooklyn.
L’editorialista del New York Times è stato in Iran per quasi 2 settimane. Arri­vato alla vigilia delle elezioni, è stato uno degli ultimi giornalisti occidentali a lasciare il Paese, due giorni fa. Si è tro­vato nella mischia insieme al direttore, Bill Keller e all’inviato Robert Worth. Doveva analizzare, spiegare. Ma i fatti lo hanno travolto ed è tornato a fare il cronista, anche perché nel frattempo agli altri era scaduto il visto e lui era rimasto solo.
«È stata una delle esperienze più in­tense in 30 anni di lavoro. Non avevo mai visto un passaggio così rapido e brutale, da uno stato d’animo a un al­tro. L’atmosfera di Teheran alla vigilia era straordinaria. I dibattiti erano vigo­rosi, anche più di quelli di una campa­gna americana o europea. Poi, in 24 ore, un cambiamento radicale: repres­sione militare, poliziotti, milizie an­ti- sommossa, Guardie della Rivoluzio­ne che picchiavano la gente, tiravano i lacrimogeni, sparavano».
È stata una successione inarrestabi­le, segnata da una crescente atmosfera di paura, ma anche da coraggio e digni­tà. E Cohen ammette di essere stato «sempre più coinvolto sul piano emoti­vo ». Lo ha colpito «vedere centinaia di migliaia affrontare coraggiosamente l’apparato militare, giovanissimi insan­guinati, vecchi con le stampelle, nego­zianti che offrivano aiuto e cibo. So­prattutto le donne, le più eroiche di tut­ti, che tornavano a protestare anche do­po essere state picchiate e ferite, don­ne che incitavano gli altri a non arretra­re, donne che la notte gridavano dai tetti, morte al dittatore». Donne come quella ragazza che gli ha urlato «getta via la penna e il taccuino, vieni ad aiu­tarci, qui non c’è democrazia», prima di sparire verso la linea nera dei poli­ziotti che agitavano i manganelli.
Una sensazione strana, dice Cohen, «perché in questa età iperconnessa le possibilità per un giornalista di essere virtualmente solo in una storia di que­ste dimensioni è ormai remota, quan­do ti succede, ti accorgi quanto vale, forse è stato un modo di ricordare alle persone che i vecchi dinosauri, com’è di moda definire i giornali, possono es­sere ancora importanti». Un j’accuse al­la blogosfera? «No. La blogosfera ha un ruolo fondamentale, ma spesso è un circuito chiuso di persone che discuto­no fra di loro le rispettive opinioni. L’Huffington Post e altri siti celebri non hanno inviati sul campo, ma io cre­do che avere un occhio in diretta sugli avvenimenti sia cruciale e in questo ca­so abbia fatto una grande differenza».
Cohen però non nega che il suo lavo­ro sia stato aiutato e completato dalla tecnologia: «Soprattutto quando la re­pressione è aumentata e i fotografi non potevano più uscire pena l’arre­sto, l’abilità di migliaia di dimostranti di mandare al mondo messaggi e foto è stata decisiva. Ma una delle cose in­credibili della protesta è stato anche il passaparola, quando i cellulari non hanno più funzionato».
Il coinvolgimento emotivo non gli ha impedito di analizzare in profondi­tà gli avvenimenti: «Ho speso molto tempo in Iran quest’anno ed ero prepa­rato. Questo regime non ha più del 30% di appoggio popolare, ma finora aveva gestito con intelligenza il suo po­tere, usando la repressione in maniera selettiva. Sotto la crosta della Repubbli­ca islamica, l’Iran è una società con cer­ti margini di libertà: la maggioranza de­gli iraniani erano remissivi riluttanti».
Tutto questo è finito dopo le elezio­ni del 12 giugno: «Il popolo è passato da una forma d’insoddisfatta acquie­scenza all’opposizione aperta e nel lun­go termine ciò avrà conseguenze pro­fonde ».

Corriere della Sera 27.6.09
Una madre: «Non andare in piazza, sparano». Un ragazzo: è colpa vostra se esiste questo regime
Ora i figli della rivoluzione accusano i padri
di Andrea Nicastro


«Domani vado in manifestazio­ne ». È un colpo al cuore. La mamma tentenna un attimo, poi fa clic sul ta­sto «commenta» e scrive: «Ahmed, ti prego, non farlo. È pericoloso. Spa­rano ».
Ma capita anche di leggere l’oppo­sto e allora sono i figli a tremare per i genitori. «Finito l’ufficio, mio pa­dre è passato a prendere la mamma al lavoro e insieme sono andati in Piazza Rivoluzione, al corteo per Mousavi. Mi sento in colpa per non averli accompagnati. Ma io ho pau­ra e poi, sono convinta che non ser­va assolutamente a nulla. Questo Pa­ese non cambierà mai. Loro invece vivono come se, con la macchina del tempo, fossero tornati indietro di trent’anni. Gli sembra di rivedere la Rivoluzione di Khomeini e, fran­camente, credo siano felici anche so­lo di provare ancora certe emozio­ni ». Firmato Yasaman Shaerané, Gelsomino Poetico.
In Iran le conversazioni da tinello si sono spostate sui blog. I «diari» virtuali, aperti al mondo, mostrano due generazioni confrontarsi davan­ti all’idea della rivolta e delle sue conseguenze fisiche.
«Ieri, hanno rilasciato mio fratel­lo. Il papà l’ha aspettato tutto il gior­no davanti alla stazione di polizia che gli aveva indicato il suo 'contat­to'. Ha pagato 5 milioni di Toman — all’incirca 4 mila euro — per libe­rarlo. La tangente. Ora cammina con i piedi aperti, ha le orecchie piat­te, le guance a palla, non lo si ricono­sce dai lividi. I suoi begli occhi verdi sono annegati nel rosso dei capilla­ri.
Papà l’ha disteso sul letto e se n’è andato senza dire una parola. Ha preso le chiavi di casa e ci ha chiuso dentro. Adesso sono agli arresti an­ch’io ». Firmato Fati.
«Non possiamo piangere e nem­meno gridare — si legge in un mes­saggio rilanciato in una mailing list di femministe iraniane —. Ci ha pre­so una brutta malattia. Ci distrugge sapere che non puoi fare niente, ca­pire una volta per tutte che razza di gabbia opprimente ci hanno costrui­to intorno. Non abbiamo energie. Quella piccola forza che avevamo sta finendo». Pare la lettera di un giovane. Le repliche vengono dagli adulti. «Abbiamo già fatto una Rivoluzione, è il tempo di farne un’al­tra ». Oppure: «Non fate circolare questa mail, è demoralizzante. Ab­biamo bisogno dell’entusiasmo dei giovani per risolvere questa vicen­da».
Bahar, su Persianblog, attacca di­rettamente i genitori: «È colpa loro se siamo in questo regime. Sono lo­ro, quelli sopra i 50 anni, che l’han­no costruito con la Rivoluzione Isla­mica. E adesso vogliono impedire a me di migliorarlo? Due errori nella stessa vita sono troppi».
Un padre, Mohan, affida le sue previsioni al commento di un artico­lo sull’appannarsi della protesta. Ma sembra stia facendo un predicoz­zo ai figli adolescenti. «Oggi sono cominciati i tre giorni del 'concur sarasari' — il concorso nazionale di ammissione alle università, un pas­saggio fondamentale, capace di con­dizionare l’intera carriera futura — e i ragazzi che hanno studiato tutto l’anno non potevano permettersi di essere arrestati e saltare il 'concur'. Ora invece saranno liberi fino a set­tembre. Attenzione, bisogna fargli capire che sfidare polizia e basiji non è un gioco. Invece del 'concur' possono perdere la vita. Come Neda in strada o impiccati come moha­reb », nemici di Dio.
Confessa colui che sembra un adulto: «Scusatemi, scusatemi. Non riesco a guardarmi allo specchio. Ve­do mia figlia uscire per partecipare ai cortei e tremo all’idea di non rive­derla. E’ colpa mia se è costretta a vivere in questo mondo. Colpa mia. Per questo non riesco a trattenerla, mi vergogno troppo di me stesso».

l’Unità 27.6.09
Qui Chianciano
Ascoltare i senza quorum
di Luigi Manconi


In queste ore, a Chianciano, i Radicali offrono una preziosa occasione di confronto a tutti i segmenti della sinistra «senza quorum».
Marco Pannella intende fare di quel dato negativo uno strumento di crescita: tanto più utile perché all’interno di quell’area le tendenze alla depressione e, quale effetto ultimo, la «sindrome scissionista», impediscono, quasi fosse una maledizione, di imparare dalle sconfitte. A tale appuntamento non sembra interessato il Pd.
È un errore. Innanzitutto perché il Partito democratico, a sua volta, registra un risultato assai gramo, che rivela, un notevole deficit di insediamento territoriale e mobilitazione sociale. Non solo: tra «quelli senza quorum» sono molti coloro ai quali il Pd dovrebbe prestare attenzione e offrire spazio politico. I Radicali in primo luogo. La loro esperienza all’interno dei gruppi parlamentari del Pd è assai positiva. Non la si è potuta rinnovare in occasione del voto europeo, per responsabilità primaria della leadership democratica. Ma è lì, nel Partito democratico, il posto dei Radicali, a patto che – ma vale per tutte le componenti - si adottino regole di democrazia interna, puntualmente definite e rigorosamente rispettate.
Certo, l’assemblea di Chianciano potrà decidere per la ricostituzione della Rosa nel Pugno o per l’ennesimo «nuovo partito di tutta la sinistra», ma si rischia semplicemente di differire il vero problema. Che è, poi, quello di realizzare un «partito grande» e a struttura coalizionale. Un partito-famiglia allargata, dove diverse culture e tradizioni, varie generazioni e sensibilità, differenti percorsi ed esperienze possano trovare una sede accogliente. Nel Labour party, per anni, hanno convissuto Tony Blair e i più tetragoni trotskisti.
Si dirà: «ma in Italia le condizioni sono totalmente diverse». Sì, sì, ma perché mai Franceschini o Bersani dovrebbero aver paura della tenera Emma Bonino?

l’Unità 27.6.09
Da una generazione all’altra
L’ANPI, la CGIL e gli occhi della memoria
di Guglielmo Epifani


La fase che il Paese sta attraversando, sul piano politico, economico e sociale, porta già i segni di altri periodi storici, quando davanti all’impoverimento di molte fasce della popolazione e alla perdita di senso del ruolo della politica, si sono riaffacciate le antiche tentazioni della semplificazione della rappresentanza democratica, del decisionismo, dell’esclusione dei più deboli e dei diversi. A pagare il prezzo di tutto questo, oltre ai soggetti più deboli, dentro e fuori la nostra società, sono le generazioni più giovani, in un processo accelerato di sradicamento culturale e conseguente mancanza di senso e, quindi, di valori. Appare allora indispensabile che, davanti alla superficialità e alla vacuità di tante dichiarazioni gridate, fuochi fatui ma ingigantiti e reiterati dai media, perduri una memoria certa, persistente, viva.
L’autorevolezza delle tante donne e dei tanti uomini, che rischiarono spesso tutto per la libertà e la democrazia, ha contribuito a far sì che, a distanza di più di sessant’anni, il loro esempio permanga agli “occhi senza memoria” ma lo stesso formidabile rigore morale e il ricordo del sacrificio estremo dei tanti compagni che diedero la vita per quei valori di civiltà, li spingono oggi a interrogarsi sul futuro, sull’ineluttabile avvicendamento.
La visione del domani, da parte dell’Anpi, assume così il più alto momento di responsabilità: preparare il futuro per i figli è il gesto più altruista che ci si possa aspettare da un padre. Vanno quindi giustamente superati dubbi e consuetudini, dentro la logica del ricambio generazionale a tutti i livelli di direzione, facendo dell’Associazione il luogo d’incontro di tutti i democratici antifascisti, il luogo dei valori della Costituzione e della stessa Resistenza.
Per far ciò, però, per aprire questa casa, è necessario predisporne la ricollocazione al centro del dibattito politico, attraverso posizioni e proposte che misurino esclusivamente sul merito le distanze o le affinità con gli altri soggetti politici e sociali, al fine di salvaguardare l’identità portatrice dei valori democratici e civili. Questo ruolo democratico unitario potrà permettere per molto tempo di poter parlare ancora ai punti nevralgici di una società che si voglia basata sui principi di solidarietà, rispetto delle regole, difesa del bene comune; trasmettere i valori della nostra Costituzione ai giovani delle scuole e delle università, ai componenti delle forze dell’ordine, delle forze armate, della pubblica amministrazione, dialogando con le rappresentanze politiche e sociali, rapportandosi con le istituzioni.
In questo quadro, la Cgil, pur nel rispetto delle reciproche autonomie, è disponibile a sostenere il progetto, dando da subito la propria disponibilità a valutare con l’Anpi, sul piano organizzativo, tutte le possibili e opportune sinergie.

Repubblica 27.6.09
Minacce e disperazione
di Ezio Mauro


Con un passo in più verso il suo personale abisso politico, ieri Silvio Berlusconi si è collocato all´opposizione rispetto all´establishment internazionale di cui dovrebbe far parte come imprenditore e come capo del governo italiano. Sentendosi assediato dall´imbarazzo che lo circonda fuori dal paesaggio protetto del suo mondo televisivo, il premier ha attaccato tutto il sistema libero e autonomo che non accetta di farsi strumento del suo dominio: Banca d´Italia, organismi di analisi e di controllo internazionale, Europa, e naturalmente «giornali eversivi», vale a dire Repubblica.
Questa volta la minaccia è esplicita e addirittura sguaiata nella sua prepotenza, se non fosse un segno chiaro di disperazione. Il Cavaliere annuncia infatti che «chiuderà la bocca» a «tutti quei signori che parlano di crisi», alle organizzazioni che «continuano a diffondere dati di calo dell´economia anche di 5 punti», come ha appena fatto nel doveroso esercizio della sua responsabilità il governatore Draghi e come fanno regolarmente istituzioni neutre, libere e autorevoli nel rispetto generale dei leader democratici di tutto l´Occidente.
Nello stesso tempo Berlusconi rilancia la sua personale turbativa di mercato, invitando esplicitamente gli investitori a «minacciare» il ritiro della pubblicità ai giornali che a suo giudizio diffondono la paura della crisi.
Davanti a un premier imprenditore ed editore che chiede agli industriali di «minacciare» i giornali, con l´eco puntuale e ridicola del ministro Bondi che replica l´accusa di eversione a Repubblica, ci sarebbe poco da aggiungere. Se non notare una cosa: è la prima volta che Berlusconi esplicita la sua vera intenzione verso chi sfugge alla pretesa impossibile di narrazione unica della realtà.
Tecnicamente, si chiama pulsione totalitaria: anche se la deriva evidente del Cavaliere consiglia di considerarla soprattutto velleitaria, e a termine.

Repubblica 27.6.09
Dieci anni dopo il bestseller di Brian Greene l’ultima "teoria del tutto" divide gli scienziati
La guerra delle stringhe
di Marco Cattaneo


Il pioniere Veneziano: "Ci sono degli ostacoli ma anche punti forti"
I detrattori dicono che è un modello estetico perfetto ma inutile
Il fisico americano: "Questa è la strada per realizzare il sogno di Einstein"

Per i sostenitori, è la migliore candidata a diventare la "teoria del tutto". Quella capace di unificare le quattro forze della natura, di mettere d´accordo la relatività di Einstein e la meccanica quantistica, di spiegare il complicato zoo delle particelle elementari, di chiarire l´evoluzione del cosmo e, forse, di dirci qualcosa sulle più enigmatiche entità che lo abitano, la materia oscura e l´energia oscura. Per i detrattori – non moltissimi, ma piuttosto agguerriti – è un fallimento, che ha impegnato due o tre generazioni di fisici teorici per partorire un modello esteticamente ineccepibile ma del tutto inutile. È la teoria delle stringhe, per cui le particelle non sono punti senza dimensioni, ma minuscole corde a una scala tremendamente più piccola di quella dei nuclei atomici, invisibili al più potente dei microscopi. Sarebbero le loro vibrazioni a produrre la materia e a governarne le interazioni.
Sono passati dieci anni da quando è arrivata al grande pubblico, grazie a un clamoroso successo editoriale. Più di un milione di copie vendute, finalista al Pulitzer nel 2000, L´universo elegante (Einaudi, 13, 50 euro) ha fatto di Brian Greene una star indiscussa della divulgazione. Ma era già da tempo uno dei più brillanti giovani fisici teorici. "A metà degli anni ottanta, mentre mi laureavo, le stringhe stavano catturando l´attenzione dei teorici. E per i giovani erano un´opportunità, gettando nuova luce su un interrogativo sollevato da Albert Einstein: esiste una teoria unificata che abbracci tutte le forze della natura? Mi ci appassionai".
Tanto che presto ha sentito l´esigenza di illustrarla in un libro divulgativo. "Le domande che hanno motivato me e altri fisici – spiega – domande del genere "come è nato l´universo?", "da dove viene il tempo?", sono le stesse che la nostra specie si pone dall´inizio della civiltà. E noi dobbiamo permettere al grande pubblico di gettare uno sguardo sui progressi fatti nell´indagare le leggi della natura. Peraltro in dieci anni il panorama delle stringhe è cambiato. Con due grandi novità. La prima è che abbiamo superato parecchie approssimazioni. E poi abbiamo iniziato a sospettare che la teoria possa descrivere moltissimi universi, e il nostro sarebbe solo uno dei tanti. Progressi che credevo impossibili quando ho iniziato a lavorarci".
Intanto anche gli oppositori si sono dati alla divulgazione. Nel 2007 sono usciti L´universo senza stringhe (Einaudi), di Lee Smolin, e Neanche sbagliata (Codice), di Peter Woit. "Lo scetticismo è nella natura della scienza", commenta Greene. "Io non credo che la teoria delle stringhe sia giusta; non credo che nulla sia giusto, finché non è confermato sperimentalmente. Penso però che sia la strada più promettente per realizzare il sogno di Einstein. Ma credo che la salute della fisica sia riflessa anche dal fatto che si adottino strategie diverse per affrontare i problemi irrisolti". Perciò, dice, è positivo che molti teorici si siano avventurati su sentieri diversi da quello delle stringhe. Alla fine, sarà la natura a dirci qual era la strada giusta.
Concorda con il giovane collega, Gabriele Veneziano, teorico al CERN di Ginevra e professore al Collège de France, che a 26 anni, l´età di Einstein quando elaborò la relatività speciale, introdusse per la prima volta la rivoluzionaria idea delle stringhe. "Sono passati 41 anni", dice con nostalgia. "Con altri, avevamo ipotizzato che le forze che tengono insieme un protone o un neutrone si potessero spiegare ammettendo che al loro interno ci fossero minuscole corde vibranti. Ma quella teoria non funzionava, e fu abbandonata. Poi, nel 1974, il francese Scherk e l´americano Schwarz pensarono che, riducendo drasticamente le dimensioni delle stringhe, avrebbero potuto descrivere la gravità, riconciliando meccanica quantistica e relatività. Perciò mi piace pensare che la natura, ingannandoci, ci abbia fatto scoprire la teoria delle stringhe".
In questa visione, le particelle elementari sono oggetti estesi, filiformi, che vibrano come una corda di violino. "Come la corda emette note diverse – spiega Veneziano – così i diversi modi di vibrare delle stringhe corrispondono a diverse particelle. La differenza è che le stringhe hanno bisogno della meccanica quantistica, che produce effetti che mi piace definire "miracolosi". Fra questi, predice l´esistenza di particelle prive di massa come il gravitone e il fotone. Ciò significa che è automaticamente una teoria della gravità, dell´elettromagnetismo e delle altre interazioni che conosciamo".
Però, dicono gli scettici, c´è anche qualche problema… "Sì – ammette Veneziano – c´è qualcosa di cui faremmo volentieri a meno: per esempio il fatto che perché la teoria sia consistente occorre ipotizzare che esistano sei o sette dimensioni in più delle quattro che conosciamo, oppure che predice anche particelle prive di massa che non vorremmo, perché producono interazioni che non si osservano in natura. E questo è un ostacolo che potrebbe renderla incompatibile con i dati sperimentali". Veneziano, però respinge al mittente l´accusa secondo cui la teoria, non facendo previsioni sui fenomeni, non sarebbe falsificabile. "La vecchia teoria delle stringhe fu abbandonata anche perché prevedeva l´esistenza di particelle che non si osservano nelle forze nucleari. E come la vecchia teoria è morta perché faceva previsioni non conformi ai dati, così potrebbe morire anche la nuova… Insomma, secondo me la non falsificabilità della teoria dipende dalla nostra attuale incapacità di risolverla abbastanza a fondo. Non è una questione di principio".
Tra tre mesi ripartirà LHC, il grande acceleratore del CERN. E anche i fisici teorici vi ripongono grandi speranze. "Lo scenario più pessimista – prosegue Veneziano – è che si trovi solo la famosa particella di Higgs, responsabile della massa di tutte le altre. Sarebbe una scoperta importante, ma farebbe un po´ morire la ricerca". Poi, potremmo trovare un nuovo mondo di particelle "cugine" di quelle che conosciamo, la più leggera della quali sarebbe un buon candidato per la materia oscura. Ma il fisico italiano si spinge oltre. "Per le stringhe un auspicio, per quanto improbabile, è osservare qualche effetto "esotico" delle dimensioni supplementari dello spazio. La cosa migliore, però, sarebbe trovare qualcosa che finora nessuno ha immaginato, fenomeni nuovi e inattesi. È questo il sogno di chi ama indagare la natura”.

Corriere della Sera 27.6.09
Il potere Il movimento integralista Hamas offre un salario a 13 mila famiglie: è il secondo datore di lavoro
Il mercato nero Un litro di latte israeliano costa due euro, un frigo 400. E l’85% dei palestinesi vive con meno di due dollari al giorno
Gaza sei mesi dopo: Onu e case di fango
di Francesco Battistini


Le Nazioni Unite maggiore azienda della Striscia. Disoccupazione al 60 per cento, 26 mila senza tetto
Gli aiuti. Tonnellate di merci spedite a gennaio da tutti i continenti sono finite nei magazzini egiziani di El Arish I tunnel I padroni dei valichi sotterranei chiedono 50 mila dollari per diventare partner: «In metà anno rientri dell’investimento» Il «Madoff di Gaza» Ihab Kurdi garantiva interessi del 100% a chi comprava merci che dovevano ancora arrivare: la piramide è crollata

GAZA — Case così, non s’erano più viste. Con le colonne, le cupole. Pure le decorazioni. Tutte di fango. Sabbia, acqua e fantasia. A Gaza hanno co­minciato a costruirle in marzo, quand’era chiaro che gli israeliani non avrebbero mai lasciato passa­re il cemento, il vetro, l’acciaio che temono serva a fabbricare razzi. «Cent’anni fa, le case di fango le facevamo anche qui — racconta il geometra Ah­med Taha, un 42enne tutto preghiera e betoniera —. Le tirava su il mio bisnonno. Ma era il tempo degli Ottomani. E nessuno ormai si ricordava la tec­nica ». Poi saltò fuori uno di Hamas, Ziad Zaza, mini­stro di un’Economia che non c’è. Ho fatto i cantieri nello Yemen, rivelò Ziad all’amico Ahmed: là è tut­to di terra seccata, so come si fa. Il geometra e i suoi operai hanno imparato subito. E ora scarriola­no, impastano, edificano fra le macerie di Zeitun. Quattro mesi di lavoro. Duemila mattoni al giorno, tagliati e rosolati sotto il sole. «Ci sono dei vantag­gi », dice il geometra. Si possono scavare fondamen­ta di non più d’un metro e mezzo. E costruire al massimo tre piani. E sfamare il triplo dei muratori che servono a una casa normale: naturalmente, so­lo gente fidata e fedele al movimento. «Alla fine co­priamo con un impasto di pietre, così da fuori sem­brano abitazioni come le altre». E se piove? «Deve cadere acqua come bombe, per distruggerle».
Dall’era del Piombo Fuso all’era del Fango Essic­cato. In sei mesi. Chiusa al mondo, dimenticata dal mondo, la Striscia campa come sa. L’altroieri, Bene­detto XVI ha chiamato la comunità internazionale alla «ricostruzione d’una terra ancora una volta ab­bandonata a se stessa». Ieri, una nave di pacifisti che volevano forzare il blocco da Cipro è rimasta nel porto. Ormai ne parlano, se ne occupano solo loro. Una puntatina di Tony Blair, una visitina di Jimmy Carter: gente che non conta molto. Il resto è silenzio. Da qualche settimana è comparsa una stra­na malattia, sulla pelle di migliaia di persone: un po’ di detergente, l’unica terapia, e si vedrà. Hanno anche girato un cartoon, «Fatenah», sulla storia ve­ra d’una donna malata di tumore che gli israeliani non fanno uscire dalla Striscia: credete che abbia avuto la stessa pubblicità di «Valzer con Bashir»? E vi ricordate le tonnellate d’aiuti spedite a gennaio da tutti i continenti, nella commozione per i bambi­ni massacrati? Nelle botteghe di Han Yunis, trovi qualche sacco di riso della Thailandia, i pacchi del World Food Program a prezzi da mercato nero. Bri­ciole: centinaia di tonnellate, cibo e medicinali, so­no ancora stoccate nei magazzini di El Arish, la cit­tadina egiziana a 40 km dal valico di Rafah. Sei me­si dopo l’operazione Piombo Fuso, il grosso è mar­cito. E i doganieri di Mubarak, nella generale indif­ferenza, hanno deciso di bruciarlo.
La prigione a cielo aperto più grande del mondo è ben sorvegliata, da israeliani ed egiziani. E gli aiu­ti diventano strumento di pressione politica. C’è un matrimonio, quando arriviamo nella vecchia zo­na industriale di Jabalya, uno dei sobborghi di Gaza City rasi al suolo. Si sposano Fahdi e Muna, 36 anni in due, nipoti d’un capotribù del paese, Abed Rab­bo. La cerimonia è minima, un vassoio di dolci e succo d’arancia: al 55enne Abed, per ricevere i cin­quemila del clan sono rimasti solo un divano scas­sato e un telo di plastica dell’Unrwa, piazzati davan­ti alle macerie di casa. Ogni invitato porta in dono ai Rabbo quel che è rimasto della sua, di casa: un mattone, un wc, un cavo, un pezzo di finestra, una piastrella. Fahdi e Muna ci stanno costruendo la lo­ro stanza, attaccata a un palazzo di sfollati.
«Eravamo contadini — dice il patriarca —. I cam­pi, è impossibile lavorarli: i canali d’irrigazione so­no distrutti, ci sono le mine». Un metro cubo d’ac­qua desalinizzata costa 10 euro e, quando li hai, li spendi per bere: «Se vuoi piantare un limone, lo pa­ghi tre volte il suo prezzo. Una volta eravamo un giardino. Adesso, in tutta Gaza è impossibile trova­re un albero da frutta. Hamas ha dato qualche sol­do dopo la guerra, per tenere tutti buoni. Poi, ba­sta. Aiuti e lavoro, solo ai suoi».
Le più grandi aziende della Striscia, le sole che offrono impiego, sono due: l’Onu, 16 mila stipen­diati, e Hamas che dà un salario a 13 mila famiglie. I veri centri di potere. In un mondo chiuso dove un poliziotto prende 250 euro al mese, un colon­nello 600. In una situazione che favorisce immagi­nabili abusi: il dirigente delle Nazioni Unite che ge­stisce anche un hotel per le delegazioni straniere, l’irreprensibile del movimento islamico che oltre­confine fa affari con gli israeliani... Ali Abu Shahla, classe 1946, ha tre diversi biglietti da visita e aveva una fabbrica di costruzioni con 30 dipendenti (ora sono tre): «Allo staff di Blair, inviato del Quartetto per il nostro rilancio economico, ho chiesto di rin­novarmi la tessera da imprenditore. Guardi qui: numero 911576742. È scaduta il 31 dicembre. Era il mio lasciapassare per fare contratti in Israele. Non mi hanno nemmeno risposto». L’unica com­messa che l’impresa di Abu Shahla ha in ballo, è per ricostruire la scuola d’un villaggio distrutto. Ma non a Gaza: in Afghanistan.
Nei dopoguerra, si sa, c’è chi sta meno peggio. E magari fa pure qualche soldo. Ci sono le case dei signori di Hamas, misteriosamente scampate alle bombe. C’è la Banca Nazionale Islamica, nuova di zecca: applica la sharia, che vieta di fare soldi coi soldi, ed è il salvadanaio degli stipendi, o la cassa­forte dei tunnel, un’economia mai doma. Il merca­to di Rafah lo chiamano Port Said, perché è come il duty free egiziano. Porta sottoterra latte israelia­no (2 euro al litro), carburante (prezzo raddoppia­to), computer (350 euro), cellulari (200), frigorife­ri (400) e cose carissime come frutta, giocattoli, cioccolata, merendine. Porta anche Valium e pillo­le antidolorifiche, richiestissime. Gente che fa sol­di, i padroni dei tunnel: 50 mila dollari e ti offrono la partnership, «sei mesi e rientri dell’investimen­to ». Gente che ha i ganci giusti: quando il mercato andava giù, prima della guerra, bastava una chia­mata ai soci delle Brigate Qassam, che lanciavano un razzo su Sderot e facevano chiudere dagli israe­liani i valichi, rivitalizzando l’economia sotterra­nea.
Ogni tanto, la macchina s’inceppa. Com’è succes­so a Ihab Kurdi, detto «il Madoff di Gaza»: anche lui aveva pensato d’applicare lo schema di Ponzi, a modello il re di Wall Street, e offriva interessi addi­rittura del 100 per cento a chi investiva su merci che dovevano ancora arrivare. Convincente, Ihab: gli imam, i capi islamici, interi quartieri s’erano de­cisi a versare. La guerra, i blocchi hanno fatto salta­re la piramide d’investimenti. Decine di famiglie so­no finite sul lastrico, qualcuno ha perso 200 mila dollari. In aprile, quando la truffa era ormai scoper­ta, è esplosa la rivolta di piazza. E il furbetto del minareto è finito in galera. Promette che restituirà. Come e quando, non si sa. Gli hanno pignorato la casa, intanto. Che non è di fango.

Corriere della Sera 27.6.09
L’obiettivo: liberare il celebre testo dagli arcaismi, usando parole schiette
E il «principe» diventa leader: Parks aggiorna Machiavelli
di Tim Parks


Il racconto delle difficoltà incontrate nel trasporre l’opera in ingleseGli ostacoli della traduzione: quando la gestione del potere è virtù

Tentare una nuova traduzione di Machiavelli non significa scarta­re le precedenti come inadegua­te. Ci limitiamo a constatare che alcune versioni esistenti attirano troppa attenzione su se stesse, come espressione linguistica dei vari momen­ti storici. Cosa piuttosto infelice nel ca­so di Machiavelli, il quale ribadiva che lo stile gli interessava solo in quanto strumento per trasmettere un contenu­to senza fronzoli o distrazioni.
«La quale opera», ci spiega, «io non ho ornata né ripiena di clausule ample, o di parole ampullose e magnifiche, o di qualunque altro lenocinio o ornamen­to estrinseco con li quali molti sogliono le loro cose descrivere et ornare; perché io ho voluto, o che veruna cosa la onori, o che solamente la varietà della materia e la gravità del subietto la facci grata».
Ho preso questa dichiarazione di in­tenti dello scrittore come guida alla mia traduzione, tentando in ogni possibile modo di liberare il testo dagli infausti arcaismi di certe altre versioni inglesi, per raggiungere l’essenza dell’originale e trasmetterla in parole schiette.
Non è facile. Il primo problema, che ci prepara a tutti i successivi, è già pre­sente nel titolo: Il principe. Ma che cos’è un principe per Machiavelli? Un duca è un principe. Il papa è un principe. Un imperatore romano è un principe. Il re di Francia è un principe. Il Signore di Imola è un principe. Tutto questo non ha senso nell’inglese moderno. Gli ingle­si hanno il principe Carlo, e per ironia della sorte il principe Carlo non è re Car­lo e forse non lo sarà mai. Ma anche se dovesse diventare re, non potrebbe eser­citare nessun vero potere, nemmeno quel tipo di potere «soft» che detiene il Papa, e poi non si pensa mai al Papa co­me un sovrano o un principe.
L’unico altro riferimento a un princi­pe di cui dispone la lingua inglese è il Principe Azzurro, concetto davvero lon­tano dal brizzolato principe Carlo e an­cor più distante dal tipo di principe di cui parla Machiavelli. Per Machiavelli, infatti, «principe» non significa «figlio del re», e ancor meno «lo spasimante dei sogni». Il principe di Machiavelli si riferisce in modo generico a un uomo di potere, un uomo che governa uno Sta­to. Il principe è, semplicemente, il pri­mo (o il principale) tra i cittadini.
Il traduttore a questo punto è tentato di ricorrere al termine «king». Almeno in passato il re sedeva al vertice di un sistema gerarchico, era l’uomo che con­tava. Tuttavia è difficile, nel tradurre Ma­chiavelli, utilizzare la parola «king» quando si parla del Signore di Imola, o del Papa, o di un imperatore romano. Nel limite del possibile, ho risolto il pro­blema ricorrendo al poco seducente «ru­ler », governante, o addirittura al più ge­nerico «leader», sottolineando sempre che stiamo parlando del leader politico di uno Stato. Ma il celebre titolo del­l’opera deve rimanere così com’è, altri­menti nessuno capirebbe di che libro si tratta.
Ancor più spinosa è la traduzione di «virtù», assieme a tutta una serie di ter­mini raggruppati attorno ad essa. Sareb­be così facile ricorrere al termine affine in inglese «virtue», l’opposto del vizio, ma non è di questo che parla Machiavel­li. Non era affatto interessato alla polari­tà bene/male, quanto piuttosto a quelle di vincere/perdere, forza/debolezza, successo/fallimento.
Per Machiavelli la virtù era una qualsi­asi dote di carattere che consentiva al­l’individuo prima di impadronirsi del potere politico e poi di rimanerci salda­mente aggrappato: in breve, una caratte­ristica vincente. Poteva trattarsi del co­raggio in battaglia, o della forza di perso­nalità, o di astuzia politica, oppure pote­va essere persino quella crudeltà senza scrupoli che fa capire ai sudditi che si è pronti a tutto. Ma non è possibile tradur­re virtù con «astuzia» o «crudeltà», pur sapendo che in un preciso contesto a questo si allude, perché così andrebbe perso il connotato positivo che Machia­velli desidera infondere alle speciali qua­lità che va enumerando: se la crudeltà è indirizzata a risolvere certi problemi, a preservare il potere, a fortificare lo Sta­to, allora in questo contesto diventa una virtù.
Per quanto maldestra possa apparire la traduzione, sono stato costretto talvol­ta a rendere virtù con «positive quali­ties » o «strength of character», tranne ovviamente laddove — e non manca qualche esempio — Machiavelli inten­de per davvero le virtù morali: nel qual caso si affanna a ribadire che è cruciale far finta di possederle, anche quando so­no del tutto assenti. Adoperata scaltra­mente per un fine preciso, la capacità di fingere è anch’essa un’importante virtù. Il consulente d’immagine (spin doctor) aveva scritto una breve presentazione per il Machiavelli annotato da Napole­one, celebre falso ottocentesco pubbli­cato dalle Edizioni Silvio Berlusconi in tiratura limitata, per bibliofili, con in­troduzione di Vittore Branca.
Risponde Parks: «No, credo di no, perché Berlusconi vuol essere amato da tutti, e Machiavelli è molto chiaro in proposito: è meglio per il principe essere temuto piuttosto che amato. L’affetto, scriveva, è imprevedibile, non si sa quando si esaurisce. Già nel 2001, in un saggio per la 'New York Rewiew of Books', osservavo che Ber­lusconi è un uomo che ama essere vi­sto come un benefattore, non come uno che vuole fare tagli». Però Berlu­sconi è un personaggio che ha voluto il potere, ha saputo conquistarlo e vuole mantenerlo. In questo è simile al principe di Machiavelli. «Sì, però vuole convincere tutti gli italiani ad amarlo... Insomma, lui non è la Tha­tcher: di fronte a riforme impopolari, le pensioni per esempio, preferisce ri­mandare. Machiavelli, però, aiuta a ca­pire come uno come Berlusconi abbia potuto costruire il suo successo politi­co: ripete più volte, Machiavelli, che ci sono circostanze che favoriscono l’ascesa di uomini che in altri contesti avrebbero fallito. Ed è evidente che in un altro momento storico il Cavaliere sarebbe rimasto un signor nessuno».
Ma perché questa traduzione, ades­so? «Da circa otto anni non traducevo più. Con Machiavelli, comunque, ave­vo una lunga consuetudine. Senz’altro per il lavoro preparatorio de La fortu­na dei Medici ( Medici Money, uscito in Inghilterra nel 1999, in Italia da Mon­dadori nel 2006: per questo libro Parks è stato chiamato a curare una mostra sulle banche a Firenze nel ’400, che si terrà a Palazzo Strozzi nel 2010 ndr). Avevo dovuto leggere le Istorie fiorentine, già scontrandomi con i pro­blemi della sua prosa. Nel frattempo avevo anche scritto una introduzione al Principe, ma per la traduzione c’è vo­luta la richiesta di Penguin Classics. Che, va detto, paga molto bene, e in più garantisce al traduttore anche una percentuale sulle vendite». Che non è poco vista la fortuna di Machiavelli, di cui si continuano ad approntare tradu­zioni, in America e in Inghilterra, men­tre nel suo nome prospera una lettera­tura che va dai manuali per manager ai thriller.
Ha avuto problemi con la lingua di Machiavelli? «Meno di quelli che cre­devo. In realtà mi sono attenuto alle di­chiarazioni dell’autore che diceva di voler usare una lingua diretta, senza parole ampollose né ardue costruzio­ni. Voleva essenzialmente farsi capire. Ho voluto fare un’opera di mediazione con i lettori. Evitando il tono accademi­co, o quello stile un po’ ciceroniano, arcaico, di altre traduzioni. Rinuncian­do alla sintassi e alle parole latineg­gianti optando decisamente per lessi­co e costruzione anglosassoni». Da qui la decisione di sostituire prince con ruler o leader, così come la scelta di tradurre «virtù» con strength of cha­racter o simili. «Aggiungerei anche un’altra considerazione, un altro invi­to che viene dallo stesso Machiavelli quando parla della fortuna che è don­na 'et è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla'. Ecco, qui for­se c’è un suggerimento sul come tratta­re il testo: bisogna violentarlo («urta­re » vuol dire prendere una donna con la forza, sbatterla di brutto), per estrar­ne il senso».
Oggetto di perenne scandalo nei se­coli, Il principe non ha mai finito di attirare anatemi e condanne. Ancora Bertrand Russell lo definiva «un ma­nuale per gangster». Ma già nel ’500 era attaccato da protestanti e cattolici. Nel teatro inglese, dagli elisabettiani a Shakespeare a Ben Jonson, Machiavel­li è citato circa 400 volte: con il suo no­me si indica il tiranno spietato, il catti­vo che fa il male senza scrupoli. Curio­samente, la rivalutazione democratica (Rousseau, Foscolo) è a dir poco ma­chiavellica: Il principe voleva svelare al popolo la nefandezza del potere. «Proprio in questo suo essere scanda­loso risiede una delle ragioni del suo successo duraturo. Machiavelli co­stringe il lettore ad affrontare la realtà com’è. Ci sono i precetti morali, è ve­ro, ma non ci sarebbero governanti, se questi volessero seguire solo i valo­ri etici. La realtà umana è imperfetta, possiamo scandalizzarci, ma proprio per questo bisogna accanirsi per rie­quilibrarla. Costi quel che costi. Certo non dice che il principe dev’essere un assassino, ma l’unica cosa che rimpro­vera a Cesare Borgia è di aver sbagliato nel favorire l’elezione del papa Giulio II».
«Ma c’è un’altra ragione per cui Il principe è un li­bro affascinante» conti­nua Parks. «È il fatto che non è un libro a tesi, cre­sce mentre Machiavelli lo sta scrivendo, quasi si stes­se convincendo che l’enu­merazione dei tipi di prin­cipati dell’inizio è inutile, perché sono modelli che non si possono seguire. Ve­de che il mondo è cambia­to dai tempi dell’Impero romano, sa bene che la ve­ra intelligenza è quella di chi sa adattarsi alle mutate condizioni. E quando comincia a parla­re di Cesare Borgia, il testo cessa di es­sere un trattato de principatibus e di­venta un’opera eccezionale e inquie­tante. Chi sa, forse è capitato a Niccolò quello che capita ai biografi e ai ro­manzieri che s’innamorano del pro­prio personaggio, più cattivo è meglio è. Forse la scelta del Borgia è stata una mossa suicida, ma senza quei capitoli il libro non avrebbe avuto la fortuna che ha avuto. Difficile dire se fu un’in­genuità o una suprema astuzia, o inve­ce una sorta di inconsapevole identifi­cazione. Certo, Il principe non lascia indifferenti, è fatto per turbare. A lettu­ra ultimata, per ognuno di noi è prati­camente impossibile pensare ai nostri politici e governanti nel modo con cui li guardavamo prima».
(Traduzione di Rita Baldassarre)

il Riformista 27.6.09
Il nuovo imperatore i suoi vassalli e il neofeudalesimo
di Rina Gagliardi


Sostituite il potere delle armi con quello dei soldi (e dei voti) e avrete, all'incirca, Berlusconi. Un imperatore neofeudale in pectore

L'Italia del Ventunesimo secolo sta "precipitando" nel feudalesimo? In una sorta di neofeudalesimo ovviamente molto diverso dai suoi antecedenti medioevali ma ad esso in qualche modo somigliante? La suggestione - lanciata su queste colonne da Rino Formica, a proposito del ruolo crescente della Lega - può apparire stravagante. Eppure, non va scartata a priori. Quando Veronica Lario parlò, nella sua ormai celebre dichiarazione, di «divertimento dell'imperatore», evocò, forse inconsapevolmente, un concetto assai preciso e forse non casuale. Imperatori non si nasce, si diventa: ecco la differenza rispetto ai re o ai principi, che sono tali per diritto di nascita e sangue. Imperatori, si può diventarlo anche se si è un parvenu, se si ha dalla propria parte il "consenso" dell'esercito - vedi Roma e il suo discendente quasi diretto, il Sacro Romano Impero, vedi, per citare un esempio moderno, Napoleone Bonaparte. Sostituite il potere delle armi con quello dei soldi (e dei voti) e avrete, all'incirca, Silvio Berlusconi. Un imperatore neofeudale in pectore (del resto in tempi non sospetti non si dichiarò l'«unto del Signore?»), che governa il suo territorio attraverso vassalli e valvassori (un subappalto territoriale di cui la Lega rappresenta oggi l'esempio più forte), ma che ha al contempo un rapporto "diretto", carismatico, sacrale, con il suo popolo. Un imperatore feudal-populista, che, come i suoi predecessori medioevali, dipende in toto dai suoi "vassi", quelli che presidiano i territori (geografici, televisivi, pubblicitari e così via), ma che è la sola fonte "legittima" del potere, il proprietario dei titoli. Ne consegue quell'intreccio di interdipendenza, ordine e caos che caratterizzò, in fondo, i "secoli bui" seguiti alla caduta dell'Impero romano, quando mancava ogni sicurezza (scorazzavano barbari, briganti e pirati), quando non restava che rifugiarsi (più o meno) in un castello, quando, per sopravvivere, non si poteva che affidarsi a chi deteneva la forza, appunto, delle armi.
Ma ci sono altre riflessioni, un po' più generali, che si possono proporre.
La prima, appunto, è la frammentazione dei territori, ovvero la crisi degli Stati nazionali moderni. Un processo indotto prima dalla globalizzazione, e reso ancor più complesso dalla crisi della globalizzazione stessa: quel che è colpito al cuore, in verità, specie in Europa (ma non solo) è l'idea di unità politica, di forza della politica, che lo Stato moderno ha rappresentato per un quasi due secoli. Pullulano le Nazioni, è vero, ma si moltiplicano le spinte centrifughe, le identità etniche, le pulsioni separatiste, spesso intrecciate con il caos sempre più disordinante del mercato globale, che oggi riversa i suoi guai (come appena ieri riversava i suoi fasti) sulla globalità dei territori. Se si prova a viaggiare attraverso l'Europa, si ha la sensazione di un continuum largamente unificato, per un verso, anche dal punto di vista antropologico, ma straordinariamente differenziato per l'altro verso. Immagino che ai (pochi) viaggiatori dell'epoca apparisse così, all'incirca, l'Europa di Carlo Magno (immagine): un luogo dai confini interni molto confusi, e mai del tutto stabili, un'unità molto in alto, lontanissima, astratta. Sacra, giust'appunto (la sacralità che ha oggi assunto il mercato, una divinità impalpabile, come capita a tutte le religioni monoteiste).
La seconda riflessione è che tutto questo disordine al capitalismo globalizzato sta a pennello: ci nuota come un pesce nell'acqua. Se potesse fare a meno, del tutto, della politica e degli Stati, ci sguazzerebbe ancora meglio. Ma, poiché questo obiettivo di dissolvenza non è realistico, si limita a fare del suo meglio per indebolire come può la forza degli istituti e delle istituzioni politiche. Un esempio? I partiti, come tali, sono sostanzialmente scomparsi, e con essi l'idea stessa di rappresentanza - quello che resta dei partiti, a sua volta, si è modellato su un ordine di tipo feudale. Partiti personali, correnti personali, sistemi diffusi di vassallaggi e cooptazioni - anche qui, come nel Medioevo, il vassus è sempre alle dipendenze di un Signore, ma, a sua volta, può disporre di suoi propri vassi. La catena infinita di un intreccio inestricabile di interdipendenze.
Infine, ultima riflessione, il neofeudalesimo di oggi è incentrato, come quello di ieri, su due dimensioni antropologiche decisive: la paura e il bisogno di sicurezza. Il Nemico è sempre alle porte, anche quando non lo vedi e magari non lo riconosci: ecco una delle chiavi di volta della crisi di civiltà contemporanea.
Quando, dopo il famoso risveglio dell'anno Mille, nacquero i Comuni, cioè la borghesia della prima rivoluzione borghese e commerciale, cominciò a nascere ciò che chiamammo "modernità" e culminò, politicamente, nella Rivoluzione francese.
Ne siamo usciti, dalla modernità, dopo le tragedie del Novecento. Per andare dove? Per tornare a quando?

tellusfolio.it 27.6.09
Vincere – e vinceremo!
di Guido Bussoli


Vincere, di Marco Bellocchio, cinema “Excelsior” di Sondrio. Ad Alessandra piace soprattutto l'interpretazione della Mezzogiorno - intensa, è questo l'aggettivo giusto? Io quando vado a cinema ho invece bisogno di credere, o forse lo credo davvero, che gli attori non siano attori, e quel che vedo sia una tra le tante possibili evenienze del reale. Per me John Wayne andava in bagno a cavallo, ecco. Un'attitudine che funziona molto bene con i film porno e meno non quelli di Marco Bellocchio: cinema di idee al massimo grado di concentrazione, qui ancora più che altrove. Eppure anche a me è piaciuto molto - estenso, è questo l'aggettivo giusto?
L'estensione delle teorie di Foucault sulla rimozione dell'elemento emotivo e passionale come premessa alla fondazione simbolica del Potere, qualsiasi potere, in cui ritorna come sintomo o degradata sublimazione, in Vincere trova un correlativo perfetto che potrebbe essere didascalico o pedante. Invece non lo è. Ida Dalser è ombra viscerale alla retorica linguistica del fascismo, ma è anche una donna, che forse proprio perché donna non riesce a conformarsi a un ordine del discorso fondato sullo sfasamento nominale. È questo il principio di civilizzazione: spostare il dato di realtà a un orizzonte ulteriore, dentro un codice espressivo che non contempla il corpo e l’adesso? Se bisogna vincere, allora, vinceremo: tempo futuro.
Ida Dalser, di sangue e nervi costituita, è dunque difforme a un potere totalitario basato sull'iperbole fasulla, che porta a una sorta di disallineamento o diacronia - il Re è nudo al balcone, ma l'uomo dentro il suo letto è velato e guarda altrove. Per questo viene espunta dall'ordine pubblico del discorso attraverso quella parentesi privata che è il manicomio, dove più tardi verrà internato anche il figlio, sintomo visibile ed “osceno” dell'infrazione linguistica. Qui entrambi moriranno rispettivamente a 57 anni (1937) e 26 anni (1942).
Ma fino a questo punto siamo forse ancora all'elemento generale e di continuità sotteso al cinema di Bellocchio, soprattutto quello in collaborazione con lo psicanalista Massimo Fagioli: la follia come testo sociale negato, che ritorna per mezzo di una diversa codificazione. La novità di contenuto, che si appoggia a scelte stilistiche controllatissime che la rilanciano, ossia la innalzano dentro una potente visione mai stemperata in sublimazione, sta forse nello sviluppo di un tema diverso seppure implicito, ugualmente dedotto dall'ultimo Foucault. Sto pensando alla “parresia”, argomento che fu al centro del suo ultimo ciclo di lezioni (1983) all'università californiana di Berkley. Parresia, che significa semplicemente “dire la verità”.
Ida dice la verità, l'afferma in continuazione. Ma non per convenienza, al contrario: per una necessità quasi corporea di far corrispondere il nome con la cosa propria, che è poi l'unica forma ammessa di esistenza sociale (“dammi un nome dammi un nome”, implora l'insetto nella celebre poesia di Mandel'stam). Così la sconveniente verità da proclamarsi con ogni mezzo, è che lei è la prima e legittima moglie del Duce e madre di suo figlio Benito Albino Mussolini - ecco il nome , l'esistenza negata attraverso la rimozione manicomiale. E non è molto importante sapere se ciò sia vero, non esistono prove storiche al riguardo, perché la virtù della parresia non consiste in qualcosa come una verificabile certezza, ma nella titolarità morale a dire il vero, che coincide con il rifiuto della retorica pubblica del Potere.
Gli italiani che alla fine si ribellano al fascismo e ne distruggono le icone, sono in fondo tutti dei Benito Albino, dei figli edipici che rivendicano il riconoscimento del proprio nome e della propria autonomia (libidica?), a cui avevano precedentemente abdicato in un'ebbrezza infantile: coincidere con il Padre. Ed è straordinario assistere, cioè letteralmente soggiornare dentro un’impalcatura allegorica vertiginosa, al regista più algido del cinema italiano che assume il tema caldo dell'emozione come verità “politica”, ma anche cinematografica. Infatti è proprio il cinema che si è occupato, in epoca recente, di reintegrare l'elemento emozionale, come la stessa pellicola ci ricorda per mezzo di numerosi inserti cinematografici. Perciò io trovo che Vinceresia un film politico ma in un senso lato, non c'entra insomma nulla con una critica traslata all'attualità politica italiana, come è stato suggerito, e direi quasi brechtiano o situazionista. Mostrando la responsabilità civile interna a ogni altro film - portare lo spettacolo ad una consapevolezza e responsabilità del ruolo di “integratore emotivo”, potremmo dire - o più in generale ad ogni enunciazione preverbale ed iconica.
Ma qui il discorso dovrebbe essere ovviamente esteso a quell'altro formidabile apparato iconico che è la pubblicità, rivelando la fondatezza dell'intuizione linguistica di Pasolini, quando la rubricava come “nuovo fascismo”. Se c'è dunque una critica politica di Bellocchio rivolta all'oggi, non è a Berlusconi ma al berlusconismo. Qui inteso come codice linguistico con ambizioni totalitarie, che si appoggia alla rimozione neofascista della vitalità naturale, interna e costituiva del sistema pubblicitario di promozione delle merci. In altre parole, al trasferimento della vita nella sua rappresentazione.