martedì 30 giugno 2009

l’Unità 30.6.09
Se l’analisi del voto è cieca
Sinistra senza trasformazione
di Flore Murard Yovanovitch


A ogni giro di elezioni, ricompare regolarmente la stessa analisi sul crollo della sinistra. Essa sarebbe fallita perché elitaria, autistica, priva di rapporti con la società (come se quest’ultima fosse un entità a parte, da contattare per scoprire le giuste risposte politiche) e dovrebbe ora fare la sua autocritica...
Analisi tanto vecchia quanto errata, perché rifiuta ancora oggi di vedere che la sinistra non è fallita perché salottiera o burocratica, ma per non avere (avuto) idee e soprattutto idee chiare sulla realtà della natura umana. Per non avere scoperto che l’uomo, invece di mero prodotto del suo lavoro, è psiche, dinamica, in rapporto all’altro diverso. Per non essersi interessata all’unica questione che riguardi profondamente l’essere umano: la trasformazione. La struttura mentale della sinistra, come disse Giacomo Marramao alla Fiera del Libro di Torino il 16 maggio scorso, «tradizionalmente focalizzata sulle sovrastrutture, deve ora passare ai soggetti»; noi aggiungiamo alle loro menti. Capendo che la trasformazione sociale passa necessariamente per la trasformazione psichica degli individui che compongono la società.
La sinistra non è sinistrata, né ricomponibile dai suoi frammenti passati (come si agitano ora a fare i suoi... teologi) o ne verranno fuori solo deboli e anacronistiche creature, come sono Partito Democratico e Sinistra e Libertà: essa è storicamente scomparsa dalla cultura. E solo un salto di conoscenza potrà darle un’identità e una reale (ri)nascita. Sono necessari i concetti teorici per pensare e agire una società davvero ugualitaria e di sinistra, non strutturata intorno ai rapporti di produzione e ai vecchi totem, ma ai rapporti creativi, non-violenti e non sfruttanti tra esseri umani uguali dalla nascita. Una società non (auto)distruttiva.
Questione assai urgente, visto che i risultati delle elezioni europee hanno rivelato la dimensione malata dell’Europa, costruita sulla «percezione delirante» di un nemico esterno; nonché l’apparire di un nuovo fascismo difensivo, come lo chiama l’intellettuale ungherese Gaspar Miklos Tamar. Per affrontare questi potenziali mostri e il disfacimento della socialdemocrazia erede del Novecento - e del connesso sistema di valori sul quale era fondata la nostra società, in particolare il consenso egalitario - la sinistra ha bisogno di una teoria radicalmente nuova. Non guardando al passato/futuro, glissando all’infinito su manovre di ricomposizione, ma osando fare un salto totale del pensiero: il sogno realistico di una società non-violenta, non certo basata sui principi spirituali o cristiani, ma sui rivoluzionari concetti di «sparizione del disumano nell’essere umano» (Massimo Fagioli) e di reale uguaglianza.

l’Unità 30.6.09
Intervista a Nawal El Saadawi
«Diamo a Neda e alle sue sorelle iraniane il Nobel per la pace»
La scrittrice egiziana: «Se quel premio ha ancora un senso va assegnato
alla memoria di quella ragazza coraggiosa. Le donne motore della rivolta»
di Umberto de Giovannangeli


Se il mondo ha ancora una coscienza, se esiste ancora il diritto-dovere all’indignazione, allora questa indignazione dovrebbero riempire le piazze di tutto il mondo a sostegno degli eroi di Teheran. E se il Nobel per la Pace ha ancora un senso, dovrebbe essere assegnato alla memoria di Neda, la ragazza uccisa dalle squadracce del regime, divenuta il simbolo di un movimento che sfida un potere teocratico e fascista». A parlare Nawal El Saadawi, l’autrice egiziana femminista più conosciuta e premiata. I suoi scritti sono tradotti in più di trenta lingue in tutto il mondo. Per le sue battaglie in difesa dei diritti delle donne e per la democrazia nel mondo araba, la scrittrice egiziana, 78 anni, compare su una lista di condannati a morte emanata da alcune organizzazioni integraliste.
La brutalità del regime non spegne l’onda verde di Teheran. Come leggere questo movimento?
«Quella in atto in Iran è una rivoluzione di popolo contro dittature interne ed esterne. È la ribellione eroica contro lo sfruttamento e contro i poteri forti, economici, politici, religiosi. Le donne e gli uomini iraniani, giovani e anziani, stanno combattendo contro l’oppressione, la disuguaglianza, l’ingiustizia. La loro voce è la voce del popolo iraniano. Nessun potere può azzittirli prima che gli eroi di Teheran raggiungeranno il loro obiettivo».
Al di là delle proteste formali, il mondo sembra assistere passivamente agli eventi di Teheran.
«È una vergogna. Un’assoluta vergogna. Se esiste ancora il diritto-dovere all’indignazione, questo diritto deve riempire le piazze di tutto il mondo a sostegno della rivoluzione iraniana. Nessuno può girare la testa da un’altra parte. Nessuno può dire: non sapevo. Il silenzio è complicità verso un potere che sta reprimendo nel sangue una rivolta democratica».
Lei parla di silenzio. Un silenzio che domina nelle capitali arabe.
«Dica pure complicità. Perché a quei leader arabi abbarbicati al potere, a élite che hanno fatto scempio di diritti e di democrazia, a questi satrapi la rivoluzione iraniana fa paura, molto di più del regime teocratico di Ahmadinejad e Khamenei. Fa paura perché hanno il terrore che l’onda verde di Teheran possa propagarsi a tutto il mondo arabo e musulmano. Da qui il silenzio. Il silenzio dei complici».
L’Occidente deplora la repressione messa in atto dal regime.
«Deplora ma continua a fare affari con quel regime. Gli affari contano più dei diritti. Il petrolio più della libertà rivendicata dal popolo iraniano. È la doppia morale dell’Occidente: a parole si esaltano i principi di democrazia, nei fatti si continuano a sostenere, o comunque a non intaccare, regimi che della democrazia fanno scempio quotidiano».
Il simbolo di un’onda che non si arresta è Neda Agha Soltan, la giovane iraniana uccisa in una delle prime manifestazioni di piazza.
«Ho pianto per Neda. E allo stesso tempo mi sono sentita orgogliosa, come donna, come musulmana, Orgogliosa perché sono le donne il motore di questa rivolta, sono loro esprimerne lo spirito più alto. Perché sono le donne ad essere doppiamente vittime di un regime teocratico e sessista come è quello iraniano. La loro è una doppia ribellione. Mi lasci aggiungere, che se il premio Nobel per la Pace avesse ancora un senso, questo premio dovrebbe essere assegnato a Neda e alle donne iraniane».
Perché le donne fanno paura al potere come ai fondamentalisti?
«Fin dall’inizio della storia dell’umanità,i governanti, ma anche i fondamentalisti e gli stessi Dei maschili, erano contro le donne. Perché erano contro Eva, la nostra progenitrice. Perché lei ha mangiato dall’albero della conoscenza, e quindi e diventata una peccatrice. Da lì sono cominciate due cose: è iniziata l’oppressione delle donne, e contemporaneamente la conoscenza veniva proibita. L’oppressione, la schiavitù sono iniziate con Eva e proseguite con Iside, la divinità femminile della conoscenza. Tutto questo accade perché gli uomini – non solo quelli che esercitano la loro protervia maschilista in nome di Allah - hanno paura delle donne, e hanno paura perché le donne sono più intelligenti degli uomini. Eva era più intelligente di Adamo... Per questo si ha paura delle donne in una società che è, al tempo stesso, patriarcale, capitalista e teocratica».

l’Unità 30.6.09
Anita Desai
La scrittura viene dal silenzio come la forma dalla pietra e la luce dal buio della notte
La scrittrice indiana riflette sul metodo letterario a partire dagli antichi Veda, ognuno dei quali era, assieme, incipit e frammento di un racconto generale. Il narrare è come la musica e la solitudine dello scrittore è l’indispensabile nulla che precede l’emissione del suono


L’intervento pubblicato verrà letto da Anita Desai oggi alle ore 21 alla Milanesiana, il festival di letteratura, musica e cinema, ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi e promosso dalla Provincia di Milano, con il Comune di Milano e la Regione Lombardia.

In La terra desolata, T.S.Eliot scriveva:
Chi è il terzo che ci cammina sempre accanto?
Quando conto, ci siamo soltanto tu e io insieme,
Ma quando guardo avanti alla strada bianca
C’è sempre un altro che ti cammina accanto
Scivolando ravvolto in un mantello bruno,
incappucciato
Non so se uomo o donna
- Ma chi è che ti sta all’altro fianco?

E in una nota a piè pagina, Eliot aggiungeva che quei versi gli erano stati suggeriti dal resoconto di una spedizione in Antartide: «Vi si riferiva che il gruppo degli esploratori, allo stremo delle forze, aveva continuamente l’illusione che ci fosse una persona in più di quante non se ne potessero effettivamente contare».
Per chi viene dall’India è una sensazione familiare. In India i bambini crescono in compagnia di antichi miti e leggende prima di saper leggere o scrivere, e perfino prima di essere consapevoli di conoscerli. Sono lì, nelle voci di genitori e nonni, sono la materia stessa delle feste che celebriamo, le immagini sono sparse ovunque, ubique come i corvi e le mosche. Oggi schizzano fuori dai fumetti e dai cartoni animati, e si riversano fuori dagli schermi televisivi. Tutti sappiamo che l’albero sul ciglio della strada che ci dà ombra nelle giornate calde è anche l’albero sotto il quale pregava il Buddha e in cui si nascondeva Krishna. La scimmia che si dondola dai rami non è soltanto un primate giocherellone ma anche il dio Hanuman. Il fiume melmoso che pigramente si dirige fuori dalla città non è soltanto la fogna urbana che sembra ma anche il fiume che dopo la nostra morte porterà le nostre ceneri al mare e nell’eternità. Così, per uno scrittore indiano, i personaggi che crea sono meri simboli di concetti più vasti che sono sempre esistiti. Un albero rappresenta tutti gli alberi, un fiume tutti i fiumi, un amante tutti gli amanti. Allo stesso modo gli eroi e le eroine del cinema non sono soltanto le formose tentatrici che vedete, o i baffuti criminali o la vedova in lacrime vestita di bianco; essi rappresentano ciò che già sappiamo dalla nostra mitologia. A loro non chiediamo di essere unici e originali, ma semplicemente di interpretare il proprio ruolo, e poi sparire per ricomparire altrove.
Nel pionieristico romanzo di Salman Rushdie, I figli della mezzanotte, il protagonista Saleem non si considera un individuo. Dice: «E ci sono tante storie da raccontare, troppe, un tale eccesso di linee eventi miracoli luoghi chiacchiere intrecciati, una così fitta mescolanza d’improbabile e di mondano! Sono stato un inghiottitore di vite; e per conoscermi, dovrete anche voi inghiottire tutto quanto».
Il metodo narrativo usato è lo stesso usato millenni or sono quando i Veda vennero messi per iscritto per la prima volta, su strisce di foglie di palma, dopo secoli di recitazione orale. Su ogni striscia era iscritta una porzione del tutto. Se ne poteva scegliere una qualunque come incipit al resto. Un intero pubblico, o un singolo ascoltatore, poteva entrare e ascoltare un episodio, e poi andarsene e tornare per sentirne un altro. Il tempo era tutto sincronico, simultaneo. Per un indiano il tempo è un ciclo, una ruota, che passa dalle tenebre alla luce e ritorna alle tenebre, dal silenzio al suono e di nuovo al silenzio.
Per l’induismo, vedere le cose come separate, differenziate, è avidya, ignoranza, mentre la vera conoscenza, vidya, è conoscenza unitaria.
Io ritrovo lo stesso credo nella festa messicana del Dia de los Muertos, quando ogni famiglia erige altari per i propri morti, e vi posa gli oggetti più cari ai defunti, una chitarra, per esempio, o una bottiglia di pulque, o una sella; in modo che i defunti, qualora tornassero, ne possano godere di nuovo. Nei cimiteri, le famiglie trascorrono la notte raggruppati intorno alle tombe, portando i cibi che un tempo piacevano ai loro morti, suonando e cantando le canzoni che essi amavano. E nel buio spesso della notte, pieno di guizzi e fumo di candele, i morti sono di nuovo presenti anche se invisibili.
Forse la musica esemplifica meglio questo credo. Non la musica in sé, ma il silenzio che la precede. Prima del suono c’è il silenzio, il vasto e incoato magma fuso – il nulla – ed è quel silenzio, quel nulla, che dà origine al suono. Per il credo indù, quel suono primigenio è la sacra sillaba Om. Ma una volta pronunciato, quel suono ritorna al silenzio. Così formando un cerchio, o un ciclo, la ruota che rappresenta anche la vita; la vita non è lineare, né sequenziale, bensì ciclica, circolare, finisce dov’era cominciata, e ricomincia là dove finisce.
Dal silenzio nasce il suono. Dalla notte, il giorno. Dalla pietra, la forma.
Ancor oggi un cantante classico in India lascia che il silenzio sia riempito dal ronzio indifferenziato del tanpura, e da tale ronzio lui o lei estrae la nota primaria del raga, dalla quale verranno le altre. Queste note – e sono suoni, non parole – nelle loro diverse combinazioni, sequenze e intonazioni andranno a comporre il raga. Si ritiene che, pronunciate correttamente, abbiano poteri magici.
E lo scrittore che maneggia le parole, il linguaggio, questo lo sa istintivamente. È dal buio, dall’invisibilità, che emerge ciò che si vede e ciò che si sente. Molti scrittori l’hanno testimoniato.
Proust diceva che i libri veri non sono figli della luce del giorno e delle chiacchiere, bensì del buio e del silenzio.
Rilke scrisse: «Questo solo è ciò che abbisogna: solitudine, grande intima solitudine. Penetrare in sé stessi e per ore non incontrare nessuno, questo si deve poter raggiungere».
E Walter de la Mare: «Lo scrittore deve ritrarsi dalle pressioni e dai vezzi della convenzione, ancora e ancora. Deve costantemente ricatturare il silenzio».
E il profeta americano Henry David Thoreau: «Amo avere ampi margini alla mia vita. (...)Come grano di notte crebbi in quelle stagioni. Esse non furono un tempo sottratto alla vita, ma molto sopra e al di là della consueta razione».
E Virginia Woolf così descrisse la scrittrice: «La immagino in un atteggiamento di contemplazione, come una donna che pesca, seduta sulla riva di un lago con la lenza protesa sull’acqua. Non stava pensando, né riflettendo, né costruendo un intreccio; lasciava che la sua immaginazione s’immergesse nelle profondità della coscienza mentre lei restava seduta lì aggrappandosi a un sottile ma indispensabile filo di ragione. Lasciava scorrere incontrollata l’immaginazione dietro ogni roccia, dentro ogni fessura del mondo che giace sommerso nelle profondità del nostro essere inconscio».
(traduzione di Anna Nadotti) Copyright: © 2009 by Anita Desai. Published by Arrangement with Roberto Santachiara Agenzia Letteraria

Dai romanzi ai racconti per bimbi la scrittrice e la sua India
Anita Desai, nata nel 1937 da madre tedesca e padre bengalese, ha compiuto gli studi a Delhi. I suoi libri pubblicati includono tra gli altri «Fuoco sulla montagna» (2006), che si aggiudicò il Royal Society of Literature's Winifred Holtby Memorial Prize e il National Academy of Letters Award. Ha scritto anche due libri per bambini, «The Peacock Garden» (1979) e «Il villaggio sul mare» (2002), che vinse il Guardian Award for Children’s Fiction e da cui è stato tratto un film. Il suo ultimo romanzo, «Digiunare, divorare», tradotto in Italia nel 2005, è stato selezionato per il Booker Prize.

l’Unità 30.6.09
Hey William, giù la maschera e dicci chi eri veramente
di Ugo Leonzio


Il mistero sull’identità del Bardo, un autore che non sapeva scrivere neppure la sua firma
Uno, cento, mille William Shakespeare: è esistito veramente il Bardo? E se no, chi era in grado di scrivere gli immortali drammi che portano il suo nome, come fosse un marchio di fabbrica?

Shakespeare era analfabeta. Sì, proprio lui, il «dolce cigno dell’Avon», non era in grado di mettere una firma decente neppure in fondo al suo testamento.
Se quest’estate pensate di andare al «Globe» di villa Borghese a Roma, e commuovervi mentre i monologhi di Macbeth, di Prospero o di Lear si aggirano tra i vostri occhi umidi e il palcoscenico, cercate su google il saggio di Robert Detobel Shakespeare’s signatures analyzed. Delle sei firme autografe, considerate l’unica prova autentica della sua scrittura, nessuna è veramente una «firma» ma l’anonima esecuzione di uno scrivano. Quando consegnava i copioni di drammi, commedie e tragedie costruite con la prosa più intatta e immortale che sia mai stata scritta in lingua inglese, gli attori notavano l’immancabile assenza di correzioni come se qualcuno li avesse diligentemente ricopiati. Nessuno dei suoi ritratti è autentico e certamente non è Will l’autore dei Sonetti. L’autore, alle soglie della vecchiaia, descrive la sua implacabile decadenza fisica. All’epoca Will aveva più o meno ventisei, anni.
Chi era l’analfabeta Will? E chi era «Shake-speare», la misteriosa entità che scrivendo Amleto, poteva permettersi di usare 600 parole nuove di zecca, mai apparse nelle opere precedenti? Che conosceva Venezia meglio dei veneziani? Che maneggiava il greco e il latino come i Wit di Oxford e la filosofia meglio Giordano Bruno? E le abitudini dei calzolai, degli armigeri, le danze, gli usi, i pettegolezzi, le congiure, le perversioni, le parentele, i gradi di nobiltà della Corte come se ci vivesse e ci fosse vissuto da sempre? Che Will avesse una vocazione a raddoppiarsi e a sparire era evidente fin dai suoi esordi, quando ancora non si chiamava Shakespeare e non pensava di fuggire a Londra per fare l’attore.
WILL UNO E BINO
Al suo doppio testamento (nel quale lasciava dieci tremolanti sterline ai poveri del paese) corrisponde anche un doppio matrimonio. Non nel senso che Will si sia sposato due volte ma che mentre William Shagspere di Stratford otteneva, il 28 novembre 1582, una licenza matrimoniale per sposarsi con Anne Hathwey (incinta di tre mesi) un’altra licenza veniva rilasciata in data 27 novembre 1582 per il matrimonio di William Shaxpere e Anne Whatley di Temple Grafton, un villaggio a cinque miglia da Stratford. È inutile cercare una persona, un vero Will. Inutile e infruttuoso per un motivo semplice, nessun poeta o drammaturgo nato in quell’epoca aveva un genio sufficiente per creare le opere di «Shake-speare». Nessuno, tranne Christopher Marlowe, che era morto nel 1593, a ventinove anni, assassinato in un complotto organizzato da Sir Francis Welsingham, il potente Segretario di Stato, capo delle spie della regina Elisabetta. Intorno alla morte di Marlowe e alla certezza che fosse morto davvero (il corpo su cui venne eseguita l’autopsia non era certamente il suo), esiste un libro ormai leggendario The reckoning di Charles Nicholl (Random House).
Questo omicidio potrebbe contenere, in modo del tutto imprevedibile, il segreto dell’entità enigmatica, ironica e crudele che amava firmare le sue opere «Shake-speare», come se fosse un soprannome, una marca. O una factory che disponesse di un immenso potere.
UN’ENTITÀ
Will venne ingaggiato da «Shake-speare», in una strada di Londra, verso la fine del 1591. Venne rimosso dal suo incarico il 23 marzo 1603 alla morte della regina Elisabetta. Era famoso, ricco, molto ricco. Greene, Fletcher, Kid, Beaumont, Lodge, Peele e tutti i magistrali protagonisti della bella brigata elisabettiana erano morti senza niente. Per tutti quegli anni, Will recitò un ruolo che solo un genio assoluto avrebbe potuto inventare, qualcuno che non aveva mai conosciuto, con cui non aveva mai scambiato una parola, una lettera, da cui non aveva mai ricevuto messaggi e che restò per lui misterioso almeno quanto lo è per noi. È strano che questo problema sfiori di rado le opere degli studiosi, anche quelle acute, profonde, intelligenti come quella di Luca Fontana Shakespeare come vi piace (il Saggiatore) o molto glamour come Shakespeare in Venice di Shaul Bassi e Alberto Toso Fei (edizioni Elzeviro) da leggere assolutamente prima di inseguire il nostro amato fantasma tra Rialto e il Ponte de le Tette.
Poi, provate a domandarvi chi è l’entità «Shake-speare» che esprime nel suo stile meravigliosamente unico una mente inquieta, ferita, violata, abituata a scendere negli abissi, capace di uccidere, di nascondere il proprio sesso, di vivere nel bordello di miss Overdone, di odiare il padre, di perdere un regno e riconquistarlo e perderlo di nuovo come in un sogno? (il primo nome che vi viene in mente sarà quello giusto).

l’Unità 30.6.09
Intervista a Dario Fo: «Giotto ad Assisi non dipinse. Ma lì non me lo fanno dire»
Uno spettacolo del premio Nobel sul pittore e sugli affreschi della chiesa
«C’era Cavallini e la scuola romana, però il vescovo mi ha censurato»
di Stefano Miliani


Quel san Francesco che scaccia i diavoli da Arezzo chi l’ha dipinto? Giotto o il romano Cavallini? Nella basilica superiore di Assisi a fine ‘200 chi affrescò le scene del cosiddetto Maestro di Isacco e, sopra ogni altra cosa, quelle storie di San Francesco che per comune opinione hanno dato l’abbrivio alla «moderna» pittura italiana, più realistica e vicina agli uomini? Il pittore toscano o il maestro Pietro Cavallini e la scuola romana? Sull’amletico dilemma gli storici dell’arte si arrovellano dalla fine del ’700. In Italia prevale l’opzione giottesca con robuste eccezioni (del compianto Federico Zeri e di Bruno Zanardi). E ora il «partito» che propende per Cavallini e Roma acquisisce un alleato capace di meravigliose e umanissime affabulazioni sull’arte e sugli artisti: Dario Fo. Che racconta come e perché Giotto non ebbe alcun ruolo di guida, nella basilica assisiate, nella lezione-spettacolo con schermi, disegni e storie in calendario il 2 e 3 luglio al teatro Bonci di Cesena, l’8 e 9 in piazza Santa Croce a Firenze, il 24 e 25 in piazza San Francesco in Campo. Stranamente non davanti alla basilica di Assisi, il posto più congeniale. Non per volontà del premio Nobel: il vescovo – racconta Dario Fo – lì non gradiva e altre dislocazioni erano ingestibili. E se avete seguito, live o in tv, una delle sue storie dell’arte (dal duomo di Modena a Raffaello, da Michelangelo a Caravaggio), non vorrete perdere questa narrazione che si intreccia con l’originario messaggio francescano.
Semplificando, come funziona stavolta il marchingegno narrativo?
«Abbiamo preso alcune storie di San Francesco e abbiamo lavorato sulla tecnica pittorica d’esecuzione che era diversa tra scuola romana e toscana partendo da un fondamentale libro di Bruno Zanardi sulla questione di Assisi. Gli artisti usavano dei cosiddetti cartoni con tanti fori che, senza entrare ora in troppi dettagli, venivano appoggiati alla parete e attraverso una polvere nera servivano a tracciare delle sagome articolate come fossero marionette della tradizione orientale. Da quelle sagome si ottengono le figure e queste figure lì ad Assisi sono costanti, hanno le stesse dimensioni tanto nelle storie bibliche che in quelle su San Francesco. Abbiamo copiato le sagome come ha fatto Zanardi e scoperto, ad esempio, proporzioni tra testa e corpo diverse, il che vuol dire che gli autori erano diversi. Ricordiamo che quegli affreschi venivano eseguiti da veri “cantieri” con un maestro pittore, poi c’era chi eseguiva l’incarnato, chi il fondo, e così via. Di sicuro Cavallini aveva condotto un suo gruppo di lavoro, c’è chi dice ci fosse lo scultore Arnolfo di Cambio e chi il maestro di Giotto, cioè Cimabue, ma Giotto era troppo giovane: chi dirigeva, il “magister” generale, aveva una certa età».
Eppure molti studiosi restano convinti della sua presenza.
«Perché non hanno adoperato un metodo scientifico come ha fatto Zanardi. Ad esempio i pittori romani usavano un taglio radente per la luce, mentre in Giotto e nei toscani è molto più dolce, si passa dalla luce al buio con maggiore uniformità. E ad Assisi la presenza romana si vede. Abbiamo anche riprodotto molte opere perdute di affreschi romani del Cavallini di cui si sono salvate solo copie del ’600 e queste immagini danno molte indicazioni».
Per gli storici dell’arte che vedono Giotto maestro ad Assisi c’è, nonostante le differenze dovute agli anni passati, un’affinità di fondo tra gli affreschi di Assisi e quelli della Cappella degli Scrovegni a Padova, opera sicura dell’artista finita nel 1305.
«Sì, esiste una unità di fondo, ma perché era venuto ad Assisi, avrà visto, magari ha anche lavorato ma non come magister major».
Volevate allestire lo spettacolo davanti alla basilica di Assisi. Jacopo Fo ha detto che il vescovo della città, monsignor Sorrentino, si è opposto.
«Esatto, ci hanno risposto di no. Senza dare motivazioni. Volevano che lo facessimo sulla Rocca ma lassù non si arriva con i camion, è impossibile, eppure i frati e il sindaco lo volevano, erano d’accordo con noi. Eppure lì fanno spesso concerti. Peraltro ho già fatto in tutta l’Umbria, tranne che ad Assisi, lo spettacolo su San Francesco. Questa è censura bella e buona. Invece i gesuiti nella loro rivista dedicarono 15 pagine entusiaste al mio San Francesco».
Avere il nome di Giotto come artista principe attira più persone?
«È per quello che non vogliono il nostro spettacolo davanti alla basilica (ma non sto parlando dei frati). Poi io sono di sinistra e sul San Francesco ho idee diverse da quelle imposte nei secoli. Pian piano lo hanno trasformato in una copia di Cristo mentre lui non voleva saperne. Lo spirito di San Francesco è stato edulcorato. Come disse lui stesso: se andiamo avanti con queste varianti alle regole francescane alla fine proporremo un modo di vivere che piacerebbe tantissimo ai mercanti di Venezia».
Queste lezioni-spettacolo funzionano benissimo anche nelle riprese televisive. Giotto andrà in tv?
«Non so, facciamo lo spettacolo a nostre spese. Speriamo».

La storia e i libri della «querelle» dell’arte
La diatriba. A dire che Giotto lavorò ad Assisi, è un documento del 1312. Nel 1450 ci tornò su Lorenzo Ghiberti, poi il Vasari gli attribuì le storie francescane nel 1568 nella seconda edizione delle sue «Vite». Aprì il diverbio il domenicano Della Valle nel 1791. Bruno Zanardi, anche espertissimo restauratore, con «Giotto e Pietro Cavallini», nel 2002 ha cercato di provare scientificamente che lì non fu Giotto il maestro chiave. I i principali studiosi italiani del pittore, come Luciano Bellosi (autore di un libro essenziale come «La pecora di Giotto»), sono convinti che l’artista toscano dette l’impronta alla decorazione della basilica superiore. Che, costruita dal 1228 al 1253, dal 1277 ai primi del 300 fu «il» vero centro pittorico d’Europa. E per quegli affreschi, oltre a Cimabue, al Maestro di Isacco, Giotto e Cavallini, si sono fatti i nomi del romano Torriti e dello scultore Arnolfo di Cambio.

Repubblica 30.6.09
Il Paese delle reliquie
di Jenner Meletti


Dopo la scoperta dei resti di San Paolo, viaggio nell´Italia che venera il corpo dei santi. Per capire le ragioni di un culto millenario
I resti di San Paolo sono solo l´ultimo ritrovamento E daranno vita a un nuovo culto. Perché in Italia la venerazione delle reliquie è antichissima E ancora oggi molto diffusa. Ecco perché
C´è concorrenza, fra i santuari, perché i pellegrini sono anche turisti che portano denari
C´è chi ha bisogno di vedere, e magari toccare per cercare una conferma al proprio credo

Lo ricorderà per sempre, quel giorno del 1965. «Ero un giovane seminarista, ma potei assistere alla riesumazione del corpo di don Luigi Orione, nel santuario della Madonna della Guardia a Tortona. Erano passati 25 anni dalla sua morte: il corpo era intatto, ancora elastico. Prima di riporlo nell´urna di marmo, gli tagliarono la barba. Gli era cresciuta anche dopo la morte». Don Flavio Peloso allora aveva 13 anni e adesso è il superiore generale dell´Opera don Orione. Il ritrovamento della tomba di San Paolo («Sono stati trovati i resti - ha detto papa Benedetto XVI - di una persona vissuta fra il I e il II secolo») gli fa tornare alla mente quel giorno del 1965. «Non avevo nessuna paura. I superiori mi dissero che potevo avvicinarmi al corpo del nostro fondatore e io accettai l´invito. Mi fece tanta tenerezza, vedere quel volto che fino ad allora avevo visto solo in fotografia. Era davvero il corpo di un santo. Lo capimmo tutti, anche se per la canonizzazione abbiamo dovuto aspettare il 16 maggio 2004».
Il corpo di don Orione è ancora a Tortona, il suo cuore invece è a Claypole, vicino a Buenos Aires. «Può sembrare strana, questa venerazione del corpo dei Santi, ma solo a chi non conosce la religione cattolica. Alla base di tutto c´è l´affetto e questo vale per tutti i defunti. Si conserva un oggetto, una fotografia, si va al cimitero. Vado spesso in Madagascar e lì, ogni cinque o sei anni, i morti vengono levati dalle tombe, ripuliti, rivestiti con nuovi abiti… Per i cattolici c´è qualcosa in più: si rispetta il corpo che è tempio e opera di Dio ed è annuncio di resurrezione. Per il corpo del santo c´è una venerazione più alta perché è stato testimone e strumento di opere di santità».
L´annuncio del papa sulla scoperta che «sembra confermare l´unanime e incontrastata tradizione che si tratti dei resti mortali dell´apostolo Paolo» provoca, nel superiore degli «Orionini», una forte emozione. «Per noi cristiani queste non sono solo notizie di grande valore archeologico e artistico, ma costituiscono un prezioso documento sulla nostra fede cristiana che viene da una storia che ha fatto storia e ha lasciato tracce storiche. Non è una mitologia, una filosofia, una morale ben pensata. Non è una creazione dell´uomo ma un evento storico accaduto e che come tale ha lasciato tracce e documenti certi, accessibili, non equivoci. La storia della salvezza "avvenne", "il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi". E´ davvero importante trovare conferme storiche. Viviamo in un mondo dove c´è chi, a pochi decenni di distanza, cerca di negare l´Olocausto».
Non è semplice nemmeno dopo la morte, la vicenda dei santi. «Nel 1977 - racconta don Flavio Peloso - a Tortona ci fu una grande alluvione che allagò anche la cripta del santuario. Noi potemmo riaprire la tomba di don Orione solo nel 1980, l´anno della beatificazione. Il corpo era deteriorato e allora fu decisa la "mummificazione artificiale". In pratica, si usano sostanze chimiche che essicano il corpo. E così abbiamo potuto esporre il corpo, in una teca. Arrivano fedeli da tutto il mondo. C´è chi ha bisogno di "vedere", e magari toccare, per cercare una conferma nella fede. I tecnici, sempre nel 1980, ci spiegarono che con la mummificazione gli organi interni sarebbero stati perduti e allora fu deciso di togliere il cuore. E´ stato messo in una reliquiario, che nel 2000 è stato mandato in Argentina, perché questo era il desiderio di don Orione. Venerare il cuore di un santo è un richiamo storico e culturale alla comunione con quel santo e con Dio. Non a caso si conservano ancora i cuori dei santi Teresa d´Avila, Carlo Borromeo, Francesco di Sales, Vincenzo de´ Paoli…».
La notizia del San Paolo ritrovato riapre vecchie polemiche. Il carbonio 14 è cosa buona e giusta quando conferma l´autenticità della tomba dell´apostolo ma viene messo in discussione quando rileva che la Sindone, il sudario in cui fu avvolto il Cristo, il realtà sarebbe medievale. Secolari sono poi le accuse contro il traffico di reliquie, più e meno autentiche, che paradossalmente continuano anche nei giorni nostri. Ieri, su eBay, era possibile comprare una «reliquia del Beato Giacinto martire» a soli 110 euro o «una coppia di reliquiari per reliquia» a 1.000 euro.
«L´annuncio dato dal papa sulla tomba di San Paolo - dice Alessandro Albertazzi, docente di storia contemporanea all´ateneo bolognese e postulatore di numerose cause di canonizzazione - ci fa molto piacere soprattutto perché conferma che chi per secoli ci ha parlato dei primi cristiani a Roma, di San Pietro e di San Paolo, non ci ha raccontato frottole. La scoperta ci dice che la storia conferma ciò che abbiamo creduto per fede. E non possiamo certo stupirci per il ruolo che il "corpo" ha nella nostra fede. Il Credo si chiude con l´annuncio della "resurrezione dei morti e la vita eterna". Il vecchio Credo, in modo ancor più esplicito, parlava di "resurrezione della carne". Tutta la nostra fede non esisterebbe senza quel Dio che è diventato uomo, un corpo che è stato crocefisso poi è risorto… E il corpo del santo viene venerato perché è testimonianza delle buone opere compiute. Non deve stupire, questo legame. Chi ha perso i genitori va al cimitero, parla con loro, cerca di ricordi. Stare davanti alla tomba dei santi o a quella di genitore è anche un modo per riconquistare la memoria».
Si chiama pellegrinaggio, la visita ai corpi dei santi. «Non è obbligatorio ma certo rinforza la fede. Questo perché essere pellegrini vuol dire accettare la penitenza, l´obbedienza, l´umiltà. Vai a Lourdes, aspetti che prima di te entrino nelle vasche i malati, anche quelli con le pustole, e devi obbedire alle pie donne che ti dicono quando devi entrare e quando devi uscire… Segui il Camino di Compostela, anche soltanto per qualche giorno, e senti addosso la grande fatica di un duro percorso che sembra non finire mai. Sono atti di devozione che possono aiutarti a rafforzare la fede, soprattutto quando è debole».
C´è anche molta concorrenza, fra i diversi santuari, perché i pellegrini sono anche turisti che dovrebbero portare offerte nelle cassette delle elemosine e soprattutto denari in hotel e ristoranti. Chiese e santuari con i corpi dei santi - come Sant´Ambrogio a Milano, San Marco a Venezia, San Nicola a Bari, il duomo con San Gennaro a Napoli - o luoghi di culto mariano come la Madonna di Nazareth, salgono e scendono nelle quotazioni dei fedeli come titoli in borsa. E non sempre i desideri diventano realtà. A San Giovanni Rotondo, ad esempio, l´esposizione del corpo di padre Pio (con maschera in silicone disegnata dalla londinese madame Tussauds, del museo delle cere) non ha risollevato dalla crisi alberghi e ostelli vari. «Domenica scorsa, quando è venuto il papa - dice S., che lavora in un call center che riunisce 40 hotel - abbiamo ricevuto prenotazioni per 45 camere in tutto. Nei primi sei mesi di quest´anno, rispetto all´anno scorso, i clienti in hotel sono diminuiti del 60%. Sono meno anche rispetto a due anni fa, quando l´esposizione del corpo di padre Pio, avvenuta il 24 aprile 2008, era solo un progetto». Alberghi che chiudono, bed & breakfast che restano vuoti per mesi. «I pellegrini arrivano dai paesi vicini e dormono a casa loro. I pochi che arrivano da lontano si fermano un´ora o due e alla sera sono già a Roma». Il corpo del santo verrà messo nella cripta sotto la nuova chiesa di Renzo Piano. «Padre Pio - dice S. - voleva restare in pace in un cantuccio del convento. Da quando l´hanno disturbato, ci ha messo in punizione. La penitenza la stiamo già facendo, con tanti letti e tavoli vuoti. Forse dovremmo chiedergli perdono».

Repubblica 30.6.09
Quando le città si contendevano il Corpo del Santo
di Agostino Paravicini Bagliani


Per la tradizione emanano profumi e sono fonte di prodigi. Da San Nicola si dice che sgorghi olio. Una sterminata collezione di braccia, gambe, cuori, occhi: davano prestigio e protezione

Gli antichi romani veneravano gli eroi e ne custodivano con particolare devozione gli oggetti che gli erano stati associati come reliquie ma ritenevano che il loro cadavere fosse inviolabile. Con l´avvento del Cristianesimo, i corpi dei santi, soprattutto se rinvenuti integri, assunsero invece una funzione di protezione soprannaturale.
Nel 395, a Milano, Sant´Ambrogio seppe da una visione dove si trovavano i corpi dei martiri Nazario e Celso che erano stati decapitati, riscontrò il corpo di Nazario «perfettamente integro e intatto, con barba e capelli, cosparso di sangue fresco come fosse stato appena sepolto».
Nel Medioevo si pensava che dal corpo del santo emanasse una virtus specialissima che poteva anche corrispondere ad una sorta di talismano: i mercanti veneziani, per evitare naufragi, portavano con sé dell´acqua che era stata in contatto con la tomba di San Marco.
A Roma, al centro della Cristianità, la cappella particolare del papa - il Sancta Sanctorum, presso San Giovanni in Laterano - conservava una delle più ricche collezioni di reliquie di corpi santi: le braccia di San Cesario, due ossa di San Giovanni Battista, un osso di San Gerolamo, la spalla di San Dionigi l´Areopagita, il ginocchio di San Tiburzio, frammenti delle teste di San Pietro e di San Paolo, e il capo di Sant´Agnese, oltre che reliquie di San Lorenzo, il santo patrono della cappella.
Possedere una reliquia conferiva prestigio ad un´intera comunità. La Legenda aurea - la più celebre raccolta medievale di vite di santi (trad. Giovanni Paolo Maggioni, Firenze Edizioni del Galluzzo, 2007) - raccontava che quando i Turchi distrussero Mira, dove San Nicola era stato sepolto, quarantadue soldati di Bari riuscirono a traslare nella loro città «le sue ossa che galleggiavano nell´olio. Era l´anno 1087».
Anche la scoperta delle reliquie dei santi Matteo e Luca permise a Padova di far parte della ristretta cerchia di città italiane che possedevano reliquie degli evangelisti. E a Venezia, il rinvenimento, nel 1094, delle reliquie di san Marco in un pilastro della basilica, suggellò per secoli l´alleanza della città con il santo.
Il conflitto con Barbarossa fece invece perdere a Milano le reliquie dei Re Magi, a favore di Colonia, dove i Re Magi conosceranno un culto rapidissimo.
Sempre secondo la Legenda aurea, una maggioranza di santi esalavano odori profumati al momento della loro morte. Quando San Nicola fu sepolto in una tomba di marmo, «dalla sua testa sgorgò una fonte di olio e ai suoi piedi una fonte d´acqua e fino ad oggi dalle sue membra trasuda un olio che ridona la salute a molti».
San Nicola aveva dunque un corpo "miroblita", un attributo che fu sovente dato ad un santo (si pensi a San Demetrio Miroblita) per indicare che il suo corpo defunto lasciava colare olio profumato.
Alla morte della principessa Elisabetta d´Ungheria (1231), uno degli elementi che «rese evidente la sua castità e la sua purezza», fu appunto il «diffondersi del profumo». Ed anche alla morte di Teresa d´Avila (1582), i biografi della santa insistettero sulla "suavità" che emanava dal suo cadavere. Il suo corpo esalò odori "suavi" anche dopo la sepoltura, per cui fu riesumato e distribuito a vari monasteri: la mano sinistra fu affidata alle carmelitane scalze di Lisbona, il braccio sinistro fu lasciato ad Alba de Tormes, il resto del corpo fu portato al monastero di san Giuseppe d´Avila.
L´incorruttibilità del cadavere non è però sufficiente a garantirne la santità. Quando, l´11 ottobre 1605, il sepolcro di papa Bonifacio VIII (1294-1303) fu aperto (si stava allora costruendo la moderna basilica vaticana), la salma fu trovata «intatta e non corrotta» e fu perciò esposta per devozione nella sala degli archivi della basilica vaticana.
Ma la scoperta dello stato incorrotto della salma di un papa dalla memoria così controversa non fu, né allora né poi, considerato un indizio di santità.

Repubblica 30.6.09
La chiesa, l’inquisizione e i libri all´indice
La caccia all’eretico
di Adriano Prosperi


Dai vescovi al papa
All´inizio scovare e perseguire l´errore era compito di vescovi e concili. Poi con il tempo la condanna e la persecuzione divennero una specializzazione di corpi alle dirette dipendenze del papato

Nella tradizione della chiesa cristiana d´Occidente la condanna dell´errore ha preso il nome latino di una istituzione dell´antica Roma: censura.
Non è solo una questione di parole. La lotta contro l´errore, per la Chiesa, ha cessato presto di essere la parola carismatica dell´apostolo che corregge Simon Mago per diventare la funzione di un potere regolato dal diritto. Da correzione fraterna dell´errante si è trasformata in volontà di uniformazione del consenso e domanda di adesione acritica secondo la formula recitata dall´eretico pentito: «Credo quod credit Sancta Mater Ecclesia» (credo quello che crede la santa madre chiesa). Il percorso storico è stato lungo ma lo spirito del dubbio e della disobbedienza è sempre stato identificato col volto di Satana, il tentatore. E col costituirsi della Chiesa come società gerarchica dominata da un potere sacrale accentrato la censura si è esercitata soprattutto contro gli ingegni indocili. La scelta personale ("eresia") fu la colpa da perseguire. Se all´inizio scoprire l´errore e denunciarlo fu il compito di vescovi e concili, l´ascesa del potere papale portò a concentrare la censura delle opinioni e la persecuzione degli eretici nelle mani di corpi specializzati alla esclusiva dipendenza del papato: gli ordini religiosi domenicano e francescano. Dominanti nella predicazione e nell´insegnamento della teologia, i frati furono anche i titolari dell´ufficio dell´inquisizione. Fu così che i roghi di libri aprirono la via ai roghi di uomini.
La "rivoluzione silenziosa" del libro a stampa e quella del movimento luterano portarono a profonde modifiche. Fu allora che il papato accentrò nelle sue mani la censura. Il primo e più celebre degli indici dei libri proibiti fu pubblicato da Papa Paolo IV nel 1559 inaugurando una tradizione destinata a lunga durata. Da allora la censura divenne una funzione ordinaria del potere ecclesiastico che precedette quello statale. Si trattò di un´impresa gigantesca: oltre alla propaganda protestante ci si propose di passare al setaccio tutta la produzione libraria antica e moderna. L´esito fu micidiale per l´attività intellettuale e per l´editoria (quella veneziana perse la sua egemonia europea). Era un esito obbligato per un sistema teocratico: nella Ginevra calvinista, per salvare affari e religione, si ricorse all´astuzia di far pubblicare i testi pagani "licenziosi" sotto il falso luogo di stampa di Lione. Nel mondo cattolico italiano i libri pericolosi furono distrutti (Machiavelli) o "espurgati" (Boccaccio). Ci furono autori di pasquinate anticlericali che pagarono la satira con la vita. Al popolo, considerato come un gregge da mantenere docile o come un fanciullo destinato a non diventare mai adulto, si fornì una cultura premasticata e innocua. L´autodenunzia di Torquato Tasso, il rogo di Giordano Bruno, il processo a Galileo, sono gli episodi più celebri della svolta dell´attività intellettuale in Italia verso l´età dell´autocensura preventiva e dell´ossequio cortigiano.
Mentre la migliore cultura italiana trovava ospitalità fuori d´Italia, si svolse il lavoro assiduo dei laboratori della censura accentrati nella Roma papale: la Congregazione cardinalizia dell´Inquisizione (creata nel 1542) e la Congregazione dell´Indice (1571) hanno accompagnato la cultura cattolica e in modo speciale quella italiana fino al secolo XX inoltrato. Oggi la loro eredità sopravvive nell´opera della Congregazione Vaticana per la Dottrina della Fede.

Repubblica 30.6.09
Si possono fermare le idee nell´epoca di twitter?
di Sandro Viola


In Congo o in Nigeria per sfuggire ai controlli era sufficiente mostrare una banconota. Nella Grecia dei colonnelli i censori si intromettevano nelle telefonate

Teocrazie e dittature impiegheranno mezzi sempre più sofisticati per imporre una cappa di silenzio. Ma migliaia di giovani geniali troveranno nuove contromosse

Il controllo delle opinioni è da sempre l´ossessione dei regimi autoritari. Oggi le nuove tecnologie globali pongono alla repressione problemi quasi insormontabili

Censura? Nell´epoca di Internet, di Facebook, You Tube, Twitter e Flickr, si può ancora parlare di regimi che impongono la censura all´informazione? No, non si può. Troppe cose sono cambiate negli ultimi vent´anni, sino a far crollare le barriere che circondavano i paesi dove veniva praticata la censura. Oggi si possono infatti espellere i giornalisti stranieri, si può terremotare il Web, togliere campo ai cellulari e agli Sms: ma tutto questo non impedirà lo scorrere d´un impetuoso fiume d´informazioni che il regime censorio avrebbe voluto bloccare.
Sia pure limitata a notizie contenute in messaggi di soli 140 caratteri, sia pure attraverso poche frasi strozzate dei testimoni, la verità su quanto sta accadendo in un paese sottoposto a censura inonda adesso i continenti, l´Universo. La giunta militare birmana è forse riuscita ad arginare le immagini dei bonzi bastonati a morte dalla sua soldataglia? Il torvo silenzio dei media russi ha impedito che tutto il mondo sapesse delle circostanze oscure, gravide di sospetti sul coinvolgimento del potere, in cui s´ammazzano i giornalisti a Mosca? I corrispondenti dei giornali inglesi sbattuti in carcere, i computer sequestrati all´opposizione, hanno forse consentito a Mugabe di nascondere in questi anni l´agonia dello Zimbabwe?
E Teheran è sotto i nostri occhi. L´Iran non è la Birmania o lo Zimbabwe, dispone di esperti informatici non meno capaci di quelli occidentali, e infatti il regime è riuscito negli ultimi giorni a chiudere qualche falla, a restringere il flusso delle informazioni in uscita sul Web. Ma intanto, quel che dovevamo sapere, vedere, comprendere, lo abbiamo saputo, visto, capito. E il volto insanguinato di Neda Agha-Soltan, la ragazza uccisa dalla polizia degli ayatollah, è ormai il simbolo della nuova epoca. L´epoca del tramonto delle censure.
È vero, i regimi autoritari impiegheranno mezzi sempre più sofisticati, altre strategie informatiche, per far calare una nuova cappa di silenzio sui propri misfatti. Ma nelle case, curvi sui Pc, migliaia di giovani geniali adotteranno contromosse, tecniche mai usate, invenzioni mirabolanti per aprire ancora una volta un varco nel muro della censura. E dunque, salvo che non s´arrivi al sequestro di tutti, non uno escluso, i computers e i cellulari del paese dove si vorrebbe mantenere la censura, una massa d´informazioni continuerà a spandersi ovunque nel mondo. In Cina, da settimane, i bloggers lanciano infatti sul Web la loro sfida contro le autorità: «Tutti i vostri tentativi di manipolare gli accessi a Internet, finiranno nella pattumiera della storia».
Non era così una generazione addietro, quando ancora esistevano i censori. Nei tanti paesi allora sottoposti a censura i censori erano una frangia della piccola borghesia, modestamente ma non miseramente pagati, e con un certo sentimento del proprio ruolo nell´apparato del potere. Era gente che aveva fatto studi superiori, appreso le lingue straniere, e che riceveva disposizioni da molto in alto (i servizi di sicurezza, e a volte gli stessi governi) sulle informazioni che potevano uscire dal paese e quelle che invece andavano imbrigliate.
Certo: più scassato era il regime e più inadeguati, incompetenti, erano i censori. Nel Medio Oriente arabo, i più preparati (e per il giornalista straniero, quindi, più temibili) erano i siriani. Volti impenetrabili, modi urbani ma gelidi, buona conoscenza delle lingue. Scostanti ma capaci erano anche gli iracheni. E i più sprovveduti, a volte patetici per l‘inadeguatezza, erano gli egiziani, che le lingue le conoscevano in modo approssimativo e ai quali erano giunte disposizioni in stile egiziano, cioè confuse, contraddittorie. Essi cercavano perciò di rimediare alle loro lacune e incertezze adottando maniere burbere, toni perentori, col giornalista straniero che porgeva trepido il suo articolo dattiloscritto, aspettando il timbro che gli avrebbe permesso di recarlo all´ufficio postale e trasmetterlo per telegramma o telescrivente.
«Lei qui cancellate», diceva uno di loro nella palazzina della televisione dove c´era l´ufficio di censura. «Scusi», chiedeva rispettoso il giornalista, «perché dovrei cancellare?». «Perché voi dice che posizione del presidente Nasser è ambivalenta, e questa è offesa al presidente Nasser». O un´altra volta: «Che vuol dire sonnecchiare?». «Vuol dire», rispondeva il giornalista, «stare quasi dormendo». «E lei dite che poliziotti egiziani dormono dinanzi palazzo governo? No, io non metto timbro per trasmettere…».
Rozza, quasi infantile, quella censura era tuttavia difficilmente valicabile. Non funzionava sempre, infatti, come nel Congo di Mobutu alla fine dei Sessanta o nella Nigeria della guerra col Biafra, l´uso della mancia. Lì, nel palazzo delle Poste di Kinshasa o al Press Office di Lagos, non c´erano inciampi se si consegnava – spillata all´ultimo foglio dell´articolo – una banconota di medio taglio. Il censore faceva anzi strada verso la telescrivente, s´inchinava cordiale («Bonsoir monsieur, à demain», o a Lagos «Bye bye, sir») e il telescriventista capiva così che anche lui poteva aspirare a una mancia.
I più compresi della funzione erano i vietnamiti ad Hanoi e Saigon nell´´85,quando i giornalisti stranieri tornarono per la prima volta dopo dieci anni dalla vittoria comunista. Conoscevano il francese, non l´italiano, ma erano così occhiuti e scrupolosi nello spulciare il testo che coglievano quasi sempre le discrepanze tra le due lingue. E se una discrepanza c´era, subito intingevano la penna nel calamaio per cancellare l´intero capoverso. Mentre i più comici risultarono forse i greci nel ´67, dopo il colpo di Stato dei colonnelli. Quella volta la censura veniva praticata direttamente durante le telefonate dei giornalisti dagli alberghi di Atene ai loro giornali. Succedeva così che dopo la più banale e inoffensiva delle frasi si sentisse di colpo una voce sdegnata («Lei offende il popolo greco»),cui seguiva la caduta della comunicazione. E per riaverla bisognava quindi penare con i centralini dell´albergo, sinché non si risentiva la voce del censore : «Adesso non dica più bugie».
Un mestiere finito come tanti mestieri d´un tempo. La zattera cui s´afferravano fette di borghesia intellettuale per spuntare uno stipendio, affondata per sempre. I giornali non vengono più stampati con l´inchiostro, i censori hanno adesso i camici bianchi dei tecnici dell´informatica, e la censura è quasi soltanto un ricordo.

Repubblica 30.6.09
L’ingresso nella vita adulta in una società flessibile, "liquida"
Maturità, l’ultimo rito di passaggio
di Marino Niola


Mezzo milione di ragazzi sono alle prese con l´incubo della maturità. L´esame più temuto dagli Italiani. Quello che si ricorda per tutta la vita e che spesso da grandi si sogna addirittura di dover ripetere. In realtà la maturità non è una semplice verifica scolastica, ma una prova iniziatica cui ogni anno viene sottoposta un´intera generazione. L´ultimo cerimoniale collettivo di una società deritualizzata come la nostra. L´ultimo dei riti di passaggio. Quelli che ogni società celebra per solennizzare i grandi cambiamenti che scandiscono l´esistenza delle persone. A chiamarli per la prima volta con questo nome fu Arnold Van Gennep, un antropologo franco-olandese che giusto cento anni fa diede alle stampe un fortunatissimo libro intitolato proprio Les rites de passage. Un termine destinato a cambiare la storia delle scienze umane, ma soprattutto a oltrepassare la cerchia degli specialisti per diventare linguaggio e senso comune.
Riti come l´iniziazione, il matrimonio, il funerale, ma anche il battesimo, l´ordinazione sacerdotale, l´arruolamento militare, la laurea segnano le tappe fondamentali che guidano il cammino della vita. Passaggi obbligati, confini simbolici che separano un´età dall´altra, un ruolo dall´altro, come soglie invisibili che tutti, prima o poi, devono attraversare. Ogni passaggio è sottolineato da una cerimonia che mette in scena l´uscita dalla vecchia identità e l´ingresso in quella nuova. Come avveniva nelle iniziazioni degli Indiani d´America, dove i ragazzi dovevano superare prove difficili, spesso cruente per dimostrare di essere diventati dei veri uomini, dei guerrieri coraggiosi. Non diversamente da quel che accade in questi giorni ai nostri figli chiamati a superare l´esame degli esami. Che non a caso chiamiamo maturità, perché è un test d´ingresso alla vita adulta. Un´iniziazione in piena regola con penne e computer al posto di archi e frecce.
In ogni caso si tratta di prove che segnano per sempre gli individui. Nella mente, ma spesso anche nel corpo. Se gli Indiani sottoponevano i ragazzi a digiuni estenuanti e piercing dolorosissimi, il nostro addestramento militare comincia con il taglio dei capelli e con l´imposizione della divisa alle reclute. E la carriera monastica, con la tonsura e la vestizione dei novizi. Modi diversi per scrivere sul corpo una nuova condizione. Ma in ogni caso si tratta di certificazioni di un cambiamento che la collettività considera tanto importante da passarci sopra quel tratto di evidenziatore che chiamiamo rituale. E che incanala i destini sociali degli individui come un binario. Senza possibilità di deviazioni. Una stazione dopo l´altra. Con l´età che scandisce le tappe della vita come un timer.
Oggi con il matrimonio in declino - un terzo degli Italiani dice no ai fiori d´arancio e sceglie la convivenza - i battesimi in diminuzione, la crisi delle vocazioni e il servizio militare abolito, non ci resta che la maturità, anche se sempre più light, proprio come la scuola al tempo di internet. Una maturità liquida insomma.
In realtà è proprio il loro carattere solenne, pesante, tutorio a condannare al declino i riti di passaggio nel nostro mondo a cristalli liquidi. Che è fondato sulla mobilità, sulla flessibilità, su una leggerezza dell´essere che ci fa volare come aquiloni sospinti dai venti mutevoli della domanda e dell´offerta. I rigidi imperativi della tradizione e della formazione non sembrano più adatti a un mondo come il nostro che all´imperativo ha sostituito il presente. Senza condizionali e senza congiuntivi. Ormai grandi o piccoli, maggiorenni o minorenni, non tolleriamo obblighi e limiti, prescrizioni e iniziazioni. La libertà di mercato è diventata la forma profonda del nostro essere. Mentre i riti di passaggio sono ormai macchine troppo onerose e centralistiche, proprio come certi apparati pubblici. I loro costi di gestione superano di gran lunga i vantaggi. E l´ammortamento della spesa economica ed emotiva diventa impossibile.
Meglio il fai da te. Senza coinvolgere troppo istituzioni e autorità: famiglia, chiesa, scuola o stato che siano. Non è un caso che le ultime generazioni si autoeduchino, si autoistruiscano e spesso si inizino da sole con modalità e ritualità inedite e talvolta spiazzanti per gli adulti. Il risultato è che i ragazzini sembrano già grandi e i cinquantenni ancora adolescenti. Tutti insieme in un eterno presente che emerge dalle ceneri dell´idea progressiva del tempo e della vita. E i riti di passaggio assomigliano sempre di più ad un modernariato istituzionale. Bello da ricordare, difficile da rimpiangere.

Corriere della Sera 30.6.09
La crisi della sinistra italiana
Un ventennio di rimozioni
di Angelo Panebianco


Da diversi mesi il tema rimbalza da un Paese all' altro («Le Monde », ad esempio, vi ha dedicato due dense pagine di analisi e commenti qualche giorno fa) e le ele­zioni europee, con i pessi­mi risultati conseguiti dai partiti socialisti e affini, hanno reso ancora più ac­cesa la discussione. Non c'è praticamente forza di sinistra in Europa che non si ponga una doman­da: come mai, in tempi di massiccio ritorno dello Stato nella gestione dell' economia, di critica al mercato, di indebolimen­to della fiducia liberale nella capacità di autorego­lazione dei mercati, i par­titi socialisti (e affini) non riescono ad approfittar­ne? Non dovrebbero esse­re proprio i partiti sociali­sti, antichi alfieri dell'in­tervento dello Stato e dell' uso della spesa pubblica per fini di ridistribuzione della ricchezza, i naturali punti di riferimento politi­co degli elettori in questo tempo di crisi?
Il problema è assai com­plesso e richiede risposte (o tentativi di risposta) a più livelli. Bisogna tener conto della tendenza ge­nerale ma anche delle spe­cifiche situazioni naziona­li. Sul piano generale si può forse sostenere (co­me chi scrive ha fatto sul «Corriere Magazine» un paio di settimane fa) che i partiti socialisti non pos­sano approfittare della si­tuazione creata dalla crisi economico-finanziaria perché non esistono più, in Europa, le condizioni sociali e politico-culturali che favorirono i loro suc­cessi nel XX secolo. Nelle attuali società individuali­ste gli antichi ideali di «giustizia sociale» e di uguaglianza a cui i partiti socialisti finalizzavano l'intervento dello Stato e l'espansione dei sistemi di welfare state, non han­no più corso. In tempi di crisi, certamente, si invo­ca l'intervento dello Stato ma per ragioni squisita­mente pragmatiche (bloc­care la disoccupazione, tamponare gli effetti so­ciali perversi della crisi). Nelle ricche società euro­pee di oggi a nessuno, o quasi, importa più nulla di quella «società degli uguali» che i partiti socia­listi offrivano come meta degna di essere persegui­ta in tempi di assai più ri­gide disuguaglianze di classe. E le destre sono og­gi sufficientemente prag­matiche e spregiudicate per gestire l'intervento dello Stato senza bisogno di caricarlo di ingombran­ti significati ideologici.
Le risposte generali, pe­rò, corrono sempre il ri­schio di essere generiche. Bisogna per forza guarda­re anche alle specificità dei casi. Ad esempio, i la­buristi britannici (con la rivoluzione di Blair) e i so­cialisti spagnoli si erano già liberati dei miti e delle ideologie otto-novecente­sche. Oggi pagano soprat­tutto il fatto di avere go­vernato a lungo nella fase che ha preceduto lo scop­pio della crisi.
Neppure per capire i guai della sinistra italia­na, del Partito democrati­co, bastano le risposte ge­nerali. Anche qui bisogna tener conto delle specifici­tà. La principale delle qua­li è che la sinistra italiana paga il conto, oltre che delle difficoltà che l'acco­munano ai partiti sociali­sti europei, anche di un ventennio di rimozioni e trasformismi. La verità è che se Berlusconi non fos­se esistito, se non fosse entrato in politica nel 1994, la sinistra italiana se lo sarebbe dovuto inventa­re. Da quindici anni Berlu­sconi, con la sua presen­za, aiuta la sinistra a non fare i conti con se stessa, con il vuoto in cui è preci­pitata dopo il crollo del muro di Berlino.
In tutto questo tempo, Ber­lusconi è servito alla sinistra italiana per non guardarsi allo specchio. Se lo avesse fatto avrebbe scoperto che lo spec­chio non è in grado di riflette­re alcuna immagine.
Checché se ne dica, un ten­tativo, uno solo, di costruire una nuova identità c'è stato. Lo ha fatto Walter Veltroni. Il suo discorso del Lingotto era più o meno questo. Ma ci so­no limiti a ciò che un leader può fare. Nel caso specifico, c'erano anche i limiti del lea­der.
Incapacità di fare i conti col passato, rimozioni e trasformi­smi. Di che altro sarebbero il sintomo, ad esempio, gli ino­pinati omaggi che gli uni o gli altri continuano di tanto in tanto a tributare a Enrico Ber­linguer, ossia all'ultimo dei grandi capi del comunismo italiano? Come si è chiesto Giovanni Belardelli sul «Cor­riere » di ieri, a chi e a che ser­ve Berlinguer nella società at­tuale?
O, ancora, era davvero pen­sabile che la sinistra (da Mani Pulite fino alla recente allean­za con Di Pietro) potesse tro­vare una identità politica di ri­cambio facendosi megafono dell'Associazione Nazionale Magistrati? O che potesse di­ventare competitiva con la de­stra, soprattutto al Nord, sen­za contrastare apertamente le correnti sindacali più conser­vatrici in materia di legislazio­ne del lavoro, di scuola o di pubblica amministrazione?
O che potesse acquisire cre­dibilità a fronte del più esplo­sivo fenomeno del nostro tem­po, l'immigrazione, innalzan­do solo il vessillo della «solida­rietà »? Non è un caso che an­che molti dei cosiddetti «gio­vani », più o meno emergenti, del Pd, per lo meno a una pri­ma occhiata, sembrino vecchi quanto i loro nonni.
La migliore osservazione sul Partito democratico l'ha fatta Claudio Velardi, ex colla­boratore di Massimo D'Ale­ma: al Pd, dice Velardi, serve un «pazzo», nell'accezione po­sitiva del termine, uno che si prenda il partito sparando sul quartier generale. Un leader che unisca estro, solidità cul­turale e credibilità. E la capar­bietà necessaria per dedicarsi a un lungo lavoro di ricostru­zione culturale e politica. Sen­za farsi condizionare troppo dai vecchi oligarchi del parti­to o da centri di potere ester­ni.

Corriere della Sera 30.6.09
Formica L’ex ministro socialista e il Cavaliere: tutto è cominciato con il Sessantotto
«Rotte tutte le dighe, ci sono tendenze anarcoidi»
di Gianna Fregonara


ROMA — Non è soltanto una questione politica, non è un proble­ma di Prima e Seconda Repubblica, «perché prendendola così si fini­rebbe per trasformare tutto in un refrain della nostalgia» in cui ci si cimenta «senza costrutto perché non serve tenere gli occhi nel vec­chio mondo mentre i piedi della so­cietà sono in un mondo nuovo».
E’ un giudizio duro quello di Ri­no Formica, potente ministro delle Finanze socialista nonché autore della famosissima definizione del­l’Assemblea nazionale del Psi del 1991, «la corte di nani e ballerine», di cui chiese l’abolizione: «L’indagi­ne di Bari — dice — ci costringe ad aprire gli occhi e a osservare la so­cietà italiana».
Impegnativo. Ci vuol provare?
«Dobbiamo cominciare doman­dandoci che cosa è cambiato negli ultimi anni. Dove sta andando la società italiana, come si è evoluta e quanto sono aumentate le tenden­ze anarcoidi».
La risposta?
«Si sono rotte del tutto le dighe delle convenzioni sociali. E’ succes­so nei campi più vari della socie­tà ».
E quando è successo, negli An­ni Ottanta?
«Noo, negli Anni Ottanta c’è sta­ta un’accelerazione, non una cesu­ra del percorso. La rottura delle gabbie è iniziata vent’anni prima con i movimenti di liberazione, le proteste studentesche».
Non vorrà dire che quello che succede oggi con Berlusconi è fi­glio del Sessantotto?
«La società dal Sessantotto co­mincia a lacerare i propri vestiti, che sono le regole che reggono una comunità e che vengono ri­spettate a accettate. Alla fine del processo, la società è nuda».
E la moralità è cambiata.
«Non solo. Sa forse un tempo si era più attenti. Nel senso che si fa­ceva come raccomandavano i gesu­iti: se dovete peccare, fatelo con cautela».
E la politica che cosa c’entra?
«La politica, così come la cultu­ra, ha una responsabilità chiara. Una colpa, direi. Si è fatta trovare arretrata, impreparata. Pensava ad altro e non ha confezionato per tempo dei nuovi vestiti, delle nuo­ve regole, una nuova convenzione con cui rivestire il corpo sociale. Anzi, da vent’anni va di moda un certo dannunzianesimo politico. Tutti a stracciare gli abiti e nessu­no a pensare a ricoprire le nudità. Ma una società nuda, senza regole non esiste».
Sarà anche un problema com­plessivo e collettivo...
«Finirà per essere anche un pro­blema istituzionale, perché non si possono distinguere il cervello, il cuore della società e il sangue, che circola e intossicherà tutto».
Un po’ criptico.
«Sto pensando a quello che ha detto Napolitano e cioè che la de­mocrazia è forte e la politica è de­bole. La democrazia è il cuore e la politica è il sangue».
Ma in questo caso il problema politico è che, con le feste e le ra­gazze, morale e moralismi a par­te, il premier può risultare aperta­mente ricattabile.
«Ma sono tutti ricattabili. Per­ché un dirigente che andasse ai fe­stini non lo sarebbe, o un ammini­­stratore delegato di una banca sa­rebbe immune? Se si facesse la mappa dei salotti d’Italia, si scopri­rebbe che nella maggior parte si usa droga con scioltezza. Ma que­sta ricerca non la fa nessuno».
Uno scandalo come quello di Bari può portare alle dimissioni del premier o, secondo lei, non succederà nulla?
«Io sarei cauto, bisognerebbe ca­pire alcune cose. Per esempio se davvero dietro c’è un gioco politi­co, come dicono alcuni, o invece se si tratta di una questione imprendi­toriale, se non c’entra Mediaset».
Berlusconi è una vittima allo­ra?
«Ci mancherebbe, lui ha assecon­dato questa mutazione sociale, an­zi ne ha fatto la sua forza contrap­ponendosi alle vecchie convenzio­ni. Ha delle responsabilità molto chiare. Credeva che per cambiare mestiere e fare il politico bastasse cambiare l’oggetto sociale alla sua azienda, smettere di vendere denti­frici e cominciare con le lavatrici».
Però ha avuto un bel successo.
«Ha avuto successo perché il si­stema era distrutto. Poi i anche me­dia ci hanno messo del loro. E così oggi leggo che il ministro Tremon­ti può dire che il Cavaliere è diven­tato insostituibile».
Forse lo fa, tatticamente, per al­lontanare da se le voci sulle sue presunte velleità di sostituirlo in questo momento di crisi.
« Ci sarà anche questo elemento interno al governo e alla maggio­ranza, ma è un Paese serio quello in cui un personaggio così sgrade­vole - non dico il male assoluto, so­lo sgradevole - come Berlusconi è considerato in-so-sti-tu-i-bi-le?E’ gravissimo, in democrazia nessu­no è insostituibile».

Repubblica 30.6.09
Le critiche dell’Independent: farebbe imbarazzare gli imperatori. Le Figaro denuncia: "Un´ombra sul G8"
"Popolarità in calo, dubbi sulla sua capacità di reggere"
di Enrico Franceschini


LONDRA - Un giornale lo paragona a «un imperatore romano, che si lancia in iniziative lontano da casa propria per distogliere l´attenzione dai suoi problemi domestici». Un altro ipotizza che i magistrati baresi lo «chiamino a testimoniare» alla vigilia del summit del G8. Un terzo riporta che la sua popolarità è scesa rapidamente «sotto il 50 per cento». Sono alcuni degli articoli sul caso Berlusconi apparsi ieri sulla stampa straniera, che in prossimità del summit del G8 lo mettono sotto una lente d´ingrandimento, chiedendosi se la vicenda peserà sui risultati del vertice. E´ l´Independent a fare un paragone tra Berlusconi e gli imperatori di Roma antica: «Confrontato da una serie di scandali interni che farebbero imbarazzare l´imperatore Tiberio, il primo ministro italiano sale sul palcoscenico mondiale», ieri annunciando il programma del G8, poi partendo per la Libia dove incontrerà Gheddafi, quindi la settimana prossima ospitando Obama e gli altri leader del G8 all´Aquila. «Voci in patria e all´estero si chiedono se i problemi domestici diminuiranno la sua capacità di affrontare importanti questioni globali» al summit, scrive il quotidiano londinese. Preoccupazione condivisa dal francese Figaro, che titola: «Gli scandali di Berlusconi gettano un´ombra sul G8».
Il Times riporta che il premier potrebbe essere chiamato a deporre, come testimone, nell´indagine su Giampaolo Tarantini, l´uomo d´affari pugliese che portava modelle ed escort alle sue feste in Sardegna e a Roma, inquisito per «incitamento alla prostituzione», riferendo che, secondo la polizia, l´estate scorsa intorno a Ferragosto Berlusconi e Tarantini si parlavano «20 volte al giorno». Il giornale scrive che gli inquirenti pugliesi stanno esaminando dichiarazioni rese alla polizia di Olbia da due donne che dissero di «essersi sentite male», apparentemente per abuso di droghe, dopo un party nella villa di Tarantini. E l´inchiesta, aggiunge il Times, si sta allargando al possibile reclutamento di «donne straniere». Dello scandalo scrivono anche il giornale inglese The Age, la rivista francese Elle e il quotidiano americano Wall Street Journal.

Repubblica 30.6.09
L’italia, il potere e il silenzio delle donne
di Nadia Urbinati


Non è facile essere donne in questo tempo di stravolgimento dei valori e dei costumi, di smarrimento del senso comune. Non è facile trascendere ciò che ci sta intorno e ci offende: vicende di giovani donne che si lasciano abbagliare da vecchi e meno vecchi uomini potenti; che accettano di farsi rimpicciolire fingendosi "bimbe" di un "papi". Non c´è glamour in questa società dei diminutivi. Le ragazze che sono vel-ine, meteor-ine e ricevono farfall-ine e targarugh-ine: un linguaggio che le rimpicciolisce trasformando il serraglio in un parco ludico infantile. Nelle Lettere persiane di Montesquieu si trovano immagini rassomiglianti, rappresentazioni attualissime della vita servile di corte, più sordida perfino di quella dell´harem dove, se non altro, a fare da intermediari tra le donne e il sultano c´erano eunuchi. È questo l´esito delle fatiche che donne e uomini di più generazioni hanno sopportato per poter vivere come eguali nella vita pubblica e in quella privata?
Mary Wollstonecraft, la coraggiosa e giovane iniziatrice del femminismo moderno, aveva parole durissime contro una società che preparava le ragazze ad un futuro che era perfettamente funzionale alla società patriarcale: educate a essere cocotte appetibili mentre erano giovani per poi finire a procreare figli e servire mariti. Pensava, lei illuminista, che tutto cominciasse con l´educazione, che la ragione dell´assoggettamento delle donne fosse da cercare nell´ignoranza e nell´esclusione dalla vita della città. In una società dove tutto il vivere civile era strutturato e pensato come una succursale allargata della casa, quello che appariva agli occhi delle sue coetanee come un´occasione da sfruttare non era che una dorata prigione. Mary era durissima e severa con le donne del suo tempo perché remissive e docili; concentrate a sviluppare quelle competenze salottiere che potevano, questa la loro speranza, spianare la strada verso un buon matrimonio; per questo, si facevano complici del serraglio nel quale vivevano, «oggetto di attenzioni triviali da parte di uomini che considerano tali attenzioni un tributo virile da pagare al gentil sesso, quando in realtà essi lo insultano affermando la propria superiorità».
La bella Mary si rivoltò contro quel mondo goldoniano di serve furbette e padroni protervi e rivendicò l´inclusione delle donne nelle scuole e nella vita pubblica; donne protagoniste senza intermediari ma per loro capacità e con i loro sforzi, non attive da dietro le quinte. Il pubblico invece che l´esilio forzato nel privato; la sfera della politica per via di consenso aperto tra cittadini eguali invece che per via di intrigo di cortigiani; l´arma dei diritti invece e contro quella della forza: questa è stata dal Settecento la strada percorsa da chi ha difeso la dignità di uomini e donne; anche degli uomini, perché la condizione della donna è sicuramente lo specchio nella quale si riflette lo stato di tutta la società.
Da qui le donne sono partite nei decenni a noi più vicini per rivendicare un´altra fetta di diritto e di potere, quella che avrebbe dovuto sollevare finalmente il velo del privato per mostrare le nicchie di violenza e sopruso che ancora resistevano, non viste, non dette, non considerate: la violenza domestica in primo luogo, ma anche l´abitudine inveterata a leggere come naturalità ciò che invece era ed è sempre stato frutto di cultura e società, dominio e dipendenza. La stagione dei diritti ha rovesciato un modo di leggere i rapporti umani e tra i generi, nel privato e nel pubblico; ha svelato e decostruito l´interpretazione consolidata di ciò che è sociale e di ciò che è naturale, ridefinendo il genere e il ruolo dei e tra i sessi. Questa è stata la grande lezione delle battaglie per i diritti civili combattute dietro lo slogan "il privato è politico", "il privato è pubblico".
Decine di anni dopo quelle battaglie per i diritti, le società moderne, quella italiana in maniera abnorme, si trovano nella condizione paradossale di veder rovesciata quella logica, per cui tutto il pubblico è ora privato e il privato ha occupato il pubblico con le conseguenze aberranti per cui da un lato vi è una legge che mette la privacy sull´altare della religione secolare e dall´altro vi è una vita politica che è il palcoscenico sul quale si recita soltanto una parte, quella privata. E se questa parte si mescola (come può essere diversamente?) con questioni politiche o di Stato e i cittadini vogliono sapere e i giornali cercano di svelare, allora si evoca la sacralità della privacy, sulla quale si pretende di inchiodare l´informazione, facendola passare come un´intrusione invece che come un bene pubblico. Il paradosso è che chi per primo ha cancellato ogni distinzione tra pubblico e privato si fa ora rivendicatore di quella separazione. È evidente il giuoco delle parti che si cela dietro questa che è come la magia della stanza degli specchi: confondere tutti i piani per potere usare a piacere l´uno e l´altro a seconda dell´interesse. Allora, le ragioni di Stato sono l´arma per nascondere questioni che con lo Stato nulla hanno a che fare; e le ragioni del privato servono a nascondere ciò che è di interesse pubblico e di cui i cittadini hanno diritto di sapere.
In giuoco, è stata l´unanime e giusta diagnosi, c´è la legittimità e la credibilità delle nostre istituzioni, non solo di fronte a noi cittadini italiani, ma anche presso i paesi stranieri. L´Italia è una miniatura di se stessa, lo specchio di quel linguaggio di diminutivi che le giovani ragazze si lasciano appioppare con sorprendente indifferenza da profittatori di ogni età. La loro presenza sulla scena sociale è tutta privatissima, proprio come vogliono che sia da tempi immemorabili gli uomini "a mal più ch´a ben usi". Le donne sono sempre lo specchio della società, il segno più eloquente della condizione nella quale versa il loro paese: quando muoiono per le violenze perpetrate da un potere tirannico o quando viaggiano con voli prepagati per ritirare un cotillon a forma di farfalla. Nelle loro storie è riflessa la storia tragica o patetica delle loro case e delle loro città. E come nel caso delle donne vittima di violenza del tiranno, anche nell´altro è urgente che si levino voci di critica, di sconcerto, di denuncia; voci di donne. Questo silenzio ammorba l´aria.

Corriere della Sera 30.6.09
Le «lezioni» di Argan, quando la critica diventa militanza
di Carlo Bertelli


Caratteri I suoi riferimenti sono privi di pedanteria; la sua intelligenza inventiva si coniuga sempre alla grande capacità decisionale

Ad almeno due generazioni d’italiani il manuale per i li­cei di Giulio Carlo Argan ha spalancato la porta della storia del­l’arte. Le grandi istituzioni per la conservazione e lo studio del patri­monio artistico italiano, in partico­lare l’Istituto Centrale del Restauro, sono sorte esattamente come lui le aveva disegnate. Una rara destrezza nel nuotare in acque tempestose consentì ad Argan di agire in pro­fondità anche dentro un regime con il quale non s’identificava, ma cui riteneva di saper imporre un programma su ciò che gli premeva, un’arte svincolata dalla retorica e non asservita.
Immagino che dovunque stupis­se per la sua intelligenza inventiva. Mandato alla soprintendenza di Mo­dena, dopo che la destinazione a Tri­este era apparsa come una specie di confino, sperimenta, nel 1935, la ra­diografia su di uno dei dipinti della Galleria Estense, e la relazione che scrive, che ora leggiamo in questa raccolta di scritti meno noti compo­sta da un allievo fedele ( Promozione delle arti, critica delle forme, tutela delle opere. Scritti militanti e rari, 1930-1942, a cura di Claudio Gamba, Christian Marinotti Edizioni, pp. 287, e 26), è subito un mirabile esempio di lettura critica e di conse­guente capacità decisionale.
Argan era predisposto a fare l’edu­catore. Tutte le funzioni pubbliche, compresa quella di sindaco di Ro­ma, furono considerate da lui come occasioni per educare. Già negli scritti giovanili traspare l’intento missionario; benché, in quelli più precoci qui pubblicati, il futuro mae­stro stia ancora imparando. Egli sta uscendo dall’orizzonte filologico del­la scuola di Adolfo Venturi per trova­re la chiave filosofica del giudizio ar­tistico. Il suo primo esercizio lo con­duce a sfuggire al freddo giudizio ne­gativo del Milizia su Palladio, ricor­rendo a un poeta, a Goethe. Seguo­no i primi incontri con la scuola di Vienna. Dapprima affascinato dal si­stema formale di Wickhof e di Riegl, poi in piena consonanza con il cro­ciano Julius Schlosser.
Nei confronti dell’architettura, sia antica che contemporanea, Ar­gan applica gli schemi della pura vi­sibilità, prescindendo dalla tormen­tata realtà del fare architettura. Ma il suo costante riferimento, nel giu­dizio sui contemporanei, all’Alberti e a Filarete, è tutt’alto che pedante e non solo gli assicura il prestigio di cui ha goduto presso gli architet­ti contemporanei, ma fa di lui lo spiritus rector di quella fondamen­tale aspirazione a tenere insieme le istanze razionaliste e la tradizione, che distingue la nostra architettura funzionale dalle consorelle in Euro­pa e in America.
Il dialogo con gli architetti ha ini­zio nel ’33 su «Casabella», ma già al­lora s’imponeva sul percorso di Ar­gan la personalità d’una acuta redat­trice della rivista, Anna Maria Maz­zucchelli, la musa cui però il curato­re della raccolta non sottolinea i grandi meriti. Argan l’avrebbe sposa­ta nel 1939, quando si sarebbe trasfe­rito a Roma, nel cuore del potere mi­nisteriale, dove poco dopo avrebbe collaborato con Bottai. Una parte del volume diventa così documento di storia delle istituzioni. Infine una vera sorpresa del libro (almeno per me) sono le rapide recensioni a mo­stre di artisti contemporanei. Argan è il loro compagno di cordata, ma, a parte il commento a De Pisis, che è un gioiello di scrittura, il suo occhio è straordinariamente perspicace. Profetico quando, nel 1939, per esempio, individua le idiosincrasie di Fontana. La raccolta incomincia nel 1930 e finisce con il 1942: dodici anni di militanza in favore d’un’idea limpida della modernità.

il Riformista 30.6.09
Storia di Palma, una donna «moderna» al comando
di Costantino D'Orazio


Bucarelli. Direttrice della Gnam a soli 32 anni, in sella per 35. Le sue scelte rivoluzionarie sono entrate nel catalogo del 900. Bella, antipatica e irresistibile. Portò in Italia Picasso e Mondrian, in Europa Pollock. Con Burri finì in parlamento. Fece scandalo con le labbra di Pascali, i manifesti di Rotella e la merda di Manzoni. Divenne un punto di riferimento, avanguardia e giovani compresi.

C'è da impallidire a paragonare la squallida immagine televisiva della donna italiana di oggi con quella sublime di Palma Bucarelli, storica direttrice della Galleria Nazionale d'Arte Moderna. Negli anni Quaranta, un'epoca molto lontana dalle quote rosa e dalle donne al potere, seppe interpretare la sua responsabilità pubblica con eccezionale integrità e concretezza. «Prima donna a sfondare il cielo di cristallo del vertice nell'amministrazione statale - secondo Maria Vittoria Marini Clarelli, che oggi riveste lo stesso ruolo - consapevole dei sospetti che gravavano sulla sua rapida ascesa, fece leva sulla sua ferrea determinazione. Era bella, ma doveva sembrarlo in ogni dettaglio». Fu un funzionario pubblico di alto livello che non rinunciò alla sua femminilità.
Figlia del viceprefetto di Roma nel pieno ventennio fascista, è allieva di Giulio Carlo Argan e di Lionello Venturi, mentori di una intera generazione di storici dell'arte cresciuti nel secondo dopoguerra. La sua passione per lo sport l'aiuta a forgiare un corpo già ben preparato da madre natura: una dote che saprà unire ad una intelligenza fuori dal comune per dare forza ai suoi progetti culturali, in un mondo governato dagli uomini. Lei stessa, all'inizio della sua carriera, si meraviglia del successo riscosso nel mondo dell'arte: «Non ho capito bene - scrive al giornalista Paolo Monelli, suo compagno dell'epoca - se gli omaggi erano rivolti a me come ispettrice della Galleria nazionale che poteva adoperarsi per comprare le loro opere…o a me come donna». Al suo arrivo, il museo è un tempio dell'arte dell'Ottocento, ha una collezione non aggiornata e, soprattutto, non è testimone di alcuna "modernità". Dopo il suo incarico, mantenuto per oltre trent'anni, ne uscirà completamente trasformato, rinnovato nel suo contenuto e nella sua organizzazione.
A lei, alla sua lungimiranza e alla forza del suo carattere, la GNAM dedica in questi giorni una grande mostra presentando oltre centocinquanta capolavori che sono entrati nella collezione della galleria grazie al suo impegno e ancora oggi costituiscono il nucleo fondamentale di opere del Novecento del più prestigioso museo italiano dedicato all'arte del nostro tempo.
Entrata giovanissima in forza all'Amministrazione delle Antichità e Belle Arti del Ministero della Pubblica Istruzione, Palma ha solo trentadue anni quando assume il ruolo di direttrice. È il 1942. Poco dopo la sua nomina, le truppe tedesche entrano nella Capitale e le si presenta l'occasione per realizzare il suo primo gesto eroico, che entrerà negli annali. Lei, attenta e sagace, intuisce l'urgenza di mettere al riparo le opere della Galleria e riesce ad ottenere i permessi e i finanziamenti da un governo in guerra per nasconderle presso Palazzo Farnese a Caprarola e poi a Castel Sant'Angelo. Grazie a questa impresa si guadagna la stima di Indro Montanelli, che nel 1951 ne compone un celebre ritratto. «La leggenda vuole che Palma abbia un pessimo carattere, che qualcuno definisce addirittura infernale - scrive il giornalista - A molti sembrò una pazzia aver affidato un incarico così delicato ad una donna». Eppure in pochi giorni la Bucarelli guida personalmente una squadra di operai nella folle impresa di trasportare le opere di notte, sotto il rischio dei bombardamenti. La sua fama supera i confini del piccolo contesto artistico e si impone nel panorama italiano come modello di professionalità e impegno civile.
Nel 1944 la GNAM è il primo museo a riaprire dopo la guerra, con una audace mostra di giovani artisti. Le numerose polemiche e stroncature con la quale viene accolta fanno intuire un futuro burrascoso per l'attività della direttrice. Eppure cominciano a darle fiducia i grandi maestri già affermati, che prima avevano forse dubitato di una così giovane direttrice. Giorgio Morandi nel 1946 non le rifiuterà il dono di due dipinti bellissimi, una composizione di bottiglie e un paesaggio. Meglio non sarebbe potuta iniziare la nuova campagna del museo, per la quale la Bucarelli si impegnerà fino al 1975. Oltre tre decenni di attività indefessa durante i quali la galleria si identificherà completamente con la sua direttrice, divenendo arbitro assoluto dell'arte italiana. «Quando entrava in una stanza affollata - ricorda Angelo Bucarelli, suo nipote prediletto, oggi artista - esercitava un potere d'attrazione eccezionale. Il suo fascino era irresistibile». Lo avvertì Alberto Savinio, che ne dipinse il ritratto più bello, non seppe resistergli una intera classe politica che si dimostrò inutilmente riluttante nei confronti delle sue richieste di acquisizioni per la collezione del museo. Richieste spesso audaci, come i labbroni rossi di Pino Pascali, che spingono la tela fuori dal muro, o i manifesti strappati di Mimmo Rotella. Capolavori che facevano inorridire l'opinione pubblica del tempo, ancora legata alla pittura figurativa di de Chirico e Sironi e che a mala pena aveva iniziato ad assimilare le provocazioni dei Futuristi.
Nel 1959 l'esposizione del Grande Sacco di Alberto Burri scatena addirittura un'interrogazione parlamentare, che la Bucarelli affronta con un'abilità politica pari al suo eccezionale intuito per l'avanguardia. Formidabile tessitrice di relazioni, sa muoversi abilmente tra i meandri della burocrazia italiana per raggiungere un unico obiettivo: fare della Galleria Nazionale un museo del presente che dialoghi con i maggiori musei del mondo. Nel 1971 presenta la Merda d'Artista di Piero Manzoni, guadagnandosi la censura democristiana, si innamora dei quadri specchianti di Michelangelo Pistoletto e delle prime prove pittoriche di Jannis Kounellis, composizioni enigmatiche di lettere e numeri.
«Simpatica non era - ricorda l'artista greco - ma fu una donna d'azione. Mai prima di lei avevo visto un funzionario pubblico frequentare le inaugurazioni delle mostre dei giovani artisti. Era facile incontrarla alla Galleria La Tartaruga e ricordo bene che nel 1969 venne alla Galleria L'Attico, incuriosita dalla mia installazione con i cavalli vivi». Sorda alle critiche e ai pettegolezzi, Bucarelli riesce a creare la galleria che aveva in mente, malgrado le accuse di esterofilia, di negazione dell'Ottocento, di direzione personalistica e poca chiarezza nella gestione amministrativa. Porta per la prima volta in Europa Jackson Pollock nel 1958, dopo aver battezzato l'esordio italiano di Picasso nel 1953 (con l'appoggio del Pci) e di Mondrian nel 1956. Apre il museo all'informale di Afro, all'astrazione di Capogrossi, Sanfilippo e Accardi, alle raffinate composizioni di Gastone Novelli e ai segni misteriosi di Cy Twombly. Tutti artisti che oggi rappresentano i capisaldi della storia dell'arte italiana del secondo dopoguerra, ma all'epoca erano guardati con sospetto e diffidenza.
«Inaugurò un modello nuovo di museo - racconta Mariastella Margozzi, curatrice della mostra - e fece della GNAM un luogo stimato in tutto il mondo, un punto di riferimento per l'Europa e gli Stati Uniti». Fu lei a dare l'avvio al progetto di ampliamento della galleria alle spalle dell'edificio di Viale Belle Arti, incaricando l'architetto Luigi Cosenza della costruzione di una nuova ala da dedicare alle recenti acquisizioni. Dopo quasi cinquant'anni l'edificio è ancora in costruzione e la maggior parte delle opere riposte nei magazzini, senza una parete dove poter essere viste.
Abbandonata la direzione del museo nel 1975 per raggiunti limiti di età, la sua trentennale politica di acquisti si è fermata e il museo ha via via perso il ruolo di leadership che la Bucarelli aveva saputo costruire a livello internazionale. Solo nel 1995, è stato possibile ricominciare ad acquistare opere d'arte per recuperare un vuoto di vent'anni, grazie ad un fondo messo a disposizione all'improvviso dal Ministero per recuperare ad una infelice condanna dell'arte contemporanea dell'allora ministro Paolucci, che aveva suscitato l'alzata di scudi del mondo della cultura. Malgrado ciò, la Galleria deve ancora oggi gran parte del suo prestigio alle lungimiranti intuizioni che Palma seppe concretizzare. «La leggenda vuole che avesse alterato il proprio passaporto - conclude la Marini Clarelli - e lo lasciasse bene in vista, quando riceveva in casa, per fugare ogni dubbio: l'avanguardia doveva sembrare sempre giovane».

domenica 28 giugno 2009

l’Unità 28.6.09
Canti di rivolta repressi casa per casa dai basiji. La denuncia di Human Rights Watch
Denunce sui blog: «Ci sono nuovi scontri». Ahmadinejad minaccia l’Occidente
Teheran protesta di notte. Pugno duro delle milizie
di Umberto De Giovannangeli


La protesta viaggia anche nella notte. E nei canti che si propagano dalle case di Teheran. Brutalmente repressi dalle milizie del regime. Che si scaglia contro l’ingerenza. Mousavi: no al riconteggio, si rivoti.

La protesta è anche un canto che si propaga nella notte dai tetti di Teheran. Il coraggio della protesta è anche nel volto fiero delle madri di quanto hanno pagato con la loro vita l’aver rivendicato in piazza verità e giustizia.
La sfida continua
Come ad un ordine prestabilito, i primi cori di protesta si sono levati tutti insieme da tetti, terrazze e giardini di Teheran la sera del 13 giugno, poche ore dopo l'annuncio ufficiale della rielezione alla presidenza di Mahmud Ahmadinejad. Grida di «Allah Akbar» (Dio è grande) e di «Morte al dittatore», le stesse della rivoluzione del 1979. Da allora si ripetono ogni sera, ma notizie di interventi dei miliziani islamici Basiji per fermare la protesta sono circolate negli ultimi giorni e sono state apertamente confermate ieri dall'organizzazione umanitaria Human Rights Watch (Hrw).«I Basiji conducono brutali raid notturni nelle case per fermare i cori di protesta», ha dichiarato Sarah Leah Whitson, responsabile per il Medio Oriente dell'organizzazione, affermando che i miliziani «irrompono nelle case e terrorizzano la gente intimando di non cantare». Per adesso, comunque, «Allah Akbar» e «Morte al dittatore» continuano ad essere gridati puntualmente ogni sera da molte case di Teheran. Le prime voci si levano alle 22.00. Gradualmente se ne aggiungono altre, di uomini, donne, bambini, fino a dar vita a cori che si rispondono da un'area all'altra, per spegnersi dopo dieci o quindici minuti.
CARCERI E TORTURE
Le centinaia di persone arrestate nel corso delle manifestazioni dei giorni scorsi a Teheran, tenute in isolamento nella prigione di Evin, nella capitale iraniana, «patiscono torture e maltrattamenti» sistematici. A denunciarlo è Reporter senza Frontiere (Rsf), ricordando che sono 33 i giornalisti ancora detenuti nel carcere. «La prigione di Evin, come lo stadio di Santiago del Cile nel 1973 dopo il golpe, è diventato un sanguinoso centro di detenzione», sottolinea l'associazione: «Numerose testimonianze ci fanno temere che la tortura ed i maltrattamenti all'interno del carcere siano sistematici, in particolare nel settore 209». E mentre i blogger danno notizia di nuovi scontri di piazza, il leader dell'opposizione, Mir Hossein Mousavi , ha respinto la proposta del regime di ricontare il 10% dei voti della contestata elezione presidenziale del 12 giugno, secondo quanto dichiara un suo alleato all’agenzia Reuters.
Dalla repressione allo scontro diplomatico. Teheran reagisce duramente alla posizione assunta l’altro ieri dal G8 sulle elezioni iraniane e allontana ulteriormente qualsiasi possibilità di dialogo a breve termine con una comunità internazionale costretta ad assistere attonita - dopo i morti in piazza - a un’escalation di violenza verbale anche nelle dichiarazioni diplomatiche. Dalla capitale iraniana sono stati accusati di «interferenze» i Paesi del G8 per la dichiarazione congiunta dell’altro ieri, in cui si chiedeva lo stop immediato delle violenze e una soluzione della crisi attraverso il dialogo democratico e pacifico.
MONITO AL G8
Il portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, Hassan Qashqavi, si è «rammaricato» della posizione assunta dai ministri degli Esteri del G8 che «interferisce nelle elezioni iraniane». L’Iran ricorda al G8 che la consultazione si è svolta in «un'atmosfera di libera e corretta competizione» e che elezioni di questo tipo «non si trovano nelle società occidentali, che affermano di essere democratiche». Poche ore dopo, a rincarare la dose è lo stesso Ahmadinejad: l’Iran, tuona il presidente rieletto e contestato, «trascinerà per la collottola in giudizio» quei Paesi che hanno criticato le elezioni e la sanguinosa repressione in Iran.

l’Unità 28.6.09
Con la dittatura la repubblica islamica non andrà lontano
Che fine ha fatto la rivoluzione del ‘79? Gli avvenimenti delle ultime settimane dicono che l’esperimento può finire
di Robert Fisk


La più nauseante fotografia della tragedia iraniana non è stata quella dei dimostranti insanguinati di Teheran, bensì una foto della Reuters che ritrae l’ex principe iraniano Reza Pahlavi «che tratteneva le lacrime» a Washington mentre diceva che la giovane Neda Agha Sultan uccisa una settimana fa dagli scherani di Ahmadinejad «ora rimarrà per sempre nel mio cuore. Ho aggiunto Neda all’elenco delle mie figlie», ha detto il figlio dello spietato e brutale Scià di Persia.
Inutile dire che il figlio della Luce degli Ariani non ha aggiunto «all’elenco delle sue figlie» le migliaia di donne altrettanto giovani e innocenti torturate a morte dalla sadica polizia segreta di suo padre. No, non credo che lo Scià Reza Palhavi abbia messo questa giovane donna «nel suo cuore». Ma, d’altro canto, non lo hanno fatto nemmeno i religiosi sciiti che sostennero il colpo di Stato anglo-americano contro Mohammed Mossadeq, democraticamente eletto in Iran nel 1953. All’epoca la massima autorità religiosa di Teheran fu inviata a Qom per convincere il principale Ayatollah di quei tempi, Sayed Mohammad Hossein Boroujerdi, ad emettere una fatwa per incitare ad una guerra santa contro i comunisti del partito Tudeh alleato di Mossadeq e a schierarsi dalla parte della religione e del trono. Stando alle voci sembra sia stato un certo Ruhollah Khomeini a spingere Boroujerdi a compiere questo passo.
L’analisi del golpe fatta dalla Cia – che, ovviamente, è stato ricordato con crescente entusiasmo da Ahmadinejad e dai suoi sodali nelle ultime settimane – comprende anche un colloquio quanto mai rivelatore tra Kermit Roosevelt, capo della Cia a Teheran, e Winston Churchill, che era ormai agli ultimi mesi del suo mandato da primo ministro. «È stata una occasione estremamente commovente», diceva il rapporto della Cia riguardo all’incontro Roosevelt-Churchill.
«Il primo ministro sembrava in cattive condizioni di salute. Non ci sentiva bene; di tanto in tanto aveva qualche difficoltà ad esprimersi e sembrava non riuscisse a vedere bene con l’occhio sinistro. Ciò nonostante non riusciva a trattenere il suo entusiasmo per l’operazione. Fu talmente gentile da spingersi a dire che avrebbe voluto avere «qualche anno» di meno per poter servire agli ordini di Roosevelt. La nostra operazione ci aveva fornito una inattesa e meravigliosa opportunità che avrebbe potuto cambiare l’intero quadro del Medio Oriente». Sembrano le parole di Condoleezza Rice. Ricordate quando parlò delle «doglie» di un nuovo Medio Oriente proprio mentre i libanesi venivano massacrati dalle bombe israeliane nel 2006? Ma «l’intero quadro» di Churchill cambiò davvero – nel 1979.
Che ne è della famosa rivoluzione? Fu realmente un promettente ritorno ai valori fondamentali dell’Islam sciita, un ritorno all’età dell’oro di Ali e Hussein quando il dominio islamico non poteva coesistere con un governo laico? È questa la vulgata che circola in questi giorni a Teheran. Questa è la storia cui Khamenei sostiene di credere: che l’Ayatollah Khomeini – qualunque cosa abbia consigliato a Boroujerdi nel 1953 – riportò l’Iran alla purezza delle radici sciite dell’Islam quando non si tentava nemmeno di separare la religione dal potere secolare.
Per una straordinaria coincidenza è stato appena pubblicato un nuovo libro scritto dal professor Nader Hashemi dell’università di Denver, che rappresenta l’opera più illuminante e chiarificatrice sugli ultimi drammatici avvenimenti iraniani. Il titolo, molto accademico, non fa onore al testo: «Islam, secolarismo e democrazia liberale: verso una teoria democratica delle società musulmane». Ecco una agghiacciante citazione di Hashemi riferita a Khomeini quando l’Ayatollah era in esilio nella città irachena di Najaf nel 1970. «Questo slogan della separazione tra religione e politica e della richiesta di impedire agli studiosi islamici di intervenire negli affari politici e sociali è stato coniato e diffuso dagli imperialisti; sono solo le persone non religiose che ripetono questo ritornello. Quando mai all’epoca del Profeta religione e politica sono state separate? È mai esistito un gruppo di religiosi contrapposto ad un gruppo di politici e di leader?».
Nel 1999 l’Ayatollah Abolghassem Khazali, già membro del Consiglio dei Guardiani, tornò sul tema dicendo che «quando un giurista del valore dell’Ayatollah Mesbah Yazdi» – non a caso oggi fedele seguace di Ahmadinejad e aspirante Leader Supremo dopo Khamenei – «dice qualcosa, bisogna rispondere solamente ‘ascolto e obbedisco’. Se c’è un pericolo, viene dallo slogan della ‘società civile’ e ora la situazione è arrivata al punto che l’esistenza di Dio è argomento di dibattito nelle universita’».
Nessuna meraviglia quindi se la settimana scorsa l’università di Teheran è stata messa a sacco e devastata dalla milizia Basiji. Nessuna meraviglia se ora l’atteggiamento «secolare» di Mirhossein Mousavi è così pericoloso per il regime. Ma, come osserva Hashemi – e stanno qui le traballanti fondamenta del regime iraniano – «quasi tutti convengono sul fatto che la dottrina dell’Ayatollah Khomeini del “governo del giurista islamico” ha segnato una significativa rottura con la tradizione sciita per quanto attiene ai rapporti tra religione e politica. Molti Ayatollah di primo piano del mondo sciita erano fortemente critici nei confronti della dottrina politica di Khomeini in quanto ritenuta una innovazione e una radicale rottura con il ruolo storicamente moderato svolto dai religiosi nella società politica».
E queste sono le conseguenze. Khomeini ha inventato il cosiddetto «velayat-e faqih» (governo del Leader Supremo). La Repubblica Islamica non era mai stata concepita nella storia islamica. È un tentativo, un esperimento che potrebbe continuare o potrebbe anche interrompersi. Le ultime due settimane lasciano intendere che c’e’ molto da lavorare affinché possa sopravvivere. Nel frattempo ricordiamo quanto disse Mossadeq 46 anni fa: «Una nazione non va da nessuna parte sotto l’ombra della dittatura».
© The Independent, Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 28.6.09
Il silenzio e la tragedia
Io iraniano, tradito dalla mia Italia
di Hamid Ziarati


Quanto vale la vita di un iraniano? Decisamente meno di quella di un americano, di un italiano o di un europeo in generale. E quanto vale la vita di un’iraniana? In Iran, per la legge islamica, vale la metà di quella di un uomo. E in Italia? Per gli italiani? Quanto vale la vita di un’iraniana come Neda? Sedicenne, avvolta nella gabbia del velo obbligatorio in una galera a cielo aperto chiamata Repubblica Islamica, e tanti sogni nel cassetto. Per i Pasdaran la sua vita valeva una pallottola conficcata nel suo petto e qualche litro d’acqua per lavare dall’asfalto della strada la scia di sangue lasciata da Neda. Quanto vale la vita di Neda per l’Italia e per chi la rappresenta? A giudicare dalle parole fino ad ora pronunciate del ministro Frattini, vale quanto il suo dispiacere per la «non ancora annunciata presenza» dei rappresentati del regime iraniano al convegno sull’Afghanistan e sul Pakistan a Trieste. Quanto vale la vita di Neda che ha espiato con la vita la sua colpa di non essere nata in un Paese libero? Onorevole Frattini, per Lei quanto valeva la vita di Neda? Nulla. Apparentemente meno di niente. Solo le lacrime di chi ha avuto il coraggio di guardarla agonizzare in quei pochi infernali istanti su YouTube e null’altro. E Lei, signor ministro, quel video l’ha visto?
In questi giorni di orrore, non so perché, non riesco più ad appassionarmi alle notizie che provengono dal mio Paese adottivo: l’Italia. Seguo con trepidazione tutte le notizie provenienti dall’Iran, il mio Paese d’origine, ma non riesco più ad ascoltare un telegiornale italiano fino alla fine. Vorrei essere orgoglioso del Paese che mi ha dato asilo e mi ha adottato come un figlio, in cui ho trovato una vita ancora libera, un Paese sulla cui bandiera ho giurato nel 2000, di cui ho sposato una cittadina dopo il giuramento e alla cui crescita economica ho contribuito con il mio lavoro. Io vorrei essere fiero della mia cittadinanza italiana, vorrei essere orgoglioso del mio Paese adottivo di fronte ai miei compatrioti iraniani, un Paese che ha portato all’Onu la moratoria sulla pena di morte.
Mi sforzo tanto, lo giuro, ma mi viene difficile esserne orgoglioso in questi giorni. E diventa sempre più difficile non essere avvilito di fronte a questa diplomazia inetta che attende di stringere la mano del vincitore e spera di veder arrivare in Italia quelle degli assassini di Neda al convegno del G8 a Trieste. Questa politica bieca che antepone agli interessi economici (l’Italia è il terzo partner economico dei mullah) il destino di 70 milioni di persone.
Mi guardo intorno, e nel futuro prossimo del mio Paese adottivo non vedo altro che l’uscita imminente nelle librerie delle memorie di una escort o lo sbandierare promesse che non si avverano mai. Fatemi cambiare idea! Fatelo per Neda! Rendetemi un iraniano orgoglioso d’essere italiano!

Repubblica 28.6.09
Le motociclette di Teheran e i ragazzi di Twitter
di Vanna Vannuccini


La polizia antisommossa usa quelle rosse; i "bassiji", le milizie volontarie khomeiniste, i pesanti motorini indiani Sono il simbolo e lo strumento della repressione iraniana: armi a due ruote che piombano sulla folla disarmata lasciandosi dietro sangue e morte. Sono come i carri armati di Tienanmen, ma non danno nell´occhio
Il regime conosce i vantaggi tattici di queste unità da quando venivano lanciate contro gli iracheni nella guerra contro Saddam

Ancora una volta, all´ultimo momento, un portone si apre, una serranda si alza per offrire rifugio ai manifestanti inseguiti a tutta velocità da una falange di polizia antisommossa che travolge la gente come birilli su un tavolo da biliardo. Gruppi di cittadini stanno cercando invano di arrivare al Parlamento, dove è stata fissata per il nono giorno consecutivo una manifestazione di protesta contro la gigantesca frode elettorale che ha regalato la vittoria al presidente uscente, Ahmadinejad, e defraudato il candidato a cui tutti sanno di aver dato il proprio voto, Mir Hossein Moussavi.
Poco prima la strada era stata bloccata dai bassiji, le milizie volontarie che Khomeini creò come modello di devozione fino alla morte alla Repubblica islamica (bassiji significa appunto mobilitati) e che ora vengono usati come strumenti d´intimidazione e di repressione. Da un vicolo dietro una moschea ne erano usciti un centinaio, armati di randelli, di fruste, con i caschi e i giubbotti antiproiettile sopra gli abiti civili. I manifestanti - ormai solo giovani, ragazzi e moltissime ragazze - si erano difesi, appiccando il fuoco ai cassonetti e lanciando sassi raccolti nel cantiere di un palazzo in costruzione. I bassiji erano arretrati, tra le grida di giubilo di tutti gli abitanti della strada. Ma il giubilo era durato poco. Subito dopo era piombata sulla strada la polizia antisommossa. Il suo passaggio aveva lasciato la strada come un campo di battaglia abbandonato, dappertutto sangue, zainetti, occhiali spezzati.
Se uno le paragona ai carri armati turriti che vent´anni fa il governo di Pechino mandò contro gli studenti sulla piazza Tienanmen, le motociclette dei poliziotti antisommossa di Teheran possono sembrare un gioco da ragazzi, e comunque qualcosa di improvvisato. Non è così. Le unità in motocicletta che piombano sulla folla possono fare altrettanti morti di un carro armato, con il vantaggio che le loro immagini in tv non equivalgono come quelle dei carri armati all´ammissione della bancarotta morale e politica di un governo. Il regime teocratico conosce i vantaggi tattici delle unità in motocicletta già dal tempo in cui, estremamente mobili e veloci, venivano lanciate sugli obiettivi iracheni durante la guerra contro Saddam Hussein. Nelle parate militari a Teheran, accanto ai supertecnologici missili Shahab-3, sfilano sempre anche le motociclette. Quelle pesanti che in occidente si chiamano streetfighters, e i grossi motorini di fabbricazione indiana con un bassij alla guida mentre un altro sta in piedi sul sedile posteriore col lanciarazzi in spalla.
Per quanto tempo si potrà tenere sotto chiave una gioventù che è più di due terzi della popolazione? Mi chiede una giovane amica. Ormai perfino Twitter non funziona quasi più. La mancanza di comunicazione, insieme alla repressione selvaggia, ha finito per bloccare un movimento spontaneo, nato perché ognuno sapeva chi aveva votato e non voleva subire un affronto così umiliante. «A voi occidentali potrà sembrare un paradosso», mi diceva questa amica accompagnandomi per le strade di Teheran, «ma noi giovani abbiamo sempre creduto che il nostro voto contasse, avesse importanza». Essere nati dopo la rivoluzione significa qualcosa in Iran. Significa per esempio credere nella Repubblica. In quegli elementi repubblicani dello Stato teocratico che all´inizio erano, almeno sotto il profilo retorico, prevalenti, mentre il potere assoluto del Leader non era ancora stato precisamente definito e si confondeva con il carisma personale di Khomeini. «Ai nostri genitori molte frasi fatte sulla partecipazione dei cittadini, o sull´islam che doveva consentire un governo giusto, apparivano ipocrite, ma noi in qualche modo ci credevamo. Per questo non eravamo andati a votare negli anni passati, era un gesto per manifestare la nostra disapprovazione». L´esperienza della rivoluzione era stata paradossale soprattutto per le donne, la cui partecipazione alla vita politica veniva valorizzata mentre si imponeva loro uno status d´inferiorità.
Per anni, dopo la delusione dovuta alla mancata realizzazione delle promesse di riforma di Khatami, il presidente che avevano eletto in massa nel 1997, i giovani iraniani erano sembrati l´incarnazione dell´apatia politica. Si esercitavano nell´escapismo: la chitarra, l´arte, lo yoga, le meditazioni nel deserto, la droga. Studiavano psicologia per capire chi erano e come tutto quello che era accaduto fosse potuto accadere. Il fuori e il dentro, il pubblico e il privato erano mondi separati. Fuori l´obbedienza alla regole islamiche, il silenzio, la simulazione. Dentro la frustrazione, e per chi se lo poteva permettere uno stile di vita occidentale. Una tensione a volte insostenibile.
La speranza che la protesta pacifica nella capitale e in tutte le maggiori città iraniane avrebbe avuto qualche effetto è durata quasi una settimana. All´inizio la teocrazia era sembrata per un momento indecisa, il rinvio al Consiglio dei Guardiani del riesame delle schede aveva fatto sperare che il Leader supremo Khamenei, che si era schierato per Ahmadinejad prima ancora del risultato definitivo del voto, si sarebbe lasciato convincere dalle centinaia di migliaia di persone in piazza. Che ci sarebbero state nuove elezioni, o un ballottaggio, o almeno qualche concessione. Ma dopo la preghiera del venerdì, tutti i sogni sono svaniti. In quella preghiera il Leader ha messo tutto il suo peso accanto a quello di Ahmadinejad, contro la tradizione khomeinista che vedeva la Guida suprema al di sopra delle parti.
«Un colpo di Stato deciso perché i radicali si sentono sotto assedio, dall´interno perché conoscono lo scontento della popolazione, dall´esterno per via della mano tesa di Obama: Khamenei è sicuro che anche il più piccolo spiraglio porterebbe al crollo del sistema islamico. Come in Unione sovietica aveva portato al crollo del sistema comunista», mi aveva detto un analista iraniano, ora in carcere: «Indipendentemente da come va a finire questa resterà una data memorabile nella storia della Repubblica islamica. Una mezza democrazia e una mezza teocrazia, come era stata finora, non potrà più esserlo: o avremo una dittatura in piena regola, oppure ci saranno riforme importanti. Questo è il senso della lotta di potere di questi giorni».

Repubblica 28.6.09
Giovani vittime e carnefici divisi dai signori della morte
di Bijan Zarmandili


Sempre meno Ali, Hussein, Mohammad, Fatemè, i nomi della tradizione islamica, e sempre più Atash (Fuoco), Negah (lo sguardo), Sahar, (Alba), Shab Naz (carezza della notte) e poi, Neda (Suono), Neda appunto: «Siamo tutti Neda», si grida in questi giorni nelle piazze di Teheran. «Il mio nome è Abdollah, ma mi chiami pure Shervin», ti dice il ragazzo che per caso conosci in un taxi, oppure in una riunione di parenti che frequenti di rado. Lo vedi costantemente mettersi la mano sui capelli, resi rigidi dal gel, per assicurarsi che non cambino verso. Porta dei jeans strappati e una maglietta colorata su cui leggi «Don´t worry be happy»: per un istante ti senti disorientato e non ti rendi conto dove sei, nei pressi della Sorbona, a Islington, a via Caracciolo a Napoli, oppure a Amir Abad di Teheran? Poi, in un filmato su Youtube girato lo scorso sabato, vedi Abdollah-Shervin a terra in piazza Azadi, con la faccia dipinta di verde, e su di lui un altro giovane della sua stessa età, con i pantaloni neri, la camicia bianca abbottonata fino al collo e la barba incolta che lo sta bastonando: «Bokoshesh, kafarè», «ammazzalo, è ateo», lo incita un altro.
Sono due tipologie urbane della gioventù della Repubblica islamica: uno con sintomi più immediati della perdita d´identità, che rifiuta il proprio nome, illudendosi di vivere in un mondo immaginario, sui modelli visti nei film che compra al mercato nero; l´altro che invece si è trasformato in un automa, con il compito di ripulire il Paese in nome di un islam puro, di una rivoluzione che ha già divorato i suoi migliori uomini e ideali. E sia gli uni che gli altri rischiano di costruire una società acefala, un corpo enorme con una testa vuota.
Quei movimenti di corpi in fuga, di passi disperatamente allungati, quei volti sconvolti, occhi arrossati dai gas lacrimogeni, ragazze con l´hejab, ragazzi in t-shirt che si fanno scudo e si aiutano a vicenda a liberarsi dagli aguzzini con il manganello e la pistola, la loro mimica simile a quella di tutti gli altri giovani del mondo, sono i primi disperati tentativi di riempire quel vuoto: un vuoto che spesso viene colmato dagli strateghi della morte. Eppure i giovani iraniani trasformati in vittime e carnefici appartengono tutti a una società fortemente urbanizzata in un brevissimo lasso di tempo. La sola capitale è popolata da oltre tredici milioni di persone e rappresenta il modello sociale urbano più avanzato del Paese.
E i modelli occidentalizzati non sono una novità: già nei primi del Novecento, con lo sviluppo di una borghesia commerciale, la gioventù aveva adottato diverse forme della modernità occidentale. Ma in quella stessa fase anche i giovani delle periferie e delle prime bidonvilles cercavano i propri modelli, trovandoli in un bullismo che aveva le sue radici nelle tradizioni religiose e nel feudalesimo iranico. Un divario tra la modernità e le tradizioni che il regime teocratico e la smisurata urbanizzazione hanno esasperato, fornendo oggi una base sicura agli apparati della repressione, ai gruppi radicali: un serbatoio di risorse umane nelle immense periferie, mentre l´altra gioventù, quella della classe media e dei ceti più elevati, tra jeans strappati, gel sui capelli e ritmo di rap nella testa, si fa ammazzare pur di essere libera.

Corriere della Sera 28.6.09
Il regime tenta di estorcere confessioni, raid contro chi grida dai tetti
Ahmadinejad contro Usa e Ue: «Basta con le interferenze»
Iran, gli oppositori sotto tortura


Tutto un complotto stranie­ro, ripetono da giorni le autori­tà e i media di Stato iraniani. Le proteste contro le elezioni del 12 giugno sarebbero una «rivoluzione di velluto» («falli­ta ») appoggiata da americani ed europei (che ieri il presiden­te riconfermato Ahmadinejad ha accusato ancora di interferi­re), e dai sionisti. Un complot­to finanziato dalla Cia e ispira­to dai media stranieri. Cosa manca? Solo le prove.
Le autorità stanno torturan­do i politici riformisti arresta­ti, denuncia Amnesty interna­tional citando «fonti credibi­li », per farli confessare in tv (come i giovani manifestanti che dicono in onda: «Siamo terroristi»). Secondo diversi si­ti iraniani, lo scopo finale è di implicare Mir Hussein Mousa­vi e Mehdi Karroubi, i candida­ti riformisti sconfitti, nel pre­sunto complotto. I compagni di carcere di tre consulenti di Mousavi (ed ex ministri di Khatami) li avrebbero sentiti urlare sotto interrogatorio nel­la sezione 209 di Evin (quella dei prigionieri politici). I tre sono Mostafa Tajzadeh, Abdol­lah Ramezanzadeh e Mohsen Aminzadesh. Anche Reporters sans frontières teme che i dete­nuti siano torturati. Non pos­sono vedere i parenti, non han­no avvocati. Si trova a Evin an­che Saeed Hajjarian, ex consu­lente di Khatami, finito sulla sedia a rotelle dopo un tentati­vo di assassinarlo nel 2000. Ha bisogno di costante assistenza medica. La giornalista di Rooz Online Nooshabeh Amiri ha in­tervistato sua moglie, Vagihe Marsoosi, che lo ha visto l’al­tro ieri per pochi minuti. «Un agente filmava l’incontro — di­ce Amiri —. Lui ha pianto per tutto il tempo. Ha detto che non l’hanno picchiato. Ma la moglie, un medico, dice che era in condizioni fisiche terri­bili ».
Accusa le autorità anche Hu­man Rights Watch: «I parami­litari basiji conducono brutali raid notturni nelle case», affer­ma l’organizzazione per i dirit­ti umani, «distruggendo inte­re strade e quartieri» di Tehe­ran per fermare i canti di prote­sta intonati ogni sera alle 10, l’unico modo ormai per espri­mere la rabbia. Non più. «La scorsa notte (23 giugno, ndr) i basiji sono venuti nel quartie­re per intimidire chi gridava Allahu Akbar (Dio è grande) dai tetti — ha raccontato una donna —. Hanno preso a calci le porte, sono entrati nelle ca­se, hanno picchiato i residen­ti ». Avrebbero smontato le pa­rabole che consentono di guar­dare i media stranieri. E secon­do i blogger, ieri è stata repres­sa sul nascere una protesta del­le madri delle vittime della re­pressione. Il massimo organi­smo di arbitrato, presieduto dall'ex presidente Rafsanjani, ha chiesto ai candidati sconfit­ti di «cooperare con il Consi­glio dei Guardiani» che sta ri­contando il 10% dei voti (sul web Mousavi e Karroubi rifiu­tano, vogliono nuove elezio­ni) e ai loro sostenitori di «ob­bedire alla Guida suprema». A Evin, Hajjarian piangeva. «Co­nosco mio marito — ha detto la dottoressa Marsoosi —. Piange per l’Iran».

Corriere della Sera 28.6.09
Il braccio violento degli ayatollah
Le «anime nere» del regime che dirigono la repressione
di Guido Olimpio


WASHINGTON – Sono le anime nere. Capaci di repri­mere la protesta popolare sen­za avere il minimo rimorso, prigionieri dei loro dogmi e convinti di godere di una in­vestitura divina. Agiscono nel solco tracciato chi li ha prece­duti nella storia della Repub­blica Islamica. Come Sadegh Khalkhali, lo spietato capo delle Corti islamiche, un uo­mo che non riusciva a ricorda­re quante persone avesse mandato a morire e Asedol­lah Lajevardi, il responsabile del carcere di Evin sopranno­minato «il macellaio». Morti da tempo, hanno lasciato gli arnesi del supplizio ad altri.
In cima alla piramide c’è Mesbah Yazdi, l’ayatollah ul­traconservatore che ispira e protegge, sotto il profilo dot­trinario, il capo dello stato Ah­madinejad. Lui governa a col­pi di fatwa. Con l’ultima ha au­torizzato a far fuori i riformi­sti. Discreta e influente la posi­zione del figlio di Khatami, Mojtaba. È il filtro che proteg­ge la Guida, è il guardiano che disciplina i contatti ma nutre ambizioni politiche che spera di alimentare andando a braccetto con i radicali. Ve­glia sull’ortodossia l’ayatollah Ahmad Jannati, 83 anni, capo del Consiglio dei guardiani, distintosi per aver bocciato molte candidature riformiste. Agli ideologi si aggiungono quelli che fanno il lavoro spor­co. Uomini di legge, sbirri, mi­liziani. È stato rivelato che ma­nifestanti, bloggers e dissi­denti passeranno sotto l’oc­chio severo del procuratore islamico Saed Mortazavi, il magistrato che dovrà coordi­nare i processi dove la con­danna è già stata scritta. Per­ché il giudice si è sempre mo­­strato inflessibile nel tappare la bocca a chiunque contesti. Ha fatto chiudere giornali, ha mandato in prigione giovani studenti, ha minacciato le fa­miglie degli arrestati con pres­sioni d’ogni tipo e se ne è an­che vantato. Mortazavi è stato poi coinvolto nel caso della fo­tografa irano-canadese Zahra Kazemi, morta sotto tortura nel 2003. Al procuratore piace la ribalta: si è fatto fotografa­re alle esecuzioni di opposito­ri ed è andato in tv per mo­strare il materiale sequestrato «alle spie».
Ad alimentare i processi provvederà un sofisticato ap­parato repressivo coordinato da un quadrumvirato dove brilla la stella di Alì Jafari, il re­sponsabile dei 120 mila pasda­ran. Quando Khamenei lo ha messo alla guida dei pretoria­ni gli ha affidato una missio­ne speciale: quella di contra­stare una possibile «rivoluzio­ne di velluto» in Iran. E Jafari ha ristrutturato i pasdaran in base alla «dottrina del mosai­co », decentralizzandoli in 31 dipartimenti. Inoltre ha desi­gnato le Brigate «Al Zahra» e «Ashoura» come reparti anti sommossa. Ma, risvolto più importante, ha reintegrato la milizia Basij nei pasdaran pro­prio per avere una forza d’ur­to in caso di una sfida nelle piazze. A questo fine ha nomi­nato — nel luglio 2008 — co­mandante dei Basij un ex stu­dente del seminario del­l’imam Khomeini, l’hojatole­slam Hussein Taeb. Una scelta mirata. Per gli oppositori il ge­rarca in turbante ha una soli­da base ideologica ed ha gui­dato la facoltà Cultura all’ate­neo Hussein, istituto dove si sono formati gli ufficiali pa­sdaran. Jafari e Taeb condivi­dono un obiettivo dichiarato: la «protezione dei risultati del­la rivoluzione». E per questo sono pronti a usare ogni mez­zo. Con loro collaborano le ombre della Vevak, oltre 30 mila agenti che dipendono dal ministro dell’Intelligence, Gholam Mohsen Ezhei. Espo­nente del clero, si è distinto nel denunciare il presunto ap­poggio straniero ai dimostran­ti. Accuse scontate e fasulle che però possono bastare per mandare un uomo sul patibo­lo.

Corriere della Sera 28.6.09
Strobe Talbott: «Effetto Obama sui giovani di Teheran»
di Federico Fubini


VENEZIA — La chiama «una risonanza fra l'effetto Ba­rack Obama e quello che accade nelle strade di Tehe­ran ». Poi Strobe Talbott, presidente della Brookings Insti­tutions di Washington, vice segretario di Stato con Bill Clinton e ora molto vicino a Hillary, quasi si impressio­na davanti alla sua stessa idea, o alla dimensione degli eventi. «Qualunque altra ipotesi è valida — frena — nes­suno capisce fino in fondo le dinamiche dell'Iran oggi».
Lei però sospetta che il discorso di Obama al mon­do musulmano dal Cairo dia più coraggio ai ragazzi delle piazze di Teheran?
«Penso che la voglia di Obama di tendere la sua mano, anziché mostrare un pugno chiuso, contribuisca alle con­vinzioni di larghe parti della popolazione in Iran: sono coloro che non vogliono un Paese isolato, ostile all'Occi­dente e soprattutto agli Stati Uniti».
In sintesi, c'è un effetto Obama sull'Iran.
«Certo, c'è un effetto Obama e sta giocando un ruolo nelle aspirazioni di molti iraniani, in particolare i più gio­vani, cosmopoliti e sintonizzati con il mondo esterno, quelli che usano Internet di continuo e vogliono essere parte del mondo. A loro Obama sostanzialmente sta di­cendo: vogliamo che voi siate parte del mondo».
La Casa Bianca aveva aperto in qualche modo al dia­logo con il regime.
Questa repressione la mette in imbarazzo?
«Non vedo perché do­vrebbe: Obama non ha mai sostenuto il regi­me. Piuttosto, ha mo­strato di capire che l'Iran è una società com­plessa. È un Paese più democratico di molti al­tri nel Medio Oriente, Turchia esclusa, direi il più democratico dopo — guarda un po' — Isra­ele. Ma la Casa Bianca non si è mai giocata la reputazione sulle scelte del regime: ha solo ri­cordato che siamo di fronte a un Paese in mo­vimento, ricco di grup­pi con cui dovremmo parlare se vogliono parlare con noi. I fatti lo conferma­no ».
Eppure per i repubblicani, e certi democratici, Oba­ma non sostiene abbastanza i giovani nelle piazze di Teheran.
«Sì: il presidente su questo incassa bordate sul fronte interno, ma credo abbia assolutamente ragione a mostra­re una certa cautela. Applaudire e incoraggiare i manife­stanti da Washington non li aiuterebbe affatto, al contra­rio sarebbe visto come il bacio della morte del Grande Satana. E i ragazzi che chiedono più democrazia laggiù sono i primi a non volere la benedizione americana: vo­gliono che l'America tenga la bocca chiusa».
A causa delle sanzioni, i gruppi petroliferi dell'Ue hanno rinunciato ai più recenti giacimenti in gara in Iran ma sono subentrati i cinesi. Le sanzioni servono davvero?
«Sono uno strumento decisivo per gestire la questio­ne nucleare. Assistiamo a eventi spiegabili solo con l'aspirazione dell'Iran ad avere armi atomiche in violazio­ne del Trattato di non proliferazione. In questa situazio­ne, ci occorre la carota del dialogo ma anche il bastone delle sanzioni. A maggior ragione, visto che credo l'op­zione di un attacco militare sull'Iran sia irrealistica. An­che la Russia e la Cina, che siedono in Consiglio di sicu­rezza dell'Onu, dovranno dare più sostegno a questo ap­proccio».

Repubblica 28.6.09
La scomunica del comunismo
Quando Pio XII scomunicò i comunisti
di Marco Politi


Sessant´anni fa, il primo luglio 1949, Pio XII decretava la "morte ecclesiastica" per chi aderiva al Pci o anche soltanto gli forniva appoggio politico. Un gesto che si inseriva nel clima della Guerra fredda ma che suscitò perplessità perfino dentro al Vaticano e al partito cattolico. E soprattutto una condanna che non valse a sradicare la falce e martello e che fu poi sepolta, anche se mai formalmente revocata, dalla distinzione tra errore ed errante di Giovanni XXIII

Scomunicati, privati della comunione, del matrimonio religioso, del funerale religioso: questa la sorte decretata da Pio XII per chi aderiva al Partito comunista o gli dava appoggio politico o soltanto leggeva «libri, riviste, giornali che difendono la dottrina e l´azione comunista». Persino chi diffondeva un volantino incappava nella morte ecclesiastica.
Il decreto, emanato il primo luglio 1949 dal Sant´Uffizio, tecnicamente era una riposta a quattro quesiti. Se sia lecito aderire ai partiti comunisti o sostenerli; se sia lecito pubblicare o diffondere stampa comunista; se i cristiani che abbiano «coscientemente e deliberatamente» compiuto una di queste azioni possano essere «ammessi ai sacramenti»; se i cristiani, che professano e difendono la dottrina comunista, «materialistica e anticristiana», debbano incorrere nella scomunica quali «apostati della fede cattolica». La conclusione si espresse in tre secchi no e un sì categorico: scomunica totale per i cristiani fautori del Partito comunista, salvo l´abiura e il ritorno all´ovile dei politicamente pentiti.
Così Pio XII, che non aveva mai scomunicato il nazismo e che da Segretario di Stato vaticano aveva spinto i vescovi tedeschi a non ostacolare l´adesione dei cattolici al Partito nazista pur di stringere il concordato con il Reich hitleriano, impugnò l´arma della scomunica contro i comunisti. Fu un gesto segnatamente marcato da preoccupazioni politiche italiane, anche se a valenza generale. Pio XI aveva già condannato nove volte il marxismo. La decisione di Pio XII si inserisce nel clima della Guerra fredda e della cortina di ferro appena instaurata. A Praga il colpo di stato aveva sepolto la democrazia in Cecoslovacchia, il sistema stalinista si impadroniva dell´Europa orientale, l´Italia aveva aderito al Patto atlantico.
Fu un «colpo duro» per i comunisti italiani, ricorda Pietro Ingrao, allora neo-deputato e dirigente all´Unità, perché interveniva dopo la sconfitta del Fronte popolare alle elezioni politiche del 1948. Un colpo specialmente per la gente semplice, che aderiva al Partito comunista per motivi di riscatto politico e non per ideologia «materialista». Raniero La Valle, all´epoca studente cattolico della Fuci, non dimentica la storia di una coppia della Sabina: lui comunista, lei cattolica e incinta. La sera prima della celebrazione religiosa il parroco chiese allo sposo l´abiura. Al suo rifiuto, la chiesa il giorno dopo restò chiusa. La coppia vagò tutta la giornata per trovare un´altra chiesa finché un prete non li unì in una cappella di campagna. La donna andò poi dal vescovo per chiedere conto del fatto e alle motivazioni del prelato rispose, indicando il ventre gravido: «Questo non lo avrete».
Non tutti condivisero la scelta di Pio XII. In Vaticano, è il ricordo del cardinale Silvestrini, «il Pro-segretario di Stato Tardini era perplesso all´idea che si avessero milioni di scomunicati». E anche Andreotti, allora sottosegretario, rammenta che il premier De Gasperi «non era favorevole alla decisione, pur considerandola in linea di principio giusta: temeva le polemiche che ne sarebbero derivate alla Chiesa e gli esiti più negativi che positivi». Il defunto ex Segretario di Stato vaticano Casaroli dirà nelle sue memorie che Pio XII considerava suo «gravissimo dovere» mettere in guardia dalla minaccia comunista, ma ammette che la scomunica «di rado (produsse) conversioni», cioè ripensamenti politici negli elettori e militanti del Pci. Ingrao concorda: «Alla fine la feroce campagna ecclesiastica non incise». Il comunismo italiano non fu sradicato; il dialogo fra comunisti e cattolici andò avanti, proseguirono persino contatti segreti fra esponenti comunisti e rappresentanti del mondo ecclesiastico; Togliatti, segretario del Pci, tenne la barra sul rifiuto dell´anticlericalismo e l´attenzione al cattolicesimo. «Finì che un giorno - racconta Ingrao - una personalità come padre Balducci mi fece fare una predica dal pulpito nella sua chiesa».
Il peso politico della scomunica durò appena parte degli anni Cinquanta. Come scrive Andrea Tornielli nel suo recente libro su Paolo VI, ancora nel 1953 il sostituto Segretario di Stato vaticano Montini (futuro papa) indirizza una lettera al rettore dell´Università cattolica per deplorare qualsiasi intervento della rivista Vita e Pensiero a favore della collaborazione con i «marxisti» (in questo caso i socialisti di Nenni). Ma già emergevano le spinte alla collaborazione fra Dc e Psi, che negli anni Sessanta portarono al governo di centro-sinistra.La scomunica fu dimenticata, rimase sepolta dalla distinzione di Giovanni XXIII tra dottrine e persone, dal rifiuto del concilio Vaticano II di decretare una nuova condanna del «comunismo ateo», dall´esplosione del ‘68 che spostò a sinistra pezzi consistenti del mondo cattolico, dall´accordo di governo tra Moro e Berlinguer.
Una reliquia del passato come il Sillabo, anch´esso mai formalmente abrogato.

Repubblica 28.6.09
Quelle torce in fiamme
di Agostino Paravicini Bagliani


La scomunica pone un fedele nell´impossibilità di celebrare la comunione, ossia l´Eucarestia; comporta dunque una separazione temporanea dalla comunità ecclesiale. Il nesso tra scomunica e Eucarestia ha radici storiche antiche. Nel 1215, il concilio Lateranense IV decretò che i fedeli avevano l´obbligo di fare la comunione una volta all´anno, il giorno di Pasqua; e chi non si fosse comunicato in quel giorno si sarebbe auto-scomunicato ipso facto. La scomunica era allora già da tempo divenuta anche strumento di lotta politica. Da quasi due secoli, il papato aveva infatti dato vita a un rito di scomunica contro i "ribelli" della Chiesa che si celebrò fino a metà del Quattrocento tre volte all´anno (Giovedì Santo, Ascensione, 18 novembre), poi, per molti altri secoli, una sola volta all´anno, il Giovedì Santo (Coena Domini).
Nel suo Viaggio in Italia (1580), Montaigne descrive così il rito: il Giovedì Santo, il papa sale in Vaticano sulla Loggia delle benedizioni, assistito dai cardinali e tenendo in mano una torcia. A un suo lato, un canonico di San Pietro legge ad alta voce la bolla in latino che scomunica «una infinita serie di gente, tra gli altri gli Ugonotti (imperversava allora in Francia la "guerra di religione" tra cattolici e protestanti), e tutti i principi che occupano terre della Chiesa». La bolla viene tradotta in italiano dal cardinale che sta accanto al papa, dall´altro lato. Il papa lancia poi la torcia accesa verso il popolo e così fanno due cardinali. Il lancio delle torce provoca confusione tra il popolo che si accapiglia per ottenerne dei pezzi. La torcia è simbolo delle fiamme dell´inferno, al quale rinvia il colore nero del tessuto posto sul parapetto che viene sostituito da un tessuto di altro colore quando il papa, alla fine del rito, dà la benedizione e promulga l´indulgenza.
In quegli stessi anni, tra il 1560 e il 1580, ossia nel periodo più forte della Controriforma (concilio di Trento), due grandi pittori, Giorgio Vasari e Federico Zuccari, illustrano il rito pontificio di scomunica in due affreschi. Il primo mette in scena una delle più celebri scomuniche medievali, quella lanciata da papa Gregorio IX (1227-1241) contro l´imperatore Federico II (1227, 1239). Il secondo quella contro il re d´Inghilterra Enrico VIII (1538) da parte di papa Paolo III Farnese (1534-1549): lo Zuccari stava affrescando alcune sale pubbliche di Palazzo Farnese a Caprarola. In ambedue questi affreschi, il papa tiene in mano la torcia accesa che sta per lanciare tra la folla.
Prima che fosse costruita, nella seconda metà del Quattrocento, la Loggia delle benedizioni, il rito veniva celebrato sulla scalinata di San Pietro da una tribuna in legno. Il 15 aprile 1462, Pio II scomunicò «ed espulse dalla Chiesa di Cristo» due «fratelli tiranni, uno di Rimini, l´altro di Cesena, Sigismondo e Domenico Malatesta». L´effigie di Sigismondo fu «pubblicamente bruciata in due luoghi, davanti alla scalinata di San Pietro e nel Campo dei Fiori perché non credeva alla vita futura, e asseriva, con lingua ostinata e proterva, che l´anima perisce nel corpo».
Nei secoli precedenti, il rito si svolgeva regolarmente per lo più in Laterano, dove i papi risiedettero fino all´inizio del Trecento, dapprima da una tribuna in legno sulla piazza, poi da una loggia - quella costruita da Bonifacio VIII (1294-1303) - che serviva, ci ricorda ancora il Platina verso il 1475, a celebrare le "esecrazioni" ossia le scomuniche in contumacia dei "ribelli" della Chiesa. Lì il papa avrebbe scomunicato il re di Francia Filippo il Bello.
Il rito pontificio di scomunica accompagna dunque un periodo lunghissimo di storia politica del papato, da quel lontano Undicesimo secolo in cui il papato medievale si trasformò sotto la spinta della Riforma gregoriana e della lotta per la "libertà della Chiesa", fino al tardo Settecento. Soltanto allora, negli anni 1770, dopo un secolo di forti polemiche proprio nei confronti della legittimità della scomunica politica (Thomas Hobbes), il papato abbandonò il rito e la Loggia vaticana fu usata da allora in poi - fino ai giorni nostri - soltanto per le benedizioni papali, oltre che per l´annuncio di un nuovo papa (habemus papam…).

Repubblica 28.6.09
La disputa sull’età scientifica della Sindone
risponde Corrado Augias


Caro Augias, Repubblica del 14 giugno riportava con evidenza la scoperta, sulla Sacra Sindone, di scritte che potrebbero essere interpretate come l'atto di morte di Gesù Cristo. Si accenna al fatto che l'analisi del radiocarbonio ha dimostrato che la Sindone ha meno di otto secoli, ma si aggiunge che con la chimica non si sa mai. In un certo senso è vero: le datazioni scientifiche hanno un margine di incertezza. Nel caso specifico, possiamo dire che la Sindone è stata fabbricata in un arco di tempo che può andare dal 1262 al 1384. Ma la probabilità che abbia duemila anni è zero, come peraltro ha ammesso il cardinale Ballestrero che aveva promosso lo studio scientifico del reperto. Forse chi ha una fede cieca nei miracoli può credere che si possa avvolgere un corpo (e il relativo atto di morte) in un telo tessuto dodici secoli dopo. Ma molti altri lettori ragionano diversamente. Le scritte ritrovate non possono mettere in discussione il fatto che la Sindone è, al di là di ogni ragionevole dubbio, una creazione medievale.
Guido Barbujani Dipartimento di Biologia ed Evoluzione Università di Ferrara

Sul numero del 16 febbraio 1989, l'autorevole rivista Nature ha pubblicato un importante saggio sul tema intitolato «Radiocarbon Dating of the Shroud of Turin». Nell'ottobre 1987 l'arcivescovo di Torino, custode della Sindone, scelse tre laboratori per l'esame del lenzuolo: Arizona, Oxford, Zurigo. L'articolo descrive le precauzioni con le quali tre lembi di tessuto di 10x70 mm. e del peso di 50 mg vennero prelevati alla presenza di numerosi testimoni. Le conclusioni sono che con un'attendibilità intorno al 95% il lenzuolo può essere datato in un periodo compreso tra il 1260 e il 1390 «prova conclusiva che la Sindone di Torino è medievale». In un libro appena pubblicato («I templari e la Sindone di Cristo» il Mulino ed.) la studiosa Barbare Frale non si occupa direttamente della datazione concentrandosi piuttosto sul fatto che «questi frati guerrieri. custodirono per un certo tempo la Sindone e in essa contemplavano la prova che il Cristo era davvero passato attraverso la morte». La Frale espone però anche le ragioni per le quali l'esame al radiocarbonio potrebbe non essere definitivo: «secondo alcuni il metodo seguito non avrebbe rispettato le regole di una procedura scientifica». Inoltre i risultati potrebbero essere stati falsati dalla circostanza che la Sindone: « è un reperto archeologico che ha subìto numerosissime forme di contaminazione e sulla storia del quale c'è ancora moltissimo da scoprire». La Chiesa si mostra in ogni caso molto cauta, anche perché, scrive la Frale « Il giorno in cui dovesse dichiarare la sindone vero lenzuolo funebre di Gesù, diventerebbe molto difficile continuare a fare esami scientifici su di essa».

il Riformista 28.6.09
Una notte bianca per i Templari e la loro Sindone
di Paolo Rodari


OSTENSIONE. Torino, Primavera del 2010: il lenzuolo di lino che si dice abbia avvolto il corpo di Gesù appena morto verrà esposto in pubblico. È l'ultima fatica di un telo che ha attraversato secoli di storia coi suoi misteri in parte ancora irrisolti. Le ultime scoperte parlano dei Templari, i membri dell'ordine militare-religioso più potente del Medioevo, i quali, una volta perso il Santo Sepolcro, conservarono «l'idolo» in un posto segreto e sconosciuto ai più: li difendeva dalle eresie e dalle insidie del mondo.

Dopo quelle di Berlino (1997) e di Parigi (2002) - le prime -, ecco l'ultima, un'edizione straordinaria, talmente straordinaria che per organizzarla ci vorrà più o meno un anno: andrà in scena, infatti, nella primavera del 2010. Cosa? Una «notte bianca» particolare, in quanto sacra. Ovvero, tutta dedicata, in quel di Torino, alla Sindone, all'ostensione di quel «tessuto di lino di buona qualità» (questo tecnicamente s'intende per Sindone) conservato nel Duomo della città e sul quale è visibile l'immagine di un uomo che reca i segni di torture e maltrattamenti seguiti a una crocifissione. «È l'immagine di Cristo?», si domandano da anni storici e scienziati. Difficile rispondere. La Sindone è un mistero che, per il momento, trascende risposte certe e certificate.
Una notte bianca di ostensione della Sindone - tale la vuole la diocesi torinese - non è un'idea strampalata. La Sindone, in fondo, è come la Sacra Scrittura: va osservata, letta, guardata. E poi spetta al pubblico, alla gente, ai lettori, aprirsi a ciò che trasmette o, al contrario, chiudersi. In fondo, qui sta il segreto del successo di questo lenzuolo di lino: dice e non dice, mostra e nasconde. Per chi la guarda con l'occhio della fede svela parecchio. Per chi la guarda con occhiali diversi, probabilmente dice altro.
Già, gli occhiali. Sono tanti quelli usati per guardare e sviscerare il sacro telo. Molti di questi li hanno indossati, in tempi recenti e non, scrittori e studiosi. La maggior parte per dibattere attorno alla sua autenticità: è o non è il lenzuolo funebre di Gesù? Le bibliografie più complete mostrano oggi più di ottocento testi dedicati all'argomento. Tanti quelli dell'oggi scomparso vaticanista del Messaggero Orazio Petrosillo. Quindi, l'ultimo lavoro di un altro vaticanista e scrittore, Marco Tosatti, il quale nel recente Inchiesta sulla Sindone, spiega come l'indagine condotta con il metodo del radiocarbonio (che nel 1988 definì il lenzuolo «un falso medievale riconducibile a un'epoca compresa tra il 1260 e il 1390») sia viziata da un grave errore di calcolo matematico, riscontrato, tra gli altri, da docenti dell'Università La Sapienza di Roma.
Tesi del carbonio a parte, le interpretazioni sull'origine del lenzuolo di lino custodito a Torino sono innumerevoli. Secondo L'Ultimo Segreto di da Vinci di David Zurdo e Angel Gutierrez, la Sindone sarebbe in realtà una copia, eseguita da Leonardo da Vinci.
Secondo In Profezia, di Marco Buticchi, il lenzuolo venne utilizzato semplicemente per avvolgere l'ultimo Gran Maestro dell'Ordine dei Templari, Giacomo di Molay.
Ecco, i Templari. In La Fratellanza della Sacra Sindone di Julia Navarro, la Sindone autentica sarebbe ancora in possesso loro (dei Templari), mentre la «copia» conservata a Torino sarebbe in realtà una «copia mistica», data dal contatto della Sindone autentica con un lenzuolo simile. Questo contatto avrebbe causato il trasferimento dell'immagine da un lenzuolo all'altro e spiegherebbe perché la Sindone sarebbe in negativo.
Le tesi dei Templari, che mostrano insomma il legame del sacro ordine con il sacro lenzuolo, non sono del tutto ardite. Anzi. Anche Tosatti, nel suo lavoro, pur senza entrare nel merito dell'ipotesi che il lenzuolo sia o non sia una copia, non si esime dal sostenere che nel lasso di tempo che va dal 1204 al 1353 la Sindone possa essere stata custodita dai Templari i quali non si esposero vista la scomunica che colpiva coloro che sottraevano reliquie.
A onor del vero, il primo a mostrare il legame tra la Sindone e i Templari fu Ian Wilson. Questi, nel 1978, pubblicò La Sindone di Torino. Il lenzuolo funebre di Gesù Cristo: qui Wilson mostrò come nella storia del lenzuolo di lino vi sia un vistoso buco, uno spazio di circa mezzo secolo (dal 1204 al 1353), durante il quale quest'oggetto in un certo senso scompare dalle fonti storiche.
Di Wilson e della sua tesi, ma soprattutto della custodia del telo da parte dell'ordine religioso-militare più potente del Medioevo, ne parla Barbara Frale (ufficiale dell'Archivio Segreto vaticano), nell'appena dato alle stampe I Templari e la Sindone di Cristo. Anche per lei i Templari custodirono la Sindone. O meglio, la custodirono e venerarono per un certo lasso di tempo i maggiori dignitari dell'ordine là dove era conservato il tesoro centrale.
Per loro, per i Templari, il lenzuolo di lino oggi custodito a Torino era, senza mezzi termini, il vero sudario funebre di Gesù Cristo. E proprio per questo motivo, in un'epoca di confusione dottrinale diffusa in gran parte dalla stessa Chiesa, la Sindone rappresentava un potente antidoto contro il proliferare delle eresie. Un antidoto al quale i Templari si attaccarono convintamente.
Frale spiega che tutto ebbe inizio dopo il 1250. Perduta Gerusalemme, i Templari sentirono sempre più il bisogno di mantenere un contatto fisico, concreto, con i luoghi della vita di Cristo. Così si fecero ideare delle reliquie personali da portare addosso come difesa contro i peccati dell'anima e i rischi delle battaglie. Prima della perdita del Tempio, infatti, era loro uso portare nella basilica del Santo Sepolcro delle cordicelle, simbolo dei voti religiosi del Tempio: le poggiavano sulla pietra dove era stato deposto il cadavere di Gesù dopo la crocifissione. In questo modo, rendevano le cordicelle delle inestimabili reliquie della Passione di Cristo, reliquie da tenere sempre con sé a difesa dalle insidie. Perduto il Sepolcro a motivo della conquista di Saladino, dovettero consacrare le corde con qualcosa di diverso. E questo qualcosa di diverso era appunto la Sindone, custodita probabilmente nella città di Acri. L'«idolo», lo chiamavano le persone esterne all'ordine, perché nessuno, se non gli stessi Templari, sapeva esattamente di cosa si trattasse. Tutti sapevano che i Templari custodivano qualcosa di misterioso, ma non sapevano cosa fosse.
La Sindone, quella conservata oggi a Torino, lasciò dunque un segno indelebile nella vita dei Templari. E del resto non poteva che essere così: la caratteristica principale è che sul telo appaiono l'impronta e l'immagine di un individuo corrispondenti e praticamente fuse assieme: restituiscono la sagoma di un uomo come se vi fosse fuso dentro. È un soggetto adulto ma giovane, contratto nel tipico rigor mortis che caratterizza la muscolatura dei cadaveri nelle prime ore dopo il decesso, e porta ovunque i segni di traumi e violenze. Quest'uomo, insomma, chiunque fosse, è stato letteralmente massacrato. Sul volto ha un'impronta ematica legata al singolare fenomeno dell'ematoidrosi o «sudore di sangue»: è un processo raro che si presenta quando un soggetto subisce un fortissimo stress emotivo, in seguito al quale i vasi sanguigni della cute si dilatano e si provoca una specie di emorragia nelle ghiandole sudoriparie. Preso il cranio si trova l'impronta di tredici ferite inferte da oggetti appuntiti tutti dello stesso tipo, disposti nella parte superiore della testa a formare una specie di elmo o casco, i quali hanno provocato diversi rivoli di sangue rappreso. E così, di seguito, una scia di segni eloquenti come quella ferita da arma da punto e taglio inferta fra la quinta e la sesta costola nella metà destra del torace.
Gli indizi, dunque, sono tanti. Ma dire che quell'impronta sul lenzuolo di lino sia l'impronta del corpo defunto di Cristo è oggi ancora impossibile. Anche perché ciò che non si sa è come quella impronta si sia formata. Come non si sa come sia stato possibile che, a un certo punti, sia passata nelle mani dei Templari. Con ogni probabilità si può risalire alla data in cui i Templari non la custodirono più: lo scioglimento dell'ordine imposto per motivi politici nel 1312 e la morte sul rogo dell'ultimo Grande Maestro nel 1312 la consegnarono forzatamente ad altri custodi. Una consegna che, comunque, arrivò dopo che la stessa Sindone lasciò tracce indelebili sulla spiritualità e sulle usanze liturgiche dell'ordine religioso-militare più potente del Medioevo: i Templari.

Corriere della Sera 28.6.09
Teorie sulla «programmazione» del cervello
L’imprevedibilità della natura umana contro la psicologia evoluzionistica
di David Brooks


Non credo ci sia mai stata un’epoca percorsa da tante e così disparate teorie sulla natura umana quanto quella attuale. Gli economisti hanno la loro opinione: tutti gli esseri razionali sono calcolatori e corrono dietro agli incentivi. Dal punto di vista dei cristiani, invece, si parla di peccato originale e del cammino del credente in un mondo segnato dal male. E poi ci sono gli psicologi evoluzionistici, bravissimi ad attirare l’attenzione dei media. Per il 99% della storia umana, osservano costoro, la nostra specie è vissuta all’interno di piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori.
Coloro che sono sopravvissuti hanno sviluppato certi modelli mentali, trasmessi poi alle generazioni successive attraverso il patrimonio genetico. Alcuni di questi tratti potrebbero tornarci utili anche nell’epoca moderna: i bambini, per esempio, hanno la capacità di imparare il linguaggio a velocità sorprendente. Altre caratteristiche si sono rivelate invece nocive: gli esseri umani, purtroppo, sono ingordi di cibi grassi e dolci. Nel 2000 Geoffrey Miller, psicologo evoluzionistico, ha pubblicato un libro (The mating mind), nel quale sostiene che il processo di selezione sessuale nelle prime comunità umane abbia gettato le basi di molti comportamenti ancora oggi riscontrabili. In alcuni casi si tratta di qualità fisiche: gli uomini preferiscono le donne con un rapporto vita-fianchi di 0,7 (vale a dire una vita di 60 cm e fianchi di 90 cm). Le donne preferiscono uomini di statura più alta e di qualche anno più grandi. Altre caratteristiche sono più sottili.
Gli uomini, sostiene Miller, sono più generosi nel lasciare la mancia al ristorante, perché programmati per far sfoggio di agiatezza. L’adulto medio americano conosce circa 60.000 parole, molte di più di quelle strettamente necessarie. E se abbiamo a disposizione tante parole, è perché ci piace lasciarci lusingare e coccolare verbalmente dal nostro partner.
Di recente Miller ha pubblicato un altro libro, Spent, nel quale interpreta le nostre scelte consumistiche secondo le teorie della psicologia evoluzionistica.
La tesi fondamentale è che ciascuno di noi è nato con una dose specifica e individuale di sei grandi caratteristiche: intelligenza, apertura verso le novità, diligenza, piacevolezza, stabilità emotiva e capacità comunicativa. Tali moduli sono innati sia negli esseri umani che in altre specie animali. Siamo tutti narcisi, afferma Miller.
Passiamo gran parte della nostra vita a vantare la nostra bravura per attirare i partner. Anche nel caso in cui non siamo naturalmente intelligenti o estroversi, siamo sempre pronti ad acquistare prodotti e marche che diano l’impressione giusta.
L’autore ipotizza che l’autolesionismo delle ragazzine che si tagliuzzano il corpo sia un modo per dimostrare la loro resistenza alle infezioni. La psicologia evoluzionistica ha fatto il suo tempo e oggi è in declino. Sharon Begley la prende di mira nel Newsweek di questa settimana, con piglio deciso, anche se un po’ esagerato, ma sicuramente spassosissimo.
Spent è la prova che si è fatto ricorso a questa teoria per spiegare più di quanto sia ammissibile. Il primo problema è che, lungi dall’essere pre-programmato con una serie di modelli mentali innati, come asseriscono gli psicologi evoluzionistici, il nostro cervello è un organo eccezionalmente fluido e plastico. E l’evoluzione è un processo spesso più rapido di quanto sinora immaginato e oggi sappiamo che per produrre alterazioni genetiche non occorrono centinaia di migliaia di anni. Per di più, gli esseri umani si sono evoluti per adattarsi agli ambienti più svariati. Circostanze diverse possono coinvolgere selettivamente diversi potenziali genetici. Il comportamento individuale può variare enormemente da un contesto all’altro. Il bulletto arrogante nel campo sportivo forse è una pecorella nell’ora di matematica. Ogni essere umano sa attivare un caleidoscopio di ipotesi mentali e ricorrere alle più svariate strategie cognitive per risolvere gli stessi problemi. La psicologia evoluzionistica, invece, presuppone che la natura umana sia stata plasmata centinaia di migliaia di anni fa e poi la sua storia si sia in un certo senso arrestata. Ma la natura umana si adatta al flusso incessante di informazioni, facilitando l’interazione tra quelle più antiche, contenute nei geni, e quelle correnti, che le giungono dal mondo contemporaneo, in una fusione continua e singolarissima. Il secondo è un problema che la psicologia evoluzionistica condivide con l’economia: il suo individualismo esasperato, secondo il quale gli individui nascono con alcune caratteristiche e tendono a sfruttarle al massimo nella lotta per la sopravvivenza. Ma gli individui non vengono formati prima di accedere alla società, bensì creati proprio dall’interazione sociale. La nostra identità è forgiata dai ritmi particolari dell’attenzione materna, dal patrimonio condiviso di idee, simboli e azioni che ci compenetrano ogni istante della nostra vita. Fare shopping non è semplicemente uno strumento rivelatore dei nostri tratti innati e permanenti. Per alcuni, costituisce anche un modo per sperimentare le novità, nell’incessante processo di creazione e scoperta di sé. La psicologia evoluzionistica sbaglia nel pretendere che ogni comportamento umano corrisponda a un’unica teoria universale, inattaccabile dai condizionamenti di tempo e luogo. E senza via d’uscita.

Corriere della Sera 28.6.09
Sensi. Il volume di Waldemar Deonna
Un organo che è alla base di molte conoscenze, miti, religioni e credenze
Quel che gli occhi vedono e dicono al di là del reale
di Gillo Dorfles


Che l’occhio, di tutti gli organi del nostro corpo, sia al primo posto, è più che ov­vio: dei «cinque sensi» la vi­sta è certo la privilegiata; ma quella che è un’altra preroga­tiva di questo senso è la sua portata simbolica: non ci so­no «regni» vegetali, animali celestiali, dove un occhio — fisico, divino, ciclopico, sata­nico — non intervenga, per il bene (l’occhio di Dio) o per il male (del «malocchio» abbia­mo tutti, credo, una certa esperienza).
Non è dunque un caso che uno studioso come Walde­mar Deonna (noto archeolo­go di origine danese e profon­do conoscitore delle misterio­se analogie sensoriali) abbia dedicato un agile volume (corredato da imponenti no­te scientifiche) al problema del Simbolismo dell’occhio, a cura di Sabrina Stroppa e con una lucida introduzione di Carlo Ossola (Bollati Borin­ghieri, pp. 338, e 35). Natural­mente il volume non trascura i dati storici, fisiologici, mito­logici, eccetera — normali e patologici — riferiti all’oc­chio, ma quello che più inte­ressa è appunto la rassegna minuziosa dei diversi settori e dei diversi frangenti in cui l’occhio si è trasformato da organo fisico a squisito fatto­re metaforico.
Sarebbe impossibile non solo riassumere ma soltanto elencare gli infiniti esempi d’un simbolismo dell’occhio: certamente nessun altro orga­no corporeo ha avuto una sua controfigura metaforica tan­to per segnare un pericolo, quanto per sottolineare una protezione, tanto trasferito al mondo vegetale, quanto agli «occhi» d’una «occhieggian­te » pelliccia animale. L’oc­chio è stato non solo il trami­te di quasi ogni «conoscen­za » dell’uomo, ma è stato alla base di molte religioni, cre­denze, e leggende: così esisto­no esempi di monoftalmia simbolica; e, per contro di es­seri soprannaturali provvisti di tre, quattro, centinaia, di occhi: esseri con quattro oc­chi come il cane Argo, o vice­versa esseri monocoli come il Ciclope; mentre, come è no­to, un «terzo occhio» (identi­ficabile coll’epifisi o glandola pineale) sarebbe la possibile sede di una visione soprasen­sibile. A questo proposito, non è un caso se l’autore, ac­costandosi agli aspetti para­normali della visione, cita il famoso caso della medium Hélène Smith che, nei suoi di­pinti esoterici, partiva sem­pre da un occhio simbolico.
Se è vero che ogni metafo­ra racchiude un elemento di verità che spesso sopravanza la consueta denotazione d’un determinato termine; possia­mo senz’altro estendere an­che all’occhio — e alle meta­fore che dallo stesso proma­nano — la probabilità di que­sta affermazione; non solo nella speranza che l’«occhio di Dio» ci protegga, e che il «malocchio» del diavolo (o di chi per lui) non ci persegui­ti; ma soprattutto per render­ci conto che ogni nostro sguardo non deve soltanto os­servare quanto ci circonda, ma deve permetterci di «ve­dere » anche quello che l’oc­chio di solito non «guarda».

l’Unità 28.6.09
Parlamento in ostaggio
Quando il governo si crede onnipotente la maggioranza si inchina in silenzio
E il lavoro d’Aula diventa uno strano concetto
di Furio Colombo


Non so molto, purtroppo, dell’Osservatorio civico sul Parlamento italiano autore del rapporto «Camere aperte» e sulle organizzazioni «Openpolis», «Controllo cittadino» e «Cittadinanza attiva». Sono la fonte di innumerevoli articoli sul cattivo e scarso funzionamento dei parlamentari e del Parlamento. Se vivi e lavori in una delle due Camere della Repubblica italiana, sai che hanno ragione: «Lo spettacolo è desolante». Per citare il titolo di uno dei molti quotidiani che hanno dato diffusione all’indagine di «Openpolis»: «Solo 24 onorevoli su 900 lavorano a pieno ritmo». (Il Secolo XIX, 17 giugno 2009).
Ma un senso di desolazione anche più grande assale chi abbia familiarità col devastato lavoro parlamentare, quando ti spiegano come e in base a che cosa, le organizzazioni «di sorveglianza» che abbiamo citato hanno valutato il lavoro in aula e selezionato il miglior rendimento di Deputati e Senatori. Leggo che «sono andati a vedere quante volte ogni parlamentare è stato firmatario o co-firmatario di un atto (disegno di legge, mozione, interpellanza, interrogazione, risoluzione, ordine del giorno), quanti interventi ha fatto in assemblea o in commissione, se è stato relatore di un Ddl. Ad ogni iniziativa corrisponde un punteggio da 1 a 10. «L’indice di attività medio di un parlamentare è 2.34». Inevitabile la domanda: come è possibile immaginare un «parlamentare medio», quando il comportamento in aula è per forza molto diverso a seconda che il parlamentare appartenga alla maggioranza di governo o a uno dei tre schieramenti di opposizione (Pd, Idv, Udc)?
Comunque la diversità di comportamento è facile da immaginare. Chi sostiene il governo non propone, non interviene, non disturba il voto al decreto o proposta di legge del governo. Teme il rallentamento. Il governo, si sa, vuole tempi stretti di cui vantarsi. La sua maggioranza cerca di garantire con il silenzio quei tempi stretti.
Teoricamente il compito dei deputati di opposizione è di interferire per impedire o almeno per ritoccare un decreto o una proposta di legge. Ma è il gruppo di cui fai parte alla Camera o al Senato che ti chiede di intervenire, lo chiede a tutti, lo chiede a pochi, lo chiede a nessuno. La quantità di interventi in aula raramente è improvvisata o spontanea. Ciascun gruppo parlamentare ha autorità e potere per provocare o proibire (o almeno scoraggiare) tali interventi. In un passaggio del rapporto, passaggio che è stato citato solo da Dagospia, chi scrive è stato giudicato «il deputato più ribelle». Il giudizio si riferisce, probabilmente, ai voti contro il trattato militare Italia-Libia e contro la legge leghista sul federalismo fiscale.
«Ribelle» vale o non vale come titolo di buon lavoro parlamentare? Posso dire che non sono stati assegnati punti. Ma la questione che serve di più a capire lo stato delle cose nel Parlamento italiano, è la visione distorta di chi crede di poter giudicare da alcune formalità la vita politica di un Paese in condizioni di emergenza. Tutto ciò si vede bene nel punto in cui leggiamo che «in un anno, su 4016 disegni di legge presentati solo 653 sono stati presi in considerazione mentre quelli diventati legge sono la miseria di 68. Su 68 leggi approvate, 61 erano proposte del governo, segno che l’aula ha oggi più che mai un ruolo quasi notarile». L’affermazione merita un commento.
Primo: 68 leggi, se rispondessero a un disegno di costruzione sensata della vita giuridica di un Paese, non sono poche. Se mai sono tante, sono troppe. Posso far sapere ai lettori che, nello stesso periodo, Camera e Senato americani hanno superato di poco la metà del pacchetto di leggi italiane che ai nostri osservatori sembra misero. Secondo: nel Parlamento italiano, Deputati e Senatori non decidono che cosa discutere, non hanno alcun ruolo in proposito. Lo decidono i capigruppo, che ricevono l’ordine dai capi partito. In aula non sale la proposta del parlamentare ma discendono decisioni politiche prese più in alto e altrove. Terzo: per forza quasi tutte le leggi approvate sono di governo. Quando il governo si crede onnipotente, come in questa triste stagione della politica italiana, lo stato di dominio si accentua perché la vasta maggioranza di cui gode si inchina in silenzio. Quarto: mai dimenticare la legge elettorale con cui sono stati votati gli attuali Deputati e Senatori. Si tratta di «nominati» in liste blindate di partito. È naturale la domanda: perché non si ribellano? La risposta è semplice, triste e già inclusa in quanto ho cercato di spiegare: questo Parlamento è ostaggio di un governo che si piega malvolentieri a ciò che resta della democrazia

Repubblica 28.6.09
"Independent" e "Times" dedicano due pagine ciascuno al caso. E indicano Draghi come successore
"Ultimi giorni alla corte di Re Silvio" la stampa inglese parla di dimissioni
di Enrico Franceschini


londra - «Gli ultimi giorni della corte di re Silvio» s´intitola un paginone dell´Independent di ieri. E il Times, con altre due pagine, ipotizza che le pressioni per costringere Berlusconi a dimettersi continueranno «fino all´autunno», indicando il governatore di Bankitalia Mario Draghi, come possibile premier ad interim. Il caso rimane al centro dell´attenzione dei media e dell´opinione pubblica mondiale, in particolare in Gran Bretagna, dove la stampa appare colpita da una vicenda a base di "sesso, bugie e videotape", parafrasando un noto film.
«Berlusconi sembrava immune dagli scandali, ma le sensazionali notizie di caroselli sessuali a base di feste, modelle e denaro stanno facendo sentire il loro peso sul primo ministro», scrive l´ex corrispondente da Roma dell´Independent, Peter Popham. L´attenzione è puntata anche sulle crescenti critiche della Chiesa cattolica, «che sta cominciando quietamente a tenere Berlusconi a distanza». L´articolo sottolinea che perfino uno dei suoi più fidati consiglieri del premier, Giuliano Ferrara, direttore del Foglio, ha tracciato «un´analogia tra l´attuale situazione di Berlusconi e quella di Mussolini il 24 luglio 1943», il giorno prima che il duce fu destituito dal re. «La defezione di Ferrara», scrive Popham, «fa parte degli effetti collaterali del divorzio chiesto da Veronica Lario», poiché Il Foglio è parzialmente di proprietà della moglie del premier.
Il Times pubblica un´intervista a Barbara Montereale. Quando a gennaio fu invitata in Sardegna nella villa del premier, dice la giovane, «c´erano un sacco di ragazze che non si conoscevano tra loro», in un´atmosfera «quasi competitiva». Per la sua presenza conferma di aver ricevuto 11 mila euro: mille dall´uomo d´affari Giampaolo Tarantini, che l´accompagnava, e 10 mila da Berlusconi, come «regalo». Un secondo articolo nota che la squadra del premier si sente «in stato d´assedio», con l´economia che continua a declinare, e Draghi («indicato da alcuni come possibile premier a interim» se Berlusconi dovesse dimettersi) che accusa il governo di «non avere una credibile via d´uscita» dalla recessione. Il Times rileva che Berlusconi affida sempre più spesso il compito di apparire in pubblico a Gianni Letta, dando la colpa all´artrite che lo affligge. L´articolo ipotizza anche che la salute «potrebbe essere una scusa» per rassegnare le dimissioni.

Corriere della Sera 28.6.09
Il congresso L’ex vicepremier propone un confronto sulla laicità. Sì di Pannella
Rutelli ai radicali: voi arricchite i democratici


CHIANCIANO — Francesco Rutelli tende la mano ai radica­li. Considera la loro assenza dal Parlamento «una povertà so­verchiante nel confronto sulle scelte fondamentali». Vuole che siano interlocutori privile­giati del Pd quando si discute di problemi etici e diritti civili. Perché gli riconosce una ric­chezza intellettuale di cui il cen­trosinistra dovrebbe avvalersi. Queste cose Rutelli non è venu­to a dirle di persona all'assem­blea di Chianciano. Le ha comu­nicate attraverso una lettera in­dirizzata a Marco Pannella e ad Emma Bonino. Non dimentico del fatto che all'inizio la fonte da cui trasse la sua forza politi­ca fu proprio il partito radicale, Rutelli descrive i radicali come una delle «rare comunità» con cui è possibile un dialogo.
E allora ecco la scelta oppor­tuna di aprire con loro un con­fronto «sulle condizioni dell' umanesimo laico». Rutelli, che è stato spesso accusato di una eccessiva vicinanza alle tesi del­la Chiesa sui temi etici, solleci­ta un confronto coi radicali pro­prio su argomenti che toccano la coscienza. E ritiene che «in uno Stato laico» questi proble­mi non debbano essere stru­mentalizzati «in senso politi­cante né confessionale».
Pannella, naturalmente, con­corda in pieno. Sulle questioni etiche, secondo lui, la maggio­ranza degli italiani manifesta «nei comportamenti» di essere in assoluta sintonia coi radica­li. Il vecchio leader vorrebbe che il Pd se ne rendesse conto. Questi tre giorni di assemblea a Chianciano sono in fondo una riflessione su quale dev'es­sere il rapporto col Pd. Un rap­porto difficile, se non addirittu­ra impossibile, a giudizio della Bonino, considerando l'atteg­giamento di chiusura di France­schini e compagni. E dunque quale futuro per i radicali? La speranza è di coagulare quei gruppi privi di rappresentanza parlamentare, liberali, sociali­sti, laici. Possibilmente in vista di una formazione unica. L'in­certezza è sui tempi. Il sociali­sta Riccardo Nencini preme per «organizzarsi subito», men­tre il Pd è alle prese col congres­so. Ma un altro socialista, Save­rio Zavettieri, più realista, spo­sta la possibilità di un'azione comune alle prossime elezioni.

il Riformista 28.6.09
Io, elettore Pd convinto da Franceschini all'astensione
È meglio che il Pd muoia
di Giampaolo Pansa


Diciamoci la verità: il Partito Democratico è un giovin signore che sta morendo. Vale la pena di tenerlo in vita? Per poi vederlo di nuovo in agonia poco tempo dopo? So di dare un dolore a molti che hanno creduto in questo esperimento. Ma l'esperimento è fallito. Meglio prenderne atto e finirla qui. Cercando di immaginare un'altra strada per i riformisti italiani.
Tra quelli che hanno creduto nel Pd c'è anche il sottoscritto. Avevo poca fiducia nel suo leader, Walter Veltroni. Mi sembrava un peso piuma a confronto di un Berlusconi peso massimo. Per di più, aveva alle spalle una serie di sconfitte. Tanto che scrissi un Bestiario intitolato: "La favola del Perdente di successo". Confesso che, lì per lì, mi sembrò un pezzo carogna. Poi mi dissi: per chi scrive sui giornali la cattiveria non è mai troppa.
Alle elezioni politiche dell'aprile 2008 ho votato Pd, pur intuendo che sarebbe stato battuto dall'armata del Cavaliere. A sconfitta avvenuta, ho pensato: pazienza, il Pd andrà avanti lo stesso, il ragazzo si farà le ossa e resterà in campo. Diamogli fiducia. Un partito nuovo non s'improvvisa in qualche mese.
Invece è accaduto il disastro. Nuove sconfitte elettorali in Abruzzo e in Sardegna. Le dimissioni di Walter. L'ingresso in scena del vice, Dario Franceschini. Una scelta presentata come obbligatoria, ma disastrosa. Il suo primo discorso mi è bastato. E senza essere un mago, ho compreso che la baracca non avrebbe retto. Non è una colpa essere sciocchi. Ma se uno sciocco prende la guida di un partito, soltanto il Padreterno può salvare lui, i suoi iscritti, i suoi elettori.
La campagna elettorale per le europee e le amministrative ha ribadito le previsioni più cupe. Una catastrofe politica e d'immagine. Inutile rievocarla, perché è robaccia dell'altro ieri. Al momento del voto, ho deciso di astenermi. Come altri elettori del Pd, non mi sono presentato al seggio. Era la prima volta che lo facevo in tanti anni. Ma non ho esitato a farlo.
Tuttavia, all'orizzonte intravedevo uno spiraglio di luce. Franceschini aveva giurato che in autunno avrebbe lasciato la sedia di segretario, cedendo il posto ad altri. Me lo vedo davanti ancora adesso, quando dichiara alla tivù: «Il mio compito si conclude in ottobre!». Aveva un tono ispirato e, al tempo stesso, tagliente. E l'ho quasi ammirato. Mi sono detto: finalmente uno della casta riconosce i propri limiti e se ne ritorna a casa.
Erano tutte balle. Il tragico Dario ci ha preso per i fondelli. Infatti eccolo di nuovo qua, a dirci: ci ho ripensato, voglio restare segretario del partito, dunque si aprano le danze! Danze di guerra, naturalmente. Contro un altro candidato, Pier Luigi Bersani. E subito dopo, ecco apparire gli schieramenti dei ras democratici. A cominciare dall'eterno Max D'Alema a fianco di Bersani. E dal redivivo Uolter Veltroni a dar man forte allo spergiuro Franceschini.
A quel punto ho immaginato che poteva esserci una terza via. Vale a dire un candidato nuovo: Sergio Chiamparino, il sindaco di Torino. Ho pensato a lui per una serie di motivi. Il Chiampa è un politico serio. Non urla. Non aggredisce l'avversario. Non sbrocca, ossia non parla a vanvera. Ha buon senso. È radicato sul territorio, come si usa dire. Se occorre, sa essere duro, ma conosce il valore della trattativa. Insomma, ecco uno in grado di far uscire il Pd dalle secche in cui si è arenato. E di riportarlo in mare aperto.
Sino a qualche giorno fa, volevo dedicare il Bestiario tutto a lui. E fare una dichiarazione di voto a suo favore. Poi ci ho riflettuto. Quel che leggo sul Riformista e sugli altri giornali, mi dice che nel Pd lo scontro sul leader si sta mutando in una guerra civile. Clan contro clan. Tutti contro tutti. Pioggia di pallottole al veleno. Vale la pena di gettare in un conflitto all'ultimo sangue un uomo come Chiamparino? O anche un altro politico per bene come lui?
La mia risposta è no. E il mio no mi suggerisce un'ipotesi diversa. Anche il Pd è un amalgama non riuscito. Ex comunisti ed ex democristiani non ce la fanno a convivere nello stesso partito. Chiunque sia il nuovo segretario, la loro guerra continuerà. Sempre più maligna e distruttiva.
Ma allora è meglio dichiarare che l'esperimento è fallito. E scrivere la parola fine. Il Pd è praticamente morto. Cercare di mantenerlo in vita sarebbe un'impresa non soltanto vana, ma dannosa. Anzi, tragicamente grottesca. Il risultato potrebbe essere uno soltanto: un cadavere che cammina. Del tutto incapace di contrastare il centrodestra. E meno che mai in grado di batterlo alle prossime elezioni.
Dunque ai democratici non resta che una scelta: dividersi e andare ciascuno per la propria strada. Quelli che vengono dai Ds possono dar vita a un partito socialdemocratico e riformista. Cercando un accordo con i reduci del Psi rimasti nel centrosinistra. E con le aree della sinistra radicale che non vogliono essere le frange lunatiche dell'anticapitalismo.
Lo stesso vale per i post democristiani della Margherita. Anche per loro c'è una via di uscita: trovare un accordo con l'Udc di Cesa e Casini. E dar vita a un nuovo partito centrista, sordo a tutte le sirene del berlusconismo. Un vecchio motto dice: marciare divisi per colpire uniti. È bene che la truppa dei democratici, a cominciare dai capi, se ne ricordino.
Comunque, come sostiene il saggio, per prima cosa bisogna vivere e poi filosofare. Il Pd sta morendo. Salvate il salvabile. In caso contrario, rassegnatevi alla dittatura del Cavaliere. Escort comprese.

Corriere della Sera 28.6.09
Grazie agli incentivi del governo tedesco la quota delle energie rinnovabili ha raggiunto il 14%. Nel nostro Paese i sussidi più alti nell’area Ue
Il sole catturato dal deserto nei piani di Germania e Italia
Impianti in Africa per l’energia da importare in Europa
di Danilo Taino


BERLINO — Sembreranno file in­finite di sedie a sdraio, nella sabbia del deserto del Nord Africa. Blu, co­me lo sono i pannelli solari. Si chia­ma Desertec ed è un progetto da 400 miliardi (sì, miliardi) di euro che sarà lanciato il 13 luglio a Mo­naco. L’idea è del gigante assicurati­vo Munich Re, che ha messo insie­me un gruppo di imprese per realiz­zare un vecchio sogno: produrre energia pulita dove c’è molto sole ed esportarla in Europa. Secondo il piano, dal 2019 il Vecchio Continen­te potrebbe essere approvvigiona­to, per il 15% dei suoi consumi, da energia solare in arrivo dal Sahara. Alla conferenza ci saranno impre­se come Deutsche Bank, Siemens, Rwe, E.On, il governo di Berlino, la Lega Araba, il Club di Roma, centri di studio tedeschi e probabilmente anche imprese italiane e spagnole. Una cosa seria. Non risolverà il pro­blema della dipendenza energetica da aree politicamente instabili e non sarà facile da realizzare. Ma è il segno che il sole è pronto a fare un salto di qualità nell’economia del mondo e che la Germania dirige le danze.
Nonostante il Paese non sia un paradiso tropicale, da quasi un ven­tennio i governi tedeschi — ancor più quello in carica di Angela Me­rkel — incentivano lo sviluppo del­le tecnologie per estrarre energia dal sole. Dal 2004 in modo aggressi­vo. Il risultato di questa politica (e dell’amore dei tedeschi per l’am­biente) è che la Germania produce oltre il 14% dei suoi consumi elettri­ci da energie rinnovabili (anche vento e biomasse). Se ci fosse più sole, i risultati sarebbero straordi­nari. L’incentivo, simile a quello ita­liano ma precedente, consiste nel fatto che lo Stato compra dai priva­ti (anche famiglie) l’energia solare prodotta con pannelli e non consu­mata a un prezzo più alto di quello di mercato: un sussidio per incenti­vare le fonti rinnovabili. Interi quar­tieri, ad esempio in città come Fri­burgo e Ulm, hanno tetti a pannelli fotovoltaici. Alcune cittadine, Mar­burg per dire, tendono a rendere obbligatorio il sistema solare sul tetto. Grandi aree sono dedicate al­lo stesso scopo: a fine 2008, un ex campo d’aviazione della Germania Est — Waldpolenz — è diventato il primo o secondo parco fotovoltai­co del mondo: 40 megawatt. Nel Paese ci sono 160 istituti che fanno ricerca nel campo. Il primo produt­tore mondiale di celle fotovoltai­che è tedesco, Q-cell, e i grandi gruppi, a partire da Siemens, sono coinvolti nelle diverse fasi del pro­cesso. L’idea dei tedeschi è che quella del sole (ma anche del ven­to) sia l’industria del futuro, in gran parte destinata all’export. Tra dieci anni — calcola il professor Ei­cke Weber, del Fraunhofer di Fri­burgo, nel campo, l’istituto forse più importante al mondo — «l’energia solare costerà meno del­l’energia tradizionale, il fotovoltai­co avrà una grande diffusione. I Pa­esi che si occupano in modo positi­vo e aggressivo di questa tecnolo­gia avranno un futuro migliore. I lettori del Corriere della Sera do­vrebbero rendersene conto».
In effetti, l’Italia se n’è resa con­to, almeno in teoria. Attraverso il Conto Energia (non troppo diver­so dal meccanismo tedesco), il mercato della Penisola è diventato il più generoso in Europa in fatto di sussidi (da 36 a 49 centesimi al chilowattora), tanto che attrae molti investitori dall’estero. Uno studio recente della Scuola di Ma­nagement del Politecnico di Mila­no prevede che nel 2011 si raggiun­geranno i 1.200 megawatt di poten­za fotovoltaica installata grazie agli incentivi del Conto Energia, cifra oltre la quale il sussidio dovrà cala­re. Ciò nonostante, lo stesso stu­dio stima che nel 2012 si possa arri­vare (nello scenario migliore) a 2.430 megawatt installati. Una for­te crescita: 37 mila impianti in eser­cizio, 5 mila dei quali creati nel pri­mo trimestre del 2009 (il mercato, oggi, vale mille miliardi, il triplo se si conta l’indotto).
Non solo. L’Italia potrebbe esse­re — grazie al rendimento dei siste­mi fotovoltaici e al calo dei loro co­sti — il primo Paese al mondo a rag­giungere la parità dei prezzi di ener­gia solare e energia tradizionale: se­condo qualcuno già l’anno prossi­mo, più probabilmente un po’ do­po. I sussidi dovranno a quel punto essere ridotti fino ad arrivare a zero ma per il settore si aprirà una sta­gione nuova. Il problema è che la burocrazia ne ostacola lo sviluppo, con cavilli, ostacoli e un sistema di autorizzazioni diverse da comune a comune. Anche così in Italia il setto­re attraversa un boom, che sarebbe maggiore se non ci fosse stata la cri­si finanziaria, la quale, calcola il Po­litecnico, nel 2009 farà perdere 300 megawatt di potenza installata.
Il Vaticano ha messo i pannelli sulla Sala Nervi con un progetto ita­lo- tedesco, la Sicilia è giustamente all’avanguardia e a Noto si dovreb­be realizzare una delle centrali foto­voltaiche più grandi al mondo, l’Enel finirà quest’anno un impian­to da 5 megawatt con una tecnolo­gia innovativa. E il colonnello Gheddafi ha parlato poche settima­ne fa con l’amministratore delega­to dell’Eni Paolo Scaroni di un gran­de progetto per coprire di pannelli solari parte del deserto libico meri­dionale: energia a basso costo per i Paesi confinanti più poveri. Sedie a sdraio ovunque.