Intervista
Parla Ingrao: «Altro che caso Montesi, le fanciulle di Berlusconi sono vicenda più grave»
Sexgate Pietro Ingrao fa autocritica sulla campagna di cinquant'anni fa. «Fanfani ci passò le prime notizie»
di Stefano Cappellini
Sono passati più di cinquantacinque anni, ma Pietro Ingrao lo ricorda ancora bene l'editoriale in cui la questione morale irruppe ufficialmente sulla scena politica italiana. Perché quell'editoriale lo scrisse lui, il 7 febbraio 1954, sull'Unità di cui era direttore, trasformando le indiscrezioni sul giallo della morte di Wilma Montesi, una fanciulla trovata morta l'anno precedente sulla spiaggia romana di Tor Vajanica, e probabilmente morta durante un festino partecipato da nomi in vista della società d'allora, in un atto d'accusa dell'organo ufficiale del Partito comunista italiano contro il Palazzo e la Democrazia cristiana, partito di maggioranza relativa.
Scrisse Ingrao: «Collegate all'affare Montesi, in una successione drammatica, sono venute le rivelazioni, o almeno le denunce, circa un torbido settore di affari equivoci, di traffici di droga, di corruzione, che sconfinava nel mondo politico ufficiale. E il caso giudiziario si è mutato in una seria "questione morale". È vano che il partito dominante protesti».
Non c'è che dire: la questione morale, da allora, ha avuto una certa fortuna nel dibattito politico. Ed è inutile girarci intorno: se nel testo del 1954 si sostituisse «affare Montesi» con «sexgate», quello che ha investito Silvio Berlusconi, non ci si stupirebbe a ritrovare l'editoriale, parola per parola, in una rassegna stampa della settimana scorsa. Allora come oggi, pare saltato ogni confine tra pubblico e privato del Potere, tra gossip e propaganda, tra prurigine di massa e diritto all'informazione. Ingrao ha vissuto in prima fila il caso Montesi e da lettore il caso Berlusconi: «E io - dice al Riformista - trovo molto più grave quello che è successo in questi giorni. Una vicenda sessuale brutta e sgradevole, che coinvolge direttamente un leader politico, cosa che non successe all'epoca, e lo coinvolge al massimo livello, dentro casa sua, e non per un fatto di cronaca iniziato su una spiaggia qualunque».
Cosa ricorda del caso Montesi?
Fu una campagna che impegnò molto il giornale, e me personalmente.
Secondo alcune ricostruzioni fu addirittura Palmiro Togliatti a chiederle di informarsi bene sul caso, perché forse era coinvolto il figlio di un importante politico democristiano, il vicepresidente del Consiglio Attilio Piccioni, e il Pci ne poteva trarre vantaggio politico...
Non ricordo la telefonata di Togliatti. Ricordo, questo sì, che parlai con lui del caso, perché la vicenda di questa povera fanciulla, di cui erano usciti solo alcuni frammenti sulla stampa, richiamò subito la nostra attenzione politica quando ci rendemmo conto che ne era invischiato Piero Piccioni, il figlio del potente democristiano. Ma fu più una campagna dell'Unità che del partito. Io poi rimasi colpito dalle prime voci per un'altra ragione, che avevo conosciuto il fratello di Piero.
E come?
Lo avevo incontrato in Toscana, mi pare. Lui era uno studioso della letteratura del Novecento e ne dava una lettura che a me piaceva molto, soprattutto sul filone più caro alla nostra parte, quello ungarettiano e montaliano.
All'inizio la stampa non scrisse nulla delle tante voci di corridoio sulle indagini che puntavano in alto. Poi cominciò una gara a rivelare dettagli sempre più scabrosi e a tirare in ballo nomi pesanti. Da chi le arrivò la soffiata sul coinvolgimento del figlio di Piccioni?
Ricordo nettamente che le prime notizie, le prime spiate sugli ambienti di Capocotta dove si erano svolti i fatti e quindi la spinta a occuparci del caso vennero da Amintore Fanfani e dai fanfaniani. Furono loro a metterci sulla pista, spingendoci a "seguire bene" la cosa. E noi trovammo appoggio negli ambienti del ministero degli Interni, di cui Fanfani era titolare, dove c'era un segugio che ci passava informazioni.
Fanfani era il leader della corrente opposta a quella di Piccioni. Non pensò che l'Unità correva il rischio di prestarsi a un regolamento di conti interno alla Dc? Che c'era una regia dietro lo scandalo o presunto tale?
Fanfani era considerato l'uomo del futuro democristiano. Veniva dalla comunità del Porcellino, con Dossetti e La Pira. Si presentava come più sensibile ad aprire un dialogo coi comunisti.
Nessuno scrupolo nel puntare il dito su persone, che poi risultarono estranee ai fatti, solo sulla base di voci?
Ci gettammo come lupi su questo giallo. Fui assolutamente dominato dalla spinta a mettere sotto accusa il regime dc. Non dimentichiamo cosa erano quegli anni. Noi avevamo preso uno scacco grave nel 1948, che aveva dato spazio a quella parte della Dc più nettamente schierata per una guerra dichiarata con noi. Il ministro dell'Interno Scelba faceva sparare sulle manifestazioni di piazza, tutto sommato con la copertura da parte di De Gasperi. Sono anni di eccidi e di sangue, soprattutto nel Mezzogiorno, in Toscana e in Emilia. Questo era il clima.
E giustificava la messa in stato di pubblica accusa di un giovane solo perché "figlio di"?
Capisco la domanda, ma noi eravamo spinti a sviluppare una controffensiva a quello che era il dilagare della forza e della potenza della Dc. E la singolarità romanzesca del caso Montesi, con quella ragazza ritrovata su quel lembo di spiaggia, si prestava. Un giallo perfetto. Come direttore del giornale tenevo molto alla combinazione della battaglia politica con la narrazione giornalistica. Quindi stare sugli eventi anche di cronaca, associare alle grandi vicende di scontri e accuse col potere democristiano, il racconto della parte "nera". C'era il gusto di scoprire e montare gli scandali, accusando la Dc non solo sul terreno schietto dell'azione politica ma su quello della corruzione che dal potere veniva nella vicenda politica italiana.
Lei direbbe lo stesso di Berlusconi?
Una premessa. La mia critica a Berlusconi riguarda altre cose, la linea politica e le forze sociali che rappresenta. Ciò detto, non si può passare sopra questa vicenda delle fanciulle.
E se il sexgate fosse un altro frutto avvelenato della lotta politica?
Veramente non mi sembra. Mentre devo ammettere, col senno di poi, che non era successo nulla di particolarmente rilevante nel caso Montesi. Piccioni ministro non aveva nulla a che fare con quella gente lì, e forse anche suo figlio non era coinvolto direttamente. Ciò nonostante Piccioni si dimise, e non è cosa di poco conto.
Gian Carlo Pajetta, altro dirigente del Pci, coniò un neologismo per indicare i protagonisti di questa videnda: i "capocottari", perché la casa dei misteri del caso Montesi era la tenuta di Capocotta del marchese Ugo Montagna.
Era un modo molto efficace di definire tutto un ceto politico. Di cui peraltro Piccioni non faceva parte. Era figura storica della Dc, schierato nella lotta antifascista, personalità di risonanza europea, non uno dei democristiani tignosi, bensì cauto, riservato. In fondo, scatenavamo quell'attacco per colpire un dirigente che non era un bersaglio naturale, come poteva essere Scelba o uno scelbiano.
In scandali di questo genere si dà molto rilievo all'eco che si produce all'estero.
Colpire la politica di alleanze della Dc, la potenzialità di espansione, era un obiettivo, perché per loro era importante collocarsi in modo forte nello schieramento "americano".
Un ultima domanda, tornando all'oggi. Giorgio Napolitano - con cui ha condiviso decenni di militanza nel Pci, seppur su fronti interni opposti - ha chiesto una sospensione delle polemiche sul presidente del Consiglio in occasione del G8 dell'Aquila.
Rispetto molto l'opinione del presidente della Repubblica, però ho seri dubbi sulla sua proposta. Che significa sospendere una questione che brucia in questa maniera? Non parlarne più sui giornali? Ma il fatto ci sta, non si può cancellare l'oggettività degli eventi».
l’Unità 1.7.09
PD radicali e senza quorum
Manovre oltre lo sbarramento
di Luigi Manconi
L’assemblea di Chianciano, dello scorso fine settimana promossa dai Radicali italiani, ha offerto spunti di grande interesse. Il primo: la gran parte dei «senza quorum» - ovvero militanti e dirigenti delle formazioni che non hanno superato la soglia del 4% (socialisti, verdi, vendoliani...) - hanno mostrato di voler tessere una tela comune con i Radicali, di voler tentare forme più avanzate di aggregazione, di voler elaborare una prospettiva dove l’opzione unitaria prevalga sull’immarcescibile spirito di scissione.
Sarà il tempo a dire se tali intenzioni si tradurranno in opere conseguenti. Personalmente fatico ad accreditare quella prospettiva: in primo luogo perché affidata essenzialmente alle sole forze dei Radicali italiani, gli unici che ne sembrano incondizionatamente convinti, e che più hanno insistito su questioni di merito e di programma. E tuttavia, quanto succede in quell’area e in quello spazio politico va osservato con la massima attenzione e il massimo rispetto: perché quell’area non solo è consistente sotto il profilo elettorale (3/5 %), ma è anche ricca di idee e di esperienze, di militanza e di intuizioni di notevole significato.
Ancor più, pertanto, stupisce che - rispetto all’assemblea di Chianciano e a quanto vi si è discusso - il silenzio del Pd sia stato così assordante. Così come quello degli attuali candidati alla segreteria del partito. Eppure, quell’assemblea chiama in causa due questioni di grande rilievo: la capacità di aprire il Pd a esperienze, culture e militanti provenienti da altri percorsi, e di garantire loro, attraverso regole democratiche, spazio adeguato e pari dignità; e la necessità di elaborare una indispensabile e accorta politica delle alleanze. Problema, quest’ultimo che interpella in ogni caso il Pd, se aspira a vincere e a governare.
Temo che si possa ripetere quanto è accaduto in occasione delle ultime elezioni: la preziosa esperienza della delegazione radicale all’interno dei gruppi parlamentari democratici è stata ignorata e si è scelto, per responsabilità primaria della leadership del Pd, di non riprodurla nella formazione delle liste per le Europee.
La cosa appare, in ultima analisi, autolesionista. Giova ripeterlo: all’interno del Labour party, hanno convissuto per decenni Tony Blair e i sindacalisti massimalisti, Gordon Brown e i trotskisti. È fin troppo banale notarlo: la situazione italiana è ampiamente diversa, ma possibile che l’esperienza inglese non abbia alcunché da insegnarci? Pertanto, insisto a chiedere con ingenuità consapevole: perché mai Dario Franceschini e Pierluigi Bersani dovrebbero aver paura della tenera Emma Bonino?
l’Unità 1.7.09
Chi boicotta la pillola RU486
Contro i furori ideologici
di Sergio Bartolommei
Continua e si intensifica la campagna di lotta (Avvenire) e di governo (Sottosegretario Roccella) contro la registrazione in Italia della pillola Ru486.
Si tratta, come ormai tutti sanno, di un farmaco per l’interruzione della gravidanza che costituisce un’alternativa chimica alla via chirurgica. Il prodotto (due diversi tipi di pillola) è impiegato da tempo in 13 Paesi sui 15 della ex-Europa. Sono passati quasi due anni da quando è stata inoltrata all’Agenzia Italiana del Farmaco la domanda di «mutuo riconoscimento». Si trattava solo di stabilire prezzo e modalità di prescrizione. Tra intoppi, richieste di «delucidazioni» e continui rinvii l’Agenzia è riuscita a dilatare oltre misura i tempi dell’approvazione. C’è il timore che nessun ulteriore chiarimento da parte della ditta produttrice sulla sicurezza del farmaco potrà mai spuntarla sui furori ideologici di chi è deciso a ostacolarne l’introduzione nel nostro Paese.
Nel concreto la tendenza ad alzare l’asticella e pretendere dal farmaco abortivo prove di assoluta innocuità (impossibile da ottenere per qualsiasi tipo di medicinale) ha conseguenze paradossali per le donne.
In primo luogo, facendone mancare o ritardandone l’adozione, le condanna a ricorrere al metodo chirurgico con tutti gli inconvenienti (anestesia e invasività) che comporta.
In secondo luogo non tiene conto, a fronte dei rischi (rari e remoti: 1 su 100.000) di morte connessi alla assunzione della Ru486, dei rischi reali che molte donne corrono ancora nel Sud del Paese dove, a detta degli esperti, ancora un quarto degli aborti è clandestino.
Inoltre trascura che il rischio di morte in caso di aborto chimico, se è superiore al rischio di aborto chirurgico, è identico a quello per aborto spontaneo e inferiore a quello di morte in gravidanza (e nessuno si batte per abrogare le gravidanze).
Infine, se le perplessità riguardassero davvero i rischi connessi all’assunzione del farmaco, il buon senso comune suggerirebbe non già di boicottarne l’introduzione, ma fornire informazioni accurate rispettando comunque l’esercizio della libertà di scelta.
Se questo non accade viene il sospetto che l’obiettivo non sia tanto quello prudenziale di garantire l’aborto in condizioni di sicurezza, bensì quello di principio di impedire una modalità abortiva che offre alle donne un controllo più diretto della riproduzione e riduce il potere di veto connesso all’obiezione di coscienza dei medici.
*Dipartimento di Filosofia Università di Pisa
l’Unità 1.7.09
L’ombra della Stasi sul ’68 tedesco
di Gherardo Ugolini
Le cronache raccontano che il vero inizio del Sessantotto tedesco fu il 2 giugno 1967 a Berlino quando lo studente Benno Ohnesorg, durante una manifestazione di protesta contro la visita in Germania dello scià di Persia Reza Pahlavi, fu ammazzato dal poliziotto Karl-Heinz Kurras. Quel colpo di pistola segnò un punto di svolta per il movimento degli studenti tedeschi. La protesta si radicalizzò allargandosi a tutta la nazione e in certi casi assumendo il carattere della guerriglia urbana e del terrorismo. Il nemico era, ovviamente, la Bundesrepublik, lo stato della Germania Occidentale considerato autoritario e violento: uno stato che non esitava a far sparare i suoi poliziotti contro gli studenti inermi. Questa è la storia tramandata per quattro decenni. Una storia che forse dovrà essere rettificata, se non addirittura riscritta da cima a fondo. Sì è scoperto infatti che a sparare quel fatale colpo di pistola era stato in realtà un agente della Stasi, i servizi segreti della Ddr, infiltrato nelle file della polizia federale dell’ovest. A fare la sensazionale scoperta sono stati due storici, Helmut Müller-Enbergs e Cornelia Jas, i quali hanno ritrovato nell’archivio della Stasi le carte che testimoniano l’appartenenza di Kurras alla polizia segreta della Germania comunista.
La rivelazione ha suscitato grande scalpore nell’opinione pubblica e sui mass media. «È come se in America si scoprisse che dietro l’omicidio di J.F. Kennedy c’era il Kgb», ha commentato Stefan Aust, ex direttore del settimanale Der Spiegel. E Reinhard Müller in un editoriale sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung si è interrogato su quanto sia stato grande l’influsso esercitato dalla Stasi nelle vicende della Germania Occidentale durante la guerra fredda oltre che sulla necessità di rivedere in una nuova luce tanti passaggi della storia recente, man mano che dagli archivi arrivano nuove scoperte. Già si sapeva che Marcus Wolf, il grande boss dell’intelligence tedesco orientale, era riuscito ad infiltrare i suoi agenti negli apparati politici e amministrativi della Germania Ovest fino ai massimi livelli. Si sapeva di campagne di disinformazione costruite ad arte, di pesanti condizionamenti in votazioni parlamentari. Si sapeva che perfino il cancelliere Willy Brandt era stato spiato, così come si sapeva che alcuni terroristi della RAF erano stati sovvenzionati, addestrati e ospitati sotto falso nome dal regime di Berlino Est. E adesso il caso Kurras e l’ipotesi che il governo della Ddr abbia soffiato sul fuoco della protesta così da provocare un’escalation sempre più incontrollabile. La stagione del Sessantotto tedesco è dunque tutta da riscrivere? Meglio non eccedere in revisionismi affrettati. Intanto non è chiaro se Kurras abbia ricevuto un ordine ufficiale di sparare. E poi il Sessantotto tedesco ci sarebbe stato anche senza i giochi sporchi degli 007 della Ddr. È chiaro tuttavia che se allora si fosse saputo che il colpevole era un agente della Stasi, lo scenario sarebbe stato ben diverso e forse la contestazione avrebbe preso altri canali.
l’Unità 1.7.09
Sanità e appalti
Vendola azzera la giunta pugliese e apre a Idv e Udc
di Massimo Solani
Tornato dal Canada ha scelto la «discontinuità». Noi «siamo il buon governo»
Sospensione cautelareper la Costantini dopo l’inchiesta sulla corruzione con Tarantini
«Io non ho cacciato nessuno. Apprezzo molto la responsabilità dei membri della giunta che hanno rimesso le proprie deleghe comprendendo la necessità di dare ulteriori segnali di discontinuità perché la Puglia continui ad essere laboratorio di buon governo e cambiamento». Di rientro dal suo viaggio istituzionale in Canada il presidente della Puglia Nichi Vendola annuncia così l’azzeramento della giunta regionale dopo un pomeriggio trascorso nel tentativo di trovare una quadra fra i miasmi delle inchieste su sanità escort e cocaina e l’esigenza di «riconsiderare la natura e il patto di centrosinistra ridiscutendone contenuti e perimetro». Parole che aprono la strada all’ingresso nella maggioranza dell’Italia dei Valori e dell’Udc. E, probabilmente, anche al movimento “Io Sud” si Adriana Poli Bortone.
burrasca
Ma che sulla Puglia ci fosse aria di burrasca lo si era capito già dalle prime ore del pomeriggio quando la giunta aveva deciso la sospensione cautelare del direttore generale della Asl Bari vicina al Pd Lea Cosentino, indagata assieme a Gianpaolo Tarantini e ad alcuni imprenditori locali per turbativa d’asta e corruzione in merito ad un maxi appalto sanitario. Una discussione che, inevitabilmente, era presto virata anche sul futuro politico del vicepresidente Sandro Frisullo (Pd). Anche lui, stando alle indiscrezioni, coinvolto nelle intercettazioni dell’inchiesta del pm Giuseppe Scelsi sui festini organizzati da Gianpi.
Vendola avrebbe chiesto a Frisulla di fare un passo indietro, ma vista l’opposizione, ha poi deciso di azzerare l’intera giunta.
Inchiesta
Inchiesta che, ha spiegato ieri il procuratore Emilio Marzano, sarà chiusa entro luglio. Così, dopo ore di braccio di ferro, la decisione di azzerare tutto e ricominciare daccapo. Perché, secondo Vendola, «la questione morale non è un argomento buono solo per le campagne elettorali. E noi non vogliamo che un laboratorio di cambiamento e moralizzazione quale la Puglia venga tirato dentro a queste vicende giudiziarie».
Una mossa difensiva che nei progetti del governatore cammina di pari passo all’esigenza di approfondire «un dibattito iniziato all’indomani delle elezioni europee e amministrative». Quello cioè di allargare la coalizione di governo a partiti come l’Idv e l’Udc. «Vogliamo interloquire con tutti i soggetti interessati all’arricchimento della Puglia – è l’idea di Vendola per una fase che +non si annuncia né breve né facile – vogliamo farlo con realismo ma senza accettare atteggiamenti trasformistici».
«Discontinuità, la Puglia deve continuare a essere un laboratorio del buon governo». Con queste convinzioni il presidente della Puglia Nichi Vendola ha azzerato la Giunta. Prosegue l’inchiesta sulla Sanità.
l’Unità 1.7.09
«A sud di Teheran gli orrori della Guantanamo iraniana»
Un dissidente esule negli Usa denuncia torture e uccisioni in un carcere segreto
Il potere annuncia tribunali speciali per gli oppositori arrestati in questi giorni
di Gabriel Bertinetto
Ahmadinejad ha la sua Guantanamo, denuncia un attivista iraniano per i diritti umani che vive negli Usa. È una prigione segreta fuori Teheran dove gli oppositori vengono interrogati, torturati e a volte uccisi.
Mahmoud Ahmadinejad si scaglia contro i «complotti orditi dai nemici che volevano rovesciare il sistema». Secondo lui quei piani sono stati sventati ed il Consiglio dei guardiani della rivoluzione ha sancito una volta per tutte la regolarità della sua riconferma alla guida del Paese. Il voto, dice Ahmadinejad, è stato un referendum pro o contro la Repubblica islamica, ed i sì hanno nettamente prevalso. Il suo rivale Mir Hossein Mussavi non si dà per vinto e sul suo sito online chiede ancora l’annullamento di un voto macchiato da enormi brogli.
TRIBUNALI SPECIALI
A Teheran si preparano i processi agli oppositori arrestati durante le manifestazioni dei giorni scorsi. Il capo dell’apparato giudiziario, l’ayatollah Mahmud Hashemi Shahrudi, ha ordinato la creazione di una «Commissione speciale» che dovrà gestirli.
Trepidazione per la sorte degli oppositori in carcere (centinaia o migliaia, non ci sono cifre certe) emerge dalla denuncia di un dissidente ed attivista per i diritti umani rifugiato negli Stati Uniti. Si chiama Bahram Moshiri ed ha raccolto informazioni dettagliate da membri degli apparati di sicurezza iraniani, che ovviamente chiedono l’anonimato. Se il racconto di Moshiri corrisponde al vero, a Shahr-e-Rey, appena a sud di Teheran, il regime di Ali Khamenei e Mahmoud Ahmadinejad ha allestito un carcere segreto in cui relegare gli oppositori per strappare loro confessioni sotto tortura e giustiziarli. Moshiri la definisce una «Guantanamo iraniana».
SERGENTE IN CONGEDO
Il dissidente dice di essere stato contattato da un «sergente» in pensione dell’esercito, evidentemente disgustato da ciò di cui era a conoscenza. Da lui ha saputo che le persone arrestate per ragioni politiche in varie parti dell’Iran vengono prima radunate nella base di Eshrat Abad, a Teheran e poi spostate a Shahr-e-Rey. La prigione sorge vicino alla zona industriale di Kahrizak, confusa fra capannoni e magazzini. Sembra che sia stata costruita un anno fa, ma non è chiaro da quanto tempo sia in funzione. Per Moshiri, citato dal sito online dell’ong italiana «Secondo protocollo», in questa fase viene usata per «mettere i prigionieri sotto tortura affinché confessino di essere stati ingaggiati da Usa e Gran Bretagna per attuare una rivoluzione di velluto nella Repubblica islamica». Rivoluzione di velluto è il termine usato per descrivere la pacifica fuoriuscita dal comunismo in Cecoslovacchia nel 1989. Con la stessa espressione i Pasdaran hanno definito un presunto piano dell’opposizione per favorire il rovesciamento del regime teocratico attraverso grandi manifestazioni di piazza.
A Shahr-e-Rey gli interrogatori vengono condotti da una quindicina di aguzzini «fra i più feroci del regime», comandati da tre ufficiali. Nel complesso non ci sono medici né ambulatori. I reclusi sono «nutriti una volta al giorno con pane e patate». Sono sempre «nudi o in mutande» e nudi vengono interrogati. Moshiri conclude dicendo che «l’ordine superiore è di farli confessare e metterli a morte. Il numero delle esecuzioni deve assolutamente essere molto elevato per mettere terrore alla gente».
l’Unità 1.7.09
Intervista a Yael Dayan
«Sì al Nobel per Neda. In Israele scopriamo che c’è un altro Iran»
di Umberto De Giovannangeli
La scrittrice ex deputata laburista: «Le donne e i giovani di Teheran lottano contro il regime. Non esiste solo Ahmadinejad con le sue ossessioni»
Israele sta scoprendo l’esistenza dell’”altro Iran”. L’Iran delle donne e dei giovani che hanno sfidato la brutalità del regime per rivendicare libertà e diritti. Siamo di fronte a una protesta il cui valore va ben al di là dello stessa contestazione del risultato elettorale. Quelle donne, quei giovani dicono al mondo che l’Islam non è sinonimo di integralismo, che in Iran esiste una società civile proiettata nel futuro». A parlare è Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare laburista, figlia dell’eroe della Guerra dei Sei giorni: il generale Moshe Dayan. «Condivido le aperture al mondo islamico di Barack Obama - rimarca Yael Dayan - ma ciò non deve tradursi nell’accettazione dell’esistente. Di fronte ad un regime autoritario, teocratico, che reprime con la violenza una protesta popolare, occorre dire chiaramente che tra l’Iran di Ahmadinejad e quello che si riconosce in Neda (la studentessa uccisa in una delle prime manifestazioni a Teheran, ndr,), ogni coscienza democratica non può che stare con chi si batte per la libertà».
Fino a qualche settimana fa, Israele guardava all’Iran come a un Paese ostile, guidato da un presidente, Mahmud Ahmadinejad, che non ha mai nascosto i suoi propositi di annientamento dello Stato ebraico. Ed ora?
«Ora la percezione diffusa in Israele è profondamente cambiata. Abbiamo scoperto l’esistenza di un altro Iran. L’Iran delle donne, dei giovani, che hanno detto basta con un regime brutale, che non ha esitato a ordinare di aprire il fuoco contro i suoi stessi cittadini. Questo movimento ci dice che c’è un Iran che non ha come chiodo fisso la distruzione d’Israele, ma che punta ad una trasformazione interna del Paese, in nome di un Islam coniugato con i diritti e una società aperta...».
Resta il fatto che non ci sono state in Israele mobilitazioni di piazza a sostegno della «Primavera di Teheran».
«Bisogna fare esercizio d’intelligenza politica. Il regime non aspetta altro che poter mostrare in televisione il “Nemico” israeliano che si schiera a fianco degli “eversori” interni. Già vedo tuonare Ahmadinejad o Khamenei: ecco, vedete, i sionisti appoggiano i nemici della Rivoluzione khomeinista, ecco la prova del complotto ordito da America e Israele...Non dobbiamo cadere nella trappola, perché poi a pagarne il conto sarebbero quanti in Iran si oppongono al regime dei brogli. Questo non vuole dire, però, non cercare di mandare segnali di solidarietà e di vicinanza ai manifestanti di Teheran...».
Uno di questi segnali può essere quello indicato dalla scrittrice egiziana Nawal El Saadawi in una intervista a l’Unità: «Diamo a Neda e alle sue sorelle il Nobel per la pace»?
«Mi pare una iniziativa lodevole, da sostenere. Non è un caso che laddove c’è da battersi per difendere spazi di libertà, le donne siano in prima fila. Divenendo il simbolo di quanti non si arrendono a dittature brutali, a regimi autoritari e teocratici. Pensiamo ad Aung San Suu Kyi, o alla stessa Ingrid Betancourt... Ed oggi non c’è dubbio che le “donne in verde” rappresentano una spinta vitale della protesta».
Una protesta che qualcuno interpreta come un regolamento interno alle varie anime del regime.
«Mi sembra una lettura parziale, datata. Le istanze di cui l’”onda verde” di Teheran si fa portatrice, sono istanze di apertura, di diritti, di democrazia sostanziale che appaiono inconciliabili con il regime teocratico iraniano in tutte le sue sfaccettature...».
La protesta non sembra investire la questione nucleare.
«Non dobbiamo fare l’esame di maturità a quel movimento. Una cosa, da israeliana, mi sento però di sottolineare: quelle donne, quei giovani che sono scesi in strada non sono animati dall’odio verso Israele. Ed è significativo che le trasmissioni in farsi della radio israeliana vengono ascoltate da centinaia di migliaia di persone. Il dialogo è possibile, nel rispetto reciproco. E, da parte d’Israele, senza nessuna strumentalità».
Barack Obama ha usato parole molto dure nel condannare la repressione in atto in Iran, al tempo stesso non ha chiuso le porte a un confronto con l’attuale dirigenza iraniana.
«Condivido l’approccio del presidente Obama sull’Iran come sul rilancio del processo di pace israelo-palestinese. Ma l’Iran che può entrare in sintonia con il “Nuovo Inizio” da lui evocato, è l’Iran di Neda non certo quello di Ahmadinejad.
l’Unità 1.7.09
Pina Bausch, la rivoluzionaria
Muore la signora della danza
di Rossella Battisti
Si è spenta ieri a 68 anni. Del cancro che l’ha portata via erano a conoscenza solo gli amici
Ha fondatonel 1973 il Wuppertaler Tanztheater cambiando i connotati all’arte di Tersicore
Il panorama della danza contemporanea perde una delle sue figure più rivoluzionarie: Pina Bausch, fondatrice del Wuppertaler Tanztheater, è morta ieri. Aveva 68 anni ed era malata di cancro.
Pina Bausch se ne è andata dalla scena del mondo con un ultimo, tragico coup de théatre, dettato da un’agenzia secca che annunciava la sua morte a 68 anni. Come, perché, il rovescio confuso di domande sulla scomparsa inaspettata della Signora del Tanztheater (del cancro che l’ha portata via erano a conoscenza solo i fedelissimi), della coreografa che ha cambiato i connotati alla danza contemporanea, si dissolve su un fermo immagine, su quel volto scavato, lo sguardo struggentemente triste, i capelli liscissimi e raccolti in una perenne coda di cavallo. Il suo look di sempre, da sempre, come se negli occhi avesse impresso una fine presagita. Nel silenzio.
Di parole ce n’erano tante nei suoi spettacoli, i danzatori del Wuppertaler Tanztheater che la Bausch aveva fondato nel 1973 recitavano monologhi, cantavano, declamavano in scena poesie o confessioni intime. Ma erano frammenti di un flusso di coscienza interiore che si mescolava a memorie del quotidiano, un diario minimo della vita che parlava di un’assetata nostalgia di amore. Suoni di solitudine, interni di anime screpolate tra le sedie abbandonate di un bar (Café Müller del 1978, tra i primi e più celebri spettacoli), sentimenti stropicciati come foglie secche (il precedente Blaubart), danze declinate per più stagioni (Kontakthof, di cui ha fatto tre versioni per età differenti).
Philippine Bausch detta Pina era nata a Solingen nel 1940, adolescente nel buio dopoguerra tedesco frequenta la Folkwang Hochschule di Essen, dove Kurt Jooss, erede della danza espressionista e degli insegnamenti di Laban, è tornato dall’esilio per lavorare alle sue concezioni di teatrodanza. Grazie a una borsa di studio, Pina conosce anche la frizzante realtà americana degli anni 60 nella prestigiosa Juilliard School di New York, con la modern dance di José Limón e i balletti «psicologici» di Tudor che la scrittura per i suoi lavori. Anche Jooss la vuole e Pina torna in Europa. È un richiamo controverso alle sue radici, in una Germania cupa e grigia, stretta nella morsa del senso di colpa. Sono gli stessi anni e le stesse atmosfere e la stessa terra desolata che Fassbinder descrive nei suoi film. E che Pina riassume con altrettanta visionarietà nei suoi lavori. Stücke, «pezzi» comincia a chiamarli a partire dal 1980, portando a maturazione con una personalissima cifra l’eredità del Tanztheater espressionista che aveva assorbito da allieva prima e da direttrice del medesimo centro di Essen dal ‘68. Bausch è l’orchestratrice geniale di un teatro di danza assoluto, costruito sullo spunto bizzarro di domande con le quali la coreografa sollecita «confessioni» dai suoi danzatori tra privato e immaginario. L’apparire in scena di queste opere-collage dove gli interpreti piangono, ridono, trascinano con veemente passionalità schegge di se stessi sotto i riflettori, sorprende e sconcerta il tradizionale pubblico dei ballettofili ma appassiona il mondo del teatro e del cinema.
LE APPARIZIONI DI PINA
Fellini la immette di peso nel suo E la nave va del 1983 nel ruolo di una duchessa cieca, anni dopo anche Almodóvar la reclamerà per il suo Parla con lei del 2000. Ma nel corso degli anni Ottanta e Novanta si è già celebrata la santificazione di un’artista rimasta di temperamento schivo e taciturno. Mentre la danza è tornata ad appropriarsi di una delle sue più innovatrici e geniali creature e i direttori dei teatri fanno a gara per assicurarsi un suo debutto, meglio: di opere ad hoc nate da periodi di residenza. È l’ultimo, fertile filone cavalcato dalla Bausch, che fruga nell’identità segrete delle città per ricavarne profili inediti, col suo sguardo curioso, la sua capacità di fiutare recondite (dis)armonie, da Vienna alla California, da Los Angeles a Lisbona (a giugno doveva debuttare il lavoro dedicato al Cile). Per l’Italia, che molto l’ha amata, ha creato «pezzi» indimenticabili come Palermo, Palermo, Viktor dell’86 e O Dido del ‘99 per la capitale. Proprio in quest’ultimo compariva una sfumatura di inedita e colorata allegria a cui Pina sembrava approdare dopo l’intensità drammatica e squarcia-anima che l’aveva caratterizzata nel tempo. Un piacere della vita che l’aveva presa di sorpresa, che accostava alle eterne sigarette un buon bicchiere di vino rosso, un piatto di tagliatelle, un chiarore di sole napoletano. Forse era per esorcizzare il male oscuro. Forse per l’amore istintivo che ogni tedesco da Goethe in poi ha provato per il paese dei limoni. L’ultimo appuntamento sarà qui, a Spoleto dove la sua compagnia presenterà Bamboo Blues. Sarà un caso, ma è anche il luogo dove all’alba di se stessa diva futura, Pina Bausch danzò con Jean Cébron più di quarant’anni fa.
Repubblica 1.7.09
Il capo restauratore del Vaticano: nella Cappella Paolina l’autoritratto dell’artista
"Così si disegnava Michelangelo"
di Orazio La Rocca
Torna alla luce un altro autoritratto di Michelangelo. Sarebbe stato individuato nella Cappella Paolina, in Vaticano, nel corso dei nuovi restauri presentati ieri dalle autorità pontificie.
Lavori che hanno ravvivato i colori originali della Cappella e ripristinato l´impostazione architettonica così come l´aveva progettata nel 1537 Giuliano da Sangallo Il Giovane, col riuso, tra l´altro, dell´altare cinquecentesco, spostato leggermente dalla parete centrale «su espresso desiderio di papa Ratzinger per meglio favorire le celebrazioni e l´accesso al tabernacolo», ha assicurato il vescovo Paolo De Nicolò, reggente della Prefettura della Casa Pontificia, presente alla conferenza svolta nella Sala Regia del Palazzo Apostolico, che è proprio attigua alla cappella che Benedetto XVI inaugurerà il 4 luglio prossimo.
Per ripulire gli affreschi dai fumi e dalle vecchie incrostazioni c´è voluto un intervento di 5 anni, dal 2004 al 2009, costato 4 milioni di dollari offerti dai Patrons of the Arts in the Vatican Museums, un organismo di benefattori Usa. A sostenere che tra le figure ripulite c´è il volto del maestro fiorentino, è Maurizio De Luca, ispettore e capo restauratore del Vaticano. «È una scoperta straordinaria e commovente, come straordinario è il risultato finale del restauro dal quale emerge un nuovo vecchio Michelangelo che con la Cappella Paolina concluderà la sua attività di pittore per dedicarsi solo alla scultura e all´architettura», ha spiegato ieri De Luca a margine della conferenza, alla quale sono interventi, tra gli altri, il cardinale Giovanni Lajolo, governatore del Vaticano, il professor Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani (che ha sostenuto come il Vaticano sia «all´avanguardia nel campo del restauro e della conservazione artistica») e il professor Arnold Nesselrath, responsabile storico-artistico del rastauro.
L´autoritratto michelangiolesco è stato individuato tra i personaggi della Crocifissione di San Pietro, affrescata da Buonarroti dal 1545 al 1550. In precedenza - dal 1542 al 1545 - il maestro fiorentino aveva realizzato l´altro grande affresco, la Conversione di Paolo. «L´autoritratto è uno dei 3 cavalieri in alto a sinistra dell´affresco che porta in testa un turbante di color azzurro lapislazzuli e che nei lineamenti è molto somigliante - sostiene De Luca - ad altri noti volti di Michelangelo». In effetti, la figura richiama molto l´altro autoritratto che il Buonarroti realizzò nel Giudizio Universale della Cappella Sistina, un volto seminascosto nel drappo tenuto in mano da San Bartolomeo. Ma il volto del cavaliere col turbante è «sorprendentemente somigliante», assicura De Luca, anche ad altri ritratti di Michelangelo come quelli di Daniele da Volterra, di Giuliano Bugiardini, di Iacopino del Conte, di Lorenzo Lotto, di Giambologna autore di un busto. È da circa 2 anni che il restauratore si è convinto dell´esistenza della «firma» michelangiolesca nella Cappella Paolina nel volto del cavaliere col turbante. Il 26 giugno scorso ne ha parlato anche ai componenti della commissione di esperti internazionali che hanno supervisionato i lavori, tra i quali a sostegno della tesi di De Luca sono intervenuti Cristina Acidini, sovrintendente del Polo museale fiorentino e tra i massimi esperti di Michelangelo, monsignor Timothy Verdon, Kathleen Brandt, Howard Burns, Christoph Luitpold Frommel, Michael Hirst. Anche il professor Giorgio Bonsanti, docente di tecnica e restauro all´università di Firenze ed ex sovrintendente dell´Opificio delle Pietre Dure, membro della stessa commissione, non esclude che quel cavaliere vicino al Pietro crocifisso sia un autoritratto dell´autore. «Pur non avendo visto il restauro finale, non lo escludo - spiega Bonsanti - perché Michelangelo lo ha fatto in altre opere, come ad esempio alla Sistina e anche nelle Cappelle Medicee di Firenze. E poi, quel turbante azzurro è un indizio molto forte perché è il tipico copricapo che gli scultori usavano per ripararsi dalle polveri. E in altri ritratti Buonarroti non a caso lo indossa».
Repubblica 1.7.09
"Immigrati, immorale respingerli senza controlli"
Il presidente Fini torna sul tema dei rifugiati. Il ddl sicurezza da oggi al Senato
di Caterina Paolini
Il discorso a Madrid: "Prima viene la dignità della persona, poi la condizione di legalità o meno"
ROMA - «Sarebbe immorale dire subito ‘sei clandestino, ti rimando al tuo Paese´. Sarebbe come condannare quella persona a morte, in alcuni casi. E´ infatti assolutamente indispensabile distinguere chi chiede asilo politico. I rifugiati non possono essere automaticamente equiparati al clandestino perché così si farebbe venir meno la dignità della persona umana».
A dirlo non è un esponente dell´opposizione ma il presidente della Camera e leader di An Gianfranco Fini durante un forum del giornale spagnolo El Mundo nel quale parla di dignità, di valore, di essere umani che «prima sono uomini e poi immigrati, prima viene la dignità della persona e poi la condizione di legalità o meno».
Parole importanti, frasi che pesano e che suonano come una dura critica al ddl sicurezza che oggi arriva al vaglio del Senato e si appresta nel giro di una settimana ad entrare in vigore, fortemente voluto dal governo e dal ministro Maroni. Parole, quelle di Fini, che provocano qualche imbarazzo nella maggioranza, nessun commento dal Pdl e Lega mentre un plauso arriva dal Pd. Perché le sue frasi sembrano contestare proprio i pilastri del pacchetto sicurezza, e soprattutto il nuovo reato di immigrazione clandestina. Ma la maggioranza non pare disposta a cambiare rotta, anzi, sembra proprio che verrà posta la fiducia, come accadde alla Camera, per accorciare i tempi ed evitare la discussione dei 160 emendamenti proposti.
Tutto questo, nonostante le critiche dalle opposizioni, dalle organizzazioni sociali e religiose contrarie sia alla creazione del reato di immigrazione clandestina che all´introduzione delle ronde contenute nel decreto. Critiche che si trasformano anche in gesti concreti.
Ieri l´Arci ha infatti annunciato un´azione di disobbedienza civile e di protesta. Porte aperte per l´accoglienza degli immigrati contro il pacchetto sicurezza che definisce simile alle leggi razziali.
«Il disegno di legge - afferma infatti Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell´Arci - introduce un sistema di apartheid e per questo va considerato una legge razziale. Sarà lo status di immigrato a determinare il godimento o meno del diritto. Cittadini che vivono nello stesso paese non saranno tutti uguali di fronte alla legge né godranno delle stesse garanzie».
E mentre l´Arci invita i cittadini alla disobbedienza civile, arrivano le parole di Fini che pensa ad una politica dell´immigrazione «che si basi su due pilastri»: da una parte aiutare i paesi poveri a progredire e dall´altra cercare «di assorbire con parità di diritti e doveri tutti gli stranieri di cui abbiamo drammaticamente bisogno», dice parlando delle badanti che assistono gli anziani che col nuovo ddl si troverebbero fuorilegge dalle tempie grigie. Sottolinea anche la necessità di fare un «rigoroso controllo nazionale» per verificare «la sussistenza dei requisiti per chiedere asilo politico». Il presidente della Camera ha citato anche il caso di alcune norme contenute inizialmente nel ddl sicurezza all´esame del senato che obbligavano i medici a denunciare i clandestini: «è necessario distinguere tra immigrazione regolare e clandestina. Tuttavia anche per gli irregolari vale il principio base della nostra cultura, prima sono uomini e poi immigrati. Non è accettabile che venga messa in secondo piano la dignità della persona rispetto alla condizione di legalità o meno del proprio status».
Repubblica 1.7.09
Droghe, tra i giovanissimi boom di consumi per la cannabis
ROMA - I molto giovani fumano (cannabis) e prendono pasticche, mischiando il tutto con altre droghe o con l´alcol. Quelli dai vent´anni in su, sono "tradizionalisti" e soprattutto in aumento: scelgono eroina e cocaina. Sono alcune delle novità dell´annuale fotografia scattata per la Relazione al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia nel 2008, presentata dal sottosegretario Carlo Giovanardi. Un ritratto con molti chiaroscuri: forte aumento dei consumatori problematici, ma c´è anche un calo considerevole della percentuale di morti per overdose; diminuisce il consumo di eroina e cocaina negli under 19 che però fumano molta più cannabis.
Dunque, crescono i tossicodipendenti da droghe pesanti: circa 385mila i consumatori problematici di droga (9,8 soggetti ogni mille persone di età 15-64 anni); di questi, 210.000 usano eroina (205.000 nel 2007) e 172.000 cocaina (154.000 nel 2007). E meno del 45% dei consumatori problematici di droga è in trattamento presso un Sert. Si inverte invece la tendenza all´aumento dei decessi per droga, "solo" 502 (-14,7%). E poi le tendenze tra i giovani: gli under 19 usano meno eroina e cocaina, più hashish e marijuana (+5,3%), con una ripresa soprattutto tra le ragazze. All´età di 15 anni già l´11% ha consumato cannabis una o più volte negli ultimi 12 mesi. Spinello quotidiano per il 2,7% dei 15-19enni, mentre lo 0,5% assume cocaina e lo 0,3% eroina (spesso vaporizzata). Ecstasy e amfetamine sono in calo, aumentano (+6,3%) invece gli allucinogeni (Lsd). Tra i problemi, il "policonsumo": l´1,4% dei consumatori di cannabis usa anche cocaina, il 4,4% eroina, il 98,3% associa alcolici e il 68,4% tabacco.
Droghe pesanti, ma low cost: per un grammo di cocaina si spendono circa 78 euro, 60 per l´eroina, 8-9 euro per la cannabis e meno di 19 euro per una pasticca di ecstasy.
Repubblica 1.7.09
L’arte di vivere senza verità
Perché oggi ha vinto il cinismo
Un testo di Michel Foucault sulla tradizione dell’Occidente
Con Manet, Bacon Baudelaire, Beckett ciò che sta in basso irrompe nelle forme artistiche elevate
La dottrina cinica nel mondo antico era popolare, oggi è un atteggiamento elitario e marginale
C’è una ragione che ha portato l'arte moderna a farsi veicolo del cinismo: parlo dell'idea che l'arte stessa, che si tratti di letteratura, di pittura o di musica, deve stabilire con il reale un rapporto che vada al di là del semplice abbellimento, dell'imitazione, per diventare messa a nudo, smascheramento, raschiatura, scavo, riduzione violenta dell'esistenza ai suoi elementi primari. Non c'è dubbio che questa visione dell'arte si sia andata affermando in modo sempre più marcato a partire dalla metà del XIX secolo, quando l'arte (con Baudelaire, Flaubert, Manet) si costituisce come luogo di irruzione di ciò che sta in basso, al di sotto, di tutto ciò che in una cultura non ha il diritto o quanto meno non ha la possibilità di esprimersi. A tale riguardo, si può parlare di un antiplatonismo dell'arte moderna. Se avete visto la mostra su Manet, quest'inverno, capirete quello che voglio dire: l'antiplatonismo, incarnato in maniera scandalosa da Manet, rappresenta a mio avviso una delle tendenze di fondo dell'arte moderna, da Manet fino a Francis Bacon, da Baudelaire fino a Samuel Beckett o a Burroughs, anche se non si identifica attualmente come elemento caratterizzante di tutta l'arte possibile. Antiplatonismo: l'arte come luogo di irruzione dell'elementare, come messa a nudo dell'esistenza.
Di conseguenza, l'arte ha stabilito con la cultura, le norme sociali, i valori e i canoni estetici, un rapporto polemico, di riduzione, di rifiuto e di aggressione. È questo l'elemento che fa dell'arte moderna, a partire dal XIX secolo, quel movimento incessante attraverso il quale ogni regola stabilita, dedotta, indotta, inferita sulla base di ciascuno dei suoi atti precedenti, è stata respinta e rifiutata dall'atto successivo. In ogni forma d'arte si può trovare una sorta di cinismo permanente nei riguardi di ogni forma d'arte acquisita: è quello che potremmo chiamare l'antiaristotelismo dell'arte moderna.
L'arte moderna, antiplatonica e antiaristotelica: messa a nudo, riduzione all'elementare del l'esistenza; rifiuto, negazione perpetua di ogni forma già acquisita. Questi due aspetti conferiscono all'arte moderna una funzione che in sostanza si potrebbe definire anticulturale. Bisogna opporre al conformismo della cultura il coraggio dell'arte, nella sua barbara verità. L'arte moderna è il cinismo nella cultura, il cinismo della cultura che si rivolta contro se stessa. Ed è soprattutto nell'arte, anche se non solo in essa, che si concentrano nel mondo moderno, nel nostro mondo, le forme più intense di quella volontà di dire la verità che non ha paura di ferire i suoi interlocutori.
Restano naturalmente molti aspetti ancora da approfondire, e in particolare quello della genesi stessa della questione dell'arte come cinismo nella cultura. Si possono vedere i primi segnali di questo processo, destinato a manifestarsi in modo clamoroso nel XIX e nel XX secolo, ne Il nipote di Rameau e nello scandalo suscitato da Baudelaire, Manet, (Flaubert?). Ci sono poi i rapporti tra cinismo dell'arte e vita rivoluzionaria: affinità, fascinazione reciproca (perpetuo tentativo di legare il coraggio rivoluzionario di dire la verità alla violenza dell'arte come irruzione selvaggia del vero); ma anche il loro non essere sostanzialmente sovrapponibili, dovuto forse al fatto che, se questa funzione cinica è al cuore dell'arte moderna, il suo ruolo nel movimento rivoluzionario è solo marginale, almeno da quando quest'ultimo è dominato da forme di organizzazione, da quando i movimenti rivoluzionari si organizzano in partiti e i partiti definiscono la "vera vita" come totale conformità alle norme, conformità sociale e culturale. È evidente che il cinismo, lungi dal costituire un legame, è un motivo di incompatibilità tra l'ethos dell'arte moderna e quello della pratica politica, sia pure rivoluzionaria.
Si potrebbe formulare lo stesso problema in termini diversi: perché il cinismo, che nel mondo antico aveva assunto le dimensioni di un movimento popolare, è diventato nel XIX e nel XX secolo un atteggiamento elitario e marginale, anche se importante per la nostra storia, e il termine cinismo viene utilizzato quasi sempre in riferimento a valori negativi? Si potrebbe aggiungere che il cinismo ha molti punti di contatto con un'altra scuola greca di pensiero: lo scetticismo – anche in questo caso, uno stile di vita, più che una dottrina, un modo di essere, di fare, di dire, una disposizione a essere, a fare e a dire, un'attitudine a mettere alla prova, a esaminare, a mettere in dubbio. Ma con una grandissima differenza: mentre lo scetticismo applica sistematicamente al campo scientifico questa attitudine, trascurando quasi sempre l'esame degli aspetti pratici, il cinismo appare incentrato su un atteggiamento pratico, che si articola in una mancanza di curiosità o in un'indifferenza teorica, e nell'accettazione di alcuni princìpi fondamentali. Ciò non toglie che, nel XIX secolo, la combinazione tra cinismo e scetticismo sia stata all'origine del "nichilismo", inteso come modo di vivere basato su un preciso atteggiamento nei confronti della verità. Dovremmo smetterla di considerare il nichilismo sotto un unico aspetto, come destino ineluttabile della metafisica occidentale, a cui si potrebbe sfuggire solo facendo ritorno a ciò il cui oblio ha reso possibile questa stessa metafisica; o come una vertigine di decadenza tipica di un mondo occidentale divenuto ormai incapace di credere ai suoi stessi valori.
Il nichilismo deve essere considerato in primo luogo una figura storica particolare appartenente al XIX e al XX secolo, ma deve anche essere inscritto nella lunga storia che l'ha preceduto e preparato, quella dello scetticismo e del cinismo. In altre parole, deve essere visto come un episodio o, meglio, come una forma, storicamente ben definita, di un problema che la cultura occidentale ha cominciato a porsi già da molto tempo: quello del rapporto tra volontà di verità e stile di esistenza.
Il cinismo e lo scetticismo sono stati due modi di porre il problema dell'etica della verità. La loro fusione nel nichilismo mette in luce una questione essenziale per la cultura occidentale, che può essere formulata in questo modo: quando la verità è rimessa continuamente in discussione dallo stesso amore per la verità, qual è la forma di esistenza che meglio si accorda con questo continuo interrogarsi? Qual è la vita necessaria quando la verità non lo è più? Il vero principio del nichilismo non è: Dio non esiste, tutto è permesso. La sua formula è piuttosto una domanda: se devo confrontarmi con il pensiero che "niente è vero", come devo vivere? La difficoltà di definire il legame tra l'amore della verità e l'estetica dell'esistenza è al centro della cultura occidentale. Ma non mi preme tanto definire la storia della dottrina cinica, quanto quella dell'arte di esistere. In un Occidente che ha inventato tante verità diverse e che ha plasmato tante differenti arti di esistere, il cinismo serve a ricordarci che ben poca verità è indispensabile per chi voglia vivere veramente, e che ben poca vita è necessaria quando si tenga veramente alla verità.
Traduzione di Stefano Salpietro
Corriere della Sera 1.7.09
Il macchinista del caso Eurostar
«Io lanciai l’allarme, sono stato licenziato»
di A. St.
MILANO — «È stato un incidente tipico e prevedibile. Chi si occupa di sicurezza sa che prima di un fatto così grave arrivano molti avvisi...». E gli allarmi, «purtroppo sono rimasti inascoltati», sostiene Dante De Angelis, 48 anni, il macchinista-sindacalista licenziato dalle Ferrovie nel 2008 per aver parlato di «inadeguatezza della manutenzione» dopo il caso degli Eurostar «spezzati»: «Ci sono stati due incidenti analoghi solo negli ultimi venti giorni. Rottura degli assi. Uno a San Rossore (Pisa) e un altro a Vaiano (Prato). Insomma: questo tipo d’incidente si ripete con frequenza impressionante sui treni merci, almeno uno o due al mese. Solo leggendo questi ultimi segnali sarebbe stato possibile prevenire la tragedia di Viareggio». Ora, insiste De Angelis, «saranno presi tutti i provvedimenti necessari, certo. Tardi. I controlli sono risultati inadeguati e non lo dico io, lo hanno dimostrato i fatti».
È il punto: l’ex sindacalista sostiene che per «rendere più efficaci» le verifiche bisognerebbe «monitorare assi, ruote e freni anche durante la marcia dei treni, come per gli Eurostar». I materiali sono vecchi? «L’età non è necessariamente un indice di pericolosità. Il problema è un altro: i ferrovieri vengono intimiditi e sanzionati ogni volta che segnalano episodi anche gravi e preoccupanti. E terrorizzare i dipendenti non è il modo migliore per ottenere sicurezza».
Corriere della Sera 1.7.09
Dopo le indagini sulle Asl pugliesi, dimissionari tutti gli assessori
Caso Bari, Vendola azzera la giunta
Inchiesta sulla sanità, il governatore apre a Udc e Idv. Il Pdl: si torni al voto
di Paolo Foschi
ROMA — La bufera giudiziaria che sta travolgendo la sanità pugliese e i risultati del voto alle comunali di Bari provocano un terremoto nella giunta pugliese. Nichi Vendola, dopo aver fatto svolgere un’indagine amministrativa interna poi inviata alla magistratura, ha infatti deciso di azzerare la giunta e di aprire la maggioranza di centrosinistra che governa la Regione all’Udc e all’Italia dei valori, i cui voti erano stati determinanti al ballottaggio alle comunali di Bari per il successo del sindaco uscente Michele Emiliano, ex pm e segretario regionale del Pd. Il centrodestra però non ci sta: «Nuove elezioni subito». Ironico il commento di Gaetano Quagliariello, vicepresidente dei senatori del Pdl: «Con qualche giorno di ritardo, ecco la scossa tempestivamente preannunciata dall’onorevole D’Alema».
L’azzeramento della giunta ha per Vendola un duplice obiettivo: rafforzare l’asse con i nuovi alleati. E mettere l’esecutivo al riparo dall’eventuale coinvolgimento di altri assessori nelle inchieste sulle Asl pugliesi che erano già costate il posto ad Alberto Tedesco, dei Socialisti autonomisti ed ex responsabile alla Sanità, che si è dimesso dopo essere stato indagato a febbraio. Ieri dunque tutti gli assessori regionali hanno rassegnato le dimissioni proprio per favorire il ricambio. Il passo indietro secondo la ricostruzione delle agenzie sarebbe stato chiesto dal governatore. Una lettura smentita però dal portavoce del presidente della Regione, secondo il quale «nessuno ha richiesto le dimissioni, sono state offerte coraggiosamente e spontaneamente per rafforzare l’azione politica dell’esecutivo».
Vendola ha comunque subito accettato le dimissioni. E ha annunciato «nelle prossime ore la nuova squadra». Del resto, parlando alla giunta, il governatore ha spiegato che «ci sono fatti politici nuovi », e cioè la vittoria del centrosinistra al ballottaggio delle comunali grazie all’apparentamento con l’Udc di Pier Ferdinando Casini; e «fatti indirettamente politici», cioè la necessità di portare avanti la questione morale. Secondo Vendola, «le inchieste in corso consentono a tutti noi di sgomberare angoli di opacità », «in un sistema permeabile agli interessi delle lobby, delle corporazioni e anche delle spinte corruttive». In ogni caso, «il ricambio della giunta sarà rapidissimo per evitare il toto-nomine, che sarebbe quanto mai inopportuno in una fase delicata come quella attuale».
Il presidente della Regione aveva fra l’altro ripetutamente affermato nelle scorse settimane che avrebbe chiesto le dimissioni di chiunque fosse risultato indagato. E proprio ieri si è saputo che Lea Cosentino, direttore generale della Asl Puglia, è stata sospesa da Vendola: la manager, in un primo momento indagata per turbativa d’asta è adesso accusata anche di associazione a delinquere. Una novità che potrebbe segnare un salto di qualità nell’inchiesta della procura barese.
E anche se per adesso non ci sono nuovi indagati fra gli assessori, la giunta riparte da zero. O meglio da quel «laboratorio Puglia» invocato da Emiliano, che non solo ha cementato l’asse con l’Udc, ma ha anche invitato al dialogo (finora senza successo) le forze del centrodestra, «per rilanciare le politiche per il sud». Fra i candidati a lasciare l’esecutivo regionale c’è in pole position Sandro Frisullo, vice presidente e assessore allo Sviluppo economico. L’esponente del Pd, considerato vicino a Massimo D’Alema, non è indagato, ma compare ripetutamente nelle intercettazioni ambientali agli atti delle indagini della procura di Bari e ha sempre negato qualsiasi tipo di coinvolgimento in attività illegali. La stessa magistratura ha precisato che non ci sono avvisi di garanzia nei sui confronti. Approfittando dell’azzeramento della giunta, Vendola potrebbe decidere comunque di lasciarlo fuori «per ragioni di opportunità politica». Nella giunta, in rappresentanza dell’Udc, potrebbe entrare Russo Frattasi, candidato sindaco uscito al primo turno e diventato alleato di Emiliano.
Corriere della Sera 1.7.09
La mossa Il personale che si occupa dei trasferimenti passerà alle dipendenze dell’intelligence
«Voli di Stato gestiti dai Servizi»
La decisione del governo: le informazioni saranno coperte dal segreto
di Fiorenza Sarzanini
Le motivazioni
La richiesta di avvio della procedura giustificata con motivi di «sicurezza e riservatezza»
ROMA — Il personale che si occupa dei voli di Stato sarà trasferito alle dipendenze dirette dell’intelligence. In particolare sarà inserito nell’organico del Rud, l’ufficio che fa capo all’Aise — il servizio segreto militare — ed è addetto alle mansioni di vigilanza degli obiettivi.
La decisione è stata presa dal governo dopo la pubblicazione delle foto del premier Silvio Berlusconi che imbarca a bordo degli aerei con la sigla 'Repubblica Italiana' i suoi ospiti privati come il cantante Mariano Apicella, attori e ballerine. E dopo la circostanza, emersa durante gli accertamenti della Procura di Bari, che anche Gianpaolo Tarantini - indagato per induzione alla prostituzione per aver portato ragazze a pagamento nelle residenze del premier - si spostava tra Roma e Milano a bordo di quei velivoli.
Nella richiesta di avvio della procedura, già trasmessa all’Aeronautica Militare e alle altre amministrazioni da cui dipende il personale, i trasferimenti vengono giustificati con motivi di «sicurezza e riservatezza ». Finora le liste passeggeri e i piani di volo potevano essere acquisiti dall’autorità giudiziaria, sia pur con un provvedimento motivato. D’ora in avanti i documenti saranno invece coperti dal segreto e dunque per poterli visionare si dovrà avviare un iter molto più complesso e soprattutto ci sarà la possibilità di opposizione alla consegna.
Un mese fa Silvio Berlusconi si era rivolto al garante della Privacy e alla magistratura romana per chiedere il sequestro delle foto scattate dal reporter sardo Antonello Zappadu a Villa Certosa e all’aeroporto di Olbia. Migliaia di scatti che riprendevano gli ospiti della sua residenza estiva, ma anche quelli in arrivo o in partenza a bordo dei velivoli. L’Authority ha ritenuto «illecito» riprendere e diffondere «immagini di persone all’interno di una privata dimora senza il loro consenso e utilizzando tecniche particolarmente invasive », mentre ha stabilito che «sono permesse quelle riprese in luoghi pubblici», come è per esempio un aeroporto.
La Procura ha invece disposto il sequestro di tutti gli scatti e poi ha delegato i carabinieri all’acquisizione dei documenti relativi ai voli immortalati dal reporter. Due settimane sono bastate ai magistrati per chiedere al tribunale dei ministri l’archiviazione dell’inchiesta. L’indagine si è concentrata soltanto sui voli documentati da Zappadu. I magistrati non hanno svolto alcuna verifica ulteriore sugli altri trasferimenti con velivoli di Stato autorizzati dalla presidenza del Consiglio e hanno chiuso il fascicolo. Hanno infatti ritenuto che la direttiva approvata dallo stesso governo Berlusconi il 25 luglio 2008 consente il trasporto degli estranei e soprattutto che «la presenza del premier a bordo degli aerei esclude la violazione della legge e il danno patrimoniale per presunto sperpero di denaro pubblico».
La decisione dei pubblici ministeri della capitale non mette comunque al riparo da altre indagini che potrebbero essere avviate e da possibili fughe di notizie sui voli presidenziali. Di qui la scelta di una «blindatura» che invece impone il massimo livello di riservatezza su tutti gli spostamenti. Proprio come accaduto per gli uomini della scorta di Berlusconi che sono stati assunti dall’Aisi — il servizio segreto interno — guidato dal generale Giorgio Piccirillo: la maggior parte di loro segue Silvio Berlusconi sin dai tempi della Fininvest. I responsabili dell’apparato di sicurezza sono stati inseriti nei ranghi degli 007 e hanno ottenuto la nomina a caporeparto, ma questo non impedisce che le decisioni operative siano prese di fatto in piena autonomia. La collocazione nell’apparato di intelligence serve soprattutto a tutelare il vincolo di segretezza.
La decisione sul trasferimento del personale addetto ai voli di Stato dovrà adesso essere comunicata al Copasir, il comitato di controllo parlamentare, che ha avviato un’indagine sulle misure di protezione del presidente del Consiglio e sull’utilizzo degli aerei dell’Aeronautica. Villa Certosa è infatti «sede di governo alternativa in situazioni di emergenza » e come tale deve essere tutelata. Durante le audizioni della scorsa settimana i vertici degli 007 hanno però chiarito che «è protetta secondo il massimo livello di sicurezza possibile rispetto alla sua localizzazione » e anche tenendo conto del tenore di vita del premier. Durante feste e cene la lista degli ospiti è infatti affidata a vigilanza privata e, come accade pure a Palazzo Grazioli, agli ingressi non viene effettuato alcun tipo di controllo.
Corriere della Sera 1.7.09
Pronunciamento netto del giudice dopo la sentenza della Corte Costituzionale
«Fecondazione assistita anche per coppie non sterili»
Il tribunale di Bologna: sì all’analisi preimpianto dell’embrione
di Margherita De Bac
ROMA — Saltano gli steccati della legge sulla fecondazione artificiale, sotto i colpi dei giudici. Un’ordinanza del tribunale di Bologna depositata due giorni fa aggiunge novità e rafforza, con una serie di chiarimenti, la sentenza della Corte Costituzionale dello scorso marzo che in pratica aveva abbattuto i paletti più invisi alla comunità scientifica.
Le tecniche potranno essere utilizzate anche da coppie non sterili che hanno già avuto bambini concepiti naturalmente, ma che sono nati con gravi patologie di origine genetica. Si afferma che «il divieto di diagnosi preimpianto pare irragionevole e incongruente col sistema normativo se posto in parallelo con la diffusa pratica della diagnosi prenatale, altrettanto invasiva del feto, rischiosa per la gravidanza, ma perfettamente legittima». Questa procedura deve dunque essere ritenuta «ammissibile come il diritto di abbandonare l’embrione malato e di ottenere il solo trasferimento di quello sano».
L’ordinanza dispone inoltre che si proceda «previa diagnosi preimpianto di un numero minimo di 6 embrioni ». Il medico deve eseguire i trattamenti in modo da assicurarne il miglior successo «in considerazione dell’età e del rischio di gravidanze plurigemellari pericolose» e deve provvedere al congelamento «per un futuro impianto degli embrioni risultati idonei che non sia possibile trasferire immediatamente e comunque di quelli con patologia ». L’ordinanza, firmata da Chiara Gamberini, risponde a una coppia fiorentina che si era rivolta al centro Tecnobios di Bologna per avere un secondo figlio dopo aver provato il dolore di un bambino colpito da distrofia di Duchenne, trasmessa dalla madre. Il centro aveva dichiarato di non poter analizzare l’embrione. I genitori lo scorso luglio avevano presentato un ricorso attraverso Gianni Baldini, esperto di biodiritto. Il tribunale si è espresso dopo la Consulta che ha smontato alcuni dei divieti. Secondo Baldini «i giudici bolognesi offrono un contributo decisivo per la corretta interpretazione della legge 40 da parte della Consulta. Dubbi e spiegazioni strumentali vengono spazzati via. Altri non sono stati cancellati. Viene riconosciuto alla coppia non sterile ma che ha già figli il diritto alle tecniche della provetta». La sentenza della Corte aveva lasciato spazio ad alcuni interrogativi. Secondo il sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella la diagnosi preimpianto sarebbe rimasta comunque impraticabile mentre la produzione di un numero di embrioni superiori a 3 e congelamento avrebbero avuto limiti stretti.
Corriere della Sera 1.7.09
Mezzo secolo fa l’articolo sulle «Annales» che fondò un metodo. Le polemiche con Hobsbawm e le teorie di Huntington
La storia di «lunga durata» deve fare i conti con la scienza
L’erede di Braudel aggiorna la sfida: partiamo da matematica e teorie del caos
di Maurice Aymard
L’ articolo di Fernand Braudel dedicato alla «lunga durata» compare sulle «Annales E. S. C.» mezzo secolo fa ( Histoire et sciences sociales. La longue durée). Dopo la morte di Lucien Febvre (settembre 1956), Braudel si è appena visto affidare la direzione delle «Annales». Per Braudel, la «lunga durata » è la carta dominante — di fatto l’unica — che gli consente di rivendicare per la storia, accanto alla matematica, il ruolo di «federatrice» delle scienze dell’uomo. Secondo lui, tutte soffrono di un difetto sostanziale: quello di concentrare l’attenzione sul presente, senza prendere in considerazione le realtà e le dinamiche del passato, che egli ritiene indispensabili per capire il presente.
L’articolo è stato letto, citato e tradotto in varie lingue, ma la ricezione ha privilegiato ciò che riguardava la storia, tralasciando spesso quello che riguardava le altre scienze dell’uomo. Le ragioni di tale scarto tra le intenzioni dell’autore e la ricezione da parte dei lettori meriterebbero senz’altro di essere precisate. Mi sembra che due abbiano pesato in modo determinante. La prima: la proposta alleanza tra storia e scienze sociali si poneva in termini diversi in vari Paesi, in particolare a seconda del posto che occupava la storia nell’ambito delle scienze umane, per esempio negli Stati Uniti o in Germania. La seconda ragione è complementare: negli anni Sessanta è stata la storia la base militante dell’influenza esterna delle «Annales» ed è stata ancora la storia a indurre almeno parte degli storici a identificare la loro disciplina con le scienze sociali.
Tale svolta avviene negli Stati Uniti intorno al 1968, e in date successive in altri Paesi, ma avviene anche nel momento in cui, nella stessa Francia, l’antropologia si sostituisce all’economia come interlocutrice principale e, in qualche modo, modello per gli storici.
L’articolo di Braudel teneva il piede in più staffe. Da un lato affermava la rottura della storia con la concezione evenemenziale con la quale si era a lungo identificata. Dall’altro lato, cercava di individuare i ponti e i possibili contatti tra i settori più avanzati della ricerca nelle altre discipline. Ma mirava anche, su un altro piano, a esplicitare ciò che distingueva le ambizioni della storia dagli obiettivi che Claude Lévi-Strauss aveva appena fissato per l’antropologia. Oggi a che punto siamo? Il riferimento alla «lunga durata» è ormai alle nostre spalle, accettato come dato di fatto, come citazione obbligata ma priva ormai di efficacia reale, almeno nell’Europa occidentale, per una storia sempre più attratta dal presente e occupata a esplicitare le sue procedure narrative? Tralascerei tutti i falsi problemi, imputabili essenzialmente a una lettura superficiale dei testi di Braudel, peraltro ricchi di sfumature. Basti ricordare una volta per tutte che la «lunga durata» non si definisce, o comunque non solo, con un numero di secoli o di millenni, bensì con la durata in vita dell’oggetto storico studiato, che fissa caso per caso la scala temporale — e spesso anche spaziale— dell’analisi. E che essa non è semplicemente il passato ma ciò che, nel passato, «spiega il presente», e quindi in particolare la presenza del passato nel presente, mantenuta viva e attiva dalle decisioni, i gesti, i modi di vivere, pensare e reagire degli individui concreti.
Le due piste delle predeterminazioni e della tradizione si trovano poi riunite in Braudel alla base della sua definizione del concetto di «civiltà». Per lui tutte le civiltà s’iscrivono in uno spazio e in una durata infinitamente più lunghi rispetto a quelli della politica e persino della religione. Ma è ben attento a precisare che esse si definiscono anche per ciò che danno alle altre, per ciò che prendono (da cui un margine d’innovazione anche all’interno della lunga durata) e persino per ciò che rifiutano, per affermare «se stesse» e la propria specificità. Tale prudenza, giustificata dall’esperienza del passato, è stata quasi sempre dimenticata, nei dibattiti successivi all’11 settembre, da tutti i seguaci di Samuel Huntington attratti dall’idea di un’inevitabile guerra tra civiltà concepite come altrettanti insiemi rigidi, incapaci di comunicare tra loro e, soprattutto, identificati quasi sempre con la sola dimensione religiosa.
L’altra pista, quella della tradizione, è stata più di recente sottoposta a una duplice critica. La prima, di Eric Hobsbawm e Terence Ranger sull’invenzione della tradizione, contrappone i meccanismi di costruzione «attiva» della tradizione alla visione semplicistica di pura trasmissione passiva, e fa di tali tradizioni costruite degli oggetti di storia, databili nel tempo, collocabili nello spazio, attribuibili ad attori sociali e istituzionali identificabili, reinterpretati più o meno liberamente dalle generazioni successive in funzione dei bisogni del momento: tutto ciò le fa passare dallo status di «descrizioni oggettive», che gli specialisti di «tradizioni popolari» si erano dati l’obiettivo di registrare per proteggerle dall’oblio e per capire dall’interno le società che le vivevano al presente, allo status di «rappresentazioni», che devono trovare il loro posto in una storia sociale della cultura e in una storia culturale della società.
La seconda critica si colloca sullo sfondo delle posizioni di antropologi che, come Marshall Sahlins, suggeriscono di sostituire alla formula «più cambia, più è la stessa cosa» (il tempo immobile) la formulazione inversa, «più è la stessa cosa, più cambia», che ci avvicina al tempo quasi immobile, lento a scorrere ma che comprende sempre una parte di cambiamento, proposta da Fernand Braudel. Vi aggiunge però il fatto che l’innovazione, per forzare le porte del conservatorismo delle società, ha bisogno di nascondersi dietro il rispetto della tradizione.
Un modo per superare le contrapposizioni sarebbe quello di seguire le piste che le scienze esatte hanno definito e tracciato per le loro esigenze e che fino a oggi, salvo poche eccezioni, hanno avuto scarsa eco nelle scienze sociali: meriterebbero di essere esplorate sistematicamente. Come quelle offerte negli ultimi decenni dalle analisi della disseminazione, della biforcazione e del caos, della complessità o dell’analisi stocastica. Aprono la strada ad altre letture e interpretazioni della «lunga durata», che hanno in comune il fatto di introdurvi l’idea di rottura e cambiamento e di orientare le scienze sociali verso rappresentazioni non lineari del tempo e verso analisi delle società in termini di sistemi dinamici. Le prospettive che esse ci propongono sono, su più di un punto, radicalmente diverse da quelle che hanno guidato l’ideazione e la stesura del famoso articolo. Ma hanno il merito di offrirci altre soluzioni possibili agli interrogativi posti dall’articolo e per i quali Braudel ha proposto una prima serie di risposte, delle quali oggi percepiamo meglio gli inevitabili limiti malgrado la loro fecondità e l’impatto che hanno avuto sulla ricerca. Ma una cosa è sicura: se esse invitano a rimettere in discussione certezze da lui condivise all’epoca con gli specialisti, e che sono ancora quelle di molti di noi, certamente avrebbero affascinato Fernand Braudel.
(Traduzione di Anna Maria Brogi)
Oggi 1.7.09
Nessuno in Italia s'indigna per i diritti calpestati?
di Emma Bonino
Certo, anche contro la repressione degli ayattolah c’è chi è sceso in piazza. Ma dove sono le «armate» dei pacifisti?
Risponde Emma Bonino
Non appena ci sono giunte le prime notizie, e soprattutto le prime immagini, dalle strade di Teheran, all’indomani di elezioni evidentemente fraudolente, Radio Radicale e Il Riformista hanno organizzato a Piazza Farnese a Roma una manifestazione pubblica coinvolgendo tutte le forze politiche, i sindacati, le associazioni. Ci sono poi state tante altre manifestazioni in giro per l’Italia, ad esempio a Trieste durante il G8 dei ministri degli Esteri, come pure in giro per il mondo.
Il ruolo sempre crescente di Facebook, Youtube o Twitter aiuta a canalizzare sostegno e solidarietà: per questo ritengo che la Rete sia uno strumento potente di comunicazione per una mobilitazione che richiede sforzo e organizzazione, come i cortei, i sit-in o i concerti come quello promosso da Joan Baez. Ma tutto questo non basta. Non ho per esempio visto alcuna mobilitazione dei pacifisti, di solito così solerti a scendere in piazza: forse perché non c’era alcuna bandiera americana o israeliana da bruciare?
Di fronte all’oppressione che non accenna a diminuire, le voci di gruppi o di singole persone, anche autorevoli, che continuano ad alzarsi in Occidente – punto di riferimento per una moltitudine di iraniani – non devono rimanere isolate ma aumentare fino a creare quella massa critica che è finora mancata. E’ presto per dire se in Iran la violenza del regime soffocherà l’Onda Verde di protesta ma noi dobbiamo fare di tutto affinchè questo processo innescato da una forte richiesta di cambiamento non si spenga e, anzi, diventi irreversibile.
Un modo per farlo è di non distogliere lo sguardo neppure quando il regime oscura la Rete o quando cesserà il fermento nelle piazze.
Il Secolo d’Italia 1.7.09
E Pannella riapre il gioco a tutto campo
di Luca Maurelli
Le notizie sono due. La prima è preoccupante: i Radicali rischiano di chiudere bottega. La seconda invita all’attenzione: nel futuro, ammesso che ci sia un futuro, Pannella vuol coltivare idee e persone di un’area politica considerata interessante, quella della destra moderna e laica che governa con una propria idea di società e dei diritti civili. E le protagoniste del "dialogo possibile" sono due donne, Renata Polverini e Giulia Bongiorno. A dispetto di quanto scritto nei giorni scorsi, la chiave di lettura dell’assemblea dei Mille di Chianciano e del Comitato conclusosi ieri, non è l’apertura di credito alla sinistra radicale, o comunque non solo. Anche ieri, nel corso della riunione dell’organismo dirigente chiamato ad approvare la mozione politica generale, s’è discusso a lungo della strategia dell’attenzione di Marco Pannella verso Gianfranco Fini, degli spunti politici che arrivano dalla destra politica e sindacale e di possibili sinergie sul fronte delle riforme, dal welfare alla giustizia. Ma prima di fare progetti c’è da risolvere la crisi finanziaria. Le parole, per i Radicali, hanno sempre un peso specifico, dunque c’è da essere davvero preoccupati se nel documento c’è scritto "drammatica crisi organizzativa e finanziaria, e dunque politica", come è messo nero su bianco nella mozione approvata ieri. Una crisi che "mette in discussione la stessa esistenza" del partito radicale, al punto che qualcuno si spinge a ipotizzare una possibile chiusura della storica sede di Torre Argentina. «La crisi politico-economica di Radicali italiani è giunta a un punto tale che il movimento non ha nemmeno le disponibilità necessarie a rinnovare i contratti di collaborazione, la cui scadenza era stata già preventivamente fissata per il 30 giugno, e a proseguire le iniziative, con il rischio che entro pochi giorni tutte le attività debbano essere completamente interrotte», afferma il testo. Sul piano politico, invece, le certezze sono maggiori. L’obiettivo è quello di spingere su un grande progetto riformista che coinvolga trasversalmente le forze politiche, l’idea di un welfare universale, la battaglia sulle pensioni, il modello presidenziale americano, la giustizia, le carceri. Proprio sulla questione delle condizioni di vita dei detenuti, Rita Bernardini prosegue una battaglia importante che in Commissione Giustizia della Camera passa attraverso una forte collaborazione con Giulia Bongiorno, una delle più significative rappresentanti di quell’area politica che nasce intorno a Gianfranco Fini. In cantiere c’è una mobilitazione a sostegno della comunità penitenziaria che si traduca, nel mese di agosto, in due giornate di presenza straordinaria nelle duecentocinque carceri italiane di parlamentari, consiglieri regionali, garanti dei diritti dei detenuti. Nonostante il recente scambio di lettere, in questi giorni di lavori dei Radicali Marco Pannella non ha mai citato esplicitamente il presidente della Camera, che per correttezza istituzionale non può essere considerato un interlocutore politico in senso stretto, ma di quel dialogo s’è parlato a lungo, e con toni di grande interesse, nel corso del Comitato, come nel caso dell’intervento di Michele Capano che ha aperto un approfondito dibattito sul tema. Marco Pannella, lunedì, nel corso di un breve intervento mattutino e di uno più lungo nel pomeriggio, aveva sviluppato alcuni ragionamenti interessanti sul dialogo con la destra, spingendo in modo particolare sul tasto del riformismo possibile grazie alla lungimiranza di sindacati nuovi e rappresentativi come l’Ugl di Renata Polverini. In un lungo passaggio del suo intervento, Pannella aveva fatto riferimento all’idea di una riforma del welfare universale, secondo un’impronta salveminiana, partendo da quella preoccupazione del grande storico meridionalista sul rischio di creare attorno alla classe operaia un cerchio di privilegio assoluto che facesse passare in secondo piano la necessità di coinvolgere in un circuito virtuoso anche chi di tutele, in realtà, non ne ha assolutamente. Oggi - ha spiegato Pannella - anche Pietro Ichino converge sulla necessità di una riforma delle pensioni, del lavoro femminile, dell’innalzamento dell’età pensionabile. E qui il ragionamento si sposta sull’Ugl, «che ricorda Pannella - anche a Mirafiori ha ottenuto una grande affermazione, in un contesto storicamente operaio». In questo senso - spiega il leader radicale - «la presenza qui di Renata Polverini ha avuto un significato straordinario, anche per le cose che ha detto, credo per la prima volta». Pannella fa riferimento all’apertura dell’Ugl sul tema dell’equiparazione dell’età pensionabile tra donne e uomini, forse forzando un po’ il concetto visto che l’Ugl si dichiara comunque contraria di principio, ma senza rinunciare all’idea di poter fare riforme col consenso delle forze politiche e sociali. Centrale è stata, secondo Pannella, «la frase di Renata, quando dice che il sindacalismo deve negoziare e contrattare, quindi il problema è che queste misure si possono anche fare, ma con la garanzia che i benefici effetti siano spalmati per riempire i deficit e i buchi di assistenza su questioni come la maternità e la famiglia». E qui il leader si concede un’altra piccola esegesi del pensiero polveriniano, sul concetto di famiglia, passaggio delicato: «Lei ha parlato di famiglia nel momento in cui si costituisce come riferimento economico, quindi anche di di fatto o giuridica...». E giù lodi all’Ugl che sa comprendere e parlare a una nuova realtà operaia, a differenza di altre sigle che invece «continuano a creare spessore tra la condizione esistenziale e quella del proprio lavoro, tra la loro sensibilità e i comportamenti politici...». Pannella sembra fare riferimento all’incapacità della triplice di emanciparsi dalla rappresentanza politica, sindacale e quasi antropologica dell’operaio, per provare invece a interpretarne le aspettative in una società profondamente diversa dal passato. Poi il messaggio finale, di apertura a chiunque abbia voglia di trarre «conseguenze dal proprio vissuto politico», come per le grandi battaglie civili del passato, fatte anche con i cattolici, l’Msi, con la Dc, come sul divorzio, «quando quel 25 maggio 1975 una possibile vittoria stentata si trasformò in un grande trionfo civile per tutti».
Liberazione 1.7.09
Religione, astrazione e alienazione
Caro direttore, davvero interessante che nella tomba di san Paolo siano stati trovati i resti di san Paolo. Come a dire che in un pacchetto di patatine si trovano... delle patatine. Eppure la notizia rimbalza su tutti i quotidiani, proprio nel giorno dedicato all'onomastico di tutti i Paolo (e Pietro): potere secolare, potere mediatico. Come si può sperare, in questa Italia baciapile, di condurre e di vincere una battaglia per la laicità dello Stato? Con quale speranza possiamo continuare a denunciare l'uso improprio che la chiesa cattolica fa dell'otto per mille e di tutte le sue proprietà in suolo straniero? Come contrastare le sue ingerenze, invadenze, indifferenze... Ma soprattutto, come uscire dall'astrazione e dall'alienazione religiosa quando astrazione e alienazione religiosa sono i cardini su cui ruota la porta della nostra realtà?
Paolo Izzo via e-mail