mercoledì 1 luglio 2009

il Riformista 1.7.09
Intervista
Parla Ingrao: «Altro che caso Montesi, le fanciulle di Berlusconi sono vicenda più grave»
Sexgate Pietro Ingrao fa autocritica sulla campagna di cinquant'anni fa. «Fanfani ci passò le prime notizie»
di Stefano Cappellini


Sono passati più di cinquantacinque anni, ma Pietro Ingrao lo ricorda ancora bene l'editoriale in cui la questione morale irruppe ufficialmente sulla scena politica italiana. Perché quell'editoriale lo scrisse lui, il 7 febbraio 1954, sull'Unità di cui era direttore, trasformando le indiscrezioni sul giallo della morte di Wilma Montesi, una fanciulla trovata morta l'anno precedente sulla spiaggia romana di Tor Vajanica, e probabilmente morta durante un festino partecipato da nomi in vista della società d'allora, in un atto d'accusa dell'organo ufficiale del Partito comunista italiano contro il Palazzo e la Democrazia cristiana, partito di maggioranza relativa.
Scrisse Ingrao: «Collegate all'affare Montesi, in una successione drammatica, sono venute le rivelazioni, o almeno le denunce, circa un torbido settore di affari equivoci, di traffici di droga, di corruzione, che sconfinava nel mondo politico ufficiale. E il caso giudiziario si è mutato in una seria "questione morale". È vano che il partito dominante protesti».
Non c'è che dire: la questione morale, da allora, ha avuto una certa fortuna nel dibattito politico. Ed è inutile girarci intorno: se nel testo del 1954 si sostituisse «affare Montesi» con «sexgate», quello che ha investito Silvio Berlusconi, non ci si stupirebbe a ritrovare l'editoriale, parola per parola, in una rassegna stampa della settimana scorsa. Allora come oggi, pare saltato ogni confine tra pubblico e privato del Potere, tra gossip e propaganda, tra prurigine di massa e diritto all'informazione. Ingrao ha vissuto in prima fila il caso Montesi e da lettore il caso Berlusconi: «E io - dice al Riformista - trovo molto più grave quello che è successo in questi giorni. Una vicenda sessuale brutta e sgradevole, che coinvolge direttamente un leader politico, cosa che non successe all'epoca, e lo coinvolge al massimo livello, dentro casa sua, e non per un fatto di cronaca iniziato su una spiaggia qualunque».
Cosa ricorda del caso Montesi?
Fu una campagna che impegnò molto il giornale, e me personalmente.
Secondo alcune ricostruzioni fu addirittura Palmiro Togliatti a chiederle di informarsi bene sul caso, perché forse era coinvolto il figlio di un importante politico democristiano, il vicepresidente del Consiglio Attilio Piccioni, e il Pci ne poteva trarre vantaggio politico...
Non ricordo la telefonata di Togliatti. Ricordo, questo sì, che parlai con lui del caso, perché la vicenda di questa povera fanciulla, di cui erano usciti solo alcuni frammenti sulla stampa, richiamò subito la nostra attenzione politica quando ci rendemmo conto che ne era invischiato Piero Piccioni, il figlio del potente democristiano. Ma fu più una campagna dell'Unità che del partito. Io poi rimasi colpito dalle prime voci per un'altra ragione, che avevo conosciuto il fratello di Piero.
E come?
Lo avevo incontrato in Toscana, mi pare. Lui era uno studioso della letteratura del Novecento e ne dava una lettura che a me piaceva molto, soprattutto sul filone più caro alla nostra parte, quello ungarettiano e montaliano.
All'inizio la stampa non scrisse nulla delle tante voci di corridoio sulle indagini che puntavano in alto. Poi cominciò una gara a rivelare dettagli sempre più scabrosi e a tirare in ballo nomi pesanti. Da chi le arrivò la soffiata sul coinvolgimento del figlio di Piccioni?
Ricordo nettamente che le prime notizie, le prime spiate sugli ambienti di Capocotta dove si erano svolti i fatti e quindi la spinta a occuparci del caso vennero da Amintore Fanfani e dai fanfaniani. Furono loro a metterci sulla pista, spingendoci a "seguire bene" la cosa. E noi trovammo appoggio negli ambienti del ministero degli Interni, di cui Fanfani era titolare, dove c'era un segugio che ci passava informazioni.
Fanfani era il leader della corrente opposta a quella di Piccioni. Non pensò che l'Unità correva il rischio di prestarsi a un regolamento di conti interno alla Dc? Che c'era una regia dietro lo scandalo o presunto tale?
Fanfani era considerato l'uomo del futuro democristiano. Veniva dalla comunità del Porcellino, con Dossetti e La Pira. Si presentava come più sensibile ad aprire un dialogo coi comunisti.
Nessuno scrupolo nel puntare il dito su persone, che poi risultarono estranee ai fatti, solo sulla base di voci?
Ci gettammo come lupi su questo giallo. Fui assolutamente dominato dalla spinta a mettere sotto accusa il regime dc. Non dimentichiamo cosa erano quegli anni. Noi avevamo preso uno scacco grave nel 1948, che aveva dato spazio a quella parte della Dc più nettamente schierata per una guerra dichiarata con noi. Il ministro dell'Interno Scelba faceva sparare sulle manifestazioni di piazza, tutto sommato con la copertura da parte di De Gasperi. Sono anni di eccidi e di sangue, soprattutto nel Mezzogiorno, in Toscana e in Emilia. Questo era il clima.
E giustificava la messa in stato di pubblica accusa di un giovane solo perché "figlio di"?
Capisco la domanda, ma noi eravamo spinti a sviluppare una controffensiva a quello che era il dilagare della forza e della potenza della Dc. E la singolarità romanzesca del caso Montesi, con quella ragazza ritrovata su quel lembo di spiaggia, si prestava. Un giallo perfetto. Come direttore del giornale tenevo molto alla combinazione della battaglia politica con la narrazione giornalistica. Quindi stare sugli eventi anche di cronaca, associare alle grandi vicende di scontri e accuse col potere democristiano, il racconto della parte "nera". C'era il gusto di scoprire e montare gli scandali, accusando la Dc non solo sul terreno schietto dell'azione politica ma su quello della corruzione che dal potere veniva nella vicenda politica italiana.
Lei direbbe lo stesso di Berlusconi?
Una premessa. La mia critica a Berlusconi riguarda altre cose, la linea politica e le forze sociali che rappresenta. Ciò detto, non si può passare sopra questa vicenda delle fanciulle.
E se il sexgate fosse un altro frutto avvelenato della lotta politica?
Veramente non mi sembra. Mentre devo ammettere, col senno di poi, che non era successo nulla di particolarmente rilevante nel caso Montesi. Piccioni ministro non aveva nulla a che fare con quella gente lì, e forse anche suo figlio non era coinvolto direttamente. Ciò nonostante Piccioni si dimise, e non è cosa di poco conto.
Gian Carlo Pajetta, altro dirigente del Pci, coniò un neologismo per indicare i protagonisti di questa videnda: i "capocottari", perché la casa dei misteri del caso Montesi era la tenuta di Capocotta del marchese Ugo Montagna.
Era un modo molto efficace di definire tutto un ceto politico. Di cui peraltro Piccioni non faceva parte. Era figura storica della Dc, schierato nella lotta antifascista, personalità di risonanza europea, non uno dei democristiani tignosi, bensì cauto, riservato. In fondo, scatenavamo quell'attacco per colpire un dirigente che non era un bersaglio naturale, come poteva essere Scelba o uno scelbiano.
In scandali di questo genere si dà molto rilievo all'eco che si produce all'estero.
Colpire la politica di alleanze della Dc, la potenzialità di espansione, era un obiettivo, perché per loro era importante collocarsi in modo forte nello schieramento "americano".
Un ultima domanda, tornando all'oggi. Giorgio Napolitano - con cui ha condiviso decenni di militanza nel Pci, seppur su fronti interni opposti - ha chiesto una sospensione delle polemiche sul presidente del Consiglio in occasione del G8 dell'Aquila.
Rispetto molto l'opinione del presidente della Repubblica, però ho seri dubbi sulla sua proposta. Che significa sospendere una questione che brucia in questa maniera? Non parlarne più sui giornali? Ma il fatto ci sta, non si può cancellare l'oggettività degli eventi».

l’Unità 1.7.09
PD radicali e senza quorum
Manovre oltre lo sbarramento
di Luigi Manconi


L’assemblea di Chianciano, dello scorso fine settimana promossa dai Radicali italiani, ha offerto spunti di grande interesse. Il primo: la gran parte dei «senza quorum» - ovvero militanti e dirigenti delle formazioni che non hanno superato la soglia del 4% (socialisti, verdi, vendoliani...) - hanno mostrato di voler tessere una tela comune con i Radicali, di voler tentare forme più avanzate di aggregazione, di voler elaborare una prospettiva dove l’opzione unitaria prevalga sull’immarcescibile spirito di scissione.
Sarà il tempo a dire se tali intenzioni si tradurranno in opere conseguenti. Personalmente fatico ad accreditare quella prospettiva: in primo luogo perché affidata essenzialmente alle sole forze dei Radicali italiani, gli unici che ne sembrano incondizionatamente convinti, e che più hanno insistito su questioni di merito e di programma. E tuttavia, quanto succede in quell’area e in quello spazio politico va osservato con la massima attenzione e il massimo rispetto: perché quell’area non solo è consistente sotto il profilo elettorale (3/5 %), ma è anche ricca di idee e di esperienze, di militanza e di intuizioni di notevole significato.
Ancor più, pertanto, stupisce che - rispetto all’assemblea di Chianciano e a quanto vi si è discusso - il silenzio del Pd sia stato così assordante. Così come quello degli attuali candidati alla segreteria del partito. Eppure, quell’assemblea chiama in causa due questioni di grande rilievo: la capacità di aprire il Pd a esperienze, culture e militanti provenienti da altri percorsi, e di garantire loro, attraverso regole democratiche, spazio adeguato e pari dignità; e la necessità di elaborare una indispensabile e accorta politica delle alleanze. Problema, quest’ultimo che interpella in ogni caso il Pd, se aspira a vincere e a governare.
Temo che si possa ripetere quanto è accaduto in occasione delle ultime elezioni: la preziosa esperienza della delegazione radicale all’interno dei gruppi parlamentari democratici è stata ignorata e si è scelto, per responsabilità primaria della leadership del Pd, di non riprodurla nella formazione delle liste per le Europee.
La cosa appare, in ultima analisi, autolesionista. Giova ripeterlo: all’interno del Labour party, hanno convissuto per decenni Tony Blair e i sindacalisti massimalisti, Gordon Brown e i trotskisti. È fin troppo banale notarlo: la situazione italiana è ampiamente diversa, ma possibile che l’esperienza inglese non abbia alcunché da insegnarci? Pertanto, insisto a chiedere con ingenuità consapevole: perché mai Dario Franceschini e Pierluigi Bersani dovrebbero aver paura della tenera Emma Bonino?

l’Unità 1.7.09
Chi boicotta la pillola RU486
Contro i furori ideologici
di Sergio Bartolommei


Continua e si intensifica la campagna di lotta (Avvenire) e di governo (Sottosegretario Roccella) contro la registrazione in Italia della pillola Ru486.
Si tratta, come ormai tutti sanno, di un farmaco per l’interruzione della gravidanza che costituisce un’alternativa chimica alla via chirurgica. Il prodotto (due diversi tipi di pillola) è impiegato da tempo in 13 Paesi sui 15 della ex-Europa. Sono passati quasi due anni da quando è stata inoltrata all’Agenzia Italiana del Farmaco la domanda di «mutuo riconoscimento». Si trattava solo di stabilire prezzo e modalità di prescrizione. Tra intoppi, richieste di «delucidazioni» e continui rinvii l’Agenzia è riuscita a dilatare oltre misura i tempi dell’approvazione. C’è il timore che nessun ulteriore chiarimento da parte della ditta produttrice sulla sicurezza del farmaco potrà mai spuntarla sui furori ideologici di chi è deciso a ostacolarne l’introduzione nel nostro Paese.
Nel concreto la tendenza ad alzare l’asticella e pretendere dal farmaco abortivo prove di assoluta innocuità (impossibile da ottenere per qualsiasi tipo di medicinale) ha conseguenze paradossali per le donne.
In primo luogo, facendone mancare o ritardandone l’adozione, le condanna a ricorrere al metodo chirurgico con tutti gli inconvenienti (anestesia e invasività) che comporta.
In secondo luogo non tiene conto, a fronte dei rischi (rari e remoti: 1 su 100.000) di morte connessi alla assunzione della Ru486, dei rischi reali che molte donne corrono ancora nel Sud del Paese dove, a detta degli esperti, ancora un quarto degli aborti è clandestino.
Inoltre trascura che il rischio di morte in caso di aborto chimico, se è superiore al rischio di aborto chirurgico, è identico a quello per aborto spontaneo e inferiore a quello di morte in gravidanza (e nessuno si batte per abrogare le gravidanze).
Infine, se le perplessità riguardassero davvero i rischi connessi all’assunzione del farmaco, il buon senso comune suggerirebbe non già di boicottarne l’introduzione, ma fornire informazioni accurate rispettando comunque l’esercizio della libertà di scelta.
Se questo non accade viene il sospetto che l’obiettivo non sia tanto quello prudenziale di garantire l’aborto in condizioni di sicurezza, bensì quello di principio di impedire una modalità abortiva che offre alle donne un controllo più diretto della riproduzione e riduce il potere di veto connesso all’obiezione di coscienza dei medici.
*Dipartimento di Filosofia Università di Pisa

l’Unità 1.7.09
L’ombra della Stasi sul ’68 tedesco
di Gherardo Ugolini


Le cronache raccontano che il vero inizio del Sessantotto tedesco fu il 2 giugno 1967 a Berlino quando lo studente Benno Ohnesorg, durante una manifestazione di protesta contro la visita in Germania dello scià di Persia Reza Pahlavi, fu ammazzato dal poliziotto Karl-Heinz Kurras. Quel colpo di pistola segnò un punto di svolta per il movimento degli studenti tedeschi. La protesta si radicalizzò allargandosi a tutta la nazione e in certi casi assumendo il carattere della guerriglia urbana e del terrorismo. Il nemico era, ovviamente, la Bundesrepublik, lo stato della Germania Occidentale considerato autoritario e violento: uno stato che non esitava a far sparare i suoi poliziotti contro gli studenti inermi. Questa è la storia tramandata per quattro decenni. Una storia che forse dovrà essere rettificata, se non addirittura riscritta da cima a fondo. Sì è scoperto infatti che a sparare quel fatale colpo di pistola era stato in realtà un agente della Stasi, i servizi segreti della Ddr, infiltrato nelle file della polizia federale dell’ovest. A fare la sensazionale scoperta sono stati due storici, Helmut Müller-Enbergs e Cornelia Jas, i quali hanno ritrovato nell’archivio della Stasi le carte che testimoniano l’appartenenza di Kurras alla polizia segreta della Germania comunista.
La rivelazione ha suscitato grande scalpore nell’opinione pubblica e sui mass media. «È come se in America si scoprisse che dietro l’omicidio di J.F. Kennedy c’era il Kgb», ha commentato Stefan Aust, ex direttore del settimanale Der Spiegel. E Reinhard Müller in un editoriale sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung si è interrogato su quanto sia stato grande l’influsso esercitato dalla Stasi nelle vicende della Germania Occidentale durante la guerra fredda oltre che sulla necessità di rivedere in una nuova luce tanti passaggi della storia recente, man mano che dagli archivi arrivano nuove scoperte. Già si sapeva che Marcus Wolf, il grande boss dell’intelligence tedesco orientale, era riuscito ad infiltrare i suoi agenti negli apparati politici e amministrativi della Germania Ovest fino ai massimi livelli. Si sapeva di campagne di disinformazione costruite ad arte, di pesanti condizionamenti in votazioni parlamentari. Si sapeva che perfino il cancelliere Willy Brandt era stato spiato, così come si sapeva che alcuni terroristi della RAF erano stati sovvenzionati, addestrati e ospitati sotto falso nome dal regime di Berlino Est. E adesso il caso Kurras e l’ipotesi che il governo della Ddr abbia soffiato sul fuoco della protesta così da provocare un’escalation sempre più incontrollabile. La stagione del Sessantotto tedesco è dunque tutta da riscrivere? Meglio non eccedere in revisionismi affrettati. Intanto non è chiaro se Kurras abbia ricevuto un ordine ufficiale di sparare. E poi il Sessantotto tedesco ci sarebbe stato anche senza i giochi sporchi degli 007 della Ddr. È chiaro tuttavia che se allora si fosse saputo che il colpevole era un agente della Stasi, lo scenario sarebbe stato ben diverso e forse la contestazione avrebbe preso altri canali.

l’Unità 1.7.09
Sanità e appalti
Vendola azzera la giunta pugliese e apre a Idv e Udc
di Massimo Solani


Tornato dal Canada ha scelto la «discontinuità». Noi «siamo il buon governo»
Sospensione cautelareper la Costantini dopo l’inchiesta sulla corruzione con Tarantini
«Io non ho cacciato nessuno. Apprezzo molto la responsabilità dei membri della giunta che hanno rimesso le proprie deleghe comprendendo la necessità di dare ulteriori segnali di discontinuità perché la Puglia continui ad essere laboratorio di buon governo e cambiamento». Di rientro dal suo viaggio istituzionale in Canada il presidente della Puglia Nichi Vendola annuncia così l’azzeramento della giunta regionale dopo un pomeriggio trascorso nel tentativo di trovare una quadra fra i miasmi delle inchieste su sanità escort e cocaina e l’esigenza di «riconsiderare la natura e il patto di centrosinistra ridiscutendone contenuti e perimetro». Parole che aprono la strada all’ingresso nella maggioranza dell’Italia dei Valori e dell’Udc. E, probabilmente, anche al movimento “Io Sud” si Adriana Poli Bortone.
burrasca
Ma che sulla Puglia ci fosse aria di burrasca lo si era capito già dalle prime ore del pomeriggio quando la giunta aveva deciso la sospensione cautelare del direttore generale della Asl Bari vicina al Pd Lea Cosentino, indagata assieme a Gianpaolo Tarantini e ad alcuni imprenditori locali per turbativa d’asta e corruzione in merito ad un maxi appalto sanitario. Una discussione che, inevitabilmente, era presto virata anche sul futuro politico del vicepresidente Sandro Frisullo (Pd). Anche lui, stando alle indiscrezioni, coinvolto nelle intercettazioni dell’inchiesta del pm Giuseppe Scelsi sui festini organizzati da Gianpi.
Vendola avrebbe chiesto a Frisulla di fare un passo indietro, ma vista l’opposizione, ha poi deciso di azzerare l’intera giunta.
Inchiesta
Inchiesta che, ha spiegato ieri il procuratore Emilio Marzano, sarà chiusa entro luglio. Così, dopo ore di braccio di ferro, la decisione di azzerare tutto e ricominciare daccapo. Perché, secondo Vendola, «la questione morale non è un argomento buono solo per le campagne elettorali. E noi non vogliamo che un laboratorio di cambiamento e moralizzazione quale la Puglia venga tirato dentro a queste vicende giudiziarie».
Una mossa difensiva che nei progetti del governatore cammina di pari passo all’esigenza di approfondire «un dibattito iniziato all’indomani delle elezioni europee e amministrative». Quello cioè di allargare la coalizione di governo a partiti come l’Idv e l’Udc. «Vogliamo interloquire con tutti i soggetti interessati all’arricchimento della Puglia – è l’idea di Vendola per una fase che +non si annuncia né breve né facile – vogliamo farlo con realismo ma senza accettare atteggiamenti trasformistici».
«Discontinuità, la Puglia deve continuare a essere un laboratorio del buon governo». Con queste convinzioni il presidente della Puglia Nichi Vendola ha azzerato la Giunta. Prosegue l’inchiesta sulla Sanità.

l’Unità 1.7.09
«A sud di Teheran gli orrori della Guantanamo iraniana»
Un dissidente esule negli Usa denuncia torture e uccisioni in un carcere segreto
Il potere annuncia tribunali speciali per gli oppositori arrestati in questi giorni
di Gabriel Bertinetto


Ahmadinejad ha la sua Guantanamo, denuncia un attivista iraniano per i diritti umani che vive negli Usa. È una prigione segreta fuori Teheran dove gli oppositori vengono interrogati, torturati e a volte uccisi.

Mahmoud Ahmadinejad si scaglia contro i «complotti orditi dai nemici che volevano rovesciare il sistema». Secondo lui quei piani sono stati sventati ed il Consiglio dei guardiani della rivoluzione ha sancito una volta per tutte la regolarità della sua riconferma alla guida del Paese. Il voto, dice Ahmadinejad, è stato un referendum pro o contro la Repubblica islamica, ed i sì hanno nettamente prevalso. Il suo rivale Mir Hossein Mussavi non si dà per vinto e sul suo sito online chiede ancora l’annullamento di un voto macchiato da enormi brogli.
TRIBUNALI SPECIALI
A Teheran si preparano i processi agli oppositori arrestati durante le manifestazioni dei giorni scorsi. Il capo dell’apparato giudiziario, l’ayatollah Mahmud Hashemi Shahrudi, ha ordinato la creazione di una «Commissione speciale» che dovrà gestirli.
Trepidazione per la sorte degli oppositori in carcere (centinaia o migliaia, non ci sono cifre certe) emerge dalla denuncia di un dissidente ed attivista per i diritti umani rifugiato negli Stati Uniti. Si chiama Bahram Moshiri ed ha raccolto informazioni dettagliate da membri degli apparati di sicurezza iraniani, che ovviamente chiedono l’anonimato. Se il racconto di Moshiri corrisponde al vero, a Shahr-e-Rey, appena a sud di Teheran, il regime di Ali Khamenei e Mahmoud Ahmadinejad ha allestito un carcere segreto in cui relegare gli oppositori per strappare loro confessioni sotto tortura e giustiziarli. Moshiri la definisce una «Guantanamo iraniana».
SERGENTE IN CONGEDO
Il dissidente dice di essere stato contattato da un «sergente» in pensione dell’esercito, evidentemente disgustato da ciò di cui era a conoscenza. Da lui ha saputo che le persone arrestate per ragioni politiche in varie parti dell’Iran vengono prima radunate nella base di Eshrat Abad, a Teheran e poi spostate a Shahr-e-Rey. La prigione sorge vicino alla zona industriale di Kahrizak, confusa fra capannoni e magazzini. Sembra che sia stata costruita un anno fa, ma non è chiaro da quanto tempo sia in funzione. Per Moshiri, citato dal sito online dell’ong italiana «Secondo protocollo», in questa fase viene usata per «mettere i prigionieri sotto tortura affinché confessino di essere stati ingaggiati da Usa e Gran Bretagna per attuare una rivoluzione di velluto nella Repubblica islamica». Rivoluzione di velluto è il termine usato per descrivere la pacifica fuoriuscita dal comunismo in Cecoslovacchia nel 1989. Con la stessa espressione i Pasdaran hanno definito un presunto piano dell’opposizione per favorire il rovesciamento del regime teocratico attraverso grandi manifestazioni di piazza.
A Shahr-e-Rey gli interrogatori vengono condotti da una quindicina di aguzzini «fra i più feroci del regime», comandati da tre ufficiali. Nel complesso non ci sono medici né ambulatori. I reclusi sono «nutriti una volta al giorno con pane e patate». Sono sempre «nudi o in mutande» e nudi vengono interrogati. Moshiri conclude dicendo che «l’ordine superiore è di farli confessare e metterli a morte. Il numero delle esecuzioni deve assolutamente essere molto elevato per mettere terrore alla gente».

l’Unità 1.7.09
Intervista a Yael Dayan
«Sì al Nobel per Neda. In Israele scopriamo che c’è un altro Iran»
di Umberto De Giovannangeli


La scrittrice ex deputata laburista: «Le donne e i giovani di Teheran lottano contro il regime. Non esiste solo Ahmadinejad con le sue ossessioni»

Israele sta scoprendo l’esistenza dell’”altro Iran”. L’Iran delle donne e dei giovani che hanno sfidato la brutalità del regime per rivendicare libertà e diritti. Siamo di fronte a una protesta il cui valore va ben al di là dello stessa contestazione del risultato elettorale. Quelle donne, quei giovani dicono al mondo che l’Islam non è sinonimo di integralismo, che in Iran esiste una società civile proiettata nel futuro». A parlare è Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare laburista, figlia dell’eroe della Guerra dei Sei giorni: il generale Moshe Dayan. «Condivido le aperture al mondo islamico di Barack Obama - rimarca Yael Dayan - ma ciò non deve tradursi nell’accettazione dell’esistente. Di fronte ad un regime autoritario, teocratico, che reprime con la violenza una protesta popolare, occorre dire chiaramente che tra l’Iran di Ahmadinejad e quello che si riconosce in Neda (la studentessa uccisa in una delle prime manifestazioni a Teheran, ndr,), ogni coscienza democratica non può che stare con chi si batte per la libertà».
Fino a qualche settimana fa, Israele guardava all’Iran come a un Paese ostile, guidato da un presidente, Mahmud Ahmadinejad, che non ha mai nascosto i suoi propositi di annientamento dello Stato ebraico. Ed ora?
«Ora la percezione diffusa in Israele è profondamente cambiata. Abbiamo scoperto l’esistenza di un altro Iran. L’Iran delle donne, dei giovani, che hanno detto basta con un regime brutale, che non ha esitato a ordinare di aprire il fuoco contro i suoi stessi cittadini. Questo movimento ci dice che c’è un Iran che non ha come chiodo fisso la distruzione d’Israele, ma che punta ad una trasformazione interna del Paese, in nome di un Islam coniugato con i diritti e una società aperta...».
Resta il fatto che non ci sono state in Israele mobilitazioni di piazza a sostegno della «Primavera di Teheran».
«Bisogna fare esercizio d’intelligenza politica. Il regime non aspetta altro che poter mostrare in televisione il “Nemico” israeliano che si schiera a fianco degli “eversori” interni. Già vedo tuonare Ahmadinejad o Khamenei: ecco, vedete, i sionisti appoggiano i nemici della Rivoluzione khomeinista, ecco la prova del complotto ordito da America e Israele...Non dobbiamo cadere nella trappola, perché poi a pagarne il conto sarebbero quanti in Iran si oppongono al regime dei brogli. Questo non vuole dire, però, non cercare di mandare segnali di solidarietà e di vicinanza ai manifestanti di Teheran...».
Uno di questi segnali può essere quello indicato dalla scrittrice egiziana Nawal El Saadawi in una intervista a l’Unità: «Diamo a Neda e alle sue sorelle il Nobel per la pace»?
«Mi pare una iniziativa lodevole, da sostenere. Non è un caso che laddove c’è da battersi per difendere spazi di libertà, le donne siano in prima fila. Divenendo il simbolo di quanti non si arrendono a dittature brutali, a regimi autoritari e teocratici. Pensiamo ad Aung San Suu Kyi, o alla stessa Ingrid Betancourt... Ed oggi non c’è dubbio che le “donne in verde” rappresentano una spinta vitale della protesta».
Una protesta che qualcuno interpreta come un regolamento interno alle varie anime del regime.
«Mi sembra una lettura parziale, datata. Le istanze di cui l’”onda verde” di Teheran si fa portatrice, sono istanze di apertura, di diritti, di democrazia sostanziale che appaiono inconciliabili con il regime teocratico iraniano in tutte le sue sfaccettature...».
La protesta non sembra investire la questione nucleare.
«Non dobbiamo fare l’esame di maturità a quel movimento. Una cosa, da israeliana, mi sento però di sottolineare: quelle donne, quei giovani che sono scesi in strada non sono animati dall’odio verso Israele. Ed è significativo che le trasmissioni in farsi della radio israeliana vengono ascoltate da centinaia di migliaia di persone. Il dialogo è possibile, nel rispetto reciproco. E, da parte d’Israele, senza nessuna strumentalità».
Barack Obama ha usato parole molto dure nel condannare la repressione in atto in Iran, al tempo stesso non ha chiuso le porte a un confronto con l’attuale dirigenza iraniana.
«Condivido l’approccio del presidente Obama sull’Iran come sul rilancio del processo di pace israelo-palestinese. Ma l’Iran che può entrare in sintonia con il “Nuovo Inizio” da lui evocato, è l’Iran di Neda non certo quello di Ahmadinejad.

l’Unità 1.7.09
Pina Bausch, la rivoluzionaria
Muore la signora della danza
di Rossella Battisti


Si è spenta ieri a 68 anni. Del cancro che l’ha portata via erano a conoscenza solo gli amici
Ha fondatonel 1973 il Wuppertaler Tanztheater cambiando i connotati all’arte di Tersicore
Il panorama della danza contemporanea perde una delle sue figure più rivoluzionarie: Pina Bausch, fondatrice del Wuppertaler Tanztheater, è morta ieri. Aveva 68 anni ed era malata di cancro.

Pina Bausch se ne è andata dalla scena del mondo con un ultimo, tragico coup de théatre, dettato da un’agenzia secca che annunciava la sua morte a 68 anni. Come, perché, il rovescio confuso di domande sulla scomparsa inaspettata della Signora del Tanztheater (del cancro che l’ha portata via erano a conoscenza solo i fedelissimi), della coreografa che ha cambiato i connotati alla danza contemporanea, si dissolve su un fermo immagine, su quel volto scavato, lo sguardo struggentemente triste, i capelli liscissimi e raccolti in una perenne coda di cavallo. Il suo look di sempre, da sempre, come se negli occhi avesse impresso una fine presagita. Nel silenzio.
Di parole ce n’erano tante nei suoi spettacoli, i danzatori del Wuppertaler Tanztheater che la Bausch aveva fondato nel 1973 recitavano monologhi, cantavano, declamavano in scena poesie o confessioni intime. Ma erano frammenti di un flusso di coscienza interiore che si mescolava a memorie del quotidiano, un diario minimo della vita che parlava di un’assetata nostalgia di amore. Suoni di solitudine, interni di anime screpolate tra le sedie abbandonate di un bar (Café Müller del 1978, tra i primi e più celebri spettacoli), sentimenti stropicciati come foglie secche (il precedente Blaubart), danze declinate per più stagioni (Kontakthof, di cui ha fatto tre versioni per età differenti).
Philippine Bausch detta Pina era nata a Solingen nel 1940, adolescente nel buio dopoguerra tedesco frequenta la Folkwang Hochschule di Essen, dove Kurt Jooss, erede della danza espressionista e degli insegnamenti di Laban, è tornato dall’esilio per lavorare alle sue concezioni di teatrodanza. Grazie a una borsa di studio, Pina conosce anche la frizzante realtà americana degli anni 60 nella prestigiosa Juilliard School di New York, con la modern dance di José Limón e i balletti «psicologici» di Tudor che la scrittura per i suoi lavori. Anche Jooss la vuole e Pina torna in Europa. È un richiamo controverso alle sue radici, in una Germania cupa e grigia, stretta nella morsa del senso di colpa. Sono gli stessi anni e le stesse atmosfere e la stessa terra desolata che Fassbinder descrive nei suoi film. E che Pina riassume con altrettanta visionarietà nei suoi lavori. Stücke, «pezzi» comincia a chiamarli a partire dal 1980, portando a maturazione con una personalissima cifra l’eredità del Tanztheater espressionista che aveva assorbito da allieva prima e da direttrice del medesimo centro di Essen dal ‘68. Bausch è l’orchestratrice geniale di un teatro di danza assoluto, costruito sullo spunto bizzarro di domande con le quali la coreografa sollecita «confessioni» dai suoi danzatori tra privato e immaginario. L’apparire in scena di queste opere-collage dove gli interpreti piangono, ridono, trascinano con veemente passionalità schegge di se stessi sotto i riflettori, sorprende e sconcerta il tradizionale pubblico dei ballettofili ma appassiona il mondo del teatro e del cinema.
LE APPARIZIONI DI PINA
Fellini la immette di peso nel suo E la nave va del 1983 nel ruolo di una duchessa cieca, anni dopo anche Almodóvar la reclamerà per il suo Parla con lei del 2000. Ma nel corso degli anni Ottanta e Novanta si è già celebrata la santificazione di un’artista rimasta di temperamento schivo e taciturno. Mentre la danza è tornata ad appropriarsi di una delle sue più innovatrici e geniali creature e i direttori dei teatri fanno a gara per assicurarsi un suo debutto, meglio: di opere ad hoc nate da periodi di residenza. È l’ultimo, fertile filone cavalcato dalla Bausch, che fruga nell’identità segrete delle città per ricavarne profili inediti, col suo sguardo curioso, la sua capacità di fiutare recondite (dis)armonie, da Vienna alla California, da Los Angeles a Lisbona (a giugno doveva debuttare il lavoro dedicato al Cile). Per l’Italia, che molto l’ha amata, ha creato «pezzi» indimenticabili come Palermo, Palermo, Viktor dell’86 e O Dido del ‘99 per la capitale. Proprio in quest’ultimo compariva una sfumatura di inedita e colorata allegria a cui Pina sembrava approdare dopo l’intensità drammatica e squarcia-anima che l’aveva caratterizzata nel tempo. Un piacere della vita che l’aveva presa di sorpresa, che accostava alle eterne sigarette un buon bicchiere di vino rosso, un piatto di tagliatelle, un chiarore di sole napoletano. Forse era per esorcizzare il male oscuro. Forse per l’amore istintivo che ogni tedesco da Goethe in poi ha provato per il paese dei limoni. L’ultimo appuntamento sarà qui, a Spoleto dove la sua compagnia presenterà Bamboo Blues. Sarà un caso, ma è anche il luogo dove all’alba di se stessa diva futura, Pina Bausch danzò con Jean Cébron più di quarant’anni fa.

Repubblica 1.7.09
Il capo restauratore del Vaticano: nella Cappella Paolina l’autoritratto dell’artista
"Così si disegnava Michelangelo"
di Orazio La Rocca


Torna alla luce un altro autoritratto di Michelangelo. Sarebbe stato individuato nella Cappella Paolina, in Vaticano, nel corso dei nuovi restauri presentati ieri dalle autorità pontificie.
Lavori che hanno ravvivato i colori originali della Cappella e ripristinato l´impostazione architettonica così come l´aveva progettata nel 1537 Giuliano da Sangallo Il Giovane, col riuso, tra l´altro, dell´altare cinquecentesco, spostato leggermente dalla parete centrale «su espresso desiderio di papa Ratzinger per meglio favorire le celebrazioni e l´accesso al tabernacolo», ha assicurato il vescovo Paolo De Nicolò, reggente della Prefettura della Casa Pontificia, presente alla conferenza svolta nella Sala Regia del Palazzo Apostolico, che è proprio attigua alla cappella che Benedetto XVI inaugurerà il 4 luglio prossimo.
Per ripulire gli affreschi dai fumi e dalle vecchie incrostazioni c´è voluto un intervento di 5 anni, dal 2004 al 2009, costato 4 milioni di dollari offerti dai Patrons of the Arts in the Vatican Museums, un organismo di benefattori Usa. A sostenere che tra le figure ripulite c´è il volto del maestro fiorentino, è Maurizio De Luca, ispettore e capo restauratore del Vaticano. «È una scoperta straordinaria e commovente, come straordinario è il risultato finale del restauro dal quale emerge un nuovo vecchio Michelangelo che con la Cappella Paolina concluderà la sua attività di pittore per dedicarsi solo alla scultura e all´architettura», ha spiegato ieri De Luca a margine della conferenza, alla quale sono interventi, tra gli altri, il cardinale Giovanni Lajolo, governatore del Vaticano, il professor Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani (che ha sostenuto come il Vaticano sia «all´avanguardia nel campo del restauro e della conservazione artistica») e il professor Arnold Nesselrath, responsabile storico-artistico del rastauro.
L´autoritratto michelangiolesco è stato individuato tra i personaggi della Crocifissione di San Pietro, affrescata da Buonarroti dal 1545 al 1550. In precedenza - dal 1542 al 1545 - il maestro fiorentino aveva realizzato l´altro grande affresco, la Conversione di Paolo. «L´autoritratto è uno dei 3 cavalieri in alto a sinistra dell´affresco che porta in testa un turbante di color azzurro lapislazzuli e che nei lineamenti è molto somigliante - sostiene De Luca - ad altri noti volti di Michelangelo». In effetti, la figura richiama molto l´altro autoritratto che il Buonarroti realizzò nel Giudizio Universale della Cappella Sistina, un volto seminascosto nel drappo tenuto in mano da San Bartolomeo. Ma il volto del cavaliere col turbante è «sorprendentemente somigliante», assicura De Luca, anche ad altri ritratti di Michelangelo come quelli di Daniele da Volterra, di Giuliano Bugiardini, di Iacopino del Conte, di Lorenzo Lotto, di Giambologna autore di un busto. È da circa 2 anni che il restauratore si è convinto dell´esistenza della «firma» michelangiolesca nella Cappella Paolina nel volto del cavaliere col turbante. Il 26 giugno scorso ne ha parlato anche ai componenti della commissione di esperti internazionali che hanno supervisionato i lavori, tra i quali a sostegno della tesi di De Luca sono intervenuti Cristina Acidini, sovrintendente del Polo museale fiorentino e tra i massimi esperti di Michelangelo, monsignor Timothy Verdon, Kathleen Brandt, Howard Burns, Christoph Luitpold Frommel, Michael Hirst. Anche il professor Giorgio Bonsanti, docente di tecnica e restauro all´università di Firenze ed ex sovrintendente dell´Opificio delle Pietre Dure, membro della stessa commissione, non esclude che quel cavaliere vicino al Pietro crocifisso sia un autoritratto dell´autore. «Pur non avendo visto il restauro finale, non lo escludo - spiega Bonsanti - perché Michelangelo lo ha fatto in altre opere, come ad esempio alla Sistina e anche nelle Cappelle Medicee di Firenze. E poi, quel turbante azzurro è un indizio molto forte perché è il tipico copricapo che gli scultori usavano per ripararsi dalle polveri. E in altri ritratti Buonarroti non a caso lo indossa».

Repubblica 1.7.09
"Immigrati, immorale respingerli senza controlli"
Il presidente Fini torna sul tema dei rifugiati. Il ddl sicurezza da oggi al Senato
di Caterina Paolini


Il discorso a Madrid: "Prima viene la dignità della persona, poi la condizione di legalità o meno"

ROMA - «Sarebbe immorale dire subito ‘sei clandestino, ti rimando al tuo Paese´. Sarebbe come condannare quella persona a morte, in alcuni casi. E´ infatti assolutamente indispensabile distinguere chi chiede asilo politico. I rifugiati non possono essere automaticamente equiparati al clandestino perché così si farebbe venir meno la dignità della persona umana».
A dirlo non è un esponente dell´opposizione ma il presidente della Camera e leader di An Gianfranco Fini durante un forum del giornale spagnolo El Mundo nel quale parla di dignità, di valore, di essere umani che «prima sono uomini e poi immigrati, prima viene la dignità della persona e poi la condizione di legalità o meno».
Parole importanti, frasi che pesano e che suonano come una dura critica al ddl sicurezza che oggi arriva al vaglio del Senato e si appresta nel giro di una settimana ad entrare in vigore, fortemente voluto dal governo e dal ministro Maroni. Parole, quelle di Fini, che provocano qualche imbarazzo nella maggioranza, nessun commento dal Pdl e Lega mentre un plauso arriva dal Pd. Perché le sue frasi sembrano contestare proprio i pilastri del pacchetto sicurezza, e soprattutto il nuovo reato di immigrazione clandestina. Ma la maggioranza non pare disposta a cambiare rotta, anzi, sembra proprio che verrà posta la fiducia, come accadde alla Camera, per accorciare i tempi ed evitare la discussione dei 160 emendamenti proposti.
Tutto questo, nonostante le critiche dalle opposizioni, dalle organizzazioni sociali e religiose contrarie sia alla creazione del reato di immigrazione clandestina che all´introduzione delle ronde contenute nel decreto. Critiche che si trasformano anche in gesti concreti.
Ieri l´Arci ha infatti annunciato un´azione di disobbedienza civile e di protesta. Porte aperte per l´accoglienza degli immigrati contro il pacchetto sicurezza che definisce simile alle leggi razziali.
«Il disegno di legge - afferma infatti Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell´Arci - introduce un sistema di apartheid e per questo va considerato una legge razziale. Sarà lo status di immigrato a determinare il godimento o meno del diritto. Cittadini che vivono nello stesso paese non saranno tutti uguali di fronte alla legge né godranno delle stesse garanzie».
E mentre l´Arci invita i cittadini alla disobbedienza civile, arrivano le parole di Fini che pensa ad una politica dell´immigrazione «che si basi su due pilastri»: da una parte aiutare i paesi poveri a progredire e dall´altra cercare «di assorbire con parità di diritti e doveri tutti gli stranieri di cui abbiamo drammaticamente bisogno», dice parlando delle badanti che assistono gli anziani che col nuovo ddl si troverebbero fuorilegge dalle tempie grigie. Sottolinea anche la necessità di fare un «rigoroso controllo nazionale» per verificare «la sussistenza dei requisiti per chiedere asilo politico». Il presidente della Camera ha citato anche il caso di alcune norme contenute inizialmente nel ddl sicurezza all´esame del senato che obbligavano i medici a denunciare i clandestini: «è necessario distinguere tra immigrazione regolare e clandestina. Tuttavia anche per gli irregolari vale il principio base della nostra cultura, prima sono uomini e poi immigrati. Non è accettabile che venga messa in secondo piano la dignità della persona rispetto alla condizione di legalità o meno del proprio status».

Repubblica 1.7.09
Droghe, tra i giovanissimi boom di consumi per la cannabis


ROMA - I molto giovani fumano (cannabis) e prendono pasticche, mischiando il tutto con altre droghe o con l´alcol. Quelli dai vent´anni in su, sono "tradizionalisti" e soprattutto in aumento: scelgono eroina e cocaina. Sono alcune delle novità dell´annuale fotografia scattata per la Relazione al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia nel 2008, presentata dal sottosegretario Carlo Giovanardi. Un ritratto con molti chiaroscuri: forte aumento dei consumatori problematici, ma c´è anche un calo considerevole della percentuale di morti per overdose; diminuisce il consumo di eroina e cocaina negli under 19 che però fumano molta più cannabis.
Dunque, crescono i tossicodipendenti da droghe pesanti: circa 385mila i consumatori problematici di droga (9,8 soggetti ogni mille persone di età 15-64 anni); di questi, 210.000 usano eroina (205.000 nel 2007) e 172.000 cocaina (154.000 nel 2007). E meno del 45% dei consumatori problematici di droga è in trattamento presso un Sert. Si inverte invece la tendenza all´aumento dei decessi per droga, "solo" 502 (-14,7%). E poi le tendenze tra i giovani: gli under 19 usano meno eroina e cocaina, più hashish e marijuana (+5,3%), con una ripresa soprattutto tra le ragazze. All´età di 15 anni già l´11% ha consumato cannabis una o più volte negli ultimi 12 mesi. Spinello quotidiano per il 2,7% dei 15-19enni, mentre lo 0,5% assume cocaina e lo 0,3% eroina (spesso vaporizzata). Ecstasy e amfetamine sono in calo, aumentano (+6,3%) invece gli allucinogeni (Lsd). Tra i problemi, il "policonsumo": l´1,4% dei consumatori di cannabis usa anche cocaina, il 4,4% eroina, il 98,3% associa alcolici e il 68,4% tabacco.
Droghe pesanti, ma low cost: per un grammo di cocaina si spendono circa 78 euro, 60 per l´eroina, 8-9 euro per la cannabis e meno di 19 euro per una pasticca di ecstasy.

Repubblica 1.7.09
L’arte di vivere senza verità
Perché oggi ha vinto il cinismo
Un testo di Michel Foucault sulla tradizione dell’Occidente


Con Manet, Bacon Baudelaire, Beckett ciò che sta in basso irrompe nelle forme artistiche elevate
La dottrina cinica nel mondo antico era popolare, oggi è un atteggiamento elitario e marginale

C’è una ragione che ha portato l'arte moderna a farsi veicolo del cinismo: parlo dell'idea che l'arte stessa, che si tratti di letteratura, di pittura o di musica, deve stabilire con il reale un rapporto che vada al di là del semplice abbellimento, dell'imitazione, per diventare messa a nudo, smascheramento, raschiatura, scavo, riduzione violenta dell'esistenza ai suoi elementi primari. Non c'è dubbio che questa visione dell'arte si sia andata affermando in modo sempre più marcato a partire dalla metà del XIX secolo, quando l'arte (con Baudelaire, Flaubert, Manet) si costituisce come luogo di irruzione di ciò che sta in basso, al di sotto, di tutto ciò che in una cultura non ha il diritto o quanto meno non ha la possibilità di esprimersi. A tale riguardo, si può parlare di un antiplatonismo dell'arte moderna. Se avete visto la mostra su Manet, quest'inverno, capirete quello che voglio dire: l'antiplatonismo, incarnato in maniera scandalosa da Manet, rappresenta a mio avviso una delle tendenze di fondo dell'arte moderna, da Manet fino a Francis Bacon, da Baudelaire fino a Samuel Beckett o a Burroughs, anche se non si identifica attualmente come elemento caratterizzante di tutta l'arte possibile. Antiplatonismo: l'arte come luogo di irruzione dell'elementare, come messa a nudo dell'esistenza.
Di conseguenza, l'arte ha stabilito con la cultura, le norme sociali, i valori e i canoni estetici, un rapporto polemico, di riduzione, di rifiuto e di aggressione. È questo l'elemento che fa dell'arte moderna, a partire dal XIX secolo, quel movimento incessante attraverso il quale ogni regola stabilita, dedotta, indotta, inferita sulla base di ciascuno dei suoi atti precedenti, è stata respinta e rifiutata dall'atto successivo. In ogni forma d'arte si può trovare una sorta di cinismo permanente nei riguardi di ogni forma d'arte acquisita: è quello che potremmo chiamare l'antiaristotelismo dell'arte moderna.
L'arte moderna, antiplatonica e antiaristotelica: messa a nudo, riduzione all'elementare del l'esistenza; rifiuto, negazione perpetua di ogni forma già acquisita. Questi due aspetti conferiscono all'arte moderna una funzione che in sostanza si potrebbe definire anticulturale. Bisogna opporre al conformismo della cultura il coraggio dell'arte, nella sua barbara verità. L'arte moderna è il cinismo nella cultura, il cinismo della cultura che si rivolta contro se stessa. Ed è soprattutto nell'arte, anche se non solo in essa, che si concentrano nel mondo moderno, nel nostro mondo, le forme più intense di quella volontà di dire la verità che non ha paura di ferire i suoi interlocutori.
Restano naturalmente molti aspetti ancora da approfondire, e in particolare quello della genesi stessa della questione dell'arte come cinismo nella cultura. Si possono vedere i primi segnali di questo processo, destinato a manifestarsi in modo clamoroso nel XIX e nel XX secolo, ne Il nipote di Rameau e nello scandalo suscitato da Baudelaire, Manet, (Flaubert?). Ci sono poi i rapporti tra cinismo dell'arte e vita rivoluzionaria: affinità, fascinazione reciproca (perpetuo tentativo di legare il coraggio rivoluzionario di dire la verità alla violenza dell'arte come irruzione selvaggia del vero); ma anche il loro non essere sostanzialmente sovrapponibili, dovuto forse al fatto che, se questa funzione cinica è al cuore dell'arte moderna, il suo ruolo nel movimento rivoluzionario è solo marginale, almeno da quando quest'ultimo è dominato da forme di organizzazione, da quando i movimenti rivoluzionari si organizzano in partiti e i partiti definiscono la "vera vita" come totale conformità alle norme, conformità sociale e culturale. È evidente che il cinismo, lungi dal costituire un legame, è un motivo di incompatibilità tra l'ethos dell'arte moderna e quello della pratica politica, sia pure rivoluzionaria.
Si potrebbe formulare lo stesso problema in termini diversi: perché il cinismo, che nel mondo antico aveva assunto le dimensioni di un movimento popolare, è diventato nel XIX e nel XX secolo un atteggiamento elitario e marginale, anche se importante per la nostra storia, e il termine cinismo viene utilizzato quasi sempre in riferimento a valori negativi? Si potrebbe aggiungere che il cinismo ha molti punti di contatto con un'altra scuola greca di pensiero: lo scetticismo – anche in questo caso, uno stile di vita, più che una dottrina, un modo di essere, di fare, di dire, una disposizione a essere, a fare e a dire, un'attitudine a mettere alla prova, a esaminare, a mettere in dubbio. Ma con una grandissima differenza: mentre lo scetticismo applica sistematicamente al campo scientifico questa attitudine, trascurando quasi sempre l'esame degli aspetti pratici, il cinismo appare incentrato su un atteggiamento pratico, che si articola in una mancanza di curiosità o in un'indifferenza teorica, e nell'accettazione di alcuni princìpi fondamentali. Ciò non toglie che, nel XIX secolo, la combinazione tra cinismo e scetticismo sia stata all'origine del "nichilismo", inteso come modo di vivere basato su un preciso atteggiamento nei confronti della verità. Dovremmo smetterla di considerare il nichilismo sotto un unico aspetto, come destino ineluttabile della metafisica occidentale, a cui si potrebbe sfuggire solo facendo ritorno a ciò il cui oblio ha reso possibile questa stessa metafisica; o come una vertigine di decadenza tipica di un mondo occidentale divenuto ormai incapace di credere ai suoi stessi valori.
Il nichilismo deve essere considerato in primo luogo una figura storica particolare appartenente al XIX e al XX secolo, ma deve anche essere inscritto nella lunga storia che l'ha preceduto e preparato, quella dello scetticismo e del cinismo. In altre parole, deve essere visto come un episodio o, meglio, come una forma, storicamente ben definita, di un problema che la cultura occidentale ha cominciato a porsi già da molto tempo: quello del rapporto tra volontà di verità e stile di esistenza.
Il cinismo e lo scetticismo sono stati due modi di porre il problema dell'etica della verità. La loro fusione nel nichilismo mette in luce una questione essenziale per la cultura occidentale, che può essere formulata in questo modo: quando la verità è rimessa continuamente in discussione dallo stesso amore per la verità, qual è la forma di esistenza che meglio si accorda con questo continuo interrogarsi? Qual è la vita necessaria quando la verità non lo è più? Il vero principio del nichilismo non è: Dio non esiste, tutto è permesso. La sua formula è piuttosto una domanda: se devo confrontarmi con il pensiero che "niente è vero", come devo vivere? La difficoltà di definire il legame tra l'amore della verità e l'estetica dell'esistenza è al centro della cultura occidentale. Ma non mi preme tanto definire la storia della dottrina cinica, quanto quella dell'arte di esistere. In un Occidente che ha inventato tante verità diverse e che ha plasmato tante differenti arti di esistere, il cinismo serve a ricordarci che ben poca verità è indispensabile per chi voglia vivere veramente, e che ben poca vita è necessaria quando si tenga veramente alla verità.
Traduzione di Stefano Salpietro

Corriere della Sera 1.7.09
Il macchinista del caso Eurostar
«Io lanciai l’allarme, sono stato licenziato»
di A. St.


MILANO — «È stato un incidente tipico e prevedibile. Chi si occupa di sicurezza sa che prima di un fatto così grave arrivano molti avvisi...». E gli allarmi, «purtroppo sono rimasti inascoltati», sostiene Dante De Angelis, 48 anni, il macchinista-sindacalista licenziato dalle Ferrovie nel 2008 per aver parlato di «inadeguatezza della manutenzione» dopo il caso degli Eurostar «spezzati»: «Ci sono stati due incidenti analoghi solo negli ultimi venti giorni. Rottura degli assi. Uno a San Rossore (Pisa) e un altro a Vaiano (Prato). Insomma: questo tipo d’incidente si ripete con frequenza impressionante sui treni merci, almeno uno o due al mese. Solo leggendo questi ultimi segnali sarebbe stato possibile prevenire la tragedia di Viareggio». Ora, insiste De Angelis, «saranno presi tutti i provvedimenti necessari, certo. Tardi. I controlli sono risultati inadeguati e non lo dico io, lo hanno dimostrato i fatti».
È il punto: l’ex sindacalista sostiene che per «rendere più efficaci» le verifiche bisognerebbe «monitorare assi, ruote e freni anche durante la marcia dei treni, come per gli Eurostar». I materiali sono vecchi? «L’età non è necessariamente un indice di pericolosità. Il problema è un altro: i ferrovieri vengono intimiditi e sanzionati ogni volta che segnalano episodi anche gravi e preoccupanti. E terrorizzare i dipendenti non è il modo migliore per ottenere sicurezza».

Corriere della Sera 1.7.09
Dopo le indagini sulle Asl pugliesi, dimissionari tutti gli assessori
Caso Bari, Vendola azzera la giunta
Inchiesta sulla sanità, il governatore apre a Udc e Idv. Il Pdl: si torni al voto
di Paolo Foschi


ROMA — La bufera giudi­ziaria che sta travolgendo la sanità pugliese e i risultati del voto alle comunali di Bari provocano un terremoto nel­la giunta pugliese. Nichi Ven­dola, dopo aver fatto svolgere un’indagine amministrativa interna poi inviata alla magi­stratura, ha infatti deciso di azzerare la giunta e di aprire la maggioranza di centrosini­stra che governa la Regione all’Udc e all’Italia dei valori, i cui voti erano stati determi­nanti al ballottaggio alle co­munali di Bari per il successo del sindaco uscente Michele Emiliano, ex pm e segretario regionale del Pd. Il centrode­stra però non ci sta: «Nuove elezioni subito». Ironico il commento di Gaetano Qua­gliariello, vicepresidente dei senatori del Pdl: «Con qual­che giorno di ritardo, ecco la scossa tempestivamente pre­annunciata dall’onorevole D’Alema».
L’azzeramento della giunta ha per Vendola un duplice obiettivo: rafforzare l’asse con i nuovi alleati. E mettere l’esecutivo al riparo dall’even­tuale coinvolgimento di altri assessori nelle inchieste sulle Asl pugliesi che erano già co­state il posto ad Alberto Tede­sco, dei Socialisti autonomi­sti ed ex responsabile alla Sa­nità, che si è dimesso dopo es­sere stato indagato a febbra­io. Ieri dunque tutti gli asses­sori regionali hanno rassegna­to le dimissioni proprio per favorire il ricambio. Il passo indietro secondo la ricostru­zione delle agenzie sarebbe stato chiesto dal governatore. Una lettura smentita però dal portavoce del presidente del­la Regione, secondo il quale «nessuno ha richiesto le di­missioni, sono state offerte coraggiosamente e spontane­amente per rafforzare l’azio­ne politica dell’esecutivo».
Vendola ha comunque su­bito accettato le dimissioni. E ha annunciato «nelle prossi­me ore la nuova squadra». Del resto, parlando alla giun­ta, il governatore ha spiegato che «ci sono fatti politici nuo­vi », e cioè la vittoria del cen­trosinistra al ballottaggio del­le comunali grazie all’appa­rentamento con l’Udc di Pier Ferdinando Casini; e «fatti in­direttamente politici», cioè la necessità di portare avanti la questione morale. Secondo Vendola, «le inchieste in cor­so consentono a tutti noi di sgomberare angoli di opaci­tà », «in un sistema permeabi­le agli interessi delle lobby, delle corporazioni e anche delle spinte corruttive». In ogni caso, «il ricambio della giunta sarà rapidissimo per evitare il toto-nomine, che sa­rebbe quanto mai inopportu­no in una fase delicata come quella attuale».
Il presidente della Regione aveva fra l’altro ripetutamen­te affermato nelle scorse setti­mane che avrebbe chiesto le dimissioni di chiunque fosse risultato indagato. E proprio ieri si è saputo che Lea Cosen­tino, direttore generale della Asl Puglia, è stata sospesa da Vendola: la manager, in un primo momento indagata per turbativa d’asta è adesso accu­sata anche di associazione a delinquere. Una novità che potrebbe segnare un salto di qualità nell’inchiesta della procura barese.
E anche se per adesso non ci sono nuovi indagati fra gli assessori, la giunta riparte da zero. O meglio da quel «labo­ratorio Puglia» invocato da Emiliano, che non solo ha ce­mentato l’asse con l’Udc, ma ha anche invitato al dialogo (finora senza successo) le for­ze del centrodestra, «per ri­lanciare le politiche per il sud». Fra i candidati a lascia­re l’esecutivo regionale c’è in pole position Sandro Frisul­lo, vice presidente e assesso­re allo Sviluppo economico. L’esponente del Pd, conside­rato vicino a Massimo D’Ale­ma, non è indagato, ma com­pare ripetutamente nelle in­tercettazioni ambientali agli atti delle indagini della procu­ra di Bari e ha sempre negato qualsiasi tipo di coinvolgi­mento in attività illegali. La stessa magistratura ha preci­sato che non ci sono avvisi di garanzia nei sui confronti. Ap­profittando dell’azzeramento della giunta, Vendola potreb­be decidere comunque di la­sciarlo fuori «per ragioni di opportunità politica». Nella giunta, in rappresentanza del­l’Udc, potrebbe entrare Russo Frattasi, candidato sindaco uscito al primo turno e diven­tato alleato di Emiliano.

Corriere della Sera 1.7.09
La mossa Il personale che si occupa dei trasferimenti passerà alle dipendenze dell’intelligence
«Voli di Stato gestiti dai Servizi»
La decisione del governo: le informazioni saranno coperte dal segreto
di Fiorenza Sarzanini


Le motivazioni
La richiesta di avvio della procedura giustificata con motivi di «sicurezza e riservatezza»

ROMA — Il personale che si occupa dei voli di Stato sarà trasferito alle dipendenze di­rette dell’intelligence. In parti­colare sarà inserito nell’orga­nico del Rud, l’ufficio che fa capo all’Aise — il servizio segreto mi­litare — ed è addet­to alle mansioni di vigilanza degli obiettivi.
La decisione è stata presa dal go­verno dopo la pub­blicazione delle fo­to del premier Sil­vio Berlusconi che imbarca a bordo degli aerei con la sigla 'Repubblica Italiana' i suoi ospiti privati come il cantante Mariano Apicella, attori e bal­lerine. E dopo la circostanza, emersa durante gli accerta­menti della Procura di Bari, che anche Gianpaolo Taranti­ni - indagato per induzione al­la prostituzione per aver porta­to ragazze a pagamento nelle residenze del premier - si spo­stava tra Roma e Milano a bor­do di quei velivoli.
Nella richiesta di avvio del­la procedura, già trasmessa al­l’Aeronautica Militare e alle al­tre amministrazioni da cui di­pende il personale, i trasferi­menti vengono giustificati con motivi di «sicurezza e ri­servatezza ». Finora le liste pas­seggeri e i piani di volo pote­vano essere acquisiti dall’auto­rità giudiziaria, sia pur con un provvedimento motivato. D’ora in avanti i documenti sa­ranno invece coperti dal segre­to e dunque per poterli visio­nare si dovrà avviare un iter molto più complesso e soprat­tutto ci sarà la possibilità di opposizione alla consegna.
Un mese fa Silvio Berlusco­ni si era rivolto al garante del­la Privacy e alla magistratura romana per chiedere il seque­stro delle foto scattate dal re­porter sardo Antonello Zappa­du a Villa Certosa e all’aeropor­to di Olbia. Migliaia di scatti che riprendevano gli ospiti del­la sua residenza estiva, ma an­che quelli in arrivo o in parten­za a bordo dei velivoli. L’Au­thority ha ritenuto «illecito» ri­prendere e diffondere «imma­gini di persone all’interno di una privata dimora senza il lo­ro consenso e utilizzando tec­niche particolarmente invasi­ve », mentre ha stabilito che «sono permesse quelle riprese in luoghi pubblici», come è per esempio un aeroporto.
La Procura ha invece dispo­sto il sequestro di tutti gli scat­ti e poi ha delegato i carabinie­ri all’acquisizione dei docu­menti relativi ai voli immorta­lati dal reporter. Due settima­ne sono bastate ai magistrati per chiedere al tribunale dei ministri l’archiviazione dell’in­chiesta. L’indagine si è con­centrata soltanto sui voli docu­mentati da Zappadu. I magi­strati non hanno svolto alcu­na verifica ulteriore sugli altri trasferimenti con velivoli di Stato autorizzati dalla presi­denza del Consiglio e hanno chiuso il fascicolo. Hanno in­fatti ritenuto che la direttiva approvata dallo stesso gover­no Berlusconi il 25 luglio 2008 consente il trasporto degli estranei e soprattutto che «la presenza del premier a bordo degli aerei esclude la violazio­ne della legge e il danno patri­moniale per presunto sperpe­ro di denaro pubblico».
La decisione dei pubblici ministeri della capitale non mette comunque al riparo da altre indagini che potrebbero essere avviate e da possibili fu­ghe di notizie sui voli presi­denziali. Di qui la scelta di una «blindatura» che invece impo­ne il massimo livello di riser­vatezza su tutti gli spostamen­ti. Proprio come accaduto per gli uomini della scorta di Ber­lusconi che sono stati assunti dall’Aisi — il servizio segreto interno — guidato dal genera­le Giorgio Piccirillo: la mag­gior parte di loro segue Silvio Berlusconi sin dai tempi della Fininvest. I responsabili del­l’apparato di sicurezza sono stati inseriti nei ranghi degli 007 e hanno ottenuto la nomi­na a caporeparto, ma questo non impedisce che le decisio­ni operative siano prese di fat­to in piena autonomia. La col­locazione nell’apparato di in­telligence serve soprattutto a tutelare il vincolo di segretez­za.
La decisione sul trasferi­mento del personale addetto ai voli di Stato dovrà adesso essere comunicata al Copasir, il comitato di controllo parla­mentare, che ha avviato un’in­dagine sulle misure di prote­zione del presidente del Consi­glio e sull’utilizzo degli aerei dell’Aeronautica. Villa Certosa è infatti «sede di governo al­ternativa in situazioni di emer­genza » e come tale deve esse­re tutelata. Durante le audizio­ni della scorsa settimana i ver­tici degli 007 hanno però chia­rito che «è protetta secondo il massimo livello di sicurezza possibile rispetto alla sua loca­lizzazione » e anche tenendo conto del tenore di vita del premier. Durante feste e cene la lista degli ospiti è infatti affi­data a vigilanza privata e, co­me accade pure a Palazzo Gra­zioli, agli ingressi non viene effettuato alcun tipo di con­trollo.

Corriere della Sera 1.7.09
Pronunciamento netto del giudice dopo la sentenza della Corte Costituzionale
«Fecondazione assistita anche per coppie non sterili»
Il tribunale di Bologna: sì all’analisi preimpianto dell’embrione
di Margherita De Bac


ROMA — Saltano gli stec­cati della legge sulla feconda­zione artificiale, sotto i colpi dei giudici. Un’ordinanza del tribunale di Bologna deposi­tata due giorni fa aggiunge novità e rafforza, con una se­rie di chiarimenti, la senten­za della Corte Costituzionale dello scorso marzo che in pra­tica aveva abbattuto i paletti più invisi alla comunità scientifica.
Le tecniche potranno esse­re utilizzate anche da coppie non sterili che hanno già avu­to bambini concepiti natural­mente, ma che sono nati con gravi patologie di origine ge­netica. Si afferma che «il di­vieto di diagnosi preimpian­to pare irragionevole e incon­gruente col sistema normati­vo se posto in parallelo con la diffusa pratica della dia­gnosi prenatale, altrettanto invasiva del feto, rischiosa per la gravidanza, ma perfet­tamente legittima». Questa procedura deve dunque esse­re ritenuta «ammissibile co­me il diritto di abbandonare l’embrione malato e di otte­nere il solo trasferimento di quello sano».
L’ordinanza dispone inol­tre che si proceda «previa dia­gnosi preimpianto di un nu­mero minimo di 6 embrio­ni ». Il medico deve eseguire i trattamenti in modo da assi­curarne il miglior successo «in considerazione dell’età e del rischio di gravidanze plu­rigemellari pericolose» e de­ve provvedere al congelamen­to «per un futuro impianto degli embrioni risultati ido­nei che non sia possibile tra­sferire immediatamente e co­munque di quelli con patolo­gia ». L’ordinanza, firmata da Chiara Gamberini, risponde a una coppia fiorentina che si era rivolta al centro Tecno­bios di Bologna per avere un secondo figlio dopo aver pro­vato il dolore di un bambino colpito da distrofia di Du­chenne, trasmessa dalla ma­dre. Il centro aveva dichiara­to di non poter analizzare l’embrione. I genitori lo scor­so luglio avevano presentato un ricorso attraverso Gianni Baldini, esperto di biodiritto. Il tribunale si è espresso dopo la Consulta che ha smontato alcuni dei divieti. Secondo Baldini «i giudici bo­lognesi offrono un contribu­to decisivo per la corretta in­terpretazione della legge 40 da parte della Consulta. Dub­bi e spiegazioni strumentali vengono spazzati via. Altri non sono stati cancellati. Vie­ne riconosciuto alla coppia non sterile ma che ha già fi­gli il diritto alle tecniche del­la provetta». La sentenza del­la Corte aveva lasciato spazio ad alcuni interrogativi. Se­condo il sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella la diagnosi preimpianto sareb­be rimasta comunque impra­ticabile mentre la produzio­ne di un numero di embrioni superiori a 3 e congelamento avrebbero avuto limiti stret­ti.

Corriere della Sera 1.7.09
Mezzo secolo fa l’articolo sulle «Annales» che fondò un metodo. Le polemiche con Hobsbawm e le teorie di Huntington
La storia di «lunga durata» deve fare i conti con la scienza
L’erede di Braudel aggiorna la sfida: partiamo da matematica e teorie del caos
di Maurice Aymard


L’ articolo di Fernand Brau­del dedicato alla «lunga durata» compare sulle «Annales E. S. C.» mezzo secolo fa ( Histoire et sciences sociales. La longue durée). Dopo la morte di Lu­cien Febvre (settembre 1956), Braudel si è appena visto affidare la direzione delle «Annales». Per Braudel, la «lunga dura­ta » è la carta dominante — di fatto l’uni­ca — che gli consente di rivendicare per la storia, accanto alla matematica, il ruo­lo di «federatrice» delle scienze dell’uo­mo. Secondo lui, tutte soffrono di un di­fetto sostanziale: quello di concentrare l’attenzione sul presente, senza prende­re in considerazione le realtà e le dinami­che del passato, che egli ritiene indi­spensabili per capire il presente.
L’articolo è stato letto, citato e tradot­to in varie lingue, ma la ricezione ha pri­vilegiato ciò che riguardava la storia, tra­lasciando spesso quello che riguardava le altre scienze dell’uomo. Le ragioni di tale scarto tra le intenzioni dell’autore e la ricezione da parte dei lettori merite­rebbero senz’altro di essere precisate. Mi sembra che due abbiano pesato in modo determinante. La prima: la propo­sta alleanza tra storia e scienze sociali si poneva in termini diversi in vari Paesi, in particolare a seconda del posto che occupava la storia nell’ambito delle scienze umane, per esempio negli Stati Uniti o in Germania. La seconda ragione è complementare: negli anni Sessanta è stata la storia la base militante dell’in­fluenza esterna delle «Annales» ed è sta­ta ancora la storia a indurre almeno par­te degli storici a identificare la loro disci­plina con le scienze sociali.
Tale svolta avviene negli Stati Uniti in­torno al 1968, e in date successive in altri Paesi, ma avviene anche nel momento in cui, nella stessa Francia, l’antropolo­gia si sostituisce all’economia come in­terlocutrice principale e, in qualche mo­do, modello per gli storici.
L’articolo di Braudel teneva il piede in più staffe. Da un lato affermava la rot­tura della storia con la concezione evene­menziale con la quale si era a lungo iden­tificata. Dall’altro lato, cercava di indivi­duare i ponti e i possibili contatti tra i settori più avanzati della ricerca nelle al­tre discipline. Ma mirava anche, su un altro piano, a esplicitare ciò che distin­gueva le ambizioni della storia dagli obiettivi che Claude Lévi-Strauss aveva appena fissato per l’antropologia. Oggi a che punto siamo? Il riferimen­to alla «lunga durata» è ormai alle no­stre spalle, accettato come dato di fatto, come citazione obbligata ma priva or­mai di efficacia reale, almeno nell’Euro­pa occidentale, per una storia sempre più attratta dal presente e occupata a esplicitare le sue procedure narrative? Tralascerei tutti i falsi problemi, imputa­bili essenzialmente a una lettura superfi­ciale dei testi di Braudel, peraltro ricchi di sfumature. Basti ricordare una volta per tutte che la «lunga durata» non si de­finisce, o comunque non solo, con un numero di secoli o di millenni, bensì con la durata in vita dell’oggetto storico studiato, che fissa caso per caso la scala temporale — e spesso anche spaziale— dell’analisi. E che essa non è semplice­mente il passato ma ciò che, nel passa­to, «spiega il presente», e quindi in parti­colare la presenza del passato nel pre­sente, mantenuta viva e attiva dalle deci­sioni, i gesti, i modi di vivere, pensare e reagire degli individui concreti.
Le due piste delle predeterminazioni e della tradizione si trovano poi riunite in Braudel alla base della sua definizio­ne del concetto di «civiltà». Per lui tutte le civiltà s’iscrivono in uno spazio e in una durata infinitamente più lunghi ri­spetto a quelli della politica e persino della religione. Ma è ben attento a preci­sare che esse si definiscono anche per ciò che danno alle altre, per ciò che pren­dono (da cui un margine d’innovazione anche all’interno della lunga durata) e persino per ciò che rifiutano, per affer­mare «se stesse» e la propria specificità. Tale prudenza, giustificata dall’esperien­za del passato, è stata quasi sempre di­menticata, nei dibattiti successivi all’11 settembre, da tutti i seguaci di Samuel Huntington attratti dall’idea di un’inevi­tabile guerra tra civiltà concepite come altrettanti insiemi rigidi, incapaci di co­municare tra loro e, soprattutto, identifi­cati quasi sempre con la sola dimensio­ne religiosa.
L’altra pista, quella della tradizione, è stata più di recente sottoposta a una du­plice critica. La prima, di Eric Hob­sbawm e Terence Ranger sull’invenzio­ne della tradizione, contrappone i mec­canismi di costruzione «attiva» della tra­dizione alla visione semplicistica di pu­ra trasmissione passiva, e fa di tali tradi­zioni costruite degli oggetti di storia, da­tabili nel tempo, collocabili nello spa­zio, attribuibili ad attori sociali e istitu­zionali identificabili, reinterpretati più o meno liberamente dalle generazioni suc­cessive in funzione dei bisogni del mo­mento: tutto ciò le fa passare dallo sta­tus di «descrizioni oggettive», che gli specialisti di «tradizioni popolari» si era­no dati l’obiettivo di registrare per pro­teggerle dall’oblio e per capire dall’inter­no le società che le vivevano al presente, allo status di «rappresentazioni», che de­vono trovare il loro posto in una storia sociale della cultura e in una storia cultu­rale della società.
La seconda critica si colloca sullo sfondo delle posizioni di antropologi che, come Marshall Sahlins, suggerisco­no di sostituire alla formula «più cam­bia, più è la stessa cosa» (il tempo immo­bile) la formulazione inversa, «più è la stessa cosa, più cambia», che ci avvicina al tempo quasi immobile, lento a scorre­re ma che comprende sempre una parte di cambiamento, proposta da Fernand Braudel. Vi aggiunge però il fatto che l’innovazione, per forzare le porte del conservatorismo delle società, ha biso­gno di nascondersi dietro il rispetto del­la tradizione.
Un modo per superare le contrapposi­zioni sarebbe quello di seguire le piste che le scienze esatte hanno definito e tracciato per le loro esigenze e che fino a oggi, salvo poche eccezioni, hanno avu­to scarsa eco nelle scienze sociali: meri­terebbero di essere esplorate sistemati­camente. Come quelle offerte negli ulti­mi decenni dalle analisi della dissemina­zione, della biforcazione e del caos, del­la complessità o dell’analisi stocastica. Aprono la strada ad altre letture e inter­pretazioni della «lunga durata», che han­no in comune il fatto di introdurvi l’idea di rottura e cambiamento e di orientare le scienze sociali verso rappresentazioni non lineari del tempo e verso analisi del­le società in termini di sistemi dinamici. Le prospettive che esse ci propongono sono, su più di un punto, radicalmente diverse da quelle che hanno guidato l’ideazione e la stesura del famoso artico­lo. Ma hanno il merito di offrirci altre so­luzioni possibili agli interrogativi posti dall’articolo e per i quali Braudel ha pro­posto una prima serie di risposte, delle quali oggi percepiamo meglio gli inevita­bili limiti malgrado la loro fecondità e l’impatto che hanno avuto sulla ricerca. Ma una cosa è sicura: se esse invitano a rimettere in discussione certezze da lui condivise all’epoca con gli specialisti, e che sono ancora quelle di molti di noi, certamente avrebbero affascinato Fer­nand Braudel.
(Traduzione di Anna Maria Brogi)

Oggi 1.7.09
Nessuno in Italia s'indigna per i diritti calpestati?
di Emma Bonino


Certo, anche contro la repressione degli ayattolah c’è chi è sceso in piazza. Ma dove sono le «armate» dei pacifisti?
Risponde Emma Bonino

Non appena ci sono giunte le prime notizie, e soprattutto le prime immagini, dalle strade di Teheran, all’indomani di elezioni evidentemente fraudolente, Radio Radicale e Il Riformista hanno organizzato a Piazza Farnese a Roma una manifestazione pubblica coinvolgendo tutte le forze politiche, i sindacati, le associazioni. Ci sono poi state tante altre manifestazioni in giro per l’Italia, ad esempio a Trieste durante il G8 dei ministri degli Esteri, come pure in giro per il mondo.
Il ruolo sempre crescente di Facebook, Youtube o Twitter aiuta a canalizzare sostegno e solidarietà: per questo ritengo che la Rete sia uno strumento potente di comunicazione per una mobilitazione che richiede sforzo e organizzazione, come i cortei, i sit-in o i concerti come quello promosso da Joan Baez. Ma tutto questo non basta. Non ho per esempio visto alcuna mobilitazione dei pacifisti, di solito così solerti a scendere in piazza: forse perché non c’era alcuna bandiera americana o israeliana da bruciare?
Di fronte all’oppressione che non accenna a diminuire, le voci di gruppi o di singole persone, anche autorevoli, che continuano ad alzarsi in Occidente – punto di riferimento per una moltitudine di iraniani – non devono rimanere isolate ma aumentare fino a creare quella massa critica che è finora mancata. E’ presto per dire se in Iran la violenza del regime soffocherà l’Onda Verde di protesta ma noi dobbiamo fare di tutto affinchè questo processo innescato da una forte richiesta di cambiamento non si spenga e, anzi, diventi irreversibile.
Un modo per farlo è di non distogliere lo sguardo neppure quando il regime oscura la Rete o quando cesserà il fermento nelle piazze.

Il Secolo d’Italia 1.7.09
E Pannella riapre il gioco a tutto campo
di Luca Maurelli


Le notizie sono due. La prima è preoccupante: i Radicali rischiano di chiudere bottega. La seconda invita all’attenzione: nel futuro, ammesso che ci sia un futuro, Pannella vuol coltivare idee e persone di un’area politica considerata interessante, quella della destra moderna e laica che governa con una propria idea di società e dei diritti civili. E le protagoniste del "dialogo possibile" sono due donne, Renata Polverini e Giulia Bongiorno. A dispetto di quanto scritto nei giorni scorsi, la chiave di lettura dell’assemblea dei Mille di Chianciano e del Comitato conclusosi ieri, non è l’apertura di credito alla sinistra radicale, o comunque non solo. Anche ieri, nel corso della riunione dell’organismo dirigente chiamato ad approvare la mozione politica generale, s’è discusso a lungo della strategia dell’attenzione di Marco Pannella verso Gianfranco Fini, degli spunti politici che arrivano dalla destra politica e sindacale e di possibili sinergie sul fronte delle riforme, dal welfare alla giustizia. Ma prima di fare progetti c’è da risolvere la crisi finanziaria. Le parole, per i Radicali, hanno sempre un peso specifico, dunque c’è da essere davvero preoccupati se nel documento c’è scritto "drammatica crisi organizzativa e finanziaria, e dunque politica", come è messo nero su bianco nella mozione approvata ieri. Una crisi che "mette in discussione la stessa esistenza" del partito radicale, al punto che qualcuno si spinge a ipotizzare una possibile chiusura della storica sede di Torre Argentina. «La crisi politico-economica di Radicali italiani è giunta a un punto tale che il movimento non ha nemmeno le disponibilità necessarie a rinnovare i contratti di collaborazione, la cui scadenza era stata già preventivamente fissata per il 30 giugno, e a proseguire le iniziative, con il rischio che entro pochi giorni tutte le attività debbano essere completamente interrotte», afferma il testo. Sul piano politico, invece, le certezze sono maggiori. L’obiettivo è quello di spingere su un grande progetto riformista che coinvolga trasversalmente le forze politiche, l’idea di un welfare universale, la battaglia sulle pensioni, il modello presidenziale americano, la giustizia, le carceri. Proprio sulla questione delle condizioni di vita dei detenuti, Rita Bernardini prosegue una battaglia importante che in Commissione Giustizia della Camera passa attraverso una forte collaborazione con Giulia Bongiorno, una delle più significative rappresentanti di quell’area politica che nasce intorno a Gianfranco Fini. In cantiere c’è una mobilitazione a sostegno della comunità penitenziaria che si traduca, nel mese di agosto, in due giornate di presenza straordinaria nelle duecentocinque carceri italiane di parlamentari, consiglieri regionali, garanti dei diritti dei detenuti. Nonostante il recente scambio di lettere, in questi giorni di lavori dei Radicali Marco Pannella non ha mai citato esplicitamente il presidente della Camera, che per correttezza istituzionale non può essere considerato un interlocutore politico in senso stretto, ma di quel dialogo s’è parlato a lungo, e con toni di grande interesse, nel corso del Comitato, come nel caso dell’intervento di Michele Capano che ha aperto un approfondito dibattito sul tema. Marco Pannella, lunedì, nel corso di un breve intervento mattutino e di uno più lungo nel pomeriggio, aveva sviluppato alcuni ragionamenti interessanti sul dialogo con la destra, spingendo in modo particolare sul tasto del riformismo possibile grazie alla lungimiranza di sindacati nuovi e rappresentativi come l’Ugl di Renata Polverini. In un lungo passaggio del suo intervento, Pannella aveva fatto riferimento all’idea di una riforma del welfare universale, secondo un’impronta salveminiana, partendo da quella preoccupazione del grande storico meridionalista sul rischio di creare attorno alla classe operaia un cerchio di privilegio assoluto che facesse passare in secondo piano la necessità di coinvolgere in un circuito virtuoso anche chi di tutele, in realtà, non ne ha assolutamente. Oggi - ha spiegato Pannella - anche Pietro Ichino converge sulla necessità di una riforma delle pensioni, del lavoro femminile, dell’innalzamento dell’età pensionabile. E qui il ragionamento si sposta sull’Ugl, «che ricorda Pannella - anche a Mirafiori ha ottenuto una grande affermazione, in un contesto storicamente operaio». In questo senso - spiega il leader radicale - «la presenza qui di Renata Polverini ha avuto un significato straordinario, anche per le cose che ha detto, credo per la prima volta». Pannella fa riferimento all’apertura dell’Ugl sul tema dell’equiparazione dell’età pensionabile tra donne e uomini, forse forzando un po’ il concetto visto che l’Ugl si dichiara comunque contraria di principio, ma senza rinunciare all’idea di poter fare riforme col consenso delle forze politiche e sociali. Centrale è stata, secondo Pannella, «la frase di Renata, quando dice che il sindacalismo deve negoziare e contrattare, quindi il problema è che queste misure si possono anche fare, ma con la garanzia che i benefici effetti siano spalmati per riempire i deficit e i buchi di assistenza su questioni come la maternità e la famiglia». E qui il leader si concede un’altra piccola esegesi del pensiero polveriniano, sul concetto di famiglia, passaggio delicato: «Lei ha parlato di famiglia nel momento in cui si costituisce come riferimento economico, quindi anche di di fatto o giuridica...». E giù lodi all’Ugl che sa comprendere e parlare a una nuova realtà operaia, a differenza di altre sigle che invece «continuano a creare spessore tra la condizione esistenziale e quella del proprio lavoro, tra la loro sensibilità e i comportamenti politici...». Pannella sembra fare riferimento all’incapacità della triplice di emanciparsi dalla rappresentanza politica, sindacale e quasi antropologica dell’operaio, per provare invece a interpretarne le aspettative in una società profondamente diversa dal passato. Poi il messaggio finale, di apertura a chiunque abbia voglia di trarre «conseguenze dal proprio vissuto politico», come per le grandi battaglie civili del passato, fatte anche con i cattolici, l’Msi, con la Dc, come sul divorzio, «quando quel 25 maggio 1975 una possibile vittoria stentata si trasformò in un grande trionfo civile per tutti».

Liberazione 1.7.09
Religione, astrazione e alienazione
Caro direttore, davvero interessante che nella tomba di san Paolo siano stati trovati i resti di san Paolo. Come a dire che in un pacchetto di patatine si trovano... delle patatine. Eppure la notizia rimbalza su tutti i quotidiani, proprio nel giorno dedicato all'onomastico di tutti i Paolo (e Pietro): potere secolare, potere mediatico. Come si può sperare, in questa Italia baciapile, di condurre e di vincere una battaglia per la laicità dello Stato? Con quale speranza possiamo continuare a denunciare l'uso improprio che la chiesa cattolica fa dell'otto per mille e di tutte le sue proprietà in suolo straniero? Come contrastare le sue ingerenze, invadenze, indifferenze... Ma soprattutto, come uscire dall'astrazione e dall'alienazione religiosa quando astrazione e alienazione religiosa sono i cardini su cui ruota la porta della nostra realtà?
Paolo Izzo via e-mail

martedì 30 giugno 2009

l’Unità 30.6.09
Se l’analisi del voto è cieca
Sinistra senza trasformazione
di Flore Murard Yovanovitch


A ogni giro di elezioni, ricompare regolarmente la stessa analisi sul crollo della sinistra. Essa sarebbe fallita perché elitaria, autistica, priva di rapporti con la società (come se quest’ultima fosse un entità a parte, da contattare per scoprire le giuste risposte politiche) e dovrebbe ora fare la sua autocritica...
Analisi tanto vecchia quanto errata, perché rifiuta ancora oggi di vedere che la sinistra non è fallita perché salottiera o burocratica, ma per non avere (avuto) idee e soprattutto idee chiare sulla realtà della natura umana. Per non avere scoperto che l’uomo, invece di mero prodotto del suo lavoro, è psiche, dinamica, in rapporto all’altro diverso. Per non essersi interessata all’unica questione che riguardi profondamente l’essere umano: la trasformazione. La struttura mentale della sinistra, come disse Giacomo Marramao alla Fiera del Libro di Torino il 16 maggio scorso, «tradizionalmente focalizzata sulle sovrastrutture, deve ora passare ai soggetti»; noi aggiungiamo alle loro menti. Capendo che la trasformazione sociale passa necessariamente per la trasformazione psichica degli individui che compongono la società.
La sinistra non è sinistrata, né ricomponibile dai suoi frammenti passati (come si agitano ora a fare i suoi... teologi) o ne verranno fuori solo deboli e anacronistiche creature, come sono Partito Democratico e Sinistra e Libertà: essa è storicamente scomparsa dalla cultura. E solo un salto di conoscenza potrà darle un’identità e una reale (ri)nascita. Sono necessari i concetti teorici per pensare e agire una società davvero ugualitaria e di sinistra, non strutturata intorno ai rapporti di produzione e ai vecchi totem, ma ai rapporti creativi, non-violenti e non sfruttanti tra esseri umani uguali dalla nascita. Una società non (auto)distruttiva.
Questione assai urgente, visto che i risultati delle elezioni europee hanno rivelato la dimensione malata dell’Europa, costruita sulla «percezione delirante» di un nemico esterno; nonché l’apparire di un nuovo fascismo difensivo, come lo chiama l’intellettuale ungherese Gaspar Miklos Tamar. Per affrontare questi potenziali mostri e il disfacimento della socialdemocrazia erede del Novecento - e del connesso sistema di valori sul quale era fondata la nostra società, in particolare il consenso egalitario - la sinistra ha bisogno di una teoria radicalmente nuova. Non guardando al passato/futuro, glissando all’infinito su manovre di ricomposizione, ma osando fare un salto totale del pensiero: il sogno realistico di una società non-violenta, non certo basata sui principi spirituali o cristiani, ma sui rivoluzionari concetti di «sparizione del disumano nell’essere umano» (Massimo Fagioli) e di reale uguaglianza.

l’Unità 30.6.09
Intervista a Nawal El Saadawi
«Diamo a Neda e alle sue sorelle iraniane il Nobel per la pace»
La scrittrice egiziana: «Se quel premio ha ancora un senso va assegnato
alla memoria di quella ragazza coraggiosa. Le donne motore della rivolta»
di Umberto de Giovannangeli


Se il mondo ha ancora una coscienza, se esiste ancora il diritto-dovere all’indignazione, allora questa indignazione dovrebbero riempire le piazze di tutto il mondo a sostegno degli eroi di Teheran. E se il Nobel per la Pace ha ancora un senso, dovrebbe essere assegnato alla memoria di Neda, la ragazza uccisa dalle squadracce del regime, divenuta il simbolo di un movimento che sfida un potere teocratico e fascista». A parlare Nawal El Saadawi, l’autrice egiziana femminista più conosciuta e premiata. I suoi scritti sono tradotti in più di trenta lingue in tutto il mondo. Per le sue battaglie in difesa dei diritti delle donne e per la democrazia nel mondo araba, la scrittrice egiziana, 78 anni, compare su una lista di condannati a morte emanata da alcune organizzazioni integraliste.
La brutalità del regime non spegne l’onda verde di Teheran. Come leggere questo movimento?
«Quella in atto in Iran è una rivoluzione di popolo contro dittature interne ed esterne. È la ribellione eroica contro lo sfruttamento e contro i poteri forti, economici, politici, religiosi. Le donne e gli uomini iraniani, giovani e anziani, stanno combattendo contro l’oppressione, la disuguaglianza, l’ingiustizia. La loro voce è la voce del popolo iraniano. Nessun potere può azzittirli prima che gli eroi di Teheran raggiungeranno il loro obiettivo».
Al di là delle proteste formali, il mondo sembra assistere passivamente agli eventi di Teheran.
«È una vergogna. Un’assoluta vergogna. Se esiste ancora il diritto-dovere all’indignazione, questo diritto deve riempire le piazze di tutto il mondo a sostegno della rivoluzione iraniana. Nessuno può girare la testa da un’altra parte. Nessuno può dire: non sapevo. Il silenzio è complicità verso un potere che sta reprimendo nel sangue una rivolta democratica».
Lei parla di silenzio. Un silenzio che domina nelle capitali arabe.
«Dica pure complicità. Perché a quei leader arabi abbarbicati al potere, a élite che hanno fatto scempio di diritti e di democrazia, a questi satrapi la rivoluzione iraniana fa paura, molto di più del regime teocratico di Ahmadinejad e Khamenei. Fa paura perché hanno il terrore che l’onda verde di Teheran possa propagarsi a tutto il mondo arabo e musulmano. Da qui il silenzio. Il silenzio dei complici».
L’Occidente deplora la repressione messa in atto dal regime.
«Deplora ma continua a fare affari con quel regime. Gli affari contano più dei diritti. Il petrolio più della libertà rivendicata dal popolo iraniano. È la doppia morale dell’Occidente: a parole si esaltano i principi di democrazia, nei fatti si continuano a sostenere, o comunque a non intaccare, regimi che della democrazia fanno scempio quotidiano».
Il simbolo di un’onda che non si arresta è Neda Agha Soltan, la giovane iraniana uccisa in una delle prime manifestazioni di piazza.
«Ho pianto per Neda. E allo stesso tempo mi sono sentita orgogliosa, come donna, come musulmana, Orgogliosa perché sono le donne il motore di questa rivolta, sono loro esprimerne lo spirito più alto. Perché sono le donne ad essere doppiamente vittime di un regime teocratico e sessista come è quello iraniano. La loro è una doppia ribellione. Mi lasci aggiungere, che se il premio Nobel per la Pace avesse ancora un senso, questo premio dovrebbe essere assegnato a Neda e alle donne iraniane».
Perché le donne fanno paura al potere come ai fondamentalisti?
«Fin dall’inizio della storia dell’umanità,i governanti, ma anche i fondamentalisti e gli stessi Dei maschili, erano contro le donne. Perché erano contro Eva, la nostra progenitrice. Perché lei ha mangiato dall’albero della conoscenza, e quindi e diventata una peccatrice. Da lì sono cominciate due cose: è iniziata l’oppressione delle donne, e contemporaneamente la conoscenza veniva proibita. L’oppressione, la schiavitù sono iniziate con Eva e proseguite con Iside, la divinità femminile della conoscenza. Tutto questo accade perché gli uomini – non solo quelli che esercitano la loro protervia maschilista in nome di Allah - hanno paura delle donne, e hanno paura perché le donne sono più intelligenti degli uomini. Eva era più intelligente di Adamo... Per questo si ha paura delle donne in una società che è, al tempo stesso, patriarcale, capitalista e teocratica».

l’Unità 30.6.09
Anita Desai
La scrittura viene dal silenzio come la forma dalla pietra e la luce dal buio della notte
La scrittrice indiana riflette sul metodo letterario a partire dagli antichi Veda, ognuno dei quali era, assieme, incipit e frammento di un racconto generale. Il narrare è come la musica e la solitudine dello scrittore è l’indispensabile nulla che precede l’emissione del suono


L’intervento pubblicato verrà letto da Anita Desai oggi alle ore 21 alla Milanesiana, il festival di letteratura, musica e cinema, ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi e promosso dalla Provincia di Milano, con il Comune di Milano e la Regione Lombardia.

In La terra desolata, T.S.Eliot scriveva:
Chi è il terzo che ci cammina sempre accanto?
Quando conto, ci siamo soltanto tu e io insieme,
Ma quando guardo avanti alla strada bianca
C’è sempre un altro che ti cammina accanto
Scivolando ravvolto in un mantello bruno,
incappucciato
Non so se uomo o donna
- Ma chi è che ti sta all’altro fianco?

E in una nota a piè pagina, Eliot aggiungeva che quei versi gli erano stati suggeriti dal resoconto di una spedizione in Antartide: «Vi si riferiva che il gruppo degli esploratori, allo stremo delle forze, aveva continuamente l’illusione che ci fosse una persona in più di quante non se ne potessero effettivamente contare».
Per chi viene dall’India è una sensazione familiare. In India i bambini crescono in compagnia di antichi miti e leggende prima di saper leggere o scrivere, e perfino prima di essere consapevoli di conoscerli. Sono lì, nelle voci di genitori e nonni, sono la materia stessa delle feste che celebriamo, le immagini sono sparse ovunque, ubique come i corvi e le mosche. Oggi schizzano fuori dai fumetti e dai cartoni animati, e si riversano fuori dagli schermi televisivi. Tutti sappiamo che l’albero sul ciglio della strada che ci dà ombra nelle giornate calde è anche l’albero sotto il quale pregava il Buddha e in cui si nascondeva Krishna. La scimmia che si dondola dai rami non è soltanto un primate giocherellone ma anche il dio Hanuman. Il fiume melmoso che pigramente si dirige fuori dalla città non è soltanto la fogna urbana che sembra ma anche il fiume che dopo la nostra morte porterà le nostre ceneri al mare e nell’eternità. Così, per uno scrittore indiano, i personaggi che crea sono meri simboli di concetti più vasti che sono sempre esistiti. Un albero rappresenta tutti gli alberi, un fiume tutti i fiumi, un amante tutti gli amanti. Allo stesso modo gli eroi e le eroine del cinema non sono soltanto le formose tentatrici che vedete, o i baffuti criminali o la vedova in lacrime vestita di bianco; essi rappresentano ciò che già sappiamo dalla nostra mitologia. A loro non chiediamo di essere unici e originali, ma semplicemente di interpretare il proprio ruolo, e poi sparire per ricomparire altrove.
Nel pionieristico romanzo di Salman Rushdie, I figli della mezzanotte, il protagonista Saleem non si considera un individuo. Dice: «E ci sono tante storie da raccontare, troppe, un tale eccesso di linee eventi miracoli luoghi chiacchiere intrecciati, una così fitta mescolanza d’improbabile e di mondano! Sono stato un inghiottitore di vite; e per conoscermi, dovrete anche voi inghiottire tutto quanto».
Il metodo narrativo usato è lo stesso usato millenni or sono quando i Veda vennero messi per iscritto per la prima volta, su strisce di foglie di palma, dopo secoli di recitazione orale. Su ogni striscia era iscritta una porzione del tutto. Se ne poteva scegliere una qualunque come incipit al resto. Un intero pubblico, o un singolo ascoltatore, poteva entrare e ascoltare un episodio, e poi andarsene e tornare per sentirne un altro. Il tempo era tutto sincronico, simultaneo. Per un indiano il tempo è un ciclo, una ruota, che passa dalle tenebre alla luce e ritorna alle tenebre, dal silenzio al suono e di nuovo al silenzio.
Per l’induismo, vedere le cose come separate, differenziate, è avidya, ignoranza, mentre la vera conoscenza, vidya, è conoscenza unitaria.
Io ritrovo lo stesso credo nella festa messicana del Dia de los Muertos, quando ogni famiglia erige altari per i propri morti, e vi posa gli oggetti più cari ai defunti, una chitarra, per esempio, o una bottiglia di pulque, o una sella; in modo che i defunti, qualora tornassero, ne possano godere di nuovo. Nei cimiteri, le famiglie trascorrono la notte raggruppati intorno alle tombe, portando i cibi che un tempo piacevano ai loro morti, suonando e cantando le canzoni che essi amavano. E nel buio spesso della notte, pieno di guizzi e fumo di candele, i morti sono di nuovo presenti anche se invisibili.
Forse la musica esemplifica meglio questo credo. Non la musica in sé, ma il silenzio che la precede. Prima del suono c’è il silenzio, il vasto e incoato magma fuso – il nulla – ed è quel silenzio, quel nulla, che dà origine al suono. Per il credo indù, quel suono primigenio è la sacra sillaba Om. Ma una volta pronunciato, quel suono ritorna al silenzio. Così formando un cerchio, o un ciclo, la ruota che rappresenta anche la vita; la vita non è lineare, né sequenziale, bensì ciclica, circolare, finisce dov’era cominciata, e ricomincia là dove finisce.
Dal silenzio nasce il suono. Dalla notte, il giorno. Dalla pietra, la forma.
Ancor oggi un cantante classico in India lascia che il silenzio sia riempito dal ronzio indifferenziato del tanpura, e da tale ronzio lui o lei estrae la nota primaria del raga, dalla quale verranno le altre. Queste note – e sono suoni, non parole – nelle loro diverse combinazioni, sequenze e intonazioni andranno a comporre il raga. Si ritiene che, pronunciate correttamente, abbiano poteri magici.
E lo scrittore che maneggia le parole, il linguaggio, questo lo sa istintivamente. È dal buio, dall’invisibilità, che emerge ciò che si vede e ciò che si sente. Molti scrittori l’hanno testimoniato.
Proust diceva che i libri veri non sono figli della luce del giorno e delle chiacchiere, bensì del buio e del silenzio.
Rilke scrisse: «Questo solo è ciò che abbisogna: solitudine, grande intima solitudine. Penetrare in sé stessi e per ore non incontrare nessuno, questo si deve poter raggiungere».
E Walter de la Mare: «Lo scrittore deve ritrarsi dalle pressioni e dai vezzi della convenzione, ancora e ancora. Deve costantemente ricatturare il silenzio».
E il profeta americano Henry David Thoreau: «Amo avere ampi margini alla mia vita. (...)Come grano di notte crebbi in quelle stagioni. Esse non furono un tempo sottratto alla vita, ma molto sopra e al di là della consueta razione».
E Virginia Woolf così descrisse la scrittrice: «La immagino in un atteggiamento di contemplazione, come una donna che pesca, seduta sulla riva di un lago con la lenza protesa sull’acqua. Non stava pensando, né riflettendo, né costruendo un intreccio; lasciava che la sua immaginazione s’immergesse nelle profondità della coscienza mentre lei restava seduta lì aggrappandosi a un sottile ma indispensabile filo di ragione. Lasciava scorrere incontrollata l’immaginazione dietro ogni roccia, dentro ogni fessura del mondo che giace sommerso nelle profondità del nostro essere inconscio».
(traduzione di Anna Nadotti) Copyright: © 2009 by Anita Desai. Published by Arrangement with Roberto Santachiara Agenzia Letteraria

Dai romanzi ai racconti per bimbi la scrittrice e la sua India
Anita Desai, nata nel 1937 da madre tedesca e padre bengalese, ha compiuto gli studi a Delhi. I suoi libri pubblicati includono tra gli altri «Fuoco sulla montagna» (2006), che si aggiudicò il Royal Society of Literature's Winifred Holtby Memorial Prize e il National Academy of Letters Award. Ha scritto anche due libri per bambini, «The Peacock Garden» (1979) e «Il villaggio sul mare» (2002), che vinse il Guardian Award for Children’s Fiction e da cui è stato tratto un film. Il suo ultimo romanzo, «Digiunare, divorare», tradotto in Italia nel 2005, è stato selezionato per il Booker Prize.

l’Unità 30.6.09
Hey William, giù la maschera e dicci chi eri veramente
di Ugo Leonzio


Il mistero sull’identità del Bardo, un autore che non sapeva scrivere neppure la sua firma
Uno, cento, mille William Shakespeare: è esistito veramente il Bardo? E se no, chi era in grado di scrivere gli immortali drammi che portano il suo nome, come fosse un marchio di fabbrica?

Shakespeare era analfabeta. Sì, proprio lui, il «dolce cigno dell’Avon», non era in grado di mettere una firma decente neppure in fondo al suo testamento.
Se quest’estate pensate di andare al «Globe» di villa Borghese a Roma, e commuovervi mentre i monologhi di Macbeth, di Prospero o di Lear si aggirano tra i vostri occhi umidi e il palcoscenico, cercate su google il saggio di Robert Detobel Shakespeare’s signatures analyzed. Delle sei firme autografe, considerate l’unica prova autentica della sua scrittura, nessuna è veramente una «firma» ma l’anonima esecuzione di uno scrivano. Quando consegnava i copioni di drammi, commedie e tragedie costruite con la prosa più intatta e immortale che sia mai stata scritta in lingua inglese, gli attori notavano l’immancabile assenza di correzioni come se qualcuno li avesse diligentemente ricopiati. Nessuno dei suoi ritratti è autentico e certamente non è Will l’autore dei Sonetti. L’autore, alle soglie della vecchiaia, descrive la sua implacabile decadenza fisica. All’epoca Will aveva più o meno ventisei, anni.
Chi era l’analfabeta Will? E chi era «Shake-speare», la misteriosa entità che scrivendo Amleto, poteva permettersi di usare 600 parole nuove di zecca, mai apparse nelle opere precedenti? Che conosceva Venezia meglio dei veneziani? Che maneggiava il greco e il latino come i Wit di Oxford e la filosofia meglio Giordano Bruno? E le abitudini dei calzolai, degli armigeri, le danze, gli usi, i pettegolezzi, le congiure, le perversioni, le parentele, i gradi di nobiltà della Corte come se ci vivesse e ci fosse vissuto da sempre? Che Will avesse una vocazione a raddoppiarsi e a sparire era evidente fin dai suoi esordi, quando ancora non si chiamava Shakespeare e non pensava di fuggire a Londra per fare l’attore.
WILL UNO E BINO
Al suo doppio testamento (nel quale lasciava dieci tremolanti sterline ai poveri del paese) corrisponde anche un doppio matrimonio. Non nel senso che Will si sia sposato due volte ma che mentre William Shagspere di Stratford otteneva, il 28 novembre 1582, una licenza matrimoniale per sposarsi con Anne Hathwey (incinta di tre mesi) un’altra licenza veniva rilasciata in data 27 novembre 1582 per il matrimonio di William Shaxpere e Anne Whatley di Temple Grafton, un villaggio a cinque miglia da Stratford. È inutile cercare una persona, un vero Will. Inutile e infruttuoso per un motivo semplice, nessun poeta o drammaturgo nato in quell’epoca aveva un genio sufficiente per creare le opere di «Shake-speare». Nessuno, tranne Christopher Marlowe, che era morto nel 1593, a ventinove anni, assassinato in un complotto organizzato da Sir Francis Welsingham, il potente Segretario di Stato, capo delle spie della regina Elisabetta. Intorno alla morte di Marlowe e alla certezza che fosse morto davvero (il corpo su cui venne eseguita l’autopsia non era certamente il suo), esiste un libro ormai leggendario The reckoning di Charles Nicholl (Random House).
Questo omicidio potrebbe contenere, in modo del tutto imprevedibile, il segreto dell’entità enigmatica, ironica e crudele che amava firmare le sue opere «Shake-speare», come se fosse un soprannome, una marca. O una factory che disponesse di un immenso potere.
UN’ENTITÀ
Will venne ingaggiato da «Shake-speare», in una strada di Londra, verso la fine del 1591. Venne rimosso dal suo incarico il 23 marzo 1603 alla morte della regina Elisabetta. Era famoso, ricco, molto ricco. Greene, Fletcher, Kid, Beaumont, Lodge, Peele e tutti i magistrali protagonisti della bella brigata elisabettiana erano morti senza niente. Per tutti quegli anni, Will recitò un ruolo che solo un genio assoluto avrebbe potuto inventare, qualcuno che non aveva mai conosciuto, con cui non aveva mai scambiato una parola, una lettera, da cui non aveva mai ricevuto messaggi e che restò per lui misterioso almeno quanto lo è per noi. È strano che questo problema sfiori di rado le opere degli studiosi, anche quelle acute, profonde, intelligenti come quella di Luca Fontana Shakespeare come vi piace (il Saggiatore) o molto glamour come Shakespeare in Venice di Shaul Bassi e Alberto Toso Fei (edizioni Elzeviro) da leggere assolutamente prima di inseguire il nostro amato fantasma tra Rialto e il Ponte de le Tette.
Poi, provate a domandarvi chi è l’entità «Shake-speare» che esprime nel suo stile meravigliosamente unico una mente inquieta, ferita, violata, abituata a scendere negli abissi, capace di uccidere, di nascondere il proprio sesso, di vivere nel bordello di miss Overdone, di odiare il padre, di perdere un regno e riconquistarlo e perderlo di nuovo come in un sogno? (il primo nome che vi viene in mente sarà quello giusto).

l’Unità 30.6.09
Intervista a Dario Fo: «Giotto ad Assisi non dipinse. Ma lì non me lo fanno dire»
Uno spettacolo del premio Nobel sul pittore e sugli affreschi della chiesa
«C’era Cavallini e la scuola romana, però il vescovo mi ha censurato»
di Stefano Miliani


Quel san Francesco che scaccia i diavoli da Arezzo chi l’ha dipinto? Giotto o il romano Cavallini? Nella basilica superiore di Assisi a fine ‘200 chi affrescò le scene del cosiddetto Maestro di Isacco e, sopra ogni altra cosa, quelle storie di San Francesco che per comune opinione hanno dato l’abbrivio alla «moderna» pittura italiana, più realistica e vicina agli uomini? Il pittore toscano o il maestro Pietro Cavallini e la scuola romana? Sull’amletico dilemma gli storici dell’arte si arrovellano dalla fine del ’700. In Italia prevale l’opzione giottesca con robuste eccezioni (del compianto Federico Zeri e di Bruno Zanardi). E ora il «partito» che propende per Cavallini e Roma acquisisce un alleato capace di meravigliose e umanissime affabulazioni sull’arte e sugli artisti: Dario Fo. Che racconta come e perché Giotto non ebbe alcun ruolo di guida, nella basilica assisiate, nella lezione-spettacolo con schermi, disegni e storie in calendario il 2 e 3 luglio al teatro Bonci di Cesena, l’8 e 9 in piazza Santa Croce a Firenze, il 24 e 25 in piazza San Francesco in Campo. Stranamente non davanti alla basilica di Assisi, il posto più congeniale. Non per volontà del premio Nobel: il vescovo – racconta Dario Fo – lì non gradiva e altre dislocazioni erano ingestibili. E se avete seguito, live o in tv, una delle sue storie dell’arte (dal duomo di Modena a Raffaello, da Michelangelo a Caravaggio), non vorrete perdere questa narrazione che si intreccia con l’originario messaggio francescano.
Semplificando, come funziona stavolta il marchingegno narrativo?
«Abbiamo preso alcune storie di San Francesco e abbiamo lavorato sulla tecnica pittorica d’esecuzione che era diversa tra scuola romana e toscana partendo da un fondamentale libro di Bruno Zanardi sulla questione di Assisi. Gli artisti usavano dei cosiddetti cartoni con tanti fori che, senza entrare ora in troppi dettagli, venivano appoggiati alla parete e attraverso una polvere nera servivano a tracciare delle sagome articolate come fossero marionette della tradizione orientale. Da quelle sagome si ottengono le figure e queste figure lì ad Assisi sono costanti, hanno le stesse dimensioni tanto nelle storie bibliche che in quelle su San Francesco. Abbiamo copiato le sagome come ha fatto Zanardi e scoperto, ad esempio, proporzioni tra testa e corpo diverse, il che vuol dire che gli autori erano diversi. Ricordiamo che quegli affreschi venivano eseguiti da veri “cantieri” con un maestro pittore, poi c’era chi eseguiva l’incarnato, chi il fondo, e così via. Di sicuro Cavallini aveva condotto un suo gruppo di lavoro, c’è chi dice ci fosse lo scultore Arnolfo di Cambio e chi il maestro di Giotto, cioè Cimabue, ma Giotto era troppo giovane: chi dirigeva, il “magister” generale, aveva una certa età».
Eppure molti studiosi restano convinti della sua presenza.
«Perché non hanno adoperato un metodo scientifico come ha fatto Zanardi. Ad esempio i pittori romani usavano un taglio radente per la luce, mentre in Giotto e nei toscani è molto più dolce, si passa dalla luce al buio con maggiore uniformità. E ad Assisi la presenza romana si vede. Abbiamo anche riprodotto molte opere perdute di affreschi romani del Cavallini di cui si sono salvate solo copie del ’600 e queste immagini danno molte indicazioni».
Per gli storici dell’arte che vedono Giotto maestro ad Assisi c’è, nonostante le differenze dovute agli anni passati, un’affinità di fondo tra gli affreschi di Assisi e quelli della Cappella degli Scrovegni a Padova, opera sicura dell’artista finita nel 1305.
«Sì, esiste una unità di fondo, ma perché era venuto ad Assisi, avrà visto, magari ha anche lavorato ma non come magister major».
Volevate allestire lo spettacolo davanti alla basilica di Assisi. Jacopo Fo ha detto che il vescovo della città, monsignor Sorrentino, si è opposto.
«Esatto, ci hanno risposto di no. Senza dare motivazioni. Volevano che lo facessimo sulla Rocca ma lassù non si arriva con i camion, è impossibile, eppure i frati e il sindaco lo volevano, erano d’accordo con noi. Eppure lì fanno spesso concerti. Peraltro ho già fatto in tutta l’Umbria, tranne che ad Assisi, lo spettacolo su San Francesco. Questa è censura bella e buona. Invece i gesuiti nella loro rivista dedicarono 15 pagine entusiaste al mio San Francesco».
Avere il nome di Giotto come artista principe attira più persone?
«È per quello che non vogliono il nostro spettacolo davanti alla basilica (ma non sto parlando dei frati). Poi io sono di sinistra e sul San Francesco ho idee diverse da quelle imposte nei secoli. Pian piano lo hanno trasformato in una copia di Cristo mentre lui non voleva saperne. Lo spirito di San Francesco è stato edulcorato. Come disse lui stesso: se andiamo avanti con queste varianti alle regole francescane alla fine proporremo un modo di vivere che piacerebbe tantissimo ai mercanti di Venezia».
Queste lezioni-spettacolo funzionano benissimo anche nelle riprese televisive. Giotto andrà in tv?
«Non so, facciamo lo spettacolo a nostre spese. Speriamo».

La storia e i libri della «querelle» dell’arte
La diatriba. A dire che Giotto lavorò ad Assisi, è un documento del 1312. Nel 1450 ci tornò su Lorenzo Ghiberti, poi il Vasari gli attribuì le storie francescane nel 1568 nella seconda edizione delle sue «Vite». Aprì il diverbio il domenicano Della Valle nel 1791. Bruno Zanardi, anche espertissimo restauratore, con «Giotto e Pietro Cavallini», nel 2002 ha cercato di provare scientificamente che lì non fu Giotto il maestro chiave. I i principali studiosi italiani del pittore, come Luciano Bellosi (autore di un libro essenziale come «La pecora di Giotto»), sono convinti che l’artista toscano dette l’impronta alla decorazione della basilica superiore. Che, costruita dal 1228 al 1253, dal 1277 ai primi del 300 fu «il» vero centro pittorico d’Europa. E per quegli affreschi, oltre a Cimabue, al Maestro di Isacco, Giotto e Cavallini, si sono fatti i nomi del romano Torriti e dello scultore Arnolfo di Cambio.

Repubblica 30.6.09
Il Paese delle reliquie
di Jenner Meletti


Dopo la scoperta dei resti di San Paolo, viaggio nell´Italia che venera il corpo dei santi. Per capire le ragioni di un culto millenario
I resti di San Paolo sono solo l´ultimo ritrovamento E daranno vita a un nuovo culto. Perché in Italia la venerazione delle reliquie è antichissima E ancora oggi molto diffusa. Ecco perché
C´è concorrenza, fra i santuari, perché i pellegrini sono anche turisti che portano denari
C´è chi ha bisogno di vedere, e magari toccare per cercare una conferma al proprio credo

Lo ricorderà per sempre, quel giorno del 1965. «Ero un giovane seminarista, ma potei assistere alla riesumazione del corpo di don Luigi Orione, nel santuario della Madonna della Guardia a Tortona. Erano passati 25 anni dalla sua morte: il corpo era intatto, ancora elastico. Prima di riporlo nell´urna di marmo, gli tagliarono la barba. Gli era cresciuta anche dopo la morte». Don Flavio Peloso allora aveva 13 anni e adesso è il superiore generale dell´Opera don Orione. Il ritrovamento della tomba di San Paolo («Sono stati trovati i resti - ha detto papa Benedetto XVI - di una persona vissuta fra il I e il II secolo») gli fa tornare alla mente quel giorno del 1965. «Non avevo nessuna paura. I superiori mi dissero che potevo avvicinarmi al corpo del nostro fondatore e io accettai l´invito. Mi fece tanta tenerezza, vedere quel volto che fino ad allora avevo visto solo in fotografia. Era davvero il corpo di un santo. Lo capimmo tutti, anche se per la canonizzazione abbiamo dovuto aspettare il 16 maggio 2004».
Il corpo di don Orione è ancora a Tortona, il suo cuore invece è a Claypole, vicino a Buenos Aires. «Può sembrare strana, questa venerazione del corpo dei Santi, ma solo a chi non conosce la religione cattolica. Alla base di tutto c´è l´affetto e questo vale per tutti i defunti. Si conserva un oggetto, una fotografia, si va al cimitero. Vado spesso in Madagascar e lì, ogni cinque o sei anni, i morti vengono levati dalle tombe, ripuliti, rivestiti con nuovi abiti… Per i cattolici c´è qualcosa in più: si rispetta il corpo che è tempio e opera di Dio ed è annuncio di resurrezione. Per il corpo del santo c´è una venerazione più alta perché è stato testimone e strumento di opere di santità».
L´annuncio del papa sulla scoperta che «sembra confermare l´unanime e incontrastata tradizione che si tratti dei resti mortali dell´apostolo Paolo» provoca, nel superiore degli «Orionini», una forte emozione. «Per noi cristiani queste non sono solo notizie di grande valore archeologico e artistico, ma costituiscono un prezioso documento sulla nostra fede cristiana che viene da una storia che ha fatto storia e ha lasciato tracce storiche. Non è una mitologia, una filosofia, una morale ben pensata. Non è una creazione dell´uomo ma un evento storico accaduto e che come tale ha lasciato tracce e documenti certi, accessibili, non equivoci. La storia della salvezza "avvenne", "il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi". E´ davvero importante trovare conferme storiche. Viviamo in un mondo dove c´è chi, a pochi decenni di distanza, cerca di negare l´Olocausto».
Non è semplice nemmeno dopo la morte, la vicenda dei santi. «Nel 1977 - racconta don Flavio Peloso - a Tortona ci fu una grande alluvione che allagò anche la cripta del santuario. Noi potemmo riaprire la tomba di don Orione solo nel 1980, l´anno della beatificazione. Il corpo era deteriorato e allora fu decisa la "mummificazione artificiale". In pratica, si usano sostanze chimiche che essicano il corpo. E così abbiamo potuto esporre il corpo, in una teca. Arrivano fedeli da tutto il mondo. C´è chi ha bisogno di "vedere", e magari toccare, per cercare una conferma nella fede. I tecnici, sempre nel 1980, ci spiegarono che con la mummificazione gli organi interni sarebbero stati perduti e allora fu deciso di togliere il cuore. E´ stato messo in una reliquiario, che nel 2000 è stato mandato in Argentina, perché questo era il desiderio di don Orione. Venerare il cuore di un santo è un richiamo storico e culturale alla comunione con quel santo e con Dio. Non a caso si conservano ancora i cuori dei santi Teresa d´Avila, Carlo Borromeo, Francesco di Sales, Vincenzo de´ Paoli…».
La notizia del San Paolo ritrovato riapre vecchie polemiche. Il carbonio 14 è cosa buona e giusta quando conferma l´autenticità della tomba dell´apostolo ma viene messo in discussione quando rileva che la Sindone, il sudario in cui fu avvolto il Cristo, il realtà sarebbe medievale. Secolari sono poi le accuse contro il traffico di reliquie, più e meno autentiche, che paradossalmente continuano anche nei giorni nostri. Ieri, su eBay, era possibile comprare una «reliquia del Beato Giacinto martire» a soli 110 euro o «una coppia di reliquiari per reliquia» a 1.000 euro.
«L´annuncio dato dal papa sulla tomba di San Paolo - dice Alessandro Albertazzi, docente di storia contemporanea all´ateneo bolognese e postulatore di numerose cause di canonizzazione - ci fa molto piacere soprattutto perché conferma che chi per secoli ci ha parlato dei primi cristiani a Roma, di San Pietro e di San Paolo, non ci ha raccontato frottole. La scoperta ci dice che la storia conferma ciò che abbiamo creduto per fede. E non possiamo certo stupirci per il ruolo che il "corpo" ha nella nostra fede. Il Credo si chiude con l´annuncio della "resurrezione dei morti e la vita eterna". Il vecchio Credo, in modo ancor più esplicito, parlava di "resurrezione della carne". Tutta la nostra fede non esisterebbe senza quel Dio che è diventato uomo, un corpo che è stato crocefisso poi è risorto… E il corpo del santo viene venerato perché è testimonianza delle buone opere compiute. Non deve stupire, questo legame. Chi ha perso i genitori va al cimitero, parla con loro, cerca di ricordi. Stare davanti alla tomba dei santi o a quella di genitore è anche un modo per riconquistare la memoria».
Si chiama pellegrinaggio, la visita ai corpi dei santi. «Non è obbligatorio ma certo rinforza la fede. Questo perché essere pellegrini vuol dire accettare la penitenza, l´obbedienza, l´umiltà. Vai a Lourdes, aspetti che prima di te entrino nelle vasche i malati, anche quelli con le pustole, e devi obbedire alle pie donne che ti dicono quando devi entrare e quando devi uscire… Segui il Camino di Compostela, anche soltanto per qualche giorno, e senti addosso la grande fatica di un duro percorso che sembra non finire mai. Sono atti di devozione che possono aiutarti a rafforzare la fede, soprattutto quando è debole».
C´è anche molta concorrenza, fra i diversi santuari, perché i pellegrini sono anche turisti che dovrebbero portare offerte nelle cassette delle elemosine e soprattutto denari in hotel e ristoranti. Chiese e santuari con i corpi dei santi - come Sant´Ambrogio a Milano, San Marco a Venezia, San Nicola a Bari, il duomo con San Gennaro a Napoli - o luoghi di culto mariano come la Madonna di Nazareth, salgono e scendono nelle quotazioni dei fedeli come titoli in borsa. E non sempre i desideri diventano realtà. A San Giovanni Rotondo, ad esempio, l´esposizione del corpo di padre Pio (con maschera in silicone disegnata dalla londinese madame Tussauds, del museo delle cere) non ha risollevato dalla crisi alberghi e ostelli vari. «Domenica scorsa, quando è venuto il papa - dice S., che lavora in un call center che riunisce 40 hotel - abbiamo ricevuto prenotazioni per 45 camere in tutto. Nei primi sei mesi di quest´anno, rispetto all´anno scorso, i clienti in hotel sono diminuiti del 60%. Sono meno anche rispetto a due anni fa, quando l´esposizione del corpo di padre Pio, avvenuta il 24 aprile 2008, era solo un progetto». Alberghi che chiudono, bed & breakfast che restano vuoti per mesi. «I pellegrini arrivano dai paesi vicini e dormono a casa loro. I pochi che arrivano da lontano si fermano un´ora o due e alla sera sono già a Roma». Il corpo del santo verrà messo nella cripta sotto la nuova chiesa di Renzo Piano. «Padre Pio - dice S. - voleva restare in pace in un cantuccio del convento. Da quando l´hanno disturbato, ci ha messo in punizione. La penitenza la stiamo già facendo, con tanti letti e tavoli vuoti. Forse dovremmo chiedergli perdono».

Repubblica 30.6.09
Quando le città si contendevano il Corpo del Santo
di Agostino Paravicini Bagliani


Per la tradizione emanano profumi e sono fonte di prodigi. Da San Nicola si dice che sgorghi olio. Una sterminata collezione di braccia, gambe, cuori, occhi: davano prestigio e protezione

Gli antichi romani veneravano gli eroi e ne custodivano con particolare devozione gli oggetti che gli erano stati associati come reliquie ma ritenevano che il loro cadavere fosse inviolabile. Con l´avvento del Cristianesimo, i corpi dei santi, soprattutto se rinvenuti integri, assunsero invece una funzione di protezione soprannaturale.
Nel 395, a Milano, Sant´Ambrogio seppe da una visione dove si trovavano i corpi dei martiri Nazario e Celso che erano stati decapitati, riscontrò il corpo di Nazario «perfettamente integro e intatto, con barba e capelli, cosparso di sangue fresco come fosse stato appena sepolto».
Nel Medioevo si pensava che dal corpo del santo emanasse una virtus specialissima che poteva anche corrispondere ad una sorta di talismano: i mercanti veneziani, per evitare naufragi, portavano con sé dell´acqua che era stata in contatto con la tomba di San Marco.
A Roma, al centro della Cristianità, la cappella particolare del papa - il Sancta Sanctorum, presso San Giovanni in Laterano - conservava una delle più ricche collezioni di reliquie di corpi santi: le braccia di San Cesario, due ossa di San Giovanni Battista, un osso di San Gerolamo, la spalla di San Dionigi l´Areopagita, il ginocchio di San Tiburzio, frammenti delle teste di San Pietro e di San Paolo, e il capo di Sant´Agnese, oltre che reliquie di San Lorenzo, il santo patrono della cappella.
Possedere una reliquia conferiva prestigio ad un´intera comunità. La Legenda aurea - la più celebre raccolta medievale di vite di santi (trad. Giovanni Paolo Maggioni, Firenze Edizioni del Galluzzo, 2007) - raccontava che quando i Turchi distrussero Mira, dove San Nicola era stato sepolto, quarantadue soldati di Bari riuscirono a traslare nella loro città «le sue ossa che galleggiavano nell´olio. Era l´anno 1087».
Anche la scoperta delle reliquie dei santi Matteo e Luca permise a Padova di far parte della ristretta cerchia di città italiane che possedevano reliquie degli evangelisti. E a Venezia, il rinvenimento, nel 1094, delle reliquie di san Marco in un pilastro della basilica, suggellò per secoli l´alleanza della città con il santo.
Il conflitto con Barbarossa fece invece perdere a Milano le reliquie dei Re Magi, a favore di Colonia, dove i Re Magi conosceranno un culto rapidissimo.
Sempre secondo la Legenda aurea, una maggioranza di santi esalavano odori profumati al momento della loro morte. Quando San Nicola fu sepolto in una tomba di marmo, «dalla sua testa sgorgò una fonte di olio e ai suoi piedi una fonte d´acqua e fino ad oggi dalle sue membra trasuda un olio che ridona la salute a molti».
San Nicola aveva dunque un corpo "miroblita", un attributo che fu sovente dato ad un santo (si pensi a San Demetrio Miroblita) per indicare che il suo corpo defunto lasciava colare olio profumato.
Alla morte della principessa Elisabetta d´Ungheria (1231), uno degli elementi che «rese evidente la sua castità e la sua purezza», fu appunto il «diffondersi del profumo». Ed anche alla morte di Teresa d´Avila (1582), i biografi della santa insistettero sulla "suavità" che emanava dal suo cadavere. Il suo corpo esalò odori "suavi" anche dopo la sepoltura, per cui fu riesumato e distribuito a vari monasteri: la mano sinistra fu affidata alle carmelitane scalze di Lisbona, il braccio sinistro fu lasciato ad Alba de Tormes, il resto del corpo fu portato al monastero di san Giuseppe d´Avila.
L´incorruttibilità del cadavere non è però sufficiente a garantirne la santità. Quando, l´11 ottobre 1605, il sepolcro di papa Bonifacio VIII (1294-1303) fu aperto (si stava allora costruendo la moderna basilica vaticana), la salma fu trovata «intatta e non corrotta» e fu perciò esposta per devozione nella sala degli archivi della basilica vaticana.
Ma la scoperta dello stato incorrotto della salma di un papa dalla memoria così controversa non fu, né allora né poi, considerato un indizio di santità.

Repubblica 30.6.09
La chiesa, l’inquisizione e i libri all´indice
La caccia all’eretico
di Adriano Prosperi


Dai vescovi al papa
All´inizio scovare e perseguire l´errore era compito di vescovi e concili. Poi con il tempo la condanna e la persecuzione divennero una specializzazione di corpi alle dirette dipendenze del papato

Nella tradizione della chiesa cristiana d´Occidente la condanna dell´errore ha preso il nome latino di una istituzione dell´antica Roma: censura.
Non è solo una questione di parole. La lotta contro l´errore, per la Chiesa, ha cessato presto di essere la parola carismatica dell´apostolo che corregge Simon Mago per diventare la funzione di un potere regolato dal diritto. Da correzione fraterna dell´errante si è trasformata in volontà di uniformazione del consenso e domanda di adesione acritica secondo la formula recitata dall´eretico pentito: «Credo quod credit Sancta Mater Ecclesia» (credo quello che crede la santa madre chiesa). Il percorso storico è stato lungo ma lo spirito del dubbio e della disobbedienza è sempre stato identificato col volto di Satana, il tentatore. E col costituirsi della Chiesa come società gerarchica dominata da un potere sacrale accentrato la censura si è esercitata soprattutto contro gli ingegni indocili. La scelta personale ("eresia") fu la colpa da perseguire. Se all´inizio scoprire l´errore e denunciarlo fu il compito di vescovi e concili, l´ascesa del potere papale portò a concentrare la censura delle opinioni e la persecuzione degli eretici nelle mani di corpi specializzati alla esclusiva dipendenza del papato: gli ordini religiosi domenicano e francescano. Dominanti nella predicazione e nell´insegnamento della teologia, i frati furono anche i titolari dell´ufficio dell´inquisizione. Fu così che i roghi di libri aprirono la via ai roghi di uomini.
La "rivoluzione silenziosa" del libro a stampa e quella del movimento luterano portarono a profonde modifiche. Fu allora che il papato accentrò nelle sue mani la censura. Il primo e più celebre degli indici dei libri proibiti fu pubblicato da Papa Paolo IV nel 1559 inaugurando una tradizione destinata a lunga durata. Da allora la censura divenne una funzione ordinaria del potere ecclesiastico che precedette quello statale. Si trattò di un´impresa gigantesca: oltre alla propaganda protestante ci si propose di passare al setaccio tutta la produzione libraria antica e moderna. L´esito fu micidiale per l´attività intellettuale e per l´editoria (quella veneziana perse la sua egemonia europea). Era un esito obbligato per un sistema teocratico: nella Ginevra calvinista, per salvare affari e religione, si ricorse all´astuzia di far pubblicare i testi pagani "licenziosi" sotto il falso luogo di stampa di Lione. Nel mondo cattolico italiano i libri pericolosi furono distrutti (Machiavelli) o "espurgati" (Boccaccio). Ci furono autori di pasquinate anticlericali che pagarono la satira con la vita. Al popolo, considerato come un gregge da mantenere docile o come un fanciullo destinato a non diventare mai adulto, si fornì una cultura premasticata e innocua. L´autodenunzia di Torquato Tasso, il rogo di Giordano Bruno, il processo a Galileo, sono gli episodi più celebri della svolta dell´attività intellettuale in Italia verso l´età dell´autocensura preventiva e dell´ossequio cortigiano.
Mentre la migliore cultura italiana trovava ospitalità fuori d´Italia, si svolse il lavoro assiduo dei laboratori della censura accentrati nella Roma papale: la Congregazione cardinalizia dell´Inquisizione (creata nel 1542) e la Congregazione dell´Indice (1571) hanno accompagnato la cultura cattolica e in modo speciale quella italiana fino al secolo XX inoltrato. Oggi la loro eredità sopravvive nell´opera della Congregazione Vaticana per la Dottrina della Fede.

Repubblica 30.6.09
Si possono fermare le idee nell´epoca di twitter?
di Sandro Viola


In Congo o in Nigeria per sfuggire ai controlli era sufficiente mostrare una banconota. Nella Grecia dei colonnelli i censori si intromettevano nelle telefonate

Teocrazie e dittature impiegheranno mezzi sempre più sofisticati per imporre una cappa di silenzio. Ma migliaia di giovani geniali troveranno nuove contromosse

Il controllo delle opinioni è da sempre l´ossessione dei regimi autoritari. Oggi le nuove tecnologie globali pongono alla repressione problemi quasi insormontabili

Censura? Nell´epoca di Internet, di Facebook, You Tube, Twitter e Flickr, si può ancora parlare di regimi che impongono la censura all´informazione? No, non si può. Troppe cose sono cambiate negli ultimi vent´anni, sino a far crollare le barriere che circondavano i paesi dove veniva praticata la censura. Oggi si possono infatti espellere i giornalisti stranieri, si può terremotare il Web, togliere campo ai cellulari e agli Sms: ma tutto questo non impedirà lo scorrere d´un impetuoso fiume d´informazioni che il regime censorio avrebbe voluto bloccare.
Sia pure limitata a notizie contenute in messaggi di soli 140 caratteri, sia pure attraverso poche frasi strozzate dei testimoni, la verità su quanto sta accadendo in un paese sottoposto a censura inonda adesso i continenti, l´Universo. La giunta militare birmana è forse riuscita ad arginare le immagini dei bonzi bastonati a morte dalla sua soldataglia? Il torvo silenzio dei media russi ha impedito che tutto il mondo sapesse delle circostanze oscure, gravide di sospetti sul coinvolgimento del potere, in cui s´ammazzano i giornalisti a Mosca? I corrispondenti dei giornali inglesi sbattuti in carcere, i computer sequestrati all´opposizione, hanno forse consentito a Mugabe di nascondere in questi anni l´agonia dello Zimbabwe?
E Teheran è sotto i nostri occhi. L´Iran non è la Birmania o lo Zimbabwe, dispone di esperti informatici non meno capaci di quelli occidentali, e infatti il regime è riuscito negli ultimi giorni a chiudere qualche falla, a restringere il flusso delle informazioni in uscita sul Web. Ma intanto, quel che dovevamo sapere, vedere, comprendere, lo abbiamo saputo, visto, capito. E il volto insanguinato di Neda Agha-Soltan, la ragazza uccisa dalla polizia degli ayatollah, è ormai il simbolo della nuova epoca. L´epoca del tramonto delle censure.
È vero, i regimi autoritari impiegheranno mezzi sempre più sofisticati, altre strategie informatiche, per far calare una nuova cappa di silenzio sui propri misfatti. Ma nelle case, curvi sui Pc, migliaia di giovani geniali adotteranno contromosse, tecniche mai usate, invenzioni mirabolanti per aprire ancora una volta un varco nel muro della censura. E dunque, salvo che non s´arrivi al sequestro di tutti, non uno escluso, i computers e i cellulari del paese dove si vorrebbe mantenere la censura, una massa d´informazioni continuerà a spandersi ovunque nel mondo. In Cina, da settimane, i bloggers lanciano infatti sul Web la loro sfida contro le autorità: «Tutti i vostri tentativi di manipolare gli accessi a Internet, finiranno nella pattumiera della storia».
Non era così una generazione addietro, quando ancora esistevano i censori. Nei tanti paesi allora sottoposti a censura i censori erano una frangia della piccola borghesia, modestamente ma non miseramente pagati, e con un certo sentimento del proprio ruolo nell´apparato del potere. Era gente che aveva fatto studi superiori, appreso le lingue straniere, e che riceveva disposizioni da molto in alto (i servizi di sicurezza, e a volte gli stessi governi) sulle informazioni che potevano uscire dal paese e quelle che invece andavano imbrigliate.
Certo: più scassato era il regime e più inadeguati, incompetenti, erano i censori. Nel Medio Oriente arabo, i più preparati (e per il giornalista straniero, quindi, più temibili) erano i siriani. Volti impenetrabili, modi urbani ma gelidi, buona conoscenza delle lingue. Scostanti ma capaci erano anche gli iracheni. E i più sprovveduti, a volte patetici per l‘inadeguatezza, erano gli egiziani, che le lingue le conoscevano in modo approssimativo e ai quali erano giunte disposizioni in stile egiziano, cioè confuse, contraddittorie. Essi cercavano perciò di rimediare alle loro lacune e incertezze adottando maniere burbere, toni perentori, col giornalista straniero che porgeva trepido il suo articolo dattiloscritto, aspettando il timbro che gli avrebbe permesso di recarlo all´ufficio postale e trasmetterlo per telegramma o telescrivente.
«Lei qui cancellate», diceva uno di loro nella palazzina della televisione dove c´era l´ufficio di censura. «Scusi», chiedeva rispettoso il giornalista, «perché dovrei cancellare?». «Perché voi dice che posizione del presidente Nasser è ambivalenta, e questa è offesa al presidente Nasser». O un´altra volta: «Che vuol dire sonnecchiare?». «Vuol dire», rispondeva il giornalista, «stare quasi dormendo». «E lei dite che poliziotti egiziani dormono dinanzi palazzo governo? No, io non metto timbro per trasmettere…».
Rozza, quasi infantile, quella censura era tuttavia difficilmente valicabile. Non funzionava sempre, infatti, come nel Congo di Mobutu alla fine dei Sessanta o nella Nigeria della guerra col Biafra, l´uso della mancia. Lì, nel palazzo delle Poste di Kinshasa o al Press Office di Lagos, non c´erano inciampi se si consegnava – spillata all´ultimo foglio dell´articolo – una banconota di medio taglio. Il censore faceva anzi strada verso la telescrivente, s´inchinava cordiale («Bonsoir monsieur, à demain», o a Lagos «Bye bye, sir») e il telescriventista capiva così che anche lui poteva aspirare a una mancia.
I più compresi della funzione erano i vietnamiti ad Hanoi e Saigon nell´´85,quando i giornalisti stranieri tornarono per la prima volta dopo dieci anni dalla vittoria comunista. Conoscevano il francese, non l´italiano, ma erano così occhiuti e scrupolosi nello spulciare il testo che coglievano quasi sempre le discrepanze tra le due lingue. E se una discrepanza c´era, subito intingevano la penna nel calamaio per cancellare l´intero capoverso. Mentre i più comici risultarono forse i greci nel ´67, dopo il colpo di Stato dei colonnelli. Quella volta la censura veniva praticata direttamente durante le telefonate dei giornalisti dagli alberghi di Atene ai loro giornali. Succedeva così che dopo la più banale e inoffensiva delle frasi si sentisse di colpo una voce sdegnata («Lei offende il popolo greco»),cui seguiva la caduta della comunicazione. E per riaverla bisognava quindi penare con i centralini dell´albergo, sinché non si risentiva la voce del censore : «Adesso non dica più bugie».
Un mestiere finito come tanti mestieri d´un tempo. La zattera cui s´afferravano fette di borghesia intellettuale per spuntare uno stipendio, affondata per sempre. I giornali non vengono più stampati con l´inchiostro, i censori hanno adesso i camici bianchi dei tecnici dell´informatica, e la censura è quasi soltanto un ricordo.

Repubblica 30.6.09
L’ingresso nella vita adulta in una società flessibile, "liquida"
Maturità, l’ultimo rito di passaggio
di Marino Niola


Mezzo milione di ragazzi sono alle prese con l´incubo della maturità. L´esame più temuto dagli Italiani. Quello che si ricorda per tutta la vita e che spesso da grandi si sogna addirittura di dover ripetere. In realtà la maturità non è una semplice verifica scolastica, ma una prova iniziatica cui ogni anno viene sottoposta un´intera generazione. L´ultimo cerimoniale collettivo di una società deritualizzata come la nostra. L´ultimo dei riti di passaggio. Quelli che ogni società celebra per solennizzare i grandi cambiamenti che scandiscono l´esistenza delle persone. A chiamarli per la prima volta con questo nome fu Arnold Van Gennep, un antropologo franco-olandese che giusto cento anni fa diede alle stampe un fortunatissimo libro intitolato proprio Les rites de passage. Un termine destinato a cambiare la storia delle scienze umane, ma soprattutto a oltrepassare la cerchia degli specialisti per diventare linguaggio e senso comune.
Riti come l´iniziazione, il matrimonio, il funerale, ma anche il battesimo, l´ordinazione sacerdotale, l´arruolamento militare, la laurea segnano le tappe fondamentali che guidano il cammino della vita. Passaggi obbligati, confini simbolici che separano un´età dall´altra, un ruolo dall´altro, come soglie invisibili che tutti, prima o poi, devono attraversare. Ogni passaggio è sottolineato da una cerimonia che mette in scena l´uscita dalla vecchia identità e l´ingresso in quella nuova. Come avveniva nelle iniziazioni degli Indiani d´America, dove i ragazzi dovevano superare prove difficili, spesso cruente per dimostrare di essere diventati dei veri uomini, dei guerrieri coraggiosi. Non diversamente da quel che accade in questi giorni ai nostri figli chiamati a superare l´esame degli esami. Che non a caso chiamiamo maturità, perché è un test d´ingresso alla vita adulta. Un´iniziazione in piena regola con penne e computer al posto di archi e frecce.
In ogni caso si tratta di prove che segnano per sempre gli individui. Nella mente, ma spesso anche nel corpo. Se gli Indiani sottoponevano i ragazzi a digiuni estenuanti e piercing dolorosissimi, il nostro addestramento militare comincia con il taglio dei capelli e con l´imposizione della divisa alle reclute. E la carriera monastica, con la tonsura e la vestizione dei novizi. Modi diversi per scrivere sul corpo una nuova condizione. Ma in ogni caso si tratta di certificazioni di un cambiamento che la collettività considera tanto importante da passarci sopra quel tratto di evidenziatore che chiamiamo rituale. E che incanala i destini sociali degli individui come un binario. Senza possibilità di deviazioni. Una stazione dopo l´altra. Con l´età che scandisce le tappe della vita come un timer.
Oggi con il matrimonio in declino - un terzo degli Italiani dice no ai fiori d´arancio e sceglie la convivenza - i battesimi in diminuzione, la crisi delle vocazioni e il servizio militare abolito, non ci resta che la maturità, anche se sempre più light, proprio come la scuola al tempo di internet. Una maturità liquida insomma.
In realtà è proprio il loro carattere solenne, pesante, tutorio a condannare al declino i riti di passaggio nel nostro mondo a cristalli liquidi. Che è fondato sulla mobilità, sulla flessibilità, su una leggerezza dell´essere che ci fa volare come aquiloni sospinti dai venti mutevoli della domanda e dell´offerta. I rigidi imperativi della tradizione e della formazione non sembrano più adatti a un mondo come il nostro che all´imperativo ha sostituito il presente. Senza condizionali e senza congiuntivi. Ormai grandi o piccoli, maggiorenni o minorenni, non tolleriamo obblighi e limiti, prescrizioni e iniziazioni. La libertà di mercato è diventata la forma profonda del nostro essere. Mentre i riti di passaggio sono ormai macchine troppo onerose e centralistiche, proprio come certi apparati pubblici. I loro costi di gestione superano di gran lunga i vantaggi. E l´ammortamento della spesa economica ed emotiva diventa impossibile.
Meglio il fai da te. Senza coinvolgere troppo istituzioni e autorità: famiglia, chiesa, scuola o stato che siano. Non è un caso che le ultime generazioni si autoeduchino, si autoistruiscano e spesso si inizino da sole con modalità e ritualità inedite e talvolta spiazzanti per gli adulti. Il risultato è che i ragazzini sembrano già grandi e i cinquantenni ancora adolescenti. Tutti insieme in un eterno presente che emerge dalle ceneri dell´idea progressiva del tempo e della vita. E i riti di passaggio assomigliano sempre di più ad un modernariato istituzionale. Bello da ricordare, difficile da rimpiangere.

Corriere della Sera 30.6.09
La crisi della sinistra italiana
Un ventennio di rimozioni
di Angelo Panebianco


Da diversi mesi il tema rimbalza da un Paese all' altro («Le Monde », ad esempio, vi ha dedicato due dense pagine di analisi e commenti qualche giorno fa) e le ele­zioni europee, con i pessi­mi risultati conseguiti dai partiti socialisti e affini, hanno reso ancora più ac­cesa la discussione. Non c'è praticamente forza di sinistra in Europa che non si ponga una doman­da: come mai, in tempi di massiccio ritorno dello Stato nella gestione dell' economia, di critica al mercato, di indebolimen­to della fiducia liberale nella capacità di autorego­lazione dei mercati, i par­titi socialisti (e affini) non riescono ad approfittar­ne? Non dovrebbero esse­re proprio i partiti sociali­sti, antichi alfieri dell'in­tervento dello Stato e dell' uso della spesa pubblica per fini di ridistribuzione della ricchezza, i naturali punti di riferimento politi­co degli elettori in questo tempo di crisi?
Il problema è assai com­plesso e richiede risposte (o tentativi di risposta) a più livelli. Bisogna tener conto della tendenza ge­nerale ma anche delle spe­cifiche situazioni naziona­li. Sul piano generale si può forse sostenere (co­me chi scrive ha fatto sul «Corriere Magazine» un paio di settimane fa) che i partiti socialisti non pos­sano approfittare della si­tuazione creata dalla crisi economico-finanziaria perché non esistono più, in Europa, le condizioni sociali e politico-culturali che favorirono i loro suc­cessi nel XX secolo. Nelle attuali società individuali­ste gli antichi ideali di «giustizia sociale» e di uguaglianza a cui i partiti socialisti finalizzavano l'intervento dello Stato e l'espansione dei sistemi di welfare state, non han­no più corso. In tempi di crisi, certamente, si invo­ca l'intervento dello Stato ma per ragioni squisita­mente pragmatiche (bloc­care la disoccupazione, tamponare gli effetti so­ciali perversi della crisi). Nelle ricche società euro­pee di oggi a nessuno, o quasi, importa più nulla di quella «società degli uguali» che i partiti socia­listi offrivano come meta degna di essere persegui­ta in tempi di assai più ri­gide disuguaglianze di classe. E le destre sono og­gi sufficientemente prag­matiche e spregiudicate per gestire l'intervento dello Stato senza bisogno di caricarlo di ingombran­ti significati ideologici.
Le risposte generali, pe­rò, corrono sempre il ri­schio di essere generiche. Bisogna per forza guarda­re anche alle specificità dei casi. Ad esempio, i la­buristi britannici (con la rivoluzione di Blair) e i so­cialisti spagnoli si erano già liberati dei miti e delle ideologie otto-novecente­sche. Oggi pagano soprat­tutto il fatto di avere go­vernato a lungo nella fase che ha preceduto lo scop­pio della crisi.
Neppure per capire i guai della sinistra italia­na, del Partito democrati­co, bastano le risposte ge­nerali. Anche qui bisogna tener conto delle specifici­tà. La principale delle qua­li è che la sinistra italiana paga il conto, oltre che delle difficoltà che l'acco­munano ai partiti sociali­sti europei, anche di un ventennio di rimozioni e trasformismi. La verità è che se Berlusconi non fos­se esistito, se non fosse entrato in politica nel 1994, la sinistra italiana se lo sarebbe dovuto inventa­re. Da quindici anni Berlu­sconi, con la sua presen­za, aiuta la sinistra a non fare i conti con se stessa, con il vuoto in cui è preci­pitata dopo il crollo del muro di Berlino.
In tutto questo tempo, Ber­lusconi è servito alla sinistra italiana per non guardarsi allo specchio. Se lo avesse fatto avrebbe scoperto che lo spec­chio non è in grado di riflette­re alcuna immagine.
Checché se ne dica, un ten­tativo, uno solo, di costruire una nuova identità c'è stato. Lo ha fatto Walter Veltroni. Il suo discorso del Lingotto era più o meno questo. Ma ci so­no limiti a ciò che un leader può fare. Nel caso specifico, c'erano anche i limiti del lea­der.
Incapacità di fare i conti col passato, rimozioni e trasformi­smi. Di che altro sarebbero il sintomo, ad esempio, gli ino­pinati omaggi che gli uni o gli altri continuano di tanto in tanto a tributare a Enrico Ber­linguer, ossia all'ultimo dei grandi capi del comunismo italiano? Come si è chiesto Giovanni Belardelli sul «Cor­riere » di ieri, a chi e a che ser­ve Berlinguer nella società at­tuale?
O, ancora, era davvero pen­sabile che la sinistra (da Mani Pulite fino alla recente allean­za con Di Pietro) potesse tro­vare una identità politica di ri­cambio facendosi megafono dell'Associazione Nazionale Magistrati? O che potesse di­ventare competitiva con la de­stra, soprattutto al Nord, sen­za contrastare apertamente le correnti sindacali più conser­vatrici in materia di legislazio­ne del lavoro, di scuola o di pubblica amministrazione?
O che potesse acquisire cre­dibilità a fronte del più esplo­sivo fenomeno del nostro tem­po, l'immigrazione, innalzan­do solo il vessillo della «solida­rietà »? Non è un caso che an­che molti dei cosiddetti «gio­vani », più o meno emergenti, del Pd, per lo meno a una pri­ma occhiata, sembrino vecchi quanto i loro nonni.
La migliore osservazione sul Partito democratico l'ha fatta Claudio Velardi, ex colla­boratore di Massimo D'Ale­ma: al Pd, dice Velardi, serve un «pazzo», nell'accezione po­sitiva del termine, uno che si prenda il partito sparando sul quartier generale. Un leader che unisca estro, solidità cul­turale e credibilità. E la capar­bietà necessaria per dedicarsi a un lungo lavoro di ricostru­zione culturale e politica. Sen­za farsi condizionare troppo dai vecchi oligarchi del parti­to o da centri di potere ester­ni.

Corriere della Sera 30.6.09
Formica L’ex ministro socialista e il Cavaliere: tutto è cominciato con il Sessantotto
«Rotte tutte le dighe, ci sono tendenze anarcoidi»
di Gianna Fregonara


ROMA — Non è soltanto una questione politica, non è un proble­ma di Prima e Seconda Repubblica, «perché prendendola così si fini­rebbe per trasformare tutto in un refrain della nostalgia» in cui ci si cimenta «senza costrutto perché non serve tenere gli occhi nel vec­chio mondo mentre i piedi della so­cietà sono in un mondo nuovo».
E’ un giudizio duro quello di Ri­no Formica, potente ministro delle Finanze socialista nonché autore della famosissima definizione del­l’Assemblea nazionale del Psi del 1991, «la corte di nani e ballerine», di cui chiese l’abolizione: «L’indagi­ne di Bari — dice — ci costringe ad aprire gli occhi e a osservare la so­cietà italiana».
Impegnativo. Ci vuol provare?
«Dobbiamo cominciare doman­dandoci che cosa è cambiato negli ultimi anni. Dove sta andando la società italiana, come si è evoluta e quanto sono aumentate le tenden­ze anarcoidi».
La risposta?
«Si sono rotte del tutto le dighe delle convenzioni sociali. E’ succes­so nei campi più vari della socie­tà ».
E quando è successo, negli An­ni Ottanta?
«Noo, negli Anni Ottanta c’è sta­ta un’accelerazione, non una cesu­ra del percorso. La rottura delle gabbie è iniziata vent’anni prima con i movimenti di liberazione, le proteste studentesche».
Non vorrà dire che quello che succede oggi con Berlusconi è fi­glio del Sessantotto?
«La società dal Sessantotto co­mincia a lacerare i propri vestiti, che sono le regole che reggono una comunità e che vengono ri­spettate a accettate. Alla fine del processo, la società è nuda».
E la moralità è cambiata.
«Non solo. Sa forse un tempo si era più attenti. Nel senso che si fa­ceva come raccomandavano i gesu­iti: se dovete peccare, fatelo con cautela».
E la politica che cosa c’entra?
«La politica, così come la cultu­ra, ha una responsabilità chiara. Una colpa, direi. Si è fatta trovare arretrata, impreparata. Pensava ad altro e non ha confezionato per tempo dei nuovi vestiti, delle nuo­ve regole, una nuova convenzione con cui rivestire il corpo sociale. Anzi, da vent’anni va di moda un certo dannunzianesimo politico. Tutti a stracciare gli abiti e nessu­no a pensare a ricoprire le nudità. Ma una società nuda, senza regole non esiste».
Sarà anche un problema com­plessivo e collettivo...
«Finirà per essere anche un pro­blema istituzionale, perché non si possono distinguere il cervello, il cuore della società e il sangue, che circola e intossicherà tutto».
Un po’ criptico.
«Sto pensando a quello che ha detto Napolitano e cioè che la de­mocrazia è forte e la politica è de­bole. La democrazia è il cuore e la politica è il sangue».
Ma in questo caso il problema politico è che, con le feste e le ra­gazze, morale e moralismi a par­te, il premier può risultare aperta­mente ricattabile.
«Ma sono tutti ricattabili. Per­ché un dirigente che andasse ai fe­stini non lo sarebbe, o un ammini­­stratore delegato di una banca sa­rebbe immune? Se si facesse la mappa dei salotti d’Italia, si scopri­rebbe che nella maggior parte si usa droga con scioltezza. Ma que­sta ricerca non la fa nessuno».
Uno scandalo come quello di Bari può portare alle dimissioni del premier o, secondo lei, non succederà nulla?
«Io sarei cauto, bisognerebbe ca­pire alcune cose. Per esempio se davvero dietro c’è un gioco politi­co, come dicono alcuni, o invece se si tratta di una questione imprendi­toriale, se non c’entra Mediaset».
Berlusconi è una vittima allo­ra?
«Ci mancherebbe, lui ha assecon­dato questa mutazione sociale, an­zi ne ha fatto la sua forza contrap­ponendosi alle vecchie convenzio­ni. Ha delle responsabilità molto chiare. Credeva che per cambiare mestiere e fare il politico bastasse cambiare l’oggetto sociale alla sua azienda, smettere di vendere denti­frici e cominciare con le lavatrici».
Però ha avuto un bel successo.
«Ha avuto successo perché il si­stema era distrutto. Poi i anche me­dia ci hanno messo del loro. E così oggi leggo che il ministro Tremon­ti può dire che il Cavaliere è diven­tato insostituibile».
Forse lo fa, tatticamente, per al­lontanare da se le voci sulle sue presunte velleità di sostituirlo in questo momento di crisi.
« Ci sarà anche questo elemento interno al governo e alla maggio­ranza, ma è un Paese serio quello in cui un personaggio così sgrade­vole - non dico il male assoluto, so­lo sgradevole - come Berlusconi è considerato in-so-sti-tu-i-bi-le?E’ gravissimo, in democrazia nessu­no è insostituibile».

Repubblica 30.6.09
Le critiche dell’Independent: farebbe imbarazzare gli imperatori. Le Figaro denuncia: "Un´ombra sul G8"
"Popolarità in calo, dubbi sulla sua capacità di reggere"
di Enrico Franceschini


LONDRA - Un giornale lo paragona a «un imperatore romano, che si lancia in iniziative lontano da casa propria per distogliere l´attenzione dai suoi problemi domestici». Un altro ipotizza che i magistrati baresi lo «chiamino a testimoniare» alla vigilia del summit del G8. Un terzo riporta che la sua popolarità è scesa rapidamente «sotto il 50 per cento». Sono alcuni degli articoli sul caso Berlusconi apparsi ieri sulla stampa straniera, che in prossimità del summit del G8 lo mettono sotto una lente d´ingrandimento, chiedendosi se la vicenda peserà sui risultati del vertice. E´ l´Independent a fare un paragone tra Berlusconi e gli imperatori di Roma antica: «Confrontato da una serie di scandali interni che farebbero imbarazzare l´imperatore Tiberio, il primo ministro italiano sale sul palcoscenico mondiale», ieri annunciando il programma del G8, poi partendo per la Libia dove incontrerà Gheddafi, quindi la settimana prossima ospitando Obama e gli altri leader del G8 all´Aquila. «Voci in patria e all´estero si chiedono se i problemi domestici diminuiranno la sua capacità di affrontare importanti questioni globali» al summit, scrive il quotidiano londinese. Preoccupazione condivisa dal francese Figaro, che titola: «Gli scandali di Berlusconi gettano un´ombra sul G8».
Il Times riporta che il premier potrebbe essere chiamato a deporre, come testimone, nell´indagine su Giampaolo Tarantini, l´uomo d´affari pugliese che portava modelle ed escort alle sue feste in Sardegna e a Roma, inquisito per «incitamento alla prostituzione», riferendo che, secondo la polizia, l´estate scorsa intorno a Ferragosto Berlusconi e Tarantini si parlavano «20 volte al giorno». Il giornale scrive che gli inquirenti pugliesi stanno esaminando dichiarazioni rese alla polizia di Olbia da due donne che dissero di «essersi sentite male», apparentemente per abuso di droghe, dopo un party nella villa di Tarantini. E l´inchiesta, aggiunge il Times, si sta allargando al possibile reclutamento di «donne straniere». Dello scandalo scrivono anche il giornale inglese The Age, la rivista francese Elle e il quotidiano americano Wall Street Journal.

Repubblica 30.6.09
L’italia, il potere e il silenzio delle donne
di Nadia Urbinati


Non è facile essere donne in questo tempo di stravolgimento dei valori e dei costumi, di smarrimento del senso comune. Non è facile trascendere ciò che ci sta intorno e ci offende: vicende di giovani donne che si lasciano abbagliare da vecchi e meno vecchi uomini potenti; che accettano di farsi rimpicciolire fingendosi "bimbe" di un "papi". Non c´è glamour in questa società dei diminutivi. Le ragazze che sono vel-ine, meteor-ine e ricevono farfall-ine e targarugh-ine: un linguaggio che le rimpicciolisce trasformando il serraglio in un parco ludico infantile. Nelle Lettere persiane di Montesquieu si trovano immagini rassomiglianti, rappresentazioni attualissime della vita servile di corte, più sordida perfino di quella dell´harem dove, se non altro, a fare da intermediari tra le donne e il sultano c´erano eunuchi. È questo l´esito delle fatiche che donne e uomini di più generazioni hanno sopportato per poter vivere come eguali nella vita pubblica e in quella privata?
Mary Wollstonecraft, la coraggiosa e giovane iniziatrice del femminismo moderno, aveva parole durissime contro una società che preparava le ragazze ad un futuro che era perfettamente funzionale alla società patriarcale: educate a essere cocotte appetibili mentre erano giovani per poi finire a procreare figli e servire mariti. Pensava, lei illuminista, che tutto cominciasse con l´educazione, che la ragione dell´assoggettamento delle donne fosse da cercare nell´ignoranza e nell´esclusione dalla vita della città. In una società dove tutto il vivere civile era strutturato e pensato come una succursale allargata della casa, quello che appariva agli occhi delle sue coetanee come un´occasione da sfruttare non era che una dorata prigione. Mary era durissima e severa con le donne del suo tempo perché remissive e docili; concentrate a sviluppare quelle competenze salottiere che potevano, questa la loro speranza, spianare la strada verso un buon matrimonio; per questo, si facevano complici del serraglio nel quale vivevano, «oggetto di attenzioni triviali da parte di uomini che considerano tali attenzioni un tributo virile da pagare al gentil sesso, quando in realtà essi lo insultano affermando la propria superiorità».
La bella Mary si rivoltò contro quel mondo goldoniano di serve furbette e padroni protervi e rivendicò l´inclusione delle donne nelle scuole e nella vita pubblica; donne protagoniste senza intermediari ma per loro capacità e con i loro sforzi, non attive da dietro le quinte. Il pubblico invece che l´esilio forzato nel privato; la sfera della politica per via di consenso aperto tra cittadini eguali invece che per via di intrigo di cortigiani; l´arma dei diritti invece e contro quella della forza: questa è stata dal Settecento la strada percorsa da chi ha difeso la dignità di uomini e donne; anche degli uomini, perché la condizione della donna è sicuramente lo specchio nella quale si riflette lo stato di tutta la società.
Da qui le donne sono partite nei decenni a noi più vicini per rivendicare un´altra fetta di diritto e di potere, quella che avrebbe dovuto sollevare finalmente il velo del privato per mostrare le nicchie di violenza e sopruso che ancora resistevano, non viste, non dette, non considerate: la violenza domestica in primo luogo, ma anche l´abitudine inveterata a leggere come naturalità ciò che invece era ed è sempre stato frutto di cultura e società, dominio e dipendenza. La stagione dei diritti ha rovesciato un modo di leggere i rapporti umani e tra i generi, nel privato e nel pubblico; ha svelato e decostruito l´interpretazione consolidata di ciò che è sociale e di ciò che è naturale, ridefinendo il genere e il ruolo dei e tra i sessi. Questa è stata la grande lezione delle battaglie per i diritti civili combattute dietro lo slogan "il privato è politico", "il privato è pubblico".
Decine di anni dopo quelle battaglie per i diritti, le società moderne, quella italiana in maniera abnorme, si trovano nella condizione paradossale di veder rovesciata quella logica, per cui tutto il pubblico è ora privato e il privato ha occupato il pubblico con le conseguenze aberranti per cui da un lato vi è una legge che mette la privacy sull´altare della religione secolare e dall´altro vi è una vita politica che è il palcoscenico sul quale si recita soltanto una parte, quella privata. E se questa parte si mescola (come può essere diversamente?) con questioni politiche o di Stato e i cittadini vogliono sapere e i giornali cercano di svelare, allora si evoca la sacralità della privacy, sulla quale si pretende di inchiodare l´informazione, facendola passare come un´intrusione invece che come un bene pubblico. Il paradosso è che chi per primo ha cancellato ogni distinzione tra pubblico e privato si fa ora rivendicatore di quella separazione. È evidente il giuoco delle parti che si cela dietro questa che è come la magia della stanza degli specchi: confondere tutti i piani per potere usare a piacere l´uno e l´altro a seconda dell´interesse. Allora, le ragioni di Stato sono l´arma per nascondere questioni che con lo Stato nulla hanno a che fare; e le ragioni del privato servono a nascondere ciò che è di interesse pubblico e di cui i cittadini hanno diritto di sapere.
In giuoco, è stata l´unanime e giusta diagnosi, c´è la legittimità e la credibilità delle nostre istituzioni, non solo di fronte a noi cittadini italiani, ma anche presso i paesi stranieri. L´Italia è una miniatura di se stessa, lo specchio di quel linguaggio di diminutivi che le giovani ragazze si lasciano appioppare con sorprendente indifferenza da profittatori di ogni età. La loro presenza sulla scena sociale è tutta privatissima, proprio come vogliono che sia da tempi immemorabili gli uomini "a mal più ch´a ben usi". Le donne sono sempre lo specchio della società, il segno più eloquente della condizione nella quale versa il loro paese: quando muoiono per le violenze perpetrate da un potere tirannico o quando viaggiano con voli prepagati per ritirare un cotillon a forma di farfalla. Nelle loro storie è riflessa la storia tragica o patetica delle loro case e delle loro città. E come nel caso delle donne vittima di violenza del tiranno, anche nell´altro è urgente che si levino voci di critica, di sconcerto, di denuncia; voci di donne. Questo silenzio ammorba l´aria.

Corriere della Sera 30.6.09
Le «lezioni» di Argan, quando la critica diventa militanza
di Carlo Bertelli


Caratteri I suoi riferimenti sono privi di pedanteria; la sua intelligenza inventiva si coniuga sempre alla grande capacità decisionale

Ad almeno due generazioni d’italiani il manuale per i li­cei di Giulio Carlo Argan ha spalancato la porta della storia del­l’arte. Le grandi istituzioni per la conservazione e lo studio del patri­monio artistico italiano, in partico­lare l’Istituto Centrale del Restauro, sono sorte esattamente come lui le aveva disegnate. Una rara destrezza nel nuotare in acque tempestose consentì ad Argan di agire in pro­fondità anche dentro un regime con il quale non s’identificava, ma cui riteneva di saper imporre un programma su ciò che gli premeva, un’arte svincolata dalla retorica e non asservita.
Immagino che dovunque stupis­se per la sua intelligenza inventiva. Mandato alla soprintendenza di Mo­dena, dopo che la destinazione a Tri­este era apparsa come una specie di confino, sperimenta, nel 1935, la ra­diografia su di uno dei dipinti della Galleria Estense, e la relazione che scrive, che ora leggiamo in questa raccolta di scritti meno noti compo­sta da un allievo fedele ( Promozione delle arti, critica delle forme, tutela delle opere. Scritti militanti e rari, 1930-1942, a cura di Claudio Gamba, Christian Marinotti Edizioni, pp. 287, e 26), è subito un mirabile esempio di lettura critica e di conse­guente capacità decisionale.
Argan era predisposto a fare l’edu­catore. Tutte le funzioni pubbliche, compresa quella di sindaco di Ro­ma, furono considerate da lui come occasioni per educare. Già negli scritti giovanili traspare l’intento missionario; benché, in quelli più precoci qui pubblicati, il futuro mae­stro stia ancora imparando. Egli sta uscendo dall’orizzonte filologico del­la scuola di Adolfo Venturi per trova­re la chiave filosofica del giudizio ar­tistico. Il suo primo esercizio lo con­duce a sfuggire al freddo giudizio ne­gativo del Milizia su Palladio, ricor­rendo a un poeta, a Goethe. Seguo­no i primi incontri con la scuola di Vienna. Dapprima affascinato dal si­stema formale di Wickhof e di Riegl, poi in piena consonanza con il cro­ciano Julius Schlosser.
Nei confronti dell’architettura, sia antica che contemporanea, Ar­gan applica gli schemi della pura vi­sibilità, prescindendo dalla tormen­tata realtà del fare architettura. Ma il suo costante riferimento, nel giu­dizio sui contemporanei, all’Alberti e a Filarete, è tutt’alto che pedante e non solo gli assicura il prestigio di cui ha goduto presso gli architet­ti contemporanei, ma fa di lui lo spiritus rector di quella fondamen­tale aspirazione a tenere insieme le istanze razionaliste e la tradizione, che distingue la nostra architettura funzionale dalle consorelle in Euro­pa e in America.
Il dialogo con gli architetti ha ini­zio nel ’33 su «Casabella», ma già al­lora s’imponeva sul percorso di Ar­gan la personalità d’una acuta redat­trice della rivista, Anna Maria Maz­zucchelli, la musa cui però il curato­re della raccolta non sottolinea i grandi meriti. Argan l’avrebbe sposa­ta nel 1939, quando si sarebbe trasfe­rito a Roma, nel cuore del potere mi­nisteriale, dove poco dopo avrebbe collaborato con Bottai. Una parte del volume diventa così documento di storia delle istituzioni. Infine una vera sorpresa del libro (almeno per me) sono le rapide recensioni a mo­stre di artisti contemporanei. Argan è il loro compagno di cordata, ma, a parte il commento a De Pisis, che è un gioiello di scrittura, il suo occhio è straordinariamente perspicace. Profetico quando, nel 1939, per esempio, individua le idiosincrasie di Fontana. La raccolta incomincia nel 1930 e finisce con il 1942: dodici anni di militanza in favore d’un’idea limpida della modernità.

il Riformista 30.6.09
Storia di Palma, una donna «moderna» al comando
di Costantino D'Orazio


Bucarelli. Direttrice della Gnam a soli 32 anni, in sella per 35. Le sue scelte rivoluzionarie sono entrate nel catalogo del 900. Bella, antipatica e irresistibile. Portò in Italia Picasso e Mondrian, in Europa Pollock. Con Burri finì in parlamento. Fece scandalo con le labbra di Pascali, i manifesti di Rotella e la merda di Manzoni. Divenne un punto di riferimento, avanguardia e giovani compresi.

C'è da impallidire a paragonare la squallida immagine televisiva della donna italiana di oggi con quella sublime di Palma Bucarelli, storica direttrice della Galleria Nazionale d'Arte Moderna. Negli anni Quaranta, un'epoca molto lontana dalle quote rosa e dalle donne al potere, seppe interpretare la sua responsabilità pubblica con eccezionale integrità e concretezza. «Prima donna a sfondare il cielo di cristallo del vertice nell'amministrazione statale - secondo Maria Vittoria Marini Clarelli, che oggi riveste lo stesso ruolo - consapevole dei sospetti che gravavano sulla sua rapida ascesa, fece leva sulla sua ferrea determinazione. Era bella, ma doveva sembrarlo in ogni dettaglio». Fu un funzionario pubblico di alto livello che non rinunciò alla sua femminilità.
Figlia del viceprefetto di Roma nel pieno ventennio fascista, è allieva di Giulio Carlo Argan e di Lionello Venturi, mentori di una intera generazione di storici dell'arte cresciuti nel secondo dopoguerra. La sua passione per lo sport l'aiuta a forgiare un corpo già ben preparato da madre natura: una dote che saprà unire ad una intelligenza fuori dal comune per dare forza ai suoi progetti culturali, in un mondo governato dagli uomini. Lei stessa, all'inizio della sua carriera, si meraviglia del successo riscosso nel mondo dell'arte: «Non ho capito bene - scrive al giornalista Paolo Monelli, suo compagno dell'epoca - se gli omaggi erano rivolti a me come ispettrice della Galleria nazionale che poteva adoperarsi per comprare le loro opere…o a me come donna». Al suo arrivo, il museo è un tempio dell'arte dell'Ottocento, ha una collezione non aggiornata e, soprattutto, non è testimone di alcuna "modernità". Dopo il suo incarico, mantenuto per oltre trent'anni, ne uscirà completamente trasformato, rinnovato nel suo contenuto e nella sua organizzazione.
A lei, alla sua lungimiranza e alla forza del suo carattere, la GNAM dedica in questi giorni una grande mostra presentando oltre centocinquanta capolavori che sono entrati nella collezione della galleria grazie al suo impegno e ancora oggi costituiscono il nucleo fondamentale di opere del Novecento del più prestigioso museo italiano dedicato all'arte del nostro tempo.
Entrata giovanissima in forza all'Amministrazione delle Antichità e Belle Arti del Ministero della Pubblica Istruzione, Palma ha solo trentadue anni quando assume il ruolo di direttrice. È il 1942. Poco dopo la sua nomina, le truppe tedesche entrano nella Capitale e le si presenta l'occasione per realizzare il suo primo gesto eroico, che entrerà negli annali. Lei, attenta e sagace, intuisce l'urgenza di mettere al riparo le opere della Galleria e riesce ad ottenere i permessi e i finanziamenti da un governo in guerra per nasconderle presso Palazzo Farnese a Caprarola e poi a Castel Sant'Angelo. Grazie a questa impresa si guadagna la stima di Indro Montanelli, che nel 1951 ne compone un celebre ritratto. «La leggenda vuole che Palma abbia un pessimo carattere, che qualcuno definisce addirittura infernale - scrive il giornalista - A molti sembrò una pazzia aver affidato un incarico così delicato ad una donna». Eppure in pochi giorni la Bucarelli guida personalmente una squadra di operai nella folle impresa di trasportare le opere di notte, sotto il rischio dei bombardamenti. La sua fama supera i confini del piccolo contesto artistico e si impone nel panorama italiano come modello di professionalità e impegno civile.
Nel 1944 la GNAM è il primo museo a riaprire dopo la guerra, con una audace mostra di giovani artisti. Le numerose polemiche e stroncature con la quale viene accolta fanno intuire un futuro burrascoso per l'attività della direttrice. Eppure cominciano a darle fiducia i grandi maestri già affermati, che prima avevano forse dubitato di una così giovane direttrice. Giorgio Morandi nel 1946 non le rifiuterà il dono di due dipinti bellissimi, una composizione di bottiglie e un paesaggio. Meglio non sarebbe potuta iniziare la nuova campagna del museo, per la quale la Bucarelli si impegnerà fino al 1975. Oltre tre decenni di attività indefessa durante i quali la galleria si identificherà completamente con la sua direttrice, divenendo arbitro assoluto dell'arte italiana. «Quando entrava in una stanza affollata - ricorda Angelo Bucarelli, suo nipote prediletto, oggi artista - esercitava un potere d'attrazione eccezionale. Il suo fascino era irresistibile». Lo avvertì Alberto Savinio, che ne dipinse il ritratto più bello, non seppe resistergli una intera classe politica che si dimostrò inutilmente riluttante nei confronti delle sue richieste di acquisizioni per la collezione del museo. Richieste spesso audaci, come i labbroni rossi di Pino Pascali, che spingono la tela fuori dal muro, o i manifesti strappati di Mimmo Rotella. Capolavori che facevano inorridire l'opinione pubblica del tempo, ancora legata alla pittura figurativa di de Chirico e Sironi e che a mala pena aveva iniziato ad assimilare le provocazioni dei Futuristi.
Nel 1959 l'esposizione del Grande Sacco di Alberto Burri scatena addirittura un'interrogazione parlamentare, che la Bucarelli affronta con un'abilità politica pari al suo eccezionale intuito per l'avanguardia. Formidabile tessitrice di relazioni, sa muoversi abilmente tra i meandri della burocrazia italiana per raggiungere un unico obiettivo: fare della Galleria Nazionale un museo del presente che dialoghi con i maggiori musei del mondo. Nel 1971 presenta la Merda d'Artista di Piero Manzoni, guadagnandosi la censura democristiana, si innamora dei quadri specchianti di Michelangelo Pistoletto e delle prime prove pittoriche di Jannis Kounellis, composizioni enigmatiche di lettere e numeri.
«Simpatica non era - ricorda l'artista greco - ma fu una donna d'azione. Mai prima di lei avevo visto un funzionario pubblico frequentare le inaugurazioni delle mostre dei giovani artisti. Era facile incontrarla alla Galleria La Tartaruga e ricordo bene che nel 1969 venne alla Galleria L'Attico, incuriosita dalla mia installazione con i cavalli vivi». Sorda alle critiche e ai pettegolezzi, Bucarelli riesce a creare la galleria che aveva in mente, malgrado le accuse di esterofilia, di negazione dell'Ottocento, di direzione personalistica e poca chiarezza nella gestione amministrativa. Porta per la prima volta in Europa Jackson Pollock nel 1958, dopo aver battezzato l'esordio italiano di Picasso nel 1953 (con l'appoggio del Pci) e di Mondrian nel 1956. Apre il museo all'informale di Afro, all'astrazione di Capogrossi, Sanfilippo e Accardi, alle raffinate composizioni di Gastone Novelli e ai segni misteriosi di Cy Twombly. Tutti artisti che oggi rappresentano i capisaldi della storia dell'arte italiana del secondo dopoguerra, ma all'epoca erano guardati con sospetto e diffidenza.
«Inaugurò un modello nuovo di museo - racconta Mariastella Margozzi, curatrice della mostra - e fece della GNAM un luogo stimato in tutto il mondo, un punto di riferimento per l'Europa e gli Stati Uniti». Fu lei a dare l'avvio al progetto di ampliamento della galleria alle spalle dell'edificio di Viale Belle Arti, incaricando l'architetto Luigi Cosenza della costruzione di una nuova ala da dedicare alle recenti acquisizioni. Dopo quasi cinquant'anni l'edificio è ancora in costruzione e la maggior parte delle opere riposte nei magazzini, senza una parete dove poter essere viste.
Abbandonata la direzione del museo nel 1975 per raggiunti limiti di età, la sua trentennale politica di acquisti si è fermata e il museo ha via via perso il ruolo di leadership che la Bucarelli aveva saputo costruire a livello internazionale. Solo nel 1995, è stato possibile ricominciare ad acquistare opere d'arte per recuperare un vuoto di vent'anni, grazie ad un fondo messo a disposizione all'improvviso dal Ministero per recuperare ad una infelice condanna dell'arte contemporanea dell'allora ministro Paolucci, che aveva suscitato l'alzata di scudi del mondo della cultura. Malgrado ciò, la Galleria deve ancora oggi gran parte del suo prestigio alle lungimiranti intuizioni che Palma seppe concretizzare. «La leggenda vuole che avesse alterato il proprio passaporto - conclude la Marini Clarelli - e lo lasciasse bene in vista, quando riceveva in casa, per fugare ogni dubbio: l'avanguardia doveva sembrare sempre giovane».