lunedì 6 luglio 2009

l’Unità 6.7.09
«Vuole i riflettori del mondo? I media liberi non fanno sconti»
«Qui in Italia il premier può dettare l’agenda politica e molte scelte editoriali. Ma
l’esposizione all’estero è devastante. Dal Guardian al Times è una pioggia di critiche»
Intervista a Tana de Zulueta di N.L.

Berlusconi ormai ha superato tutte le “zone rosse”, in Italia pensa di poter attutire il colpo, ma all’estero la sua partita è persa. Gli ambasciatori dei vari paesi mandano telegrammi allarmati: dalle scosse e dalle gaffe del premier italiano». Tana de Zulueta, ex parlamentare verde, giornalista ora collaboratrice de l’Observer, viene intervistata dai colleghi stranieri che le chiedono “com’è possibile che in Italia tutto sia tollerato?”. E lei ironizza gentile: «Gli italiani sono molto pazienti...».
Sulla stampa estera la cattiva reputazione di Berlusconi ha rovinato anche l’immagine dell’Italia?
«È tristissimo, ma prevedibile. Credo che ormai la vergogna si è consumata, e pensare di mettere un freno ai media o alla discussione politica è una pia illusione».
Si riferisce al monito di Napolitano?
«Il capo dello Stato ha cercato di salvaguardare la dignità nazionale. Ma la politica ha le sue regole e delle soglie precise. Berlusconi l’ha oltrepassata: anche se pensa di attutire la “botta” in Italia, o che con il G8 possa compensare gli scandali, all’estero la partita ormai è persa. Il G8 invece sarà deflagrante».
Perché? Per le foto annunciate dal Sunday Times?
«Perché se qui riesce a eludere le regole della politica, nel vertice a L’Aquila Berlusconi rischia di essere sottoposto a un’esposizione devastante. La pubblicazione delle foto potrebbe polverizzare la sua immagine (e anche la nostra) ma la sua figura è già screditata. Il Financial Times, il Guardian, le Monde, El Pais, criticano anche l’organizzazione del G8 a l’Aquila».
Il premier sospetta una vendetta di Murdoch. Pensa sia vero?
«Certo ha fatto male a litigare con Murdoch, che può essere un nemico temibile, ma non sono solo i giornali del suo gruppo ad essere critici. Le foto sono quello che sono, e sono in mano di altri. Quindi Berlusconi rischia di perdere tutte le scommesse, anche la sfida del G8 a L’Aquila».
Come giudica questa scelta?
«Sono stata molto critica da subito. Perché spendere tanti soldi quando la gente, nelle tende, si aspetta cose per sé? Cosa ci fanno con la strada per l’aeroporto o una caserma quando gli anziani non hanno un bagno o una cucina per loro e sono sottoposti a regole semi militari? Fare una parata in pompa magna monopolizzando le risorse per un evento, può essere controproducente per l’opinione pubblica aquilana e italiana. E questo nonostante i media più che accondiscendenti, come il Tg1».
Palazzo Chigi accusa la stampa estera di una «campagna morbosa e concertata». Che ne pensa?
«Mi sembra una risposta disperata. E vorrei vedere i 3500 giornalisti accreditati a L’Aquila sentirsi definire «concertati». Le leggi della politica sono ineluttabili, come la forza di gravità. E Berlusconi è minato, all’estero è percepito come un’anatra zoppa».
In Italia no. Ha capito perché?
«Non lo ancora, Di fronte allo scandalo e alle pressioni internazionali dovrebbe fare due cose: dare aiuti al Terzo Mondo, perché i fondi per la cooperazione sono stati cancellati; e l’Italia dovrebbe essere costretta a fare passi avanti per ridurre le emissioni di Co2, che a Bruxelles ha ostacolato»..
Sembra che Carla Sarkozy non venga. Sarebbe un segnale?
«Spero anch’io nella simbologia dei gesti. Che un segnale di disapprovazione venga fuori dai Grandi, per dire al “nostro” che ha oltrepassato troppe zone rosse. Tutte le delegazioni sono preoccupate...».
Da cosa?
«Ci sono telegrammi degli ambasciatori allarmati. E negli staff dei Grandi ci sono due piani di emergenza: uno per le scosse di terremoto, l’altro su come affrontare le bizzarrie nel comportamento di Berlusconi. Cosa facciamo se...? Ha fatto una gaffe con ogni capo di Stato, forse solo l’India si è salvata... “Come sopravvivere al G8 a L’Aquila? è la domanda generale».
Come vede la nostra opposizione?
«È stranamente silenziosa e cauta, quando in un altro paese sarebbe in prima fila. I giudizi più severi vengono dai giornali stranieri anziché dal Parlamento».

domenica 5 luglio 2009

l’Unità 5.7.09
il Colle e il Ddl
La destra eviti lo strappo
di Marcella Ciarnelli


Dare ascolto al Capo dello Stato che non da ora invita al dialogo e al confronto. Ed evitare, così, uno strappo dalle conseguenze che possono andare ben oltre quelle del disegno di legge sulle intercettazioni. Oppure scegliere la via dello scontro ignorando le parole che in più occasioni il presidente ha ripetuto in difesa di un principio fondamentale della Costituzione qual è la libertà di informare senza dimenticare il diritto alla privacy. Un anticipo di quel braccio di ferro che potrebbe esserci poi su altre questioni, riforma della giustizia in testa. È questa la scelta che la maggioranza deve compiere prima dell’arrivo in Senato, il 14 luglio, della legge appena approvata alla Camera. Il bicameralismo perfetto che, fino a prova contraria, vige ancora nel nostro Paese consente che si riparta da zero. Tenendo in maggior conto i suggerimenti dell’opposizione, di magistrati impegnati, dello stesso Garante, dei giornalisti. Ed anche di quelle finora inascoltate "colombe" del centrodestra. Ma innanzitutto del Capo dello Stato che il suo primo intervento in materia lo fece bloccando il decreto che in quattro e quattr’otto si voleva licenziare, derubricato subito a «refuso» proprio per l’altolà del Colle. E che poi ha sempre speso parole pubbliche e moral suasion nelle sedi opportune per cercare di scongiurare l’approvazione. Che ha chiesto un dibattito non strozzato dagli interessi di parte ma rispettoso della dialettica parlamentare. Che con chiarezza ha fatto intendere che su materie come queste non si può procedere con il voto di fiducia. Napolitano lo ha ripetuto più volte a Berlusconi, ai presidenti di Senato e Camera, al ministro Alfano che ieri ha confermato la disponibilità della maggioranza al dialogo. La verifica potrà essere fatta rapidamente. Altrimenti il Capo dello Stato potrà fare ricorso alle sue prerogative. Il rinvio alle Camere è una iniziativa di merito che va ben oltre la mera questione della firma. Si può fare. La legge sulle intercettazioni può essere modificata.

l’Unità 5.7.09
A pranzo coi giudici: oltraggio alla Corte
Il giudice nel dire «io pranzo con chi voglio» ci comunica che fa parte della sua storia frequentare il premier quando vuole
di Furio Colombo


Hanno avuto ragione i Radicali, che da anni denunciano un Paese fuori dalla legalità, hanno dimostrato incroci e rapporti contro natura (la natura costituzionale) tra istituzioni dello Stato e hanno chiesto al Paese una rivoluzione, ovvero una stagione straordinaria di impegno politico, non per cambiare il mondo ma per tornare alla normalità legale, morale e politica. Per esempio la Corte Costituzionale. Due giudici della suprema Corte vanno a pranzo con gli “imputati”, ovvero il Presidente del Consiglio e il ministro della Giustizia il cui “lodo” (il lodo Alfano che esime Berlusconi da qualunque processo) potrebbe essere dichiarato incostituzionale dalla Suprema Corte e dunque sparire. È avvenuto che alcuni nervi della massima istituzione di garanzia del Paese sono stati messi fuori uso. Penso all’Honduras. Se vi sbarazzate per un momento della parte teatrale e primitiva del golpe honduregno (soldati, carri armati, coprifuoco) notate subito che vi sono somiglianze fra i due eventi. In Honduras si rimuove il presidente della Repubblica sostituito dal Presidente della Camera, e si dispongono i soldati a guardia del nuovo ordine. In Italia si rimuove la credibilità e la dignità della Suprema Corte attraverso due giudici che, a quanto pare, si sono prestati.
Non solo. ma hanno rivendicato come un diritto ciò che hanno fatto. Ognuno dei due giudici che si sono deliberatamente seduti a tavola con il ministro della Giustizia e con il capo dell’esecutivo, ha, infatti, scritto una lettera pubblica. Il giudice Mazzella si è rivolto al presidente del Consiglio con cui è stato a tavola con queste parole: «Caro Presidente, caro Silvio». La lettera è un proclama di presa di possesso dell’intero territorio che dovrebbe separare il governo dalla Corte Suprema. Il gesto consegna la Corte Nelle mani dell’uomo di potere che ha tutto da temere dalla Corte se essa resta integra e indipendente.
Il secondo giudice, Paolo Maria Napolitano, scrive al Corriere della Sera con toni di scontro senza quartiere: «Il furore dell’attacco denigratorio (la semplice pubblicazione della notizia, ndr) necessita di una immediata risposta e non consente di attendere i tempi dei nostri procedimenti giudiziari... La brutale campagna di aggressione determinerebbe il convincimento che è in atto un tentativo per condizionare la Corte nella sua futura attività intimidendo alcuni suoi componenti». È interessante qui notare il rovesciamento, deliberatamente pubblico, dei ruoli. Si definisce “intimidito” il giudice seduto accanto alla parte che deve essere giudicata e che detiene tutto il potere. E l’intimidazione verrebbe da chi difende i giudici non seduti accanto al potere esecutivo (che è anche un immenso potere economico).
Il giudice Napolitano non ha difficoltà a scrivere, con lo stesso proposito di mettersi, come il collega, di guardia al terreno conquistato (aggancio della Corte al potere esecutivo) e lo presidia con questa ferma dichiarazione: «Il presidente del Consiglio non è soggetto ad alcun tipo di giudizio da parte della Corte. Il cosiddetto lodo Alfano è una delle tante questioni che la Corte affronta, non certo la più importante. I costituenti hanno voluto che nella Corte confluissero giudici di diversa nomina, ciascuno con la propria storia, la propria sensibilità giuridica, le proprie personali conoscenze».
Dunque il giudice nel dire “io pranzo con chi voglio” ci comunica che fa parte della sua storia, ed è un suo privilegio, frequentare il presidente del Consiglio quando vuole. Ma - come si è detto - quel presidente del Consiglio è protetto, contro numerose imputazioni e processi, dal “cosiddetto” lodo Alfano che esime il Primo ministro da ogni procedimento giudiziario. E il “cosiddetto” lodo Alfano dovrà essere giudicato costituzionale o cancellato come incostituzionale dalla Suprema Corte.
Se incostituzionale, Berlusconi perde all’istante il suo scudo giudiziario e finisce sotto processo. Dunque la questione è piuttosto importante. Ed è importante il “pronunciamento” dei due giudici che compaiono in due scene. Nella prima si fanno cogliere accanto alla persona che dalla sentenza della Corte ha tutto da perdere o tutto da guadagnare; nella seconda attaccano, da politici militanti, chiunque osi scandalizzarsi. La prima e la seconda scena confermano ciò che Pannella e i Radicali dicono da molti anni. Il Paese è in pericolo perché è fuori dalla legalità. Raramente però l’illegalità è apparsa così scoperta e in modo così teatrale, al punto da sembrare un avvertimento. Certo un passo nel vuoto, fuori dallo Stato di diritto.

Repubblica 5.7.09
Il cavaliere ha bisogno di una lunga vacanza
di Eugenio Scalfari


Al´Aquila la terra continua a tremare, lo sciame sismico non dà tregua, sotto le tende un giorno si crepa dal caldo e il giorno dopo si galleggia sotto il nubifragio, ma Bertolaso ha l´aria contenta. «Andrà tutto benissimo» dice in Tv «e poi se non avessimo trasportato qui il G8 chi parlerebbe ancora del terremoto?».
Il popolo delle tendopoli in realtà se ne frega che si parli di lui anzi ne è decisamente irritato, ma Bertolaso è felice, ogni giorno compare alla destra dell´Onnipotente ed ha anche scansato un brutto processo sui rifiuti, trasferito a Roma e iscritto a nuovo ruolo.
Comunque, in caso di bisogno, è pronto il piano B per evacuare i Potenti in elicottero. Teatro. Puro teatro. Non è forse questa la regola generale? Preparare un piano B è diventato una mania. Ce n´è uno per L´Aquila, un altro per il disegno di legge sulle intercettazioni contestato dal presidente Napolitano per palesi vizi di incostituzionalità e ieri messo in opera dal ministro della Giustizia; un altro ancora per il lodo Alfano se la Corte ne invaliderà alcune parti, infine un quarto se la Corte lo invalidasse interamente.
Quest´ultimo piano B tuttavia è ancora da studiare, si va da una legge non più ordinaria ma costituzionale che però lascerebbe il Cavaliere esposto al corso della giustizia, ad una crisi istituzionale vera e propria con conseguente appello al popolo in stile Caimano.
Berlusconi, a differenza del suo Bertolaso, ha invece la faccia sempre più scura. Gli hanno suggerito di parlar poco e di farsi vedere il meno possibile e lui ci prova ma con evidente fatica.
Da quel 25 aprile, quando raggiunse l´apice della popolarità e del consenso abbigliandosi da padre della Patria con al collo la sciarpa da partigiano, sembra passato un secolo. Molte cose sono cambiate nel suo pubblico e nel suo privato, nel suo modo di gestire, nel suo eloquio e forse nei suoi pensieri.
Ma una cosa non è cambiata nonostante gli appelli del Quirinale ad una tregua almeno fino al G8: continua ad insultare la sinistra «un cadavere che ingombra, un branco di comunisti, un´accozzaglia senza idee». E continua ad indicare al pubblico ludibrio «i giornali eversivi ai quali gli imprenditori dovrebbero negare la pubblicità».
Nel frattempo gli incidenti di percorso si susseguono.
L´ultimo, forse il più grave, è stato l´improvvida cena in casa del giudice costituzionale Mazzella il quale, insieme all´altro suo collega Napolitano, ha anche reagito pubblicamente con una lettera al premier con lui stesso concordata.
Non staremo qui a ripetere le considerazioni su questo comportamento irrituale e su quell´incontro gastronomico tra «compagni di merende» come li ha giustamente definiti il collega Massimo Giannini. Sarebbe stato grave anche se il solo convitato dei due giudici della Corte fosse stato il presidente del Consiglio, vecchio amico ed elettore di entrambi; ma c´erano anche il ministro della Giustizia e il presidente della Commissione parlamentare, Vizzini, dando a quell´incontro un inequivocabile colore di cena di lavoro.
La conseguenza è che la Corte faticherà non poco a scrollarsi di dosso il peso che gli è stato caricato sulle spalle da due dei suoi componenti.
* * *
Dicono i bene informati che la principale occupazione del premier nelle poche settimane che lo dividono da una lunga vacanza sarà l´economia, a cominciare dal G8 del prossimo 8 luglio. E c´è da crederci perché la crisi è ancora tutta davanti a noi.
Il G8 deciderà ben poco. Non è più lì che si gioca la partita, ormai trasmigrata nei consessi dove si misurano i veri grandi della scena economica mondiale.
L´intervista ad un giornale italiano in vista del G8 Barack Obama l´ha data all´Avvenire. Non vende molto l´Avvenire ma rappresenta la Conferenza episcopale e Obama voleva parlare dell´incontro che avrà col papa sabato prossimo appena liberatosi dal meeting dell´Aquila.
Obama non appartiene alla categoria berlusconiana e tremontiana di quelli che sostengono che il peggio sia passato. Al contrario: lui sostiene che il peggio viene adesso con una valanga di disoccupati e con una secca diminuzione dei redditi di lavoro.
Ci siamo già occupati domenica scorsa di questo problema.
Ieri ne ha scritto con la competenza che gli è propria Luigi Spaventa, perciò non ripeterò i suoi giudizi e la sua analisi. Aggiungo soltanto che, dai documenti inviati in Parlamento dallo stesso Tremonti risulta quanto segue:
1. I dati sull´andamento del deficit, del fabbisogno, delle entrate, delle spese, del debito pubblico, forniti dal Tesoro sono esattamente quelli anticipati dall´Istat, dalla Banca d´Italia, dall´Ocse, dalla Commissione di Bruxelles, che il ministro aveva definito «congetture inutilmente allarmistiche».
2. Tra quei dati segnalo una spesa che cresce a ritmo sostenuto, un deficit che supererà il 5 per cento sul Pil, un debito pubblico a 119 per cento sul Pil, le entrate tributarie in forte calo, la disoccupazione in netto aumento.
3. Quelle congetture oggi interamente accolte dal Tesoro avrebbero dovuto suggerire al ministro di scusarsi con chi aveva dileggiato. Ovviamente non si è scusato.
4. Quanto ai provvedimenti per stimolare il sistema produttivo avevo scritto che entreranno concretamente in vigore tra l´inverno e l´estate del 2010 e così risulta dalle carte rese pubbliche da Tremonti. Scrissi che si trattava di salvagenti gettati in mare a qualche chilometro di distanza dai naufraghi. Ed è esattamente così.
* * *
Poniamoci adesso la domanda: a che punto è quest´opposizione cadaverica della quale straparla il presidente del maggior partito italiano? A che punto è il Partito democratico che si prepara al suo congresso fondativo? Il dibattito nel partito è in pieno corso e si svolge, almeno per ora, con sufficiente civiltà. Né mi sembra che abbia paralizzato la reattività del partito nei confronti di quanto accade nel paese. Il timore manifestato da molti d´una introversione del Pd su se stesso non mi sembra si stia affatto verificando e d´altra parte sarebbe impossibile che ciò accadesse di fronte a quanto ora sta avvenendo nel paese.
In questa prima settimana congressuale si sono verificati in ordine cronologico i seguenti fatti: si sono riuniti a Torino i giovani del gruppo di Piombino che vogliono esser rappresentati da un proprio candidato; è stato ufficiato in questo senso il sindaco di Torino; dopo una breve riflessione Chiamparino ha declinato l´offerta e resterà al suo posto di sindaco fino al 2011 per poi forse candidarsi alla Regione Piemonte. Secondo me ha fatto benissimo.
Bersani ha presentato la sua candidatura e il suo programma al teatro Ambra Jovinelli di Roma. Franceschini ha anche lui annunciato la sua candidatura e presenterà il programma tra pochi giorni.
Walter Veltroni ha riunito al teatro Capranica di Roma quelli che parteciparono due anni fa alla fondazione del Pd al Lingotto di Torino ed ha rievocato il programma che espose in quell´occasione indicando i problemi del futuro e la missione che il Pd è chiamato a svolgere.
Hanno anche manifestato le loro tesi il gruppo cattolico di Fioroni, i liberaldemocratici di Rutelli, e sono più volte intervenuti Massimo D´Alema, Franco Marini, Piero Fassino, Sergio Cofferati, Massimo Cacciari.
Infine ieri si è materializzato il terzo candidato nella persona di Ignazio Marino, sostenuto dai giovani quarantenni di Piombino.
Chi assiste dall´esterno con partecipe attenzione a questo processo iniziale in vista del Congresso e delle successive primarie è indotto alle seguenti osservazioni.
Bersani ha fatto appello con molta dignità ad un sentimento identitario. Il suo schieramento appare notevolmente compatto e coinvolge una parte notevole dei democratici di provenienza Ds. Ritiene che il partito debba fin d´ora indicare le sue alleanze in vista d´una coalizione che comprenda possibilmente tutto il vasto arco delle opposizioni da Casini fino alla sinistra di Ferrero.
Sarà la coalizione a indicare con le primarie il candidato alla «premiership» quando ci saranno le elezioni politiche a fine legislatura.
Lo schieramento che si sta formando attorno a Franceschini è più variegato.
Riafferma la sua vocazione maggioritaria e il bipolarismo. Coinvolge una parte degli ex Ds, buona parte della ex Margherita, buona parte dell´elettorato giovanile.
Bersani punta le sue carte principalmente sul Congresso; Franceschini principalmente sulle successive primarie. La visione di Bersani è più rivolta ai militanti, quella di Franceschini tende a captare elettori al centro e a sinistra che attualmente sono esterni rispetto al Pd. Tutti e due cercano di riportare in linea la vasta platea degli astenuti.
Il tema della laicità e del laicismo è improvvisamente balzato in prima linea, sia pure con differenti tonalità, nel discorso pubblico del Pd. Per lungo tempo non è stato così, segno che il sentimento pubblico è cambiato.
Ignazio Marino, il terzo uomo, fa addirittura della laicità il suo tema principale se non addirittura esclusivo. Mi permetto di dire, da laico di vecchia data, che un partito complesso e riformista come è e vuole essere il Pd non può puntare sul laicismo tutte le sue carte. Diventerebbe fondamentalista e si ridurrebbe a pura e inefficace testimonianza. Questi, caro Marino, non sono tempi di testimonianza ma tempi di dura battaglia su tutti i fronti del riformismo.
Ci vorrebbe per il Pd un Barack Obama, come ha detto Veltroni. Purtroppo non c´è, non se ne abbiano a male gli esponenti del Pd. Non c´è tra gli anziani né tra i giovani.
Tanto più importante è che a questa mancanza si supplisca con una buona squadra che si valga dei talenti e non soltanto dei cooptati, giovani o anziani che siano.
Purché l´accesso sia aperto. Purché i valori siano condivisi e purché servano a ispirare progetti concreti, seriamente pensati e tenacemente perseguiti. Quanto alla vecchia questione del partito radicato sul territorio, questa è perfino una tautologia: se non opera sul territorio e sui bisogni che il territorio esprime, un partito non esiste.
Ma non esiste neppure se non ha una salda visione nazionale ed europea. Tra alcuni errori che possono essere rimproverati e dei quali lui stesso con notevole umiltà si rimprovera, questo è il lascito più importante di Veltroni che va meditato e raccolto.

Corriere della Sera 5.7.09
Il convitato di pietra
Il bipolarismo e le scelte del Pd
di Mchele Salvati


Magari le que­stioni sulle quali il prossi­mo congresso del Pd si dividerà fossero quelle descritte da Pane­bianco nel suo editoriale di martedì scorso! Di que­ste — la crisi della sini­stra europea, l'incapacità di quella italiana di fare i conti col suo passato, l'amalgama non riuscito tra ex comunisti ed ex de­mocristiani, i rapporti col sindacato, gli innesti libe­rali in un corpo non libe­rale... — si discuterà di certo, e con accenti diffe­renti, ma non saranno le vere ragioni del contende­re. È anzi probabile che sa­ranno usate come pretesti per esprimere un dissen­so profondo che serpeg­gia nel partito e ha a che fare con una questione del tutto diversa. Il dissen­so tra chi ritiene che il bi­polarismo coatto che ab­biamo avuto nella Secon­da Repubblica, imposto mediante leggi elettorali maggioritarie, sia stata e sia una iattura per il cen­trosinistra e per il Paese. E tra chi ritiene invece che sarebbe una iattura l'adozione di un sistema proporzionale senza pre­mi di maggioranza: gli elettori non sarebbero più in grado di scegliere il governo e si ritornerebbe ai problemi della Prima Repubblica, ai governi fat­ti e disfatti in Parlamento. Non è un mistero per nessuno che nel Pd ci so­no molti che la pensano come Casini e Tabacci: che il bipolarismo non è adatto e non fa bene al no­stro Paese, ma soprattut­to al centrosinistra. Ce ne sono sia sul lato ex demo­cristiano, sia su quello ex comunista del partito. Nel caso si tornasse al propor­zionale, i destini poi si di­viderebbero: i primi pro­babilmente si avvicinereb­bero all'Udc e, insieme a non pochi transfughi dal Pdl, a coloro che oggi sof­frono sotto la leadership di Berlusconi, cerchereb­bero di dar vita a un robu­sto partito centrista.
I secondi resterebbero nel Pd, che a questo pun­to diventerebbe una cosa del tutto diversa dal suo progetto originario, dal tentativo di fusione del ri­formismo laico e cattoli­co. Diventerebbe un parti­to a prevalente intonazio­ne laica e socialdemocrati­ca, e, proprio per questo, lì sarebbero raggiunti da non pochi che vivono ma­lamente nell'estrema sini­stra e con Di Pietro. Dopo di che si svilupperebbe il gioco dei due forni: un partito di centro sempre al governo, che ora si al­lea con i partiti di destra, ora con quelli di sinistra. Un gioco che nella Prima Repubblica non si era mai potuto giocare perché Pci e Msi erano partiti antisi­stema, ed era impensabi­le governare con loro.
Ci sono tre motivi che ostacolano l'emersione di questo conflitto profondo nel prossimo congresso. Il primo è che non si gesti­sce un evento simbolico di questa importanza met­tendo in primo piano una spaccatura su un proble­ma di leggi elettorali, alle­anze, assetti istituzionali: spaccature difficilmente componibili, com'è que­sta, fanno male al morale, e il congresso come gran­de rito unitario è radicato nella cultura politica del partito.
Il secondo motivo è che coloro i quali la pensano come Tabacci e Casini non hanno alcun interesse ad uscire allo scoperto, a dire a tutto il partito: «Oops, ci siamo sbagliati, torniamo indietro». Dall'Ulivo in poi tutta la retorica è stata bipolare, noi contro loro, e questa visione è predominante tra gli iscritti e gli elettori: a chi ha cambiato idea non conviene attaccarla frontalmente. Il terzo motivo è che si tratta di un disegno — il ritorno al proporzionale — che non ha alcuna possibilità di attuarsi nel futuro prevedibile, perché il Pdl è fortemente avvantaggiato dal premio di maggioranza e non ha certo l'intenzione di mollarlo. In politica non si discute di questioni virtuali, di possibilità lontane. La possibilità vicina è al massimo quella di alleanze locali con l'Udc, che però non ha alcuna intenzione, a livello nazionale, di farsi coinvolgere in un rapporto organico col centrosinistra. C'è però un motivo che va in direzione contraria, che spinge per uno scontro aperto. Se i difensori del modello bipolare e del Partito Democratico come incontro-fusione delle culture riformiste laiche e cattoliche non danno battaglia, se non denunciano apertamente quella che per loro è una marcia indietro verso la Prima Repubblica, hanno già perso il congresso. Per loro si presenta un dilemma. Conflitto aperto, col rischio di traumi seri per il partito: questo non garantisce certo una vittoria, ma la rende possibile. Oppure quieto vivere e sconfitta sicura. Vedremo presto quale corno verrà scelto.

il Riformista 5.7.09
L'inutile fantasma di Walter
Il ritorno di Veltroni è una conferma: è meglio che il Pd muoia
di Giampaolo Pansa


A volte ritornano. Anzi, ritornano sempre. Da fuggiaschi pentiti. Da sconfitti redenti. Da fantasmi inutili. Mi è sembrato così il ritorno di Walter Veltroni sulla scena del Partito democratico. Uno spettro ambiguo. Capace di presentarsi con un capolavoro di astuzia bugiarda: «Io non sono tornato perché non sono mai andato via. Ma adesso che sono qui, me ne resterò fuori, in disparte».
Posso dire la mia reazione alla comparsa del fantasma di Walter al Capranica di Roma, davanti ai tifosi dell'allievo Franceschini? Ho esclamato: basta!, non ne posso più di questi eterni ritorni dei leader politici che avevano giurato di cambiare vita. Adesso mi toccherà rivedere tutto quello che ho visto in questi decenni. Facce, storie, cose, parole coperte di polvere. Ma che ci verranno presentate come nuove.
Già, le vecchie cose di pessimo gusto. Le guerre tra Walter e Max D'Alema. La gara a chi scrive più libri. Le correnti-non correnti organizzate di nascosto. Le malignità sui destini personali: vai in Africa, l'avevi promesso, no vacci tu! Le congiure a spese dell'Ulivo prodiano. La concorrenza fra misere emittenti tivù. Gli insulti più sanguinosi, come il celebre detto dalemista su Walter e Romano Prodi: i due flaccidi imbroglioni di Palazzo Chigi!
Tra la paccottiglia di Veltroni metterei anche il mantra sulla "vocazione maggioritaria" del Pd. Confesso che non ho mai compreso che cosa volesse dire. Tutti i partiti hanno una vocazione di questo tipo: nessuno scende in campo per essere una minoranza candidata a perdere. Eppure, al Capranica, Walter non ci ha risparmiato neppure la banalità suprema:«O la vocazione maggioritaria c'è o il Pd non c'è».
Ho sempre pensato che a Walter piaccia fuggire. Me l'ha confermato per l'ennesima volta in febbraio, quando decise di dimettersi da segretario dopo la sconfitta in Sardegna. Nel discorso d'addio a Piazza Di Pietra, la voglia di darsela a gambe gli usciva dagli occhi. Un uomo in fuga. E per questo felice. Si era calato nella parte che conosce meglio: il politico sconfitto che taglia la corda. E tuttavia riesce sempre a essere un perdente di successo. Prontissimo a passare da un incarico all'altro.
Adesso che Walter è tornato quale incarico vorrà? Non ho dubbi: farà lo stratega nascosto di Franceschini. Alla sua promessa di restare in disparte non ci crede neppure lui. I veltroniani esistono e cercheranno di fare secco il loro avversario, Pierluigi Bersani. Gettandogli addosso l'accusa delle accuse: tu sei il vecchio e noi siamo il nuovo.
Sono stati implacabili le donne e gli uomini di Walter. La magica Serracchiani, neo guerriera da combattimento europeo, ha ringhiato: «Per fare le riforme, il Pd ha bisogno di chi non ha passato». Un altro europeo, David Sassoli, ha sbeffeggiato Bersani, D'Alema & C: «Non vorrei che girassero una nuova versione del "Gattopardo": notabili travestiti da innovatori».
Persino un intellettuale serio come Pietro Ichino non si è risparmiato: «La vecchia sinistra ha ingannato i giovani dicendo che la legge Biagi creava precarietà». Già, ma in quel momento dove stava Walter? Faceva il leader politico di quella sinistra o correggeva le bozze del suo ultimo libro?
A proposito dei libri veltroniani, leggo che si annuncia una nuova uscita. Sembra che il titolo sarà: "Noi". Se è così, immagino un'autobiografia. Ma siccome Walter non è un privato qualsiasi, mi azzardo a suggerire una piccola integrazione all'insegna: "Noi e loro". Infatti i politici non sono nulla senza "loro", ossia il pubblico che li dovrebbe votare. E uno di questi "loro" è anche l'autore del Bestiario. Che adesso dirà quali lezioni sta ricavando da quanto si comincia a vedere.
La lezione numero uno è che la campagna congressuale sarà lunga lunga. E già per questo micidiale. Siamo all'inizio di luglio. Il congresso si terrà ai primi di ottobre. Tre mesi di battaglia. Senza esclusione di colpi. Tutti contro tutti. Neppure il terzo nuovissimo candidato alla segreteria, il chirurgo Ignazio Marino, potrà curare i militanti feriti e impedire che tirino le cuoia. Il Pd metterà in mostra la sua più conclamata specialità: l'autodistruzione.
La seconda lezione riguarda il dopo congresso. Certo, uno dei duellanti vincerà. Ma una volta afferrata la vittoria, riuscirà a tenere insieme una baracca sgangherata come sarà in quel momento il Pd? E a farne il competitore del centrodestra? Temo di no. Allora ritorno a un'opinione personale che ho già espresso sul Riformista. È meglio che il Pd muoia, si sciolga, prendendo atto che non può essere il condominio di famiglie troppo diverse tra di loro. Capaci soltanto di combattersi.
Come andrà a finire non lo so. Quello che so è che i fantasmi alla Veltroni e quelli che emergeranno da qui all'autunno sono davvero inutili. Volteggiano sui giornali senza mai dare un'occhiata al mondo sottostante. Ossia all'Italia com'è oggi. E come si presenterà quando arriveranno le prime nebbie.
A costo di ripetermi, e rischiando di essere uno dei catastrofisti che Berlusconi non ama, prevedo il peggio. Franceschini, Veltroni, Bersani, D'Alema, le Serracchiani e i Sassoli si troveranno immersi in uno scenario di guerra. Nessuno di loro ha visto l'Italia degli anni Quaranta e Cinquanta. Il più anziano, D'Alema, è nato nel 1949.
Lo spettacolo che avranno di fronte sarà una novità assoluta. I duelli congressuali di oggi appariranno scherzi da asilo Mariuccia. Misere schermaglie rispetto alla ferocia dell'impegno necessario per tenere insieme un Paese allo stremo.

il Riformista 5.7.09
Ma se il Cav. va in ritiro che si fa?
di Peppino Caldarola


Partenza moscia per il congresso del Pd. I due candidati hanno parlano senza creare entusiasmi né drammatici dissensi. Il senatore Ignazio Marino si prepara a rappresentare il fronte laico ma non solleciterà grandi emozioni. I rutelliani si apprestano a sostenere Franceschini fra molti mal di pancia. Attorno al segretario si va formando un Correntone informe che non lascia capire qual è la riposta alla crisi del Pd. Il Congresso rischia di trasformarsi in qualcosa di simile agli ultimi appuntamenti del Ps francese dove lo scontro fra i candidati via via si faceva più caldo nell'indifferenza totale dell'opinione pubblica. Neppure chi, come il sottoscritto, è molto critico nei confronti del Pd può gioire per questa situazione. L'Italia ha bisogno di una opposizione robusta che possa rappresentare una solida alternativa al governo attuale. Invece niente. Infuria il dibattito, a cui si dedica con rinnovata energia Massimo D'Alema, sul dopo Berlusconi ma non si intravvede traccia di questo declino del premier se non nella sua ormai lunga carriera. L'idea, ventilata ieri da Francesco Verderami sul "Corriere", che Berlusconi possa per qualche tempo ritirarsi dalla scena politica scegliendo un profilo più discreto rischia di ammazzare i giornali e di togliere all'opposizione gran parte della sua ragione di essere. Forse il problema che i candidati dovrebbero risolvere è quello di immaginarsi quel che farebbero senza il premier. Altrimenti saranno loro a cantare: «Meno male che Silvio c'è».

l’Unità 5.7.09
La parola è sinistra
Un eterno e autonomo movimento di idee
di Luigi Manconi


La definizione: Sostantivo femminile. Mano che è dalla parte del cuore. In Parlamento, l’insieme delle forze politiche che stanno a sinistra del banco del governo e che rappresentano le tendenze progressiste. Corrente filosofica orientata in senso naturalistico e umanistico. (Dal Vocabolario Nicola Zingarelli)
Eugenio Montale : «Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». (da Non chiederci la parola)
Italo Calvino: «I rivoluzionari sono più formalisti dei conservatori». (da Il Barone Rampante)

Dopo oltre un secolo e mezzo, si può dire che, per molti versi, la questione sia sempre la medesima: come combinare, al massimo grado possibile, libertà ed eguaglianza? La volontà di farlo, i programmi per avvicinare quell’obiettivo, la militanza intorno a esso, le culture che ne motivano ragioni e possibilità: ecco, tutto ciò possiamo chiamarlo, con molte incertezze ma con la massima approssimazione oggi consentita, sinistra.
Con qualche avvertenza: sinistra non è un luogo definito geograficamente e storicamente. Ovvero sinistra non si è sedimentata in un partito politico, in una organizzazione sociale e statuale, in un paese determinato.
Sinistra non è un sistema ideologico autosufficiente ne un regime politico immobile. Ne, d’altra parte, può considerarsi un accampamento dai confini ben muniti o una cultura integrata e autonoma. Al contrario. Sinistra rassomiglia, più che a ogni altra immagine, a un movimento, nelle molte e non sempre coerenti accezioni del termine.
È un movimento perché richiede una lotta aperta per la realizzazione di condizioni propizie (pari opportunità) per il perseguimento - appunto - della maggiore libertà possibile e, al tempo stesso, della migliore eguaglianza possibile. Nelle condizioni date e nelle dinamiche che consentono il loro superamento. Nel corso del processo per approssimare quella meta, l’identità di sinistra può definirsi a partire dalla capacità di guardare lontano (almeno un po’) nello spazio e nel tempo.
Nello spazio: da qui l’imperativo di essere «internazionalista» (o meglio: sovranazionale), intensamente interessata a ciò che accade fuori da confini che si ritengono provvisori e friabili; e la consapevolezza che ogni offesa alla libertà, ovunque perpetrata, è una lesione della propria libertà; e che la questione delle migrazioni è sua propria componente costitutiva. Nel tempo: da qui la dimensione ambientale, che ci impone di pensare, oltre la congiuntura presente, ai nostri figli e alle generazioni future. A ciò che è, ma anche a ciò che sarà e che rischierà di essere. Quanto qui sommariamente detto è sinistra come l’abbiamo conosciuta e come la conosciamo? Fin troppo ovvio rispondere no.
Ma anche criticare radicalmente ciò che sinistra è, ciò che noi siamo, può rivelarsi utile. Forse vale la pena ricordare, ancora una volta, i notissimi e felicissimi, versi di Eugenio Montale: «Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.» (1925)

Repubblica 5.7.09
Guai ai deboli
di Miriam Mafai


Cosa spinge un uomo a rintanarsi come una bestia dentro un garage, aspettare a lungo, pazientemente la sua vittima, e poi, quando questa arriva, calarsi un passamontagna sulla faccia, saltarle addosso, tapparle la bocca con un nastro adesivo e infine violentarla ? È uno stupratore, diciamo.
E con questo pensiamo di averlo definito, catalogato. Con questo pensiamo di aver detto tutto. Ma, appunto, chi è uno stupratore? Cosa lo spinge a commettere il suo crimine? Nel corso delle ultime settimane abbiamo registrato a Roma due casi di violenza sessuale consumati con le stesse modalità in due diversi quartieri della città, alla Bufalotta e all´Ardeatino. Forse a Roma, ci avverte la polizia, agisce uno "stupratore seriale". La polizia lo cerca. E tra le donne si va diffondendo un sentimento fatto insieme di paura e di rabbia. Forse non è opportuno, non è prudente uscire da sole la sera.
Cosa spinge un gruppo di giovanotti romani di un civilissimo quartiere a individuare dalle finestre della propria abitazione un uomo, uno solo, di pelle nera che sta distribuendo dei volantini, e poi, senza ragione, a scendere in strada, aggredirlo, picchiarlo selvaggiamente, stenderlo a terra, e alla fine tornare tranquillamente a casa? Tra gli immigrati, regolari o meno, tra tutti coloro che hanno la pelle di un diverso colore si va diffondendo anche a Roma, un sentimento fatto insieme di paura e di rabbia.
Né le donne né gli immigrati hanno la possibilità, la capacità di reagire di fronte ad un imprevedibile gesto di violenza. Donne e immigrati sono i più deboli, i più indifesi. Il colore della pelle in un caso, il loro sesso nell´altro (non veniva definito una volta «il sesso debole»?) sembrano destinarli al sopruso, esporli alla violenza di coloro che hanno avuto la fortuna di nascere con la pelle e il sesso giusto.
Non ho nessun rimpianto per i tempi andati. Ma non c´è dubbio che Roma è andata perdendo, nel tempo, alcune caratteristiche che la rendevano più gradevole. Una certa disponibilità alla cordialità, all´ironia. Ci fu un tempo nel quale sembrava che il reato più diffuso e insopportabile fosse lo scippo. Poi c´è stato – non lo dimentichiamo – il tempo della violenza politica, da cui uscimmo dopo anni di delitti e di sofferenza. Sembrò tuttavia aprirsi, dopo di allora, una stagione diversa. La stagione di Nicolini e poi delle Notti bianche. Si è irriso molto nei confronti dei cosiddetto "buonismo" del sindaco Veltroni , ma dobbiamo alle sue amministrazioni se la città ha potuto, in quegli anni, superare le sue ferite e riconciliarsi con la sua tradizione.
Le città cambiano, naturalmente. E oggi Roma deve reggere l´urto di fenomeni prima sconosciuti. Ma ha sbagliato il sindaco Alemanno quando, solo un anno fa, nel corso della sua campagna elettorale, ha indicato come problema centrale della città quello della mancanza di sicurezza, addebitandone la responsabilità alla passata amministrazione. Un pessimo espediente propagandistico, che gli ha consentito forse di vincere. Ma di cui lo stesso sindaco Alemanno e la sua giunta pagano oggi lo scotto. Ci guardiamo bene dall´addebitare alla attuale giunta la responsabilità degli stupri della Bufalotta e dell´Ardeatino o delle ignobili aggressioni agli immigrati, l´ultima quella di ieri a Monteverde. Ma è compito suo fare in modo che la capitale esca, con l´aiuto di tutte le sue istituzioni, dalla insicurezza e dalla violenza diffusa nella quale oggi è precipitata.

Repubblica 5.7.09
Migranti
Le donne globali ci guardano
di Maria Novella De Luca


Un milione e duecentomila, la metà adesso fuorilegge: è il popolo fantasma di colf, badanti, baby sitter straniere che abitano le nostre case. Una fotografa romana ha messo in mano a dieci di loro delle fotocamere per descrivere la vita quotidiana delle famiglie per cui lavorano. Ne sono nati una mostra e un libro che rovesciano molti punti di vista
Pietro e Elena mangiano per merenda empanadas e banane fritte, perché la convivenza crea contaminazione di culture
L´ecuadoregna Graciela ha cinque bambini, tre maschi e due femmine, da accudire per far studiare le sue tre figlie dall´altra parte del mondo
Immagini di abbracci, di baci della buonanotte, grembiuli di scuola, scherzi tra fratelli, un padre che si cimenta ai fornelli
In quegli scatti ci sono l´abbondanza e il disordine, i giocattoli e il frigo pieno, i panni da stirare, la lavatrice mai ferma
Fotografano l´abbondanza, il disordine, i colori, il cibo, i frigoriferi pieni, i panni da stirare, i letti da rifare, i giocattoli da raccogliere, un borsellino pieno di soldi, le lavatrici che non si fermano mai. Catturano immagini di abbracci domestici, il grembiule della scuola, gli scherzi tra fratelli, il bacio della buonanotte, un padre che cucina, un neonato che dorme, il campanello d´argento con cui la "signora" chiama, richiama, e chiama ancora. Raccontano il loro lavoro nelle nostre case, la fatica invisibile di pulire, mettere in ordine, sostenere gli anziani, allevare i bambini, la cura dell´inizio e della fine della vita, i momenti più fragili, quelli più delicati. Si chiamano Maria Acioly, Agripina Aguilar, Graciela Ayala, Monica Daniliuc, Irene Martin, Isabelita Mendiola, Arcelie Pagdilao, Narciza Riasco, Iaroslava Skolozdra, Sandra Tafur, hanno dai venticinque ai cinquantacinque anni, e sono tutte collaboratrici domestiche.
Dieci donne immigrate regolari a cui una fotografa romana, Simona Filippini, ha chiesto di descrivere con le immagini la quotidianità nelle case italiane in cui lavorano. Un progetto da cui è nata una mostra e poi un libro dal titolo Di Lei. Donne globali raccontano, edito da Iacobelli, che sarà presentato la prossima settimana a Roma. Un viaggio nell´intimità delle famiglie in cui queste donne prestano servizio, e dunque vivono, coabitano, e da qui mantengono figli, mariti e genitori, con lontananze spesso lunghe anni e anni, e la nostalgia che non dà tregua. Sacrificio che le porta però a costruire: con i soldi guadagnati in Italia nei loro paesi comprano case, terreni, attività e a volte la vita diventa migliore. Così i loro scatti digitali sorprendono riempiendo di colore tutto ciò che è ordinario: un mucchietto di bucce di mela, una pentola di sugo, una tazza di tè.
Maria, Graciela, Monica, "donne globali" così le ha definite la sociologa americana Barbara Ehrenreich in un saggio scomodo dove vengono indagati i risvolti psicologici di questa migrazione di massa di donne dal Sud al Nord del mondo, per supplire a un "lavoro di cura" che la società occidentale, e in particolare le donne, non può e non vuole più fare. Una popolazione nella popolazione: nel nostro paese colf, tate e badanti sono oltre un milione e duecentomila, di cui solo seicentomila in regola. Le altre sono "invisibili", protette dalle mura del lavoro domestico, ma prive di tutele, spesso sfruttate, oggi addirittura fuorilegge con le norme appena approvate. «All´inizio piangevo spesso - ricorda Iaroslava, ucraina, che in Italia chiamano Gloria - lasciare i miei figli mi è costato moltissimo, ma volevo che a loro non mancasse nulla. Piangevo sempre, poi ho trovato la forza di restare».
Un universo "dietro", silenzioso, poco conosciuto. Spezzoni di realtà che da sempre appassionano Simona Filippini, presidente dell´associazione di fotografi "Camera 21", e a cui ha dedicato più di un reportage. Andando a scavare nel mondo separato delle suore di clausura, o tra i bambini di Forcella chiamati a raccontare il quartiere, o tra gli studenti di un liceo romano incaricati di scattare e poi di osservare il proprio autoritratto. «Sempre di più, dopo aver lavorato con i bambini e gli adolescenti, e soprattutto oggi con la diffusione del digitale, mi convinco di quanto sia appassionante ed utile lo studio delle fotografie realizzate dalla gente comune, dai non professionisti. In questo caso - racconta Simona Filippini - ho chiesto a dieci donne immigrate di raccontare il loro quotidiano all´interno delle case italiane in cui lavorano. D´accordo con le famiglie, che hanno accettato di farsi riprendere nell´intimità delle loro giornate, anche nel disordine, nell´imperfezione. Sono cosciente di aver rappresentato soltanto un angolo "per bene" di questo mondo, dove le regole vengono rispettate. Il risultato è che queste dieci donne ci hanno raccontato se stesse, ma hanno descritto anche noi, dal loro punto di osservazione». Gli interni descrivono situazioni benestanti (ma non ricche), dove gli spazi si intersecano, i bambini giocano dappertutto e i mariti partecipano al ménage di ogni giorno.
Accanto a ogni "reportage domestico" Maria e le altre aprono il cassetto dei ricordi e dei progetti. Così Agripina Aguilar, peruviana, nelle testimonianze raccolte da Manuela De Leonardis, descrive la vita difficile nel villaggio andino di Pampachiri, il sogno impossibile di studiare ingegneria a Lima, lo sbarco a Roma nel 2007, e l´incontro con la signora Teodolinda, novantadue anni, il suo "maledetto" campanello ad ogni ora del giorno e della notte, e l´ostinazione nel chiamarla Clementina invece di Agripina. «Clementina che ore sono? Clementina portami la medicina, Clementina questo cibo è salato…». Ma piano piano la paziente Agripina riesce a trovare un rapporto con Teodolinda. «Il giorno del suo compleanno la signora era circondata dalla sua famiglia, ma ci ha tenuto ad invitarmi a mangiare la torta con loro». Agripina resiste, perché vuole tornare in Perù, costruirsi una casa nel terreno che si è comprata con i suoi risparmi a San Martin e poi sposare Raul che «mi chiama ogni domenica».
Ana Graciela Ayala dice che i figli della «signora Carla» è come se fossero suoi. Cinque bambini, tre maschi e due femmine, di cui questa donna ecuadoregna di cinquantotto anni si occupa da dieci anni, per far studiare dall´altra parte del mondo le sue tre figlie. «Con la signora Carla mi sono sentita subito al sicuro. All´epoca mi sentivo inutile, la signora mi ha aiutato ad affrontare i miei problemi». Ma è nei bambini di cui si occupa che Graciela trova quei sostituti d´affetto che sembrano alleviare la nostalgia: i baci di Elena, la più piccola, gli abbracci di Pietro, «a cui proprio io ho insegnato a giocare a calcio, e quando ha vinto la prima coppa l´ha regalata a me», dice orgogliosa. Pietro ed Elena mangiano per merenda empanadas e banane fritte, perché il lavoro domestico crea contaminazioni di linguaggi, consuetudini, culture. E spesso accade così che i più piccoli confondano l´idioma dell´affetto con la lingua di chi li accudisce: spagnolo, filippino, polacco, romeno, russo, in un mescolarsi globalizzato di favole, filastrocche, ninne nanne, prime parole.
Anche Arcelie Pagdilao è una che ce l´ha fatta, da quindici anni vive in Italia, dove si è sposata e ha avuto due figlie. Eppure se ricorda il suo viaggio clandestino nel 1991 da Manila a Zurigo, e poi da Zurigo a Bucarest, e da Bucarest in una roulotte nella Jugoslavia in guerra, quindi nascosta in un tir fino a Trieste, e poi a Roma, Arcelie ammette: «Se avessi saputo a cosa andavo incontro non sarei mai partita».

l’Unità 5.7.09
Iran, è l’ora delle accuse
Giro di vite sull’opposizione
di Umberto De Giovannangeli


Chiedono la testa dei capi della rivolta. Puntano direttamente al candidato moderato Mousavi. Lo bollano come agente al servizio dell’America. Processano un giornalista di Newsweek: i falchi di Teheran all’affondo finale.

I falchi di Teheran mirano al cuore politico dell’«Onda verde». «Attività contro la sicurezza nazionale»: questa l’accusa mossa ad almeno uno dei dipendenti iraniani dell’ambasciata britannica a Teheran, ad un giornalista di Newsweek e ad alcuni dei più importanti esponenti riformisti arrestati dopo le elezioni del 12 giugno. A rivelarlo sono i loro avvocati, mentre l’ex presidente riformista Mohammad Khatami, ricevendo i familiari di alcuni degli arrestati, ha denunciato un piano per farli confessare in televisione di avere ordito un complotto. Le autorità iraniane hanno infatti accusato la Gran Bretagna di essere responsabile di una cospirazione contro le elezioni e di avere fomentato le proteste e i disordini che ne sono seguiti.
MOUSAVI NEL MIRINO
Il direttore del quotidiano ultraconservatore Keyhan, Hossein Shariatmadari, ha chiesto che lo stesso ex candidato moderato alle presidenziali, Mir Hossein Mousavi, venga incriminato per avere «cooperato con il nemico». Uno dei dipendenti locali dell’ambasciata britannica è accusato di «attività contro la sicurezza nazionale», secondo quanto reso noto dall’avvocato Abdolsamad Khorramashahi, incaricato dalla famiglia di assumerne la difesa. Il legale ha identificato l’imputato come Hossein Rassan. Un altro degli arrestati rimane in carcere, mentre altri sette sono stati rilasciati nei giorni scorsi.
AFFONDO MORTALE
L’accusa di avere agito contro la sicurezza nazionale è rivolta anche a sei fra i maggiori esponenti riformisti iraniani arrestati dopo le elezioni e al giornalista di Newsweek Maziar Bahari, con doppia cittadinanza iraniana e canadese, secondo quanto reso noto dal loro avvocato, Mohammad Saleh-Nikbakht. Il legale ha aggiunto che è impossibile per il momento sapere cosa rischiano gli accusati, perché questo tipo di incriminazione copre una serie vastissima di reati, previsti da ben 13 articoli del codice penale, che vanno da quello di «propaganda contro il sistema» a quelli di spionaggio e di «mohareb», cioè essere «nemici di Dio», che la legge islamica punisce con la morte. Tra i riformisti accusati, e in carcere da settimane, figurano il religioso Mohammad Ali Abtahi, vice presidente della Repubblica durante la presidenza del riformista Mohammad Khatami, l’ex portavoce di quel governo, Abdollah Ramazanzadeh, l’ex vice ministro degli Esteri Mohsen Aminzadeh, l’ex vice ministro dell’Economia Safay Farahani, l’ex vice presidente del Parlamento Behzad Nabavi e l’ex capo della commissione Esteri del Parlamento Mohsen Mirdamadi.

Repubblica 5.7.09
Iran, torture e false confessioni, la vendetta di Ahmadinejad
Centinaia di oppositori rinchiusi nei covi dei servizi segreti
I desaparecidos di Teheran
di Vanna Vannuccini


Interrogatori duri e waterboarding. La denuncia di Human Rights Watch
I basij hanno fatto irruzione nelle case dei consiglieri di Moussavi e li hanno arrestati

Fin dal primo giorno dopo le elezioni sono cominciati gli arresti. Ogni giorno nuovi nomi. I desaparecidos sono ormai quasi tremila. Accademici, giornalisti, intellettuali: Khamenei è evidentemente deciso a estirpare dalle radici il movimento riformista.
Non a caso ha affidato le indagini a Said Mortazavi, chiamato "il macellaio della stampa" dopo che la giornalista canadese Zahra Kazemi morì in prigione in conseguenza delle torture.
Venti giorni dopo l´inizio delle proteste popolari contro il golpe che ha attribuito la vittoria delle elezioni al presidente in carica Mahmud Ahmadinejad negandola al vero vincitore, Mir Hossein Moussavi, l´intero gruppo dirigente riformatore è in prigione. Di notte, gli agenti dei servizi segreti e i picchiatori basij hanno fatto irruzione nelle case di ex deputati, ex ministri, giornalisti, e li hanno arrestati. La televisione di Stato ha accusato «i principali organizzatori delle manifestazioni di protesta di essere in possesso di armi e di esplositivi». Chi ha osato chiedere agli agenti se fossero in possesso di regolare mandato di arresto ha ricevuto subito un assaggio del trattamento che gli sarebbe stato poi riservato in carcere. Si sa di condizioni di detenzione brutali, con i prigionieri obbligati a restare per ore in piedi con le mani legate dietro la schiena, di interrogatori estenuanti, di torture, di waterboarding, tutto allo scopo di estrarre false confessioni.
I metodi sono ben conosciuti fin da quando, all´inizio della presidenza Khatami, la polizia segreta colpì scrittori e intellettuali dissidenti. Ne furono uccisi otto in due mesi. Poi fu la volta degli aderenti al Movimento Nazionale per la Libertà. Ora è arrivato il turno dei riformatori, che non sono mai stati contro il regime islamico e sono stati giovanissimi rivoluzionari ai tempi di Khomeini.
Della maggior parte degli arrestati, il cui elenco completo è pubblicato nel sito di Human Rights Watch, non si sa dove siano. Di alcuni si sa che dal carcere di Evin sono stati trasferiti in un famigerato covo dei servizi segreti nelle vicinanze di Karaj. I primi ad essere arrestati sono stati i dirigenti di Mosharekat, il maggior gruppo riformatore: l´ex ministro dell´Interno Mostafa Tajzadeh, parlamentari come Behzad Nabavi e Mohsen Mirdamadi, portato via insieme alla moglie; l´economista Said Leylaz, l´ex vicepresidente Ali Abtahi, stretto collaboratore di Khatami; Mohammea Ghuchani, caporedattore del giornale di Karroubi. Due giorni fa è stato bloccato all´aeroporto un economista di fama internazionale, Bijan Khajepour, che veniva da Londra e non aveva partecipato alle manifestazioni. Anche di lui non si hanno più notizie.
Gli arresti hanno due obiettivi: da una parte togliere all´opposizione le teste migliori, dall´altra impedire ai media internazionali di parlare con interlocutori conosciuti e autorevoli: è l´ultimo anello di una censura senza precedenti che ha colpito la stampa internazionale fin dall´inizio delle proteste con il pretesto che i media avrebbero complottato insieme ai paesi occidentali per destabilizzare la Repubblica islamica. «Alcuni dei nostri nemici in diverse parti del mondo cercano di presentare come dubbia questa chiara e assoluta vittoria elettorale», aveva detto Khamenei nell´ormai celebre preghiera del Venerdì quando mise tutto il suo peso a sostegno di Ahmadinejad.

Repubblica 5.7.09
La paura di Kiarostami: "Adesso temo una guerra civile"
di Bijan Zarmandili


Abbas Kiarostami, il più noto tra i registi iraniani, insieme a una trentina di suoi amici e colleghi cineasti ha firmato una dichiarazione collettiva per denunciare che il sangue versato in questi giorni nel paese rischia di trascinarlo sull´orlo di una guerra civile. E´ la prima volta che qualcuno prospetta lo spettro di un conflitto armato interno, conseguenza della tragedia post-elettorale, del fuoco acceso sotto la cenere che prelude ad un incendio irreparabile. Ed è ancora più significativo che siano personalità come Kiarostami a temerlo. Viene in mente il signor Badii, il protagonista de "Il sapore della ciliegia", un vecchio film di Kiarostami. Il signor Badii, ossessionato dalla ricerca di una fossa dove morire e di qualcuno che getti vangate di terra su di lui, sembra la metafora di chi spinge ora il paese alla sepoltura, alla morte. Nella loro dichiarazione i cineasti iraniani chiedono: «Come mai fino al giorno prima delle elezioni, le donne e gli uomini, i giovani di questo paese venivano osannati e definiti nobili eroi, mentre poco dopo il responso delle urne, quella stessa gente è stata accusata di essere la feccia della società, facinorosi che meritano di essere offesi, uccisi e annientati nel sangue?», E forse non si tratta di una domanda retorica.

l’Unità 5.7.09
Conversando con Roberto Espinosa
Portavoce del Coordinamento andino delle organizzazioni indigene
di Leonardo Espinosa


I decreti del cane del contadino»: così hanno chiamato i provvedimenti con cui Lima voleva modificare la legislazione sull’uso delle terre. «Fa quasi sorridere, vero? In realtà, il loro ritiro ci è costato troppo sangue e troppa violenza». È la giornata giusta per parlare con Roberto Espinoza, uno dei portavoce del Caoi (il Coordinamento andino delle organizzazioni indigene), ospite del G-sott8 nell’Iglesiente sardo, un contro-G8 organizzato dall’Arci e da altre 300 associazioni. Poche ore prima, dal Perù, è arrivata la notizia delle prossime dimissioni del primo ministro Yehude Simon, «Se non succederà niente di straordinario».
Ma quella che a noi sembra un vittoria degli indios contro il governo del presidente Alan Garcia, per Espinoza è altro. «È un atto dovuto. Simon aveva forse i numeri in Parlamento (dove le sue dimissioni sono state respinte due giorni fa, ndr), ma ormai la società peruviana lo aveva censurato». Le dimissioni di Simon potrebbero portare alla fine del governo di Garcia, dopo la crisi scoppiata per i due decreti sullo sfruttamento del suolo e sottosuolo nell’Amazzonia peruviana.
Tre mesi di scontri, blocchi stradali e morti. Tanti, da non tenerne il conto: forse 34 oppure, contando anche i desaparecidos, cento. Indigeni auto-organizzati contro indigeni in divisa, spediti dal governo di Simon per far rispettare «lo stato di diritto». Un diritto troppo vago. E troppe volte utile solo per le compagnie petrolifere o per le multinazionali farmaceutiche o agroalimentari. «È l’intera legislazione peruviana da cambiare - continua Espinoza - L’idea coloniale di concedere per legge lo sfruttamento della terra, della nostra Pachamama, è un’idea datata. Nessun uomo può sfruttare la terra, ma solo accudirla. Smettiamo di parlare solo di risorse e iniziamo a parlare di vita».
Gli ultimi dati che arrivano da Lima sono chiari: su 70 milioni di ettari dell’Amazzonia peruviana, oltre 50 milioni sono stati concessi a compagnie petrolifere. La metà delle comunità indios vive su territori che, per lo Stato, non appartengono a loro. E ci vivono da ben prima del 1492.
Il 5 giugno, lo scontro ha portato alla morte di 34 persone e al ferimento di quasi 200 a Bagua Chica (700 kim dalla capitale Lima). È stato il punto più alto della crisi. Poi, le dimissioni di venerdì notte. «Le società sono pronte a cambiamenti strutturali - è la convinzione di Espinoza - dobbiamo lottare per un raffreddamento della terra. E lo Stato non può più negoziare lo sfruttamento in nome del popolo. Altrimenti, avremmo dimostrato di fare come il cane del contadino: abbaia e basta. No: noi abbaiamo per poter mangiare e per far mangiare tutti».
L’immagine del cane del contadino sta sostituendo quella del cortile di casa, quella imposta negli anni 60 dalle amministrazioni a stelle e strisce per tutto il subcontinente. Alan Garcia è rimasto solo ad accusare Evo Morales (Bolivia), Hugo Chavez (Venezuela) e Fidel Castro (Cuba) di manovrare gli indios peruviani. Da Washington, Barack Obama ha condannato le violenze ma non ha preso partito.
«È arrivato il momento anche per questo che la sinistra italiana chieda l’espulsione di Garcia dall’Internazionale socialista. È una vergogna», è la proposta della Caoi.
Per lo scrittore peruviano più famoso al mondo, e noto politico conservatore, Mario Vargas Llosa, quella degli indigeni andini e amazzonici è solo una «vittoria di Pirro». Per il perenne candidato al Nobel, una cosa è certa: «I 332mila nativi amazzonici, secondo il censimento del 2007, divisi in 15 gruppi etno-linguistici, con più di 70 dialetti, continueranno ad essere i cittadini più poveri e sfruttati del Perù, quelli che riceveranno peggiore educazione, con meno opportunità di lavoro e con le peggiori aspettative di salute e vita di tutto il paese. Se non è questa una vittoria pirrica, cos’altro lo è?». Già: cos’altro lo è?
«Non siamo indios e basta. Siamo cittadini. E il motto dei movimenti indigeni è “nessun diritto solo per gli indigeni. Parliamo per tutti, non solo per razze o etnie”», dice il portavoce del Caoi.
In tre mesi, il movimento peruviano è riuscito a non farsi azzittire, cambiando leader ma non cambiando l’obiettivo della lotta: una nuova legislazione dell’uso della terra. Prima c’era Alberto Pizango, leader dell’Asociación Interétnica de Desarrollo de la Selva, ora in esilio in Nicaragua. Poi: Davi Kopenawa, una donna yanomani nata “forse” nel 1956.
Man mano che il neoliberismo si è andato affermando in tutto il subcontinente latinoamericano, per i movimenti indigeni è arrivata l’occasione di legare le proprie battaglie per la terra a quelle dei diseredati delle città. Non è stato facile. Lo zapatismo del subcomandante Marcos ha rappresentato il più alto livello di notorietà per la causa indigena. La repressione e i tempi lunghi della politica lo hanno ridimensionato: da fenomeno globale a fenomeno regionale. Una sconfitta? In parte, ma non totalmente se è vero che da quel 1994, gli altri movimenti indigeni hanno fatto tesoro dell’esperienza del Chiapas.
«La nostra non è una battaglia etnica o individualista - conclude Roberto Espinoza - lottiamo con le comunità di tutto il mondo, sulle Ande come in Italia. Lottiamo per chi vuol fermare lo sfruttamento che porta alla crisi economica e a quella della terra». E allora: la prossima settimana ci saranno 3 giorni di sciopero generale sulle Ande e in Amazzonia. Il cane da guardia ha deciso di dire la sua.

l’Unità Firenze 5.7.09
Identica la volta celeste nella cappella dei Pazzi e in San Lorenzo
Forse fu il giorno in cui giunse a Firenze Renato d’Angiò
Mistero nel cielo rinascimentale. Cosa accadde il 4 luglio 1442?
di Gianni Caverni


La domanda è tornata attuale dopo il restauro della scarsella della Cappella dei Pazzi, ultimato in questi giorni esattamente 567 anni dopo, grazie allo stanziamento di 70mila euro dell’Opera di Santa Croce.

Medici e Pazzi sotto lo stesso cielo. Si tratta certamente di uno dei più fitti misteri che ruotano intorno all’iconografia rinascimentale, la domanda è: cosa è successo il 4 luglio del 1442? Non vi sono risposte certe, solo ipotesi. Di certo c’è che il cielo raffigurato nella cupola della scarsella della Cappella dei Pazzi, appena restaurata e presentata ieri, proprio il 4 luglio di 567 anni dopo, e quello della Sacrestia vecchia di San Lorenzo sono assolutamente identici. Poco prima delle 11 di mattina di quel 4 luglio, senza la luce diffusa del cielo, guardando in alto ogni fiorentino avrebbe visto gli stessi astri rappresentati nelle due cupole dei due edifici brunelleschiani esattamente nelle stesse posizioni: ad affermarlo con certezza è Piero Ranfagni dell’Osservatorio astrofisico di Arcetri al quale è stata chiesta la consulenza scientifica. Come mai sia i Medici che i Pazzi hanno voluto che fosse rappresentato esattamente il cielo di quel giorno, che cosa di così importante era allora successo? Fu Isabella Lapi Ballerini, oggi soprintendente all’Opificio delle pietre dure, ad avanzare l’ipotesi che si potesse trattare del giorno nel quale arrivò a Firenze, cacciato da Napoli, Renato d’Angiò, che insomma soffiasse forte qui in quegli anni un “vento di crociata” che lo avrebbe visto protagonista. Restaurata con 70.000 euro stanziati dall’Opera di Santa Croce l’affresco della cupola presenta consistenti perdite pari circa al 50%, la parte rimanente è stata recuperata grazie all’intervento sapiente di Laura Lucioli e delle sue collaboratrici.

Repubblica 5.7.09
Lang Lang
di Leonetta Bentivoglio


Ho scoperto il pianoforte grazie a un cartone animato di Tom e Jerry Tom suona Liszt, Jerry fa di tutto per impedirglielo Irresistibile, lo ricordo ancora alla perfezione
Ha cominciato a due anni, a nove un´insegnante gli consigliò di lasciar perdere. Ora, a ventisette, è il concertista più richiesto al mondo, osannato da milioni di fan anche giovanissimi Il ragazzo che ama i videogiochi, si veste come un´icona pop e che in America chiamano Bang Bang confessa: "La vostra musica per noi cinesi è fresca e nuova, e una sinfonia di Mahler si ascolta come una scoperta"
Sembra che la musica gli viaggi dentro il corpo. Suonando ne segue il flusso con la testa, le spalle, la schiena. S´allunga, si ritrae, strizza e spalanca gli occhi. Sfiora la testiera e la possiede per intero. Senza sbavature, pare un prodigio telecomandato. Poi s´accanisce, vi s´infrange. Ha una tecnica da acrobata del pianoforte e un´apertura di mani straordinaria, capace di coprire dodici tasti: un pianista "normale" ne cattura dieci. «Suona come un gatto con undici dita», ha detto di lui Daniel Barenboim.
Il gatto-acrobata è Lang Lang, fenomeno di culto planetario. Idolo nella sua Cina, dove entra sul palco circondato da venti body-guard e al ristorante può mangiare solo se protetto da un paravento, è stato inserito da Time nella lista delle cento persone oggi più influenti al mondo ed è l´unico tra i musicisti classici a occupare stabilmente le hit parade del pop. Milioni di fan lo venerano, come testimoniano i contatti raccolti dai due siti accessibili a suo nome: www. langlang. com e www. langlang-fanclub. com. Clicchi e dentro ci trovi tutto su di lui, persino la mappa della città in cui nacque nell´82, Shenyang, capitale della provincia di Liaoning, con indicazioni sulla casetta di famiglia nella quale venne al mondo, come fosse Gesù o Michael Jackson.
E poi vezzi, manie, flash delle sue apparizioni in tivù nel programma di Oprah Winfrey, sarti e parrucchieri preferiti, dichiarazioni amorose in più lingue lanciate da adoratori di ambo i sessi, oroscopo cinese, discografia di ampiezza sterminata per un ventisettenne e naturalmente la sua storia e i suoi precoci traguardi: «Ho cominciato a suonare a due anni», racconta il divo globale seduto in un camerino dell´Auditorium del Parco della Musica di Roma, dov´è stato protagonista di un intero festival programmato da Santa Cecilia. «Ho scoperto il pianoforte grazie a un cartone animato di Tom e Jerry, The Cat Concert. Tom suona la Seconda Rapsodia Ungherese di Liszt, Jerry fa di tutto per impedirglielo. Irresistibile, lo ricordo ancora alla perfezione. Decisi che da grande avrei fatto il pianista, e avevo cinque anni quando suonai in pubblico per la prima volta».
Ciò che seguì lo deve anche alla determinazione e allo spirito di sacrificio dei suoi genitori: «Mio padre, Gorin Lang, lasciò il lavoro per portarmi a studiare al Conservatorio di Pechino, e mia madre restò a Shenyang per lavorare e mantenerci. Ero confuso e spaesato nella grande città, mi consideravano un outsider e un provinciale. Avevo poco più di nove anni quando un´insegnante mi spinse a lasciare lo studio della musica: proprio non sei portato, mi disse, e per me fu un trauma spaventoso. Per fortuna tenni duro, a tredici anni vinsi la Ciaikovskij International Young Musician´s Competition in Giappone e ottenni una borsa di studio per il Curtis Institute di Filadelfia». Il bello è che di recente, quando ha ricevuto il titolo di professore onorario al Conservatorio di Pechino, la maestra che lo tormentò con quel verdetto «era seduta nel salone delle cerimonie ad applaudirmi in prima fila, come se niente fosse».
Da quel soggiorno di studio a Filadelfia («dove andai con mio padre, e finalmente avevo un piano Steinway a coda per me soltanto, e non dovevamo più preoccuparci del modo in cui trovare i soldi per l´affitto») ha preso il via l´ascesa che lo ha trasformato nel più richiesto concertista del panorama classico odierno. La carriera esplose nel ‘99, quando sostituì all´ultimo momento André Watts al Ravinia Festival suonando il Concerto per pianoforte di Ciaikovskij con la Chicago Symphony e Cristoph Eschenbach. Fu un tale successo che in pochi mesi le principali orchestre americane se lo contendevano, e in Europa così come in Oriente prese a montare veloce la sua stella.
Il fatto è che Lang Lang, oltre al mirabile talento, vanta una straordinaria abilità auto-promozionale. Ha colto in pieno lo spirito del tempo non solo nel look rockettaro, chioma gelatinosa, taglio a cresta e giacche marziali e trendy, ma anche nel suo proporsi come star virtuale, alieno sagomato nei meandri del computer. Grande cultore anche da adulto dei cartoni animati e dei videogiochi («sono un esperto di Transformers»), è stato il primo pianista a dare un concerto su Second Life, svoltosi nell´arena (virtuale) di Pangaea Island e organizzato per lanciare un suo cd beethoveniano: «Mi è piaciuto vedermi riflesso in un cartone, anche perché mi hanno fatto sembrare più alto», confessa ridendo. «Però la tecnica delle mani non era abbastanza precisa, nel campo dell´animazione si può fare di meglio». E ha animato vari eventi su YouTube, compreso un concerto in diretta dalla Carnegie Hall di New York.
È un gran sostenitore delle nuove tecnologie, «che non a caso sono state appoggiate e sfruttate dalle massime figure iconiche della musica, da Karajan a Bernstein e a Glenn Gould. Si sono sempre dimostrate utilissime per la diffusione di un´arte destinata a cambiare completamente, entro il prossimo decennio, i suoi canali per espandersi». E si dichiara felice che le vendite dei suoi album «avvengano al settanta per cento tramite downloads su iTunes, visto che i cd scompariranno presto, e in Cina già li considerano un reperto archeologico».
Al di là dell´efficiente pianificazione della propria ascesa, è innegabile che alla base del fenomeno Lang Lang ci sia una bravura formidabile. In cinese il cognome, Lang, significa uomo, mentre il nome, ancora Lang, vuol dire brillante, e se volete spiegazioni sulle due parole identiche chiedetele ai sinologi. Possiamo solo dirvi che Lang Lang equivale a Uomo Brillante. È lui a fornire tale traduzione, mentre la sua mamma giovane e bellissima, con pelle di porcellana, ci gira intorno silenziosa servendo tazze di tè profumato al gelsomino. Vedendo e ascoltando suonare in prova e in concerto l´Uomo Brillante, ci si rende conto che brilla veramente: ha un virtuosismo mozzafiato, capacità disumane. Ma anche prodezze spinte all´eccesso, espresse in cambi di marcia inattesi, scarti repentini, "pianissimi" come bisbigli e "forti" così esplosivi che in America lo chiamano Bang Bang.
Quando lo s´interroga sul rispetto della partitura, replica di sentirsi libero pur nella fedeltà al compositore: «Interpretare è provare a comprendere e comunicare ciò che va oltre il segno scritto. Non s´improvvisa come nel jazz, perché è impossibile modificare i percorsi: nella musica classica i confini dinamici e formali sono rigorosi. Ma anche restando all´interno di questa griglia esatta puoi esprimere sentimenti e offrire una visione personale. La partitura non dev´essere una prigione».
I suoi campioni sono i giganti del repertorio tradizionale, Bach, Mozart, Beethoven, Schubert, Schumann, Chopin, Liszt, Rachmaninov, fino a Ravel e a Debussy: «Amo la ricchezza armonica della musica classica occidentale così come si è sviluppata nei secoli, a un livello che considero tanto più profondo del pop», sostiene con slancio. «È la ricchezza armonica a imprimere al repertorio classico-romantico europeo uno spessore che secondo me manca alla più limitata musica orientale, o per lo meno che mi coinvolge tanto di più». Nell´ambito della musica "altra" è comunque il jazz il genere che più lo affascina e incuriosisce. Per questo il 13 luglio, all´Arena di Verona, con replica il 18 al Ravenna Festival, si esibirà col leggendario Harbie Hancock in un programma che include tra l´altro Rhapsody in Blue di Gerswhin in un arrangiamento per due pianoforti.
Tra un tour e l´altro e qualche rapidissima sosta nelle sue due dimore, una a New York e l´altra a Pechino («in realtà vivo negli hotel, non riesco a fermarmi più di un mese all´anno»), Lang Lang, che forse per la sua aria da magico cyber-folletto è un beniamino dell´infanzia, si adopera per promuovere l´insegnamento della musica classica nelle scuole primarie cinesi e non soltanto, e ha anche progettato uno speciale pianoforte Steinway a misura degli studenti più piccoli «che costa molto meno di un normale pianoforte, facilitandone l´acquisto ai genitori. In Cina il pianoforte, forse un po´ anche grazie a me, è diventato lo strumento più popolare tra i giovani: oggi si contano quaranta milioni di pianisti. Una valanga, una marea che continua a dilatarsi, alimentata anche dalla politica del figlio unico, che ha portato le famiglie a indirizzare tutti i loro sforzi verso l´educazione del figlio. D´altra parte anch´io non ho fratelli». E aggiunge che la musica classica occidentale è molto studiata e ascoltata nel suo Paese, «dove non c´è un gran divario con il pop, come tra voi europei, perché la vostra musica per i cinesi è fresca e nuova, e una sinfonia di Mahler si ascolta come una scoperta ed è anche un modo per ricollegarci a una cultura che per tanti anni è stata per noi misteriosa e lontana».

Corriere della Sera 5.7.09
L’inchiesta di Fabio Isman «I predatori dell’arte perduta»: un milione di oggetti trafugati
Perché l’archeologia clandestina rende più della droga
di Paolo Conti


«Sgombriamo il campo da un equivo­co: anche se si proclamano tali, i 'tombaroli' non sono archeologi. Non scavano per studiare ma distruggono per lucrare. Non individuano un sito per chia­rire cosa rappresenti, ma lo devastano per saccheggiarlo». Perché «un reperto può anche tornare», ma disgraziatamen­te «il suo 'contesto' è perduto per sem­pre ».

Basterebbe questo passaggio per spie­gare perché Fabio Isman, inviato speciale de «Il Messaggero», abbia dedicato gli an­ni più importanti e maturi della sua car­riera a uno sterminato filone, verrebbe da dire a una inchiesta durata anni: il sac­cheggio del nostro patrimonio artistico, la sistematica devastazione — operata dai famosi «tombaroli» con la complicità di mercanti internazionali privi di qualsi­asi scrupolo morale e a dirigenti di gran­di musei statunitensi fatti della stessa stoffa — di un retaggio culturale unico al mondo. Ora esce per i tipi di Skira questo I predatori dell’arte perduta. Il saccheg­gio dell’archeologia in Italia (pp. 222, e 19), sintesi del lungo e accurato impegno di Fabio Isman.
L’autore ha alle spalle altri anni profes­sionali vissuti nella cronaca nera, nel ter­rorismo. E il felice passo narrativo del vo­lume è veramente figlio dell’una e dell’al­tra esperienza. Perché sembra di immer­gersi in un thriller alla John Grisham (i lettori si rassicurino: nessuna barbosa di­gressione storico-artistica) che non la­scia spazio alla noia.
Storie di scavi notturni, di investigatori italiani colti e sagaci, di mediatori ricchi non solo di denaro (e di sterminati depo­siti in Svizzera) ma anche di contatti inter­nazionali ad altissimo livello. Perché tut­to questo? Semplice, spiega Isman: «Per­ché il reperto paga. Perfino più della dro­ga. E comporta assai meno rischi. Non si è mai visto, ad esempio, un cane fiutare un oggetto antico in un aeroporto. Scopri­re i predatori è più difficile che bloccare gli spacciatori».

Il triste risultato, come spiega il som­mario di copertina, è «un milione di og­getti trafugati e ricettati». Isman si diver­te, con amarezza, a tratteggiare i tipi uma­ni coinvolti. Per esempio la sfrontatezza di Giacomo Medici e di Bob Hecht, prota­gonisti indiscussi del mercato nero mon­diale di beni culturali, che si fotografano soddisfatti al Metropolitan di New York davanti alla teca che conservava il meravi­glioso Cratere di Eufronio, poi restituito all’Italia nel 2008 dopo una tesissima trat­tativa. Magari manca Indiana Jones. In compenso ci sono i nostri straordinari Ca­rabinieri della Tutela del patrimonio cul­turale. Chissà che un giorno anche loro diventino protagonisti di un film, magari ispirato a questo coinvolgente e avventu­roso volume. 



il Riformista 5.7.09
Il dilemma dell'Idiota e della vera intelligenza
Dostoevskij. Rappresentato a Villa Adriana, il principe Miskyn torna a inquietarci. E un grande romanziere lo sa fare meglio di un filosofo
di Filippo La Porta


Se non credi al male può anche accadere che il male che incontri si ritiri, ne sia svuotato dall'interno

Sicuri che quella che normalmente chiamiamo "intelligenza" sia davvero tale? A ben vedere si tratta di una mera tecnica di lotta e difesa, di un'arma utile alla sopravvivenza, forgiata nel corso dell'evoluzione umana. Rientrerebbe più volentieri in quella che Dostoevskij assumeva come intelligenza "secondaria" (soprattutto adattativa), da cui si distingue invece la più inafferrabile intelligenza "principale".
Meditavo su questo mentre la scorsa settimana nel teatro di Villa Adriana assistevo alla messinscena dell'"Idiota" di Dostoevski da parte di Eimuntas Nekrosius e degli attori del Meno Fortas Theater di Vilnius. Il regista lituano non tanto rilegge o approfondisce Dostoevskij quanto evidenzia magnificamente la sostanza teatrale e visionaria del romanzo. E poi la sua drammaturgia del movimento sottolinea la drammatica fisicità dei personaggi dostoevskijani, che esprimono la propria verità quanto più si allontanano dalla parola e dalla logica.
Il protagonista, il principe Myskin, torna a Pietroburgo dopo un periodo trascorso sulle montagne svizzere per curarsi la malattia di nervi. Sia nel romanzo che sulla scena è il centro magnetico verso cui ogni cosa, ogni persona converge irresistibilmente, senza però mai veramente afferrarlo. È lo straniero (etimologicamente "idiota" sta per "distinto", "separato"), un giovane bellissimo, biondo, dalla bellezza delicata, quasi angelica, colui che viene in città, nel mondo degli adulti, dopo un lungo periodo di esilio volontario, in cui ha fraternizzato soltanto con la natura alpina incontaminata e con i fanciulli. Ingenuo e seduttivo, sprovveduto ma emanante un'aura sacra (soffre di epilessia), innocente e urtante, asociale e "puro folle".
L'idea poetica di Dostoevskij era quella di inventare un personaggio "assolutamente buono", e che non risultasse comico, come Falstaff e don Chisciotte. Piuttosto: vicino al Cristo stesso e alla variegata famiglia di stolti e giullari di Dio della tradizione cristiana medievale. Nekrosius dà giustamente rilievo alla scena in cui principe Myskin, ospite d'onore di una cena mondana che festeggia il suo ritorno, ha un unico momento di insofferenza concitata, quasi violenta: si scaglia infatti contro la Chiesa cattolica, come l'Anticristo, a cui contrappone un sentimento religioso autentico, radicale, fondato sul misticismo e sulla preghiera. Lo scrittore russo non intende convertirci a questo sentimento. Non è un predicatore né un teologo. Ci invita piuttosto a partecipare a uno straordinario test esperienziale: attraverso l'identificazione emotiva e intellettuale con il personaggio ci permette di vivere direttamente le conseguenze pratiche di quel tipo di visione del mondo. In ciò la letteratura può rivendicare un primato sulla filosofia: tratta sempre idee incarnate, ritratte in situazione. Per questo motivo pretendere di parlare oggi di Dio, di religione, di morale, senza confrontarsi con il grande romanzo moderno - unica, concreta mediazione con il mondo antico, con la tradizione, con esperienze e sapienze arcaiche - mi sembra quantomeno velleitario. L'eticità della letteratura, di cui si parla un po' enfaticamente, coincide con il suo stesso valore conoscitivo. Dostoevskij non dice che Myskin ha ragione, non lo propone come modello pedagogico e utopia edificante. E anzi la sua figura mantiene sempre una alterità disturbante. Piuttosto lo scrittore ci mostra con esattezza come vive e come si comporta, come reagisce alle situazioni, quali effetti contraddittori ha sulle altre persone chi pensa e sente come Myskin. Si potrebbe dire che la letteratura è l'unica scienza di cui disponiamo - benché ipotetica, provvisoria - sulle complicate relazioni tra idee vissute e destini individuali.
A contatto con la vita sociale l'"idiota" è una mina vagante: fa domande sconvenienti, non si trattiene, mette in imbarazzo gli interlocutori. Invitato a una festa sembra uno dei fratelli Marx: rompe il vaso cinese prezioso, dice cose sempre un po' esagerate… Con i suoi interlocutori ravvicinati ha una funzione involontariamente maieutica, ne rivela l'anima, ma al tempo stesso li esaspera. L'estremo della buona fede (non fa mai calcoli) può coincidere con l'estremo della malafede! Ad esempio: ama in modo equanime due donne, Aglaja e Nastas'ia Filippovna, e perciò non ama davvero nessuna delle due, e così le scontenta entrambe. Mi ricorda il personaggio del prete Nazarin, nell'omonimo film di Bunuel, che volendo imitare Cristo e fare il bene rende tutti infelici e aggrava i conflitti. Myskin è impotente di fronte al male sociale. Il romanzo ci racconta il suo fallimento. Nell'ultima scena sprofonda di nuovo, e forse per sempre, in una mite, buia follia. Ed è il fallimento di Cristo, che quando torna sulla Terra, in un racconto compreso nei "Karamazov", si sente dire dal Grande Inquisitore che l'umanità non cerca il libero arbitrio ma vuole obbedire a una autorità terrena, come la Chiesa, cinicamente fondata sul mistero e animata da un ateismo pragmatico.
Eppure nel romanzo c'è altro, e questo altro è affiorato anche sul palcoscenico spoglio di Villa Adriana, nella gestualità espressionista e straniata degli interpreti, ad esempio in quel bellissimo sogno mimato dall'interprete principale. Ho letto l'"Idiota" durante un'estate a venticinque anni, per giunta con quella ansiosa paura di morire di lì a poco che a volte si recitano gli adolescenti, un po' per gioco e un po' per darsi importanza…. Ricordo però che speravo di sopravvivere almeno fino alla fine del libro! Sentivo infatti che si trattava di una lettura per me decisiva, che quel romanzo - certo imperfetto - era il più eversivo di tutti! È vero che Myskin viene sconfitto, che non riesce a costruire una comunità ispirata ai suoi valori. Ma, a ben vedere, una diversa "comunità" esiste solo nel gesto gratuito, misterioso con cui permettiamo all'altro di esistere per un momento. Consiste in una carità e apertura spontanea, nello slancio assolutamente libero e ispirato (religioso?) con cui ristabiliamo la fraternità - quasi sempre nascosta - tra le creature. Ce ne è per caso un'altra, di comunità possibile, in qualche piega della Storia?
Myskin non giudica nessuno e soprattutto la sua fede ha un corollario inevitabile: non crede al male. Singolare presa di posizione. Il contrario esatto della modernità, che invece non crede alla bontà, e anzi ne diffida, la considera una maschera o tutt'al più una tattica. Ora, se non credi al male, se ritieni che il male sia solo una sovrastruttura, una forma deviata o pervertita di amore eccetera può anche accadere che il male che incontri si ritiri, ne sia svuotato dall'interno. Quando Myskin scorge il brutale Rogozin che nel buio si appresta a ucciderlo con il coltello grida una frase: «Non ci credo!», prima di cadere in una crisi epilettica. E allora Rogozin si blocca. La sua aggressività viene come decostruita e smontata. Myskin non cambierà il mondo (chi può farlo?). Però ne ha interrotto per un attimo la inesorabile pesanteur morale, la sua greve necessità.
Aglaja al principe: «Benché siate malato di nervi l'intelligenza principale, la vera intelligenza è in voi migliore che in tutti gli altri…». Torno all'interrogativo iniziale. Di cosa parliamo quando parliamo di intelligenza? In cosa consiste quella "vera intelligenza" di cui oggi abbiamo quasi perduto memoria e che forse nell'immediato non serve a nulla? Empatia, intuito psicologico, sensibilità, attenzione disinteressata, assenza di pregiudizi, e anche una "visione" imparentata con la bontà… Dostoevskij, che è un romanziere e non un filosofo, evita saggiamente di definirla. Però ce la rappresenta.


il Riformista 5.7.09
Gli Iris di Monet
Un originale che batte le copie
di Emanuele Trevi


RISCOPERTA. Dal dentista, dal commercialista, sulle tazze. Come i Simpson, le celebri ninfee del francese sono oramai dappertutto. E le loro stampe contemporanee, a volte, sembrano più emozionanti dei dipinti. Un caso simile alla proustiana sorgente della Vivonne. Ma gli "Iris gialli" esposti nella mostra di Milano dedicata al pittore impressionista sfatano anche questo (falso) mito.

Tra le centinaia di ninfee dipinte da Claude Monet nel suo giardino a Giverny, ce n'è una che per me possiede una serie di significati tanto arbitrari quanto indelebili. La riproducibilità tecnica dell'opera d'arte, fenomeno di per sé abbastanza innocuo, è pure in grado di suscitare alcune forme notevoli di demenza contemporanea. Mollemente adagiata sull'acqua del celebre stagno creato dallo stesso Monet, questa ninfea, protetta dalla sua brava montatura a giorno, di quelle che si comprano all'Ikea, fa la sua porca figura su tre pareti a me ben note. La contemplo nella sala d'aspetto del mio dentista e in quella del mio commercialista. E spunta da dietro le spalle del mio analista, caricandosi di impervie e imbarazzanti implicazioni simboliche. Insomma, quell'insigne invenzione pittorica si è indebitamente infiltrata nella mia vita associandosi ai suoi tre aspetti più temibili e sgradevoli: l'igiene dentaria, il pagamento delle tasse, l'interpretazione dei sogni.
E così come il Wilhelm Meister di Goethe scopre l'esistenza di una Società della Torre che per lungo tempo ha sorvegliato le svolte del suo destino, così io sospetto che un misterioso e ambiguo Ordine della Ninfea presieda in modo occulto alla mia vita, facendo di me la cavia di chissà quale stolto esperimento. Quanto alla ninfea di Monet, e alle sue innumerevoli sorelle, le loro epifanie non si arrestano certo ai poster negli studi dei professionisti. Gli Impressionisti, e in particolare Monet, contendono a Snoopy e alla famiglia Simpson il primato dell'ubiquità riproduttiva, per chiamarla in qualche modo. La loro opera si adatta alla perfezione alle più diverse superfici, ai più svariati materiali: copertine di quaderni, asciugamani, calendari, piatti e tazzine, magliette. Sono sicuro che qualche buontempone è riuscito a stampare le ninfee di Giverny sull'esile membrana plastica dei preservativi. Si potrebbe, in fin dei conti definire una mostra di Impressionisti come quell'esposizione di opere d'arte nella quale il cosiddetto bookshop è la sala più importante.
Nel folto di questo sciame di copie, cosa ne è del vecchio, austero, lievemente ridicolo originale? Può esistere ancora attorno ad esso non dico un'aura, ma almeno un piccolo dramma psicologico, un lieve sussulto, un'emozione primaria benché fuggitiva? Immaginate la mia sorpresa e il mio sconcerto l'altro giorno quando, passeggiando oziosamente a Milano, dalle parti del Duomo, vedo sventolare sulla facciata di Palazzo Reale lo striscione di una mostra dedicata a Monet e intitolata Il tempo delle ninfee, aperta fino al 27 settembre (catalogo Giunti, a cura di Claudia Beltramo Ceppi). Sogno o son desto? Per soli nove euro, dunque, potrò contemplare l'originale di quelle copie di cui raccontavo - l'odontoiatrica, la psicanalitica, la fiscale! Ma certo, è proprio quella che occhieggia invitante nel manifesto della mostra!
Non so spiegare perché, ma la prospettiva di conoscere questo originale, questo sottilissimo ago nel pagliaio delle sue copie, mi turbava e mi eccitava tanto da farmi procedere quasi di corsa sul severo scalone neoclassico di Palazzo Reale, timoroso di trovare la biglietteria già chiusa. Visto che stiamo parlando di Impressionisti, i lettori mi consentiranno a questo punto una piccola digressione letteraria ispirata a Proust. I lettori della Recherche ricorderanno bene come, tra i ricordi di Combray, il narratore faccia posto alle fervide fantasie sulla sorgente della Vivonne, immaginate come qualcosa di non meno straordinario che la porta degli Inferi. E invece, una volta arrivati fin lì, non si tratta che un semplicissimo «lavatoio quadrato», che di stupefacente ha solo la sua capacità di generare delusione. Ebbene, la mia ninfea originale, in fin dei conti, non ha potuto che produrre lo stesso effetto. Riprodotta sulla carta da poster, e inguainata nel plexiglas dell'Ikea…posso dirlo?...ebbene, sembrava più bella, più viva! Il sottile Proust aveva tutta l'aria di riproporre un'ennesima volta il vecchio tema romantico del conflitto tra l'immaginazione e l'esperienza reale. E invece, spirito profetico quale era, aveva di mira il mondo, ormai rigoglioso ai suoi tempi, delle copie e dei simulacri. In questo mondo, che è il nostro mondo, ogni originale è una misera source de la Vivonne.
Quello che invece nemmeno le più visionarie profezie di un Philip Dick o di un William Gibson avrebbero mai potuto contemplare, è un costume che osservo la prima volta in questa mostra di Monet. Tanto per cominciare, mi accorgo di essere l'unico a visitarla senza guida. Tutti gli altri visitatori, come fossero in un box della Formula Uno, indossano le loro cuffie. All'inizio, penso che sia uno di quei nastri registrati, dove ti dicono fermati qui, contempla questo paesaggio, ammira quest'azzurro, passa all'altra parete, e così via fino all'uscita. E invece, si tratta di ben altro: i visitatori, divisi in piccoli gruppi, ascoltano qualcuno che parla per davvero, ma grazie alle cuffie, può limitarsi a sussurrare tutte le informazioni nel suo microfono, senza disturbare il prossimo e gli altri ciceroni. Come un pifferaio magico, come il Mangiafuoco di Collodi, ognuna di queste guide sussurranti si porta di qua e di là il suo piccolo gregge, legato da fili invisibili. Un'invenzione degna della grande e compianta Pina Bausch, una specie di coreografia didascalica non priva di un suo involontario fascino surrealista.
Già, ma in cosa consistono le informazioni da fornire al pubblico su queste ninfee, su questi rami di glicine curvi sotto il peso della loro fioritura, su questi ponticelli giapponesi che emergono con la loro arcuata perfezione dal folto della verzura? Approfittando della mia condizione di senza cuffia, saltabecco da un cicerone all'altro, tutti giovani, bene informati, attenti a non accavallare le loro onde sonore a quelle dei colleghi. Si parla di teoria della visione e malattie oculistiche, di colori che colano dall'alto invadendo e saturando lo spazio della tela, di variazioni simultanee dello stesso soggetto, necessario a cogliere i minimi trapassi del tempo e delle condizioni atmosferiche. Si riportano i giudizi dei maestri dell'Astrattismo, che senza Monet non avrebbero saputo da dove iniziare. Un ragazzo legge un bellissimo pezzo di un saggio di Gaston Bachelard, grandissimo filosofo ahimé ormai del tutto sconosciuto al di fuori delle cerchie di iniziati. Non riesco a sfuggire a queste notizie, al loro fascino di informazioni puntuali, separate dalla continuità del ragionamento. Ulisse di me stesso, per sfuggire a queste Sirene informative dovrei colarmi cera fusa nelle orecchie - e a che pro? Si imparano tante cose e poi, quando viene il momento, l'Arte (sì, quella con la maiuscola) impone il silenzio, come l'antico sacerdote al culmine della celebrazione dei Misteri.
Arrivato all'ultima sala, mi cade lo sguardo sugli Iris gialli del Musée Marmottan: opera della vecchiaia, terminata nel 1925, e dotata dell'arcana seduzione del testamento, dell'illuminazione estrema, della fin de partie. Gli iris crescono in un'erba folta, dipinta come se a guardarla fosse qualcuno steso per terra, ubriaco o ferito come nelle grandi battaglie di Tolstoj. Sopra l'erba, un cielo capriccioso, attraversato da bianche nubi primaverili, soffici e sfrangiate. Tutto così semplice e così perfetto: è la danza di due colori dalle opposte implicazioni psicologiche, il giallo dei fiori, concentrato di vitalità, e il malinconico azzurro del cielo. In virtù di un corto circuito improvviso della memoria, mi viene il mente che sono i colori del frac e del gilet preferiti dal giovane Werther, che li indossava il giorno che conobbe la sua Lotte e con quel vestito volle farsi seppellire. E basta questo quadro per farmi arrendere, e deporre ogni ironia: saranno pure le Cenerentole dell'arte, questi originali, ma sono ancora capaci di farti dei regali, se solo sei disposto ad accettarli, che nessuna maglietta, tazzina, calendario o poster può permettersi.

sabato 4 luglio 2009

l’Unità 4.7.09
La «battaglia infernale» afghana coinvolge anche gli italiani
di Umberto De Giovannangeli


Nella valle dell’oppio i britannici si uniscono agli americani. Che piangono il primo morto
Auto kamikaze contro un blindato italiano, due i feriti. L’altra notte blitz nella vallata di Mushai

Si combatte nella valle dell’oppio. Una «battaglia infernale» che vede 4mila marine scontrarsi con i talebani. Un attacco suicida ferisce due soldati italiani. Seicento parà affiancano i militari afghani. È guerra.

La «battaglia infernale» estende il suo campo e coinvolge anche i soldati italiani. Un attentatore suicida ha fatto esplodere l'auto su cui viaggiava al passaggio di un convoglio di militari italiani, nell’ovest dell'Afghanistan: il mezzo si è ribaltato, ma ha retto al violento urto. Solo due paracadutisti sono rimasti lievemente feriti.
ATTACCO SUICIDA
L’attentato è avvenuto ieri mattina lungo la strada che collega Farah a Shindand, nella parte meridionale della regione ovest dell’Afghanistan, a comando italiano. L’auto, secondo quanto riferito dal maggiore Marco Amoriello, portavoce del contingente, si è fermata sul ciglio della strada, mentre il convoglio si avvicinava procedendo dall’opposto senso di marcia. Un comportamento che non ha destato particolari sospetti, perché è proprio quello che il comando della missione Isaf raccomanda di fare quando una vettura civile incrocia convogli militari, anche allo scopo di agevolarne il passaggio. Quando il primo blindato «Lince» è però giunto all’altezza dell'automobile, il conducente l’ha fatta saltare in aria: l'urto è stato violentissimo e il «Lince» si è ribaltato, ma sostanzialmente ha retto, e i parà che si trovavano a bordo si sono salvati. Per loro solo piccole ferite e contusioni: uno al labbro e l'altro all'orecchio. L'attentatore è morto. «Si tratta di attacchi subdoli e imprevedibili», commenta il generale Rosario Castellano, comandante della Brigata Folgore (tutta schierata in Afghanistan) e del contingente italiano. Contro questo tipo di attacchi, insomma, non c'è molto da fare, e per questo la vigilanza resta altissima. Anche perché, in vista delle prossime elezioni presidenziali di agosto, il clima resta caldissimo. Il fronte si estende, e il coinvolgimento nella guerra è pressoché totale. I militari italiani continuano ad affiancare quelli afghani nelle operazioni volte a riprendere il controllo del territorio nelle aree finora dominate dai talebani. L’ultimo blitz di questo tipo si è concluso l’altra notte, nella valle di Mushai, ad una trentina di chilometri da Kabul. Circa 600 uomini, tra parà del 186mo reggimento della Folgore e militari dell'Esercito afghano, hanno condotto un massiccio intervento che ha consentito di catturare un «gruppo di insorti» responsabile, fanno sapere al comando italiano di Kabul, di «molti degli attacchi verificatisi ultimamente contro le nostre unità. L'operazione, che mirava al consolidamento della sicurezza nell'area, ha avuto pieno successo» ed è stata accolta «con favore dalla popolazione e dai capi villaggio».
RESISTENZA ACCANITA
L’offensiva americana in Afghanistan si è trasformata a Garmsir in una «battaglia infernale». Ad affermarlo è il capo delle operazioni militari, generale Larry Nicholson. «I soldati americani sono impegnati in pesanti combattimenti nel settore sud», spiega il generale Nicholson. L'alto ufficiale conferma la morte l’altro ieri di un soldato americano, il primo ucciso dai ribelli talebani durante l'offensiva dei Marines, e precisa che i 4.000 uomini impiegati nell'attacco sono stati trasportati in circa otto ore sul luogo del combattimento, la metà con elicotteri. L'operazione Khanjar (Colpo di spada in lingua pashtun, quella della maggioranza della popolazione nell'Helmand), iniziata l’altro ieri dalle truppe statunitensi, è la più vasta dopo l'annuncio del presidente Barack Obama dell'invio quest'anno di 21 mila soldati di rinforzo. A fianco dei Marines, nella roccaforte-cassaforte dei talebani, combattono centinaia di militari britannici che hanno occupato una serie di punti strategici nella «valle dell’oppio».
Colpite dalla morte del tenente colonnello Rupert Thorneloe, l'ufficiale britannico più alto in grado morto in combattimento dai tempi della guerra nelle Falklands, le forze armate della Regina, hanno occupato 13 ponti nella bassa valle del fiume Helmand. Ieri circa 800 militari britannici hanno cominciato ad avanzare verso nord, in direzione di Gereshk, la città industriale della provincia.

l’Unità 4.7.09
«I nostri militari in un fronte di guerra»
Intervista a Rosa Villecco Calipari
di U. D. G.


L’escalation degli attacchi contro i nostri soldati non è casuale. Il Parlamento deve essere costantemente informato di ogni eventuale cambiamento di impegno dei soldati italiani in Afghanistan, ricordando che noi siamo all’interno della missione Isaf e non in quella Enduring Freedom, una missione, quest’ultima, che è a comando americano e che ha come obiettivo la lotta al terrorismo». A sostenerlo è Rosa Villecco Calipari. «I generali impegnati sul campo - sottolinea la capogruppo del Pd in commissione Difesa della Camera - non possono essere lasciati soli nella decisione di utilizzare i nostri soldati a supporto delle truppe della coalizione impiegate in operazioni ad alta intensità».
Nella valle dell’Helmand è in corso una «battaglia infernale». A Farah in un attentato suicida sono stati feriti due soldati italiani.?
«Se l’intento dell’operazione dei Marines è quello di mostrarsi a fianco della popolazione, riconquistandone una fiducia fortemente intaccata dai bombardamenti aerei che nell’ultimo anno hanno provocato molte vittime tra i civili, se questo è l’intento non so se l’offensiva in atto potrà sortire effetti positivi. L’operazione “Khanjar” è anche l’espressione tangibile, sul campo, della volontà del presidente Obama di riprendere l’Afghanistan anche con un incremento delle truppe americane».
Questo cambio di strategia Usa cambia anche la natura della presenza italiana sul fronte afghano?
«La verità è che dall’agosto scorso, gli attentati contro i nostri militari si sono andati via via intensificando, e questo per due motivi...».
Quali?
«In primo luogo, perché ci siamo spostati in un’area, quella di Farah, che è maggiormente a rischio rispetto a quella che precedentemente avevamo come area di controllo. Un’area divenuta ancora più rischio dopo l’offensiva di Helmand dei Marines. Nel momento in cui si fanno operazioni così militarmente forti, è possibile doversi trovare a fronteggiare non solo le reazioni dei talebani ma anche della cosiddetta “insorgenza”, della quale fanno parte criminali, trafficanti d’oppio, ribelli e anche persone che hanno visto morire nei bombardamenti loro familiari. Gli insorgenti spinti verso Farah aumentano i rischi per i nostri soldati. Il fronte dei combattimenti tende ad allargarsi, ed è prevedibile che una escalation degli attentati possa investire anche le aree sotto controllo italiano».
Ma è possibile che questo cambiamento di scenario avvenga senza una discussione parlamentare?
«Più volte abbiamo chiesto che il ministro della Difesa (Ignazio La Russa) venisse in aula per dare una sua spiegazione sulle ragioni dell’intensificarsi degli attacchi contro i nostri soldati, e per chiarire se questa escalation di attacchi fosse connessa con una intensificazione delle nostre operazioni sul campo. Perché di questo il Parlamento deve essere informato, soprattutto se queste operazioni sono in linea, o no, con gli obiettivi della missione Isaf. Ma a fronte di questa esigenza di chiarezza, ciò che sta avvenendo in questo momento alla Camera è qualcosa di gravissimo, allucinante...».
Allucinante?
«Il governo ha inserito la proroga e il rifinanziamento delle missioni delle nostre Forze Armate nel decreto-legge anticrisi. Dunque, le Commissioni Difesa di Camera e Senato sono svilite, di fatto, a organo consultivo, una forzatura inaccettabile e del tutto inadeguata rispetto all’importanza di decisioni che riguardano le missioni militari all’estero, a cominciare da quella in Afghanistan. È la prima volta che avviene questa forzatura. Un fatto gravissimo, assolutamente inaccettabile».

l’Unità 4.7.09
Nove anni di conflitto
Afghanistan, perché sono lì i nostri soldati?
di Luigi Bonante


Ad ascoltare le notizie di questi giorni potremmo pensare che i marine americani, con gli alleati, abbiano avviato la più grande operazione anti-droga della storia! Fosse vero, perché - come è noto - il prodotto nazionale afghano di oppio si è decuplicato negli ultimi anni e non risulta che la sua commercializzazione riguardi il mercato locale, ma tutti quelli occidentali: ancora, Stati Uniti e alleati. Ma se volessimo trovare una risposta migliore e che ci spiegasse per bene che cosa sta succedendo in Afghanistan, dovremmo tornare alla data del 7 ottobre 2001 quando la coalizione «Enduring Freedom» entrò in Afghanistan, dopo un ultimatum rivolto al governo talebano di quel paese per la consegna di bin Laden e del mullah Omar. Ma siamo entrati nel nono anno dell’attacco occidentale all’Afghanistan: di bin Laden non sappiamo ancora nulla, e di che cosa quindi stiamo facendo in Afghanistan ancora meno.
Non abbiamo modelli interpretativi che ci aiutino a comprendere ciò che sta succedendo: è come se la più straordinaria ed efficiente industria del mondo, quella militare (non soltanto americana ma anche quella degli alleati), stesse divorando non soltanto ingenti risorse ma addirittura se stessa non sapendo per che cosa combatte. Obama sta studiando una «exit strategy», che è difficile trovare senza aver onestamente chiarito i fini perseguiti. Vogliamo un Afghanistan liberato dai talebani? Sì, ma con quale diritto? E che cosa lasceremo dietro di noi? Un altro governo-fantoccio, dopo elezioni grottesche? Perché non ammettere l’errore compiuto? Né gli Stati Uniti né gli alleati, Italia compresa, riescono a capire che in Afghanistan non c’è più la libertà di 9 anni fa e che in cambio abbiamo una mortalità violenta senza limiti? Ogni giorno gli attentati, le imboscate, le sortite, in corrispondenza dei diversi livelli che la lotta ha assunto (terrorismo, guerriglia, guerra), lasciano sul terreno morti tristemente inutili, di entrambe le parti.
Una sgradevole ma lucida domanda, a questo punto, non può essere taciuta. Ma che cosa stanno a fare in Afghanistan i soldati italiani? Non c’è neppur bisogno di scomodare lo sfortunato art. 11 della nostra Costituzione, né da aspettarsi un nobile dibattito parlamentare (sarebbe una recita a soggetto sull’eroismo dei nostri soldati, che nessuno mette in dubbio, ma che vorremmo fosse meglio utilizzato) per chiedere che ci venga dimostrato se il contributo (anche di sangue) italiano sia giustificato da qualche grande ideale politico. Stiamo vivendo una situazione assurda: in Afghanistan come in Iraq continuano due guerre inspiegabili e insensate. Anche se dopo tanto tempo non sappiamo più perché andammo laggiù, almeno andiamocene.

l’Unità 4.7.09
Razzismi quotidiani
L’Italia ignava e l’Italia che si sveglia
di Dijana Pavlovic


Qualche giorno fa un buttafuori dell’Ipercoop sotto casa mia ha pestato un giovane homeless, uno dei tanti che da sempre stazionano nella zona e con i quali si riesce ad avere un rapporto, a volte più umano che con gli altri frequentatori del supermercato. Un episodio che non è finito nelle pagine di cronaca di nessun giornale ma che fa parte di un clima generale di cui vale la pena di preoccuparsi perché il dato inquietante è che questo episodio è avvenuto nella totale noncuranza della gente. Penso a come l’indifferenza per il destino degli altri stia diventando costume come testimoniano episodi più gravi di questo: è di circa un mese fa l’assassinio di un rom rumeno che camminava per strada con la sua donna e la sua fisarmonica, è di due settimane fa il pestaggio di una ragazza che, unica, ha cercato di difendere dei giovani gay dall’aggressione di naziskin. Sempre a Napoli ricordo Violetta e Cristina morte annegate. Sempre la gente intorno guarda e tace o se ne va facendo finta di niente. Non li riguarda. Ma ci sono due aspetti di questi episodi che ci riguardano eccome. Il calo di notizie e di clamore mediatico sui crimini di immigrati e rom e le nuove «emergenze» (veline, escort e le ossessioni del Papi... ) non dovrebbero distrarci da come la violenza razzista sia oramai pratica quotidiana e soprattutto da quello che a me sembra la cosa più preoccupante: l’indifferenza della gente. Quasi che ci sia in qualche modo l’accettazione della violenza se questa è praticata su uno straniero, su un rom, su un omosessuale. Ho visto e rivisto il video sulla morte del rumeno a Napoli, c’è chi dice che la fuga da un uomo morente e dalla sua compagna disperata che chiede aiuto era per paura, ma per paura non si fanno foto con il cellulare, non si insulta un uomo morente («zingaro, vai in Romania, ma che vuoi, tu mi rubi»). Se vince l’ignavia sulla naturale solidarietà verso il nostro prossimo quando questo è diverso da noi vuol dire che siamo tornati là dove credevamo non fosse più possibile tornare.
Ma nonostante tutto, sempre più spesso, per strada, nei mercati incontro persone addolorate per questa situazione, sempre più spesso fanno commenti, raccontano la propria indignazione. Ieri la custode del teatro dove lavoro dopo aver visto la prova di una scena nella quale si rappresenta l’indifferenza nei confronti delle sofferenze dei “diversi” è scoppiata in lacrime: «È vero! È proprio così! Dove va a finire questo nostro Paese?». Qual è l’Italia vera? C’è una speranza per tutte le persone non rumorose quanto le camicie verdi, che forse non si sentono neanche rappresentate politicamente, ma hanno raggiunto il limite di sopportazione? Spero che il loro risveglio dia un volto all’Italia vera.
dijana.pavlovic@fastwebnet.it

l’Unità 4.7.09
Il peccato della sodomia
di Moni Ovadia


Il gravissimo peccato della sodomia, contrariamente a quanto potenti e chierici sessuofobi e omofobi hanno voluto raccontare e far credere, non ha nulla a che fare con il sesso, né etero né omo, ma riguarda il comportamento nei confronti dello straniero e del debole. Ricordiamo per sommi capi l’episodio biblico: Lot, nipote di Abramo, risiede nella città di Sodoma e ospita tre stranieri, nella fattispecie i tre arcangeli sotto spoglie di viandanti che hanno annunciato ad Abramo la nascita utopica di suo figlio Isacco. I sodomiti si recano a casa di Lot e gli intimano di consegnar loro gli stranieri per violentarli. Non portano loro un invito per un orgia, ma vogliono usare contro di loro una delle più atroci e degradanti forme di violenza. Questa è la ragione per la quale i nostri maestri indicano la sodomia come il peccato irredimibile di violenza contro lo straniero e ciò vale a fortiori per il clandestino, perché essendo sprovvisto di tutele giuridiche è doppiamente straniero, in quanto straniero e debole. La città ostile allo straniero fu rasa al suolo perché non vi si trovarono dieci giusti che potessero intercedere per la sua salvezza. Fortunatamente nel nostro Paese molte sono le voci che si sono levate a denunciare con toni fermi questa legge vile e malvagia, a cominciare dalla Chiesa cattolica e numerose associazioni cristiane. Il ministro Maroni invece ha dato prova della sua caratura con la consueta protervia del vincitore. Quelli come lui definiscono tutti quelli che sanno indignarsi contro la vigliaccheria: buonisti. Noi non siamo buonisti siamo giusti.
È bene tuttavia avvertire coloro che per paura portano il loro acritico consenso alla Lega che l’odio verso lo straniero, l’indifferenza verso le sue sofferenze e la sua disperazione non portano sicurezza ma infamia.

Repubblica 4.7.09
D´Alema e la crisi in Europa "Segni simili al pre-nazismo"
Scintille col Pdl sul "declino non lineare" di Berlusconi
di Silvio Buzzanca


ROMA - Il nazismo è arrivato dopo la crisi del ‘29. Oggi l´economia sta vivendo qualcosa di simile. E come allora le risposte delle due sponde dell´Atlantico sono diverse, opposte. Negli Stati Uniti ieri il New Deal e oggi Barack Obama. In Europa allora il fascismo e il nazismo, oggi una ventata populistica e nazionalistica che spinge la nuova destra. Massimo D´Alema guarda al passato e lo confronta con il presente, rilegge la storia e l´attualità e alla fine arriva ad una conclusione preoccupata. «Non voglio dire che siamo alle porte del nazismo, ma molti ingredienti sono simili», dice il presidente di Italianieuropei.
Occasione della riflessione dalemiana il convegno "Dopo la Seconda Repubblica, per un´alternativa di sistema politico", organizzato dal Centro riforme per lo Stato. L´analisi dell´ex ministro degli Esteri parte dal fatto che «questo ciclo di liberismo antipolitico sta finendo, ma la fine dell´egemonia liberista non vuol dire la fine dell´antipolitica. La fine di questo ciclo sfocia a sinistra negli Usa, mentre in Europa sembra prevalere una nuova destra nazionalista e populista».
Una cosa già vista nella storia, sottolinea D´Alema. «Ci ricorda la grande crisi degli anni Trenta, quando c´era il New Deal dall´altra parte dell´oceano e in Europa cresceva l´antisemitismo, il nazionalismo», spiega l´ex ministro degli Esteri. In questo contesto, D´Alema legge anche l´appannamento di Silvio Berlusconi. E lo fa spiegando che oggi come oggi «il problema che abbiamo di fronte non è soltanto salvare il progetto del Pd: c´è qualcosa di più che non creare le condizioni dell´alternativa, ma costruire una coalizione democratica in grado di gestire questa fase che vede insieme l´apice del berlusconismo, con la massima espressione del suo potere personale, ma anche del suo declino che è difficile delineare come un cammino lineare». Ecco, continua D´Alema, questa difficoltà di intravedere un percorso logico della fine dal berlusconismo «mi ha fatto parlare di scosse: non era l´annuncio di eventi, ma una semplice analisi politica». Tuttavia, insiste l´ex premier, il centrodestra ha lanciato «una campagna di aggressione verso di me senza precedenti».
La "scossa" e il "declino non lineare" scatena subito la reazione del centrodestra. «Prevede i declini altrui e non si accorge che il suo è già cominciato da tempo, anche all´interno del suo partito» attacca il senatore Cosimo Izzo. «Il noto genio che il pianeta ci invidia e che ora, invece che dissertare con l´Ulivo mondiale, si deve battere per non essere pensionato da una Serracchiani qualunque», ironizza Maurizio Gasparri. Paolo Bonaiuti, portavoce di Berlusconi dice: «L´estate avanza e D´Alema purtroppo ha subito un secondo colpo di calore. Ormai vede scosse dappertutto. Noi registreremo fedelmente i suoi futuri abbagli, ma non potrebbero, i suoi collaboratori, mandarlo in montagna finché il caldo non diminuisce?».

l’Unità 4.7.09
Insuccessi elettorali
Il tradimento dei padri e la fondazione di un partito
Così i Verdi hanno fallito
di Vittorio Emiliani


Nel resto dell’Europa ottengono successi di massa, ma in Italia sono ridotti all’1 per cento
Un’analisi spietata della crisi dell’ambientalismo politico che chiama in causa la cultura
e i programmi delle forze del centrosinistra: dal Partito democratico all’Italia dei Valori

Tormentone tutto italiano: perché i Verdi in Paesi europei sviluppati spuntano consensi di massa e in Italia, Paese minacciato come pochi, stagnano all’1 %? Personalmente penso: a) i Verdi italiani sono nati lasciando da parte (con qualche iniziale eccezione, Fulco Pratesi) i loro «padri»: lo stesso Antonio Cederna non è stato mai eletto dai Verdi, altri sono stati lasciati a casa loro, Insolera, Amendola, Fazio, ecc. ; b) i Verdi sono stati via via egemonizzati da componenti extra-parlamentari di sinistra (Dp soprattutto) divenendo così un partitino militante nel quale, se si era ambientalisti, bisognava essere contro l’intervento nel Kosovo, anti-capitalisti, ecc., mai trasversali; c) la decisione di trasformare il movimento in partito (lo dissi subito all’amico Luigi Manconi) era sbagliata in radice, bisognava rimanere movimentisti, presenti in tutte le formazioni democratiche, decidendo volta a volta liste «verdi». Il partito - previsione scontata - l’avrebbe conquistato il primo che avesse fatto collezione di tessere. Incaglio che vedo riaffiorare in vista del congresso del Pd e chi mi ricorda i nefasti del Psi dove la sinistra di Lombardi-Giolitti prevaleva nel voto di opinione, ma veniva poi sotterrata dai voti clientelari ai congressi.
Il Belpaese ha enormi problemi sul piano della conservazione del patrimonio storico-artistico-paesaggistico, aggravati da un centrodestra che massacra il bilancio dei beni culturali, e quindi la tutela stessa, minaccia i parchi, non investe nel risanamento idrogeologico, nella prevenzione sismica, ecc... Ma, a fronte di una vera tragedia epocale, abbiamo associazioni indebolite (Carlo Ripa di Meana presidente romano di Italia Nostra ha elogiato il piano casa Berlusconi... ), Verdi ridotti ai minimi dal loro «suicidio» con Pecoraro Scanio, un ambientalismo vago o insufficiente nel centrosinistra.
Comincio dall’Italia dei Valori: non si è ancora data un vero programma generale e su questi temi dice poco o nulla (nonostante Pancho Pardi e altri). Antonio Di Pietro, del resto, ministro delle Infrastrutture tutt’altro che vicino all’ ambientalismo, ha tenuto in vita la Società per il Ponte sullo Stretto, prontamente rivitalizzata da Berlusconi. L’Ulivo prodiano si era dato, a fatica, un programma impegnativo. Fra gli ex Ds tuttavia c’erano stagionate insensibilità. Del resto - l’ha fatto notare Alberto Asor Rosa - il marxismo stesso è stato sviluppista e industrialista, mentre i difensori della natura e del patrimonio storico (Zanotti Bianco, Bassani, Cederna, Detti, Rossi-Doria, Desideria Pasolini, ecc.) vengono dal pensiero liberale o liberalsocialista. Per molti anni, tuttavia, le elaborazioni della sinistra in materia di centri storici e di paesaggio (Cederna, Cervellati, Achilli, l’INU di Detti, Insolera, Gambi, ecc.) hanno positivamente influenzato le amministrazioni Pci-Psi e la sinistra dc. Ricorda Fulco Pratesi, fondatore del Wwf Italia: «Allora noi trovavamo quasi sempre una sponda nelle giunte di sinistra o di centrosinistra. Oggi spesso ce le troviamo contro». Dato di fatto incontestabile. Lo confermano casi clamorosi: a Monticchiello, a Casole d’Elsa o a Urbino oggi di nuovo minacciata da «grandi lavori». I tempi del primo PRG di De Carlo voluto da un sindaco pci, il falegname Egidio Mascioli, sembrano preistoria.
Nel Partito Democratico circola un «ambientalismo del fare» che poco affascina, poco incide e poco aggrega rispetto al «fare» berlusconiano. Sembra, a volte, che si «insegua» il modello della deregolazione, delle grandi opere cementizie, di passanti ferroviari sotterranei (vedi Firenze) quando ci sono già stazioni di superficie, di centri commerciali a tutto spiano (a Roma, in pochi anni, da 2 a 28, in contrasto stridente col «piano del ferro» Tocci-Rutelli). Non contrapponendo al modello berlusconiano, sfrenatamente consumistico (anche sul piano del consumo di paesaggio), un modello alternativo, perché mai consensi elettorali di massa dovrebbero piovere sul Pd? I voti di centro vanno alla Lega o all’Udc, quelli di sinistra si frantumano, o affogano nell’astensione. Adesso «va molto» l’«invidia della Lega» che «fa come il vecchio Pci, sta fra la gente, organizza le feste». D’accordo, fra la gente bisogna starci, ma con un proprio programma, non con quello di Bossi.
Nel Pd Giovanna Melandri, responsabile per la cultura, mi sembra avere incisivamente corretto la linea sbagliata della «produttività» dei beni culturali e ambientali, della loro «messa a frutto» abbracciata anni fa da Federculture, da Ermete Realacci e da non pochi ds. Cavalcata, ora, di gran carriera, da Berlusconi, dai fantasmatici Bondi e Prestigiacomo e dall’incombente Mario Resca superdirettore alla valorizzazione. La giusta correzione di Giovanna Melandri va tradotta in strategia per una cultura rigorosa, attiva, moderna della tutela (anche a fini turistici, o suicidi!).
In Maremma Nicola Caracciolo, pur presidente toscano di Italia Nostra, ha teorizzato che le aziende agricole si risanano dando loro modo di costruire. Un controsenso. Anche agricolo. Ma, guarda caso, nel Piano casa berlusconiano, era previsto un 10 per cento, comunque, di «premio» nelle zone agricole. La Toscana ha varato per prima la legge regionale di un Piano casa nazionale che ancora non c’è. Non è confusione delle lingue, questa?

Corriere della Sera 4.7.09
Boato e Bonelli contro la portavoce Francescato
Tra i Verdi è bagarre sull’adesione a Sinistra e libertà


MILANO — Un «colpo di mano». Così Angelo Bonelli, ex capogruppo dei Verdi alla Camera, e Marco Boato, ex deputato del partito del sole che ride, hanno definito il sì dato dalla portavoce dei Verdi Grazia Francescato «alla formazione del partito di Sinistra e Libertà previsto per il 12 settembre, al tesseramento e all’apertura dei circoli». «Lo apprendiamo oggi, in assenza di qualsiasi dibattito e luogo di confronto democratico interno al partito», hanno attaccato Bonelli e Boato: e «in assenza di confronto, le posizioni assunte oggi non hanno nessun valore per i Verdi». Non solo: nel partito è mancato anche qualunque dibattito dopo l’ultima sconfitta elettorale. Dura la replica da parte del Coordinamento nazionale dei Verdi: «Boato e Bonelli non hanno ascoltato quanto detto dalla Francescato, che ha ribadito che ogni decisione sarà presa in piena democrazia al congresso di ottobre. Non c’è stato nessun colpo di mano».

l’Unità 4.7.09
Daniel Cohn Bendit
Il generale Giap ora combatte per la natura


La coscienza ecologica, talpa relativamente giovane, scava in terreni impensati. In Francia Daniel Cohn Bendit rivive fasti sessantotteschi sotto la bandiera verde. In Vietnam un eroe nazionale sposa le ragioni dell’ambiente. E invita il governo comunista a non fare scempio degli altopiani centrali del paese. Von Guyen Giap, il generale che nel 1954 sconfisse i francesi a Dien Bien Phu, e poi gli americani nel 1975, mito del ’68 (col suo nome scandito assieme a quello di Ho Chi Min), riassapora a novantasette anni il gusto della battaglia. Per salvare un ecosistema ancora quasi incontaminato. Minacciato, però, da un accordo. Con il gigante cinese dell’alluminio Chinalco, chiamato ad affiancare l’azienda statale Vinacomin per estrarre dalle miniere della zona bauxite, indispensabile per ottenere l’alluminio. Un investimento da 15 miliardi di dollari.
«Un intervento che provocherà conseguenze pesanti sull’ambiente, la società e la difesa nazionale», tuona Giap. Stratega eccellente, politico, intellettuale, personalità carismatica, il generale è alla testa di un combattivo battaglione di scienziati, accademici, studenti, veterani di guerra, ambientalisti, spalleggiati da una attiva rete di blog. Giap, classe 1911, ha già ottenuto una nuova vittoria. Di fronte a tanto nome, il premier Nguyen Van Dung non ha potuto fare orecchie da mercante. Ha dovuto dire qualcosa. Ne è seguita una vaga promessa di riconsiderare l’impatto ambientale del progetto e di rallentarne l’esecuzione.
Ma Hanoi guarda allo sviluppo economico della Cina, industrializzazione selvaggia senza scrupoli ambientali, come un faro su cui orientare la rotta. E che aria tiri lo fanno capire le parole di Doan Van Kien, presidente della Vinacomin. «Dobbiamo rispettare Giap. Però ricordiamoci che è vicino ai cento anni». Come dire: tanto di cappello all’eroe, ma poi si fa come diciamo noi.

Repubblica 4.7.09
Il pensiero fortissimo di Slavoj Zizek
È considerato tra i pensatori più influenti in circolazione. Detesta i postmoderni e ama Marx, Freud e Lacan. Ora escono tre suoi libri
di Antonio Gnoli


Bisogna smetterla con la favola che non esistono più punti di vista, che la verità ci sfugge da ogni parte
Dio e la storia non erano morti, come in molti hanno proclamato. Si erano rifugiati nell´inconscio

Slavoj Zizek è un pensatore complesso e uno scrittore prolifico. Tre suoi libri sono apparsi in queste settimane: In difesa delle cause perse (Ponte alle Grazie, pagg. 521, euro 26). Lacrimae rerum (Scheiwiller, pagg.388, euro 18) e Leggere Lacan (Bollati Boringhieri, pagg. 136, euro 15). Questo sessantenne sloveno è un filosofo di successo. Qualche tempo fa il settimanale Time lo ha eletto tra i pensatori più influenti in circolazione. È un riconoscimento rivelatore dello stato d´animo di un certo pensiero americano che comincia a interrogarsi su questioni forti come la guerra, il terrorismo e la crisi economica. Non si può continuare a far finta di niente o affidarsi alla musa dell´ironia. Perciò basta con le pratiche decostruzioniste (alla Derrida), fuori le tematiche postmoderne (alla Lyotard). Via anche i neocon. Meglio bussare alla porta di Zizek. Le sue analisi del contemporaneo non rinunciano all´idea di soggetto (anche se scabroso), non temono il ricorso al passato e ai suoi autori. I preferiti sono Cartesio e Spinoza, Hegel e Marx. Sguazza a suo agio nella modernità. C´eravamo dentro nel Seicento, ci stiamo tuttora. Se vogliamo raccontarla smettiamola con la storia che non ci sono più punti di vista, che la verità ci scappa da tutte le parti, che siamo concettualmente deboli. Basta voltarsi per vedere che alle nostre spalle c´è gente che ha pensato in grande e che ci può ancora essere utile. Però è vero che le cose sono un po´ più ingarbugliate. Non puoi più prendere, mettiamo Hegel e Marx , trasportarli di peso ai nostri giorni e fargli raccontare la favoletta del proletariato o della dialettica conciliata. Li devi rileggere. Li devi adattare. E se non ce la fai a spiegarti con le loro parole, vai al cinema. Lì c´è un immenso repertorio di storie e di battute che ti chiariranno le idee. Perché il cinema, agli occhi di Zizek, è la tessitura del mondo. È la filologia con cui interpreti una pagina di Lacan o uno scampolo della tua vita.
Zizek è un pensatore anamorfico: muta l´immagine a seconda se lo guardi da vicino o da lontano. Non è distorto è sorprendente. Si prenda l´introduzione a Lacan. È un´operazione, passateci l´espressione, di denudamento della parola. La parola lacaniana spogliata della sua oscurità e immessa nel condotto della vita contemporanea sembra rinascere a una seconda esistenza. L´operazione è seducente e faziosa al tempo stesso. Da un lato il più oscuro tra i pensatori contemporanei, quello che ha trasformato l´inconscio freudiano da ricettacolo di impulsi selvatici in qualcosa che si struttura come linguaggio; dall´altro, il più versatile tra gli intellettuali dell´ultimo decennio, che tesse le lodi di Lenin, che flirta con il fantasma di Stalin e si prende sulle spalle padre Jacques e con grande senso di abnegazione lo porta in visita tra le macerie (o meglio tra le patologie) del presente. Dico "presente" consapevole che non è una categoria che Zizek apprezzi. Del resto non ama i postmoderni. Per costoro, l´era delle grandi narrazioni è finita, in politica non dobbiamo più aspirare a sistemi onnicomprensivi e a progetti di emancipazione globale. «Tutte stronzate», replica infastidito Zizek (sto citando da In difesa delle cause perse). Contro le quali bisogna opporre una linea di difesa tracciata da autori che hanno saputo pensare la società nella quale operavano e che in parte è ancora la nostra. Oltre a Marx, c´è Freud. Le loro teorie hanno creato legioni di seguaci. Ma nel momento in cui le si è volute mettere in pratica hanno prodotto innumerevoli guasti. Hanno fallito entrambe, anche se in modo diverso. Per caso, non risiede qui la loro grandezza? Ora che sono diventate "cause perse", non sarebbe giunta l´ora di riconsiderarle? Dal momento che la causa persa è indifendibile, come accoglierla? Ci vuole coraggio per sostenere che la politica di Heidegger, caso estremo di un filosofo sedotto dal nazismo, il terrore rivoluzionario da Robespierre a Mao, lo stalinismo, la dittatura del proletariato ecc. non siano macchie terribili che hanno sporcato la storia. A Zizek il coraggio non manca. Egli assume i fallimenti della storia (lui forse parlerebbe di perversioni) come un modo implicito – e fuori dai condizionamenti dell´etica – per leggere la nostra vicenda contemporanea: «Il vero obiettivo della cause perse non è difendere il terrore stalinista in quanto tale, ma rendere problematica la troppo facile alternativa democratica liberale». Per Zizek c´è qualcosa di equivoco nel nostro modo di accogliere o subire le retoriche della democrazia. Con la differenza che dove il totalitarismo ti dice cosa devi fare senza entrare minimamente nelle tue intenzioni, la liberal democrazia invece vuole convincerti che quello che devi fare è giusto che venga fatto così. Da un lato c´è l´imposizione, dall´altro l´autoconvincimento. Zizek riporta un dialoghetto tra Vince Vaughn e Jennifer Aniston, tratto dal film Break Up: «Volevi che io lavassi i piatti e laverò i piatti, qual è il problema?» Lei risponde: «Non voglio che tu lavi i piatti, quello che voglio è che tu voglia lavare i piatti!». Questa, commenta Zizek, è la riflessività del desiderio, la sua richiesta terroristica: io non voglio soltanto che tu faccia quello che voglio, ma anche che tu lo desideri. Si intravede l´ombra di Lacan. Perché il Maestro è presente in questa maniera ossessiva in tutti i suoi lavori? Zizek non dà una risposta diretta. Ma la si può ricavare da quest´altra affermazione: «Il Maestro è colui che riceve dei doni in modo tale che colui che dona percepisca l´accettazione del proprio dono come un premio». Il dono è un atto solo in apparenza gratuito. In realtà crea un vincolo feroce che Marcel Mauss ha illuminato. È come se Zizek ci dicesse: attenzione, non voglio dipendere da Lacan, voglio liberarmi di lui. E per farlo usa le stesse tecniche lacaniane. È come regalare il Cavallo di Troia al migliore amico. Non solo è un gesto astuto ma anche carico di illusorietà.
Mi ha sempre colpito l´accusa di illusionista della parola che è stata spesso rivolta a Lacan. È questo che seduce Zizek? Ciò che Lacan descrive non è la realtà, ma qualcosa che somiglia a un trucco che si forma dentro la sua lingua, dentro il suo codice. E che cosa ci dice quella lingua illusoria, oscura, paradossale? Ci dice dell´inconscio. E nel dirlo ci avverte che non è vero che la psicoanalisi, come pensava per lo più Freud, è una cura con cui l´individuo prova ad adattarsi alla realtà sociale; e ci dice anche che quando usiamo la parola reale occorre sapere che non è la stessa di quando sosteniamo "il tavolo è reale", o "Luigi è reale". La psicoanalisi per Lacan – afferma Zizek – svolge un compito ulteriore rispetto alla cura: tenta di spiegare il reale nelle sue strutture profonde e fantasmatiche. Diciamolo in un altro modo: Freud era molto interessato a curare le patologie, Lacan è molto interessato alle patologie in sé. Nevrosi, psicosi, perversioni hanno la stessa dignità del loro contrario. Ce l´hanno nell´esistenza umana, la quale può essere decifrata solo accedendo ai suoi tre livelli: Simbolico, Immaginario, Reale. Non è il caso di addentrarsi nella tripartizione. Basti qui dire che l´ordine simbolico governa le nostre azioni e la nostra parola. Ma chi è che determina quell´ordine che gestisce le nostre vite?
Noi pensiamo di esser una certa determinata cosa, di reagire in modo più o meno prevedibile a certi stimoli, come reagiremmo meccanicamente alla fame e alla sete. In realtà, senza esserne consapevoli, qualcosa o qualcuno guida le nostre scelte. Zizek usa l´espressione lacaniana grande Altro. È il grande Altro, è questo soggetto, così potente da essere invisibile al nostro sguardo e tuttavia presente nelle nostre azioni, a guidarci. Il pensiero corre a Dio e alla Storia. Non erano morti, come qualcuno ha creduto, si erano rifugiati nell´inconscio. Da lì il pensiero di Zizek è ripartito.

Corriere della Sera 4.7.09
Dibattiti. L’idea di progresso, il significato di libertà: Emanuele Severino rilegge il saggio del pensatore francese uscito postumo in Italia
Non basta la fede a salvarci dalla tecnica
«Ellul sbagliò a sottovalutare la forza della filosofia»
di Emanuele Severino
Emanuele Severino (1929) ha insegnato all’Università di Venezia.. È studioso del pensiero di Heidegger


Oggi si parla soprattutto di crisi del capitalismo. Ma, da tempo, anche di quella della religione e della po­litica. Capitalismo, religione, poli­tica non intendono certo farsi da parte. Nemmeno quando si propongono di rifor­marsi: tentano di eliminare i propri errori, ma tenendo ferma la propria struttura di fondo. Una parte rilevante della cultura at­tuale è invece convinta della loro irriforma­bilità — come irriformabile era stato il so­cialismo reale. Questa convinzione è espres­sa con grande acutezza negli scritti di Jac­ques Ellul (1912-1994) e in particolare nel suo saggio Il sistema tecnico (1977). «Ci sono pochi dubbi sul fatto che ci troviamo di fronte a uno dei massimi pensieri dei nostri tempi», si è detto di queste pagine (un giu­dizio da condividere in buona parte). Ne ap­pare ora la traduzione italiana, di cui ha scritto su queste pagine Armando Torno ( Il sistema tecnico. La gabbia delle società con­temporanee, Jaca Book, pp. 406, e 42, tradu­zione di Guendalina Carbonelli).
L’importanza di questo saggio sta nella descrizione: descrive con penetrazione illu­minante il prevalere, nel nostro tempo, del «sistema tecnico»: la situazione in cui la tec­nica sta vanificando il capitalismo, la religio­ne, la politica. Che dunque sono irriformabi­li. La debolezza del saggio sta invece nell’ap­parato teorico in base al quale viene condan­nata la tecnica: essa distrugge la «libertà» dell’uomo. Questo discorso (come del resto per lo più accade) dà per scontato che la li­bertà sia un valore indiscutibile, irrinuncia­bile. Il senso globale della prospettiva di El­lul è dunque: nessuna forza pratico-teorica (quali appunto il capitalismo, la religione, la politica, ma con l’eccezione implicita di cui dirò tra poco) si illuda di vincere e con­trollare il «sistema tecnico»; e tuttavia que­sto sistema è il pericolo estremo perché di­strugge la libertà dell’uomo — la sua libertà di «scegliere» veramente, e non apparente­mente come quando si sceglie tra «prodot­ti » forniti dal sistema tecnico.
Tuttavia, quanto più qualcosa — la libertà — sembra irrinunciabile, tanto più si deve evitare di presentarla come un dogma. E in­vece si può dire che l’apparato teorico espli­cito di Ellul si riduca all’affermazione che nelle scienze sociali la migliore teoria sia l’as­senza di teoria, cioè la descrizione accurata e capace di scorgere l’unità che conferisce la forma di «sistema» alle singole tecniche.
Ma condannare la tecnica perché distrug­ge la libertà non è più una semplice descri­zione. È un giudizio che presuppone una te­oria capace di mostrare il valore della liber­tà. E la teoria implicita di Ellul è la sua fede protestante — la religione storica essendo invece per lui ormai completamente «deter­minata » dall’«ambiente tecnico». La fede è l’eccezione: l’unica forza capace di smasche­rare la non verità della tecnica e di tener vi­va la speranza in un mondo diverso, in un «ambiente, umano e naturale, 'non pro­grammato', vario, attivo, un ambiente pie­no di difficoltà, di tentazioni, di scelte diffi­cili, di sfide, di sorprese, di ricompense inat­tese ». (p. 382) Nel 1975, al Convegno del Centro Inter­nazionale di Studi Umanistici di Roma, ri­volgendomi anche a Jacques Ellul, oltre che a Paul Ricoeur e ad altri partecipanti, dicevo invece che «il domi­nio scientifico-tecnologico dell’ente e la conseguente distruzione di ogni univer­so mitico e di ogni kéryg­ma non sono solo un fatto, ma sono il destino richie­sto dall’essenza del tem­po », ossia della dimensio­ne in cui si svolge l’intera storia dell’Occidente. Il tempo è inteso, dai suoi abitatori, come separazio­ne delle cose (uomini, piante, stelle, pen­sieri, affetti) dal loro essere, ed è soltanto sul fondamento di questa separazione che è possibile ogni volontà di assegnare e di togliere l’essere alle cose, e quindi anche quella forma radicale di volontà in cui la tecnica del nostro tempo consiste. Ero d’accordo con la tesi di Ellul della capacità della tecnica di imporsi sulle forze che in­tendono ridurla a semplice mezzo; ma non ero d’accordo su quel che più conta perché stabilisce il significato stesso di una tesi: il modo in cui egli giustificava la propria, riducendo a fede il fondamento della sua critica alla tecnica.
Ma Ellul diffida della filosofia. Tanto da scrivere che la scomparsa di ogni «punto di riferimento intellettuale, morale, spiritua­le » a partire dal quale l’uomo «possa giudi­care e criticare la tecnica» è attestata dalla «sociologia della morte delle ideologie» e dalla «teologia della morte di Dio» (pp. 387-88) — dimenticando ciò che sta sotto gli occhi, ossia che, della morte di Dio e del­le ideologie, sociologia e teologia hanno po­tuto parlare perché innanzitutto ne aveva parlato la filosofia per bocca di Nietzsche (e di Leopardi e Gentile). Inoltre, la sociologia può descrivere le morti, non indicare la loro necessità, e nemmeno può farlo la teologia, fondata com’è sulla fede. Nonostante l’intel­ligenza della sua analisi, Ellul ha della tecni­ca la stessa percezione ingenua che ne han­no i suoi attuali sostenitori (che egli dura­mente condanna): di essere un agire che crede di non aver nulla a che fare con la filo­sofia.
Disinteressandosi della filosofia, Ellul non ne può sfruttare le risorse. Scrive che «secondo la solita mania dei filosofi» si fa «un discor­so sulla Tecnica in sé, in qualsiasi epoca, qualsiasi ambiente, come se fosse possibile assimilare la tecni­ca occidentale precedente il XVIII secolo con la tecnica at­tuale » (p. 52). Ma da quella mania è necessario farsi prendere ancora di più e più radicalmente: scorgendo, come ho rilevato, che sin dal suo inizio l’Occidente separa l’uomo e le cose dal loro essere e che ogni tecnica del­l’Occidente si fonda su questa separazione. Ma in due modi profondamente diversi.
La tradizione filosofica ha inteso sviluppa­re una Teoria inconfutabile, in cui vengono stabiliti i Limiti che nessun agire umano e dunque nessuna tecnica possono superare. Sono costituiti dall’ordinamento divino del mondo.
Più o meno direttamente, le religioni e le altre forme culturali e istituzioni dell’Occi­dente si inscrivono in questa Teoria. Essa è quindi riuscita ad arginare a lungo la volon­tà di potenza della tecnica. Invece la filoso­fia degli ultimi due secoli ha mostrato l’im­possibilità di quella Teoria. Ha quindi indi­cato lo spazio libero dove la tecnica può ol­trepassare ogni Limite e dominare il mon­do.
Questo che sto richiamando non è dun­que un «discorso sulla Tecnica in sé», che vada incontro agli inconvenienti espressi da Jacques Ellul. Per un verso, esso consente di dare consistenza alle descrizioni. Ma spe­gne anche le speranze improprie. Perché si­no a che ci si limita a descrivere la situazio­ne in cui ogni aspetto della vita umana è «tecnicizzato» — e dunque in cui Dio è mor­to — non si può escludere che un Dio abbia a ritornare e che dall’«ambiente tecnico» si possa uscire.
Dimenticando la filosofia, Ellul può spera­re in questo ritorno. Ma poi bisogna fare i conti con la filosofia del nostro tempo — o meglio col suo sottosuolo che per lo più si fatica a raggiungere.
E allora ci si rende conto che il pessimi­smo di cui Jacques Ellul è stato accusato du­rante la sua vita è ancora una forma di otti­mismo improprio, giacché per oltrepassare la dominazione tecnica del mondo occorre ben altro che il richiamo ai valori del passa­to: occorre mettere in questione l’essenza stessa dell’Occidente: quella separazione dell’uomo e delle cose dal loro essere, che è la radice della volontà di modificarli, mano­metterli, produrli, distruggerli, reinventarli al di là di ogni limite.


il Riformista 4.7.09
Intervista con Ignazio Marino: Niente sofferenze inutili, impariamo dagli Stati Uniti
Una legge per le terapie del dolore


Ignazio Marino non è solo il potenziale terzo "incomodo" nella sfida a due per la segreteria nazionale del Partito democratico. Il senatore, chirurgo, specializzato nella terapia dei trapianti, conosce a fondo il sistema sanitario degli Stati Uniti, dove ha svolto per quasi diciotto anni la sua professione. Nel 1999 è tornato in Italia, per dedicarsi alla fondazione di un centro trapianti a Palermo. Nel 1992 era stato nominato Direttore associato del National Liver Transplant Center del Veterans Affairs Medical Center di Pittsburgh, l'unico dipartimento per trapianti d'organo appartenente all'Amministrazione statunitense. In questo Paese ha perso la vita il 25 giugno Michael Jackson: il cantante era solito combattere il dolore, sia fisico che psichico, con dosi massicce di farmaci.
Professor Marino che cos'è il dolore secondo lei che è medico?
Il dolore ha una componente fisica e una psicologica. Spesso, però, queste due componenti si mischiano tra loro e la componente psicologica influenza quella fisica. Me ne rendo conto essendo un medico specializzato in trapianti. Basta pensare a quello del fegato, che prevede una fase post operatoria molto travagliata, dove il dolore all'addome assume una parte centrale. Ci sono casi in cui il dolore è minimo. Altri in cui è esacerbante e spesso psicologico. È qui dovere del medico parlare con il paziente, spiegando i motivi di questo dolore.
Quali sono le differenze di trattamento del dolore tra l'Italia e gli Stati Uniti?
L'approccio è diametralmente opposto. Negli Stati Uniti la cura del dolore assume un aspetto fondamentale, quasi essenziale, nella cura del paziente, il quale si aspetta di non provare alcun dolore ed è impegno dei medici non fargliene percepire alcuno.

«Abbiamo una cultura totalmente diversa da quella degli Stati Uniti, lì il paziente si aspetta di non provare mai la sofferenza».
Perché secondo lei?
Io credo si tratti di una questione prettamente culturale. L'approccio negli Stati Uniti è di tipo calvinista, dove non si accetta che una persona debba soffrire. L'approccio cattolico invece lascia un margine di tollerabilità del dolore. Non sto facendo un ragionamento di tipo filosofico o religioso, credo sia una differenza intrinseca interna alle due culture.
In termini pratici come si sviluppa questa differenza?
In America, la prima cosa che un medico fa, accogliendo un paziente che soffre, è somministrargli spesso antidolorifici a base di oppioidi per sedare il dolore. In questo modo, può anche succedere di ritrovarci di fronte a casi di addiction: è un atteggiamento che ha il rischio di provocare dipendenza. Ho seguito personalmente il caso di una donna che dopo un trapianto di fegato, perfettamente guarita e madre di due bambini, girava per ospedali mostrando il taglio all'addome semplicemente per ricevere oppioidi. Il dolore non c'èra più, ma era diventata dipendente.
E in Italia?
Nel nostro Paese avviene esattamente l'opposto. Si fa meno uso di oppioidi e succede che ci siano centinaia di persone che non fanno uso di farmaci appropriati o che continuano a soffrire inutilmente. Tra poco entrerà in vigore la liberalizzazione delle prescrizioni di farmaci per il dolore, da assumere per via orale. Ho cercato di portare avanti questa legge nella precedente legislatura. Poi il governo Prodi è caduto, ma l'attuale ministro Fazio ha comunque deciso di approvarla, con mia grande soddisfazione.
Non c'è il rischio che con la liberalizzazione dei farmaci possano esserci pure in Italia casi di addiction?
Assolutamente no, deve essere chiaro. Siamo in un Paese completamente diverso dagli Stati Uniti. Siamo all'estremo opposto nel modo di usare gli antidolorifici a base di oppioidi.
In Italia i medici specializzati si lamentano di un fatto: a differenza di altri Paesi non c'è differenza tra dolore cronico e cure palliative?
Il motivo è sempre da ricercare nella nostra cultura. Capita ad esempio nel leggere il messaggio che arriva dall'uso della morfina. Nel nostro Paese c'è ancora la convinzione che nel momento in cui si somministra morfina non ci siano più speranze di vita. In realtà, l'uso di questi farmaci può essere molto utile nella cura del dolore cronico.
C'è bisogno di una legge sulle cure palliative?
In Italia evidentemente la vita ha una qualità diversa che in altri Paesi. Una legge in merito è stata dichiarata inammissibile. È invece stata approvata una legge sul testamento biologico che non rispetta l'autodeterminazione del paziente. La politica non può scrivere delle leggi che hanno a che fare con la medicina, la scienza e con i diritti costituzionali delle persone senza tenere conto di che cosa pensano i medici, perché sono loro che con questi temi hanno a che fare ogni giorno, nell'esercizio di una professione difficile e delicatissima.
Come bisogna intervenire?
È necessario ampliare della rete degli hospice, ossia le strutture che forniscono con umanità e tecnologia le cure palliative ai malati terminali.
Ora invece la situazione qual è?
Dei 120 hospice presenti nel nostro paese, ben 103 si trovano al Nord. La metà della popolazione dunque non può usufruire di cure che riducono la sofferenza nelle fasi finali della vita. È in gioco la dignità dell'individuo e il diritto di ciascuno di noi ad affrontare nel modo più sereno possibile il momento più imperscrutabile: quello del passaggio dalla vita alla morte. E sono convinto che si tratti di un tema su cui laici e credenti non possano non trovarsi d'accordo.

il Riformista 4.7.09
Santarcangelo, il teatro in strada
di Laura Landolfi


Dalla sperimentazione anni 70 alla musica visionaria. Per intrecciare italianità e stranieri.

Da sempre votato al teatro contemporaneo, il Festival di Santarcangelo è un laboratorio di linguaggi artistici differenti. Un intero paese, questo dell'Emilia Romagna, che si trasforma tutte le estati un grande palcoscenico, luogo di incontro privilegiato dalle realtà teatrali internazionali. Quest'anno però il Festival recupera le proprie origini e ripropone una rivisitazione del teatro di strada, una formula legata alla sperimentazione degli anni 70 da cui la manifestazione trae le sue origini: con Santarcangelo 39, insomma, il teatro torna in piazza. Da ieri fino al 12 luglio un'unica drammaturgia attraversa il paese andando dalla scena americana alle molte sperimentazioni di casa nostra ma, se la programmazione ufficiale è frutto della direzione artistica di Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio, la scelta poi di istituire un bando per il teatro all'aperto in cui è, volutamente, mancata una selezione, ha permesso di creare un evento aperto a tutti nella miglior tradizione dei festival internazionali con le loro sezioni "off".
Il calendario parte con Richard Maxwell (tra gli autori statunitensi più interessanti degli ultimi anni), che con la sua compagnia The New York city players presenta due lavori in prima nazionale: Showcase e Ode the Man Who Kneels e prosegue con La stanza di M. di Muta Imago, A Bocca aperta di Kinkaleri, Achab e la Balena di Arnoldo Foà e tutta una serie di eventi: dai Radiodrammi alla Radio di piazza con Radio Gun Gun a cura di Altre Velocità, capita però anche di imbattersi per la strada nei Giganti della Montagna di Semi volanti o in Telemomò, la tv surreale di Andrea Cosentino.
Ma è la musica la vera protagonista di queste giornate teatrali, è il suono infatti a fare da trait d'union tra i singoli eventi. Non a caso a dirigere la rassegna è Chiara Guidi la cui ricerca da tempo si concentra sulla voce come elemento di comunicazione. La voce è infatti per quest'artista raffinata «fonte di visioni», il suono è visto come «macchina che esce dallo spirito», come sottolinea lei stessa: «Per alcuni di noi il suono può concepire e manifestare la forza di uno spazio, può renderlo possibile, visibile». E aggiunge: «Santarcangelo parte da qui, da questa concezione di teatro che la musica mette in campo».
La collaborazione con Massimo Simonini (direttore del festival musicale Angelica di Bologna) e di Silvia Bottiroli (del coordinamento critico-organizzativo di Santarcangelo 39) si svolgerà per tutto il triennio 2009-2011 mentre si avvicenderanno i direttori: dopo Guidi è la volta di Enrico Casagrande dei Motus e poi Ermanna Montanari del Teatro delle Albe. Il progetto - realizzato dall'Associazione Santarcangelo dei Teatri con il contributo del Mibac e sostenuto dalla Regione - è studiato per ospitare spettacoli site-specific, musiche e installazioni di artisti provenienti da diversi discipline e paesi, attivando residenze di pratica teatrale, in cui teatranti italiani e stranieri si confrontino partendo dalla pratica scenica. Lo scopo è anche quello di stabilire relazioni trasversali dialogando con operatori internazionali che hanno contribuito alla nascita di questa edizione, come Frye Leysen direttrice del tedesco Theater der Welt o Veronica Kaup-Hasler dell'austriaco Steirischer Herbst.
Per l'intera durata del Festival allestimenti, interventi e spettacoli mettono in relazione linguaggi differenti che si intersecano fra loro: dalle performance di Alvin Lucier alla conferenza di Heiner Goebbels su un concetto di "dramma" che investe la percezione, dalle luci architettoniche di Apparati Effimeri alle indagini all'origine del suono di Fanny e Alexander o la macchine sonore di Masque teatro. Si consuma così, lungo le vie, nelle piazze, sulle scalinate e all'interno delle antiche grotte tufacee di questo piccolo borgo tra visitatori e abitanti incuriositi, l'antico e sempre rinnovato rito del teatro.