mercoledì 8 luglio 2009

Repubblica 8.7.09
Il bene del Paese
di Ezio Mauro


I Grandi del mondo arrivano a Roma – mentre Hu Jintao deve ripartire per l´urgenza della crisi cinese – in uno scenario inedito: il chairman del G8 è impegnato in una sua battaglia personale contro i giornali, attaccati domenica con una nota ufficiale del governo per la loro "morbosità", e presi a male parole ieri nella conferenza stampa della vigilia, per aver osato criticare la regia italiana del vertice, accennando all´ipotesi che l´Italia possa essere esclusa in futuro dal G8.
Soffocato dagli scandali che ha costruito interamente con le sue mani, Silvio Berlusconi attribuisce ai giornali la causa dei suoi mali, l´"imbarazzo" e il "calo di reputazione" di cui parla il "Financial Times", gli avvertimenti alla Merkel raccolti dal "Wall Street Journal" sulle fotografie del summit con il premier italiano, che potrebbero metterla in difficoltà nelle prossime elezioni.
Ieri il ministro degli Esteri Frattini ha definito "una buffonata" le indiscrezioni del "Guardian" su una supplenza degli Stati Uniti all´Italia nel lavoro preparatorio degli sherpa e Berlusconi nel pomeriggio ha rincarato la dose: «Una grande cantonata di un piccolo giornale». Come sempre, non è mancato l´attacco diretto a "Repubblica": «Prima mi gettate addosso delle calunnie, poi ve la prendete con me perché queste calunnie fanno male all´Italia».
Il presidente del Consiglio ha perfettamente ragione su un punto: mentre si apre un summit, il cui successo è importante per il nostro Paese che lo ospita, c´è qualcosa in queste settimane che fa molto male all´Italia: è il suo comportamento privato unito alle menzogne pubbliche che cercano di giustificarlo. I giornali stranieri e "Repubblica", com´è regola nel mondo libero, non fanno altro che dar conto di questo ai cittadini-lettori. Tutto il resto – campagne, manovre, eversioni – non è nemmeno un giudizio politico: semplicemente, come ha detto ieri il direttore del "Sunday Times", è una "stupidaggine".

l’Unità 8.7.09
L’affondo del Guardian: «Caos G8, Italia fuori dal club»
di Umberto De Giovannangeli


Inadempiente. Imbarazzante. È l’Italia che apre oggi il G8 dell’Aquila. L’argomentato j’accuse del Guardian e del Financial Times. Il titolare della Farnesina reagisce sdegnato. Ma i problemi restano.

Fuori dal G8. Per l’improvvisazione nella preparazione del summit aquilano e, soprattutto, per gli impegni presi e non mantenuti. La Spagna si scalda. La stampa inglese torna all’attacco del Cavaliere. Espulsi dal G8. Per millantato credito e impegni inevasi. Fuori dalla squadra che conta. Sostituiti dalla Spagna. Non è più solo un boatos. I preparativi per il G8 dell’Aquila «sono stati talmente caotici che si è registrata una pressione crescente da parte di altri Stati membri affinché l’Italia venga espulsa dal Gruppo», scrive il quotidiano britannico The Guardian, citando fonti occidentali di alto rango. Fonti che avevano già anticipato a l’Unità il possibile «cambio di squadra». Nelle ultime settimane che hanno preceduto il vertice, l’assenza di qualsiasi sostanziale iniziativa nell'agenda ha indotto gli Stati Uniti a prendere il controllo della situazione. È stata Washington - scrive il Guardian - ad organizzare gli «sherpa calls», gli incontri fra esperti, un tentativo estremo di dare qualche finalità al G8.
SCONTRO FRONTALE
«Non ha precedenti il fatto che sia un Paese diverso da quello ospite ad organizzare gli sherpa calls, è una sorta di 'opzione nucleare», spiega un alto rappresentante di uno Stato membro del G8. «Gli italiani sono stati spaventosi. Non vi è stato alcun progresso, né pianificazione». L’insoddisfazione dietro le quinte è diventata talmente forte da spingere addirittura taluni Stati ad evocare l’ipotesi che l’Italia possa essere espulsa dal G8. Una delle alternative che aleggia fra le capitali europee è che la Spagna, con un pil procapite superiore a quello italiano e con una quota maggiore del pil destinata agli aiuti allo sviluppo, possa prendere il suo posto.
L’IRA DI FRATTINI
«Spero che esca il Guardian dai grandi giornali del mondo», è la stizzita risposta del titolare della Farnesina, Franco Frattini. «Confermiamo i contenuti dell'articolo del nostro corrispondente diplomatico Julian Borger e rigettiamo completamente ogni ipotesi che le notizie riportate nella storia siano prive di fondamento», è la secca replica del quotidiano britannico. Chissà se l’adirato ministro intenda espellere dai grandi giornali del mondo anche il Financial Times che in un articolo intitolato «Un vertice per Silvio», sostiene che per il premier il G8 sarà un’opportunità per riguadagnare una reputazione in ribasso negli ultimi tempi, «e non solo per i recenti scandali». Secondo il FT, Berlusconi, «che da tempo è una figura controversa», con l'arrivo di Obama e «le nuove politiche pro-Usa di Francia e Germania», ha perso «l'amicizia dell'amministrazione Bush». E - si legge nell'articolo - in vari temi il premier «irrita i suoi alleati: dallo scarso interesse per aiuti allo sviluppo e clima al presentarsi continuamente come un interlocutore tra Washington e Mosca». A protestare è anche il Sndmae, il sindacato cui aderiscono oltre i due terzi dei mille diplomatici italiani. La protesta è contro il piano di chiusure di ambasciate e consolati presentato recentemente dall’Amministrazione del MAE «In primo luogo - si legge in un comunicato - addirittura sconcerto desta la prospettata chiusura dell’Ambasciata a Lusaka, capitale dello Zambia. In un momento in cui la Farnesina, nell’anno della presidenza italiana del G8, afferma il proprio prioritario interesse per l’Africa - sottolinea il sindacato delle feluche - non si capisce davvero come si possa ipotizzare di chiudere un’altra Ambasciata (dopo quelle in Namibia e in Madagascar) nell’area sub-Sahariana: francamente incomprensibile, incoerente e politicamente dannoso».

Repubblica 8.7.09
"Circola l´idea di sostituire nel G8 l'Italia con la Spagna"
Il j'accuse del giornale inglese "Incapaci, rischiate l'espulsione"
di Enrico Franceschini


londra - «Confermiamo tutto», replica il Guardian. Parlare di una "campagna" dei giornali del gruppo Murdoch contro Silvio Berlusconi «è una stupidaggine», replica il Sunday Times. I due più importanti quotidiani politici britannici rispondono così alle accuse del primo ministro. Domenica era stato il Sunday Times a irritare Palazzo Chigi, riportando la notizia che «vari giornali europei» potrebbero pubblicare nuove foto «imbarazzanti» delle feste di Berlusconi. Ieri è stato il turno del Guardian. Il primo, un giornale conservatore di proprietà di Rupert Murdoch, il magnate dell´editoria mondiale; il secondo, storica testata della sinistra britannica.
«Crescono le pressioni all´interno del G8 per espellere l´Italia, mentre i preparativi per il summit scendono nel caos», titola il quotidiano filo-laburista. Nell´assenza di qualsiasi iniziativa sostanziale da parte italiana per organizzare l´agenda del vertice, scrive Julian Borger, corrispondente diplomatico, «gli Stati Uniti hanno assunto il controllo», con un giro di conferenze-telefoniche dei loro "sherpa" per «iniettare all´ultimo momento qualche significato» nell´incontro dell´Aquila. «Che sia un altro paese a organizzare le telefonate degli sherpa è senza precedenti», confida al giornale un alto esponente di un paese del G8, «gli italiani sono stati semplicemente terribili. Non c´è stata organizzazione nè pianificazione». Dice, sempre al Guardian, un diplomatico europeo coinvolto nei preparativi del vertice: «Il G8 è un club e per farne parte ci sono le quote d´iscrizione. L´Italia non ha pagato le proprie». Le proteste dietro le quinte del summit sono arrivate al punto, prosegue l´articolo, da far circolare proposte di espellere l´Italia dal G8. Una possibilità che circola nelle capitali europee, secondo il giornale, è che la Spagna, che ha un reddito pro capite più alto e versa in aiuti al Terzo Mondo una percentuale più alta del pil, «prenda il posto dell´Italia».
Dopo le accuse del ministro degli Esteri Frattini («Spero che esca il Guardian dai grandi giornali del mondo») e del presidente del Consiglio, la direzione del Guardian ha diramato la seguente dichiarazione: «Confermiamo quanto scritto dal nostro corrispondente diplomatico Julian Borger e respingiamo sentitamente qualsiasi affermazione che il suo articolo sia infondato». E alla richiesta di un parere sugli attacchi di Palazzo Chigi, che aveva definito l´articolo del Sunday Times parte di una «morbosa campagna» contro Berlusconi, il direttore del Sunday Times John Withrow ha commentato: «E´ stupido parlare di una campagna. Il Sunday Times ha dedicato un´ampia copertura alle storie su Berlusconi perché crediamo che siano interessanti. Il nostro corrispondente è stato a Bari, in Sardegna, a Roma, conducendo indagini per settimane. Ha citato di tanto in tanto giornali italiani ma ha sempre verificato con le proprie fonti».

Repubblica 8.7.09
La stampa estera: "Un esame per il Cavaliere"
Dal "Wall Street Journal" al "Mundo", dubbi sulla credibilità di Berlusconi
Dall´Inghilterra alla Spagna, dagli Usa al Giappone: decine di giornali lanciano dubbi sul vertice
di Enrico Franceschini


LONDRA - Non è solo il Guardian a dipingere un vertice nel "caos", un Berlusconi incapace di "visione" politica per l´agenda del summit e un´Italia che precipita nella valutazione delle potenze mondiali al punto da far circolare pressioni per "espellere" il nostro paese dal club più esclusivo del mondo, il G8, per rimpiazzarlo con la Spagna. Dalla Gran Bretagna agli Usa, dalla Francia al Giappone, gli organi di stampa più autorevoli, diplomatici di lungo corso come l´ex-segretario generale dell´Onu Kofi Annan ed esperti di affari internazionali descrivono il premier italiano in crescente difficoltà nella vita privata come in quella pubblica, suggerendo di avere, come scrive il Financial Times, "basse aspettative" sui risultati del vertice.
«Da settimane, le notizie sul 72enne leader italiano sono state un totale imbarazzo, ma la sua reputazione è calata per ragioni che vanno al di là dei recenti titoli di giornale» afferma il quotidiano della City, ricordando che Berlusconi è sempre stato giudicato all´estero come una figura controversa e imprevedibile. Ma mentre durante il suo precedente governo, 2001-06, Bush «aveva bisogno di corteggiarlo» perché Washington era in conflitto con Chirac e Schroeder, «oggi tutto è cambiato, Francia e Germania hanno leader fortemente pro-americani, sicchè Obama non ha bisogno di essere tollerante verso Berlusconi».
Sempre sul Financial Times, un secondo articolo, firmato da Quentin Peel, il columnist più autorevole di affari internazionali, rivela che l´ex-segretario generale dell´Onu Kofi Annan ha perso la pazienza e ha scritto «una dura lettera personale» a Berlusconi, rimproverandolo per non avere mantenuto gli impegni presi al precedente G8 sugli aiuti all´Africa. In proposito, un corsivo sull´inserto G2 del Guardian ribattezza il premier italiano «mister 3 per cento», come lo ha chiamato Bob Geldof, il cantante paladino degli aiuti ai paesi poveri: nel senso che Berlusconi «mantiene solo il 3 per cento delle promesse fatte». Un altro quotidiano londinese, il Daily Telegraph, mette in prima pagina la gigantografia di una giovane donna con maglia traforata sotto cui non indossa niente: «Quale leader europeo porta il suo ministro più pieno di glamour al G8?» è il titolo. La donna è Mara Carfagna, si legge a pagina 3: «La modella in topless diventata ministro riceve il compito di intrattenere le mogli al G8» al posto di Veronica Lario.
Il Wall Street Journal racconta che Ulrike Guerot, politologo dell´influente European Council on Foreign Relations di Berlino, ha ammonito Angela Merkel a stare attenta a come viene fotografata accanto a Berlusconi durante il summit: un´immagine ridicola o offensiva, le ha detto, potrebbe costarle la rielezione. Riassume l´Herald Tribune, edizione internazionale del New York Times: «Se il vertice sarà una commedia, una tragedia o una cosa seria, dipenderà dal padrone di casa, assediato dagli scandali e dalle scosse che continuano a far tremare» l´Aquila. Il settimanale francese Marianne titola "Scandali a ripetizione, Berlusconi mette la democrazia a nudo" e sostiene che «in piena crisi economica i politologi discutono sulle relazioni tra lo Stato e le prostitute».
Lo spagnolo El Pais riporta gli ultimi attacchi della Chiesa cattolica a un «libertinaggio irresponsabile», sostenendo che il summit si presenta «delicato» per Berlusconi e che il suo «unico alleato» è il presidente russo Medvedev. Ma anche un giornale russo, Vremia Novosti, riferisce della «immagine compromessa» del premier italiano per «gli scandali che riguardano la sua vita politica e privata»; e l´articolo del Guardian secondo cui è stata l´America più che l´Italia a preparare l´agenda del summit è rimbalzato perfino a un briefing del portavoce di Obama a Mosca.
La stampa giapponese, come lo Yomiuri e l´Ashai, mette l´accento sul fatto che i terremotati «vivono ancora nelle tende». Il tedesco Tagesspiel pubblica un´intervista ad Alexander Stille, docente di giornalismo alla Columbia University, secondo cui Berlusconi è «un megalomane che crede alle proprie bugie». Il Washington Post osserva che «l´interrogativo più grande è se il premier uscirà illeso da nuove gaffes e nuovi scandali». E il quotidiano spagnolo El Mundo elenca tutti i dubbi della vigilia: «I grandi del mondo emargineranno Berlusconi? Le first lady gliela daranno buca per protesta contro il suo atteggiamento verso le donne? Verrà accusato da nuove foto sulla sua vita privata? In definitiva, sopravviverà il Cavaliere al G8?»

Corriere della Sera 8.7.09
Berlusconi e il timore che il vertice diventi una vetrina scivolosa
di Massimo Franco


L’ idea di Silvio Berlusconi è che il G8 comin­ci sotto buoni auspici: nonostante tutto. In conferenza stampa, il premier anticipa perfino alcuni brani del messaggio inviato ai partecipanti da Benedetto XVI; e citando le parole di stima del Papa nei suoi confronti, sembra quasi volere bilanciare le critiche ar­rivate l’altro giorno dai vescovi sulla deriva etica dell’Italia. Scansa la tesi che il vertice in programma da oggi all’Aquila possa essere rovinato dagli attacchi della stampa estera. «Il presidente del Consiglio», si cita in terza persona, «ha la fiducia del 64,1 per cento degli italiani». Conclusione: «Un conto è la realtà, un altro le calunnie». Ma il suo messaggio di fiducia somiglia ad un testardo esorcismo su uno sfondo scettico, dominato dal timore oscuro di rivelazioni scandali­stiche e da voci velenose sul futuro internazionale dell’Ita­lia.
Esiste una zona grigia nella quale non solo il governo, ma i suoi alleati saranno costretti a muoversi nelle prossi­me ore. È il grigiore nebuloso di un’incertezza innegabile. Quella dell’Aquila si presenta come una vetrina impegnati­va ma anche scivolosa: soprattutto per il nostro Paese. Pa­lazzo Chigi ha compiuto uno sforzo enorme per ospitare i cosiddetti «Grandi» nelle zone devastate dal terremoto. Ri­schi sismici a parte, però, Berlusconi approda al vertice pro­vato dalle forche caudine delle sue vicende private; e, sep­pure in modo meno rumoroso e pubblicizzato, da un conte­sto internazionale nel quale spicca la sua amicizia con la Russia di Medvedev e Putin più ancora di quella con l’Am­ministrazione democratica di Barack Obama.
Il premier italiano tende a re­gistrare come un successo an­che suo il buon risultato dei colloqui moscoviti del presi­dente Usa. Eppure, la sua ambi­zione di ritagliarsi un ruolo di mediazione appare impossibi­le da realizzare. Non solo. L’ap­prodo ad un G8 presentato co­me fondamentale è un po’ smi­nuito dal modo in cui alcuni dei partecipanti, come il cancel­liere tedesco Angela Merkel, di­cono di preferire un G20 allar­gato a Cina e India. Per la veri­tà, lo stesso Berlusconi suggerisce un allargamento a quat­tordici nazioni, per adeguare la rappresentanza alla crescita di altre economie mondiali; senza tuttavia archiviare la for­mula attuale, precisa il premier.
Ma sono questioni che passano in secondo piano, di fronte alla sensazione di un’Italia berlusconiana che conti­nua ad essere sovraesposta e bersagliata in modo impieto­so a livello internazionale. E pensare che una volta tanto, almeno la tregua interna sembra reggere. L’appello rivolto ai partiti da Giorgio Napolitano nei giorni scorsi è riuscito a fare questo miracolo. Ma si aggirano molti fantasmi. C’è quello del 1994, quando durante un vertice mondiale a Na­poli l’allora premier si vide recapitare un avviso di garanzia dalla Procura di Milano. Ci sono i ricordi drammatici del G8 del 2001, con le strade di Genova ridotte a terreno di battaglia fra no-global e polizia. E nelle ultime ore, ai veleni sulle frequentazioni femminili del Cavaliere si sono aggiun­ti quelli geopolitici.
Il messaggio che arriva dalla stampa britannica parla di un ridimensionamento dell’Italia; addirittura, in prospetti­va, della sua esclusione dal G8 a favore della Spagna. L’ipo­tesi, avanzata dal Guardian, è stata definita da Berlusconi «la grande cantonata di un piccolo giornale». Ma, per quan­to animate da pregiudizi, alcune testate straniere mostrano di esagerare umori ed incognite che sono già una forma di delegittimazione. È probabile che all’estero si abbia e si tra­smetta un’immagine caricaturale dell’Italia; e che si diano per irreversibili rischi al contrario solo tendenziali. All’origi­ne rimangono l’incomprensione e l’ostilità nei confronti del fenomeno Berlusconi. Eppure, bisognerebbe chiedersi se sia stato fatto il possibile per non alimentare cliché dete­riori che alla fine rischiano di oscurare anche le scelte azzec­cate.

Repubblica 8.7.09
Per capire quelle feste ci vuole lo psicologo
risponde corrado Augias


Gentile Augias, mi tornano in mente le parole di Veronica Lario «Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. È stato tutto inutile.» Non mi interessa condannare Silvio Berlusconi per quello che come uomo fa, ha fatto, farà, ma mi preoccupa e mi fa molto male quello che lui fa, ha fatto e farà come Presidente del Consiglio. Lui dice «non cambio perché gli italiani mi vogliono così». E' vero, al suo elettorato piace così. Ma allora non si affanni a dire che non è quel 'giocherellone' che emerge dalle foto, e dai suoi silenzi.
Anna Maria Cori Roma
Gent. dott. Augias come tutti credo, ho seguito le vicende riguardanti il nostro premier ed il suo harem. Quello che mi ha colpito, è la descrizione dei numerosi, affollati incontri con ragazze giovanissime «costrette» a visionare filmati sui successi di papi, ascoltando la splendida «Meno male che Silvio c'è» sottolineandola con la «ola». Un uomo che manifesta un tale infantile bisogno di essere ammirato mi preoccupa come cittadina, più di tutto il resto. Veramente l'uomo non sta bene, come del resto ha già affermato chi sicuramente lo conosce meglio di ogni altro. Forse anche il nostro Paese non sta molto bene.
Anna Maria Batoli annabrt44@tiscali. it
Solo pochi quotidiani e in pratica nessun telegiornale (a tacere del resto) hanno raccontato che cosa è accaduto, le numerose menzogne via via improvvisate dal presidente del Consiglio che, ogni volta, ha smentito se stesso. Nel panorama complessivo delle feste svoltesi a Roma e in Sardegna, mi ha colpito un dettaglio all'apparenza secondario rivelato dalla signora D'Addario. Secondo la 'escort' il capo del Governo ha cominciato a carezzarla in presenza delle altre ragazze e "delle guardie del corpo". Il dettaglio è inquietante sotto due profili. Esibire lo slancio erotico di fronte a numerose altre persone è un sintomo non proprio normale soprattutto in una persona anziana alle prese con una professionista. Uno psicologo saprebbe sicuramente decifrarlo. Secondo: da questo dettaglio apprendiamo che anche all'interno della sua abitazione, il capo del Governo è sotto scorta. La barriera umana che, al pari di un qualunque tirannello, lo circonda in pubblico è dunque chiamata a proteggerlo non solo quando si mescola alla folla ma anche dentro casa, nel suo salotto, circondato dalle sue ragazze. Si riaffaccia, preoccupante, la famosa decima domanda che da due mesi questo giornale rivolge invano: quali sono le condizioni di salute di quest'uomo?

l’Unità 8.7.09
Nomadi schedati, no del Tar
Il Tribunale amministrativo del Lazio boccia il provvedimento a cui si era opposto il prefetto Mosca, poi rimosso dal governo
di Achille Serra


Non stupisce che la decisione del Tar di vietare le operazioni di censimento all’interno dei campi nomadi, resa nota il primo luglio, sia stata accolta da un silenzio quasi unanime. Il torpore che, da un anno a questa parte, avvolge il Paese e il suo sistema di informazione, infatti, si manifesta sempre attraverso i medesimi sintomi: disattenzione, indifferenza e progressivo, accorciamento della memoria collettiva.
Risale appena all’estate scorsa l’infervorato dibattito sull’intenzione del governo di procedere all’identificazione e alla schedatura di tutti abitanti dei campi nomadi, minori compresi, attraverso rilievi segnaletici. Prima, all’inizio del maggio 2008, Palazzo Chigi, dichiarò lo stato d’emergenza in relazione alla presenza di tali insediamenti in Campania, Lazio e Lombardia. Poi, alla fine del mese, il presidente del Consiglio emanò l’ordinanza che delegava il prefetto di Roma a realizzare gli interventi necessari nel territorio di competenza. Applausi dalla maggioranza, Lega in primis, allarme nell’opposizione e oltre.
A denunciare la connotazione razzista della norma un’ampia rosa di voci autorevoli: la Chiesa, l’associazionismo, il Parlamento europeo, il prefetto di Roma. Quest’ultimo, nella persona di Carlo Mosca, annunciò che non avrebbe messo in atto una legge anticostituzionale e lesiva dei diritti dell’uomo. Secondo copione, tuttavia, il Governo andò avanti e si impose con la forza dei numeri. A Carlo Mosca successe un altro prefetto e Roma, come Milano, dallo scorso febbraio ha il proprio regolamento «per la gestione dei villaggi attrezzati per le comunità nomadi».
L’«emergenza zingari» sembrava così avviata a una felice conclusione, quando Davide lanciò la propria sfida a Golia. E, almeno in parte, vinse. La settimana scorsa il Tar del Lazio, infatti, ha accolto alcuni punti del ricorso contro l’«ordinanza del censimento» presentato dall’associazione European Roma Rights Centre Foundation, insieme a due abitanti di un campo alle porte della capitale, Herkules Sulejmanovic e Azra Ramovic, genitori di tredici figli. La sentenza, nelle parti di accoglimento del ricorso, rappresenta una profonda lezione di civiltà e di buonsenso, oltre a dare finalmente ragione a quanti da mesi denunciano l’immoralità di certi provvedimenti e la loro inconciliabilità con le direttive europee e internazionali. Il Tribunale amministrativo del Lazio ricorda anzitutto che nel nostro ordinamento, i rilievi segnaletici sono riservati a «persone pericolose o sospette» o a quanti «non sono in grado o si rifiutano di provare la loro identità» e costituiscono strumenti «invasivi della libertà personale» cui non si può ricorrere «nei confronti dei minori di età ed in assenza di una norma di legge che autorizzi il trattamento dei dati sensibili da parte di soggetti pubblici». Ossia, quanto per settimane ha ripetuto l’allora prefetto Carlo Mosca.
La sentenza poi interviene sulle disposizioni che disciplinano «il controllo degli accessi» ai campi da parte di un presidio di vigilanza. Sia il regolamento di Roma che quello di Milano prevedono, infatti, che le forze dell’ordine controllino tutti gli ingressi nei villaggi, sia degli abitanti che devono essere muniti di tesserino di riconoscimento, sia dei loro ospiti, da registrare in appositi registri. Norme che avrebbero trasformato i campi in una sorta di prigioni a cielo aperto. Negli anni passati esponenti dell’attuale opposizione, a cominciare dal sottoscritto, avevano auspicato più controlli sui campi nomadi, controlli che dovevano iscriversi in un quadro di riforme tese ad agevolare l’integrazione di tali comunità nella nostra società. Le «dogane» che la maggioranza tenta oggi di istituire si spingono ben oltre. Sottoporre i nomadi a un regime di ispezione continua e indiscriminata, infatti, è cosa ben diversa dal combattere la criminalità, che indubbiamente si annida in alcuni dei loro campi, con strategie lecite e democratiche. E il Tar non ha potuto ignorare questa differenza, la stessa che corre tra una politica seria sulla sicurezza e la campagna di paura e allarmismo alimentata ad arte dall’attuale governo. Le disposizioni sui campi nomadi, come la legge sulla sicurezza appena varata, rispondono perfettamente al diktat della tolleranza zero: annunci altisonanti senza alcun effetto concreto sui problemi del Paese. Dopo tanto chiasso, siamo al punto di partenza: la vita dentro i campi nomadi continuerà come prima e lo stato d’emergenza decretato dal Consiglio dei ministri un anno fa diventerà cronico. Una verità mascherata dal torpore che ci avvolge.

l’Unità 8.7.09
Laicità /1
La «mozione» Franceschini
«Il partito ha imparato a far sintesi anche su questo»
Intervista a Giorgio Tonini di Andrea Carugati


La laicità è un patrimonio di tutto il Pd, uno dei punti chiave del nostro manifesto dei valori, sarebbe sbagliato farne una bandiera di una parte», spiega Giorgio Tonini, senatore, tra i principali consiglieri di Veltroni e ora con Franceschini.
La vostra mozione come si connoterà su questo tema?
«L’idea di una distinzione chiara e netta tra ciò che è della politica e ciò che è della religione».
Sempre più spesso però questa distinzione, in Italia, viene meno. Cosa deve fare il Pd?
«Essere un partito forte e plurale che può parlare con tutti, comprese le Chiese, e poi decidere in autonomia. L’idea stessa del Pd è un passo avanti: un partito che contiene posizioni diverse che si abituano a confrontarsi e a produrre sintesi impegnative per tutti. Un esempio: sulla fecondazione assistita Ds e Dl votarono divisi, sul testamento biologico il gruppo Pd in Senato è stato compatto, con solo 4 voti in dissenso».
Pensa che la vostra mozione appaia come quella meno laica?
«Se per laica si intende polemica verso il mondo cattolico allora è vero. Ma Franceschini ha avuto parole chiarissime sulla laicità, gli “esami” li ha già superati tutti con profitto».
Su coppie di fatto e matrimoni gay che proposte farete?
«La mia posizione è quella di Obama: il matrimonio come unione di due persone di sesso diverso è un valore fondante, ma vanno tutelate anche le convivenze, in particolare per quanto riguarda i diritti di assistenza in caso di malattia».
E i matrimoni gay?
«Neppure i Ds li hanno mai proposti, tantomeno le adozioni. Bisogna tornare all’impianto dei Dico».
Oltre non si può andare?
«Lo dice la Costituzione, non solo la Chiesa. Matrimonio e convivenza sono due cose diverse».
Il sostegno a Franceschini dei teodem vi farà perdere voti “laici”?
«Immagino un Pd con il gusto di incontrarsi tra persone diverse. I teodem sono una ricchezza, non mi piace quanto sento dire che bisogna mandare via qualcuno».
Come valuta Marino candidato?
«Lui ha un giudizio negativo della nostra battaglia sul testamento biologico in Senato...».
Teme che possa radicalizzare lo scontro?
«Non credo, lo stimo, è una persona che crede nel Pd e sa che costruendo tifoserie sui temi etici faremmo male al Pd senza trovare soluzioni all’altezza dei problemi».

l’Unità 8.7.09
Laicità /2
La «mozione» Bersani
«Per noi è valore fondante. Il congresso dica cose nette»
Intervista a Barbara Pollastrini di Laura Matteucci


È il principio che deve ispirare la cultura, le scelte, l’intera visione politica di un partito che si chiama democratico. Democrazia e laicità non possono esistere l’una senza l’altra. E il congresso di ottobre è un’occasione straordinaria per riaffermarlo». Il valore della laicità, che ritiene «decisivo», ha ispirato tanta parte della pratica politica della deputata Pd Barbara Pollastrini. «Battaglie che sapevamo difficili», dice, «come quella sulla fecondazione assistita, o per i Dico, ma che volevamo fare: nessuna “ragion di stato” è sufficiente per venir meno».
Ritrova queste sue stesse convinzioni in Bersani?
«Nessuno ha l’esclusiva della laicità. Ma certo Bersani, nelle sue parole all’Ambra Jovinelli, l’ha collocata come una bussola per interpretare il mondo. Non è importante quante volte la nomini, è importante che la ritenga essenziale, declinata in tutti i temi della pratica politica».
Quali temi?
«Innanzitutto è il faro in un mondo attraversato dai fondamentalismi. Poi, attiene ai diritti e doveri delle persone. Una visione laica implica il riconoscimento delle persone nella loro libertà e responsabilità, ed è la leva di un nuovo civismo. È la base dell’idea di progresso da rendere maggioritario e popolare nel paese. Pensiamo ad un tema quale la migrazione: solo uno sguardo laico tiene insieme i due aspetti, solidaristico e legalitario, come ritengo indispensabile fare. Pensiamo al corpo delle donne: la stessa idea di rispetto nasce da una visione laica, tanto più negli scontri che attraversano il mondo. Obama, Lula, Zapatero, si ispirano alla laicità per praticare nuove teorie sociali di uguaglianza che da noi, invece, faticano a prendere terreno. C’è il tema dell’avanzare della scienza, importantissimo anch’esso. Ecco perchè con altri ho ridepositato la proposta di legge sul testamento biologico, simile a quella dei senatori Marino e Veronesi».
Per il Pd punto cruciale e assai sensibile: la richiesta è forte, l’offerta vacilla.
«Finora non ha avuto l’impatto che avrebbe dovuto avere. È mancata la consapevolezza delle sue attualità e modernità. Il congresso è l’occasione perchè si affermi come valore fondante, irrinunciabile per costruire un partito con lo sguardo al futuro».
La domanda di molti è: in un Pd laico, che ci fanno i teocon, Binetti in testa?
«Sta a lei rispondere, lo dico con rispetto. Io credo di essere dalla parte della maggioranza dei nostri sostenitori».

l’Unità 8.7.09
Laicità /3
La «mozione» Marino
«Finora è stata la battaglia solo di una minoranza»
Intervista a Stefano Rodotà di Mariagrazia Gerina


Il Pd sulla laicità deve chiarirsi le idee, fin qui è stata la battaglia di una minoranza, che Marino ha condotto anche quando è stato messo da parte dal suo stesso partito», spiega il costituzionalista Stefano Rodotà, convinto che la candidatura di Marino possa far bene: «È nuova in senso serio, viene da una esperienza politica importante, è tutta di contenuti e non di schieramento». La sua però è una «valutazione esterna», spiega: «Interverrò, seguirò, ma non prenderò la tessera del Pd».
Non la convince la posizione degli altri candidati sui temi della laicità?
«La critica che ho rivolto è molto netta: su queste cose su cui è necessaria chiarezza le persone che come Marino hanno preso posizione sono molto poche. Adesso vedo che c’è un ritorno del tema laicità. E penso che questa sia una cosa buona, ma è il risultato di una battaglia che è stata patrimonio di una minoranza nel Pd come nel paese. Se la laicità è entrata nell’agenda del Pd non è per i vecchi dirigenti che adesso ne prendono atto ma per i pochissimi che hanno portato avanti quelle istanze in parlamento. E Marino lo ha fatto anche quando è stato messo da parte dal suo stesso partito, che nel fuoco della battaglia lo ha sostituito in commissione».
Dorina Bianchi, che ha preso il suo posto, nega un problema laicità.
«Hanno paura anche delle parole. Ma in un sistema democratico ci sono valori non negoziabili che vanno difesi, come il diritto all’autodeterminazione della persona. E lasciamo perdere i giochi di parole. Anche la libertà di coscienza non è dei parlamentari ma dei cittadini. Un partito deve dire se queste sono materie che vanno affidate alla legge dello Stato o se la legge deve tutelare la libertà di scelta secondo coscienza delle persone, che deve essere aiutata. Questa è la prima decisione da prendere. Marino, per esempio aveva proposto investimenti sulle terapie del dolore e sugli hospice. Cose concrete che una consentono alle persone di decidere».
C’è chi dice che un candidato «monotematico» non è adatto a guidare un partito.
«Ma la laicità è un modo di leggere la Costituzione ed è una delle componenti della logica costituzionale. Significa: rispetto delle regole democratiche, dialogo, tolleranza nei confronti degli altri fuori da ogni fondamentalismo, rispetto dei diritti fondamentali che si tratti delle materie che riguardano la vita, la sicurezza, l’immigrazione».

Repubblica 8.7.09
Cina, infuria la rivolta degli uiguri il presidente Hu Jintao torna a Pechino
Disertato il G8. Si aggrava la crisi, nella notte via da Pisa
di Federico Rampini


A Urumqi decretato il coprifuoco dalle nove di sera alle otto del mattino
Nelle retate di massa del governo sarebbero scomparse più di 1.500 persone

La regione dello Xinjiang è in fiamme. E il presidente cinese Hu Jintao decide all´improvviso di tornare a Pechino, abbandonando i lavori del G8 proprio alla vigilia dell´apertura. Hu Jintao è decollato nella notte dall´aeroporto di Pisa lasciando in Italia solo una delegazione di diplomatici. «Gli affari interni e la situazione nello Xinjiang hanno fatto partire in anticipo il presidente» ha spiegato il primo consigliere politico dell´ambasciata cinese in Italia, Tang Heng.
Dopo la strage compiuta dalle forze dell´ordine, con i 156 morti di domenica, ieri nella provincia dello Xinjiang è scattata la "caccia al musulmano". Per vendicarsi contro gli attacchi degli uiguri - la popolazione locale di religione islamica - centinaia di cinesi etnici (gli han) sono scesi in piazza armati di bastoni e machete. A Urumqi, il "ghetto islamico" dove il ceppo originario della popolazione turcomanna ora in stato di assedio, i protagonisti della spedizione punitiva sono stati a stento trattenuti dalla polizia. La rabbiosa manifestazione ha dato un assaggio di quel che potrebbe accadere se lo Xinjiang si trasformasse in un campo di battaglia tra le due etnie. I cinesi marciavano cantando l´inno nazionale, un´esibizione di orgoglio raramente così visibile nelle provincie periferiche, dove la supremazia cinese è già ben rappresentata dall´autorità politica. Per riprendere il controllo di Urumqi il governo locale ha decretato il coprifuoco, ogni giorno dalle 9 di sera alle 8 del mattino. In precedenza duecento donne uigure erano scese in strada per chiedere notizie dei congiunti, arrestati dopo i moti di domenica. Nelle retate sarebbero scomparse più di 1.500 persone.
È un salto di pericolosità la manifestazione di ieri, quelle centinaia di cinesi decisi a farsi giustizia. Una mobilitazione che può degenerare in la guerra civile. A Urumqi i rapporti numerici sono già in favore degli han. Grazie alla massiccia immigrazione degli ultimi anni ormai l´etnìa turcomanna è solo il 30% nella capitale provinciale (2,5 milioni di abitanti). È proprio questa una causa dell´esasperazione degli uiguri. Attraverso l´immigrazione la Repubblica Popolare li diluisce fino a emarginarli. Una "provincia autonoma" che per Pechino ha valore strategico. Lo Xinjiang è grande 5 volte l´Italia. Nel sottosuolo è custodito un quarto del gas e petrolio cinese, il 40% di tutto il carbone.
Colpisce la differenza con quanto accaduto in Tibet nel marzo del 2008. Dopo quella rivolta anti-cinese gli han di Lhasa non scesero in piazza, a riprendere il controllo della città furono i corpi paramilitari. La reazione degli han a Urumqi ha diverse spiegazioni: il carattere ancorapiù radicale della contrapposizione con i musulmani, che non hanno un leader pacifista come il Dalai Lama; la superiorità numerica ancora più schiacciante degli han a Urumqi. Anche il governo di Pechino ha svolto un ruolo, conl´uso delle immagini della rivolta da parte dei mass media. L´anno scorso sui moti di Lhasa all´inizio ci fu imbarazzo, solo lentamente filtrarono notizie sulle morti di alcuni cinesi. A Urumqi invece la tv di Stato ha diffuso subito immagini terribili,di cinesi coperti di sangue, alimentando la sete di vendetta.
In tutto lo Xinjiang cinesi e musulmani vivono in mondi a tenuta stagna. L´apartheid è visibile nella geografia dei quartieri: i centri sono islamici, le periferie moderne sono cinesi. Le comunità convivono fra diffidenze reciproche, razzismi, diseguaglianze socio-economiche stridenti. Il governo di Pechino nega perfino che il separatismo abbia un fondamento storico. Secondo la storia raccontata dai cinesi, l´imperatore Wudi spinse il suo dominio sulla regione già nel secondo secolo prima di Cristo, per le spedizioni lungo la Via della Seta verso i regni di Samarcanda e Bucchara, l´India e la Persia. In realtà lo Xinjiang - che gli uiguri continuano a chiamare Turkestan orientale - ha alternato secoli di indipendenza sotto khanati buddisti o islamici, periodi di sottomissione ai mongoli o al Tibet, all´impero ottomano o alla Cina. L´ultima indipendenza, goduta a sprazzi negli anni Trenta e Quaranta, fu conquistata da un movimento pan-turco. Dopo l´annessione alla Cina le turbolenze sono state costanti. Nel 1986 lo Xinjiang fu il teatro della prima e unica protesta anti-nucleare della Cina, una manifestazione contro i test delle bombe atomiche nel deserto di Lop Nor. L´anno scorso diversi attentati sono avvenuti poco prima delle Olimpiadi. Rebiya Kadeer, nota imprenditrice locale, vive da esule politica negli Stati Uniti ed è la portavoce più celebre della causa degli uiguri. La metà dei detenuti nei campi di lavoro dello Xinjiang, denuncia la Kadeer, sono stati condannati per le loro pratiche religiose.
Il governo sperimenta da anni nello Xinjiang la stessa "cura" del Tibet: diluire l´identità locale portando modernizzazione, ricchezze e tecnologie. Lo sviluppo è ben visibile nella parte moderna di Urumqi, i suoi frutti però arrivano solo in parte ai musulmani. «Per gli uiguri mancano le abitazioni - dice la Kadeer - mentre continuano a entrare immigranti dal resto della Cina». I lavori più qualificati finiscono ai giovani tecnici affluiti dal resto della Cina. È stata costruita una nuova linea ferroviaria per favorire l´immigrazione. Per gli han che accettano di trasferirsi, la vasta regione semidesertica ai confini dell´Asia centrale fino a ieri è stata la Nuova Frontiera del boom.

Repubblica 8.7.09
"Il mercato da solo non basta giustizia sociale e lavoro per tutti"
L’enciclica di Benedetto XVI: l´economia ha bisogno di etica
di Orazio La Rocca


CITTÀ DEL VATICANO - «La crisi finanziaria obbliga a riprogettare il cammino sociale dell´uomo». «Cresce la ricchezza mondiale, ma aumentano le disparità sociali e nascono nuove povertà, nuove esclusioni, nuove ingiustizie, nuovi sfruttamenti, come dimostrano le migliaia di immigrati in fuga verso l´Occidente; da qui l´esigenza impellente di assicurare lavoro e benessere per tutti, specialmente per chi viene posto fuori dai sistemi produttivi». «Senza forme di solidarietà, il mercato non è utile all´uomo e rischia di diventare luogo di sopraffazione del più forte sul debole». Ma, soprattutto, «non si può affrontare la questione sociale senza riferirsi alla questione etica e morale».
Richiami, denunzie, sollecitazioni, speranze, moniti. Ecco il pensiero sociale di un papa teologo, Benedetto XVI, secondo la Caritas in veritate, l´attesa terza enciclica del suo pontificato, la prima sui problemi sociali e del lavoro, presentata ieri in Vaticano. Un testo colmo di preoccupazione per una crisi finanziaria mondiale che - avverte il Papa - sta mettendo a dura prova milioni di persone con «perdite di posti di lavoro, disoccupazione, precarietà». Una lettera che si rivolge a tutti, «istituzioni e gente comune, credenti e non credenti, uomini di buona volontà», ma - principalmente - ai cristiani chiamati in causa fin dall´incipit dell´Introduzione in cui Benedetto XVI ricorda che «la carità nella verità, di cui Gesù Cristo s´è fatto testimone... è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell´umanità intera».
La nuova enciclica di Ratzinger - che vede la luce dopo la Deus caritas est del 2005 e la Spe salvi 2007 - si rifà alle grandi encicliche sociali di altri Papi del secolo scorso, la Centesimus annus di Giovanni Paolo II, la Populorum progressio di Paolo VI, e la Rerum novarum di Leone XIII, la prima enciclica sociale della Chiesa cattolica. Il Papa - dopo un lungo e tormentato lavorìo di ricerca, di approfondimenti e di aggiustamenti alla luce delle difficoltà economiche internazionali degli ultimi tempi - «ha significativamente resa nota la sua nuova enciclica alla vigilia del G8, al quale Benedetto XVI ha già illustrato il contenuto dell´enciclica con la lettera inviata agli 8 "grandi" che si riuniranno da domani all´Aquila», spiega il cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio consiglio di Giustizia e pace, intervenuto alla conferenza stampa col cardinale Paul Josef Cordes, presidente di Cor Unum, il dicastero della carità del Papa, insieme al vescovo Gianpalo Crepaldi, segretario di Giustizia e Pace, e all´economista Stefano Zamagni.
La Caritas in veritate - porta la data del 29 giugno scorso, festività dei santi Pietro e Paolo - è un testo di 144 pagine suddivise in sei capitoli, ciascuno dei quali dedicato ad un tema specifico. Nel primo capitolo, Ratzinger illustra come «la sua nuova enciclica - spiega Martino - sia in continuità con la Populorum progressio pubblicata 40 anni fa da Paolo VI, che sollevò il problema dello sviluppo dei popoli, specialmente dei più poveri. Ratzinger allarga il concetto montiniano puntando allo sviluppo umano integrale della singola persona, parlandoci delle sue esigenze, denunciando gli attuali sistemi socio-produttivi e chiedendo nuovi modelli operativi, a partire da una ormai necessaria riforma dell´Onu».
Negli altri capitoli, si parla di «Sviluppo umano nel nostro tempo»; di «Fraternità, sviluppo economico e società civile»; di «Sviluppo dei popoli, diritti e doveri, ambiente»; di «Collaborazione della famiglia umana» e di «Sviluppo dei popoli e la tecnica». Tra le novità, monsignor Crepaldi nota «i diritti alla vita e alla libertà religiosa per la prima volta indicati in una enciclica sociale; come pure procreazione e sessualità, aborto ed eutanasia, manipolazioni genetiche e selezione eugenetica valutati come problemi sociali di primaria importanza. Ma anche l´ambiente che il Papa invita a liberare da alcune ipoteche ideologiche che considerano la natura solo materialisticamente prodotta dal caso o dalla necessità».
Tra i primi a commentare positivamente la nuova enciclica Guglielmo Epifani, segretario Cgil («Documento positivo che mette al centro il lavoro«) e Luigi Angeletti, leader Uil («E´ una sferzata per tutti che tra l´altro esorta a non abbassare il livello della tutela dei lavoratori»). Per Raffaele Bonanni, segretario Cisl, è «una enciclica punto di riferimento e di speranza per tutto il mondo del lavoro», in sintonia col ministro dell´Economia Giulio Tremonti («Un documento molto importante»), e col leader dell´Udc Pier Ferdinando Casini che «invita il Parlamento ad analizzare subito l´enciclica, un testo straordinario che va approfondito con serietà».

il Riformista 8.7.09
Caritas in veritate
Consiglio a sinistra, leggetevi il Papa
di Ritanna Armeni


Un consiglio a sinistra: leggere e sottolineare l'enciclica di Benedetto XVI "Caritas in veritate". Poi fermarsi a riflettere su se stessi, su quello che i partiti di sinistra, di centrosinistra, laici e cattolici hanno detto e fatto negli ultimi anni sul lavoro e sui lavoratori. E, quindi, trarne le conclusioni.
Io l'ho fatto. La conclusione che ne ho tratto è molto semplice.
Caritas in veritate contiene molte idee e valori storicamente definiti di sinistra. E sui quali la sinistra farebbe bene a tornare. E molte, molte idee che negli ultimi anni ha messo in soffitta, se non addirittura rinnegato.
Lo so bene. Le encicliche sociali sono sempre state attente ai mutamenti del mondo del lavoro e hanno espresso l'anima profondamente solidale di una istituzione antica e complessa come la Chiesa. Alla fine dell'800 ha fatto scandalo quella "Rerum novarum" che chiedeva un salario giusto che permettesse il sostentamento dignitoso del lavoratore e della sua famiglia. Già nella "Quadragesimo anno" di Pio XI si descriveva un'economia «orribilmente dura, inesorabile, crudele». E in "Mater et Magistra" Giovanni XXIII definisce senza mezzi termini «ingiusto» un sistema economico che comprometta o sia di impedimento alla dignità umana. Anche nel caso - aggiungeva - che «la ricchezza in esso prodotta attinga quote elevate e venga distribuita secondo criteri di giustizia e di equità».
Ma proprio qui è il punto. Ancora una volta la dottrina sociale della Chiesa attraverso Benedetto XVI sceglie la radicalità della sua verità e non si fa incantare dalle sirene del pensiero dominante. Dalle sirene della globalizzazione, in questo caso, che con i loro canti hanno affascinato e incantato anche la sinistra. Nessuna confusione offusca il messaggio sociale della Chiesa che rimane fermo "in veritate", vede la situazione per quello che è e chiede che in essa sia immessa, cresca e si sviluppi la caritas, cioè l'amore, la solidarietà, il rispetto per l'uomo e per la donna.
E allora è vero - è, appunto, in veritate - che nel mondo globalizzato «la mobilità lavorativa, associata a una deregolamentazione generalizzata, è stata un fenomeno importante, non privo di aspetti positivi» ma la caritas, cioè l'attenzione agli uomini e alle donne fa vedere quanto «l'incertezza circa la condizioni di lavoro, in conseguenza dei processi di mobilità e di deregolamentazione» abbia portato a «forme di instabilità psicologica, di difficoltà a costruire propri percorsi coerenti nell'esistenza, compreso quello verso il matrimonio. Conseguenza di ciò - dice l'enciclica - è il formarsi di situazioni di degrado umano, oltre che di spreco sociale».
Leggere, sottolineare e riflettere. Altro che precarietà buona e precarietà cattiva, altro che gli innumerevoli dibattiti sulla necessità che il mercato sia libero da lacci e laccioli e che i lavoratori rinuncino al mondo del lavoro fisso e siano felici nella nuove flessibilità . La caritas fa vedere il degrado, l'infelicità, lo spreco di energie, la mancanza di senso del lavoro nella globalizzazione. Sbaglio o a sinistra di questo si è parlato poco o niente? Sbaglio o ci si arresi alle regole del mercato ritenute inviolabili e necessarie anche quando toccavano pesantemente la vita delle persone? Sbaglio o ci si è limitati a proporre o a sostenere leggi che ordinavano l'esistente senza mai proporsi un cambiamento del degrado?
Per molti anni si è rinunciato alla caritas, non si è guardata alla verità con gli occhi dell'amore e della solidarietà. E questo ha impedito, ahimé, anche di guardare davvero la realtà. Quella dell'impresa, ad esempio, che oggi appare dominata «da una classe cosmopolita di manager che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi…». O al ruolo della Stato di cui «ragioni di saggezza e di prudenza - dice l'enciclica - suggeriscono di non proclamare troppo affrettatamente la fine» - anzi, si aggiunge - «in relazione alla soluzione della crisi attuale, il suo ruolo sembra destinato a crescere…».
Leggere e sottolineare. L'invito è anche per i sindacati. La luce della caritas, renderebbe chiaro che non minore, ma maggiore deve essere il ruolo delle organizzazioni sindacali che oggi appaiono chiuse nella difesa dei propri iscritti e invece dovrebbero volgere «lo sguardo anche verso i non iscritti, e, in particolare, verso i lavoratori dei Paesi in via di sviluppo, dove i diritti sociali vengono spesso violati».
E sottolineare anche la parte sull'immigrazione. Per chiedersi a sinistra quanto si sia effettivamente combattuta la battaglia perché gli immigrati «non siano considerati una merce o una mera forza lavoro» e «non siano trattati come qualsiasi altro fattore di produzione». Quando la battaglia contro il decreto sicurezza si fa, come ha fatto gran parte della sinistra, non in nome della solidarietà, dell'amore e dell'accoglienza, ma in nome dell'efficacia di norme sulla sicurezza proposte dal governo è inevitabile la rinuncia alla caritas.
E soprattutto a sinistra si rifletta su quella parte dell'enciclica che propone «l'esperienza stupefacente del dono» perché il dono è il superamento se non il contrario del merito, parola tanto incantatrice quanto illusoria che usata per giustificare l'assenza in tante sue proposte della caritas.
Il dono è l'eccedenza, il gratuito, il di più, quello che non è contemplato nelle regole del mercato, che supera anche la giustizia. Il dono non è uno smottamento sentimentale, ma una scelta razionale. Questo dice Benedetto XVI. E senza citarla rimanda alla bellissima parabola della vigna. Il padrone della vigna dà un denaro come pattuito a chi aveva lavorato tutta la giornata, ma anche a chi aveva lavorato solo poche ore. I primi - racconta Matteo - nel ritirarlo, mormoravano contro il padrone dicendo: questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi».
Ancora: leggere, sottolineare e riflettere.

Repubblica 8.7.09
Medicine per l’anima
Se le persone contano più dei farmaci
di Jean Starobinski


Ho visto quanto miglioravano le vite dei malati: perciò non ho mai capito l´antimedicina
Il concetto di "prossimo" e il rispetto per gli altri non sono prodotti della scienza
Lo scrittore svizzero racconta la sua esperienza di medico e di psichiatra. E come il "fattore umano" sia decisivo per alleviare le sofferenze

Il mio rapporto con la scienza è avvenuto in ambito medico, più specificatamente nell´ambito clinico. Ho fatto esperienza di pratica ospedaliera, ma non nei laboratori della ricerca di base dove le conoscenze biologiche si costruiscono con il supporto delle scienze cosiddette "esatte". Per cinque anni sono stato assistente in un reparto ospedaliero di medicina interna. Ho così avuto la possibilità di constatare, ancora alla fine degli anni Quaranta, come si morisse di poliomielite o di tubercolosi in un Paese benestante. Ho avuto la fortuna di poter somministrare i nuovi preparati che il progresso scientifico andava mettendo a nostra disposizione: antibiotici, corticosteroidi, antipertensivi, anticoagulanti, vaccini. Ho dunque toccato con mano come potessero cambiare i destini dei malati, come si arricchisse l´assortimento delle risorse terapeutiche disponibili, e come si allungasse l´aspettativa di vita. I cambiamenti ai quali ho potuto assistere nella mia vita mi hanno reso poco recettivo nei confronti delle svariate forme di contestazione nei confronti della scienza medica che si sono susseguite da allora.
Più avanti, nel 1957, quando sono entrato a far parte dello staff medico dell´Ospedale psichiatrico di Cery nei pressi di Losanna, ho assistito ad altri progressi ancora: la calma, nelle sale e nei corridoi, regnava da poco. Era tuttavia inquietante. La clorpromazina (disponibile nel preparato Largactil) si era rivelata un neurolettico efficace contro l´irrequietezza degli schizofrenici, solo che molti di questi malati, un po´ recalcitranti, cominciavano a evidenziare i sintomi di un Parkinson indotto dal farmaco, a riprova, impressionante, dell´importanza degli "effetti collaterali" in farmacologia!
In quegli stessi anni 1957-1958, raccolsi con i miei colleghi alcune osservazioni cliniche sulla recentissima terapia farmacologica della depressione: l´imipramina (Tofranil di Geigy) era appena stata immessa sul mercato e la sua efficacia era apprezzabile: i grandi depressi uscivano quasi miracolosamente dalla loro prostrazione. Tuttavia, questo farmaco ci obbligava a tenere rigorosamente sotto controllo i suoi effetti collaterali, perché con il ritorno della mobilità e dell´istinto a muoversi si assisteva a un risveglio degli impulsi suicidi. Insomma, per alleviare la sofferenza della depressione si sarebbero resi necessari ulteriori progressi.
Nel caso specifico io contribuii prendendo parte a uno studio storico: nel 1958 avevo già pubblicato diversi testi di critica letteraria, ma la prassi accademica mi imponeva di pubblicare ancora un´ultima ricerca per ottenere il titolo di dottore in medicina. Lo feci, a partire dalla mia recente esperienza in ambito medico e dalla mia prima formazione in lettere classiche, redigendo una Storia della terapia della depressione, che fu pubblicata, fuori commercio, nella serie degli Acta Psychosomatica dei laboratori Geigy. Il mio studio riporta il sottotitolo Dalle origini al 1900. La restrizione della finestra temporanea può apparire enigmatica: perché mai fermarsi infatti alla data arbitraria del 1900? Perché lo studio dedicato alla storia recente della terapia della depressione era toccato a Roland Khun, che era stato lo scopritore dell´efficacia antidepressiva dell´imipramina. Nelle sue vesti di responsabile medico dell´ospedale psichiatrico di Münsterlingen (nel cantone di Turgovia), egli aveva accettato di sperimentare questa nuova sostanza che il laboratorio di produzione sperava potesse rivelarsi efficace in un ambito completamente diverso da quello della psicosi depressiva. L´attenzione, il metodo, l´intuizione clinica di Roland Khun lo portarono a scoprire la proprietà basilare di quel farmaco, che l´avrebbe fatto diventare – al pari di preparati analoghi – indispensabile nella pratica psichiatrica.
Per diverse ragioni, però, Roland Khun dovette rinunciare a scrivere la monografia. Nel frattempo, avevamo iniziato a comunicare per corrispondenza, diventando interlocutori e infine amici a distanza. Ciò che ho maggiormente amato in lui – e che mi pareva avere somma importanza nella pratica psichiatrica – era il modo col quale sapeva mettere in atto un approccio medico e psicoterapeutico completo, che interessava due aspetti intellettuali di ordini diversi ma complementari: da una parte la spiegazione scientifica, dall´altra una simpatia illuminata, ovvero una comprensione partecipe e riconosciuta derivata dalla riflessione.
Ho l´impressione di essermi trovato, all´epoca, a un crocevia molto trafficato, in corrispondenza del quale confluivano e si intersecavano molti itinerari di ricerca del secolo scorso. Roland Khun aveva scritto un interessante studio sul test di Rorschach e la percezione delle maschere da parte di alcuni soggetti sottomessi a quel test. Scrissi un resoconto su quello studio per la rivista Critique, diretta da Georges Bataille, perché la questione della maschera mi aveva interessato sul piano dell´espressione letteraria. Nello specifico, la mia attenzione era attirata dalle opere letterarie il cui intento dichiarato o il cui tema era la denuncia della menzogna e dell´inautenticità. Il mio primo progetto di saggio letterario, presentato al mio maestro e amico Marcel Raymond, si intitolò I nemici della maschera. Avevo in mente di parlare, in uno stesso volume, di Montaigne, La Rochefoucauld, Rousseau, Stendhal, Kierkegaard, Valéry. Più avanti vi aggiunsi Freud, non tanto come"maître à penser", quanto come oggetto di studio. Nel caso di alcuni di loro, era doveroso ammettere che quegli amanti della verità non avevano esitato a ricorrere a pseudonimi, e che altri ancora si erano immedesimati in diversi personaggi della Storia o della finzione letteraria…Le mie opere si sono ampliate progressivamente e al contempo allontanate. Mio vivo desiderio era quello di analizzare, in modo quanto più aderente possibile al testo, il gesto dello "smascheramento", la sua messinscena, e soprattutto le illusioni che avevano potuto accompagnarlo. Caddi perfino in trappola, facendo di me stesso uno smascheratore di smascheratori. […]
La ricerca scientifica ha dotato gli uomini di poteri immensi, ma ciò di cui la scienza in ogni caso non ci avverte è che uso convenga fare di tale potere, o da quale uso astenersi. La scienza non è in grado di dirci le motivazioni e gli imperativi morali che dobbiamo rispettare sia nella fase di acquisizione sia in quella di applicazione del sapere scientifico. Forse un giorno ci sarà uno scienziato che sulla base delle sue sole convinzioni personali ce lo comunicherà, ma in tal caso non sarà il sapere scientifico in toto a mettercene al corrente. Il concetto di "prossimo", per esempio, e l´imperativo di rispetto del prossimo non sono un prodotto della scienza, in quanto essa ci riporta unicamente dati di fatto, quantificati e verificati. Di conseguenza, l´imperativo del rispetto del prossimo assume tanta più importanza in quanto non è garantito da alcuna prova "oggettiva". Per ciò che concerne l´acquisizione del sapere e la sua applicazione, non deve essere lecito dichiarare «Faciamus experimentum in anima vili» (Facciamo l´esperimento su un´anima – o un corpo – miserabile). Queste parole, presenti in un racconto del XVII secolo, sono proferite da un medico privo di scrupoli in un ospedale dove si curavano i poveri. L´umanista Muret, dopo averle ascoltate, esclamò: «Come se fosse stata miserabile l´anima per la quale Cristo non si è sdegnato di morire!». Queste parole non erano dettate dal sapere scientifico, perché la scienza stessa non ha argomenti per vietare l´abuso del suo potere. Conosco l´esclamazione di Muret perché Diderot, non credente, le cita a due riprese nei suoi scritti. Non resta che auspicare che siano quelle a costituire il punto di convergenza tra coloro che credono che Cristo è morto per tutti gli uomini e coloro che stimano che la Terra è in ogni caso il nostro solo e unico paradiso.
Traduzione di Anna Bissanti


Corriere della Sera 8.7.09
Nuove regole Da ieri le cellule sono disponibili per gli scienziati. La Chiesa: così si distruggono vite umane
Staminali embrionali, ricerca più facile negli Stati Uniti
di Alessandra Farkas


I fondi La Casa Bianca ha tolto i limiti del finanziamento pubblico e ha vietato la produzione di nuovi embrioni per gli studi 

NEW YORK — Barack Obama ha mantenuto la promessa. A par­tire da ieri sono entrate in vigore negli Stati Uniti le nuove regole sull’utilizzo delle cellule embrio­nali staminali, annunciate dal pre­sidente degli Stati Uniti in campa­gna elettorale.
Secondo gli esperti è l’inizio di una nuova era di speranza che un giorno potrà portare a una cura per malattie neurodegenerative quali l’Alzheimer e il morbo di Parkinson. E non solo.
Le nuove norme rimuovono i li­miti ai finanziamenti federali im­posti dal suo predecessore Geor­ge W. Bush il 9 agosto 2001 (e poi ribaditi il 20 giugno 2007) che hanno relegato la ricerca al solo settore privato. Provocando una vera e propria fuga di cervelli Usa verso paesi quali Gran Bretagna, Canada Corea del Sud ed Israele, dove la ricerca sulle staminali è da anni più avanti rispetto all' America.
Il provvedimento varato dal­l’Nih, l’istituto nazionale della Sa­lute, permette lo stanziamento di fondi pubblici per lo studio delle cellule staminali embrionali colle­zionate anche prima dell’entrata in vigore dei divieti bushiani.
Per colpa di tali divieti negli ul­timi otto anni la ricerca Usa si è fermata allo studio di appena 21 «linee» di staminali. Con le nuo­ve regole si potrà invece lavorare su centinaia di nuove «linee».
Ma la strada annunciata ieri dall’amministrazione Obama po­ne anche precisi e severi limiti di carattere etico.
L’Nhi sponsorizzerà soltanto la ricerca su cellule staminali prove­nienti da cliniche per la fertilità e quindi destinate ad essere distrut­te. L’utilizzo di fondi per studiare embrioni creati a soli fini di ricer­ca continuerà invece ad essere vietato. Non solo. Le nuove rego­le ribadiscono una netta contra­rietà anche a ogni programma che punti alla clonazione umana, definita più volte dallo stesso Obama «una pratica pericolosa e profondamente sbagliata». Per evitare abusi, lo stesso isti­tuto vaglierà in modo approfondi­to «caso per caso», al momento di concedere i fondi, se ogni sin­golo programma di ricerca osser­verà questi parametri.
E a garantire la trasparenza sa­rà un Registro federale istituito ad hoc per monitorare di conti­nuo ogni programma di ricerca approvato. Il registro elencherà in un sito web tutte le «vecchie linee» da oggi a disposizione, ma solo di quei ricercatori che riusci­ranno a dimostrare di essere in sintonia col nuovo codice etico imposto dall’Nhi.
«Faremo un’analisi molto at­tenta, vagliando caso per caso», assicura il direttore dell’Nih, Ray­nard Kington.
Grande soddisfazione da parte degli addetti ai lavori.
«L’Nih ha deciso di ascoltare la stragrande maggioranza della co­munità scientifica», afferma il Ge­orge Q. Daley, direttore del Pro­gramma per il trapianto di cellule staminali del Children’s Hospital di Boston, uno degli ospedali per bambini più noto del Paese.
Molto diversa la reazione della Chiesa cattolica e dei gruppi pro-life, contrari a ogni tipo di ri­cerca sugli embrioni.
«Le nuove norme sono immo­rali e antietiche e invece di curare uccidono», punta il dito Tony Pe­rkins del Family Research Coun­cil, un’organizzazione della de­stra cristiana ultraconservatrice, «esse obbligano il contribuente a pagare la distruzione di vite uma­ne al primo stadio della loro vi­ta ». 


Corriere della Sera 8.7.09
Dopo il restauro all’Opificio delle pietre dure, nuova attribuzione per l’opera custodita nella sacrestia della chiesa di Firenze
È di Giotto il crocifisso di Ognissanti
di Arturo Carlo Quintavalle


Su uno sfondo bizantino, il dolore umano di Cristo e una Madonna con le rughe

La gran parte degli studiosi la attribuiva a «Parente di Giotto», oppure semplice­mente a «Scuola», forse perché ricoperta da vernici mescolate alla polvere e ai fu­mi grassi delle candele. Ma adesso, a pulitura con­clusa, realizzata in modo esemplare dall’Opificio delle pietre dure sotto la guida di Marco Ciatti, la croce si rivela un capolavoro di Giotto che si può datare al secondo decennio del ’300. Deve avere contribuito all’emarginazione dell’opera la sua col­locazione nella sacrestia della chiesa di Ognissanti a Firenze, ma la sua sistemazione in origine era ben diversa. Lo provano le grandi dimensioni, 453 x 360 cm, alle quali si deve aggiungere circa un al­tro metro per la zona inferiore, ora perduta, che rappresentava probabilmente il monte Golgota col teschio di Adamo, come nella croce, di venti anni precedente, di Santa Maria Novella.
Dunque un dipinto imponente che era collocato in alto, al centro del tramezzo, al limite fra presbite­rio e navata, connesso a una trave dove, alla destra, stava la Maestà degli Uffizi, alla sinistra la Dormitio Virginis di Berlino. Questo dunque, appena recupe­rato, è un dipinto fondamentale per le ricerche su Giotto. Proviamo a considerare l’insieme della cro­ce dove, a tempera, su un tessuto di lino imbibito di gesso, Giotto stende le proprie figure, in alto l’Eterno, alla sinistra la Madonna, alla destra Gio­vanni, sotto, in origine, il Golgota. Diversamente da quella di Santa Maria Novella la croce ha una cornice scolpita e i terminali sono lobati, probabil­mente su richiesta della committenza, ma, nono­stante questo sapore arcaico, le novità sono molte. Se pensiamo alla circa contemporanea Crocifissio­ne affrescata nella Basilica Inferiore di Assisi vediamo che in quella il corpo di Cri­sto, concepito come una scultura, pende da una sot­tile croce in tutta la sua pla­stica evidenza; ma nella croce di Ognissanti non era possibile utilizzare quella soluzione, il corpo doveva essere dipinto en­tro un più vasto spazio.
La prima scelta di Giot­to è di proporre il contra­sto fra i colori delle figure alle estremità della croce e il corpo del Cristo. Vedia­molo da vicino, questo cor­po. Il ventre è prominente attorno all’ombelico, la scansione dei muscoli del torace è ben leggibile sotto la pelle sottile, segnata da pennellate finissime fra il giallo e il grigio che il restauro ha saputo perfettamente conservare. Que­sto è un corpo vero, che forza sulle braccia e pesa sul prisma azzurro che lo sorregge sotto; Giotto ha voluto modificare la posizione del capo del Cristo spostando in basso l’aureola a rilievo e quindi il ca­po che cala, dolcissimo, sulla sua spalla destra. Vor­rei porre l’accento su una immagine che restituisce il punto di vista originario di uno spettatore che stesse proprio al di sotto della croce: l’immagine è stata scattata dunque in asse scorciando gambe e corpo del Cristo, essa mostra la figura pallida, qua­si staccata dalla croce dipinta di blu di lapislazzulo. Corpo come una scultura, corpo vero pallido di morte.
Dunque Giotto dialoga ancora una volta con la scultura, quella di Giovanni piuttosto che di Nicola Pisano, ma soprattutto con quella gotica di Francia attorno al 1230, e propone la violenza di un racconto concepito come vera messa in scena teatrale. Così la Madonna non è più la figura giovanile e composta della croce di Santa Maria Novella, ma è una maschera drammatica, con le rughe che scavano la fronte e le guance, una figura che mostra gli anni e il dolore. Lo stesso si dica per il San Giovanni dal lato opposto con la bocca scavata dall’ombra. In alto invece l’Eterno ha la distaccata espressione delle figure dell’ultimo Giotto, ma la sua mano è costruita per suggerire l’articolazione densa dello spazio, come del resto quelle del Cristo.
Adesso, dalla riflettografia ai raggi infrarossi, ci si attende la scoperta del disegno sottostante di Giotto che, come in altri casi, varia da pennellate spesse, volumetriche, con forti ombre di grigio, a sottili segni lineari che indicano i rapporti fra figure e spazio attorno. Meraviglia di questa croce la scelta tonale, da confrontare con gli affreschi delle Cappelle Bardi e Peruzzi in Santa Croce e, quindi col Giotto più avanzato, più sensibile alla scansione morbida dei volumi.
Se si confronta la croce con gli altri dipinti in origine sul tramezzo, e prima di tutto con la Madonna di Ognissanti ora agli Uffizi, che si data però a circa dieci anni prima, vediamo la distanza delle soluzioni adottate dall’artista: dentro lo spazio dell’architettura gotica alla francese la Madonna è un volume assoluto, ancora una volta concepita come una scultura; nella croce, invece, Giotto usa come sfondo un tessuto di sapore bizantino contro il quale segna la croce azzurra, simbolo del divino, croce delle proporzioni di quella dell’affresco di Assisi. Giotto dunque impagina su questa croce un dramma, da un lato e dall’altro l’acme del dolore degli uma­ni, Maria e Giovanni, sull’asse centrale la salvezza espressa dall’Eterno mentre il corpo del Cristo, gri­gio e giallastro nel segno della morte, sanguinava in origine sul perduto teschio di Adamo celato nel­la roccia del Golgota, come ancora oggi si vede nel­la croce di Santa Maria Novella.


Corriere della Sera 8.7.09
E adesso cerchiamo il disegno preparatorio
di A. C. Q.


Abbiamo chiesto a Marco Ciatti, direttore sezione dipinti dell’Opificio delle pietre dure, informazioni sul restauro.
«Le prime analisi sono cominciate nel 1997 e il restauro, grazie al contributo di Arteria, nel 2005. Ora la pulitura è conclusa, il crocefisso sarà presentato a fine anno. Hanno restaurato l’opera Paola Bracco e Ottavio Ciappi, con Anna Marie Hilling».
Dove sarà collocata la croce?
«È un problema da affrontare e risolvere con la soprintendenza. Il Crocefisso si trovava nella sacrestia di Ognissanti, prima in controfacciata, ma in origine era stato collocato sul tramezzo da dove venne tolto dal Vasari che, attorno al 1564-66, rifece l’interno della chiesa».
Come è stato effettuato il restauro?
«Per rimuovere gli strati di nero, polveri e fumi grassi che rendevano illeggibile l’opera, abbiamo messo a punto solventi acquosi in grado di non intaccare la base pittorica a tempera. La pulitura è stata fatta al microscopio e ha rivelato una pittura in ottimo stato: Giotto qui cambia tecnica rispetto alla croce di Santa Maria Novella, dove aveva usato un fondo di terra verde sotto l’incarnato; qui usa un verde leggero e molte volte dipinge direttamente sul bianco del gesso steso sul lino incollato alla tavola».
Ci saranno altre scoperte?
«Quando faremo la riflettografia scopriremo il disegno preparatorio di Giotto che, come suggerisce Cennini, era fatto con due tipi di pennello, uno appuntito e uno mozzetto.
Possiamo dire che il restauro ci ha rivelato un’opera di altissima qualità, che ci porta a dover riaffrontare il problema del cosiddetto 'Parente di Giotto'».

Corriere della Sera 8.7.09
Margherita Hack
«L’astronomia ci racconta che siamo figli delle stelle»
di Giovanni Caprara


Alzando gli occhi al cielo è nata l’astronomia.

Una lunga storia. Ma che cosa ci ha insegnato, chiediamo a Margherita Hack?
«Prima di tutto che non siamo noi il centro dell’universo come si è pensato a lungo e come qualcuno continua a fare anche oggi. Siamo solo in un angolo dell’universo, su un minuscolo pianeta attorno a una stella molto comune. Secondo aspetto, che noi stessi, esseri intelligenti, siamo il risultato dell’evoluzione stellare, siamo fatti della stessa materia degli astri».
Sono passati quarant’anni dalla conquista della Luna. È stata utile?
«Soprattutto perché ha dimostrato che l’uomo può mettere piede su un altro corpo celeste, che ha le capacità per farlo aprendo fantastiche esplorazioni future. Ma le sonde robotizzate, mostrandoci i pianeti più lontani dove l’occhio dell’uomo non poteva arrivare, dimostrano che molto lavoro può essere compiuto dai robot anche senza bisogno dell’uomo».
E il futuro: che cosa ci potrà riservare la scienza del cielo?
«Grandi sorprese perché si stanno mettendo a punto eccezionali strumenti di osservazione come telescopi terrestri del diametro di 50 metri capaci di fotografare il volto di pianeti extrasolari. Ma, soprattutto, potremo indagare il cosmo attraverso neutrini e onde gravitazionali, due vie in grado di farci conoscere aspetti inimmaginabili e insospettabili della natura dell’universo».

il Riformista 8.7.09
Il carnevale delle ronde

Caro direttore, nel malaugurato caso che in un immediato futuro debba imbattermi nelle cosiddette ronde, per le strade della mia città, ecco quello che farò e che invito tutti a fare. Telefonerò subito a carabinieri o polizia e il tenore della mia chiamata sarà il seguente: «Ci sono due tizi con indosso la stessa divisa, non riconoscibile come appartenente alle nostre forze dell'ordine o ai corpi militari, che si aggirano con fare sospetto sotto casa mia da alcuni minuti. Non essendo periodo di carnevale, il loro travestimento è decisamente inquietante. Recano i simboli di brutte storie attorno alle braccia e sul petto. Temo che siano armati. E confabulano tra loro dello splendore dell'antica Roma, di legioni imperiali, di "quando c'era lui" e di sicurezza a suon di botte. Ah, agente, dice che dovrei chiamare il 118 per un ricovero immediato? Ma non potete venire lo stesso, almeno a identificarli? Se arrivate subito, li trovate in un bar: si sono fermati a chiedere fondi per il loro servizio di protezione. Non è una forma di racket, questa?».
Paolo Izzo

lunedì 6 luglio 2009

l’Unità 6.7.09
«Vuole i riflettori del mondo? I media liberi non fanno sconti»
«Qui in Italia il premier può dettare l’agenda politica e molte scelte editoriali. Ma
l’esposizione all’estero è devastante. Dal Guardian al Times è una pioggia di critiche»
Intervista a Tana de Zulueta di N.L.

Berlusconi ormai ha superato tutte le “zone rosse”, in Italia pensa di poter attutire il colpo, ma all’estero la sua partita è persa. Gli ambasciatori dei vari paesi mandano telegrammi allarmati: dalle scosse e dalle gaffe del premier italiano». Tana de Zulueta, ex parlamentare verde, giornalista ora collaboratrice de l’Observer, viene intervistata dai colleghi stranieri che le chiedono “com’è possibile che in Italia tutto sia tollerato?”. E lei ironizza gentile: «Gli italiani sono molto pazienti...».
Sulla stampa estera la cattiva reputazione di Berlusconi ha rovinato anche l’immagine dell’Italia?
«È tristissimo, ma prevedibile. Credo che ormai la vergogna si è consumata, e pensare di mettere un freno ai media o alla discussione politica è una pia illusione».
Si riferisce al monito di Napolitano?
«Il capo dello Stato ha cercato di salvaguardare la dignità nazionale. Ma la politica ha le sue regole e delle soglie precise. Berlusconi l’ha oltrepassata: anche se pensa di attutire la “botta” in Italia, o che con il G8 possa compensare gli scandali, all’estero la partita ormai è persa. Il G8 invece sarà deflagrante».
Perché? Per le foto annunciate dal Sunday Times?
«Perché se qui riesce a eludere le regole della politica, nel vertice a L’Aquila Berlusconi rischia di essere sottoposto a un’esposizione devastante. La pubblicazione delle foto potrebbe polverizzare la sua immagine (e anche la nostra) ma la sua figura è già screditata. Il Financial Times, il Guardian, le Monde, El Pais, criticano anche l’organizzazione del G8 a l’Aquila».
Il premier sospetta una vendetta di Murdoch. Pensa sia vero?
«Certo ha fatto male a litigare con Murdoch, che può essere un nemico temibile, ma non sono solo i giornali del suo gruppo ad essere critici. Le foto sono quello che sono, e sono in mano di altri. Quindi Berlusconi rischia di perdere tutte le scommesse, anche la sfida del G8 a L’Aquila».
Come giudica questa scelta?
«Sono stata molto critica da subito. Perché spendere tanti soldi quando la gente, nelle tende, si aspetta cose per sé? Cosa ci fanno con la strada per l’aeroporto o una caserma quando gli anziani non hanno un bagno o una cucina per loro e sono sottoposti a regole semi militari? Fare una parata in pompa magna monopolizzando le risorse per un evento, può essere controproducente per l’opinione pubblica aquilana e italiana. E questo nonostante i media più che accondiscendenti, come il Tg1».
Palazzo Chigi accusa la stampa estera di una «campagna morbosa e concertata». Che ne pensa?
«Mi sembra una risposta disperata. E vorrei vedere i 3500 giornalisti accreditati a L’Aquila sentirsi definire «concertati». Le leggi della politica sono ineluttabili, come la forza di gravità. E Berlusconi è minato, all’estero è percepito come un’anatra zoppa».
In Italia no. Ha capito perché?
«Non lo ancora, Di fronte allo scandalo e alle pressioni internazionali dovrebbe fare due cose: dare aiuti al Terzo Mondo, perché i fondi per la cooperazione sono stati cancellati; e l’Italia dovrebbe essere costretta a fare passi avanti per ridurre le emissioni di Co2, che a Bruxelles ha ostacolato»..
Sembra che Carla Sarkozy non venga. Sarebbe un segnale?
«Spero anch’io nella simbologia dei gesti. Che un segnale di disapprovazione venga fuori dai Grandi, per dire al “nostro” che ha oltrepassato troppe zone rosse. Tutte le delegazioni sono preoccupate...».
Da cosa?
«Ci sono telegrammi degli ambasciatori allarmati. E negli staff dei Grandi ci sono due piani di emergenza: uno per le scosse di terremoto, l’altro su come affrontare le bizzarrie nel comportamento di Berlusconi. Cosa facciamo se...? Ha fatto una gaffe con ogni capo di Stato, forse solo l’India si è salvata... “Come sopravvivere al G8 a L’Aquila? è la domanda generale».
Come vede la nostra opposizione?
«È stranamente silenziosa e cauta, quando in un altro paese sarebbe in prima fila. I giudizi più severi vengono dai giornali stranieri anziché dal Parlamento».

domenica 5 luglio 2009

l’Unità 5.7.09
il Colle e il Ddl
La destra eviti lo strappo
di Marcella Ciarnelli


Dare ascolto al Capo dello Stato che non da ora invita al dialogo e al confronto. Ed evitare, così, uno strappo dalle conseguenze che possono andare ben oltre quelle del disegno di legge sulle intercettazioni. Oppure scegliere la via dello scontro ignorando le parole che in più occasioni il presidente ha ripetuto in difesa di un principio fondamentale della Costituzione qual è la libertà di informare senza dimenticare il diritto alla privacy. Un anticipo di quel braccio di ferro che potrebbe esserci poi su altre questioni, riforma della giustizia in testa. È questa la scelta che la maggioranza deve compiere prima dell’arrivo in Senato, il 14 luglio, della legge appena approvata alla Camera. Il bicameralismo perfetto che, fino a prova contraria, vige ancora nel nostro Paese consente che si riparta da zero. Tenendo in maggior conto i suggerimenti dell’opposizione, di magistrati impegnati, dello stesso Garante, dei giornalisti. Ed anche di quelle finora inascoltate "colombe" del centrodestra. Ma innanzitutto del Capo dello Stato che il suo primo intervento in materia lo fece bloccando il decreto che in quattro e quattr’otto si voleva licenziare, derubricato subito a «refuso» proprio per l’altolà del Colle. E che poi ha sempre speso parole pubbliche e moral suasion nelle sedi opportune per cercare di scongiurare l’approvazione. Che ha chiesto un dibattito non strozzato dagli interessi di parte ma rispettoso della dialettica parlamentare. Che con chiarezza ha fatto intendere che su materie come queste non si può procedere con il voto di fiducia. Napolitano lo ha ripetuto più volte a Berlusconi, ai presidenti di Senato e Camera, al ministro Alfano che ieri ha confermato la disponibilità della maggioranza al dialogo. La verifica potrà essere fatta rapidamente. Altrimenti il Capo dello Stato potrà fare ricorso alle sue prerogative. Il rinvio alle Camere è una iniziativa di merito che va ben oltre la mera questione della firma. Si può fare. La legge sulle intercettazioni può essere modificata.

l’Unità 5.7.09
A pranzo coi giudici: oltraggio alla Corte
Il giudice nel dire «io pranzo con chi voglio» ci comunica che fa parte della sua storia frequentare il premier quando vuole
di Furio Colombo


Hanno avuto ragione i Radicali, che da anni denunciano un Paese fuori dalla legalità, hanno dimostrato incroci e rapporti contro natura (la natura costituzionale) tra istituzioni dello Stato e hanno chiesto al Paese una rivoluzione, ovvero una stagione straordinaria di impegno politico, non per cambiare il mondo ma per tornare alla normalità legale, morale e politica. Per esempio la Corte Costituzionale. Due giudici della suprema Corte vanno a pranzo con gli “imputati”, ovvero il Presidente del Consiglio e il ministro della Giustizia il cui “lodo” (il lodo Alfano che esime Berlusconi da qualunque processo) potrebbe essere dichiarato incostituzionale dalla Suprema Corte e dunque sparire. È avvenuto che alcuni nervi della massima istituzione di garanzia del Paese sono stati messi fuori uso. Penso all’Honduras. Se vi sbarazzate per un momento della parte teatrale e primitiva del golpe honduregno (soldati, carri armati, coprifuoco) notate subito che vi sono somiglianze fra i due eventi. In Honduras si rimuove il presidente della Repubblica sostituito dal Presidente della Camera, e si dispongono i soldati a guardia del nuovo ordine. In Italia si rimuove la credibilità e la dignità della Suprema Corte attraverso due giudici che, a quanto pare, si sono prestati.
Non solo. ma hanno rivendicato come un diritto ciò che hanno fatto. Ognuno dei due giudici che si sono deliberatamente seduti a tavola con il ministro della Giustizia e con il capo dell’esecutivo, ha, infatti, scritto una lettera pubblica. Il giudice Mazzella si è rivolto al presidente del Consiglio con cui è stato a tavola con queste parole: «Caro Presidente, caro Silvio». La lettera è un proclama di presa di possesso dell’intero territorio che dovrebbe separare il governo dalla Corte Suprema. Il gesto consegna la Corte Nelle mani dell’uomo di potere che ha tutto da temere dalla Corte se essa resta integra e indipendente.
Il secondo giudice, Paolo Maria Napolitano, scrive al Corriere della Sera con toni di scontro senza quartiere: «Il furore dell’attacco denigratorio (la semplice pubblicazione della notizia, ndr) necessita di una immediata risposta e non consente di attendere i tempi dei nostri procedimenti giudiziari... La brutale campagna di aggressione determinerebbe il convincimento che è in atto un tentativo per condizionare la Corte nella sua futura attività intimidendo alcuni suoi componenti». È interessante qui notare il rovesciamento, deliberatamente pubblico, dei ruoli. Si definisce “intimidito” il giudice seduto accanto alla parte che deve essere giudicata e che detiene tutto il potere. E l’intimidazione verrebbe da chi difende i giudici non seduti accanto al potere esecutivo (che è anche un immenso potere economico).
Il giudice Napolitano non ha difficoltà a scrivere, con lo stesso proposito di mettersi, come il collega, di guardia al terreno conquistato (aggancio della Corte al potere esecutivo) e lo presidia con questa ferma dichiarazione: «Il presidente del Consiglio non è soggetto ad alcun tipo di giudizio da parte della Corte. Il cosiddetto lodo Alfano è una delle tante questioni che la Corte affronta, non certo la più importante. I costituenti hanno voluto che nella Corte confluissero giudici di diversa nomina, ciascuno con la propria storia, la propria sensibilità giuridica, le proprie personali conoscenze».
Dunque il giudice nel dire “io pranzo con chi voglio” ci comunica che fa parte della sua storia, ed è un suo privilegio, frequentare il presidente del Consiglio quando vuole. Ma - come si è detto - quel presidente del Consiglio è protetto, contro numerose imputazioni e processi, dal “cosiddetto” lodo Alfano che esime il Primo ministro da ogni procedimento giudiziario. E il “cosiddetto” lodo Alfano dovrà essere giudicato costituzionale o cancellato come incostituzionale dalla Suprema Corte.
Se incostituzionale, Berlusconi perde all’istante il suo scudo giudiziario e finisce sotto processo. Dunque la questione è piuttosto importante. Ed è importante il “pronunciamento” dei due giudici che compaiono in due scene. Nella prima si fanno cogliere accanto alla persona che dalla sentenza della Corte ha tutto da perdere o tutto da guadagnare; nella seconda attaccano, da politici militanti, chiunque osi scandalizzarsi. La prima e la seconda scena confermano ciò che Pannella e i Radicali dicono da molti anni. Il Paese è in pericolo perché è fuori dalla legalità. Raramente però l’illegalità è apparsa così scoperta e in modo così teatrale, al punto da sembrare un avvertimento. Certo un passo nel vuoto, fuori dallo Stato di diritto.

Repubblica 5.7.09
Il cavaliere ha bisogno di una lunga vacanza
di Eugenio Scalfari


Al´Aquila la terra continua a tremare, lo sciame sismico non dà tregua, sotto le tende un giorno si crepa dal caldo e il giorno dopo si galleggia sotto il nubifragio, ma Bertolaso ha l´aria contenta. «Andrà tutto benissimo» dice in Tv «e poi se non avessimo trasportato qui il G8 chi parlerebbe ancora del terremoto?».
Il popolo delle tendopoli in realtà se ne frega che si parli di lui anzi ne è decisamente irritato, ma Bertolaso è felice, ogni giorno compare alla destra dell´Onnipotente ed ha anche scansato un brutto processo sui rifiuti, trasferito a Roma e iscritto a nuovo ruolo.
Comunque, in caso di bisogno, è pronto il piano B per evacuare i Potenti in elicottero. Teatro. Puro teatro. Non è forse questa la regola generale? Preparare un piano B è diventato una mania. Ce n´è uno per L´Aquila, un altro per il disegno di legge sulle intercettazioni contestato dal presidente Napolitano per palesi vizi di incostituzionalità e ieri messo in opera dal ministro della Giustizia; un altro ancora per il lodo Alfano se la Corte ne invaliderà alcune parti, infine un quarto se la Corte lo invalidasse interamente.
Quest´ultimo piano B tuttavia è ancora da studiare, si va da una legge non più ordinaria ma costituzionale che però lascerebbe il Cavaliere esposto al corso della giustizia, ad una crisi istituzionale vera e propria con conseguente appello al popolo in stile Caimano.
Berlusconi, a differenza del suo Bertolaso, ha invece la faccia sempre più scura. Gli hanno suggerito di parlar poco e di farsi vedere il meno possibile e lui ci prova ma con evidente fatica.
Da quel 25 aprile, quando raggiunse l´apice della popolarità e del consenso abbigliandosi da padre della Patria con al collo la sciarpa da partigiano, sembra passato un secolo. Molte cose sono cambiate nel suo pubblico e nel suo privato, nel suo modo di gestire, nel suo eloquio e forse nei suoi pensieri.
Ma una cosa non è cambiata nonostante gli appelli del Quirinale ad una tregua almeno fino al G8: continua ad insultare la sinistra «un cadavere che ingombra, un branco di comunisti, un´accozzaglia senza idee». E continua ad indicare al pubblico ludibrio «i giornali eversivi ai quali gli imprenditori dovrebbero negare la pubblicità».
Nel frattempo gli incidenti di percorso si susseguono.
L´ultimo, forse il più grave, è stato l´improvvida cena in casa del giudice costituzionale Mazzella il quale, insieme all´altro suo collega Napolitano, ha anche reagito pubblicamente con una lettera al premier con lui stesso concordata.
Non staremo qui a ripetere le considerazioni su questo comportamento irrituale e su quell´incontro gastronomico tra «compagni di merende» come li ha giustamente definiti il collega Massimo Giannini. Sarebbe stato grave anche se il solo convitato dei due giudici della Corte fosse stato il presidente del Consiglio, vecchio amico ed elettore di entrambi; ma c´erano anche il ministro della Giustizia e il presidente della Commissione parlamentare, Vizzini, dando a quell´incontro un inequivocabile colore di cena di lavoro.
La conseguenza è che la Corte faticherà non poco a scrollarsi di dosso il peso che gli è stato caricato sulle spalle da due dei suoi componenti.
* * *
Dicono i bene informati che la principale occupazione del premier nelle poche settimane che lo dividono da una lunga vacanza sarà l´economia, a cominciare dal G8 del prossimo 8 luglio. E c´è da crederci perché la crisi è ancora tutta davanti a noi.
Il G8 deciderà ben poco. Non è più lì che si gioca la partita, ormai trasmigrata nei consessi dove si misurano i veri grandi della scena economica mondiale.
L´intervista ad un giornale italiano in vista del G8 Barack Obama l´ha data all´Avvenire. Non vende molto l´Avvenire ma rappresenta la Conferenza episcopale e Obama voleva parlare dell´incontro che avrà col papa sabato prossimo appena liberatosi dal meeting dell´Aquila.
Obama non appartiene alla categoria berlusconiana e tremontiana di quelli che sostengono che il peggio sia passato. Al contrario: lui sostiene che il peggio viene adesso con una valanga di disoccupati e con una secca diminuzione dei redditi di lavoro.
Ci siamo già occupati domenica scorsa di questo problema.
Ieri ne ha scritto con la competenza che gli è propria Luigi Spaventa, perciò non ripeterò i suoi giudizi e la sua analisi. Aggiungo soltanto che, dai documenti inviati in Parlamento dallo stesso Tremonti risulta quanto segue:
1. I dati sull´andamento del deficit, del fabbisogno, delle entrate, delle spese, del debito pubblico, forniti dal Tesoro sono esattamente quelli anticipati dall´Istat, dalla Banca d´Italia, dall´Ocse, dalla Commissione di Bruxelles, che il ministro aveva definito «congetture inutilmente allarmistiche».
2. Tra quei dati segnalo una spesa che cresce a ritmo sostenuto, un deficit che supererà il 5 per cento sul Pil, un debito pubblico a 119 per cento sul Pil, le entrate tributarie in forte calo, la disoccupazione in netto aumento.
3. Quelle congetture oggi interamente accolte dal Tesoro avrebbero dovuto suggerire al ministro di scusarsi con chi aveva dileggiato. Ovviamente non si è scusato.
4. Quanto ai provvedimenti per stimolare il sistema produttivo avevo scritto che entreranno concretamente in vigore tra l´inverno e l´estate del 2010 e così risulta dalle carte rese pubbliche da Tremonti. Scrissi che si trattava di salvagenti gettati in mare a qualche chilometro di distanza dai naufraghi. Ed è esattamente così.
* * *
Poniamoci adesso la domanda: a che punto è quest´opposizione cadaverica della quale straparla il presidente del maggior partito italiano? A che punto è il Partito democratico che si prepara al suo congresso fondativo? Il dibattito nel partito è in pieno corso e si svolge, almeno per ora, con sufficiente civiltà. Né mi sembra che abbia paralizzato la reattività del partito nei confronti di quanto accade nel paese. Il timore manifestato da molti d´una introversione del Pd su se stesso non mi sembra si stia affatto verificando e d´altra parte sarebbe impossibile che ciò accadesse di fronte a quanto ora sta avvenendo nel paese.
In questa prima settimana congressuale si sono verificati in ordine cronologico i seguenti fatti: si sono riuniti a Torino i giovani del gruppo di Piombino che vogliono esser rappresentati da un proprio candidato; è stato ufficiato in questo senso il sindaco di Torino; dopo una breve riflessione Chiamparino ha declinato l´offerta e resterà al suo posto di sindaco fino al 2011 per poi forse candidarsi alla Regione Piemonte. Secondo me ha fatto benissimo.
Bersani ha presentato la sua candidatura e il suo programma al teatro Ambra Jovinelli di Roma. Franceschini ha anche lui annunciato la sua candidatura e presenterà il programma tra pochi giorni.
Walter Veltroni ha riunito al teatro Capranica di Roma quelli che parteciparono due anni fa alla fondazione del Pd al Lingotto di Torino ed ha rievocato il programma che espose in quell´occasione indicando i problemi del futuro e la missione che il Pd è chiamato a svolgere.
Hanno anche manifestato le loro tesi il gruppo cattolico di Fioroni, i liberaldemocratici di Rutelli, e sono più volte intervenuti Massimo D´Alema, Franco Marini, Piero Fassino, Sergio Cofferati, Massimo Cacciari.
Infine ieri si è materializzato il terzo candidato nella persona di Ignazio Marino, sostenuto dai giovani quarantenni di Piombino.
Chi assiste dall´esterno con partecipe attenzione a questo processo iniziale in vista del Congresso e delle successive primarie è indotto alle seguenti osservazioni.
Bersani ha fatto appello con molta dignità ad un sentimento identitario. Il suo schieramento appare notevolmente compatto e coinvolge una parte notevole dei democratici di provenienza Ds. Ritiene che il partito debba fin d´ora indicare le sue alleanze in vista d´una coalizione che comprenda possibilmente tutto il vasto arco delle opposizioni da Casini fino alla sinistra di Ferrero.
Sarà la coalizione a indicare con le primarie il candidato alla «premiership» quando ci saranno le elezioni politiche a fine legislatura.
Lo schieramento che si sta formando attorno a Franceschini è più variegato.
Riafferma la sua vocazione maggioritaria e il bipolarismo. Coinvolge una parte degli ex Ds, buona parte della ex Margherita, buona parte dell´elettorato giovanile.
Bersani punta le sue carte principalmente sul Congresso; Franceschini principalmente sulle successive primarie. La visione di Bersani è più rivolta ai militanti, quella di Franceschini tende a captare elettori al centro e a sinistra che attualmente sono esterni rispetto al Pd. Tutti e due cercano di riportare in linea la vasta platea degli astenuti.
Il tema della laicità e del laicismo è improvvisamente balzato in prima linea, sia pure con differenti tonalità, nel discorso pubblico del Pd. Per lungo tempo non è stato così, segno che il sentimento pubblico è cambiato.
Ignazio Marino, il terzo uomo, fa addirittura della laicità il suo tema principale se non addirittura esclusivo. Mi permetto di dire, da laico di vecchia data, che un partito complesso e riformista come è e vuole essere il Pd non può puntare sul laicismo tutte le sue carte. Diventerebbe fondamentalista e si ridurrebbe a pura e inefficace testimonianza. Questi, caro Marino, non sono tempi di testimonianza ma tempi di dura battaglia su tutti i fronti del riformismo.
Ci vorrebbe per il Pd un Barack Obama, come ha detto Veltroni. Purtroppo non c´è, non se ne abbiano a male gli esponenti del Pd. Non c´è tra gli anziani né tra i giovani.
Tanto più importante è che a questa mancanza si supplisca con una buona squadra che si valga dei talenti e non soltanto dei cooptati, giovani o anziani che siano.
Purché l´accesso sia aperto. Purché i valori siano condivisi e purché servano a ispirare progetti concreti, seriamente pensati e tenacemente perseguiti. Quanto alla vecchia questione del partito radicato sul territorio, questa è perfino una tautologia: se non opera sul territorio e sui bisogni che il territorio esprime, un partito non esiste.
Ma non esiste neppure se non ha una salda visione nazionale ed europea. Tra alcuni errori che possono essere rimproverati e dei quali lui stesso con notevole umiltà si rimprovera, questo è il lascito più importante di Veltroni che va meditato e raccolto.

Corriere della Sera 5.7.09
Il convitato di pietra
Il bipolarismo e le scelte del Pd
di Mchele Salvati


Magari le que­stioni sulle quali il prossi­mo congresso del Pd si dividerà fossero quelle descritte da Pane­bianco nel suo editoriale di martedì scorso! Di que­ste — la crisi della sini­stra europea, l'incapacità di quella italiana di fare i conti col suo passato, l'amalgama non riuscito tra ex comunisti ed ex de­mocristiani, i rapporti col sindacato, gli innesti libe­rali in un corpo non libe­rale... — si discuterà di certo, e con accenti diffe­renti, ma non saranno le vere ragioni del contende­re. È anzi probabile che sa­ranno usate come pretesti per esprimere un dissen­so profondo che serpeg­gia nel partito e ha a che fare con una questione del tutto diversa. Il dissen­so tra chi ritiene che il bi­polarismo coatto che ab­biamo avuto nella Secon­da Repubblica, imposto mediante leggi elettorali maggioritarie, sia stata e sia una iattura per il cen­trosinistra e per il Paese. E tra chi ritiene invece che sarebbe una iattura l'adozione di un sistema proporzionale senza pre­mi di maggioranza: gli elettori non sarebbero più in grado di scegliere il governo e si ritornerebbe ai problemi della Prima Repubblica, ai governi fat­ti e disfatti in Parlamento. Non è un mistero per nessuno che nel Pd ci so­no molti che la pensano come Casini e Tabacci: che il bipolarismo non è adatto e non fa bene al no­stro Paese, ma soprattut­to al centrosinistra. Ce ne sono sia sul lato ex demo­cristiano, sia su quello ex comunista del partito. Nel caso si tornasse al propor­zionale, i destini poi si di­viderebbero: i primi pro­babilmente si avvicinereb­bero all'Udc e, insieme a non pochi transfughi dal Pdl, a coloro che oggi sof­frono sotto la leadership di Berlusconi, cerchereb­bero di dar vita a un robu­sto partito centrista.
I secondi resterebbero nel Pd, che a questo pun­to diventerebbe una cosa del tutto diversa dal suo progetto originario, dal tentativo di fusione del ri­formismo laico e cattoli­co. Diventerebbe un parti­to a prevalente intonazio­ne laica e socialdemocrati­ca, e, proprio per questo, lì sarebbero raggiunti da non pochi che vivono ma­lamente nell'estrema sini­stra e con Di Pietro. Dopo di che si svilupperebbe il gioco dei due forni: un partito di centro sempre al governo, che ora si al­lea con i partiti di destra, ora con quelli di sinistra. Un gioco che nella Prima Repubblica non si era mai potuto giocare perché Pci e Msi erano partiti antisi­stema, ed era impensabi­le governare con loro.
Ci sono tre motivi che ostacolano l'emersione di questo conflitto profondo nel prossimo congresso. Il primo è che non si gesti­sce un evento simbolico di questa importanza met­tendo in primo piano una spaccatura su un proble­ma di leggi elettorali, alle­anze, assetti istituzionali: spaccature difficilmente componibili, com'è que­sta, fanno male al morale, e il congresso come gran­de rito unitario è radicato nella cultura politica del partito.
Il secondo motivo è che coloro i quali la pensano come Tabacci e Casini non hanno alcun interesse ad uscire allo scoperto, a dire a tutto il partito: «Oops, ci siamo sbagliati, torniamo indietro». Dall'Ulivo in poi tutta la retorica è stata bipolare, noi contro loro, e questa visione è predominante tra gli iscritti e gli elettori: a chi ha cambiato idea non conviene attaccarla frontalmente. Il terzo motivo è che si tratta di un disegno — il ritorno al proporzionale — che non ha alcuna possibilità di attuarsi nel futuro prevedibile, perché il Pdl è fortemente avvantaggiato dal premio di maggioranza e non ha certo l'intenzione di mollarlo. In politica non si discute di questioni virtuali, di possibilità lontane. La possibilità vicina è al massimo quella di alleanze locali con l'Udc, che però non ha alcuna intenzione, a livello nazionale, di farsi coinvolgere in un rapporto organico col centrosinistra. C'è però un motivo che va in direzione contraria, che spinge per uno scontro aperto. Se i difensori del modello bipolare e del Partito Democratico come incontro-fusione delle culture riformiste laiche e cattoliche non danno battaglia, se non denunciano apertamente quella che per loro è una marcia indietro verso la Prima Repubblica, hanno già perso il congresso. Per loro si presenta un dilemma. Conflitto aperto, col rischio di traumi seri per il partito: questo non garantisce certo una vittoria, ma la rende possibile. Oppure quieto vivere e sconfitta sicura. Vedremo presto quale corno verrà scelto.

il Riformista 5.7.09
L'inutile fantasma di Walter
Il ritorno di Veltroni è una conferma: è meglio che il Pd muoia
di Giampaolo Pansa


A volte ritornano. Anzi, ritornano sempre. Da fuggiaschi pentiti. Da sconfitti redenti. Da fantasmi inutili. Mi è sembrato così il ritorno di Walter Veltroni sulla scena del Partito democratico. Uno spettro ambiguo. Capace di presentarsi con un capolavoro di astuzia bugiarda: «Io non sono tornato perché non sono mai andato via. Ma adesso che sono qui, me ne resterò fuori, in disparte».
Posso dire la mia reazione alla comparsa del fantasma di Walter al Capranica di Roma, davanti ai tifosi dell'allievo Franceschini? Ho esclamato: basta!, non ne posso più di questi eterni ritorni dei leader politici che avevano giurato di cambiare vita. Adesso mi toccherà rivedere tutto quello che ho visto in questi decenni. Facce, storie, cose, parole coperte di polvere. Ma che ci verranno presentate come nuove.
Già, le vecchie cose di pessimo gusto. Le guerre tra Walter e Max D'Alema. La gara a chi scrive più libri. Le correnti-non correnti organizzate di nascosto. Le malignità sui destini personali: vai in Africa, l'avevi promesso, no vacci tu! Le congiure a spese dell'Ulivo prodiano. La concorrenza fra misere emittenti tivù. Gli insulti più sanguinosi, come il celebre detto dalemista su Walter e Romano Prodi: i due flaccidi imbroglioni di Palazzo Chigi!
Tra la paccottiglia di Veltroni metterei anche il mantra sulla "vocazione maggioritaria" del Pd. Confesso che non ho mai compreso che cosa volesse dire. Tutti i partiti hanno una vocazione di questo tipo: nessuno scende in campo per essere una minoranza candidata a perdere. Eppure, al Capranica, Walter non ci ha risparmiato neppure la banalità suprema:«O la vocazione maggioritaria c'è o il Pd non c'è».
Ho sempre pensato che a Walter piaccia fuggire. Me l'ha confermato per l'ennesima volta in febbraio, quando decise di dimettersi da segretario dopo la sconfitta in Sardegna. Nel discorso d'addio a Piazza Di Pietra, la voglia di darsela a gambe gli usciva dagli occhi. Un uomo in fuga. E per questo felice. Si era calato nella parte che conosce meglio: il politico sconfitto che taglia la corda. E tuttavia riesce sempre a essere un perdente di successo. Prontissimo a passare da un incarico all'altro.
Adesso che Walter è tornato quale incarico vorrà? Non ho dubbi: farà lo stratega nascosto di Franceschini. Alla sua promessa di restare in disparte non ci crede neppure lui. I veltroniani esistono e cercheranno di fare secco il loro avversario, Pierluigi Bersani. Gettandogli addosso l'accusa delle accuse: tu sei il vecchio e noi siamo il nuovo.
Sono stati implacabili le donne e gli uomini di Walter. La magica Serracchiani, neo guerriera da combattimento europeo, ha ringhiato: «Per fare le riforme, il Pd ha bisogno di chi non ha passato». Un altro europeo, David Sassoli, ha sbeffeggiato Bersani, D'Alema & C: «Non vorrei che girassero una nuova versione del "Gattopardo": notabili travestiti da innovatori».
Persino un intellettuale serio come Pietro Ichino non si è risparmiato: «La vecchia sinistra ha ingannato i giovani dicendo che la legge Biagi creava precarietà». Già, ma in quel momento dove stava Walter? Faceva il leader politico di quella sinistra o correggeva le bozze del suo ultimo libro?
A proposito dei libri veltroniani, leggo che si annuncia una nuova uscita. Sembra che il titolo sarà: "Noi". Se è così, immagino un'autobiografia. Ma siccome Walter non è un privato qualsiasi, mi azzardo a suggerire una piccola integrazione all'insegna: "Noi e loro". Infatti i politici non sono nulla senza "loro", ossia il pubblico che li dovrebbe votare. E uno di questi "loro" è anche l'autore del Bestiario. Che adesso dirà quali lezioni sta ricavando da quanto si comincia a vedere.
La lezione numero uno è che la campagna congressuale sarà lunga lunga. E già per questo micidiale. Siamo all'inizio di luglio. Il congresso si terrà ai primi di ottobre. Tre mesi di battaglia. Senza esclusione di colpi. Tutti contro tutti. Neppure il terzo nuovissimo candidato alla segreteria, il chirurgo Ignazio Marino, potrà curare i militanti feriti e impedire che tirino le cuoia. Il Pd metterà in mostra la sua più conclamata specialità: l'autodistruzione.
La seconda lezione riguarda il dopo congresso. Certo, uno dei duellanti vincerà. Ma una volta afferrata la vittoria, riuscirà a tenere insieme una baracca sgangherata come sarà in quel momento il Pd? E a farne il competitore del centrodestra? Temo di no. Allora ritorno a un'opinione personale che ho già espresso sul Riformista. È meglio che il Pd muoia, si sciolga, prendendo atto che non può essere il condominio di famiglie troppo diverse tra di loro. Capaci soltanto di combattersi.
Come andrà a finire non lo so. Quello che so è che i fantasmi alla Veltroni e quelli che emergeranno da qui all'autunno sono davvero inutili. Volteggiano sui giornali senza mai dare un'occhiata al mondo sottostante. Ossia all'Italia com'è oggi. E come si presenterà quando arriveranno le prime nebbie.
A costo di ripetermi, e rischiando di essere uno dei catastrofisti che Berlusconi non ama, prevedo il peggio. Franceschini, Veltroni, Bersani, D'Alema, le Serracchiani e i Sassoli si troveranno immersi in uno scenario di guerra. Nessuno di loro ha visto l'Italia degli anni Quaranta e Cinquanta. Il più anziano, D'Alema, è nato nel 1949.
Lo spettacolo che avranno di fronte sarà una novità assoluta. I duelli congressuali di oggi appariranno scherzi da asilo Mariuccia. Misere schermaglie rispetto alla ferocia dell'impegno necessario per tenere insieme un Paese allo stremo.

il Riformista 5.7.09
Ma se il Cav. va in ritiro che si fa?
di Peppino Caldarola


Partenza moscia per il congresso del Pd. I due candidati hanno parlano senza creare entusiasmi né drammatici dissensi. Il senatore Ignazio Marino si prepara a rappresentare il fronte laico ma non solleciterà grandi emozioni. I rutelliani si apprestano a sostenere Franceschini fra molti mal di pancia. Attorno al segretario si va formando un Correntone informe che non lascia capire qual è la riposta alla crisi del Pd. Il Congresso rischia di trasformarsi in qualcosa di simile agli ultimi appuntamenti del Ps francese dove lo scontro fra i candidati via via si faceva più caldo nell'indifferenza totale dell'opinione pubblica. Neppure chi, come il sottoscritto, è molto critico nei confronti del Pd può gioire per questa situazione. L'Italia ha bisogno di una opposizione robusta che possa rappresentare una solida alternativa al governo attuale. Invece niente. Infuria il dibattito, a cui si dedica con rinnovata energia Massimo D'Alema, sul dopo Berlusconi ma non si intravvede traccia di questo declino del premier se non nella sua ormai lunga carriera. L'idea, ventilata ieri da Francesco Verderami sul "Corriere", che Berlusconi possa per qualche tempo ritirarsi dalla scena politica scegliendo un profilo più discreto rischia di ammazzare i giornali e di togliere all'opposizione gran parte della sua ragione di essere. Forse il problema che i candidati dovrebbero risolvere è quello di immaginarsi quel che farebbero senza il premier. Altrimenti saranno loro a cantare: «Meno male che Silvio c'è».

l’Unità 5.7.09
La parola è sinistra
Un eterno e autonomo movimento di idee
di Luigi Manconi


La definizione: Sostantivo femminile. Mano che è dalla parte del cuore. In Parlamento, l’insieme delle forze politiche che stanno a sinistra del banco del governo e che rappresentano le tendenze progressiste. Corrente filosofica orientata in senso naturalistico e umanistico. (Dal Vocabolario Nicola Zingarelli)
Eugenio Montale : «Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». (da Non chiederci la parola)
Italo Calvino: «I rivoluzionari sono più formalisti dei conservatori». (da Il Barone Rampante)

Dopo oltre un secolo e mezzo, si può dire che, per molti versi, la questione sia sempre la medesima: come combinare, al massimo grado possibile, libertà ed eguaglianza? La volontà di farlo, i programmi per avvicinare quell’obiettivo, la militanza intorno a esso, le culture che ne motivano ragioni e possibilità: ecco, tutto ciò possiamo chiamarlo, con molte incertezze ma con la massima approssimazione oggi consentita, sinistra.
Con qualche avvertenza: sinistra non è un luogo definito geograficamente e storicamente. Ovvero sinistra non si è sedimentata in un partito politico, in una organizzazione sociale e statuale, in un paese determinato.
Sinistra non è un sistema ideologico autosufficiente ne un regime politico immobile. Ne, d’altra parte, può considerarsi un accampamento dai confini ben muniti o una cultura integrata e autonoma. Al contrario. Sinistra rassomiglia, più che a ogni altra immagine, a un movimento, nelle molte e non sempre coerenti accezioni del termine.
È un movimento perché richiede una lotta aperta per la realizzazione di condizioni propizie (pari opportunità) per il perseguimento - appunto - della maggiore libertà possibile e, al tempo stesso, della migliore eguaglianza possibile. Nelle condizioni date e nelle dinamiche che consentono il loro superamento. Nel corso del processo per approssimare quella meta, l’identità di sinistra può definirsi a partire dalla capacità di guardare lontano (almeno un po’) nello spazio e nel tempo.
Nello spazio: da qui l’imperativo di essere «internazionalista» (o meglio: sovranazionale), intensamente interessata a ciò che accade fuori da confini che si ritengono provvisori e friabili; e la consapevolezza che ogni offesa alla libertà, ovunque perpetrata, è una lesione della propria libertà; e che la questione delle migrazioni è sua propria componente costitutiva. Nel tempo: da qui la dimensione ambientale, che ci impone di pensare, oltre la congiuntura presente, ai nostri figli e alle generazioni future. A ciò che è, ma anche a ciò che sarà e che rischierà di essere. Quanto qui sommariamente detto è sinistra come l’abbiamo conosciuta e come la conosciamo? Fin troppo ovvio rispondere no.
Ma anche criticare radicalmente ciò che sinistra è, ciò che noi siamo, può rivelarsi utile. Forse vale la pena ricordare, ancora una volta, i notissimi e felicissimi, versi di Eugenio Montale: «Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.» (1925)

Repubblica 5.7.09
Guai ai deboli
di Miriam Mafai


Cosa spinge un uomo a rintanarsi come una bestia dentro un garage, aspettare a lungo, pazientemente la sua vittima, e poi, quando questa arriva, calarsi un passamontagna sulla faccia, saltarle addosso, tapparle la bocca con un nastro adesivo e infine violentarla ? È uno stupratore, diciamo.
E con questo pensiamo di averlo definito, catalogato. Con questo pensiamo di aver detto tutto. Ma, appunto, chi è uno stupratore? Cosa lo spinge a commettere il suo crimine? Nel corso delle ultime settimane abbiamo registrato a Roma due casi di violenza sessuale consumati con le stesse modalità in due diversi quartieri della città, alla Bufalotta e all´Ardeatino. Forse a Roma, ci avverte la polizia, agisce uno "stupratore seriale". La polizia lo cerca. E tra le donne si va diffondendo un sentimento fatto insieme di paura e di rabbia. Forse non è opportuno, non è prudente uscire da sole la sera.
Cosa spinge un gruppo di giovanotti romani di un civilissimo quartiere a individuare dalle finestre della propria abitazione un uomo, uno solo, di pelle nera che sta distribuendo dei volantini, e poi, senza ragione, a scendere in strada, aggredirlo, picchiarlo selvaggiamente, stenderlo a terra, e alla fine tornare tranquillamente a casa? Tra gli immigrati, regolari o meno, tra tutti coloro che hanno la pelle di un diverso colore si va diffondendo anche a Roma, un sentimento fatto insieme di paura e di rabbia.
Né le donne né gli immigrati hanno la possibilità, la capacità di reagire di fronte ad un imprevedibile gesto di violenza. Donne e immigrati sono i più deboli, i più indifesi. Il colore della pelle in un caso, il loro sesso nell´altro (non veniva definito una volta «il sesso debole»?) sembrano destinarli al sopruso, esporli alla violenza di coloro che hanno avuto la fortuna di nascere con la pelle e il sesso giusto.
Non ho nessun rimpianto per i tempi andati. Ma non c´è dubbio che Roma è andata perdendo, nel tempo, alcune caratteristiche che la rendevano più gradevole. Una certa disponibilità alla cordialità, all´ironia. Ci fu un tempo nel quale sembrava che il reato più diffuso e insopportabile fosse lo scippo. Poi c´è stato – non lo dimentichiamo – il tempo della violenza politica, da cui uscimmo dopo anni di delitti e di sofferenza. Sembrò tuttavia aprirsi, dopo di allora, una stagione diversa. La stagione di Nicolini e poi delle Notti bianche. Si è irriso molto nei confronti dei cosiddetto "buonismo" del sindaco Veltroni , ma dobbiamo alle sue amministrazioni se la città ha potuto, in quegli anni, superare le sue ferite e riconciliarsi con la sua tradizione.
Le città cambiano, naturalmente. E oggi Roma deve reggere l´urto di fenomeni prima sconosciuti. Ma ha sbagliato il sindaco Alemanno quando, solo un anno fa, nel corso della sua campagna elettorale, ha indicato come problema centrale della città quello della mancanza di sicurezza, addebitandone la responsabilità alla passata amministrazione. Un pessimo espediente propagandistico, che gli ha consentito forse di vincere. Ma di cui lo stesso sindaco Alemanno e la sua giunta pagano oggi lo scotto. Ci guardiamo bene dall´addebitare alla attuale giunta la responsabilità degli stupri della Bufalotta e dell´Ardeatino o delle ignobili aggressioni agli immigrati, l´ultima quella di ieri a Monteverde. Ma è compito suo fare in modo che la capitale esca, con l´aiuto di tutte le sue istituzioni, dalla insicurezza e dalla violenza diffusa nella quale oggi è precipitata.

Repubblica 5.7.09
Migranti
Le donne globali ci guardano
di Maria Novella De Luca


Un milione e duecentomila, la metà adesso fuorilegge: è il popolo fantasma di colf, badanti, baby sitter straniere che abitano le nostre case. Una fotografa romana ha messo in mano a dieci di loro delle fotocamere per descrivere la vita quotidiana delle famiglie per cui lavorano. Ne sono nati una mostra e un libro che rovesciano molti punti di vista
Pietro e Elena mangiano per merenda empanadas e banane fritte, perché la convivenza crea contaminazione di culture
L´ecuadoregna Graciela ha cinque bambini, tre maschi e due femmine, da accudire per far studiare le sue tre figlie dall´altra parte del mondo
Immagini di abbracci, di baci della buonanotte, grembiuli di scuola, scherzi tra fratelli, un padre che si cimenta ai fornelli
In quegli scatti ci sono l´abbondanza e il disordine, i giocattoli e il frigo pieno, i panni da stirare, la lavatrice mai ferma
Fotografano l´abbondanza, il disordine, i colori, il cibo, i frigoriferi pieni, i panni da stirare, i letti da rifare, i giocattoli da raccogliere, un borsellino pieno di soldi, le lavatrici che non si fermano mai. Catturano immagini di abbracci domestici, il grembiule della scuola, gli scherzi tra fratelli, il bacio della buonanotte, un padre che cucina, un neonato che dorme, il campanello d´argento con cui la "signora" chiama, richiama, e chiama ancora. Raccontano il loro lavoro nelle nostre case, la fatica invisibile di pulire, mettere in ordine, sostenere gli anziani, allevare i bambini, la cura dell´inizio e della fine della vita, i momenti più fragili, quelli più delicati. Si chiamano Maria Acioly, Agripina Aguilar, Graciela Ayala, Monica Daniliuc, Irene Martin, Isabelita Mendiola, Arcelie Pagdilao, Narciza Riasco, Iaroslava Skolozdra, Sandra Tafur, hanno dai venticinque ai cinquantacinque anni, e sono tutte collaboratrici domestiche.
Dieci donne immigrate regolari a cui una fotografa romana, Simona Filippini, ha chiesto di descrivere con le immagini la quotidianità nelle case italiane in cui lavorano. Un progetto da cui è nata una mostra e poi un libro dal titolo Di Lei. Donne globali raccontano, edito da Iacobelli, che sarà presentato la prossima settimana a Roma. Un viaggio nell´intimità delle famiglie in cui queste donne prestano servizio, e dunque vivono, coabitano, e da qui mantengono figli, mariti e genitori, con lontananze spesso lunghe anni e anni, e la nostalgia che non dà tregua. Sacrificio che le porta però a costruire: con i soldi guadagnati in Italia nei loro paesi comprano case, terreni, attività e a volte la vita diventa migliore. Così i loro scatti digitali sorprendono riempiendo di colore tutto ciò che è ordinario: un mucchietto di bucce di mela, una pentola di sugo, una tazza di tè.
Maria, Graciela, Monica, "donne globali" così le ha definite la sociologa americana Barbara Ehrenreich in un saggio scomodo dove vengono indagati i risvolti psicologici di questa migrazione di massa di donne dal Sud al Nord del mondo, per supplire a un "lavoro di cura" che la società occidentale, e in particolare le donne, non può e non vuole più fare. Una popolazione nella popolazione: nel nostro paese colf, tate e badanti sono oltre un milione e duecentomila, di cui solo seicentomila in regola. Le altre sono "invisibili", protette dalle mura del lavoro domestico, ma prive di tutele, spesso sfruttate, oggi addirittura fuorilegge con le norme appena approvate. «All´inizio piangevo spesso - ricorda Iaroslava, ucraina, che in Italia chiamano Gloria - lasciare i miei figli mi è costato moltissimo, ma volevo che a loro non mancasse nulla. Piangevo sempre, poi ho trovato la forza di restare».
Un universo "dietro", silenzioso, poco conosciuto. Spezzoni di realtà che da sempre appassionano Simona Filippini, presidente dell´associazione di fotografi "Camera 21", e a cui ha dedicato più di un reportage. Andando a scavare nel mondo separato delle suore di clausura, o tra i bambini di Forcella chiamati a raccontare il quartiere, o tra gli studenti di un liceo romano incaricati di scattare e poi di osservare il proprio autoritratto. «Sempre di più, dopo aver lavorato con i bambini e gli adolescenti, e soprattutto oggi con la diffusione del digitale, mi convinco di quanto sia appassionante ed utile lo studio delle fotografie realizzate dalla gente comune, dai non professionisti. In questo caso - racconta Simona Filippini - ho chiesto a dieci donne immigrate di raccontare il loro quotidiano all´interno delle case italiane in cui lavorano. D´accordo con le famiglie, che hanno accettato di farsi riprendere nell´intimità delle loro giornate, anche nel disordine, nell´imperfezione. Sono cosciente di aver rappresentato soltanto un angolo "per bene" di questo mondo, dove le regole vengono rispettate. Il risultato è che queste dieci donne ci hanno raccontato se stesse, ma hanno descritto anche noi, dal loro punto di osservazione». Gli interni descrivono situazioni benestanti (ma non ricche), dove gli spazi si intersecano, i bambini giocano dappertutto e i mariti partecipano al ménage di ogni giorno.
Accanto a ogni "reportage domestico" Maria e le altre aprono il cassetto dei ricordi e dei progetti. Così Agripina Aguilar, peruviana, nelle testimonianze raccolte da Manuela De Leonardis, descrive la vita difficile nel villaggio andino di Pampachiri, il sogno impossibile di studiare ingegneria a Lima, lo sbarco a Roma nel 2007, e l´incontro con la signora Teodolinda, novantadue anni, il suo "maledetto" campanello ad ogni ora del giorno e della notte, e l´ostinazione nel chiamarla Clementina invece di Agripina. «Clementina che ore sono? Clementina portami la medicina, Clementina questo cibo è salato…». Ma piano piano la paziente Agripina riesce a trovare un rapporto con Teodolinda. «Il giorno del suo compleanno la signora era circondata dalla sua famiglia, ma ci ha tenuto ad invitarmi a mangiare la torta con loro». Agripina resiste, perché vuole tornare in Perù, costruirsi una casa nel terreno che si è comprata con i suoi risparmi a San Martin e poi sposare Raul che «mi chiama ogni domenica».
Ana Graciela Ayala dice che i figli della «signora Carla» è come se fossero suoi. Cinque bambini, tre maschi e due femmine, di cui questa donna ecuadoregna di cinquantotto anni si occupa da dieci anni, per far studiare dall´altra parte del mondo le sue tre figlie. «Con la signora Carla mi sono sentita subito al sicuro. All´epoca mi sentivo inutile, la signora mi ha aiutato ad affrontare i miei problemi». Ma è nei bambini di cui si occupa che Graciela trova quei sostituti d´affetto che sembrano alleviare la nostalgia: i baci di Elena, la più piccola, gli abbracci di Pietro, «a cui proprio io ho insegnato a giocare a calcio, e quando ha vinto la prima coppa l´ha regalata a me», dice orgogliosa. Pietro ed Elena mangiano per merenda empanadas e banane fritte, perché il lavoro domestico crea contaminazioni di linguaggi, consuetudini, culture. E spesso accade così che i più piccoli confondano l´idioma dell´affetto con la lingua di chi li accudisce: spagnolo, filippino, polacco, romeno, russo, in un mescolarsi globalizzato di favole, filastrocche, ninne nanne, prime parole.
Anche Arcelie Pagdilao è una che ce l´ha fatta, da quindici anni vive in Italia, dove si è sposata e ha avuto due figlie. Eppure se ricorda il suo viaggio clandestino nel 1991 da Manila a Zurigo, e poi da Zurigo a Bucarest, e da Bucarest in una roulotte nella Jugoslavia in guerra, quindi nascosta in un tir fino a Trieste, e poi a Roma, Arcelie ammette: «Se avessi saputo a cosa andavo incontro non sarei mai partita».

l’Unità 5.7.09
Iran, è l’ora delle accuse
Giro di vite sull’opposizione
di Umberto De Giovannangeli


Chiedono la testa dei capi della rivolta. Puntano direttamente al candidato moderato Mousavi. Lo bollano come agente al servizio dell’America. Processano un giornalista di Newsweek: i falchi di Teheran all’affondo finale.

I falchi di Teheran mirano al cuore politico dell’«Onda verde». «Attività contro la sicurezza nazionale»: questa l’accusa mossa ad almeno uno dei dipendenti iraniani dell’ambasciata britannica a Teheran, ad un giornalista di Newsweek e ad alcuni dei più importanti esponenti riformisti arrestati dopo le elezioni del 12 giugno. A rivelarlo sono i loro avvocati, mentre l’ex presidente riformista Mohammad Khatami, ricevendo i familiari di alcuni degli arrestati, ha denunciato un piano per farli confessare in televisione di avere ordito un complotto. Le autorità iraniane hanno infatti accusato la Gran Bretagna di essere responsabile di una cospirazione contro le elezioni e di avere fomentato le proteste e i disordini che ne sono seguiti.
MOUSAVI NEL MIRINO
Il direttore del quotidiano ultraconservatore Keyhan, Hossein Shariatmadari, ha chiesto che lo stesso ex candidato moderato alle presidenziali, Mir Hossein Mousavi, venga incriminato per avere «cooperato con il nemico». Uno dei dipendenti locali dell’ambasciata britannica è accusato di «attività contro la sicurezza nazionale», secondo quanto reso noto dall’avvocato Abdolsamad Khorramashahi, incaricato dalla famiglia di assumerne la difesa. Il legale ha identificato l’imputato come Hossein Rassan. Un altro degli arrestati rimane in carcere, mentre altri sette sono stati rilasciati nei giorni scorsi.
AFFONDO MORTALE
L’accusa di avere agito contro la sicurezza nazionale è rivolta anche a sei fra i maggiori esponenti riformisti iraniani arrestati dopo le elezioni e al giornalista di Newsweek Maziar Bahari, con doppia cittadinanza iraniana e canadese, secondo quanto reso noto dal loro avvocato, Mohammad Saleh-Nikbakht. Il legale ha aggiunto che è impossibile per il momento sapere cosa rischiano gli accusati, perché questo tipo di incriminazione copre una serie vastissima di reati, previsti da ben 13 articoli del codice penale, che vanno da quello di «propaganda contro il sistema» a quelli di spionaggio e di «mohareb», cioè essere «nemici di Dio», che la legge islamica punisce con la morte. Tra i riformisti accusati, e in carcere da settimane, figurano il religioso Mohammad Ali Abtahi, vice presidente della Repubblica durante la presidenza del riformista Mohammad Khatami, l’ex portavoce di quel governo, Abdollah Ramazanzadeh, l’ex vice ministro degli Esteri Mohsen Aminzadeh, l’ex vice ministro dell’Economia Safay Farahani, l’ex vice presidente del Parlamento Behzad Nabavi e l’ex capo della commissione Esteri del Parlamento Mohsen Mirdamadi.

Repubblica 5.7.09
Iran, torture e false confessioni, la vendetta di Ahmadinejad
Centinaia di oppositori rinchiusi nei covi dei servizi segreti
I desaparecidos di Teheran
di Vanna Vannuccini


Interrogatori duri e waterboarding. La denuncia di Human Rights Watch
I basij hanno fatto irruzione nelle case dei consiglieri di Moussavi e li hanno arrestati

Fin dal primo giorno dopo le elezioni sono cominciati gli arresti. Ogni giorno nuovi nomi. I desaparecidos sono ormai quasi tremila. Accademici, giornalisti, intellettuali: Khamenei è evidentemente deciso a estirpare dalle radici il movimento riformista.
Non a caso ha affidato le indagini a Said Mortazavi, chiamato "il macellaio della stampa" dopo che la giornalista canadese Zahra Kazemi morì in prigione in conseguenza delle torture.
Venti giorni dopo l´inizio delle proteste popolari contro il golpe che ha attribuito la vittoria delle elezioni al presidente in carica Mahmud Ahmadinejad negandola al vero vincitore, Mir Hossein Moussavi, l´intero gruppo dirigente riformatore è in prigione. Di notte, gli agenti dei servizi segreti e i picchiatori basij hanno fatto irruzione nelle case di ex deputati, ex ministri, giornalisti, e li hanno arrestati. La televisione di Stato ha accusato «i principali organizzatori delle manifestazioni di protesta di essere in possesso di armi e di esplositivi». Chi ha osato chiedere agli agenti se fossero in possesso di regolare mandato di arresto ha ricevuto subito un assaggio del trattamento che gli sarebbe stato poi riservato in carcere. Si sa di condizioni di detenzione brutali, con i prigionieri obbligati a restare per ore in piedi con le mani legate dietro la schiena, di interrogatori estenuanti, di torture, di waterboarding, tutto allo scopo di estrarre false confessioni.
I metodi sono ben conosciuti fin da quando, all´inizio della presidenza Khatami, la polizia segreta colpì scrittori e intellettuali dissidenti. Ne furono uccisi otto in due mesi. Poi fu la volta degli aderenti al Movimento Nazionale per la Libertà. Ora è arrivato il turno dei riformatori, che non sono mai stati contro il regime islamico e sono stati giovanissimi rivoluzionari ai tempi di Khomeini.
Della maggior parte degli arrestati, il cui elenco completo è pubblicato nel sito di Human Rights Watch, non si sa dove siano. Di alcuni si sa che dal carcere di Evin sono stati trasferiti in un famigerato covo dei servizi segreti nelle vicinanze di Karaj. I primi ad essere arrestati sono stati i dirigenti di Mosharekat, il maggior gruppo riformatore: l´ex ministro dell´Interno Mostafa Tajzadeh, parlamentari come Behzad Nabavi e Mohsen Mirdamadi, portato via insieme alla moglie; l´economista Said Leylaz, l´ex vicepresidente Ali Abtahi, stretto collaboratore di Khatami; Mohammea Ghuchani, caporedattore del giornale di Karroubi. Due giorni fa è stato bloccato all´aeroporto un economista di fama internazionale, Bijan Khajepour, che veniva da Londra e non aveva partecipato alle manifestazioni. Anche di lui non si hanno più notizie.
Gli arresti hanno due obiettivi: da una parte togliere all´opposizione le teste migliori, dall´altra impedire ai media internazionali di parlare con interlocutori conosciuti e autorevoli: è l´ultimo anello di una censura senza precedenti che ha colpito la stampa internazionale fin dall´inizio delle proteste con il pretesto che i media avrebbero complottato insieme ai paesi occidentali per destabilizzare la Repubblica islamica. «Alcuni dei nostri nemici in diverse parti del mondo cercano di presentare come dubbia questa chiara e assoluta vittoria elettorale», aveva detto Khamenei nell´ormai celebre preghiera del Venerdì quando mise tutto il suo peso a sostegno di Ahmadinejad.

Repubblica 5.7.09
La paura di Kiarostami: "Adesso temo una guerra civile"
di Bijan Zarmandili


Abbas Kiarostami, il più noto tra i registi iraniani, insieme a una trentina di suoi amici e colleghi cineasti ha firmato una dichiarazione collettiva per denunciare che il sangue versato in questi giorni nel paese rischia di trascinarlo sull´orlo di una guerra civile. E´ la prima volta che qualcuno prospetta lo spettro di un conflitto armato interno, conseguenza della tragedia post-elettorale, del fuoco acceso sotto la cenere che prelude ad un incendio irreparabile. Ed è ancora più significativo che siano personalità come Kiarostami a temerlo. Viene in mente il signor Badii, il protagonista de "Il sapore della ciliegia", un vecchio film di Kiarostami. Il signor Badii, ossessionato dalla ricerca di una fossa dove morire e di qualcuno che getti vangate di terra su di lui, sembra la metafora di chi spinge ora il paese alla sepoltura, alla morte. Nella loro dichiarazione i cineasti iraniani chiedono: «Come mai fino al giorno prima delle elezioni, le donne e gli uomini, i giovani di questo paese venivano osannati e definiti nobili eroi, mentre poco dopo il responso delle urne, quella stessa gente è stata accusata di essere la feccia della società, facinorosi che meritano di essere offesi, uccisi e annientati nel sangue?», E forse non si tratta di una domanda retorica.

l’Unità 5.7.09
Conversando con Roberto Espinosa
Portavoce del Coordinamento andino delle organizzazioni indigene
di Leonardo Espinosa


I decreti del cane del contadino»: così hanno chiamato i provvedimenti con cui Lima voleva modificare la legislazione sull’uso delle terre. «Fa quasi sorridere, vero? In realtà, il loro ritiro ci è costato troppo sangue e troppa violenza». È la giornata giusta per parlare con Roberto Espinoza, uno dei portavoce del Caoi (il Coordinamento andino delle organizzazioni indigene), ospite del G-sott8 nell’Iglesiente sardo, un contro-G8 organizzato dall’Arci e da altre 300 associazioni. Poche ore prima, dal Perù, è arrivata la notizia delle prossime dimissioni del primo ministro Yehude Simon, «Se non succederà niente di straordinario».
Ma quella che a noi sembra un vittoria degli indios contro il governo del presidente Alan Garcia, per Espinoza è altro. «È un atto dovuto. Simon aveva forse i numeri in Parlamento (dove le sue dimissioni sono state respinte due giorni fa, ndr), ma ormai la società peruviana lo aveva censurato». Le dimissioni di Simon potrebbero portare alla fine del governo di Garcia, dopo la crisi scoppiata per i due decreti sullo sfruttamento del suolo e sottosuolo nell’Amazzonia peruviana.
Tre mesi di scontri, blocchi stradali e morti. Tanti, da non tenerne il conto: forse 34 oppure, contando anche i desaparecidos, cento. Indigeni auto-organizzati contro indigeni in divisa, spediti dal governo di Simon per far rispettare «lo stato di diritto». Un diritto troppo vago. E troppe volte utile solo per le compagnie petrolifere o per le multinazionali farmaceutiche o agroalimentari. «È l’intera legislazione peruviana da cambiare - continua Espinoza - L’idea coloniale di concedere per legge lo sfruttamento della terra, della nostra Pachamama, è un’idea datata. Nessun uomo può sfruttare la terra, ma solo accudirla. Smettiamo di parlare solo di risorse e iniziamo a parlare di vita».
Gli ultimi dati che arrivano da Lima sono chiari: su 70 milioni di ettari dell’Amazzonia peruviana, oltre 50 milioni sono stati concessi a compagnie petrolifere. La metà delle comunità indios vive su territori che, per lo Stato, non appartengono a loro. E ci vivono da ben prima del 1492.
Il 5 giugno, lo scontro ha portato alla morte di 34 persone e al ferimento di quasi 200 a Bagua Chica (700 kim dalla capitale Lima). È stato il punto più alto della crisi. Poi, le dimissioni di venerdì notte. «Le società sono pronte a cambiamenti strutturali - è la convinzione di Espinoza - dobbiamo lottare per un raffreddamento della terra. E lo Stato non può più negoziare lo sfruttamento in nome del popolo. Altrimenti, avremmo dimostrato di fare come il cane del contadino: abbaia e basta. No: noi abbaiamo per poter mangiare e per far mangiare tutti».
L’immagine del cane del contadino sta sostituendo quella del cortile di casa, quella imposta negli anni 60 dalle amministrazioni a stelle e strisce per tutto il subcontinente. Alan Garcia è rimasto solo ad accusare Evo Morales (Bolivia), Hugo Chavez (Venezuela) e Fidel Castro (Cuba) di manovrare gli indios peruviani. Da Washington, Barack Obama ha condannato le violenze ma non ha preso partito.
«È arrivato il momento anche per questo che la sinistra italiana chieda l’espulsione di Garcia dall’Internazionale socialista. È una vergogna», è la proposta della Caoi.
Per lo scrittore peruviano più famoso al mondo, e noto politico conservatore, Mario Vargas Llosa, quella degli indigeni andini e amazzonici è solo una «vittoria di Pirro». Per il perenne candidato al Nobel, una cosa è certa: «I 332mila nativi amazzonici, secondo il censimento del 2007, divisi in 15 gruppi etno-linguistici, con più di 70 dialetti, continueranno ad essere i cittadini più poveri e sfruttati del Perù, quelli che riceveranno peggiore educazione, con meno opportunità di lavoro e con le peggiori aspettative di salute e vita di tutto il paese. Se non è questa una vittoria pirrica, cos’altro lo è?». Già: cos’altro lo è?
«Non siamo indios e basta. Siamo cittadini. E il motto dei movimenti indigeni è “nessun diritto solo per gli indigeni. Parliamo per tutti, non solo per razze o etnie”», dice il portavoce del Caoi.
In tre mesi, il movimento peruviano è riuscito a non farsi azzittire, cambiando leader ma non cambiando l’obiettivo della lotta: una nuova legislazione dell’uso della terra. Prima c’era Alberto Pizango, leader dell’Asociación Interétnica de Desarrollo de la Selva, ora in esilio in Nicaragua. Poi: Davi Kopenawa, una donna yanomani nata “forse” nel 1956.
Man mano che il neoliberismo si è andato affermando in tutto il subcontinente latinoamericano, per i movimenti indigeni è arrivata l’occasione di legare le proprie battaglie per la terra a quelle dei diseredati delle città. Non è stato facile. Lo zapatismo del subcomandante Marcos ha rappresentato il più alto livello di notorietà per la causa indigena. La repressione e i tempi lunghi della politica lo hanno ridimensionato: da fenomeno globale a fenomeno regionale. Una sconfitta? In parte, ma non totalmente se è vero che da quel 1994, gli altri movimenti indigeni hanno fatto tesoro dell’esperienza del Chiapas.
«La nostra non è una battaglia etnica o individualista - conclude Roberto Espinoza - lottiamo con le comunità di tutto il mondo, sulle Ande come in Italia. Lottiamo per chi vuol fermare lo sfruttamento che porta alla crisi economica e a quella della terra». E allora: la prossima settimana ci saranno 3 giorni di sciopero generale sulle Ande e in Amazzonia. Il cane da guardia ha deciso di dire la sua.

l’Unità Firenze 5.7.09
Identica la volta celeste nella cappella dei Pazzi e in San Lorenzo
Forse fu il giorno in cui giunse a Firenze Renato d’Angiò
Mistero nel cielo rinascimentale. Cosa accadde il 4 luglio 1442?
di Gianni Caverni


La domanda è tornata attuale dopo il restauro della scarsella della Cappella dei Pazzi, ultimato in questi giorni esattamente 567 anni dopo, grazie allo stanziamento di 70mila euro dell’Opera di Santa Croce.

Medici e Pazzi sotto lo stesso cielo. Si tratta certamente di uno dei più fitti misteri che ruotano intorno all’iconografia rinascimentale, la domanda è: cosa è successo il 4 luglio del 1442? Non vi sono risposte certe, solo ipotesi. Di certo c’è che il cielo raffigurato nella cupola della scarsella della Cappella dei Pazzi, appena restaurata e presentata ieri, proprio il 4 luglio di 567 anni dopo, e quello della Sacrestia vecchia di San Lorenzo sono assolutamente identici. Poco prima delle 11 di mattina di quel 4 luglio, senza la luce diffusa del cielo, guardando in alto ogni fiorentino avrebbe visto gli stessi astri rappresentati nelle due cupole dei due edifici brunelleschiani esattamente nelle stesse posizioni: ad affermarlo con certezza è Piero Ranfagni dell’Osservatorio astrofisico di Arcetri al quale è stata chiesta la consulenza scientifica. Come mai sia i Medici che i Pazzi hanno voluto che fosse rappresentato esattamente il cielo di quel giorno, che cosa di così importante era allora successo? Fu Isabella Lapi Ballerini, oggi soprintendente all’Opificio delle pietre dure, ad avanzare l’ipotesi che si potesse trattare del giorno nel quale arrivò a Firenze, cacciato da Napoli, Renato d’Angiò, che insomma soffiasse forte qui in quegli anni un “vento di crociata” che lo avrebbe visto protagonista. Restaurata con 70.000 euro stanziati dall’Opera di Santa Croce l’affresco della cupola presenta consistenti perdite pari circa al 50%, la parte rimanente è stata recuperata grazie all’intervento sapiente di Laura Lucioli e delle sue collaboratrici.

Repubblica 5.7.09
Lang Lang
di Leonetta Bentivoglio


Ho scoperto il pianoforte grazie a un cartone animato di Tom e Jerry Tom suona Liszt, Jerry fa di tutto per impedirglielo Irresistibile, lo ricordo ancora alla perfezione
Ha cominciato a due anni, a nove un´insegnante gli consigliò di lasciar perdere. Ora, a ventisette, è il concertista più richiesto al mondo, osannato da milioni di fan anche giovanissimi Il ragazzo che ama i videogiochi, si veste come un´icona pop e che in America chiamano Bang Bang confessa: "La vostra musica per noi cinesi è fresca e nuova, e una sinfonia di Mahler si ascolta come una scoperta"
Sembra che la musica gli viaggi dentro il corpo. Suonando ne segue il flusso con la testa, le spalle, la schiena. S´allunga, si ritrae, strizza e spalanca gli occhi. Sfiora la testiera e la possiede per intero. Senza sbavature, pare un prodigio telecomandato. Poi s´accanisce, vi s´infrange. Ha una tecnica da acrobata del pianoforte e un´apertura di mani straordinaria, capace di coprire dodici tasti: un pianista "normale" ne cattura dieci. «Suona come un gatto con undici dita», ha detto di lui Daniel Barenboim.
Il gatto-acrobata è Lang Lang, fenomeno di culto planetario. Idolo nella sua Cina, dove entra sul palco circondato da venti body-guard e al ristorante può mangiare solo se protetto da un paravento, è stato inserito da Time nella lista delle cento persone oggi più influenti al mondo ed è l´unico tra i musicisti classici a occupare stabilmente le hit parade del pop. Milioni di fan lo venerano, come testimoniano i contatti raccolti dai due siti accessibili a suo nome: www. langlang. com e www. langlang-fanclub. com. Clicchi e dentro ci trovi tutto su di lui, persino la mappa della città in cui nacque nell´82, Shenyang, capitale della provincia di Liaoning, con indicazioni sulla casetta di famiglia nella quale venne al mondo, come fosse Gesù o Michael Jackson.
E poi vezzi, manie, flash delle sue apparizioni in tivù nel programma di Oprah Winfrey, sarti e parrucchieri preferiti, dichiarazioni amorose in più lingue lanciate da adoratori di ambo i sessi, oroscopo cinese, discografia di ampiezza sterminata per un ventisettenne e naturalmente la sua storia e i suoi precoci traguardi: «Ho cominciato a suonare a due anni», racconta il divo globale seduto in un camerino dell´Auditorium del Parco della Musica di Roma, dov´è stato protagonista di un intero festival programmato da Santa Cecilia. «Ho scoperto il pianoforte grazie a un cartone animato di Tom e Jerry, The Cat Concert. Tom suona la Seconda Rapsodia Ungherese di Liszt, Jerry fa di tutto per impedirglielo. Irresistibile, lo ricordo ancora alla perfezione. Decisi che da grande avrei fatto il pianista, e avevo cinque anni quando suonai in pubblico per la prima volta».
Ciò che seguì lo deve anche alla determinazione e allo spirito di sacrificio dei suoi genitori: «Mio padre, Gorin Lang, lasciò il lavoro per portarmi a studiare al Conservatorio di Pechino, e mia madre restò a Shenyang per lavorare e mantenerci. Ero confuso e spaesato nella grande città, mi consideravano un outsider e un provinciale. Avevo poco più di nove anni quando un´insegnante mi spinse a lasciare lo studio della musica: proprio non sei portato, mi disse, e per me fu un trauma spaventoso. Per fortuna tenni duro, a tredici anni vinsi la Ciaikovskij International Young Musician´s Competition in Giappone e ottenni una borsa di studio per il Curtis Institute di Filadelfia». Il bello è che di recente, quando ha ricevuto il titolo di professore onorario al Conservatorio di Pechino, la maestra che lo tormentò con quel verdetto «era seduta nel salone delle cerimonie ad applaudirmi in prima fila, come se niente fosse».
Da quel soggiorno di studio a Filadelfia («dove andai con mio padre, e finalmente avevo un piano Steinway a coda per me soltanto, e non dovevamo più preoccuparci del modo in cui trovare i soldi per l´affitto») ha preso il via l´ascesa che lo ha trasformato nel più richiesto concertista del panorama classico odierno. La carriera esplose nel ‘99, quando sostituì all´ultimo momento André Watts al Ravinia Festival suonando il Concerto per pianoforte di Ciaikovskij con la Chicago Symphony e Cristoph Eschenbach. Fu un tale successo che in pochi mesi le principali orchestre americane se lo contendevano, e in Europa così come in Oriente prese a montare veloce la sua stella.
Il fatto è che Lang Lang, oltre al mirabile talento, vanta una straordinaria abilità auto-promozionale. Ha colto in pieno lo spirito del tempo non solo nel look rockettaro, chioma gelatinosa, taglio a cresta e giacche marziali e trendy, ma anche nel suo proporsi come star virtuale, alieno sagomato nei meandri del computer. Grande cultore anche da adulto dei cartoni animati e dei videogiochi («sono un esperto di Transformers»), è stato il primo pianista a dare un concerto su Second Life, svoltosi nell´arena (virtuale) di Pangaea Island e organizzato per lanciare un suo cd beethoveniano: «Mi è piaciuto vedermi riflesso in un cartone, anche perché mi hanno fatto sembrare più alto», confessa ridendo. «Però la tecnica delle mani non era abbastanza precisa, nel campo dell´animazione si può fare di meglio». E ha animato vari eventi su YouTube, compreso un concerto in diretta dalla Carnegie Hall di New York.
È un gran sostenitore delle nuove tecnologie, «che non a caso sono state appoggiate e sfruttate dalle massime figure iconiche della musica, da Karajan a Bernstein e a Glenn Gould. Si sono sempre dimostrate utilissime per la diffusione di un´arte destinata a cambiare completamente, entro il prossimo decennio, i suoi canali per espandersi». E si dichiara felice che le vendite dei suoi album «avvengano al settanta per cento tramite downloads su iTunes, visto che i cd scompariranno presto, e in Cina già li considerano un reperto archeologico».
Al di là dell´efficiente pianificazione della propria ascesa, è innegabile che alla base del fenomeno Lang Lang ci sia una bravura formidabile. In cinese il cognome, Lang, significa uomo, mentre il nome, ancora Lang, vuol dire brillante, e se volete spiegazioni sulle due parole identiche chiedetele ai sinologi. Possiamo solo dirvi che Lang Lang equivale a Uomo Brillante. È lui a fornire tale traduzione, mentre la sua mamma giovane e bellissima, con pelle di porcellana, ci gira intorno silenziosa servendo tazze di tè profumato al gelsomino. Vedendo e ascoltando suonare in prova e in concerto l´Uomo Brillante, ci si rende conto che brilla veramente: ha un virtuosismo mozzafiato, capacità disumane. Ma anche prodezze spinte all´eccesso, espresse in cambi di marcia inattesi, scarti repentini, "pianissimi" come bisbigli e "forti" così esplosivi che in America lo chiamano Bang Bang.
Quando lo s´interroga sul rispetto della partitura, replica di sentirsi libero pur nella fedeltà al compositore: «Interpretare è provare a comprendere e comunicare ciò che va oltre il segno scritto. Non s´improvvisa come nel jazz, perché è impossibile modificare i percorsi: nella musica classica i confini dinamici e formali sono rigorosi. Ma anche restando all´interno di questa griglia esatta puoi esprimere sentimenti e offrire una visione personale. La partitura non dev´essere una prigione».
I suoi campioni sono i giganti del repertorio tradizionale, Bach, Mozart, Beethoven, Schubert, Schumann, Chopin, Liszt, Rachmaninov, fino a Ravel e a Debussy: «Amo la ricchezza armonica della musica classica occidentale così come si è sviluppata nei secoli, a un livello che considero tanto più profondo del pop», sostiene con slancio. «È la ricchezza armonica a imprimere al repertorio classico-romantico europeo uno spessore che secondo me manca alla più limitata musica orientale, o per lo meno che mi coinvolge tanto di più». Nell´ambito della musica "altra" è comunque il jazz il genere che più lo affascina e incuriosisce. Per questo il 13 luglio, all´Arena di Verona, con replica il 18 al Ravenna Festival, si esibirà col leggendario Harbie Hancock in un programma che include tra l´altro Rhapsody in Blue di Gerswhin in un arrangiamento per due pianoforti.
Tra un tour e l´altro e qualche rapidissima sosta nelle sue due dimore, una a New York e l´altra a Pechino («in realtà vivo negli hotel, non riesco a fermarmi più di un mese all´anno»), Lang Lang, che forse per la sua aria da magico cyber-folletto è un beniamino dell´infanzia, si adopera per promuovere l´insegnamento della musica classica nelle scuole primarie cinesi e non soltanto, e ha anche progettato uno speciale pianoforte Steinway a misura degli studenti più piccoli «che costa molto meno di un normale pianoforte, facilitandone l´acquisto ai genitori. In Cina il pianoforte, forse un po´ anche grazie a me, è diventato lo strumento più popolare tra i giovani: oggi si contano quaranta milioni di pianisti. Una valanga, una marea che continua a dilatarsi, alimentata anche dalla politica del figlio unico, che ha portato le famiglie a indirizzare tutti i loro sforzi verso l´educazione del figlio. D´altra parte anch´io non ho fratelli». E aggiunge che la musica classica occidentale è molto studiata e ascoltata nel suo Paese, «dove non c´è un gran divario con il pop, come tra voi europei, perché la vostra musica per i cinesi è fresca e nuova, e una sinfonia di Mahler si ascolta come una scoperta ed è anche un modo per ricollegarci a una cultura che per tanti anni è stata per noi misteriosa e lontana».

Corriere della Sera 5.7.09
L’inchiesta di Fabio Isman «I predatori dell’arte perduta»: un milione di oggetti trafugati
Perché l’archeologia clandestina rende più della droga
di Paolo Conti


«Sgombriamo il campo da un equivo­co: anche se si proclamano tali, i 'tombaroli' non sono archeologi. Non scavano per studiare ma distruggono per lucrare. Non individuano un sito per chia­rire cosa rappresenti, ma lo devastano per saccheggiarlo». Perché «un reperto può anche tornare», ma disgraziatamen­te «il suo 'contesto' è perduto per sem­pre ».

Basterebbe questo passaggio per spie­gare perché Fabio Isman, inviato speciale de «Il Messaggero», abbia dedicato gli an­ni più importanti e maturi della sua car­riera a uno sterminato filone, verrebbe da dire a una inchiesta durata anni: il sac­cheggio del nostro patrimonio artistico, la sistematica devastazione — operata dai famosi «tombaroli» con la complicità di mercanti internazionali privi di qualsi­asi scrupolo morale e a dirigenti di gran­di musei statunitensi fatti della stessa stoffa — di un retaggio culturale unico al mondo. Ora esce per i tipi di Skira questo I predatori dell’arte perduta. Il saccheg­gio dell’archeologia in Italia (pp. 222, e 19), sintesi del lungo e accurato impegno di Fabio Isman.
L’autore ha alle spalle altri anni profes­sionali vissuti nella cronaca nera, nel ter­rorismo. E il felice passo narrativo del vo­lume è veramente figlio dell’una e dell’al­tra esperienza. Perché sembra di immer­gersi in un thriller alla John Grisham (i lettori si rassicurino: nessuna barbosa di­gressione storico-artistica) che non la­scia spazio alla noia.
Storie di scavi notturni, di investigatori italiani colti e sagaci, di mediatori ricchi non solo di denaro (e di sterminati depo­siti in Svizzera) ma anche di contatti inter­nazionali ad altissimo livello. Perché tut­to questo? Semplice, spiega Isman: «Per­ché il reperto paga. Perfino più della dro­ga. E comporta assai meno rischi. Non si è mai visto, ad esempio, un cane fiutare un oggetto antico in un aeroporto. Scopri­re i predatori è più difficile che bloccare gli spacciatori».

Il triste risultato, come spiega il som­mario di copertina, è «un milione di og­getti trafugati e ricettati». Isman si diver­te, con amarezza, a tratteggiare i tipi uma­ni coinvolti. Per esempio la sfrontatezza di Giacomo Medici e di Bob Hecht, prota­gonisti indiscussi del mercato nero mon­diale di beni culturali, che si fotografano soddisfatti al Metropolitan di New York davanti alla teca che conservava il meravi­glioso Cratere di Eufronio, poi restituito all’Italia nel 2008 dopo una tesissima trat­tativa. Magari manca Indiana Jones. In compenso ci sono i nostri straordinari Ca­rabinieri della Tutela del patrimonio cul­turale. Chissà che un giorno anche loro diventino protagonisti di un film, magari ispirato a questo coinvolgente e avventu­roso volume. 



il Riformista 5.7.09
Il dilemma dell'Idiota e della vera intelligenza
Dostoevskij. Rappresentato a Villa Adriana, il principe Miskyn torna a inquietarci. E un grande romanziere lo sa fare meglio di un filosofo
di Filippo La Porta


Se non credi al male può anche accadere che il male che incontri si ritiri, ne sia svuotato dall'interno

Sicuri che quella che normalmente chiamiamo "intelligenza" sia davvero tale? A ben vedere si tratta di una mera tecnica di lotta e difesa, di un'arma utile alla sopravvivenza, forgiata nel corso dell'evoluzione umana. Rientrerebbe più volentieri in quella che Dostoevskij assumeva come intelligenza "secondaria" (soprattutto adattativa), da cui si distingue invece la più inafferrabile intelligenza "principale".
Meditavo su questo mentre la scorsa settimana nel teatro di Villa Adriana assistevo alla messinscena dell'"Idiota" di Dostoevski da parte di Eimuntas Nekrosius e degli attori del Meno Fortas Theater di Vilnius. Il regista lituano non tanto rilegge o approfondisce Dostoevskij quanto evidenzia magnificamente la sostanza teatrale e visionaria del romanzo. E poi la sua drammaturgia del movimento sottolinea la drammatica fisicità dei personaggi dostoevskijani, che esprimono la propria verità quanto più si allontanano dalla parola e dalla logica.
Il protagonista, il principe Myskin, torna a Pietroburgo dopo un periodo trascorso sulle montagne svizzere per curarsi la malattia di nervi. Sia nel romanzo che sulla scena è il centro magnetico verso cui ogni cosa, ogni persona converge irresistibilmente, senza però mai veramente afferrarlo. È lo straniero (etimologicamente "idiota" sta per "distinto", "separato"), un giovane bellissimo, biondo, dalla bellezza delicata, quasi angelica, colui che viene in città, nel mondo degli adulti, dopo un lungo periodo di esilio volontario, in cui ha fraternizzato soltanto con la natura alpina incontaminata e con i fanciulli. Ingenuo e seduttivo, sprovveduto ma emanante un'aura sacra (soffre di epilessia), innocente e urtante, asociale e "puro folle".
L'idea poetica di Dostoevskij era quella di inventare un personaggio "assolutamente buono", e che non risultasse comico, come Falstaff e don Chisciotte. Piuttosto: vicino al Cristo stesso e alla variegata famiglia di stolti e giullari di Dio della tradizione cristiana medievale. Nekrosius dà giustamente rilievo alla scena in cui principe Myskin, ospite d'onore di una cena mondana che festeggia il suo ritorno, ha un unico momento di insofferenza concitata, quasi violenta: si scaglia infatti contro la Chiesa cattolica, come l'Anticristo, a cui contrappone un sentimento religioso autentico, radicale, fondato sul misticismo e sulla preghiera. Lo scrittore russo non intende convertirci a questo sentimento. Non è un predicatore né un teologo. Ci invita piuttosto a partecipare a uno straordinario test esperienziale: attraverso l'identificazione emotiva e intellettuale con il personaggio ci permette di vivere direttamente le conseguenze pratiche di quel tipo di visione del mondo. In ciò la letteratura può rivendicare un primato sulla filosofia: tratta sempre idee incarnate, ritratte in situazione. Per questo motivo pretendere di parlare oggi di Dio, di religione, di morale, senza confrontarsi con il grande romanzo moderno - unica, concreta mediazione con il mondo antico, con la tradizione, con esperienze e sapienze arcaiche - mi sembra quantomeno velleitario. L'eticità della letteratura, di cui si parla un po' enfaticamente, coincide con il suo stesso valore conoscitivo. Dostoevskij non dice che Myskin ha ragione, non lo propone come modello pedagogico e utopia edificante. E anzi la sua figura mantiene sempre una alterità disturbante. Piuttosto lo scrittore ci mostra con esattezza come vive e come si comporta, come reagisce alle situazioni, quali effetti contraddittori ha sulle altre persone chi pensa e sente come Myskin. Si potrebbe dire che la letteratura è l'unica scienza di cui disponiamo - benché ipotetica, provvisoria - sulle complicate relazioni tra idee vissute e destini individuali.
A contatto con la vita sociale l'"idiota" è una mina vagante: fa domande sconvenienti, non si trattiene, mette in imbarazzo gli interlocutori. Invitato a una festa sembra uno dei fratelli Marx: rompe il vaso cinese prezioso, dice cose sempre un po' esagerate… Con i suoi interlocutori ravvicinati ha una funzione involontariamente maieutica, ne rivela l'anima, ma al tempo stesso li esaspera. L'estremo della buona fede (non fa mai calcoli) può coincidere con l'estremo della malafede! Ad esempio: ama in modo equanime due donne, Aglaja e Nastas'ia Filippovna, e perciò non ama davvero nessuna delle due, e così le scontenta entrambe. Mi ricorda il personaggio del prete Nazarin, nell'omonimo film di Bunuel, che volendo imitare Cristo e fare il bene rende tutti infelici e aggrava i conflitti. Myskin è impotente di fronte al male sociale. Il romanzo ci racconta il suo fallimento. Nell'ultima scena sprofonda di nuovo, e forse per sempre, in una mite, buia follia. Ed è il fallimento di Cristo, che quando torna sulla Terra, in un racconto compreso nei "Karamazov", si sente dire dal Grande Inquisitore che l'umanità non cerca il libero arbitrio ma vuole obbedire a una autorità terrena, come la Chiesa, cinicamente fondata sul mistero e animata da un ateismo pragmatico.
Eppure nel romanzo c'è altro, e questo altro è affiorato anche sul palcoscenico spoglio di Villa Adriana, nella gestualità espressionista e straniata degli interpreti, ad esempio in quel bellissimo sogno mimato dall'interprete principale. Ho letto l'"Idiota" durante un'estate a venticinque anni, per giunta con quella ansiosa paura di morire di lì a poco che a volte si recitano gli adolescenti, un po' per gioco e un po' per darsi importanza…. Ricordo però che speravo di sopravvivere almeno fino alla fine del libro! Sentivo infatti che si trattava di una lettura per me decisiva, che quel romanzo - certo imperfetto - era il più eversivo di tutti! È vero che Myskin viene sconfitto, che non riesce a costruire una comunità ispirata ai suoi valori. Ma, a ben vedere, una diversa "comunità" esiste solo nel gesto gratuito, misterioso con cui permettiamo all'altro di esistere per un momento. Consiste in una carità e apertura spontanea, nello slancio assolutamente libero e ispirato (religioso?) con cui ristabiliamo la fraternità - quasi sempre nascosta - tra le creature. Ce ne è per caso un'altra, di comunità possibile, in qualche piega della Storia?
Myskin non giudica nessuno e soprattutto la sua fede ha un corollario inevitabile: non crede al male. Singolare presa di posizione. Il contrario esatto della modernità, che invece non crede alla bontà, e anzi ne diffida, la considera una maschera o tutt'al più una tattica. Ora, se non credi al male, se ritieni che il male sia solo una sovrastruttura, una forma deviata o pervertita di amore eccetera può anche accadere che il male che incontri si ritiri, ne sia svuotato dall'interno. Quando Myskin scorge il brutale Rogozin che nel buio si appresta a ucciderlo con il coltello grida una frase: «Non ci credo!», prima di cadere in una crisi epilettica. E allora Rogozin si blocca. La sua aggressività viene come decostruita e smontata. Myskin non cambierà il mondo (chi può farlo?). Però ne ha interrotto per un attimo la inesorabile pesanteur morale, la sua greve necessità.
Aglaja al principe: «Benché siate malato di nervi l'intelligenza principale, la vera intelligenza è in voi migliore che in tutti gli altri…». Torno all'interrogativo iniziale. Di cosa parliamo quando parliamo di intelligenza? In cosa consiste quella "vera intelligenza" di cui oggi abbiamo quasi perduto memoria e che forse nell'immediato non serve a nulla? Empatia, intuito psicologico, sensibilità, attenzione disinteressata, assenza di pregiudizi, e anche una "visione" imparentata con la bontà… Dostoevskij, che è un romanziere e non un filosofo, evita saggiamente di definirla. Però ce la rappresenta.


il Riformista 5.7.09
Gli Iris di Monet
Un originale che batte le copie
di Emanuele Trevi


RISCOPERTA. Dal dentista, dal commercialista, sulle tazze. Come i Simpson, le celebri ninfee del francese sono oramai dappertutto. E le loro stampe contemporanee, a volte, sembrano più emozionanti dei dipinti. Un caso simile alla proustiana sorgente della Vivonne. Ma gli "Iris gialli" esposti nella mostra di Milano dedicata al pittore impressionista sfatano anche questo (falso) mito.

Tra le centinaia di ninfee dipinte da Claude Monet nel suo giardino a Giverny, ce n'è una che per me possiede una serie di significati tanto arbitrari quanto indelebili. La riproducibilità tecnica dell'opera d'arte, fenomeno di per sé abbastanza innocuo, è pure in grado di suscitare alcune forme notevoli di demenza contemporanea. Mollemente adagiata sull'acqua del celebre stagno creato dallo stesso Monet, questa ninfea, protetta dalla sua brava montatura a giorno, di quelle che si comprano all'Ikea, fa la sua porca figura su tre pareti a me ben note. La contemplo nella sala d'aspetto del mio dentista e in quella del mio commercialista. E spunta da dietro le spalle del mio analista, caricandosi di impervie e imbarazzanti implicazioni simboliche. Insomma, quell'insigne invenzione pittorica si è indebitamente infiltrata nella mia vita associandosi ai suoi tre aspetti più temibili e sgradevoli: l'igiene dentaria, il pagamento delle tasse, l'interpretazione dei sogni.
E così come il Wilhelm Meister di Goethe scopre l'esistenza di una Società della Torre che per lungo tempo ha sorvegliato le svolte del suo destino, così io sospetto che un misterioso e ambiguo Ordine della Ninfea presieda in modo occulto alla mia vita, facendo di me la cavia di chissà quale stolto esperimento. Quanto alla ninfea di Monet, e alle sue innumerevoli sorelle, le loro epifanie non si arrestano certo ai poster negli studi dei professionisti. Gli Impressionisti, e in particolare Monet, contendono a Snoopy e alla famiglia Simpson il primato dell'ubiquità riproduttiva, per chiamarla in qualche modo. La loro opera si adatta alla perfezione alle più diverse superfici, ai più svariati materiali: copertine di quaderni, asciugamani, calendari, piatti e tazzine, magliette. Sono sicuro che qualche buontempone è riuscito a stampare le ninfee di Giverny sull'esile membrana plastica dei preservativi. Si potrebbe, in fin dei conti definire una mostra di Impressionisti come quell'esposizione di opere d'arte nella quale il cosiddetto bookshop è la sala più importante.
Nel folto di questo sciame di copie, cosa ne è del vecchio, austero, lievemente ridicolo originale? Può esistere ancora attorno ad esso non dico un'aura, ma almeno un piccolo dramma psicologico, un lieve sussulto, un'emozione primaria benché fuggitiva? Immaginate la mia sorpresa e il mio sconcerto l'altro giorno quando, passeggiando oziosamente a Milano, dalle parti del Duomo, vedo sventolare sulla facciata di Palazzo Reale lo striscione di una mostra dedicata a Monet e intitolata Il tempo delle ninfee, aperta fino al 27 settembre (catalogo Giunti, a cura di Claudia Beltramo Ceppi). Sogno o son desto? Per soli nove euro, dunque, potrò contemplare l'originale di quelle copie di cui raccontavo - l'odontoiatrica, la psicanalitica, la fiscale! Ma certo, è proprio quella che occhieggia invitante nel manifesto della mostra!
Non so spiegare perché, ma la prospettiva di conoscere questo originale, questo sottilissimo ago nel pagliaio delle sue copie, mi turbava e mi eccitava tanto da farmi procedere quasi di corsa sul severo scalone neoclassico di Palazzo Reale, timoroso di trovare la biglietteria già chiusa. Visto che stiamo parlando di Impressionisti, i lettori mi consentiranno a questo punto una piccola digressione letteraria ispirata a Proust. I lettori della Recherche ricorderanno bene come, tra i ricordi di Combray, il narratore faccia posto alle fervide fantasie sulla sorgente della Vivonne, immaginate come qualcosa di non meno straordinario che la porta degli Inferi. E invece, una volta arrivati fin lì, non si tratta che un semplicissimo «lavatoio quadrato», che di stupefacente ha solo la sua capacità di generare delusione. Ebbene, la mia ninfea originale, in fin dei conti, non ha potuto che produrre lo stesso effetto. Riprodotta sulla carta da poster, e inguainata nel plexiglas dell'Ikea…posso dirlo?...ebbene, sembrava più bella, più viva! Il sottile Proust aveva tutta l'aria di riproporre un'ennesima volta il vecchio tema romantico del conflitto tra l'immaginazione e l'esperienza reale. E invece, spirito profetico quale era, aveva di mira il mondo, ormai rigoglioso ai suoi tempi, delle copie e dei simulacri. In questo mondo, che è il nostro mondo, ogni originale è una misera source de la Vivonne.
Quello che invece nemmeno le più visionarie profezie di un Philip Dick o di un William Gibson avrebbero mai potuto contemplare, è un costume che osservo la prima volta in questa mostra di Monet. Tanto per cominciare, mi accorgo di essere l'unico a visitarla senza guida. Tutti gli altri visitatori, come fossero in un box della Formula Uno, indossano le loro cuffie. All'inizio, penso che sia uno di quei nastri registrati, dove ti dicono fermati qui, contempla questo paesaggio, ammira quest'azzurro, passa all'altra parete, e così via fino all'uscita. E invece, si tratta di ben altro: i visitatori, divisi in piccoli gruppi, ascoltano qualcuno che parla per davvero, ma grazie alle cuffie, può limitarsi a sussurrare tutte le informazioni nel suo microfono, senza disturbare il prossimo e gli altri ciceroni. Come un pifferaio magico, come il Mangiafuoco di Collodi, ognuna di queste guide sussurranti si porta di qua e di là il suo piccolo gregge, legato da fili invisibili. Un'invenzione degna della grande e compianta Pina Bausch, una specie di coreografia didascalica non priva di un suo involontario fascino surrealista.
Già, ma in cosa consistono le informazioni da fornire al pubblico su queste ninfee, su questi rami di glicine curvi sotto il peso della loro fioritura, su questi ponticelli giapponesi che emergono con la loro arcuata perfezione dal folto della verzura? Approfittando della mia condizione di senza cuffia, saltabecco da un cicerone all'altro, tutti giovani, bene informati, attenti a non accavallare le loro onde sonore a quelle dei colleghi. Si parla di teoria della visione e malattie oculistiche, di colori che colano dall'alto invadendo e saturando lo spazio della tela, di variazioni simultanee dello stesso soggetto, necessario a cogliere i minimi trapassi del tempo e delle condizioni atmosferiche. Si riportano i giudizi dei maestri dell'Astrattismo, che senza Monet non avrebbero saputo da dove iniziare. Un ragazzo legge un bellissimo pezzo di un saggio di Gaston Bachelard, grandissimo filosofo ahimé ormai del tutto sconosciuto al di fuori delle cerchie di iniziati. Non riesco a sfuggire a queste notizie, al loro fascino di informazioni puntuali, separate dalla continuità del ragionamento. Ulisse di me stesso, per sfuggire a queste Sirene informative dovrei colarmi cera fusa nelle orecchie - e a che pro? Si imparano tante cose e poi, quando viene il momento, l'Arte (sì, quella con la maiuscola) impone il silenzio, come l'antico sacerdote al culmine della celebrazione dei Misteri.
Arrivato all'ultima sala, mi cade lo sguardo sugli Iris gialli del Musée Marmottan: opera della vecchiaia, terminata nel 1925, e dotata dell'arcana seduzione del testamento, dell'illuminazione estrema, della fin de partie. Gli iris crescono in un'erba folta, dipinta come se a guardarla fosse qualcuno steso per terra, ubriaco o ferito come nelle grandi battaglie di Tolstoj. Sopra l'erba, un cielo capriccioso, attraversato da bianche nubi primaverili, soffici e sfrangiate. Tutto così semplice e così perfetto: è la danza di due colori dalle opposte implicazioni psicologiche, il giallo dei fiori, concentrato di vitalità, e il malinconico azzurro del cielo. In virtù di un corto circuito improvviso della memoria, mi viene il mente che sono i colori del frac e del gilet preferiti dal giovane Werther, che li indossava il giorno che conobbe la sua Lotte e con quel vestito volle farsi seppellire. E basta questo quadro per farmi arrendere, e deporre ogni ironia: saranno pure le Cenerentole dell'arte, questi originali, ma sono ancora capaci di farti dei regali, se solo sei disposto ad accettarli, che nessuna maglietta, tazzina, calendario o poster può permettersi.