Creato in laboratorio lo sperma artificiale Verrà usato per curare l´infertilità maschile
Se l’uomo diventa inutile (o quasi) per fare i bambini
di Elena Dusi
Scienziati prudenti I gameti derivati non sono sicuri: per ora non si fanno fecondazioni
Ma lo spermatozoo sintetico non pare essere molto veloce Dinanzi a un ovulo potrebbe fare flop
Dal sesso al laboratorio: gli scienziati inglesi dell´università di Newcastle hanno creato il primo spermatozoo artificiale. La riproduzione fa così un altro passo dalla camera da letto verso la provetta. E anche se le prime reazioni all´esperimento inglese -che partendo da una cellula staminale embrionale umana è riuscito a far maturare uno spermatozoo in laboratorio - salutano un futuro in cui l´uomo non sarà più indispensabile per la fecondazione, a leggere bene i dati si scopre che la realtà è esattamente l´opposta.
Quando infatti le cellule staminali di partenza sono state ricavate da un embrione di sesso maschile - spiega la rivista Stem Cells and development, che ha pubblicato lo studio - ne è nato uno spermatozoo in grado di fecondare una cellula uovo. Le staminali di sesso femminile al contrario si sono arrestate alle prime tappe del processo di maturazione del gamete maschile, troppo lontane dalla metà per promettere alle donne un futuro di indipendenza dal punto di vista riproduttivo. Dal piccolo e gracile cromosoma Y, caratteristico del sesso maschile, allo stato delle conoscenze attuali non si può dunque prescindere per far nascere un cucciolo d´uomo.
Lo sperma ottenuto in laboratorio in Gran Bretagna non verrà usato per fecondare alcun ovulo, perché le leggi inglesi non lo permettono. Quando il processo di maturazione di una cellula si svolge completamente fra vetrini e brodi di coltura, è possibile che nel Dna si creino dei danni e il bambino nasca con dei difetti gravi. E la Human fertilisation embryology authority, cui sono affidati questi temi di ricerca in Gran Bretagna, in questo caso sceglie di derogare al suo notorio liberalismo: «Il livello di sicurezza dei gameti derivati in vitro è sconosciuto. Gli scienziati temono che il processo davvero complesso che porta alla loro creazione possa causare delle anomalie nei cromosomi o altri gravi difetti genetici».
Gli spermatozoi artificiali di Newcastle, hanno notato anche i loro "papà" in camice bianco, non hanno la stessa motilità, o "vivacità", di quelli normali e c´è il sospetto che di fronte a una vera cellula uovo (quella sì, impossibile da ricreare in laboratorio) finiscano col fare flop. «Il nostro obiettivo è capire in dettaglio cosa avviene quando uno spermatozoo si forma. Abbiamo bisogno di conoscere le cause dell´infertilità maschile per arrivare a curarle» ha spiegato Karim Nayernia, professore di genetica umana e leader dell´équipe dell´università di Newcastle. Nuovi esperimenti e il progredire delle conoscenze potrebbero comunque avvicinarci alla creazione di uno spermatozoo in vitro abbastanza sicuro da consentire la fecondazione di un ovulo. Per questo la Human fertilisation authority non chiude nessuna porta davanti a sé, prevedendo che «tra 5-10 anni lo sperma prodotto in vitro potrà forse essere usato per risolvere problemi di infertilità».
Mentre in Gran Bretagna la ricerca sulle "cellule bambine", in grado di trasformarsi in qualunque tessuto dell´organismo, procede a buon ritmo, martedì gli Stati Uniti hanno varato le loro nuove linee guida per l´utilizzo delle staminali embrionali. Il presidente Barack Obama aveva annunciato un´apertura rispetto alla rigida legislazione del predecessore George W. Bush. E il nuovo regolamento prevede in effetti l´erogazione di finanziamenti pubblici per ricerche che usano gli embrioni abbandonati nelle cliniche delle fertilità, oltre a facilitare l´importazione di queste cellule dall´estero. Continua però a negare fondi agli esperimenti in cui le staminali siano state ricavate da un embrione creato ad hoc e poi distrutto esclusivamente per scopi di ricerca. Si stima che le linee di cellule usate dalla scienza Usa possano aumentare da circa sessanta a diverse centinaia. La prossima volta che sentiremo parlare di spermatozoi artificiali, forse, non è un istituto inglese che dovremo citare, ma un gruppo di scienziati americani.
Corriere della Sera 9.7.09
Se si riescono a realizzare gameti, presto ci si può attendere qualsiasi cellula in laboratorio
Il risultato all’università britannica di Newcastle usando cellule embrionali umane
Creati spermatozoi da staminali
È la prima volta nella storia: servirà a curare l’infertilità
di Simona Ravizza
MILANO — Spermatozoi fabbricati in laboratorio contro la sterilità. Li hanno prodotti i ricercatori della Newcastle University partendo da embrioni donati da coppie che si sono sottoposte alla fecondazione assistita. Lo sperma è stato creato dalle cellule staminali maschili. È la prima volta nella storia. Il procedimento prevede una coltura delle cellule in una speciale soluzione chimica che permette di identificare quelle germinali (normalmente contenute nei testicoli), utilizzate, poi, per innescare il processo riproduttivo. È una scoperta considerata rivoluzionaria: gli studiosi britannici, guidati da Karim Nayernia, sperano entro dieci anni di potere inserire la tecnica tra le cure anti-sterilità. La ricerca — svolta in collaborazione con il NorthEast England Stem Cell Institute — è stata pubblicata dalla rivista scientifica Stem Cells and Development. Per arrivare alla creazione dello sperma ci vogliono dalle quattro alle sei settimane. Per documentare la sperimentazione l’équipe di Nayernia ha prodotto anche un video. La convinzione è che gli spermatozoi creati in laboratorio — pur non essendo perfetti — abbiano tutte le qualità fondamentali per il processo riproduttivo. Lo hanno sopranominato «sperma derivato in vitro» (vitro derived sperm). «È un passo in avanti importante — dice Karim Nayernia —. Così potremo studiare con precisione come nascono e si evolvono gli spermatozoi. Non solo: una maggior conoscenza del seme maschile ci permetterà di capire meglio le cause dell’infertilità e di aiutare con nuove cure le coppie in cerca di un figlio». Il ricercatore esclude, comunque, un utilizzo diretto degli spermatozoi prodotti in laboratorio nella fecondazione assistita. Per il genetista Carlo Alberto Redi, direttore scientifico del Policlinico San Matteo di Pavia, si apre uno scenario rivoluzionario per la cura della sterilità: «L’importante è dotarsi di una cornice normativa che allontani perplessità etiche. Potrebbero aprirsi casi da giallo poliziesco: un graffio in un uomo potrebbe bastare, infatti, per utilizzare il suo sperma e avere un figlio senza neppure il suo consenso. Ma la ricerca non va fermata. Sarebbe miope e controproducente bloccare gli studi solo per timore». Spiega Guglielmo Ragusa alla guida dell’Unità di riproduzione assistita dell’ospedale San Paolo di Milano: «Lo Human Fertilization and Embryology Act del 2008 vieta di usare sperma e ovuli artificiali contro l’infertilità. In teoria, però, gli spermatozoi creati in laboratorio potrebbero servire per fare avere figli a pazienti azospermici, quelli per i quali non è possibile recuperare gli spermatozoi neppure chirurgicamente. Lo stesso potrebbe valere per i giovani che hanno perso la capacità riproduttiva dopo essere stati malati di cancro e per i pazienti con problemi genetici o cromosomici a livello dello spermatozoo. La scoperta, comunque, non è di applicazione immediata». Non mancano le voci critiche. Robin Lovell-Badge, esperto in spermatozoi del National Institute for Medical Research di Londra, storce il naso: «Anche se hanno la coda e possono nuotare non vuol dire che questi spermatozoi siano normali». Ma non finisce qui. I ricercatori della Newcastle University non escludono in futuro di poter creare sperma in laboratorio con l’utilizzo di staminali solo femminili. Così una donna potrebbe avere un figlio senza alcun contributo maschile. Ma questa è ancora fantascienza. Almeno per il momento.
Corriere della Sera 9.7.09
E ora il maschio non è necessario
di Edoardo Boncinelli
Sembra che con cellule staminali di buona qualità e con gli opportuni trattamenti si possa fare proprio tutto.
Anche i gameti, cioè le cellule della riproduzione, che sono poi gli spermatozoi per i maschi e le cellule-uovo per le donne. L’ultima notizia è appunto la produzione di sperma maschile a partire dalle staminali. E se si riescono a fare gameti, ci si deve attendere di sapere fare presto qualsiasi tipo di cellula. I gameti sono infatti cellule molto particolari, sia per la loro costituzione che per le loro proprietà. Contengono solo la metà del patrimonio genetico dell’individuo che li produce e la metà dei suoi cromosomi: 23 invece di 46. Ciò è necessario perché il prodotto della fecondazione di una cellula-uovo da parte di uno spermatozoo dia un individuo normale, maschio o femmina che sia, e non un mostro. Questo individuo dovrà avere infatti il suo canonico corredo di 46 cromosomi, dei quali 23 verranno dallo spermatozoo del papà e 23 dalla cellula-uovo della mamma. I gameti sono perciò cellule «alleggerite» e semplificate, ma senza improvvisazione: tutto deve essere sistemato e in ordine. È necessario quindi un tipo molto particolare di moltiplicazione cellulare per passare da una cellula del corpo a un gamete. Mentre il normale processo di moltiplicazione cellulare si chiama mitosi, quello che porta alla produzione dei gameti si chiama meiosi (meion in greco significa «meno» e comporta infatti, come abbiamo appena detto, una riduzione del numero dei cromosomi nelle cellule prodotte). Non si può arrivare ad un gamete se non passando per una meiosi e questo è evidentemente quello che è avvenuto nelle cellule coltivate dai ricercatori di Newcastle, che così hanno ottenuto spermatozoi in quantità. Ma non è tutto qui. I gameti devono essere vitali e «vispi», soprattutto gli spermatozoi. Per poter parlare, come è stato fatto, di sperma vitale, si deve controllare che gli spermatozoi che lo compongono abbiano tutto in ordine ed essere capaci di maturare. Durante il loro eventuale «viaggio» all’interno dell’utero infatti gli spermatozoi devono acquisire certe capacità fisiologiche, nel quadro di un processo di maturazione che prende il nome di capacitazione. Evidentemente gli spermatozoi prodotti hanno superato tutte queste prove o, più verosimilmente, promettono di superarle presto. Gli stessi ricercatori parlano di un periodo di prova di una diecina di anni. A quel punto si potranno fare spermatozoi vitali dalle cellule del corpo di un maschio con problemi di sterilità, cosa più volte ventilata, ma per ora mai realizzata. Non è nemmeno necessario partire da cellule maschili, perché, anche partendo da cellule staminali femminili, la meiosi assicura comunque la presenza di un cromosoma X. Con gli spermatozoi così ottenuti non si potranno fare maschietti, ovviamente, ma femminucce sì. E non è nemmeno detto. Nascere e crescere resta un problema, ma sempre più semplice via via che il tempo passa e la scienza avanza.
Corriere della Sera 9.7.09
La sagrestia di Lambach, in Alta Austria, custodisce il segreto
Ecco la svastica che ispirò Hitler
di Vittorio Messori
Il futuro dittatore frequentò qui la terza elementare. I religiosi hanno interdetto l’accesso per impedire il pellegrinaggio di nostalgici. Quando i nazisti soppressero le case monastiche venne risparmiata solo quella
Per penetrare nel luogo proibito, ho dovuto giocare la carta del riconoscimento, mostrando il passaporto e alcune pubblicazioni recenti che avevo con me. Ho superato così la diffidenza del monaco guardiano, fortunatamente lettore delle traduzioni tedesche dei miei libri. Affidato a un sagrestano e aperta la grande porta barocca chiusa a chiave, mi sono stati concessi pochi minuti per scattare qualche istantanea con la mia macchinetta automatica. Alla fine, l’esortazione a «far buon uso» del privilegio accordato a me e negato categoricamente a tanti altri, da molti anni.
Tutto questo per accedere alla sagrestia di una chiesa non solo aperta al pubblico ma anche assai frequentata, essendo al contempo parrocchia e tempio della grande, antica abbazia di Lambach, nell’Alta Austria. Un monastero che, nella sua vita millenaria, ha vissuto anche una esperienza singolare: durante l’anno scolastico 1897/98 ospitò, per la terza classe elementare, un bambino di otto anni originario di Braunau am Inn. Bambino disciplinato, dal visetto grazioso (come mostra la ancora esistente foto della classe) ma ostinato e introverso. Il che non gli impedì di essere un diligente chierichetto e un buon elemento della corale di voci bianche, nonché un allievo attento delle lezioni di violino impartitegli da un Padre benedettino. Dopo l’aula della scuola nell’abbazia, la maggior parte del suo tempo lo trascorse, quell’anno, proprio nella sagrestia ora interdetta ai visitatori. Lì, infatti, aiutava i sacerdoti celebranti a indossare e a togliere i paramenti liturgici, lì lavava e riempiva le ampolle per l’acqua e per il vino, lì sistemava arredi e vesti negli armadi. Lì si radunava con gli altri bambini, ogni sabato pomeriggio, per le prove dei canti per la messa grande domenicale e si esercitava per le melodie previste per matrimoni, funerali, feste liturgiche varie. Ebbene, quel vasto ambiente barocco è dominato da una sorta di grande cenotafio in marmi dai colori vivaci, che termina in uno stemma abbaziale, sovrastato da una mitria e da un pastorale in pietra rossa, forse di Verona. Nell’ovale del blasone, una svastica con gli uncini piegati, vistosamente dorata. La stessa doratura per la data (1869) e per le quattro lettere che circondano la croce: T.H.A.L. Cioè: Theoderic Hagn Abate (di) Lambach.
Per posizione, per imponenza, per policromia dei marmi pregiati, il cenotafio è il punto focale della sala, è impossibile non esserne attratti appena entrati. Dunque, in quell’anno scolastico di oltre 110 anni fa, attrasse anche gli occhi, avidamente curiosi, dell’allievo di terza classe della Volks-Schule, nonché chierichetto e corista. Il suo nome era Adolf Hitler.
L’anno a Lambach del futuro Führer è ovviamente ben noto agli storici, anche perché l’interessato gli dedicò una pagina del Mein Kampf, dove dice di non avere condiviso l’ideale di quei monaci ma di averne stimato la serietà e, soprattutto, di avere provato tali emozioni durante le solenni liturgie da sentirsi, lui che sarà sempre astemio, berauscht, ubriaco. Alcune biografie accennano anche alla svastica del monumento abbaziale ma, curiosamente, sono quasi inesistenti, per quanto sappia, le fotografie che appaghino la curiosità dei lettori. In ogni caso, le rare immagini sono di molti anni fa, in sfocato bianconero. In effetti, come io stesso ho constatato, i religiosi hanno deciso di interdire l’accesso alla sagrestia per troncare una sorta di pellegrinaggio, ove ai curiosi si aggiungevano, pare, anche inquietanti nostalgici se non dei pericolosi pazzoidi.
La gran maggioranza dei visitatori ignora che un’altra svastica, seppur di dimensioni minori, potrebbe risvegliare la curiosità. La seconda croce uncinata è sulla fontana nel giardino di fronte all’ingresso. Il piccolo Adolf vide pure questa tutti i giorni, giungendo al mattino in abbazia, ma nel dopoguerra è stata coperta da rampicanti e da vasi di fiori e per vederla bisogna conoscerne l’esistenza e spostare le piante. Anche questa è «firmata » da padre Theoderic Hagn, abate di Lambach nella seconda metà dell’Ottocento che per il suo stemma (ogni superiore di monastero benedettino ne ha uno, alla pari dei vescovi) scelse una svastica, forse perché segno dell’incontro tra la croce cristiana e la tradizione religiosa mondiale. È noto, infatti, che sin da tempi preistorici la croce uncinata è presente come simbolo sacro in ogni continente, America precolombiana e Oceania incluse. Soltanto il giudaismo sembra non conoscerla, probabilmente perché è simbolo solare, mentre la tradizione ebraica, a cominciare dal calendario, è soprattutto lunare. Sta di fatto che anche per questo la Hakenkreuz, la «croce con gli uncini», fu dichiarata «segno ariano » e prediletta, tra Ottocento e Novecento, dai gruppi ispirati al nazionalismo germanico nonché all’esoterismo e all’antisemitismo in qualche modo «metafisico». Il giovane Hitler la conobbe (curiosamente, proprio nella forma «alla Lambach», con gli uncini piegati) presso la Thule-Gesellschaft, la società semisegreta le cui dottrine e i cui uomini alimentarono il nazionalsocialismo nascente.
Fu nel maggio del 1920 che il futuro Führer presentò l’insegna del movimento, da lui stesso (pittore frustrato) disegnata: una svastica, appunto, ma con i bracci raddrizzati e inclinata verso destra, per, disse, «dare l’idea di una valanga che travolga il mondo decadente».
Questa scelta del simbolo, tra tanti possibili, fu determinata anche dall’impressione ricavata dallo scolaro di terza elementare davanti alle svastiche dell’abate Hagn? Hitler non ne fece mai cenno, ma ci sono due episodi che fanno pensare. Quando invase l’Austria, nel 1938, pur pressato da mille impegni, si fece portare a Lambach (riservatamente, con Eva Braun, una foto lo mostra con un impermeabile bianco, da borghese) per rivedere l’abbazia e sostò nella sagrestia, davanti al vistoso cenotafio dove tante volte aveva lavorato e cantato. C’è di più: come già in Germania, i nazisti soppressero subito le case monastiche austriache, ma Lambach fu risparmiata e i religiosi furono allontanati soltanto nel 1942. Dopo tutto, non sfugga un particolare: attorno ai bracci della svastica dell’abate, stanno anche una A e una H. Proprio quelle iniziali che Adolf Hitler volle incise accanto alla Hakenkreuz.
l’Unità 9.7.09
In nome della purezza
Ebrei-tedeschi, quel divieto di coppia che creò la madre di tutte le leggi razziali
A Norimberga nel 1935 Hitler implementò la quintessenza della sua politica interna, internazionale, familiare, patrimoniale e sessuale
di Giovanni Nucci
A Norimberga nel 1935 Hitler implementò la quintessenza della sua politica interna,
internazionale, familiare, patrimoniale e sessuale. Nelle norme varate si leggeva: «proteggere
il sangue e l’onore tedesco». Questioni interessanti, che potrebbero anche sembrare attuali
A leggerle colpiscono per la loro essenziale semplicità rispetto alle leggi italiane del ’38
Nel 1935, verso la metà di settembre (il 15 volendo essere esatti), a Norimberga doveva probabilmente fare già abbastanza freddo e, nonostante ciò, aveva pieno svolgimento il congresso del Partito della Libertà.
(Breve tergiversazione anche un po’ puntigliosa: occorre specificare che il nome di quel partito sembrava scelto con grande oculatezza. Ci sarebbe da domandare se fosse mai stato nelle loro intenzioni chiamarsi Popolo, invece che Partito. O chissà, per contrario, se ad altri l’idea di chiamarsi Popolo invece che Partito sia effettivamente venuta per distinguersi da certi predecessori, o solo per convenienza politica, o di marketing, o convinti dai convincimenti dei responsabili del settore vendite – e questo genere di cose a noi umani totalmente incomprensibili. Ma nonostante ciò – partito o popolo fa praticamente lo stesso – bisognerebbe porre una riflessione sul fatto che sembra automatico a chi viene esigenza, che ne so, di dominare il mondo o semplicemente di imporre il proprio punto di vista, di voler sterminarne buona parte dei suoi abitanti suddividendoli in categorie standardizzate o anche solo di trovare fra queste i colpevoli collettivi a cui accreditare buona parte delle umane sofferenze, bene: chiunque sia stato mosso da simili intenzioni, storicamente non ha mai saputo resistere troppo alla tentazione di farlo in nome della libertà. Nell’ultimo quarto di millennio se ne conteranno, non lo so, più di una mezza dozzina, tra dittatori, proletari o meno, cialtroni e ciarpami compresi, che ne hanno fatte di ogni tipo in nome della libertà. Bisognerebbe farne uno studio, cioè gli storici dovrebbero farlo).
Tornando a noi: in assenza di alcun impedimento a riguardo, l’oculato epiteto era stato scelto e attribuito al suo partito anche da Adolf Hitler, già allora Führer e cancelliere del Reich. Così, in un tripudio di stendardi e divise sfavillanti insieme al suo ministro degli Interni Frick, durante il congresso del suo Partito della Libertà, implementò la quintessenza della sua politica interna, internazionale, familiare, patrimoniale e sessuale, firmando una nuova legge, anzi due. Queste si dichiaravano lo scopo, una di «proteggere i sudditi dello stato tedesco nella loro cittadinanza», e l’altra di «proteggere il sangue e l’onore tedesco». Questioni piuttosto interessanti, che potrebbero anche sembrare attuali.
Queste leggi tedesche colpiscono, una volta lette, per la loro essenziale semplicità. Quelle italiane del ’38, ad esempio, in confronto erano molto più puntigliose, ipocrite, false nella loro atrocità: era come se avessero vigliaccamente deciso di mettersi lì a speculare filosoficamente e congetturare antropologicamente più che altro per paura di ciò che stavano facendo. Basti vedere la «Dichiarazione sulla razza del Gran Consiglio del Fascismo», quanto la fa lunga, e complicata, nel definire chi sia o meno ebreo: «Il Gran Consiglio del Fascismo, circa l'appartenenza o meno alla razza ebraica, stabilisce quanto segue: a) è di razza ebraica colui che nasce da genitori entrambi ebrei; b) è considerato di razza ebraica colui che nasce da padre ebreo e da madre di nazionalità straniera; c) è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da un matrimonio misto, professa la religione ebraica; d) non è considerato di razza ebraica colui che è nato da un matrimonio misto, qualora professi altra religione all'infuori della ebraica, alla data del 1° ottobre XVI». (A volte gli italiani sanno essere così finti, noiosi ed ipocriti da farci vergognare di loro anche quando commettono le azioni più spregevoli: non per le azioni in sé, ma per come lo fanno). Nel 1938, tra l’altro, quando in Italia con le leggi razziali molte persone perbene videro che altre persone perbene dovettero allontanarsi dai loro uffici, che alcuni dei compagni di scuola dei loro figli dovettero andar via dalle loro classi, cominciarono a rendersi conto di cosa davvero fosse il fascismo.
Le leggi tedesche, tornando a noi, appaiono invece limpide e lineari nella loro essenza: il che ha portato a degli effetti atroci, ma ha perlomeno il vantaggio di spiegarci molto bene di cosa si trattava. Si stava regolamentando la vita sessuale della gente: dire che uno per legge, solo perché è quello che è (un ebreo, così come boliviano in cerca di lavoro, un restauratore di quadri del seicento così come un ricottaro abruzzese) non possa avere una relazione sessuale extraconiugale con un altro, è quasi come dirgli che se sta male un medico non potrà curarlo. Detto ciò, forse più che girarci troppo intorno, con grandi parole, commenti, considerazioni o storici parallelismi, vale la pena andare a vedere com’erano, quelle leggi, fare come un piccolo approfondimento scolastico mettendosele lì, davanti agli occhi, la madre di tutte le leggi razziali. E farsi scendere poi un brivido lungo la schiena, ricordandosi cosa sono significate per l’umanità.
l’Unità 9.7.09
Le norme emanate dal Reich, esempio di crudele semplicità
Legge sulla cittadinanza tedesca
Norimberga 1935:
I
1. Il suddito dello Stato è quella persona che gode della protezione del Reich tedesco e che in conseguenza di ciò ha specifici ordini verso di esso.
2. Lo status di suddito del Reich viene acquisito in accordo con i decreti del Reich e la Legge di Cittadinanza dello Stato.
II
1. Un cittadino tedesco è un suddito dello Stato di sangue tedesco o affine, che dimostri con la sua condotta di voler servire fedelmente la Germania e il popolo tedesco.
2. La Cittadinanza del Reich viene acquisita attraverso la concessione di un Certificato Statale di Cittadinanza.
3. Il cittadino del Reich è l'unico detentore di tutti i diritti politici in accordo con la Legge.
Legge per la protezione del sangue e dell’onore
15 settembre 1935
Articolo I
1.I matrimoni tra ebrei e i cittadini di sangue tedesco e apparentati sono proibiti. I matrimoni contratti a dispetto della presente legge sono nulli anche quando fossero contratti senza l'intenzione di violare la legge.
2. Le procedure legali per l'annullamento possono essere iniziati soltanto dal Pubblico Ministero.
Articolo II
Le relazioni sessuali extraconiugali tra ebrei e cittadini di sangue tedesco e apparentati sono proibite.
Articolo III
Agli ebrei non è consentito di impiegare come domestiche cittadine di sangue tedesco e apparentate.
Articolo IV
1. Agli ebrei è vietato esporre la bandiera nazionale del Reich o i suoi colori nazionali.
2. Agli ebrei è consentita l'esposizione dei colori giudaici. L'esercizio di questo diritto è tutelato dallo Stato.
Articolo V
1. Chi violi la proibizione di cui all'Articolo 1 sarà condannato ai lavori forzati.
2. Chi violi la proibizione di cui all'Articolo 2 sarà condannato al carcere o ai lavori forzati.
3. Chi violi quanto stabilito dall'Articolo 3 o 4 sarà punito con un minimo di un anno di carcere o con una delle precedenti pene.
il Riformista 9.7.09
Libertà di fine vita
di Giovanni Maria Flick
Con la calendarizzazione, alla Camera, del disegno di legge approvato dal Senato nello scorso autunno, si riapre la discussione sul testamento biologico; e c'è da augurarsi che si svolga in un clima diverso da quello di allora, anche se molti indizi lasciano presagire il contrario. Il tema, infatti, meriterebbe di essere approfondito con un confronto il più ampio possibile, ma soprattutto ispirato a concretezza e umiltà; proprio ciò che è mancato (salve talune eccezioni) nel dibattito politico e istituzionale dello scorso anno.
La concretezza: ogni caso è diverso dall'altro; soprattutto, dietro ogni caso c'è una persona, la sua storia e la sua sofferenza. Basta guardare alla disinvoltura con cui, invece, i drammi di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro sono stati assimilati, nelle valutazioni politiche e mediatiche.
Il primo caso rientrava nel principio dettato dall'articolo 32 della Costituzione ed oramai pressoché da tutti condiviso: il diritto del paziente lucido e consapevole a rifiutare un trattamento sanitario, anche quando ne segua la morte; senza distinguere fra il rifiuto che comporta una omissione nella somministrazione di farmaci, e quello che comporta un'azione nel distacco della spina del respiratore artificiale. Mentre quella distinzione conserva tutta la sua efficacia rispetto al problema - ben diverso, anche concettualmente - del "suicidio assistito", che non può essere ricondotto alla previsione dell'articolo 32 della Costituzione. L'azione di chi aiuta una persona consenziente a morire, somministrandogli a quel fine un prodotto letale, è certamente diversa dall'omissione di chi interrompe la somministrazione di un farmaco su richiesta del paziente, anche se con esito letale.
Nel secondo caso - in una situazione di coma irreversibile e quindi di incapacità di intendere e volere della paziente - la Cassazione ha ritenuto che il rifiuto consapevole di un trattamento terapeutico potesse essere ricostruito in via presuntiva; e lo ha desunto dal comportamento precedente della paziente, in condizioni di capacità, in un mix con le volontà attuali del padre e del tutore. Inoltre, ha assimilato al trattamento terapeutico l'intervento di sostentamento, rappresentato dalla nutrizione e dalla idratazione della paziente in coma, in conformità a un orientamento prevalente, anche se non condiviso da tutti.
La concretezza è necessaria altresì per evitare di trasformare una vicenda umana di sofferenza in un emblema e in un principio, alimentando uno scontro di ideologie. Si pensi alla distanza abissale fra la premessa rappresentata dal dramma umano di Eluana Englaro e della sua famiglia, e la sua conseguenza: un vero e proprio conflitto istituzionale fra poteri dello Stato (il Parlamento e la Cassazione); e al tempo stesso un conflitto politico tra chi accusava il giudice di aver violato la sacralità della vita, e chi all'opposto - invocando l'assolutezza dell'autodeterminazione - accusava il potere politico di violare l'indipendenza del giudice. La concretezza deve saldarsi perciò con l'umiltà, che è essenziale per ascoltare le ragioni dell'altro, per compiere ogni sforzo al fine di raggiungere una soluzione condivisa.
Mi fa paura l'idea di affrontare una materia così coinvolgente e sensibile per il rispetto della dignità umana, come la morte, muovendo dalla pregiudiziale ideologica e aprioristica dei "valori non negoziabili"; l'idea di rifiutare il dialogo; l'idea di usare la tutela della dignità umana come clava per dividere, anziché come obiettivo per unire; l'idea di chiedere al legislatore non già soluzioni il più possibile condivise e chiare, ma soluzioni ideologicamente orientate e perciò destinate a dividere. E penso alla lezione che, in questo senso, seppero darci i costituenti, i quali - muovendo da posizioni assai diverse, quando non opposte - elaborarono nella prima parte della Costituzione una serie di valori tuttora condivisi, attraverso quello che giustamente venne definito un "compromesso alto", in senso certamente non spregiativo.
Una vicenda come quella di Piergiorgio Welby poteva essere (e fu) risolta attraverso l'applicazione di un principio costituzionale, la cui portata non può essere contraddetta o ristretta dalla presenza nell'ordinamento di norme penali ordinarie, che tuttora (e giustamente) puniscono l'istigazione al suicidio o l'omicidio del consenziente. La nostra Costituzione muove certamente da un "diritto alla vita", cui ricollega la salute, come diritto per il singolo e interesse per la collettività. Ma quel diritto - pur calato nel contesto dei doveri di solidarietà di ciascuno verso gli altri e la società - non si trasforma in un dovere coercibile di vita o di cura. Un trattamento terapeutico può essere imposto al singolo, per legge e nel rispetto della sua dignità, solo quando venga in considerazione il diritto alla salute di terzi, come nel caso delle vaccinazioni.
Il valore sacrale della vita - per chi lo ritiene tale e ne fa discendere la indisponibilità assoluta di essa in quanto dono, anche nelle condizioni estreme - non può giungere, nel nostro sistema costituzionale, sino al punto di impedire al singolo la scelta lucida e consapevole di rinunziarvi; e quindi, a fortiori, sino al punto di impedire il rifiuto consapevole di un trattamento terapeutico o di un intervento di sostentamento, la mancanza dei quali determini la morte. Lo Stato e il legislatore non possono che prendere atto di una simile scelta. Mentre invece, in mancanza di essa, devono porre ogni impegno nella tutela della vita, anche e soprattutto di quella del soggetto debole e incapace; e ben possono perseguire penalmente il terzo che istighi o aiuti qualcuno a morire, in quanto può interferire sulla autodeterminazione del soggetto e inquinarla per gli interessi più diversi (da quelli ideali, a quelli riprovevoli).
La vicenda di Eluana Englaro pone un problema diverso. Si tratta di verificare quale valore possa avere una manifestazione di volontà espressa in precedenza - allora per ora - da un soggetto in quel momento capace; e destinata ad avere effetto successivamente, quando quel soggetto abbia perduto la capacità di esprimere o prima ancora di formare una volontà, a causa di una patologia sopravvenuta.
La Cassazione ha ritenuto di poter e dover rispondere alla domanda di giustizia che era stata proposta dal padre di Eluana Englaro - pur in assenza di una legge, della quale siamo in attesa da troppo tempo e con troppe polemiche - con il principio di diritto che ho richiamato prima, facendolo discendere dai principi generali e costituzionali, da quelli deontologici e da quelli delle convenzioni internazionali.
Non spetta a me, come non spettava alla Corte costituzionale - cui si era rivolto il Parlamento, sollevando un conflitto di attribuzione - decidere se la Cassazione avesse ragione o torto. La Corte costituzionale si è limitata a constatare c e non poteva fare altro c che il principio enunciato dalla Cassazione valeva soltanto per il caso concreto; quel principio non poteva quindi e comunque (giusto o sbagliato che fosse) usurpare o menomare le competenze del potere legislativo. Da ciò la decisione di manifesta inammissibilità del conflitto, che non entrava nel merito; e che, a torto, l'uno e l'altro schieramento a confronto hanno cercato di tirare dalla propria parte.
Personalmente - ma sono in buona compagnia - sono convinto che sia necessaria una legge (una buona legge) per regolare con chiarezza il tema del testamento biologico. Quest'ultimo richiede una serie di scelte, di indicazioni precise, che soltanto il legislatore può e deve fissare in termini generali: sia per la sensibilità specifica del tema, in considerazione dei diritti, degli interessi e delle responsabilità in esso coinvolti, che richiedono la maggior certezza possibile; sia perché, più ampiamente, le prospettive e le attese dei nuovi diritti - dischiuse dal progresso scientifico - richiedono una mediazione legislativa in generale e non soltanto una giudiziaria nel particolare, per il bilanciamento dei valori coinvolti e spesso fra loro contrapposti. La mediazione legislativa preliminare mi sembra essenziale per consentire - in termini di omogeneità, di eguaglianza e di certezza - l'altra mediazione affidata in concreto alla decisione responsabile del medico e, nei casi di conflitto, a quella del giudice. Ed essa deve muovere da una triplice premessa.
In primo luogo, il valore dell'autodeterminazione responsabile è una componente essenziale della vita, intesa anche come relazione con gli altri; perciò la perdita sopravvenuta della capacità di autodeterminarsi non può annullare retroattivamente una volontà validamente espressa in precedenza, e impedire di tenerne conto nei limiti del possibile e della situazione nuova. In secondo luogo, la salute è percepita attualmente non più come un valore statico e negativo (l'assenza di malattie); bensì come un valore dinamico, di benessere globale, di qualità della vita e soprattutto di apprezzamento soggettivo della persona. In terzo luogo, il rapporto terapeutico, oggi, ha abbandonato definitivamente la prospettiva di un paternalismo illuminato - che demanda al medico ogni decisione - a favore di un dialogo, di una codecisione, di una "alleanza terapeutica" fra medico e paziente, in cui è dominante il rispetto dell'autodeterminazione di quest'ultimo.
In questo quadro, tener conto della volontà precedentemente espressa dal paziente, quando si trovi in uno stato di incapacità sopravvenuta, mi sembra una forma di doveroso rispetto del valore che la Costituzione attribuisce alla persona, alla sua dignità, alla sua capacità di autodeterminarsi e di disporre del proprio corpo. Il problema diventa, per il legislatore, quello di poter e saper garantire l'effettività e l'attualità di una simile autodeterminazione allora per ora, definendone i limiti e i requisiti di formulazione, di revocabilità e durata, di efficacia. Senza, beninteso, rendere troppo difficile o di fatto impossibile l'esercizio di tale autodeterminazione; e con la consapevolezza che ci si trova in una situazione profondamente diversa da quella di un rifiuto, attuale ed informato, di un trattamento terapeutico specifico.
Mi sembra allora particolarmente persuasiva l'impostazione che al problema è stata data dalla Convenzione di Oviedo sulla bioetica, affermando la necessità «di tenere in considerazione i desideri espressi dal paziente». La traduzione lessicale della volontà in desiderio vale ad esprimere efficacemente l'oggettività, l'attualità e la complessità di una situazione in cui la volontà, a suo tempo manifestata, non può più essere modificata; neppure in relazione all'insorgenza di situazioni nuove, a suo tempo non previste e magari non volute dal soggetto ora incapace.
Come non sarebbe giusto azzerare retroattivamente la volontà di allora del soggetto, così non si può azzerare la valutazione e la responsabilità di ora del medico. E ciò dovrebbe valere con riferimento sia al trattamento terapeutico, sia agli interventi di sostentamento mediante nutrizione o idratazione, che hanno la medesima invasività del primo, anche se non la stessa finalità specifica. Né mi sembra ragionevole e giustificato introdurre degli ostacoli al rispetto dell'autodeterminazione del paziente e della responsabilità del medico, per il timore di aprire in qualche modo la via al "suicidio assistito" (al quale personalmente sono contrario, poiché non credo che la Costituzione riconosca un "diritto a morire" con l'ausilio dei terzi, pur non affermando un "dovere di vivere").
Insomma, si tratta di una volontà che - in quanto riferita a un futuro incerto e ipotetico - è più l'espressione di una scelta e di un "progetto di vita e di coerenza", che non la manifestazione di un rifiuto anticipato; l'espressione di un modo di vivere e di un dominio della vita, di cui la morte è "solo" il momento di chiusura. E spero che il legislatore - al di la delle soluzioni tecniche - sappia cogliere questo respiro di libertà, evitando la rigidità e le contrapposizioni ideologiche, e facendo applicazione dei criteri di concretezza e di umiltà.
Repubblica 9.7.09
Un articolo del Nyt: "Quando stava al Metropolitan era una star"
Il vaso di Eufronio e la vendetta americana "A Roma nessuno lo vede"
di Francesco Erbani
Il vaso di Eufronio, l´antico capolavoro greco opera di uno dei più grandi scultori dell´antichità, rubato nei pressi di Cerveteri, poi finito al Metropolitan di New York e restituito all´Italia dopo un lungo braccio di ferro, è ora «in una galleria sempre deserta» del museo di Villa Giulia a Roma. Finché è rimasto nella Grande Mela, attirava migliaia e migliaia di visitatori.
Lo scrive il New York Times in un reportage da Roma firmato da Michael Kimmelman. Il giornalista racconta che, un anno dopo il suo rientro in Italia, salutato con molto clamore, il vaso greco è chiuso nel museo, in quella che gli appare «un´ingombrante teca di vetro circondato da piccole luci natalizie». Secondo Kimmelman, inoltre, il reperto sarebbe collocato «in una galleria sempre deserta». Nel museo il cratere passerebbe pressoché inosservato, sostiene ancora il giornale americano, sistemato in mezzo ad altre opere dello stesso tipo, «non rappresentando una grossa novità per gli italiani».
La vicenda rischia di alimentare le polemiche sulla valorizzazione dei beni culturali in Italia. Sul rilievo che i nostri musei sono in grado di assicurare ai materiali esposti. Una questione di sistemazione, di collocazione, più che di sicurezza o di tutela. Ma tanto basta, agli occhi del quotidiano americano, per segnalare il destino di un´opera d´arte antica, trafugata in Italia nel 1971 e finita attraverso i canali dei mercanti in uno dei più grandi musei del mondo.
«Non condivido affatto questo giudizio», è la replica di Anna Maria Moretti, Soprintendente per l´Etruria meridionale e direttrice del Museo di Villa Giulia. «Il vaso di Eufronio è nel piano nobile del palazzo, al centro di una sala a fianco di un´altra che ospita l´Apollo di Veio. Non è affatto in un luogo secondario, tantomeno poco visitato. Credo che il giornalista americano sia andato al museo alle 9 del mattino. In questo periodo c´è un calo di visitatori che riguarda tutti i beni culturali del nostro paese. D´altronde, quando alcuni anni fa sono stata al Metropolitan, il vaso di Eufronio non era in una condizione molto diversa».
Il vaso, risalente al 515 a.C., venne trafugato da una tomba di Greppe Sant´Angelo, frazione di Cerveteri, nel 1971, zona di scavi etruschi. Autori del furto furono un gruppo di tombaroli. Il grande cratere attico di ceramica (è alto 45,7 centimetri, per 55,1 di diametro) è il solo integro dei ventisette dipinti da Eufronio, il più abile del cosiddetto Gruppo dei Pionieri, come furono definiti i primi pittori tardo-arcaici che svilupparono la tecnica a figure rosse. Sul lato principale del cratere è raffigurata la scena di uno degli episodi della guerra di Troia: la morte di Sarpedonte, l´eroe figlio di Zeus e Laodamia che combatteva come alleato dei Troiani. Giovani in atto di armarsi prima della battaglia ornano invece il lato secondario del vaso.
Il vaso era stato acquistato nel 1972 dal Met, che era consapevole del fatto che si trattava di un´opera rubata. L´ex direttore del museo di New York, Thomas Hoving, lo definiva una "hot pot" (pentola bollente) e lo aveva voluto fortemente, tanto da sborsare un milione di dollari all´antiquario americano Robert Hecht Jr, che lo aveva a sua volta comprato da un mercante d´arte italiano, Giacomo Medici, condannato in primo grado dalla giustizia italiana a 10 anni di carcere.
Trentasei anni dopo, nel gennaio del 2008, il vaso di Eufronio tornò in Italia, dopo una lunga trattativa. Il reperto venne esposto nella mostra «Nostoi, i capolavori ritrovati» (che raccoglieva altre settanta opere recuperate in tutto il mondo), allestita al Quirinale. Il giorno stesso del suo arrivo a Roma, l´allora ministro dei Beni Culturali, Francesco Rutelli, esibì il vaso davanti alle telecamere della Rai, nello studio del Tg1: «Si tratta di una grandissima vittoria», disse allora Rutelli, «una volta tanto parliamo delle cose buone che il nostro paese sa fare».
Il reperto è prezioso, oltre che per il perfetto stato di conservazione, perché porta indicate le firme di Eufronio stesso e di Euxitheos come vasaio, segno che questi riconobbero l´opera come una delle loro creazioni migliori.
Le trattative fra le autorità italiane e il museo americano sono state lunghe e serratissime e iniziate praticamente all´indomani dell´acquisto da parte del Met. L´accordo venne firmato nel febbraio del 2006.
In Italia la vicenda dei beni trafugati ebbe diversi risvolti giudiziari. Nel 2005 venne infatti celebrato un processo a Roma a carico dell´ex curatrice del Paul Getty Museum di Los Angeles, Marion True, e dell´intermediario svizzero Emanuel Robert Hecht. Dovevano rispondere di associazione per delinquere, ricettazione, relativamente al commercio di beni archeologici e omessa denuncia di reperto. La vicenda riguardava molti beni archeologici trafugati in Italia, "ripuliti" in Svizzera e poi rivenduti a collezionisti e grandi musei internazionali. Quello stesso anno era stato condannato a dieci anni di reclusione con rito abbreviato Giacomo Medici, romano residente a Ginevra, ritenuto dall´accusa fra i più grandi trafficanti italiani di reperti archeologici trafugati dai tombaroli.
Corriere della Sera 9.7.09
Il Festival della Mente dal 4 al 6 settembre a Sarzana. Apre una lectio di Cavalli Sforza
Quella ventata di ottimismo che viene dalla scienza
di Ida Bozzi
MILANO — Ci salveranno l’etica o l’estetica? Entrambe, a giudicare dalle tematiche scelte da intellettuali e scienziati per il Festival della Mente, che ritorna per la VI edizione dal 4 al 6 settembre a Sarzana (La Spezia). E a giudicare dall’ottimismo degli organizzatori di festival culturali, secondo l’indagine presentata ieri a Milano insieme alla manifestazione. Intanto, temi forti della cultura si contendono il calendario sarzanese. «Nella rassegna, dedicata ai processi creativi — ha spiegato Giulia Cogoli, direttrice del Festival — in quest’edizione è evidente un’esigenza forte, molto sentita dai relatori, quella dell’etica, spesso incrociata con diverse discipline ». Così, il genetista Luigi Luca Cavalli Sforza apre il 4 settembre con la lectio su «Evoluzione culturale: è più importante di quella biologica?», Luis Sepúlveda racconta «L’etica della parola», mentre in ambito filosofico Roberta De Monticelli propone la «Libertà del volere: un’illusione antica?». Via via si percorrono altri terreni dell’etica, la guerra, nella «Creatività distruttrice» dei tre incontri con Alessandro Barbero, o il rapporto con l’«Alterità umana» di cui parlerà Adriano Prosperi, fino all’identità femminile e maschile, con gli interventi di Miriam Mafai e Luigi Zoja. Intrecci tra etica, prassi, biografia ed estetica, prendono corpo nei legami tra vita e scrittura di cui parlerà lo scrittore Aharon Appelfeld con Ranieri Polese, o nel «Pensiero della bellezza» del neuroscienziato Semir Zeki. Inoltre, ritornano gli incontri con Piergiorgio Odifreddi, le lezioni del ciclo «approfonditaMente», e ci sarà spazio per letture di Baudelaire con Anna Bonaiuto, spettacoli di Stefano Benni e di Stefano Bartezzaghi, laboratori per bambini, come quelli del milanese Museo della scienza e della tecnologia. Un programma denso, come è proprio dei festival culturali. Che piacciono così. Almeno secondo quanto emerge dalla ricerca curata da Guido Guerzoni, «Effetto Festival 2009», presentata ieri alla conferenza stampa del Festival, che aggiorna l’analoga ricerca del 2008, «per verificare — ha spiegato il docente della Bocconi — se la formula 'festival', dopo i segnali della crisi internazionale, mostrava crepe. Sospetto allontanato». Da Festivaletteratura al Festival della Matematica, da quello della Creatività a BergamoScienza, dice l’indagine di Guerzoni, il format tiene, il 75 per cento degli organizzatori interpellati non ha subìto quest’anno o non prevede perdite di spettatori, e in buona parte si dichiara ottimista. Anche la Cogoli, che ha concluso: «I consumi di libri e di cultura stanno tenendo, gli italiani hanno recepito la bontà del rapporto prezzo/soddisfazione di libri, festival ed eventi culturali. E io sono ottimista».
l’Unità 9.7.09
La stampa estera insiste
«È uno showman ma non un leader»
di U. D. G.
Il «New York Times» contro il premier: sia Obama a guidare
il vertice, dal governo italiano «imperdonabile rilassatezza politica»
E il francese «L’Express» titola: «Inchiesta sul buffone dell’Europa»
I guastafeste non demordono. E rilanciano la loro sfida al Cavaliere. Un editoriale del New York Times irrompe nel primo giorno dei lavori del G8. «Showmanship: perhaps. Leadership: no», scrive il giornale della Grande mela che sferra un duro attacco al Cavaliere.
Nel giorno in cui Silvio Berlusconi inaugura il summit dell’Aquila. il quotidiano della city spara ad alzo zero nei confronti del premier e invita Barack Obama a prendere in mano le redini del vertice G8. Il governo italiano accusa «una imperdonabile rilassatezza politica» («inexcusably lax planning»), scrive il New York Times in un editoriale dal titolo «Oh, that G8». Quanto al Cavaliere, la critica non potrebbe essere più esplicita. «Nelle scorse settimane il primo ministro italiano ha investito la maggior parte delle sue energie politiche nel tentativo di respingere le accuse dei giornali» che gli imputano «di essere stato cliente di escort e di essersi intrattenuto con minorenni in vesti succinte». lapidaria la conclusione del NWT: «Può andare bene per uno showman, non per un leader». Secca la replica del titolare della Farnesina; Franco Frattini: «Non tollero critiche all'organizzazione del G8».
Dall’America alla Gran Bretagna. Dalla Spagna alla Francia. Il fronte dei «guastatori» si allarga. Il settimanale francese L'Express, in edicola oggi ha la foto di Silvio Berlusconi in copertina e il titolo «Inchiesta sul buffone dell’Europa». L'inchiesta descrive il presidente del Consiglio come personaggio che «cento volte dato per morto, cento volte è resuscitato. In un’Italia che non crede nella politica (il 25% associano la parola a “disgusto” e il 22% a “rabbia”) lui sfugge all’archetipo del potere: personaggio hollywoodiano, incantatore eccentrico, comico grossolano, coach della mente, amico del bar, illusionista poliglotta colpito dalla sindrome di Zelig - il potere di trasformarsi a seconda delle attese - Berlusconi ha inventato un nuovo modello di dirigente, un politico-people che buca lo schermo da 15 anni, e le cui farse soffocano, spesso, i veri problemi del Paese».
Articoli e vignette. Come quella che il Times di Londra dedica ieri al Cavaliere, in cui il presidente del Consiglio italiano è disegnato sorridente, in un suo classico doppiopetto blu, dalle cui tasche e taschino fuoriescono indumenti di biancheria intima femminile: reggiseni e slip. Nella vignetta Berlusconi compare accanto ad una scritta «G8», dove però la cifra otto è sostituita da un reggiseno, che il premier tiene per la spallina. È la stampa, Cavaliere. Quella libera.
l’Unità lettere 9.7.09
Ambiguità delle prediche
Lunedì le agenzie e i quotidiani on-line danno particolare risalto alle prediche di mons. Crociata. Lì per lì mi aveva divertito immaginare tutti questi giornalisti ammassati col taccuino in mano sotto l’ambone in attesa di due paroline sulle attività extra-parlamentari del governo ma poi ho scoperto che la predica, disponibile in formato word sul sito della CEI, e in realtà , sufficientemente generica da poter essere interpretata anche come circolare a uso interno sull’emergenza pedofilia nel clero, per cui è poco chiaro l’eccessivo risalto politico datole dalla stampa. Da che mondo è mondo, del resto, la Chiesa si lamenta della lussuria. Da che mondo è mondo, tuttavia, la Chiesa concede un pio dodicesimo di silenzi al regime che le garantisce un benedetto sedicesimo di privilegi.
Roberto Martina
Il testo originale, come inviato al giornale:
Cara Unità, oggi le agenzie e i quotidiani on-line danno particolare risalto alle prediche di mons. Crociata. Lì per lì mi aveva divertito immaginare tutti questi giornalisti ammassati col taccuino in mano sotto l’ambone in attesa di due paroline sulle attività extra-parlamentari del governo. Poi ho scoperto il trucco. L’intera predica è disponibile in formato word sul sito della CEI. È come tutte le prediche, sufficientemente generica da poter essere interpretata anche come circolare a uso interno sull’emergenza pedofilia nel clero, per cui è poco chiaro l’eccessivo risalto politico datole dalla stampa. Da che mondo è mondo la Chiesa si lamenta della lussuria, lo dimostra il cumulo di citazioni bibliche. È molto chiaro invece che, da che mondo è mondo, la Chiesa concede un pio dodicesimo di silenzi al regime che le garantisce un benedetto sedicesimo di privilegi. Roberto Martina