giovedì 9 luglio 2009

Repubblica 9.7.09
Creato in laboratorio lo sperma artificiale Verrà usato per curare l´infertilità maschile
Se l’uomo diventa inutile (o quasi) per fare i bambini
di Elena Dusi


Scienziati prudenti I gameti derivati non sono sicuri: per ora non si fanno fecondazioni
Ma lo spermatozoo sintetico non pare essere molto veloce Dinanzi a un ovulo potrebbe fare flop

Dal sesso al laboratorio: gli scienziati inglesi dell´università di Newcastle hanno creato il primo spermatozoo artificiale. La riproduzione fa così un altro passo dalla camera da letto verso la provetta. E anche se le prime reazioni all´esperimento inglese -che partendo da una cellula staminale embrionale umana è riuscito a far maturare uno spermatozoo in laboratorio - salutano un futuro in cui l´uomo non sarà più indispensabile per la fecondazione, a leggere bene i dati si scopre che la realtà è esattamente l´opposta.
Quando infatti le cellule staminali di partenza sono state ricavate da un embrione di sesso maschile - spiega la rivista Stem Cells and development, che ha pubblicato lo studio - ne è nato uno spermatozoo in grado di fecondare una cellula uovo. Le staminali di sesso femminile al contrario si sono arrestate alle prime tappe del processo di maturazione del gamete maschile, troppo lontane dalla metà per promettere alle donne un futuro di indipendenza dal punto di vista riproduttivo. Dal piccolo e gracile cromosoma Y, caratteristico del sesso maschile, allo stato delle conoscenze attuali non si può dunque prescindere per far nascere un cucciolo d´uomo.
Lo sperma ottenuto in laboratorio in Gran Bretagna non verrà usato per fecondare alcun ovulo, perché le leggi inglesi non lo permettono. Quando il processo di maturazione di una cellula si svolge completamente fra vetrini e brodi di coltura, è possibile che nel Dna si creino dei danni e il bambino nasca con dei difetti gravi. E la Human fertilisation embryology authority, cui sono affidati questi temi di ricerca in Gran Bretagna, in questo caso sceglie di derogare al suo notorio liberalismo: «Il livello di sicurezza dei gameti derivati in vitro è sconosciuto. Gli scienziati temono che il processo davvero complesso che porta alla loro creazione possa causare delle anomalie nei cromosomi o altri gravi difetti genetici».
Gli spermatozoi artificiali di Newcastle, hanno notato anche i loro "papà" in camice bianco, non hanno la stessa motilità, o "vivacità", di quelli normali e c´è il sospetto che di fronte a una vera cellula uovo (quella sì, impossibile da ricreare in laboratorio) finiscano col fare flop. «Il nostro obiettivo è capire in dettaglio cosa avviene quando uno spermatozoo si forma. Abbiamo bisogno di conoscere le cause dell´infertilità maschile per arrivare a curarle» ha spiegato Karim Nayernia, professore di genetica umana e leader dell´équipe dell´università di Newcastle. Nuovi esperimenti e il progredire delle conoscenze potrebbero comunque avvicinarci alla creazione di uno spermatozoo in vitro abbastanza sicuro da consentire la fecondazione di un ovulo. Per questo la Human fertilisation authority non chiude nessuna porta davanti a sé, prevedendo che «tra 5-10 anni lo sperma prodotto in vitro potrà forse essere usato per risolvere problemi di infertilità».
Mentre in Gran Bretagna la ricerca sulle "cellule bambine", in grado di trasformarsi in qualunque tessuto dell´organismo, procede a buon ritmo, martedì gli Stati Uniti hanno varato le loro nuove linee guida per l´utilizzo delle staminali embrionali. Il presidente Barack Obama aveva annunciato un´apertura rispetto alla rigida legislazione del predecessore George W. Bush. E il nuovo regolamento prevede in effetti l´erogazione di finanziamenti pubblici per ricerche che usano gli embrioni abbandonati nelle cliniche delle fertilità, oltre a facilitare l´importazione di queste cellule dall´estero. Continua però a negare fondi agli esperimenti in cui le staminali siano state ricavate da un embrione creato ad hoc e poi distrutto esclusivamente per scopi di ricerca. Si stima che le linee di cellule usate dalla scienza Usa possano aumentare da circa sessanta a diverse centinaia. La prossima volta che sentiremo parlare di spermatozoi artificiali, forse, non è un istituto inglese che dovremo citare, ma un gruppo di scienziati americani.

Corriere della Sera 9.7.09
Se si riescono a realizzare gameti, presto ci si può attendere qualsiasi cellula in laboratorio
Il risultato all’università britannica di Newcastle usando cellule embrionali umane
Creati spermatozoi da staminali
È la prima volta nella storia: servirà a curare l’infertilità
di Simona Ravizza




MILANO — Spermatozoi fabbricati in laboratorio con­tro la sterilità. Li hanno pro­dotti i ricercatori della Newca­stle University partendo da embrioni donati da coppie che si sono sottoposte alla fe­condazione assistita. Lo sper­ma è stato creato dalle cellule staminali maschili. È la prima volta nella storia. Il procedi­mento prevede una coltura delle cellule in una speciale soluzione chimica che per­mette di identificare quelle germinali (normalmente con­tenute nei testicoli), utilizza­te, poi, per innescare il pro­cesso riproduttivo. È una scoperta considerata rivoluzionaria: gli studiosi britannici, guidati da Karim Nayernia, sperano entro dieci anni di potere inserire la tec­nica tra le cure anti-sterilità. La ricerca — svolta in collabo­razione con il NorthEast En­gland Stem Cell Institute — è stata pubblicata dalla rivista scientifica Stem Cells and De­velopment.
Per arrivare alla creazione dello sperma ci vo­gliono dalle quattro alle sei settimane. Per documentare la sperimentazione l’équipe di Nayernia ha prodotto an­che un video. La convinzione è che gli spermatozoi creati in laboratorio — pur non es­sendo perfetti — abbiano tut­te le qualità fondamentali per il processo riproduttivo.
Lo hanno sopranominato «sperma derivato in vitro» (vitro derived sperm). «È un passo in avanti importante — dice Karim Nayernia —. Così potremo studiare con precisione come nascono e si evolvono gli spermatozoi. Non solo: una maggior cono­scenza del seme maschile ci permetterà di capire meglio le cause dell’infertilità e di aiutare con nuove cure le cop­pie in cerca di un figlio». Il ri­cercatore esclude, comun­que, un utilizzo diretto degli spermatozoi prodotti in labo­ratorio nella fecondazione as­sistita.
Per il genetista Carlo Alber­to Redi, direttore scientifico del Policlinico San Matteo di Pavia, si apre uno scenario ri­voluzionario per la cura della sterilità: «L’importante è do­tarsi di una cornice normati­va che allontani perplessità etiche. Potrebbero aprirsi ca­si da giallo poliziesco: un graf­fio in un uomo potrebbe ba­stare, infatti, per utilizzare il suo sperma e avere un figlio senza neppure il suo consen­so. Ma la ricerca non va fer­mata. Sarebbe miope e con­troproducente bloccare gli studi solo per timore».
Spiega Guglielmo Ragusa alla guida dell’Unità di ripro­duzione assistita dell’ospeda­le San Paolo di Milano: «Lo Human Fertilization and Em­bryology Act del 2008 vieta di usare sperma e ovuli artificia­li contro l’infertilità. In teo­ria, però, gli spermatozoi cre­ati in laboratorio potrebbero servire per fare avere figli a pazienti azospermici, quelli per i quali non è possibile re­cuperare gli spermatozoi nep­pure chirurgicamente. Lo stesso potrebbe valere per i giovani che hanno perso la ca­pacità riproduttiva dopo esse­re stati malati di cancro e per i pazienti con problemi gene­tici o cromosomici a livello dello spermatozoo. La scoper­ta, comunque, non è di appli­cazione immediata».
Non mancano le voci criti­che. Robin Lovell-Badge, esperto in spermatozoi del National Institute for Medical Research di Londra, storce il naso: «Anche se hanno la co­da e possono nuotare non vuol dire che questi sperma­tozoi siano normali».
Ma non finisce qui. I ricer­catori della Newcastle Univer­sity non escludono in futuro di poter creare sperma in la­boratorio con l’utilizzo di sta­minali solo femminili. Così una donna potrebbe avere un figlio senza alcun contributo maschile. Ma questa è ancora fantascienza. Almeno per il momento.

Corriere della Sera 9.7.09
E ora il maschio non è necessario
di Edoardo Boncinelli


Sembra che con cellule staminali di buona qualità e con gli opportuni trattamenti si possa fare proprio tutto.

Anche i gameti, cioè le cellule della riproduzione, che sono poi gli spermatozoi per i maschi e le cellule-uovo per le donne. L’ultima notizia è appunto la produzione di sperma maschile a partire dalle staminali. E se si riescono a fare gameti, ci si deve attendere di sapere fare presto qualsiasi tipo di cellula. I gameti sono infatti cellule molto particolari, sia per la loro costituzione che per le loro proprietà. Contengono solo la metà del patrimonio genetico dell’individuo che li produce e la metà dei suoi cromosomi: 23 invece di 46. Ciò è necessario perché il prodotto della fecondazione di una cellula-uovo da parte di uno spermatozoo dia un individuo normale, maschio o femmina che sia, e non un mostro. Questo individuo dovrà avere infatti il suo canonico corredo di 46 cromosomi, dei quali 23 verranno dallo spermatozoo del papà e 23 dalla cellula-uovo della mamma. I gameti sono perciò cellule «alleggerite» e semplificate, ma senza improvvisazione: tutto deve essere sistemato e in ordine. È necessario quindi un tipo molto particolare di moltiplicazione cellulare per passare da una cellula del corpo a un gamete. Mentre il normale processo di moltiplicazione cellulare si chiama mitosi, quello che porta alla produzione dei gameti si chiama meiosi (meion in greco significa «meno» e comporta infatti, come abbiamo appena detto, una riduzione del numero dei cromosomi nelle cellule prodotte). Non si può arrivare ad un gamete se non passando per una meiosi e questo è evidentemente quello che è avvenuto nelle cellule coltivate dai ricercatori di Newcastle, che così hanno ottenuto spermatozoi in quantità. Ma non è tutto qui. I gameti devono essere vitali e «vispi», soprattutto gli spermatozoi. Per poter parlare, come è stato fatto, di sperma vitale, si deve controllare che gli spermatozoi che lo compongono abbiano tutto in ordine ed essere capaci di maturare. Durante il loro eventuale «viaggio» all’interno dell’utero infatti gli spermatozoi devono acquisire certe capacità fisiologiche, nel quadro di un processo di maturazione che prende il nome di capacitazione. Evidentemente gli spermatozoi prodotti hanno superato tutte queste prove o, più verosimilmente, promettono di superarle presto. Gli stessi ricercatori parlano di un periodo di prova di una diecina di anni. A quel punto si potranno fare spermatozoi vitali dalle cellule del corpo di un maschio con problemi di sterilità, cosa più volte ventilata, ma per ora mai realizzata. Non è nemmeno necessario partire da cellule maschili, perché, anche partendo da cellule staminali femminili, la meiosi assicura comunque la presenza di un cromosoma X. Con gli spermatozoi così ottenuti non si potranno fare maschietti, ovviamente, ma femminucce sì. E non è nemmeno detto. Nascere e crescere resta un problema, ma sempre più semplice via via che il tempo passa e la scienza avanza.

Corriere della Sera 9.7.09
La sagrestia di Lambach, in Alta Austria, custodisce il segreto
Ecco la svastica che ispirò Hitler
di Vittorio Messori


Il futuro dittatore frequentò qui la terza elementare. I religiosi hanno interdetto l’accesso per impedire il pellegrinaggio di nostalgici. Quando i nazisti soppressero le case monastiche venne risparmiata solo quella

Per penetrare nel luogo proibito, ho dovuto giocare la carta del riconosci­mento, mostrando il passaporto e al­cune pubblicazioni recenti che ave­vo con me. Ho superato così la diffidenza del monaco guardiano, fortunatamente let­tore delle traduzioni tedesche dei miei libri. Affidato a un sagrestano e aperta la grande porta barocca chiusa a chiave, mi sono stati concessi pochi minuti per scattare qualche istantanea con la mia macchinetta automati­ca. Alla fine, l’esortazione a «far buon uso» del privilegio accordato a me e negato cate­goricamente a tanti altri, da molti anni.
Tutto questo per accedere alla sagrestia di una chiesa non solo aperta al pubblico ma anche assai frequentata, essendo al contem­po parrocchia e tempio della grande, antica abbazia di Lambach, nell’Alta Austria. Un monastero che, nella sua vita millenaria, ha vissuto anche una esperienza singolare: du­rante l’anno scolastico 1897/98 ospitò, per la terza classe elementare, un bambino di ot­to anni originario di Braunau am Inn. Bambi­no disciplinato, dal visetto grazioso (come mostra la ancora esistente foto della classe) ma ostinato e introverso. Il che non gli impe­dì di essere un diligente chierichetto e un buon elemento della corale di voci bianche, nonché un allievo attento delle lezioni di vio­lino impartitegli da un Padre benedettino. Dopo l’aula della scuola nell’abbazia, la mag­gior parte del suo tempo lo trascorse, quel­l’anno, proprio nella sagrestia ora interdetta ai visitatori. Lì, infatti, aiutava i sacerdoti ce­lebranti a indossare e a togliere i paramenti liturgici, lì lavava e riempiva le ampolle per l’acqua e per il vino, lì sistemava arredi e ve­sti negli armadi. Lì si radunava con gli altri bambini, ogni sabato pomeriggio, per le pro­ve dei canti per la messa grande domenicale e si esercitava per le melodie previste per matrimoni, funerali, feste liturgiche varie. Ebbene, quel vasto ambiente barocco è do­minato da una sorta di grande cenotafio in marmi dai colori vivaci, che termina in uno stemma abbaziale, sovrastato da una mitria e da un pastorale in pietra rossa, forse di Ve­rona. Nell’ovale del blasone, una svastica con gli uncini piegati, vistosamente dorata. La stessa doratura per la data (1869) e per le quattro lettere che circondano la croce: T.H.A.L. Cioè: Theoderic Ha­gn Abate (di) Lambach.
Per posizione, per impo­nenza, per policromia dei marmi pregiati, il cenotafio è il punto focale della sala, è impossibile non esserne at­tratti appena entrati. Dun­que, in quell’anno scolastico di oltre 110 anni fa, attrasse anche gli occhi, avidamente curiosi, dell’al­lievo di terza classe della Volks-Schule, nonché chierichetto e corista. Il suo nome era Adolf Hitler.
L’anno a Lambach del futuro Führer è ovviamente ben noto agli storici, anche perché l’interessato gli dedicò una pagina del Mein Kampf, dove dice di non avere condi­viso l’ideale di quei monaci ma di averne sti­mato la serietà e, soprattutto, di avere prova­to tali emozioni durante le solenni liturgie da sentirsi, lui che sarà sempre astemio, be­rauscht, ubriaco. Alcune biografie accenna­no anche alla svastica del monumento abba­ziale ma, curiosamente, sono quasi inesi­stenti, per quanto sappia, le fotografie che appaghino la curiosità dei lettori. In ogni ca­so, le rare immagini sono di molti anni fa, in sfocato bianconero. In effetti, come io stesso ho constatato, i religiosi hanno deci­so di interdire l’accesso alla sagrestia per troncare una sorta di pellegrinaggio, ove ai curiosi si aggiungevano, pare, anche inquie­tanti nostalgici se non dei pericolosi pazzoi­di.
La gran maggioranza dei visitatori ignora che un’altra svastica, seppur di dimensioni minori, potrebbe risvegliare la curiosità. La seconda croce uncinata è sulla fontana nel giardino di fronte all’ingresso. Il piccolo Adolf vide pure questa tutti i giorni, giungen­do al mattino in abbazia, ma nel dopoguerra è stata coperta da rampicanti e da vasi di fio­ri e per vederla bisogna conoscerne l’esisten­za e spostare le piante. Anche questa è «fir­mata » da padre Theoderic Hagn, abate di Lambach nella seconda metà dell’Ottocento che per il suo stemma (ogni superiore di mo­nastero benedettino ne ha uno, alla pari dei vescovi) scelse una svastica, forse perché se­gno dell’incontro tra la croce cristiana e la tradizione religiosa mondiale. È noto, infatti, che sin da tempi preistorici la croce uncinata è presente come simbolo sacro in ogni continente, America preco­lombiana e Oceania incluse. Soltanto il giudaismo sem­bra non conoscerla, probabil­mente perché è simbolo sola­re, mentre la tradizione ebraica, a cominciare dal ca­lendario, è soprattutto lunare. Sta di fatto che anche per questo la Hakenkreuz, la «cro­ce con gli uncini», fu dichiarata «segno aria­no » e prediletta, tra Ottocento e Novecento, dai gruppi ispirati al nazionalismo germani­co nonché all’esoterismo e all’antisemitismo in qualche modo «metafisico». Il giovane Hi­tler la conobbe (curiosamente, proprio nella forma «alla Lambach», con gli uncini piega­ti) presso la Thule-Gesellschaft, la società se­misegreta le cui dottrine e i cui uomini ali­mentarono il nazionalsocialismo nascente.
Fu nel maggio del 1920 che il futuro Führer presentò l’insegna del movimento, da lui stesso (pittore frustrato) disegnata: una svastica, appunto, ma con i bracci rad­drizzati e inclinata verso destra, per, disse, «dare l’idea di una valanga che travolga il mondo decadente».
Questa scelta del simbolo, tra tanti possi­bili, fu determinata anche dall’impressione ricavata dallo scolaro di terza elementare da­vanti alle svastiche dell’abate Hagn? Hitler non ne fece mai cenno, ma ci sono due epi­sodi che fanno pensare. Quando invase l’Au­stria, nel 1938, pur pressato da mille impe­gni, si fece portare a Lambach (riservata­mente, con Eva Braun, una foto lo mostra con un impermeabile bianco, da borghese) per rivedere l’abbazia e sostò nella sagre­stia, davanti al vistoso cenotafio dove tante volte aveva lavorato e cantato. C’è di più: co­me già in Germania, i nazisti soppressero subito le case monastiche austriache, ma Lambach fu risparmiata e i religiosi furono allontanati soltanto nel 1942. Dopo tutto, non sfugga un particolare: attorno ai bracci della svastica dell’abate, stanno anche una A e una H. Proprio quelle iniziali che Adolf Hitler volle incise accanto alla Hakenkreuz.

l’Unità 9.7.09
In nome della purezza
Ebrei-tedeschi, quel divieto di coppia che creò la madre di tutte le leggi razziali
A Norimberga nel 1935 Hitler implementò la quintessenza della sua politica interna, internazionale, familiare, patrimoniale e sessuale
di Giovanni Nucci


A Norimberga nel 1935 Hitler implementò la quintessenza della sua politica interna,
internazionale, familiare, patrimoniale e sessuale. Nelle norme varate si leggeva: «proteggere
il sangue e l’onore tedesco». Questioni interessanti, che potrebbero anche sembrare attuali

A leggerle colpiscono per la loro essenziale semplicità rispetto alle leggi italiane del ’38

Nel 1935, verso la metà di settembre (il 15 volendo essere esatti), a Norimberga doveva probabilmente fare già abbastanza freddo e, nonostante ciò, aveva pieno svolgimento il congresso del Partito della Libertà.
(Breve tergiversazione anche un po’ puntigliosa: occorre specificare che il nome di quel partito sembrava scelto con grande oculatezza. Ci sarebbe da domandare se fosse mai stato nelle loro intenzioni chiamarsi Popolo, invece che Partito. O chissà, per contrario, se ad altri l’idea di chiamarsi Popolo invece che Partito sia effettivamente venuta per distinguersi da certi predecessori, o solo per convenienza politica, o di marketing, o convinti dai convincimenti dei responsabili del settore vendite – e questo genere di cose a noi umani totalmente incomprensibili. Ma nonostante ciò – partito o popolo fa praticamente lo stesso – bisognerebbe porre una riflessione sul fatto che sembra automatico a chi viene esigenza, che ne so, di dominare il mondo o semplicemente di imporre il proprio punto di vista, di voler sterminarne buona parte dei suoi abitanti suddividendoli in categorie standardizzate o anche solo di trovare fra queste i colpevoli collettivi a cui accreditare buona parte delle umane sofferenze, bene: chiunque sia stato mosso da simili intenzioni, storicamente non ha mai saputo resistere troppo alla tentazione di farlo in nome della libertà. Nell’ultimo quarto di millennio se ne conteranno, non lo so, più di una mezza dozzina, tra dittatori, proletari o meno, cialtroni e ciarpami compresi, che ne hanno fatte di ogni tipo in nome della libertà. Bisognerebbe farne uno studio, cioè gli storici dovrebbero farlo).
Tornando a noi: in assenza di alcun impedimento a riguardo, l’oculato epiteto era stato scelto e attribuito al suo partito anche da Adolf Hitler, già allora Führer e cancelliere del Reich. Così, in un tripudio di stendardi e divise sfavillanti insieme al suo ministro degli Interni Frick, durante il congresso del suo Partito della Libertà, implementò la quintessenza della sua politica interna, internazionale, familiare, patrimoniale e sessuale, firmando una nuova legge, anzi due. Queste si dichiaravano lo scopo, una di «proteggere i sudditi dello stato tedesco nella loro cittadinanza», e l’altra di «proteggere il sangue e l’onore tedesco». Questioni piuttosto interessanti, che potrebbero anche sembrare attuali.
Queste leggi tedesche colpiscono, una volta lette, per la loro essenziale semplicità. Quelle italiane del ’38, ad esempio, in confronto erano molto più puntigliose, ipocrite, false nella loro atrocità: era come se avessero vigliaccamente deciso di mettersi lì a speculare filosoficamente e congetturare antropologicamente più che altro per paura di ciò che stavano facendo. Basti vedere la «Dichiarazione sulla razza del Gran Consiglio del Fascismo», quanto la fa lunga, e complicata, nel definire chi sia o meno ebreo: «Il Gran Consiglio del Fascismo, circa l'appartenenza o meno alla razza ebraica, stabilisce quanto segue: a) è di razza ebraica colui che nasce da genitori entrambi ebrei; b) è considerato di razza ebraica colui che nasce da padre ebreo e da madre di nazionalità straniera; c) è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da un matrimonio misto, professa la religione ebraica; d) non è considerato di razza ebraica colui che è nato da un matrimonio misto, qualora professi altra religione all'infuori della ebraica, alla data del 1° ottobre XVI». (A volte gli italiani sanno essere così finti, noiosi ed ipocriti da farci vergognare di loro anche quando commettono le azioni più spregevoli: non per le azioni in sé, ma per come lo fanno). Nel 1938, tra l’altro, quando in Italia con le leggi razziali molte persone perbene videro che altre persone perbene dovettero allontanarsi dai loro uffici, che alcuni dei compagni di scuola dei loro figli dovettero andar via dalle loro classi, cominciarono a rendersi conto di cosa davvero fosse il fascismo.
Le leggi tedesche, tornando a noi, appaiono invece limpide e lineari nella loro essenza: il che ha portato a degli effetti atroci, ma ha perlomeno il vantaggio di spiegarci molto bene di cosa si trattava. Si stava regolamentando la vita sessuale della gente: dire che uno per legge, solo perché è quello che è (un ebreo, così come boliviano in cerca di lavoro, un restauratore di quadri del seicento così come un ricottaro abruzzese) non possa avere una relazione sessuale extraconiugale con un altro, è quasi come dirgli che se sta male un medico non potrà curarlo. Detto ciò, forse più che girarci troppo intorno, con grandi parole, commenti, considerazioni o storici parallelismi, vale la pena andare a vedere com’erano, quelle leggi, fare come un piccolo approfondimento scolastico mettendosele lì, davanti agli occhi, la madre di tutte le leggi razziali. E farsi scendere poi un brivido lungo la schiena, ricordandosi cosa sono significate per l’umanità.

l’Unità 9.7.09
Le norme emanate dal Reich, esempio di crudele semplicità


Legge sulla cittadinanza tedesca
Norimberga 1935:

I
1. Il suddito dello Stato è quella persona che gode della protezione del Reich tedesco e che in conseguenza di ciò ha specifici ordini verso di esso.

2. Lo status di suddito del Reich viene acquisito in accordo con i decreti del Reich e la Legge di Cittadinanza dello Stato.

II
1. Un cittadino tedesco è un suddito dello Stato di sangue tedesco o affine, che dimostri con la sua condotta di voler servire fedelmente la Germania e il popolo tedesco.

2. La Cittadinanza del Reich viene acquisita attraverso la concessione di un Certificato Statale di Cittadinanza.

3. Il cittadino del Reich è l'unico detentore di tutti i diritti politici in accordo con la Legge.

Legge per la protezione del sangue e dell’onore
15 settembre 1935

Articolo I

1.I matrimoni tra ebrei e i cittadini di sangue tedesco e apparentati sono proibiti. I matrimoni contratti a dispetto della presente legge sono nulli anche quando fossero contratti senza l'intenzione di violare la legge.

2. Le procedure legali per l'annullamento possono essere iniziati soltanto dal Pubblico Ministero.

Articolo II

Le relazioni sessuali extraconiugali tra ebrei e cittadini di sangue tedesco e apparentati sono proibite.

Articolo III

Agli ebrei non è consentito di impiegare come domestiche cittadine di sangue tedesco e apparentate.

Articolo IV

1. Agli ebrei è vietato esporre la bandiera nazionale del Reich o i suoi colori nazionali.

2. Agli ebrei è consentita l'esposizione dei colori giudaici. L'esercizio di questo diritto è tutelato dallo Stato.

Articolo V

1. Chi violi la proibizione di cui all'Articolo 1 sarà condannato ai lavori forzati.

2. Chi violi la proibizione di cui all'Articolo 2 sarà condannato al carcere o ai lavori forzati.

3. Chi violi quanto stabilito dall'Articolo 3 o 4 sarà punito con un minimo di un anno di carcere o con una delle precedenti pene.

il Riformista 9.7.09
Libertà di fine vita
di Giovanni Maria Flick


Con la calendarizzazione, alla Camera, del disegno di legge approvato dal Senato nello scorso autunno, si riapre la discussione sul testamento biologico; e c'è da augurarsi che si svolga in un clima diverso da quello di allora, anche se molti indizi lasciano presagire il contrario. Il tema, infatti, meriterebbe di essere approfondito con un confronto il più ampio possibile, ma soprattutto ispirato a concretezza e umiltà; proprio ciò che è mancato (salve talune eccezioni) nel dibattito politico e istituzionale dello scorso anno.
La concretezza: ogni caso è diverso dall'altro; soprattutto, dietro ogni caso c'è una persona, la sua storia e la sua sofferenza. Basta guardare alla disinvoltura con cui, invece, i drammi di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro sono stati assimilati, nelle valutazioni politiche e mediatiche.
Il primo caso rientrava nel principio dettato dall'articolo 32 della Costituzione ed oramai pressoché da tutti condiviso: il diritto del paziente lucido e consapevole a rifiutare un trattamento sanitario, anche quando ne segua la morte; senza distinguere fra il rifiuto che comporta una omissione nella somministrazione di farmaci, e quello che comporta un'azione nel distacco della spina del respiratore artificiale. Mentre quella distinzione conserva tutta la sua efficacia rispetto al problema - ben diverso, anche concettualmente - del "suicidio assistito", che non può essere ricondotto alla previsione dell'articolo 32 della Costituzione. L'azione di chi aiuta una persona consenziente a morire, somministrandogli a quel fine un prodotto letale, è certamente diversa dall'omissione di chi interrompe la somministrazione di un farmaco su richiesta del paziente, anche se con esito letale.
Nel secondo caso - in una situazione di coma irreversibile e quindi di incapacità di intendere e volere della paziente - la Cassazione ha ritenuto che il rifiuto consapevole di un trattamento terapeutico potesse essere ricostruito in via presuntiva; e lo ha desunto dal comportamento precedente della paziente, in condizioni di capacità, in un mix con le volontà attuali del padre e del tutore. Inoltre, ha assimilato al trattamento terapeutico l'intervento di sostentamento, rappresentato dalla nutrizione e dalla idratazione della paziente in coma, in conformità a un orientamento prevalente, anche se non condiviso da tutti.
La concretezza è necessaria altresì per evitare di trasformare una vicenda umana di sofferenza in un emblema e in un principio, alimentando uno scontro di ideologie. Si pensi alla distanza abissale fra la premessa rappresentata dal dramma umano di Eluana Englaro e della sua famiglia, e la sua conseguenza: un vero e proprio conflitto istituzionale fra poteri dello Stato (il Parlamento e la Cassazione); e al tempo stesso un conflitto politico tra chi accusava il giudice di aver violato la sacralità della vita, e chi all'opposto - invocando l'assolutezza dell'autodeterminazione - accusava il potere politico di violare l'indipendenza del giudice. La concretezza deve saldarsi perciò con l'umiltà, che è essenziale per ascoltare le ragioni dell'altro, per compiere ogni sforzo al fine di raggiungere una soluzione condivisa.
Mi fa paura l'idea di affrontare una materia così coinvolgente e sensibile per il rispetto della dignità umana, come la morte, muovendo dalla pregiudiziale ideologica e aprioristica dei "valori non negoziabili"; l'idea di rifiutare il dialogo; l'idea di usare la tutela della dignità umana come clava per dividere, anziché come obiettivo per unire; l'idea di chiedere al legislatore non già soluzioni il più possibile condivise e chiare, ma soluzioni ideologicamente orientate e perciò destinate a dividere. E penso alla lezione che, in questo senso, seppero darci i costituenti, i quali - muovendo da posizioni assai diverse, quando non opposte - elaborarono nella prima parte della Costituzione una serie di valori tuttora condivisi, attraverso quello che giustamente venne definito un "compromesso alto", in senso certamente non spregiativo.
Una vicenda come quella di Piergiorgio Welby poteva essere (e fu) risolta attraverso l'applicazione di un principio costituzionale, la cui portata non può essere contraddetta o ristretta dalla presenza nell'ordinamento di norme penali ordinarie, che tuttora (e giustamente) puniscono l'istigazione al suicidio o l'omicidio del consenziente. La nostra Costituzione muove certamente da un "diritto alla vita", cui ricollega la salute, come diritto per il singolo e interesse per la collettività. Ma quel diritto - pur calato nel contesto dei doveri di solidarietà di ciascuno verso gli altri e la società - non si trasforma in un dovere coercibile di vita o di cura. Un trattamento terapeutico può essere imposto al singolo, per legge e nel rispetto della sua dignità, solo quando venga in considerazione il diritto alla salute di terzi, come nel caso delle vaccinazioni.
Il valore sacrale della vita - per chi lo ritiene tale e ne fa discendere la indisponibilità assoluta di essa in quanto dono, anche nelle condizioni estreme - non può giungere, nel nostro sistema costituzionale, sino al punto di impedire al singolo la scelta lucida e consapevole di rinunziarvi; e quindi, a fortiori, sino al punto di impedire il rifiuto consapevole di un trattamento terapeutico o di un intervento di sostentamento, la mancanza dei quali determini la morte. Lo Stato e il legislatore non possono che prendere atto di una simile scelta. Mentre invece, in mancanza di essa, devono porre ogni impegno nella tutela della vita, anche e soprattutto di quella del soggetto debole e incapace; e ben possono perseguire penalmente il terzo che istighi o aiuti qualcuno a morire, in quanto può interferire sulla autodeterminazione del soggetto e inquinarla per gli interessi più diversi (da quelli ideali, a quelli riprovevoli).
La vicenda di Eluana Englaro pone un problema diverso. Si tratta di verificare quale valore possa avere una manifestazione di volontà espressa in precedenza - allora per ora - da un soggetto in quel momento capace; e destinata ad avere effetto successivamente, quando quel soggetto abbia perduto la capacità di esprimere o prima ancora di formare una volontà, a causa di una patologia sopravvenuta.
La Cassazione ha ritenuto di poter e dover rispondere alla domanda di giustizia che era stata proposta dal padre di Eluana Englaro - pur in assenza di una legge, della quale siamo in attesa da troppo tempo e con troppe polemiche - con il principio di diritto che ho richiamato prima, facendolo discendere dai principi generali e costituzionali, da quelli deontologici e da quelli delle convenzioni internazionali.
Non spetta a me, come non spettava alla Corte costituzionale - cui si era rivolto il Parlamento, sollevando un conflitto di attribuzione - decidere se la Cassazione avesse ragione o torto. La Corte costituzionale si è limitata a constatare c e non poteva fare altro c che il principio enunciato dalla Cassazione valeva soltanto per il caso concreto; quel principio non poteva quindi e comunque (giusto o sbagliato che fosse) usurpare o menomare le competenze del potere legislativo. Da ciò la decisione di manifesta inammissibilità del conflitto, che non entrava nel merito; e che, a torto, l'uno e l'altro schieramento a confronto hanno cercato di tirare dalla propria parte.
Personalmente - ma sono in buona compagnia - sono convinto che sia necessaria una legge (una buona legge) per regolare con chiarezza il tema del testamento biologico. Quest'ultimo richiede una serie di scelte, di indicazioni precise, che soltanto il legislatore può e deve fissare in termini generali: sia per la sensibilità specifica del tema, in considerazione dei diritti, degli interessi e delle responsabilità in esso coinvolti, che richiedono la maggior certezza possibile; sia perché, più ampiamente, le prospettive e le attese dei nuovi diritti - dischiuse dal progresso scientifico - richiedono una mediazione legislativa in generale e non soltanto una giudiziaria nel particolare, per il bilanciamento dei valori coinvolti e spesso fra loro contrapposti. La mediazione legislativa preliminare mi sembra essenziale per consentire - in termini di omogeneità, di eguaglianza e di certezza - l'altra mediazione affidata in concreto alla decisione responsabile del medico e, nei casi di conflitto, a quella del giudice. Ed essa deve muovere da una triplice premessa.
In primo luogo, il valore dell'autodeterminazione responsabile è una componente essenziale della vita, intesa anche come relazione con gli altri; perciò la perdita sopravvenuta della capacità di autodeterminarsi non può annullare retroattivamente una volontà validamente espressa in precedenza, e impedire di tenerne conto nei limiti del possibile e della situazione nuova. In secondo luogo, la salute è percepita attualmente non più come un valore statico e negativo (l'assenza di malattie); bensì come un valore dinamico, di benessere globale, di qualità della vita e soprattutto di apprezzamento soggettivo della persona. In terzo luogo, il rapporto terapeutico, oggi, ha abbandonato definitivamente la prospettiva di un paternalismo illuminato - che demanda al medico ogni decisione - a favore di un dialogo, di una codecisione, di una "alleanza terapeutica" fra medico e paziente, in cui è dominante il rispetto dell'autodeterminazione di quest'ultimo.
In questo quadro, tener conto della volontà precedentemente espressa dal paziente, quando si trovi in uno stato di incapacità sopravvenuta, mi sembra una forma di doveroso rispetto del valore che la Costituzione attribuisce alla persona, alla sua dignità, alla sua capacità di autodeterminarsi e di disporre del proprio corpo. Il problema diventa, per il legislatore, quello di poter e saper garantire l'effettività e l'attualità di una simile autodeterminazione allora per ora, definendone i limiti e i requisiti di formulazione, di revocabilità e durata, di efficacia. Senza, beninteso, rendere troppo difficile o di fatto impossibile l'esercizio di tale autodeterminazione; e con la consapevolezza che ci si trova in una situazione profondamente diversa da quella di un rifiuto, attuale ed informato, di un trattamento terapeutico specifico.
Mi sembra allora particolarmente persuasiva l'impostazione che al problema è stata data dalla Convenzione di Oviedo sulla bioetica, affermando la necessità «di tenere in considerazione i desideri espressi dal paziente». La traduzione lessicale della volontà in desiderio vale ad esprimere efficacemente l'oggettività, l'attualità e la complessità di una situazione in cui la volontà, a suo tempo manifestata, non può più essere modificata; neppure in relazione all'insorgenza di situazioni nuove, a suo tempo non previste e magari non volute dal soggetto ora incapace.
Come non sarebbe giusto azzerare retroattivamente la volontà di allora del soggetto, così non si può azzerare la valutazione e la responsabilità di ora del medico. E ciò dovrebbe valere con riferimento sia al trattamento terapeutico, sia agli interventi di sostentamento mediante nutrizione o idratazione, che hanno la medesima invasività del primo, anche se non la stessa finalità specifica. Né mi sembra ragionevole e giustificato introdurre degli ostacoli al rispetto dell'autodeterminazione del paziente e della responsabilità del medico, per il timore di aprire in qualche modo la via al "suicidio assistito" (al quale personalmente sono contrario, poiché non credo che la Costituzione riconosca un "diritto a morire" con l'ausilio dei terzi, pur non affermando un "dovere di vivere").
Insomma, si tratta di una volontà che - in quanto riferita a un futuro incerto e ipotetico - è più l'espressione di una scelta e di un "progetto di vita e di coerenza", che non la manifestazione di un rifiuto anticipato; l'espressione di un modo di vivere e di un dominio della vita, di cui la morte è "solo" il momento di chiusura. E spero che il legislatore - al di la delle soluzioni tecniche - sappia cogliere questo respiro di libertà, evitando la rigidità e le contrapposizioni ideologiche, e facendo applicazione dei criteri di concretezza e di umiltà.

Repubblica 9.7.09
Un articolo del Nyt: "Quando stava al Metropolitan era una star"
Il vaso di Eufronio e la vendetta americana "A Roma nessuno lo vede"
di Francesco Erbani


Il vaso di Eufronio, l´antico capolavoro greco opera di uno dei più grandi scultori dell´antichità, rubato nei pressi di Cerveteri, poi finito al Metropolitan di New York e restituito all´Italia dopo un lungo braccio di ferro, è ora «in una galleria sempre deserta» del museo di Villa Giulia a Roma. Finché è rimasto nella Grande Mela, attirava migliaia e migliaia di visitatori.
Lo scrive il New York Times in un reportage da Roma firmato da Michael Kimmelman. Il giornalista racconta che, un anno dopo il suo rientro in Italia, salutato con molto clamore, il vaso greco è chiuso nel museo, in quella che gli appare «un´ingombrante teca di vetro circondato da piccole luci natalizie». Secondo Kimmelman, inoltre, il reperto sarebbe collocato «in una galleria sempre deserta». Nel museo il cratere passerebbe pressoché inosservato, sostiene ancora il giornale americano, sistemato in mezzo ad altre opere dello stesso tipo, «non rappresentando una grossa novità per gli italiani».
La vicenda rischia di alimentare le polemiche sulla valorizzazione dei beni culturali in Italia. Sul rilievo che i nostri musei sono in grado di assicurare ai materiali esposti. Una questione di sistemazione, di collocazione, più che di sicurezza o di tutela. Ma tanto basta, agli occhi del quotidiano americano, per segnalare il destino di un´opera d´arte antica, trafugata in Italia nel 1971 e finita attraverso i canali dei mercanti in uno dei più grandi musei del mondo.
«Non condivido affatto questo giudizio», è la replica di Anna Maria Moretti, Soprintendente per l´Etruria meridionale e direttrice del Museo di Villa Giulia. «Il vaso di Eufronio è nel piano nobile del palazzo, al centro di una sala a fianco di un´altra che ospita l´Apollo di Veio. Non è affatto in un luogo secondario, tantomeno poco visitato. Credo che il giornalista americano sia andato al museo alle 9 del mattino. In questo periodo c´è un calo di visitatori che riguarda tutti i beni culturali del nostro paese. D´altronde, quando alcuni anni fa sono stata al Metropolitan, il vaso di Eufronio non era in una condizione molto diversa».
Il vaso, risalente al 515 a.C., venne trafugato da una tomba di Greppe Sant´Angelo, frazione di Cerveteri, nel 1971, zona di scavi etruschi. Autori del furto furono un gruppo di tombaroli. Il grande cratere attico di ceramica (è alto 45,7 centimetri, per 55,1 di diametro) è il solo integro dei ventisette dipinti da Eufronio, il più abile del cosiddetto Gruppo dei Pionieri, come furono definiti i primi pittori tardo-arcaici che svilupparono la tecnica a figure rosse. Sul lato principale del cratere è raffigurata la scena di uno degli episodi della guerra di Troia: la morte di Sarpedonte, l´eroe figlio di Zeus e Laodamia che combatteva come alleato dei Troiani. Giovani in atto di armarsi prima della battaglia ornano invece il lato secondario del vaso.
Il vaso era stato acquistato nel 1972 dal Met, che era consapevole del fatto che si trattava di un´opera rubata. L´ex direttore del museo di New York, Thomas Hoving, lo definiva una "hot pot" (pentola bollente) e lo aveva voluto fortemente, tanto da sborsare un milione di dollari all´antiquario americano Robert Hecht Jr, che lo aveva a sua volta comprato da un mercante d´arte italiano, Giacomo Medici, condannato in primo grado dalla giustizia italiana a 10 anni di carcere.
Trentasei anni dopo, nel gennaio del 2008, il vaso di Eufronio tornò in Italia, dopo una lunga trattativa. Il reperto venne esposto nella mostra «Nostoi, i capolavori ritrovati» (che raccoglieva altre settanta opere recuperate in tutto il mondo), allestita al Quirinale. Il giorno stesso del suo arrivo a Roma, l´allora ministro dei Beni Culturali, Francesco Rutelli, esibì il vaso davanti alle telecamere della Rai, nello studio del Tg1: «Si tratta di una grandissima vittoria», disse allora Rutelli, «una volta tanto parliamo delle cose buone che il nostro paese sa fare».
Il reperto è prezioso, oltre che per il perfetto stato di conservazione, perché porta indicate le firme di Eufronio stesso e di Euxitheos come vasaio, segno che questi riconobbero l´opera come una delle loro creazioni migliori.
Le trattative fra le autorità italiane e il museo americano sono state lunghe e serratissime e iniziate praticamente all´indomani dell´acquisto da parte del Met. L´accordo venne firmato nel febbraio del 2006.
In Italia la vicenda dei beni trafugati ebbe diversi risvolti giudiziari. Nel 2005 venne infatti celebrato un processo a Roma a carico dell´ex curatrice del Paul Getty Museum di Los Angeles, Marion True, e dell´intermediario svizzero Emanuel Robert Hecht. Dovevano rispondere di associazione per delinquere, ricettazione, relativamente al commercio di beni archeologici e omessa denuncia di reperto. La vicenda riguardava molti beni archeologici trafugati in Italia, "ripuliti" in Svizzera e poi rivenduti a collezionisti e grandi musei internazionali. Quello stesso anno era stato condannato a dieci anni di reclusione con rito abbreviato Giacomo Medici, romano residente a Ginevra, ritenuto dall´accusa fra i più grandi trafficanti italiani di reperti archeologici trafugati dai tombaroli.

Corriere della Sera 9.7.09
Il Festival della Mente dal 4 al 6 settembre a Sarzana. Apre una lectio di Cavalli Sforza
Quella ventata di ottimismo che viene dalla scienza
di Ida Bozzi




MILANO — Ci salveranno l’eti­ca o l’estetica? Entrambe, a giudi­care dalle tematiche scelte da in­tellettuali e scienziati per il Festi­val della Mente, che ritorna per la VI edizione dal 4 al 6 settembre a Sarzana (La Spezia). E a giudicare dall’ottimismo degli organizzatori di festival culturali, secondo l’inda­gine presentata ieri a Milano insie­me alla manifestazione.
Intanto, temi forti della cultura si contendono il calendario sarza­nese. «Nella rassegna, dedicata ai processi creativi — ha spiegato Giulia Cogoli, direttrice del Festi­val — in quest’edizione è evidente un’esigenza forte, molto sentita dai relatori, quella dell’etica, spes­so incrociata con diverse discipli­ne ». Così, il genetista Luigi Luca Cavalli Sforza apre il 4 settembre con la lectio su «Evoluzione cultu­rale: è più importante di quella biologica?», Luis Sepúlveda rac­conta «L’etica della parola», men­tre in ambito filosofico Roberta De Monticelli propone la «Libertà del volere: un’illusione antica?». Via via si percorrono altri terreni dell’etica, la guerra, nella «Creati­vità distruttrice» dei tre incontri con Alessandro Barbero, o il rap­porto con l’«Alterità umana» di cui parlerà Adriano Prosperi, fino all’identità femminile e maschile, con gli interventi di Miriam Mafai e Luigi Zoja.
Intrecci tra etica, prassi, biogra­fia ed estetica, prendono corpo nei legami tra vita e scrittura di cui parlerà lo scrittore Aharon Ap­pelfeld con Ranieri Polese, o nel «Pensiero della bellezza» del neu­roscienziato Semir Zeki. Inoltre, ri­tornano gli incontri con Piergior­gio Odifreddi, le lezioni del ciclo «approfonditaMente», e ci sarà spazio per letture di Baudelaire con Anna Bonaiuto, spettacoli di Stefano Benni e di Stefano Bartez­zaghi, laboratori per bambini, co­me quelli del milanese Museo del­la scienza e della tecnologia.
Un programma denso, come è proprio dei festival culturali. Che piacciono così. Almeno secondo quanto emerge dalla ricerca cura­ta da Guido Guerzoni, «Effetto Fe­stival 2009», presentata ieri alla conferenza stampa del Festival, che aggiorna l’analoga ricerca del 2008, «per verificare — ha spiega­to il docente della Bocconi — se la formula 'festival', dopo i segnali della crisi internazionale, mostra­va crepe. Sospetto allontanato». Da Festivaletteratura al Festival della Matematica, da quello della Creatività a BergamoScienza, dice l’indagine di Guerzoni, il format tiene, il 75 per cento degli organiz­zatori interpellati non ha subìto quest’anno o non prevede perdite di spettatori, e in buona parte si dichiara ottimista. Anche la Cogo­li, che ha concluso: «I consumi di libri e di cultura stanno tenendo, gli italiani hanno recepito la bon­tà del rapporto prezzo/soddisfa­zione di libri, festival ed eventi cul­turali. E io sono ottimista».

l’Unità 9.7.09
La stampa estera insiste
«È uno showman ma non un leader»
di U. D. G.


Il «New York Times» contro il premier: sia Obama a guidare
il vertice, dal governo italiano «imperdonabile rilassatezza politica»
E il francese «L’Express» titola: «Inchiesta sul buffone dell’Europa»

I guastafeste non demordono. E rilanciano la loro sfida al Cavaliere. Un editoriale del New York Times irrompe nel primo giorno dei lavori del G8. «Showmanship: perhaps. Leadership: no», scrive il giornale della Grande mela che sferra un duro attacco al Cavaliere.
Nel giorno in cui Silvio Berlusconi inaugura il summit dell’Aquila. il quotidiano della city spara ad alzo zero nei confronti del premier e invita Barack Obama a prendere in mano le redini del vertice G8. Il governo italiano accusa «una imperdonabile rilassatezza politica» («inexcusably lax planning»), scrive il New York Times in un editoriale dal titolo «Oh, that G8». Quanto al Cavaliere, la critica non potrebbe essere più esplicita. «Nelle scorse settimane il primo ministro italiano ha investito la maggior parte delle sue energie politiche nel tentativo di respingere le accuse dei giornali» che gli imputano «di essere stato cliente di escort e di essersi intrattenuto con minorenni in vesti succinte». lapidaria la conclusione del NWT: «Può andare bene per uno showman, non per un leader». Secca la replica del titolare della Farnesina; Franco Frattini: «Non tollero critiche all'organizzazione del G8».
Dall’America alla Gran Bretagna. Dalla Spagna alla Francia. Il fronte dei «guastatori» si allarga. Il settimanale francese L'Express, in edicola oggi ha la foto di Silvio Berlusconi in copertina e il titolo «Inchiesta sul buffone dell’Europa». L'inchiesta descrive il presidente del Consiglio come personaggio che «cento volte dato per morto, cento volte è resuscitato. In un’Italia che non crede nella politica (il 25% associano la parola a “disgusto” e il 22% a “rabbia”) lui sfugge all’archetipo del potere: personaggio hollywoodiano, incantatore eccentrico, comico grossolano, coach della mente, amico del bar, illusionista poliglotta colpito dalla sindrome di Zelig - il potere di trasformarsi a seconda delle attese - Berlusconi ha inventato un nuovo modello di dirigente, un politico-people che buca lo schermo da 15 anni, e le cui farse soffocano, spesso, i veri problemi del Paese».
Articoli e vignette. Come quella che il Times di Londra dedica ieri al Cavaliere, in cui il presidente del Consiglio italiano è disegnato sorridente, in un suo classico doppiopetto blu, dalle cui tasche e taschino fuoriescono indumenti di biancheria intima femminile: reggiseni e slip. Nella vignetta Berlusconi compare accanto ad una scritta «G8», dove però la cifra otto è sostituita da un reggiseno, che il premier tiene per la spallina. È la stampa, Cavaliere. Quella libera.


l’Unità lettere 9.7.09
Ambiguità delle prediche

Lunedì le agenzie e i quotidiani on-line danno particolare risalto alle prediche di mons. Crociata. Lì per lì mi aveva divertito immaginare tutti questi giornalisti ammassati col taccuino in mano sotto l’ambone in attesa di due paroline sulle attività extra-parlamentari del governo ma poi ho scoperto che la predica, disponibile in formato word sul sito della CEI, e in realtà , sufficientemente generica da poter essere interpretata anche come circolare a uso interno sull’emergenza pedofilia nel clero, per cui è poco chiaro l’eccessivo risalto politico datole dalla stampa. Da che mondo è mondo, del resto, la Chiesa si lamenta della lussuria. Da che mondo è mondo, tuttavia, la Chiesa concede un pio dodicesimo di silenzi al regime che le garantisce un benedetto sedicesimo di privilegi.
Roberto Martina


Il testo originale, come inviato al giornale:

Cara Unità, oggi le agenzie e i quotidiani on-line danno particolare risalto alle prediche di mons. Crociata. Lì per lì mi aveva divertito immaginare tutti questi giornalisti ammassati col taccuino in mano sotto l’ambone in attesa di due paroline sulle attività extra-parlamentari del governo. Poi ho scoperto il trucco. L’intera predica è disponibile in formato word sul sito della CEI. È come tutte le prediche, sufficientemente generica da poter essere interpretata anche come circolare a uso interno sull’emergenza pedofilia nel clero, per cui è poco chiaro l’eccessivo risalto politico datole dalla stampa. Da che mondo è mondo la Chiesa si lamenta della lussuria, lo dimostra il cumulo di citazioni bibliche. È molto chiaro invece che, da che mondo è mondo, la Chiesa concede un pio dodicesimo di silenzi al regime che le garantisce un benedetto sedicesimo di privilegi. Roberto Martina

mercoledì 8 luglio 2009

Repubblica 8.7.09
Il bene del Paese
di Ezio Mauro


I Grandi del mondo arrivano a Roma – mentre Hu Jintao deve ripartire per l´urgenza della crisi cinese – in uno scenario inedito: il chairman del G8 è impegnato in una sua battaglia personale contro i giornali, attaccati domenica con una nota ufficiale del governo per la loro "morbosità", e presi a male parole ieri nella conferenza stampa della vigilia, per aver osato criticare la regia italiana del vertice, accennando all´ipotesi che l´Italia possa essere esclusa in futuro dal G8.
Soffocato dagli scandali che ha costruito interamente con le sue mani, Silvio Berlusconi attribuisce ai giornali la causa dei suoi mali, l´"imbarazzo" e il "calo di reputazione" di cui parla il "Financial Times", gli avvertimenti alla Merkel raccolti dal "Wall Street Journal" sulle fotografie del summit con il premier italiano, che potrebbero metterla in difficoltà nelle prossime elezioni.
Ieri il ministro degli Esteri Frattini ha definito "una buffonata" le indiscrezioni del "Guardian" su una supplenza degli Stati Uniti all´Italia nel lavoro preparatorio degli sherpa e Berlusconi nel pomeriggio ha rincarato la dose: «Una grande cantonata di un piccolo giornale». Come sempre, non è mancato l´attacco diretto a "Repubblica": «Prima mi gettate addosso delle calunnie, poi ve la prendete con me perché queste calunnie fanno male all´Italia».
Il presidente del Consiglio ha perfettamente ragione su un punto: mentre si apre un summit, il cui successo è importante per il nostro Paese che lo ospita, c´è qualcosa in queste settimane che fa molto male all´Italia: è il suo comportamento privato unito alle menzogne pubbliche che cercano di giustificarlo. I giornali stranieri e "Repubblica", com´è regola nel mondo libero, non fanno altro che dar conto di questo ai cittadini-lettori. Tutto il resto – campagne, manovre, eversioni – non è nemmeno un giudizio politico: semplicemente, come ha detto ieri il direttore del "Sunday Times", è una "stupidaggine".

l’Unità 8.7.09
L’affondo del Guardian: «Caos G8, Italia fuori dal club»
di Umberto De Giovannangeli


Inadempiente. Imbarazzante. È l’Italia che apre oggi il G8 dell’Aquila. L’argomentato j’accuse del Guardian e del Financial Times. Il titolare della Farnesina reagisce sdegnato. Ma i problemi restano.

Fuori dal G8. Per l’improvvisazione nella preparazione del summit aquilano e, soprattutto, per gli impegni presi e non mantenuti. La Spagna si scalda. La stampa inglese torna all’attacco del Cavaliere. Espulsi dal G8. Per millantato credito e impegni inevasi. Fuori dalla squadra che conta. Sostituiti dalla Spagna. Non è più solo un boatos. I preparativi per il G8 dell’Aquila «sono stati talmente caotici che si è registrata una pressione crescente da parte di altri Stati membri affinché l’Italia venga espulsa dal Gruppo», scrive il quotidiano britannico The Guardian, citando fonti occidentali di alto rango. Fonti che avevano già anticipato a l’Unità il possibile «cambio di squadra». Nelle ultime settimane che hanno preceduto il vertice, l’assenza di qualsiasi sostanziale iniziativa nell'agenda ha indotto gli Stati Uniti a prendere il controllo della situazione. È stata Washington - scrive il Guardian - ad organizzare gli «sherpa calls», gli incontri fra esperti, un tentativo estremo di dare qualche finalità al G8.
SCONTRO FRONTALE
«Non ha precedenti il fatto che sia un Paese diverso da quello ospite ad organizzare gli sherpa calls, è una sorta di 'opzione nucleare», spiega un alto rappresentante di uno Stato membro del G8. «Gli italiani sono stati spaventosi. Non vi è stato alcun progresso, né pianificazione». L’insoddisfazione dietro le quinte è diventata talmente forte da spingere addirittura taluni Stati ad evocare l’ipotesi che l’Italia possa essere espulsa dal G8. Una delle alternative che aleggia fra le capitali europee è che la Spagna, con un pil procapite superiore a quello italiano e con una quota maggiore del pil destinata agli aiuti allo sviluppo, possa prendere il suo posto.
L’IRA DI FRATTINI
«Spero che esca il Guardian dai grandi giornali del mondo», è la stizzita risposta del titolare della Farnesina, Franco Frattini. «Confermiamo i contenuti dell'articolo del nostro corrispondente diplomatico Julian Borger e rigettiamo completamente ogni ipotesi che le notizie riportate nella storia siano prive di fondamento», è la secca replica del quotidiano britannico. Chissà se l’adirato ministro intenda espellere dai grandi giornali del mondo anche il Financial Times che in un articolo intitolato «Un vertice per Silvio», sostiene che per il premier il G8 sarà un’opportunità per riguadagnare una reputazione in ribasso negli ultimi tempi, «e non solo per i recenti scandali». Secondo il FT, Berlusconi, «che da tempo è una figura controversa», con l'arrivo di Obama e «le nuove politiche pro-Usa di Francia e Germania», ha perso «l'amicizia dell'amministrazione Bush». E - si legge nell'articolo - in vari temi il premier «irrita i suoi alleati: dallo scarso interesse per aiuti allo sviluppo e clima al presentarsi continuamente come un interlocutore tra Washington e Mosca». A protestare è anche il Sndmae, il sindacato cui aderiscono oltre i due terzi dei mille diplomatici italiani. La protesta è contro il piano di chiusure di ambasciate e consolati presentato recentemente dall’Amministrazione del MAE «In primo luogo - si legge in un comunicato - addirittura sconcerto desta la prospettata chiusura dell’Ambasciata a Lusaka, capitale dello Zambia. In un momento in cui la Farnesina, nell’anno della presidenza italiana del G8, afferma il proprio prioritario interesse per l’Africa - sottolinea il sindacato delle feluche - non si capisce davvero come si possa ipotizzare di chiudere un’altra Ambasciata (dopo quelle in Namibia e in Madagascar) nell’area sub-Sahariana: francamente incomprensibile, incoerente e politicamente dannoso».

Repubblica 8.7.09
"Circola l´idea di sostituire nel G8 l'Italia con la Spagna"
Il j'accuse del giornale inglese "Incapaci, rischiate l'espulsione"
di Enrico Franceschini


londra - «Confermiamo tutto», replica il Guardian. Parlare di una "campagna" dei giornali del gruppo Murdoch contro Silvio Berlusconi «è una stupidaggine», replica il Sunday Times. I due più importanti quotidiani politici britannici rispondono così alle accuse del primo ministro. Domenica era stato il Sunday Times a irritare Palazzo Chigi, riportando la notizia che «vari giornali europei» potrebbero pubblicare nuove foto «imbarazzanti» delle feste di Berlusconi. Ieri è stato il turno del Guardian. Il primo, un giornale conservatore di proprietà di Rupert Murdoch, il magnate dell´editoria mondiale; il secondo, storica testata della sinistra britannica.
«Crescono le pressioni all´interno del G8 per espellere l´Italia, mentre i preparativi per il summit scendono nel caos», titola il quotidiano filo-laburista. Nell´assenza di qualsiasi iniziativa sostanziale da parte italiana per organizzare l´agenda del vertice, scrive Julian Borger, corrispondente diplomatico, «gli Stati Uniti hanno assunto il controllo», con un giro di conferenze-telefoniche dei loro "sherpa" per «iniettare all´ultimo momento qualche significato» nell´incontro dell´Aquila. «Che sia un altro paese a organizzare le telefonate degli sherpa è senza precedenti», confida al giornale un alto esponente di un paese del G8, «gli italiani sono stati semplicemente terribili. Non c´è stata organizzazione nè pianificazione». Dice, sempre al Guardian, un diplomatico europeo coinvolto nei preparativi del vertice: «Il G8 è un club e per farne parte ci sono le quote d´iscrizione. L´Italia non ha pagato le proprie». Le proteste dietro le quinte del summit sono arrivate al punto, prosegue l´articolo, da far circolare proposte di espellere l´Italia dal G8. Una possibilità che circola nelle capitali europee, secondo il giornale, è che la Spagna, che ha un reddito pro capite più alto e versa in aiuti al Terzo Mondo una percentuale più alta del pil, «prenda il posto dell´Italia».
Dopo le accuse del ministro degli Esteri Frattini («Spero che esca il Guardian dai grandi giornali del mondo») e del presidente del Consiglio, la direzione del Guardian ha diramato la seguente dichiarazione: «Confermiamo quanto scritto dal nostro corrispondente diplomatico Julian Borger e respingiamo sentitamente qualsiasi affermazione che il suo articolo sia infondato». E alla richiesta di un parere sugli attacchi di Palazzo Chigi, che aveva definito l´articolo del Sunday Times parte di una «morbosa campagna» contro Berlusconi, il direttore del Sunday Times John Withrow ha commentato: «E´ stupido parlare di una campagna. Il Sunday Times ha dedicato un´ampia copertura alle storie su Berlusconi perché crediamo che siano interessanti. Il nostro corrispondente è stato a Bari, in Sardegna, a Roma, conducendo indagini per settimane. Ha citato di tanto in tanto giornali italiani ma ha sempre verificato con le proprie fonti».

Repubblica 8.7.09
La stampa estera: "Un esame per il Cavaliere"
Dal "Wall Street Journal" al "Mundo", dubbi sulla credibilità di Berlusconi
Dall´Inghilterra alla Spagna, dagli Usa al Giappone: decine di giornali lanciano dubbi sul vertice
di Enrico Franceschini


LONDRA - Non è solo il Guardian a dipingere un vertice nel "caos", un Berlusconi incapace di "visione" politica per l´agenda del summit e un´Italia che precipita nella valutazione delle potenze mondiali al punto da far circolare pressioni per "espellere" il nostro paese dal club più esclusivo del mondo, il G8, per rimpiazzarlo con la Spagna. Dalla Gran Bretagna agli Usa, dalla Francia al Giappone, gli organi di stampa più autorevoli, diplomatici di lungo corso come l´ex-segretario generale dell´Onu Kofi Annan ed esperti di affari internazionali descrivono il premier italiano in crescente difficoltà nella vita privata come in quella pubblica, suggerendo di avere, come scrive il Financial Times, "basse aspettative" sui risultati del vertice.
«Da settimane, le notizie sul 72enne leader italiano sono state un totale imbarazzo, ma la sua reputazione è calata per ragioni che vanno al di là dei recenti titoli di giornale» afferma il quotidiano della City, ricordando che Berlusconi è sempre stato giudicato all´estero come una figura controversa e imprevedibile. Ma mentre durante il suo precedente governo, 2001-06, Bush «aveva bisogno di corteggiarlo» perché Washington era in conflitto con Chirac e Schroeder, «oggi tutto è cambiato, Francia e Germania hanno leader fortemente pro-americani, sicchè Obama non ha bisogno di essere tollerante verso Berlusconi».
Sempre sul Financial Times, un secondo articolo, firmato da Quentin Peel, il columnist più autorevole di affari internazionali, rivela che l´ex-segretario generale dell´Onu Kofi Annan ha perso la pazienza e ha scritto «una dura lettera personale» a Berlusconi, rimproverandolo per non avere mantenuto gli impegni presi al precedente G8 sugli aiuti all´Africa. In proposito, un corsivo sull´inserto G2 del Guardian ribattezza il premier italiano «mister 3 per cento», come lo ha chiamato Bob Geldof, il cantante paladino degli aiuti ai paesi poveri: nel senso che Berlusconi «mantiene solo il 3 per cento delle promesse fatte». Un altro quotidiano londinese, il Daily Telegraph, mette in prima pagina la gigantografia di una giovane donna con maglia traforata sotto cui non indossa niente: «Quale leader europeo porta il suo ministro più pieno di glamour al G8?» è il titolo. La donna è Mara Carfagna, si legge a pagina 3: «La modella in topless diventata ministro riceve il compito di intrattenere le mogli al G8» al posto di Veronica Lario.
Il Wall Street Journal racconta che Ulrike Guerot, politologo dell´influente European Council on Foreign Relations di Berlino, ha ammonito Angela Merkel a stare attenta a come viene fotografata accanto a Berlusconi durante il summit: un´immagine ridicola o offensiva, le ha detto, potrebbe costarle la rielezione. Riassume l´Herald Tribune, edizione internazionale del New York Times: «Se il vertice sarà una commedia, una tragedia o una cosa seria, dipenderà dal padrone di casa, assediato dagli scandali e dalle scosse che continuano a far tremare» l´Aquila. Il settimanale francese Marianne titola "Scandali a ripetizione, Berlusconi mette la democrazia a nudo" e sostiene che «in piena crisi economica i politologi discutono sulle relazioni tra lo Stato e le prostitute».
Lo spagnolo El Pais riporta gli ultimi attacchi della Chiesa cattolica a un «libertinaggio irresponsabile», sostenendo che il summit si presenta «delicato» per Berlusconi e che il suo «unico alleato» è il presidente russo Medvedev. Ma anche un giornale russo, Vremia Novosti, riferisce della «immagine compromessa» del premier italiano per «gli scandali che riguardano la sua vita politica e privata»; e l´articolo del Guardian secondo cui è stata l´America più che l´Italia a preparare l´agenda del summit è rimbalzato perfino a un briefing del portavoce di Obama a Mosca.
La stampa giapponese, come lo Yomiuri e l´Ashai, mette l´accento sul fatto che i terremotati «vivono ancora nelle tende». Il tedesco Tagesspiel pubblica un´intervista ad Alexander Stille, docente di giornalismo alla Columbia University, secondo cui Berlusconi è «un megalomane che crede alle proprie bugie». Il Washington Post osserva che «l´interrogativo più grande è se il premier uscirà illeso da nuove gaffes e nuovi scandali». E il quotidiano spagnolo El Mundo elenca tutti i dubbi della vigilia: «I grandi del mondo emargineranno Berlusconi? Le first lady gliela daranno buca per protesta contro il suo atteggiamento verso le donne? Verrà accusato da nuove foto sulla sua vita privata? In definitiva, sopravviverà il Cavaliere al G8?»

Corriere della Sera 8.7.09
Berlusconi e il timore che il vertice diventi una vetrina scivolosa
di Massimo Franco


L’ idea di Silvio Berlusconi è che il G8 comin­ci sotto buoni auspici: nonostante tutto. In conferenza stampa, il premier anticipa perfino alcuni brani del messaggio inviato ai partecipanti da Benedetto XVI; e citando le parole di stima del Papa nei suoi confronti, sembra quasi volere bilanciare le critiche ar­rivate l’altro giorno dai vescovi sulla deriva etica dell’Italia. Scansa la tesi che il vertice in programma da oggi all’Aquila possa essere rovinato dagli attacchi della stampa estera. «Il presidente del Consiglio», si cita in terza persona, «ha la fiducia del 64,1 per cento degli italiani». Conclusione: «Un conto è la realtà, un altro le calunnie». Ma il suo messaggio di fiducia somiglia ad un testardo esorcismo su uno sfondo scettico, dominato dal timore oscuro di rivelazioni scandali­stiche e da voci velenose sul futuro internazionale dell’Ita­lia.
Esiste una zona grigia nella quale non solo il governo, ma i suoi alleati saranno costretti a muoversi nelle prossi­me ore. È il grigiore nebuloso di un’incertezza innegabile. Quella dell’Aquila si presenta come una vetrina impegnati­va ma anche scivolosa: soprattutto per il nostro Paese. Pa­lazzo Chigi ha compiuto uno sforzo enorme per ospitare i cosiddetti «Grandi» nelle zone devastate dal terremoto. Ri­schi sismici a parte, però, Berlusconi approda al vertice pro­vato dalle forche caudine delle sue vicende private; e, sep­pure in modo meno rumoroso e pubblicizzato, da un conte­sto internazionale nel quale spicca la sua amicizia con la Russia di Medvedev e Putin più ancora di quella con l’Am­ministrazione democratica di Barack Obama.
Il premier italiano tende a re­gistrare come un successo an­che suo il buon risultato dei colloqui moscoviti del presi­dente Usa. Eppure, la sua ambi­zione di ritagliarsi un ruolo di mediazione appare impossibi­le da realizzare. Non solo. L’ap­prodo ad un G8 presentato co­me fondamentale è un po’ smi­nuito dal modo in cui alcuni dei partecipanti, come il cancel­liere tedesco Angela Merkel, di­cono di preferire un G20 allar­gato a Cina e India. Per la veri­tà, lo stesso Berlusconi suggerisce un allargamento a quat­tordici nazioni, per adeguare la rappresentanza alla crescita di altre economie mondiali; senza tuttavia archiviare la for­mula attuale, precisa il premier.
Ma sono questioni che passano in secondo piano, di fronte alla sensazione di un’Italia berlusconiana che conti­nua ad essere sovraesposta e bersagliata in modo impieto­so a livello internazionale. E pensare che una volta tanto, almeno la tregua interna sembra reggere. L’appello rivolto ai partiti da Giorgio Napolitano nei giorni scorsi è riuscito a fare questo miracolo. Ma si aggirano molti fantasmi. C’è quello del 1994, quando durante un vertice mondiale a Na­poli l’allora premier si vide recapitare un avviso di garanzia dalla Procura di Milano. Ci sono i ricordi drammatici del G8 del 2001, con le strade di Genova ridotte a terreno di battaglia fra no-global e polizia. E nelle ultime ore, ai veleni sulle frequentazioni femminili del Cavaliere si sono aggiun­ti quelli geopolitici.
Il messaggio che arriva dalla stampa britannica parla di un ridimensionamento dell’Italia; addirittura, in prospetti­va, della sua esclusione dal G8 a favore della Spagna. L’ipo­tesi, avanzata dal Guardian, è stata definita da Berlusconi «la grande cantonata di un piccolo giornale». Ma, per quan­to animate da pregiudizi, alcune testate straniere mostrano di esagerare umori ed incognite che sono già una forma di delegittimazione. È probabile che all’estero si abbia e si tra­smetta un’immagine caricaturale dell’Italia; e che si diano per irreversibili rischi al contrario solo tendenziali. All’origi­ne rimangono l’incomprensione e l’ostilità nei confronti del fenomeno Berlusconi. Eppure, bisognerebbe chiedersi se sia stato fatto il possibile per non alimentare cliché dete­riori che alla fine rischiano di oscurare anche le scelte azzec­cate.

Repubblica 8.7.09
Per capire quelle feste ci vuole lo psicologo
risponde corrado Augias


Gentile Augias, mi tornano in mente le parole di Veronica Lario «Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. È stato tutto inutile.» Non mi interessa condannare Silvio Berlusconi per quello che come uomo fa, ha fatto, farà, ma mi preoccupa e mi fa molto male quello che lui fa, ha fatto e farà come Presidente del Consiglio. Lui dice «non cambio perché gli italiani mi vogliono così». E' vero, al suo elettorato piace così. Ma allora non si affanni a dire che non è quel 'giocherellone' che emerge dalle foto, e dai suoi silenzi.
Anna Maria Cori Roma
Gent. dott. Augias come tutti credo, ho seguito le vicende riguardanti il nostro premier ed il suo harem. Quello che mi ha colpito, è la descrizione dei numerosi, affollati incontri con ragazze giovanissime «costrette» a visionare filmati sui successi di papi, ascoltando la splendida «Meno male che Silvio c'è» sottolineandola con la «ola». Un uomo che manifesta un tale infantile bisogno di essere ammirato mi preoccupa come cittadina, più di tutto il resto. Veramente l'uomo non sta bene, come del resto ha già affermato chi sicuramente lo conosce meglio di ogni altro. Forse anche il nostro Paese non sta molto bene.
Anna Maria Batoli annabrt44@tiscali. it
Solo pochi quotidiani e in pratica nessun telegiornale (a tacere del resto) hanno raccontato che cosa è accaduto, le numerose menzogne via via improvvisate dal presidente del Consiglio che, ogni volta, ha smentito se stesso. Nel panorama complessivo delle feste svoltesi a Roma e in Sardegna, mi ha colpito un dettaglio all'apparenza secondario rivelato dalla signora D'Addario. Secondo la 'escort' il capo del Governo ha cominciato a carezzarla in presenza delle altre ragazze e "delle guardie del corpo". Il dettaglio è inquietante sotto due profili. Esibire lo slancio erotico di fronte a numerose altre persone è un sintomo non proprio normale soprattutto in una persona anziana alle prese con una professionista. Uno psicologo saprebbe sicuramente decifrarlo. Secondo: da questo dettaglio apprendiamo che anche all'interno della sua abitazione, il capo del Governo è sotto scorta. La barriera umana che, al pari di un qualunque tirannello, lo circonda in pubblico è dunque chiamata a proteggerlo non solo quando si mescola alla folla ma anche dentro casa, nel suo salotto, circondato dalle sue ragazze. Si riaffaccia, preoccupante, la famosa decima domanda che da due mesi questo giornale rivolge invano: quali sono le condizioni di salute di quest'uomo?

l’Unità 8.7.09
Nomadi schedati, no del Tar
Il Tribunale amministrativo del Lazio boccia il provvedimento a cui si era opposto il prefetto Mosca, poi rimosso dal governo
di Achille Serra


Non stupisce che la decisione del Tar di vietare le operazioni di censimento all’interno dei campi nomadi, resa nota il primo luglio, sia stata accolta da un silenzio quasi unanime. Il torpore che, da un anno a questa parte, avvolge il Paese e il suo sistema di informazione, infatti, si manifesta sempre attraverso i medesimi sintomi: disattenzione, indifferenza e progressivo, accorciamento della memoria collettiva.
Risale appena all’estate scorsa l’infervorato dibattito sull’intenzione del governo di procedere all’identificazione e alla schedatura di tutti abitanti dei campi nomadi, minori compresi, attraverso rilievi segnaletici. Prima, all’inizio del maggio 2008, Palazzo Chigi, dichiarò lo stato d’emergenza in relazione alla presenza di tali insediamenti in Campania, Lazio e Lombardia. Poi, alla fine del mese, il presidente del Consiglio emanò l’ordinanza che delegava il prefetto di Roma a realizzare gli interventi necessari nel territorio di competenza. Applausi dalla maggioranza, Lega in primis, allarme nell’opposizione e oltre.
A denunciare la connotazione razzista della norma un’ampia rosa di voci autorevoli: la Chiesa, l’associazionismo, il Parlamento europeo, il prefetto di Roma. Quest’ultimo, nella persona di Carlo Mosca, annunciò che non avrebbe messo in atto una legge anticostituzionale e lesiva dei diritti dell’uomo. Secondo copione, tuttavia, il Governo andò avanti e si impose con la forza dei numeri. A Carlo Mosca successe un altro prefetto e Roma, come Milano, dallo scorso febbraio ha il proprio regolamento «per la gestione dei villaggi attrezzati per le comunità nomadi».
L’«emergenza zingari» sembrava così avviata a una felice conclusione, quando Davide lanciò la propria sfida a Golia. E, almeno in parte, vinse. La settimana scorsa il Tar del Lazio, infatti, ha accolto alcuni punti del ricorso contro l’«ordinanza del censimento» presentato dall’associazione European Roma Rights Centre Foundation, insieme a due abitanti di un campo alle porte della capitale, Herkules Sulejmanovic e Azra Ramovic, genitori di tredici figli. La sentenza, nelle parti di accoglimento del ricorso, rappresenta una profonda lezione di civiltà e di buonsenso, oltre a dare finalmente ragione a quanti da mesi denunciano l’immoralità di certi provvedimenti e la loro inconciliabilità con le direttive europee e internazionali. Il Tribunale amministrativo del Lazio ricorda anzitutto che nel nostro ordinamento, i rilievi segnaletici sono riservati a «persone pericolose o sospette» o a quanti «non sono in grado o si rifiutano di provare la loro identità» e costituiscono strumenti «invasivi della libertà personale» cui non si può ricorrere «nei confronti dei minori di età ed in assenza di una norma di legge che autorizzi il trattamento dei dati sensibili da parte di soggetti pubblici». Ossia, quanto per settimane ha ripetuto l’allora prefetto Carlo Mosca.
La sentenza poi interviene sulle disposizioni che disciplinano «il controllo degli accessi» ai campi da parte di un presidio di vigilanza. Sia il regolamento di Roma che quello di Milano prevedono, infatti, che le forze dell’ordine controllino tutti gli ingressi nei villaggi, sia degli abitanti che devono essere muniti di tesserino di riconoscimento, sia dei loro ospiti, da registrare in appositi registri. Norme che avrebbero trasformato i campi in una sorta di prigioni a cielo aperto. Negli anni passati esponenti dell’attuale opposizione, a cominciare dal sottoscritto, avevano auspicato più controlli sui campi nomadi, controlli che dovevano iscriversi in un quadro di riforme tese ad agevolare l’integrazione di tali comunità nella nostra società. Le «dogane» che la maggioranza tenta oggi di istituire si spingono ben oltre. Sottoporre i nomadi a un regime di ispezione continua e indiscriminata, infatti, è cosa ben diversa dal combattere la criminalità, che indubbiamente si annida in alcuni dei loro campi, con strategie lecite e democratiche. E il Tar non ha potuto ignorare questa differenza, la stessa che corre tra una politica seria sulla sicurezza e la campagna di paura e allarmismo alimentata ad arte dall’attuale governo. Le disposizioni sui campi nomadi, come la legge sulla sicurezza appena varata, rispondono perfettamente al diktat della tolleranza zero: annunci altisonanti senza alcun effetto concreto sui problemi del Paese. Dopo tanto chiasso, siamo al punto di partenza: la vita dentro i campi nomadi continuerà come prima e lo stato d’emergenza decretato dal Consiglio dei ministri un anno fa diventerà cronico. Una verità mascherata dal torpore che ci avvolge.

l’Unità 8.7.09
Laicità /1
La «mozione» Franceschini
«Il partito ha imparato a far sintesi anche su questo»
Intervista a Giorgio Tonini di Andrea Carugati


La laicità è un patrimonio di tutto il Pd, uno dei punti chiave del nostro manifesto dei valori, sarebbe sbagliato farne una bandiera di una parte», spiega Giorgio Tonini, senatore, tra i principali consiglieri di Veltroni e ora con Franceschini.
La vostra mozione come si connoterà su questo tema?
«L’idea di una distinzione chiara e netta tra ciò che è della politica e ciò che è della religione».
Sempre più spesso però questa distinzione, in Italia, viene meno. Cosa deve fare il Pd?
«Essere un partito forte e plurale che può parlare con tutti, comprese le Chiese, e poi decidere in autonomia. L’idea stessa del Pd è un passo avanti: un partito che contiene posizioni diverse che si abituano a confrontarsi e a produrre sintesi impegnative per tutti. Un esempio: sulla fecondazione assistita Ds e Dl votarono divisi, sul testamento biologico il gruppo Pd in Senato è stato compatto, con solo 4 voti in dissenso».
Pensa che la vostra mozione appaia come quella meno laica?
«Se per laica si intende polemica verso il mondo cattolico allora è vero. Ma Franceschini ha avuto parole chiarissime sulla laicità, gli “esami” li ha già superati tutti con profitto».
Su coppie di fatto e matrimoni gay che proposte farete?
«La mia posizione è quella di Obama: il matrimonio come unione di due persone di sesso diverso è un valore fondante, ma vanno tutelate anche le convivenze, in particolare per quanto riguarda i diritti di assistenza in caso di malattia».
E i matrimoni gay?
«Neppure i Ds li hanno mai proposti, tantomeno le adozioni. Bisogna tornare all’impianto dei Dico».
Oltre non si può andare?
«Lo dice la Costituzione, non solo la Chiesa. Matrimonio e convivenza sono due cose diverse».
Il sostegno a Franceschini dei teodem vi farà perdere voti “laici”?
«Immagino un Pd con il gusto di incontrarsi tra persone diverse. I teodem sono una ricchezza, non mi piace quanto sento dire che bisogna mandare via qualcuno».
Come valuta Marino candidato?
«Lui ha un giudizio negativo della nostra battaglia sul testamento biologico in Senato...».
Teme che possa radicalizzare lo scontro?
«Non credo, lo stimo, è una persona che crede nel Pd e sa che costruendo tifoserie sui temi etici faremmo male al Pd senza trovare soluzioni all’altezza dei problemi».

l’Unità 8.7.09
Laicità /2
La «mozione» Bersani
«Per noi è valore fondante. Il congresso dica cose nette»
Intervista a Barbara Pollastrini di Laura Matteucci


È il principio che deve ispirare la cultura, le scelte, l’intera visione politica di un partito che si chiama democratico. Democrazia e laicità non possono esistere l’una senza l’altra. E il congresso di ottobre è un’occasione straordinaria per riaffermarlo». Il valore della laicità, che ritiene «decisivo», ha ispirato tanta parte della pratica politica della deputata Pd Barbara Pollastrini. «Battaglie che sapevamo difficili», dice, «come quella sulla fecondazione assistita, o per i Dico, ma che volevamo fare: nessuna “ragion di stato” è sufficiente per venir meno».
Ritrova queste sue stesse convinzioni in Bersani?
«Nessuno ha l’esclusiva della laicità. Ma certo Bersani, nelle sue parole all’Ambra Jovinelli, l’ha collocata come una bussola per interpretare il mondo. Non è importante quante volte la nomini, è importante che la ritenga essenziale, declinata in tutti i temi della pratica politica».
Quali temi?
«Innanzitutto è il faro in un mondo attraversato dai fondamentalismi. Poi, attiene ai diritti e doveri delle persone. Una visione laica implica il riconoscimento delle persone nella loro libertà e responsabilità, ed è la leva di un nuovo civismo. È la base dell’idea di progresso da rendere maggioritario e popolare nel paese. Pensiamo ad un tema quale la migrazione: solo uno sguardo laico tiene insieme i due aspetti, solidaristico e legalitario, come ritengo indispensabile fare. Pensiamo al corpo delle donne: la stessa idea di rispetto nasce da una visione laica, tanto più negli scontri che attraversano il mondo. Obama, Lula, Zapatero, si ispirano alla laicità per praticare nuove teorie sociali di uguaglianza che da noi, invece, faticano a prendere terreno. C’è il tema dell’avanzare della scienza, importantissimo anch’esso. Ecco perchè con altri ho ridepositato la proposta di legge sul testamento biologico, simile a quella dei senatori Marino e Veronesi».
Per il Pd punto cruciale e assai sensibile: la richiesta è forte, l’offerta vacilla.
«Finora non ha avuto l’impatto che avrebbe dovuto avere. È mancata la consapevolezza delle sue attualità e modernità. Il congresso è l’occasione perchè si affermi come valore fondante, irrinunciabile per costruire un partito con lo sguardo al futuro».
La domanda di molti è: in un Pd laico, che ci fanno i teocon, Binetti in testa?
«Sta a lei rispondere, lo dico con rispetto. Io credo di essere dalla parte della maggioranza dei nostri sostenitori».

l’Unità 8.7.09
Laicità /3
La «mozione» Marino
«Finora è stata la battaglia solo di una minoranza»
Intervista a Stefano Rodotà di Mariagrazia Gerina


Il Pd sulla laicità deve chiarirsi le idee, fin qui è stata la battaglia di una minoranza, che Marino ha condotto anche quando è stato messo da parte dal suo stesso partito», spiega il costituzionalista Stefano Rodotà, convinto che la candidatura di Marino possa far bene: «È nuova in senso serio, viene da una esperienza politica importante, è tutta di contenuti e non di schieramento». La sua però è una «valutazione esterna», spiega: «Interverrò, seguirò, ma non prenderò la tessera del Pd».
Non la convince la posizione degli altri candidati sui temi della laicità?
«La critica che ho rivolto è molto netta: su queste cose su cui è necessaria chiarezza le persone che come Marino hanno preso posizione sono molto poche. Adesso vedo che c’è un ritorno del tema laicità. E penso che questa sia una cosa buona, ma è il risultato di una battaglia che è stata patrimonio di una minoranza nel Pd come nel paese. Se la laicità è entrata nell’agenda del Pd non è per i vecchi dirigenti che adesso ne prendono atto ma per i pochissimi che hanno portato avanti quelle istanze in parlamento. E Marino lo ha fatto anche quando è stato messo da parte dal suo stesso partito, che nel fuoco della battaglia lo ha sostituito in commissione».
Dorina Bianchi, che ha preso il suo posto, nega un problema laicità.
«Hanno paura anche delle parole. Ma in un sistema democratico ci sono valori non negoziabili che vanno difesi, come il diritto all’autodeterminazione della persona. E lasciamo perdere i giochi di parole. Anche la libertà di coscienza non è dei parlamentari ma dei cittadini. Un partito deve dire se queste sono materie che vanno affidate alla legge dello Stato o se la legge deve tutelare la libertà di scelta secondo coscienza delle persone, che deve essere aiutata. Questa è la prima decisione da prendere. Marino, per esempio aveva proposto investimenti sulle terapie del dolore e sugli hospice. Cose concrete che una consentono alle persone di decidere».
C’è chi dice che un candidato «monotematico» non è adatto a guidare un partito.
«Ma la laicità è un modo di leggere la Costituzione ed è una delle componenti della logica costituzionale. Significa: rispetto delle regole democratiche, dialogo, tolleranza nei confronti degli altri fuori da ogni fondamentalismo, rispetto dei diritti fondamentali che si tratti delle materie che riguardano la vita, la sicurezza, l’immigrazione».

Repubblica 8.7.09
Cina, infuria la rivolta degli uiguri il presidente Hu Jintao torna a Pechino
Disertato il G8. Si aggrava la crisi, nella notte via da Pisa
di Federico Rampini


A Urumqi decretato il coprifuoco dalle nove di sera alle otto del mattino
Nelle retate di massa del governo sarebbero scomparse più di 1.500 persone

La regione dello Xinjiang è in fiamme. E il presidente cinese Hu Jintao decide all´improvviso di tornare a Pechino, abbandonando i lavori del G8 proprio alla vigilia dell´apertura. Hu Jintao è decollato nella notte dall´aeroporto di Pisa lasciando in Italia solo una delegazione di diplomatici. «Gli affari interni e la situazione nello Xinjiang hanno fatto partire in anticipo il presidente» ha spiegato il primo consigliere politico dell´ambasciata cinese in Italia, Tang Heng.
Dopo la strage compiuta dalle forze dell´ordine, con i 156 morti di domenica, ieri nella provincia dello Xinjiang è scattata la "caccia al musulmano". Per vendicarsi contro gli attacchi degli uiguri - la popolazione locale di religione islamica - centinaia di cinesi etnici (gli han) sono scesi in piazza armati di bastoni e machete. A Urumqi, il "ghetto islamico" dove il ceppo originario della popolazione turcomanna ora in stato di assedio, i protagonisti della spedizione punitiva sono stati a stento trattenuti dalla polizia. La rabbiosa manifestazione ha dato un assaggio di quel che potrebbe accadere se lo Xinjiang si trasformasse in un campo di battaglia tra le due etnie. I cinesi marciavano cantando l´inno nazionale, un´esibizione di orgoglio raramente così visibile nelle provincie periferiche, dove la supremazia cinese è già ben rappresentata dall´autorità politica. Per riprendere il controllo di Urumqi il governo locale ha decretato il coprifuoco, ogni giorno dalle 9 di sera alle 8 del mattino. In precedenza duecento donne uigure erano scese in strada per chiedere notizie dei congiunti, arrestati dopo i moti di domenica. Nelle retate sarebbero scomparse più di 1.500 persone.
È un salto di pericolosità la manifestazione di ieri, quelle centinaia di cinesi decisi a farsi giustizia. Una mobilitazione che può degenerare in la guerra civile. A Urumqi i rapporti numerici sono già in favore degli han. Grazie alla massiccia immigrazione degli ultimi anni ormai l´etnìa turcomanna è solo il 30% nella capitale provinciale (2,5 milioni di abitanti). È proprio questa una causa dell´esasperazione degli uiguri. Attraverso l´immigrazione la Repubblica Popolare li diluisce fino a emarginarli. Una "provincia autonoma" che per Pechino ha valore strategico. Lo Xinjiang è grande 5 volte l´Italia. Nel sottosuolo è custodito un quarto del gas e petrolio cinese, il 40% di tutto il carbone.
Colpisce la differenza con quanto accaduto in Tibet nel marzo del 2008. Dopo quella rivolta anti-cinese gli han di Lhasa non scesero in piazza, a riprendere il controllo della città furono i corpi paramilitari. La reazione degli han a Urumqi ha diverse spiegazioni: il carattere ancorapiù radicale della contrapposizione con i musulmani, che non hanno un leader pacifista come il Dalai Lama; la superiorità numerica ancora più schiacciante degli han a Urumqi. Anche il governo di Pechino ha svolto un ruolo, conl´uso delle immagini della rivolta da parte dei mass media. L´anno scorso sui moti di Lhasa all´inizio ci fu imbarazzo, solo lentamente filtrarono notizie sulle morti di alcuni cinesi. A Urumqi invece la tv di Stato ha diffuso subito immagini terribili,di cinesi coperti di sangue, alimentando la sete di vendetta.
In tutto lo Xinjiang cinesi e musulmani vivono in mondi a tenuta stagna. L´apartheid è visibile nella geografia dei quartieri: i centri sono islamici, le periferie moderne sono cinesi. Le comunità convivono fra diffidenze reciproche, razzismi, diseguaglianze socio-economiche stridenti. Il governo di Pechino nega perfino che il separatismo abbia un fondamento storico. Secondo la storia raccontata dai cinesi, l´imperatore Wudi spinse il suo dominio sulla regione già nel secondo secolo prima di Cristo, per le spedizioni lungo la Via della Seta verso i regni di Samarcanda e Bucchara, l´India e la Persia. In realtà lo Xinjiang - che gli uiguri continuano a chiamare Turkestan orientale - ha alternato secoli di indipendenza sotto khanati buddisti o islamici, periodi di sottomissione ai mongoli o al Tibet, all´impero ottomano o alla Cina. L´ultima indipendenza, goduta a sprazzi negli anni Trenta e Quaranta, fu conquistata da un movimento pan-turco. Dopo l´annessione alla Cina le turbolenze sono state costanti. Nel 1986 lo Xinjiang fu il teatro della prima e unica protesta anti-nucleare della Cina, una manifestazione contro i test delle bombe atomiche nel deserto di Lop Nor. L´anno scorso diversi attentati sono avvenuti poco prima delle Olimpiadi. Rebiya Kadeer, nota imprenditrice locale, vive da esule politica negli Stati Uniti ed è la portavoce più celebre della causa degli uiguri. La metà dei detenuti nei campi di lavoro dello Xinjiang, denuncia la Kadeer, sono stati condannati per le loro pratiche religiose.
Il governo sperimenta da anni nello Xinjiang la stessa "cura" del Tibet: diluire l´identità locale portando modernizzazione, ricchezze e tecnologie. Lo sviluppo è ben visibile nella parte moderna di Urumqi, i suoi frutti però arrivano solo in parte ai musulmani. «Per gli uiguri mancano le abitazioni - dice la Kadeer - mentre continuano a entrare immigranti dal resto della Cina». I lavori più qualificati finiscono ai giovani tecnici affluiti dal resto della Cina. È stata costruita una nuova linea ferroviaria per favorire l´immigrazione. Per gli han che accettano di trasferirsi, la vasta regione semidesertica ai confini dell´Asia centrale fino a ieri è stata la Nuova Frontiera del boom.

Repubblica 8.7.09
"Il mercato da solo non basta giustizia sociale e lavoro per tutti"
L’enciclica di Benedetto XVI: l´economia ha bisogno di etica
di Orazio La Rocca


CITTÀ DEL VATICANO - «La crisi finanziaria obbliga a riprogettare il cammino sociale dell´uomo». «Cresce la ricchezza mondiale, ma aumentano le disparità sociali e nascono nuove povertà, nuove esclusioni, nuove ingiustizie, nuovi sfruttamenti, come dimostrano le migliaia di immigrati in fuga verso l´Occidente; da qui l´esigenza impellente di assicurare lavoro e benessere per tutti, specialmente per chi viene posto fuori dai sistemi produttivi». «Senza forme di solidarietà, il mercato non è utile all´uomo e rischia di diventare luogo di sopraffazione del più forte sul debole». Ma, soprattutto, «non si può affrontare la questione sociale senza riferirsi alla questione etica e morale».
Richiami, denunzie, sollecitazioni, speranze, moniti. Ecco il pensiero sociale di un papa teologo, Benedetto XVI, secondo la Caritas in veritate, l´attesa terza enciclica del suo pontificato, la prima sui problemi sociali e del lavoro, presentata ieri in Vaticano. Un testo colmo di preoccupazione per una crisi finanziaria mondiale che - avverte il Papa - sta mettendo a dura prova milioni di persone con «perdite di posti di lavoro, disoccupazione, precarietà». Una lettera che si rivolge a tutti, «istituzioni e gente comune, credenti e non credenti, uomini di buona volontà», ma - principalmente - ai cristiani chiamati in causa fin dall´incipit dell´Introduzione in cui Benedetto XVI ricorda che «la carità nella verità, di cui Gesù Cristo s´è fatto testimone... è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell´umanità intera».
La nuova enciclica di Ratzinger - che vede la luce dopo la Deus caritas est del 2005 e la Spe salvi 2007 - si rifà alle grandi encicliche sociali di altri Papi del secolo scorso, la Centesimus annus di Giovanni Paolo II, la Populorum progressio di Paolo VI, e la Rerum novarum di Leone XIII, la prima enciclica sociale della Chiesa cattolica. Il Papa - dopo un lungo e tormentato lavorìo di ricerca, di approfondimenti e di aggiustamenti alla luce delle difficoltà economiche internazionali degli ultimi tempi - «ha significativamente resa nota la sua nuova enciclica alla vigilia del G8, al quale Benedetto XVI ha già illustrato il contenuto dell´enciclica con la lettera inviata agli 8 "grandi" che si riuniranno da domani all´Aquila», spiega il cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio consiglio di Giustizia e pace, intervenuto alla conferenza stampa col cardinale Paul Josef Cordes, presidente di Cor Unum, il dicastero della carità del Papa, insieme al vescovo Gianpalo Crepaldi, segretario di Giustizia e Pace, e all´economista Stefano Zamagni.
La Caritas in veritate - porta la data del 29 giugno scorso, festività dei santi Pietro e Paolo - è un testo di 144 pagine suddivise in sei capitoli, ciascuno dei quali dedicato ad un tema specifico. Nel primo capitolo, Ratzinger illustra come «la sua nuova enciclica - spiega Martino - sia in continuità con la Populorum progressio pubblicata 40 anni fa da Paolo VI, che sollevò il problema dello sviluppo dei popoli, specialmente dei più poveri. Ratzinger allarga il concetto montiniano puntando allo sviluppo umano integrale della singola persona, parlandoci delle sue esigenze, denunciando gli attuali sistemi socio-produttivi e chiedendo nuovi modelli operativi, a partire da una ormai necessaria riforma dell´Onu».
Negli altri capitoli, si parla di «Sviluppo umano nel nostro tempo»; di «Fraternità, sviluppo economico e società civile»; di «Sviluppo dei popoli, diritti e doveri, ambiente»; di «Collaborazione della famiglia umana» e di «Sviluppo dei popoli e la tecnica». Tra le novità, monsignor Crepaldi nota «i diritti alla vita e alla libertà religiosa per la prima volta indicati in una enciclica sociale; come pure procreazione e sessualità, aborto ed eutanasia, manipolazioni genetiche e selezione eugenetica valutati come problemi sociali di primaria importanza. Ma anche l´ambiente che il Papa invita a liberare da alcune ipoteche ideologiche che considerano la natura solo materialisticamente prodotta dal caso o dalla necessità».
Tra i primi a commentare positivamente la nuova enciclica Guglielmo Epifani, segretario Cgil («Documento positivo che mette al centro il lavoro«) e Luigi Angeletti, leader Uil («E´ una sferzata per tutti che tra l´altro esorta a non abbassare il livello della tutela dei lavoratori»). Per Raffaele Bonanni, segretario Cisl, è «una enciclica punto di riferimento e di speranza per tutto il mondo del lavoro», in sintonia col ministro dell´Economia Giulio Tremonti («Un documento molto importante»), e col leader dell´Udc Pier Ferdinando Casini che «invita il Parlamento ad analizzare subito l´enciclica, un testo straordinario che va approfondito con serietà».

il Riformista 8.7.09
Caritas in veritate
Consiglio a sinistra, leggetevi il Papa
di Ritanna Armeni


Un consiglio a sinistra: leggere e sottolineare l'enciclica di Benedetto XVI "Caritas in veritate". Poi fermarsi a riflettere su se stessi, su quello che i partiti di sinistra, di centrosinistra, laici e cattolici hanno detto e fatto negli ultimi anni sul lavoro e sui lavoratori. E, quindi, trarne le conclusioni.
Io l'ho fatto. La conclusione che ne ho tratto è molto semplice.
Caritas in veritate contiene molte idee e valori storicamente definiti di sinistra. E sui quali la sinistra farebbe bene a tornare. E molte, molte idee che negli ultimi anni ha messo in soffitta, se non addirittura rinnegato.
Lo so bene. Le encicliche sociali sono sempre state attente ai mutamenti del mondo del lavoro e hanno espresso l'anima profondamente solidale di una istituzione antica e complessa come la Chiesa. Alla fine dell'800 ha fatto scandalo quella "Rerum novarum" che chiedeva un salario giusto che permettesse il sostentamento dignitoso del lavoratore e della sua famiglia. Già nella "Quadragesimo anno" di Pio XI si descriveva un'economia «orribilmente dura, inesorabile, crudele». E in "Mater et Magistra" Giovanni XXIII definisce senza mezzi termini «ingiusto» un sistema economico che comprometta o sia di impedimento alla dignità umana. Anche nel caso - aggiungeva - che «la ricchezza in esso prodotta attinga quote elevate e venga distribuita secondo criteri di giustizia e di equità».
Ma proprio qui è il punto. Ancora una volta la dottrina sociale della Chiesa attraverso Benedetto XVI sceglie la radicalità della sua verità e non si fa incantare dalle sirene del pensiero dominante. Dalle sirene della globalizzazione, in questo caso, che con i loro canti hanno affascinato e incantato anche la sinistra. Nessuna confusione offusca il messaggio sociale della Chiesa che rimane fermo "in veritate", vede la situazione per quello che è e chiede che in essa sia immessa, cresca e si sviluppi la caritas, cioè l'amore, la solidarietà, il rispetto per l'uomo e per la donna.
E allora è vero - è, appunto, in veritate - che nel mondo globalizzato «la mobilità lavorativa, associata a una deregolamentazione generalizzata, è stata un fenomeno importante, non privo di aspetti positivi» ma la caritas, cioè l'attenzione agli uomini e alle donne fa vedere quanto «l'incertezza circa la condizioni di lavoro, in conseguenza dei processi di mobilità e di deregolamentazione» abbia portato a «forme di instabilità psicologica, di difficoltà a costruire propri percorsi coerenti nell'esistenza, compreso quello verso il matrimonio. Conseguenza di ciò - dice l'enciclica - è il formarsi di situazioni di degrado umano, oltre che di spreco sociale».
Leggere, sottolineare e riflettere. Altro che precarietà buona e precarietà cattiva, altro che gli innumerevoli dibattiti sulla necessità che il mercato sia libero da lacci e laccioli e che i lavoratori rinuncino al mondo del lavoro fisso e siano felici nella nuove flessibilità . La caritas fa vedere il degrado, l'infelicità, lo spreco di energie, la mancanza di senso del lavoro nella globalizzazione. Sbaglio o a sinistra di questo si è parlato poco o niente? Sbaglio o ci si arresi alle regole del mercato ritenute inviolabili e necessarie anche quando toccavano pesantemente la vita delle persone? Sbaglio o ci si è limitati a proporre o a sostenere leggi che ordinavano l'esistente senza mai proporsi un cambiamento del degrado?
Per molti anni si è rinunciato alla caritas, non si è guardata alla verità con gli occhi dell'amore e della solidarietà. E questo ha impedito, ahimé, anche di guardare davvero la realtà. Quella dell'impresa, ad esempio, che oggi appare dominata «da una classe cosmopolita di manager che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi…». O al ruolo della Stato di cui «ragioni di saggezza e di prudenza - dice l'enciclica - suggeriscono di non proclamare troppo affrettatamente la fine» - anzi, si aggiunge - «in relazione alla soluzione della crisi attuale, il suo ruolo sembra destinato a crescere…».
Leggere e sottolineare. L'invito è anche per i sindacati. La luce della caritas, renderebbe chiaro che non minore, ma maggiore deve essere il ruolo delle organizzazioni sindacali che oggi appaiono chiuse nella difesa dei propri iscritti e invece dovrebbero volgere «lo sguardo anche verso i non iscritti, e, in particolare, verso i lavoratori dei Paesi in via di sviluppo, dove i diritti sociali vengono spesso violati».
E sottolineare anche la parte sull'immigrazione. Per chiedersi a sinistra quanto si sia effettivamente combattuta la battaglia perché gli immigrati «non siano considerati una merce o una mera forza lavoro» e «non siano trattati come qualsiasi altro fattore di produzione». Quando la battaglia contro il decreto sicurezza si fa, come ha fatto gran parte della sinistra, non in nome della solidarietà, dell'amore e dell'accoglienza, ma in nome dell'efficacia di norme sulla sicurezza proposte dal governo è inevitabile la rinuncia alla caritas.
E soprattutto a sinistra si rifletta su quella parte dell'enciclica che propone «l'esperienza stupefacente del dono» perché il dono è il superamento se non il contrario del merito, parola tanto incantatrice quanto illusoria che usata per giustificare l'assenza in tante sue proposte della caritas.
Il dono è l'eccedenza, il gratuito, il di più, quello che non è contemplato nelle regole del mercato, che supera anche la giustizia. Il dono non è uno smottamento sentimentale, ma una scelta razionale. Questo dice Benedetto XVI. E senza citarla rimanda alla bellissima parabola della vigna. Il padrone della vigna dà un denaro come pattuito a chi aveva lavorato tutta la giornata, ma anche a chi aveva lavorato solo poche ore. I primi - racconta Matteo - nel ritirarlo, mormoravano contro il padrone dicendo: questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi».
Ancora: leggere, sottolineare e riflettere.

Repubblica 8.7.09
Medicine per l’anima
Se le persone contano più dei farmaci
di Jean Starobinski


Ho visto quanto miglioravano le vite dei malati: perciò non ho mai capito l´antimedicina
Il concetto di "prossimo" e il rispetto per gli altri non sono prodotti della scienza
Lo scrittore svizzero racconta la sua esperienza di medico e di psichiatra. E come il "fattore umano" sia decisivo per alleviare le sofferenze

Il mio rapporto con la scienza è avvenuto in ambito medico, più specificatamente nell´ambito clinico. Ho fatto esperienza di pratica ospedaliera, ma non nei laboratori della ricerca di base dove le conoscenze biologiche si costruiscono con il supporto delle scienze cosiddette "esatte". Per cinque anni sono stato assistente in un reparto ospedaliero di medicina interna. Ho così avuto la possibilità di constatare, ancora alla fine degli anni Quaranta, come si morisse di poliomielite o di tubercolosi in un Paese benestante. Ho avuto la fortuna di poter somministrare i nuovi preparati che il progresso scientifico andava mettendo a nostra disposizione: antibiotici, corticosteroidi, antipertensivi, anticoagulanti, vaccini. Ho dunque toccato con mano come potessero cambiare i destini dei malati, come si arricchisse l´assortimento delle risorse terapeutiche disponibili, e come si allungasse l´aspettativa di vita. I cambiamenti ai quali ho potuto assistere nella mia vita mi hanno reso poco recettivo nei confronti delle svariate forme di contestazione nei confronti della scienza medica che si sono susseguite da allora.
Più avanti, nel 1957, quando sono entrato a far parte dello staff medico dell´Ospedale psichiatrico di Cery nei pressi di Losanna, ho assistito ad altri progressi ancora: la calma, nelle sale e nei corridoi, regnava da poco. Era tuttavia inquietante. La clorpromazina (disponibile nel preparato Largactil) si era rivelata un neurolettico efficace contro l´irrequietezza degli schizofrenici, solo che molti di questi malati, un po´ recalcitranti, cominciavano a evidenziare i sintomi di un Parkinson indotto dal farmaco, a riprova, impressionante, dell´importanza degli "effetti collaterali" in farmacologia!
In quegli stessi anni 1957-1958, raccolsi con i miei colleghi alcune osservazioni cliniche sulla recentissima terapia farmacologica della depressione: l´imipramina (Tofranil di Geigy) era appena stata immessa sul mercato e la sua efficacia era apprezzabile: i grandi depressi uscivano quasi miracolosamente dalla loro prostrazione. Tuttavia, questo farmaco ci obbligava a tenere rigorosamente sotto controllo i suoi effetti collaterali, perché con il ritorno della mobilità e dell´istinto a muoversi si assisteva a un risveglio degli impulsi suicidi. Insomma, per alleviare la sofferenza della depressione si sarebbero resi necessari ulteriori progressi.
Nel caso specifico io contribuii prendendo parte a uno studio storico: nel 1958 avevo già pubblicato diversi testi di critica letteraria, ma la prassi accademica mi imponeva di pubblicare ancora un´ultima ricerca per ottenere il titolo di dottore in medicina. Lo feci, a partire dalla mia recente esperienza in ambito medico e dalla mia prima formazione in lettere classiche, redigendo una Storia della terapia della depressione, che fu pubblicata, fuori commercio, nella serie degli Acta Psychosomatica dei laboratori Geigy. Il mio studio riporta il sottotitolo Dalle origini al 1900. La restrizione della finestra temporanea può apparire enigmatica: perché mai fermarsi infatti alla data arbitraria del 1900? Perché lo studio dedicato alla storia recente della terapia della depressione era toccato a Roland Khun, che era stato lo scopritore dell´efficacia antidepressiva dell´imipramina. Nelle sue vesti di responsabile medico dell´ospedale psichiatrico di Münsterlingen (nel cantone di Turgovia), egli aveva accettato di sperimentare questa nuova sostanza che il laboratorio di produzione sperava potesse rivelarsi efficace in un ambito completamente diverso da quello della psicosi depressiva. L´attenzione, il metodo, l´intuizione clinica di Roland Khun lo portarono a scoprire la proprietà basilare di quel farmaco, che l´avrebbe fatto diventare – al pari di preparati analoghi – indispensabile nella pratica psichiatrica.
Per diverse ragioni, però, Roland Khun dovette rinunciare a scrivere la monografia. Nel frattempo, avevamo iniziato a comunicare per corrispondenza, diventando interlocutori e infine amici a distanza. Ciò che ho maggiormente amato in lui – e che mi pareva avere somma importanza nella pratica psichiatrica – era il modo col quale sapeva mettere in atto un approccio medico e psicoterapeutico completo, che interessava due aspetti intellettuali di ordini diversi ma complementari: da una parte la spiegazione scientifica, dall´altra una simpatia illuminata, ovvero una comprensione partecipe e riconosciuta derivata dalla riflessione.
Ho l´impressione di essermi trovato, all´epoca, a un crocevia molto trafficato, in corrispondenza del quale confluivano e si intersecavano molti itinerari di ricerca del secolo scorso. Roland Khun aveva scritto un interessante studio sul test di Rorschach e la percezione delle maschere da parte di alcuni soggetti sottomessi a quel test. Scrissi un resoconto su quello studio per la rivista Critique, diretta da Georges Bataille, perché la questione della maschera mi aveva interessato sul piano dell´espressione letteraria. Nello specifico, la mia attenzione era attirata dalle opere letterarie il cui intento dichiarato o il cui tema era la denuncia della menzogna e dell´inautenticità. Il mio primo progetto di saggio letterario, presentato al mio maestro e amico Marcel Raymond, si intitolò I nemici della maschera. Avevo in mente di parlare, in uno stesso volume, di Montaigne, La Rochefoucauld, Rousseau, Stendhal, Kierkegaard, Valéry. Più avanti vi aggiunsi Freud, non tanto come"maître à penser", quanto come oggetto di studio. Nel caso di alcuni di loro, era doveroso ammettere che quegli amanti della verità non avevano esitato a ricorrere a pseudonimi, e che altri ancora si erano immedesimati in diversi personaggi della Storia o della finzione letteraria…Le mie opere si sono ampliate progressivamente e al contempo allontanate. Mio vivo desiderio era quello di analizzare, in modo quanto più aderente possibile al testo, il gesto dello "smascheramento", la sua messinscena, e soprattutto le illusioni che avevano potuto accompagnarlo. Caddi perfino in trappola, facendo di me stesso uno smascheratore di smascheratori. […]
La ricerca scientifica ha dotato gli uomini di poteri immensi, ma ciò di cui la scienza in ogni caso non ci avverte è che uso convenga fare di tale potere, o da quale uso astenersi. La scienza non è in grado di dirci le motivazioni e gli imperativi morali che dobbiamo rispettare sia nella fase di acquisizione sia in quella di applicazione del sapere scientifico. Forse un giorno ci sarà uno scienziato che sulla base delle sue sole convinzioni personali ce lo comunicherà, ma in tal caso non sarà il sapere scientifico in toto a mettercene al corrente. Il concetto di "prossimo", per esempio, e l´imperativo di rispetto del prossimo non sono un prodotto della scienza, in quanto essa ci riporta unicamente dati di fatto, quantificati e verificati. Di conseguenza, l´imperativo del rispetto del prossimo assume tanta più importanza in quanto non è garantito da alcuna prova "oggettiva". Per ciò che concerne l´acquisizione del sapere e la sua applicazione, non deve essere lecito dichiarare «Faciamus experimentum in anima vili» (Facciamo l´esperimento su un´anima – o un corpo – miserabile). Queste parole, presenti in un racconto del XVII secolo, sono proferite da un medico privo di scrupoli in un ospedale dove si curavano i poveri. L´umanista Muret, dopo averle ascoltate, esclamò: «Come se fosse stata miserabile l´anima per la quale Cristo non si è sdegnato di morire!». Queste parole non erano dettate dal sapere scientifico, perché la scienza stessa non ha argomenti per vietare l´abuso del suo potere. Conosco l´esclamazione di Muret perché Diderot, non credente, le cita a due riprese nei suoi scritti. Non resta che auspicare che siano quelle a costituire il punto di convergenza tra coloro che credono che Cristo è morto per tutti gli uomini e coloro che stimano che la Terra è in ogni caso il nostro solo e unico paradiso.
Traduzione di Anna Bissanti


Corriere della Sera 8.7.09
Nuove regole Da ieri le cellule sono disponibili per gli scienziati. La Chiesa: così si distruggono vite umane
Staminali embrionali, ricerca più facile negli Stati Uniti
di Alessandra Farkas


I fondi La Casa Bianca ha tolto i limiti del finanziamento pubblico e ha vietato la produzione di nuovi embrioni per gli studi 

NEW YORK — Barack Obama ha mantenuto la promessa. A par­tire da ieri sono entrate in vigore negli Stati Uniti le nuove regole sull’utilizzo delle cellule embrio­nali staminali, annunciate dal pre­sidente degli Stati Uniti in campa­gna elettorale.
Secondo gli esperti è l’inizio di una nuova era di speranza che un giorno potrà portare a una cura per malattie neurodegenerative quali l’Alzheimer e il morbo di Parkinson. E non solo.
Le nuove norme rimuovono i li­miti ai finanziamenti federali im­posti dal suo predecessore Geor­ge W. Bush il 9 agosto 2001 (e poi ribaditi il 20 giugno 2007) che hanno relegato la ricerca al solo settore privato. Provocando una vera e propria fuga di cervelli Usa verso paesi quali Gran Bretagna, Canada Corea del Sud ed Israele, dove la ricerca sulle staminali è da anni più avanti rispetto all' America.
Il provvedimento varato dal­l’Nih, l’istituto nazionale della Sa­lute, permette lo stanziamento di fondi pubblici per lo studio delle cellule staminali embrionali colle­zionate anche prima dell’entrata in vigore dei divieti bushiani.
Per colpa di tali divieti negli ul­timi otto anni la ricerca Usa si è fermata allo studio di appena 21 «linee» di staminali. Con le nuo­ve regole si potrà invece lavorare su centinaia di nuove «linee».
Ma la strada annunciata ieri dall’amministrazione Obama po­ne anche precisi e severi limiti di carattere etico.
L’Nhi sponsorizzerà soltanto la ricerca su cellule staminali prove­nienti da cliniche per la fertilità e quindi destinate ad essere distrut­te. L’utilizzo di fondi per studiare embrioni creati a soli fini di ricer­ca continuerà invece ad essere vietato. Non solo. Le nuove rego­le ribadiscono una netta contra­rietà anche a ogni programma che punti alla clonazione umana, definita più volte dallo stesso Obama «una pratica pericolosa e profondamente sbagliata». Per evitare abusi, lo stesso isti­tuto vaglierà in modo approfondi­to «caso per caso», al momento di concedere i fondi, se ogni sin­golo programma di ricerca osser­verà questi parametri.
E a garantire la trasparenza sa­rà un Registro federale istituito ad hoc per monitorare di conti­nuo ogni programma di ricerca approvato. Il registro elencherà in un sito web tutte le «vecchie linee» da oggi a disposizione, ma solo di quei ricercatori che riusci­ranno a dimostrare di essere in sintonia col nuovo codice etico imposto dall’Nhi.
«Faremo un’analisi molto at­tenta, vagliando caso per caso», assicura il direttore dell’Nih, Ray­nard Kington.
Grande soddisfazione da parte degli addetti ai lavori.
«L’Nih ha deciso di ascoltare la stragrande maggioranza della co­munità scientifica», afferma il Ge­orge Q. Daley, direttore del Pro­gramma per il trapianto di cellule staminali del Children’s Hospital di Boston, uno degli ospedali per bambini più noto del Paese.
Molto diversa la reazione della Chiesa cattolica e dei gruppi pro-life, contrari a ogni tipo di ri­cerca sugli embrioni.
«Le nuove norme sono immo­rali e antietiche e invece di curare uccidono», punta il dito Tony Pe­rkins del Family Research Coun­cil, un’organizzazione della de­stra cristiana ultraconservatrice, «esse obbligano il contribuente a pagare la distruzione di vite uma­ne al primo stadio della loro vi­ta ». 


Corriere della Sera 8.7.09
Dopo il restauro all’Opificio delle pietre dure, nuova attribuzione per l’opera custodita nella sacrestia della chiesa di Firenze
È di Giotto il crocifisso di Ognissanti
di Arturo Carlo Quintavalle


Su uno sfondo bizantino, il dolore umano di Cristo e una Madonna con le rughe

La gran parte degli studiosi la attribuiva a «Parente di Giotto», oppure semplice­mente a «Scuola», forse perché ricoperta da vernici mescolate alla polvere e ai fu­mi grassi delle candele. Ma adesso, a pulitura con­clusa, realizzata in modo esemplare dall’Opificio delle pietre dure sotto la guida di Marco Ciatti, la croce si rivela un capolavoro di Giotto che si può datare al secondo decennio del ’300. Deve avere contribuito all’emarginazione dell’opera la sua col­locazione nella sacrestia della chiesa di Ognissanti a Firenze, ma la sua sistemazione in origine era ben diversa. Lo provano le grandi dimensioni, 453 x 360 cm, alle quali si deve aggiungere circa un al­tro metro per la zona inferiore, ora perduta, che rappresentava probabilmente il monte Golgota col teschio di Adamo, come nella croce, di venti anni precedente, di Santa Maria Novella.
Dunque un dipinto imponente che era collocato in alto, al centro del tramezzo, al limite fra presbite­rio e navata, connesso a una trave dove, alla destra, stava la Maestà degli Uffizi, alla sinistra la Dormitio Virginis di Berlino. Questo dunque, appena recupe­rato, è un dipinto fondamentale per le ricerche su Giotto. Proviamo a considerare l’insieme della cro­ce dove, a tempera, su un tessuto di lino imbibito di gesso, Giotto stende le proprie figure, in alto l’Eterno, alla sinistra la Madonna, alla destra Gio­vanni, sotto, in origine, il Golgota. Diversamente da quella di Santa Maria Novella la croce ha una cornice scolpita e i terminali sono lobati, probabil­mente su richiesta della committenza, ma, nono­stante questo sapore arcaico, le novità sono molte. Se pensiamo alla circa contemporanea Crocifissio­ne affrescata nella Basilica Inferiore di Assisi vediamo che in quella il corpo di Cri­sto, concepito come una scultura, pende da una sot­tile croce in tutta la sua pla­stica evidenza; ma nella croce di Ognissanti non era possibile utilizzare quella soluzione, il corpo doveva essere dipinto en­tro un più vasto spazio.
La prima scelta di Giot­to è di proporre il contra­sto fra i colori delle figure alle estremità della croce e il corpo del Cristo. Vedia­molo da vicino, questo cor­po. Il ventre è prominente attorno all’ombelico, la scansione dei muscoli del torace è ben leggibile sotto la pelle sottile, segnata da pennellate finissime fra il giallo e il grigio che il restauro ha saputo perfettamente conservare. Que­sto è un corpo vero, che forza sulle braccia e pesa sul prisma azzurro che lo sorregge sotto; Giotto ha voluto modificare la posizione del capo del Cristo spostando in basso l’aureola a rilievo e quindi il ca­po che cala, dolcissimo, sulla sua spalla destra. Vor­rei porre l’accento su una immagine che restituisce il punto di vista originario di uno spettatore che stesse proprio al di sotto della croce: l’immagine è stata scattata dunque in asse scorciando gambe e corpo del Cristo, essa mostra la figura pallida, qua­si staccata dalla croce dipinta di blu di lapislazzulo. Corpo come una scultura, corpo vero pallido di morte.
Dunque Giotto dialoga ancora una volta con la scultura, quella di Giovanni piuttosto che di Nicola Pisano, ma soprattutto con quella gotica di Francia attorno al 1230, e propone la violenza di un racconto concepito come vera messa in scena teatrale. Così la Madonna non è più la figura giovanile e composta della croce di Santa Maria Novella, ma è una maschera drammatica, con le rughe che scavano la fronte e le guance, una figura che mostra gli anni e il dolore. Lo stesso si dica per il San Giovanni dal lato opposto con la bocca scavata dall’ombra. In alto invece l’Eterno ha la distaccata espressione delle figure dell’ultimo Giotto, ma la sua mano è costruita per suggerire l’articolazione densa dello spazio, come del resto quelle del Cristo.
Adesso, dalla riflettografia ai raggi infrarossi, ci si attende la scoperta del disegno sottostante di Giotto che, come in altri casi, varia da pennellate spesse, volumetriche, con forti ombre di grigio, a sottili segni lineari che indicano i rapporti fra figure e spazio attorno. Meraviglia di questa croce la scelta tonale, da confrontare con gli affreschi delle Cappelle Bardi e Peruzzi in Santa Croce e, quindi col Giotto più avanzato, più sensibile alla scansione morbida dei volumi.
Se si confronta la croce con gli altri dipinti in origine sul tramezzo, e prima di tutto con la Madonna di Ognissanti ora agli Uffizi, che si data però a circa dieci anni prima, vediamo la distanza delle soluzioni adottate dall’artista: dentro lo spazio dell’architettura gotica alla francese la Madonna è un volume assoluto, ancora una volta concepita come una scultura; nella croce, invece, Giotto usa come sfondo un tessuto di sapore bizantino contro il quale segna la croce azzurra, simbolo del divino, croce delle proporzioni di quella dell’affresco di Assisi. Giotto dunque impagina su questa croce un dramma, da un lato e dall’altro l’acme del dolore degli uma­ni, Maria e Giovanni, sull’asse centrale la salvezza espressa dall’Eterno mentre il corpo del Cristo, gri­gio e giallastro nel segno della morte, sanguinava in origine sul perduto teschio di Adamo celato nel­la roccia del Golgota, come ancora oggi si vede nel­la croce di Santa Maria Novella.


Corriere della Sera 8.7.09
E adesso cerchiamo il disegno preparatorio
di A. C. Q.


Abbiamo chiesto a Marco Ciatti, direttore sezione dipinti dell’Opificio delle pietre dure, informazioni sul restauro.
«Le prime analisi sono cominciate nel 1997 e il restauro, grazie al contributo di Arteria, nel 2005. Ora la pulitura è conclusa, il crocefisso sarà presentato a fine anno. Hanno restaurato l’opera Paola Bracco e Ottavio Ciappi, con Anna Marie Hilling».
Dove sarà collocata la croce?
«È un problema da affrontare e risolvere con la soprintendenza. Il Crocefisso si trovava nella sacrestia di Ognissanti, prima in controfacciata, ma in origine era stato collocato sul tramezzo da dove venne tolto dal Vasari che, attorno al 1564-66, rifece l’interno della chiesa».
Come è stato effettuato il restauro?
«Per rimuovere gli strati di nero, polveri e fumi grassi che rendevano illeggibile l’opera, abbiamo messo a punto solventi acquosi in grado di non intaccare la base pittorica a tempera. La pulitura è stata fatta al microscopio e ha rivelato una pittura in ottimo stato: Giotto qui cambia tecnica rispetto alla croce di Santa Maria Novella, dove aveva usato un fondo di terra verde sotto l’incarnato; qui usa un verde leggero e molte volte dipinge direttamente sul bianco del gesso steso sul lino incollato alla tavola».
Ci saranno altre scoperte?
«Quando faremo la riflettografia scopriremo il disegno preparatorio di Giotto che, come suggerisce Cennini, era fatto con due tipi di pennello, uno appuntito e uno mozzetto.
Possiamo dire che il restauro ci ha rivelato un’opera di altissima qualità, che ci porta a dover riaffrontare il problema del cosiddetto 'Parente di Giotto'».

Corriere della Sera 8.7.09
Margherita Hack
«L’astronomia ci racconta che siamo figli delle stelle»
di Giovanni Caprara


Alzando gli occhi al cielo è nata l’astronomia.

Una lunga storia. Ma che cosa ci ha insegnato, chiediamo a Margherita Hack?
«Prima di tutto che non siamo noi il centro dell’universo come si è pensato a lungo e come qualcuno continua a fare anche oggi. Siamo solo in un angolo dell’universo, su un minuscolo pianeta attorno a una stella molto comune. Secondo aspetto, che noi stessi, esseri intelligenti, siamo il risultato dell’evoluzione stellare, siamo fatti della stessa materia degli astri».
Sono passati quarant’anni dalla conquista della Luna. È stata utile?
«Soprattutto perché ha dimostrato che l’uomo può mettere piede su un altro corpo celeste, che ha le capacità per farlo aprendo fantastiche esplorazioni future. Ma le sonde robotizzate, mostrandoci i pianeti più lontani dove l’occhio dell’uomo non poteva arrivare, dimostrano che molto lavoro può essere compiuto dai robot anche senza bisogno dell’uomo».
E il futuro: che cosa ci potrà riservare la scienza del cielo?
«Grandi sorprese perché si stanno mettendo a punto eccezionali strumenti di osservazione come telescopi terrestri del diametro di 50 metri capaci di fotografare il volto di pianeti extrasolari. Ma, soprattutto, potremo indagare il cosmo attraverso neutrini e onde gravitazionali, due vie in grado di farci conoscere aspetti inimmaginabili e insospettabili della natura dell’universo».

il Riformista 8.7.09
Il carnevale delle ronde

Caro direttore, nel malaugurato caso che in un immediato futuro debba imbattermi nelle cosiddette ronde, per le strade della mia città, ecco quello che farò e che invito tutti a fare. Telefonerò subito a carabinieri o polizia e il tenore della mia chiamata sarà il seguente: «Ci sono due tizi con indosso la stessa divisa, non riconoscibile come appartenente alle nostre forze dell'ordine o ai corpi militari, che si aggirano con fare sospetto sotto casa mia da alcuni minuti. Non essendo periodo di carnevale, il loro travestimento è decisamente inquietante. Recano i simboli di brutte storie attorno alle braccia e sul petto. Temo che siano armati. E confabulano tra loro dello splendore dell'antica Roma, di legioni imperiali, di "quando c'era lui" e di sicurezza a suon di botte. Ah, agente, dice che dovrei chiamare il 118 per un ricovero immediato? Ma non potete venire lo stesso, almeno a identificarli? Se arrivate subito, li trovate in un bar: si sono fermati a chiedere fondi per il loro servizio di protezione. Non è una forma di racket, questa?».
Paolo Izzo