venerdì 10 luglio 2009

l’Unità 10.7.09
Lettera al futuro segretario
Il Pd e quell’esame di laicità
di Luigi Manconi


Cari Dario, Pierluigi, Ignazio, le vostre rispettive culture, pur provenienti da tradizioni diverse, non sono certo sospettabili di integralismo confessionale: dunque, la vostra concezione della laicità dello Stato e della politica non dovrebbe sollevare dubbi. Eppure, ascoltando le preoccupazioni dei militanti del Pd, emerge nitidamente che questo sembra essere un assunto tutt’altro che scontato. In altri termini, moltissimi tra iscritti ed elettori pensano che la laicità costituisca una premessa essenziale: e ritengono necessario che i candidati alla segreteria si pronuncino inequivocabilmente in quel senso. Se tale richiesta è diventata così incalzante è perché corrisponde ad una raggiunta maturità. La laicità di cui si chiede la tutela, infatti, non ha alcuna parentela con l’anticlericalismo classico e tanto meno con una professione di fede o con la sua negazione. Insomma, le questioni, sciaguratamente definite “eticamente sensibili”, non rimandano ad un dibattito teologico o a una disputa filosofica. Teologia e filosofia sono, sì, sullo sfondo, ma il cuore della controversia è tutto calato nella materialità della vita quotidiana e nella ruvidezza dei dilemmi che essa ci pone. In altre parole, qui non si discute di Dio bensì dell’esistenza reale delle persone reali, in carne e ossa, desiderio e sofferenza. Qui si manifesta il bisogno irriducibile della persona, posta di fronte alla propria “nuda vita”, di compiere le proprie scelte indipendentemente da qualunque vincolo (religioso o morale o statuale) che non sia stato liberamente accolto. Dunque, il paradigma della laicità richiama il diritto all’autodeterminazione. Alla sovranità su di sé e sul proprio corpo. Per laicità si intende, pertanto, la libertà dall’interferenza di imperativi esterni comunque motivati, in termini religiosi o normativo-statuali. Per questo, la legge sul Testamento biologico approvata dal Senato segna un crinale: con la norma che impone la nutrizione e l’idratazione artificiali anche contro la volontà del soggetto, la forza dello Stato si fa strumento di una morale di parte e, oggi, presumibilmente minoritaria nella società italiana. Contrariamente a quanto sostenuto da Beppe Fioroni – per il quale la laicità è un non-valore e la sola morale sembra essere quella di ispirazione religiosa - il rifiuto di quella interferenza esterna non è la semplice rivendicazione di una libertà negativa. Bensì l’affermazione di un valore, fondato moralmente. Cari Dario, Pierluigi, Ignazio, cosa ne pensate?

P.S. Incuriosito da alcune recenti distinzioni tra “laico” e “laicista”, ho dedicato 17 ore e tre quarti (non consecutive) a compulsare acribiosamente testi di scienza della politica, sociologia e teologia: infine, stremato, ho potuto constatare che di quella speciosa distinzione non c’è alcuna traccia.

Repubblica 10.7.09
L’etica pubblica perduta
di Stefano Rodotà


Tutto comincia con la pretesa dell´impunità che va ben oltre il lodo Alfano
Quando qualcuno dice che il re è nudo lui si infuria: sostiene si tratti di lesa maestà

Etica pubblica. Parole perdute, e al loro posto un deserto, dove scompare la responsabilità della politica, privacy vuol dire fare il comodo proprio, il senso dello Stato è ormai un´anticaglia. Ogni giorno, più che una nuova pena, porta una mortificazione continua del vivere civile, con un circuito di imbarazzanti ospitalità, che vanno da quella generosamente offerta a schiere di ragazze dal Presidente del Consiglio fino a quella elargita con altrettanta generosità allo stesso Presidente da giudici costituzionali.
Registrare questi fatti vuol dire moralismo, eccesso di voyeurismo, ultima spiaggia di una opposizione senza idee, antiberlusconismo da abbandonare? O siamo di fronte ai segni di un processo di decomposizione di cui i protagonisti non sembrano neppure consapevoli, tanto sono sgangherate le difese loro e dei loro sostenitori, affidate alla disinvoltura del mentire e del contraddirsi senza pudore, a censure televisive, a lettere imbarazzanti e più rivelatrici d´una confessione?
Il catalogo è questo, ed è lungo. Tutto comincia con la pretesa dell´impunità, ma una impunità totale, che non si concentra solo nel lodo Alfano e dintorni, ma si estende in ogni direzione, diventa diritto assoluto di stabilire che cosa possa essere considerato lecito e che cosa (poco, assai poco) illecito, che cosa sia pubblico e che cosa debba rimanere privato. Il voto popolare diventa un lavacro e una unzione. Ancora oggi, quando si parla di conflitto d´interessi, spunta una schiera di avvocati difensori che esibisce un argomento in cui si mescolano arroganza e disprezzo d´ogni regola: "Di conflitto d´interesse si è parlato mille volte, i cittadini lo sanno e il loro voto a Berlusconi, quindi, respinge nell´irrilevanza politica e giuridica quel conflitto". Non si potrebbe trovare una mortificazione della democrazia e della sovranità popolare più eloquente di questa. Il voto dei cittadini è degradato a scappatoia per sottrarsi alle regole e alla decenza etica. E, quando, finalmente qualcuno dice che il re è nudo (ahimè, in tutti i significati possibili), il re s´infuria, si comporta come se chiedere spiegazioni fosse un delitto di lesa maestà.
Improvvisamente lo spazio pubblico gli sembra insopportabile, proprio quello spazio che aveva voluto costruire a propria immagine e somiglianza, e nel quale si radica non piccola parte del suo consenso. Alla vigilia di una tornata elettorale di qualche anno fa, milioni di italiani ricevettero un colorito libretto dove Silvio Berlusconi esibiva e rivelava infiniti dettagli della propria vita privata, compresi il nome del suo camiciaio e quello del fornitore di cravatte. Campagna all´americana si disse, ovviamente. Ma l´America è un´altra cosa, è il paese dove la Corte Suprema fin dal 1973 ha stabilito che gli uomini pubblici hanno una minore "aspettativa di privacy", dove proprio in questi giorni, sull´onda di uno scandalo che rischia di spegnere le ambizioni del governatore della Carolina del Sud, si sono unanimemente ribaditi due capisaldi dell´etica pubblica: un uomo politico non può mentire; deve accettare la pubblicità di ogni sua attività quando questa serve per valutare la coerenza tra i valori proclamati e i comportamenti tenuti. Niente doppia morale, niente vizi privati e pubbliche virtù per chi riveste funzioni pubbliche, alle quali è giunto per scelta e non per obbligo, e del cui esercizio deve in ogni momento rendere conto alla pubblica opinione. Ma il contagio berlusconiano si è diffuso, come dimostra l´imbarazzante vicenda che ha visto protagonisti due giudici costituzionali.
"A casa mia faccio quello che mi pare", diceva il Presidente. "A casa mia invito chi mi pare" (con contorno di assicurazioni sulla riservatezza della fedele domestica), viene di rincalzo il giudice. E chi non accetta queste sbrigative forme di autoassoluzione viene bollato come gossipparo, guardone dal buco della serratura, spione, nostalgico dell´Inquisizione, fautore della società della sorveglianza… Ma le cose non stanno così, e basta un´occhiata alle regole della tanto invocata privacy per confermarlo. Certo, anche le "figure pubbliche" hanno diritto a un loro spazio di intimità, ma questa tutela è garantita solo se le informazioni non hanno "alcun rilievo" per definire il ruolo nella vita pubblica della persona interessata (articolo 6 del codice deontologico sull´attività giornalistica in tema di privacy).
Proprio così´: "alcun rilievo". Non solo questa formula è netta, senza equivoci, ma proprio l´attenzione della stampa internazionale è prova evidente dell´esistenza di un interesse forte a conoscere, così come è clamoroso il fatto che vi sia stata una cena "privata" tra il Presidente del Consiglio, il ministro della Giustizia che ha dato il nome al famoso "lodo" e due tra i giudici che dovranno valutare la costituzionalità della più personale tra le leggi ad personam. Non si può invocare la privacy per interrompere il circuito del controllo democratico.
Proviamo di nuovo a dare un´occhiata alle regole, alle odiatissime regole. Qui troviamo un´altra formula eloquente: "commensale abituale". Dobbiamo ritenere che questa sia la condizione del Presidente del Consiglio, visto che il giudice costituzionale invitante ha detto che quella cena non era la prima e non sarebbe stata l´ultima. Gli implicati in questa vicenda protestano, dicendo che quella situazione, che obbliga ogni altro magistrato ad astenersi quando abbia frequentazioni della persona che deve giudicare, non è prevista per i giudici costituzionali. Ma questo non vuol dire che i giudici della Consulta possano fare i loro comodi. Proprio perché la loro funzione richiede indipendenza assoluta da tutto e da tutti, sì che giustamente il Presidente della Repubblica ha escluso la possibilità di un suo intervento, massimo deve essere il rigore del loro comportamento. Non un meno, ma un più, rispetto agli altri giudici.
Moralismo, o grado minimo della deontologia professionale e dell´etica pubblica? Proprio questi riferimenti sembrano scomparsi. Mentre la quotidiana attività legislativa smantella pezzo a pezzo lo Stato costituzionale di diritto, negando diritti fondamentali agli immigrati o dando in outsourcing a ronde private l´essenziale compito della sicurezza pubblica (qui s´incontrano le pulsioni della Lega e la concezione aziendalistica del Presidente del Consiglio), è quasi fatale che il senso dello Stato venga relegato in un angolo, considerato un inciampo dal quale liberarsi.
Interviene qui la questione del moralismo, del quale in altri tempi ho scritto un pubblico elogio e del quale torno a dichiararmi un fedele. Non voglio nobilitare le miserie di questi tempi invocando la lettura di quelli che, giustamente, vengono detti "moralisti classici". Registro due fatti. Il primo riguarda l´uso italiano e inverecondo dell´esecrare il moralismo per liberarsi della moralità. E´ una vecchia trappola, alla quale si può sfuggire solo se si hanno convinzioni forti e non si cede al realismo da quattro soldi, che spinge ad accettare qualsiasi cosa in nome d´una politica senza respiro.
Il secondo lascia aperto uno spiraglio alla speranza. Proprio una rivolta in nome della moralità politica e dell´etica pubblica ha scosso le fondamenta d´un potere che sembrava saldissimo e che i vecchi riti della politica d´opposizione non riuscivano a scalfire. Lo conferma l´annuncio che il Presidente del Consiglio vorrebbe compiere una "svolta personale". Ancora uno sforzo, moralisti!

l’Unità 10.7.09
In piazza con una rosa rossa
«Scontri a Teheran, due morti»
di Rachele Gonnelli


L’onda verde iraniana torna in piazza. Risponde al tam tam del web e agli appelli del leader riformatore Mousavi. Lo fa nel giorno del decimo anniversario della repressione degli studenti del 1999.
Il massacro del ‘99. In piazza per ricordare le vittime della repressione di dieci anni fa
Il governatore di Teheran minaccia: le manifestazioni non saranno tollerate

Tornano in piazza gli studenti iraniani, tornano a centinaia, a migliaia, a Teheran e in altre città, si fronteggiano con la polizia e le milizie Basiji, erigono barricate per bloccare le cariche, sfidando i divieti, urlano dai tetti, mandano video sul web. A Teheran scontri, pestaggi, arresti: almeno due i morti è la denuncia che corre in Rete.
È un giovedì che non si può dimenticare, significa che la repressione non ce l’ha fatta a soffocare il movimento. È il segno della giornata, annunciata da giorni sui siti e sui blog: il decimo anniversario dell’ultima sanguinosa repressione degli studenti riformisti nel 1999, ricorrenza della rivoluzione khomeinista di vent’anni prima.
La rivolta dei fiori
A Teheran in fin dalla mattina il governatore cittadino Morteza Tamaddon ha annunciato che nessun assembramento di individui volto a minare la sicurezza della città sarebbe stato tollerato. «Se qualcuno intende compiere azioni rispondendo agli appelli di emittenti antirivoluzionarie, sarà schiacciato sotto i piedi del nostro popolo che è in allerta», ha dichiarato minaccioso all’agenzia Irna. Gli abitanti della capitale erano già stati preventivamente invitati dalle autorità ad abbandonare la città per un lungo week-end, in modo da ridurre il traffico e agevolare il controllo delle strade e delle piazze principali.
Il servizio di Sms oscurato da tre giorni, nuovamente, per evitare il tam tam. Ma la chiamata a raccolta ha funzionato lo stesso. La Cnn ha parlato di 2mila, 3mila persone scese in piazza in 200 città. La Bbc di duecento che gridavano a Teheran «morte al dittatore». Molti si sono presentati per strada in silenzio con una rosa rossa in mano. Altri con le mascherine sul volto. I blogger dal primo pomeriggio hanno iniziato a segnalare scontri e barricate. Non solo nella capitale. Anche sui ponti nella città di Shiraz dove gli studenti hanno iniziato la protesta seduti a terra, opponendo resistenza passiva. Proteste sono segnalate a Tabriz, Isfahan. A Teheran ci sono stati scontri molto pesanti soprattutto intorno al Politecnico, a piazza Vanak e piazza Enghelab, cuore della protesta contro i brogli elettorali e per il riformista Mir Moussavi, e da dove la polizia ha caricato e respinto i dimostranti sparando lacrimogeni ma anche colpi d’arma da fuoco in aria e arrestando i leader della protesta, tra cui il blogger Kaveh Mozaffari.
Ahmadinejad è tornato a parlare del voto del 12 giugno, ha detto che quelle sono state «le elezioni più libere del mondo» , accusando le potenze straniere di aver tentato di sabotarlo. A questo proposito soltanto ieri l'ambasciatore francese a Teheran, Bernard Poletti, ha potuto incontrare per la prima volta in carcere Clotilde Reiss, una francese di 23 anni arrestata il primo luglio scorso e accusata di spionaggio.
Il complotto
Francia e Gran Bretagna sono i principali accusati di ingerenze negli affari iraniani, per esplicita dichiarazione di Ali Akbar Velayati, consigliere speciale della Guida Suprema Ali Khamenei.
«Loro - ha affermato - vogliono un Iran debole al tavolo dei negoziati», intendendo anche quelli sul nucleare iraniano, cavallo forte della propaganda nazionalista di Ahmadinejad.

Corriere della Sera 10.7.09
Tensione. Migliaia in piazza dispersi dalle forze dell’ordine
Gli iraniani tornano a contestare il regime
Corteo in ricordo della repressione del ’99
di Viviana Mazza



La protesta è riesplosa in Iran. Oltre 1000, forse 3000 ira­niani sono scesi in strada ieri pomeriggio nel centro di Tehe­ran, sfidando le autorità che avevano promesso di «schiac­ciarli ». Dispersi dalle forze del­l’ordine con lacrimogeni e man­ganelli, ogni volta i dimostran­ti tentavano di riformare i cor­tei altrove. Una strategia formu­lata su Internet da giorni: «Ri­cordate, il cammino e la parteci­pazione sono ciò che più con­ta, non la destinazione. Se vede­te poliziotti e miliziani, cambia­te direzione e continuate a cam­minare ». L’appello a scendere in strada in tutto l’Iran, ieri, era stato lanciato da sostenitori di Mir Hussein Mousavi, rivale del presidente Ahmadinejad che si dichiara il legittimo vin­citore del voto del 12 giugno (ma lui non ha approvato uffi­cialmente la protesta). Secon­do i blogger, vi sono state mani­festazioni e scontri anche a Shi­raz, Tabriz, Isfahan.
Il 9 luglio è un giorno simbo­lico: 10 anni fa, dopo un sit-in contro la chiusura di un giorna­le riformista, i paramilitari fe­deli alla Guida suprema Ali Khamenei attaccarono un dor­mitorio dell’università di Tehe­ran, uccidendo un giovane e scatenando la rivolta degli stu­denti. La memoria della prote­sta del ’99, superata in vigore solo da quella attuale, ha ripor­tato in strada il movimento che taceva da 11 giorni.
L’epicentro: l’Università di Teheran e la vicina piazza En­ghelab («Rivoluzione»). Alle 5, vi sono confluiti 300 manife­stanti, secondo l’agenzia Ap.
Molti indossavano mascherine chirurgiche (alcune verdi, colo­re simbolo di Mousavi) per non essere identificati. «Allah è grande», gridavano, «Morte al dittatore», «Mousavi! Mousa­vi! ». I poliziotti in tenuta an­ti- sommossa e i paramilitari in moto li aspettavano: hanno sparato in aria, lanciato lacri­mogeni e picchiato coi manga­nelli. In un’ora, i manifestanti erano 700: tentavano di arriva­re all’ateneo, i poliziotti li han­no bloccati. Migliaia di dimo­stranti hanno cercato di forma­re un corteo in via Talaghani: dispersi, come i 200 in via Vali Asr. Molti i giovani, ma un vi­deo su YouTube mostra anche uomini e donne di mezza età, le dita a «V» come «vittoria», in un corteo che si sarebbe te­nuto ieri. Solidali, gli automobi­listi bloccano la strada e suona­no i clacson. In un altro video, cori contro Mojtaba, il figlio di Khamenei, accusato di dirigere la repressione. Secondo voci non confermate, 2 manifestan­ti sarebbero morti ieri, 12 feri­ti, 30 arrestati.
«Se qualcuno intende com­piere azioni contro la sicurez­za... sarà schiacciato», aveva av­vertito il governatore di Tehe­ran Morteza Tamaddon. Nego­zi, università, uffici erano stati chiusi dalle autorità «a causa delle tempeste di sabbia e del­l’inquinamento ». Bloccati gli sms. «L’arma migliore è la cal­ma - consigliava un va­demecum per le proteste - . La nostra seconda arma sarà un fiore rosso» (durante la rivolu­zione del ’79, i dimostranti li in­filavano nelle canne dei fucili dei soldati). Molti hanno evita­to di indossare indumenti ver­di, per non essere identificati.
Il giorno dopo la condanna del G8 contro le violenze, intan­to, il consulente per la politica estera di Khamenei, Ali Akbar Velayati, ha avvertito che l’Iran non rinuncerà al nucleare. Del ministro degli Esteri italiano Franco Frattini ha detto: «Non capisce l’Iran» (e lo accusa di corruzione). Gli consiglia di vi­sitare le tombe di Naqsh-e-Ro­stam per vedere come l’impera­tore persiano Shapur I sottomi­se Valeriano: «Non è la prima volta che i romani cercano di mordere bocconi troppo grossi per le loro bocche». E Frattini: «Non lo conosco, si riferisce a qualcun altro».

Repubblica 10.7.09
Quell’eroe borghese ucciso 30 anni fa
risponde Corrado Augias


Caro Augias, sono un pensionato della Banca d'Italia. So che lei di recente ha presentato a palazzo Koch, il libro di Umberto Ambrosoli dedicato alla figura di suo padre Giorgio fatto assassinare da Michele Sindona trent'anni fa. La storia di Ambrosoli la conosco tramite il bel libro di Stajano "Un eroe borghese" oltre che per qualche 'vista dall'interno', per esempio mi parlò di lui l'autista di Paolo Baffi, che lo accompagnò ai funerali (notoriamente in assenza di altri rappresentanti dello Stato) e in seguito venne trasferito al Servizio informatico dove anch'io lavoravo. Seguo la sua rubrica, mi farebbe piacere se volesse ricordare anche qui la figura dell'avvocato Ambrosoli, che nel bieco contesto di quell'anno spicca come esemplare servitore dello Stato. Ricordo che il 1979 fu anche l'anno della triste vicenda Baffi-Sarcinelli vilmente accusati e costretti alle dimissioni.
Lorenzo Marzano lormar2@gmail.com
L' 11 luglio 1979 l'avvocato Giorgio Ambrosoli veniva assassinato. La Banca d'Italia lo aveva incaricato di liquidare la Banca Privata Italiana di Michele Sindona. Ambrosoli poteva truccare le carte ed escludere le responsabilità del finanziere siciliano. In questo caso le spese della bancarotta le avrebbero pagate i cittadini italiani. Oppure poteva sostenere la verità, rendere cioè manifeste le responsabilità di Sindona. Le pressioni perché sostenesse la prima versione furono innumerevoli e pesanti. Vennero anche da palazzo Chigi dove all'epoca Giulio Andreotti era presidente del Consiglio. Con le pressioni, le minacce. Telefonate a casa, in ore notturne. Nel libro dedicato a suo padre ("Qualunque cosa succeda" - Sironi editore) Umberto Ambrosoli ne riporta alcune agghiaccianti trascrizioni. Erano anni terribili, forse peggiori di quelli che stiamo vivendo. Lo Stato era profondamente inquinato da un intreccio di corruzione, criminalità, loggia P2. L'avvocato Ambrosoli ne era consapevole ma continuò con scrupolo e immenso coraggio il suo lavoro. Questo conservatore si dimostrò un liberale di vecchio stampo e in una commovente lettera a sua moglie spiegò che riteneva l'incarico "un'occasione unica per fare qualcosa per il paese". Sindona assoldò un omicida della mafia italo-americana e lo fece uccidere. Ai suoi funerali, come ricorda anche il signor Marzano, non partecipò nessun rappresentante dello Stato. Unica eccezione il governatore di Bankitalia Paolo Baffi che di lì a poco, ingiustamente accusato insieme al vicedirettore Mario Sarcinelli, si sarebbe dimesso dall'incarico. Ambrosoli 'eroe borghese', insieme a lui i suoi collaboratori, il ministro Ugo La Malfa, e poi i carabinieri, i magistrati, i poliziotti, perfino qualche giornalista, tutti quelli che furono capaci di resistere.

Repubblica 10.7.09
"Vows of silence" di Jason Berry
"Nel mio documentario lo scandalo insabbiato dei preti pedofili"
Al Roma Fiction Fest il film che accusa la Chiesa di aver chiuso gli occhi sugli abusi di Padre Marcial Maciel
di Silvia Fumarola


«Cerchiamo giustizia» dice Jason Berry «Come cattolico mi chiedo perché la più antica Chiesa del Cristianesimo non possa parlare della piaga dell´abuso dei minori, che l´ha travolta in Usa e in Irlanda». Nel documentario Vows of silence ripercorre la storia della potente congregazione religiosa dei Legionari di Cristo fondata nel 1941 da padre Marcial Maciel, accusato di pedofilia. Un documento sconvolgente in cui parlano gli ex seminaristi e i preti molestati, presentato al Roma Fiction fest (per la messa in onda ci sono trattative con una tv italiana); come il film della Bbc Sex crimes and Vatican, susciterà polemiche. Un atto d´accusa contro la Chiesa, che avrebbe insabbiato il caso, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II. Le indagini su padre Maciel (scomparso nel 2008) si arenarono; ripresero solo alla morte di papa Wojtyla.
Il film, scritto da Berry con Gerald Renner, nasce dal libro I Legionari di Cristo (Fazi). «Non ci sono solo gli abusi» accusa Berry «ai ragazzi viene fatto il lavaggio del cervello. Maciel era protetto perché era un grande procacciatore di fondi, aveva un budget di 650 milioni di dollari».
Il Vaticano quest´anno ha affidato a cinque vescovi un´altra indagine. Jose Barba Martin, uno degli ex seminaristi molestati spiega: «Hanno tutti paura di parlare. Sono rimasto in silenzio fino al ´94, quando ho letto sui giornali messicani la lettera di Wojtyla in cui citava Maciel come esempio per i giovani. Ho capito di non poter più stare zitto». «Da cardinale» sostiene Berry «Ratzinger ha subito pressioni per passare tutto sotto silenzio; una volta diventato papa ha aperto l´indagine: sta riparando all´errore».

Corriere della Sera 10.7.09
Il caso Maciel. Ricostruita nel film la storia dei Legionari di Cristo, il cui fondatore fu accusato di gravissime molestie
La setta degli abusi: un documentario scuote il FictionFest
di Emilia Costantini



ROMA — Più che come un or­dine religioso, viene rappresen­tato come una setta, con un pa­dre carismatico che ha potere assoluto sui suoi discepo­li- adepti, anche quello di abusa­re di loro. È il racconto doloro­so delle vittime che hanno subi­to tali abusi, a essere protagoni­sta del documentario Vows of Silence (Voti di Silenzio), pre­sentato ieri al RomaFictionFest. Una brutta storia che punta i ri­flettori sui Legionari di Cristo, potentissima congregazione re­ligiosa nata nel 1941, e sul suo fondatore, il messicano Padre Marcial Maciel Degollado, accu­sato di molestie, tirannia psico­logica e plagio. Autore è il gior­nalista Jason Berry che con Ge­rald Renner ha pubblicato un li­bro sull’argomento. Il film è un’inchiesta durata sei anni, con centinaia di interviste che hanno rivelato uno dei più con­troversi scandali sui presunti abusi, attribuiti a Maciel e ad al­tri membri della congregazio­ne. Dice Berry: «Come cattolico mi chiedo perché la Chiesa non possa parlare liberamente della piaga dell’abuso dei minori».
Accuse molto crude con par­ticolari scabrosi si susseguono in Vows of Silence, alcune pro­nunciate tra le lacrime di chi ha subito i soprusi. Ma è anche una storia di omissioni, insab­biamenti, colpevoli silenzi da parte del Vaticano, quando le vittime reclamavano giustizia. Secondo Berry e Renner, le pri­me denunce di pedofilia comin­ciarono a circolare sin dalla me­tà degli anni ’50, ma solo nel 1997 vennero allo scoperto, «pe­rò non ci fu una reazione da par­te di Papa Wojtyla, anzi, sotto il suo pontificato le indagini si arenarono». Ripresero solo do­po la sua morte con Papa Ratzin­ger, che «tuttavia — precisa Ber­ry — quando era cardinale subì a sua volta pressioni perché pas­sasse tutto sotto silenzio». Final­mente nel 2006 l’ormai pluriot­tantenne Maciel (è morto nel 2008) viene riconosciuto colpe­vole dal Vaticano. Ma la formu­la usata è quella caritatevole di rinunciare a un processo cano­nico «a causa dell’età avanzata e della salute cagionevole del re­verendo Maciel, invitandolo a una vita riservata e di peniten­za, rinunciando a ogni ministe­ro pubblico».
Per la messa in onda del do­cumentario, Berry spiega che «è in corso un accordo con una rete spagnola e trattative con una tv italiana, ma non mi sor­prenderei se non dovessimo ot­tenere il permesso di realizzare un dvd».
Sullo scabroso argomento de­butta a Roma, nel prossimo au­tunno, anche un dramma teatra­le: Vite violate di Fabio Croce, che affronta non solo il «caso Maciel», ma anche altre presun­te storie di abusi commessi da alti prelati.

l’Unità 10.7.09
Staminali in rete
Per l’applicazione clinica delle cellule su larga scala si prevedono ancora tempi lunghi. Ma i malati non possono attendere. Così, mentre la medicina ufficiale va avanti coi piedi di piombo, su internet sta prendendo forma un mercato parallelo di terapie basate proprio sull’uso delle staminali
di Cristiana Pulcinelli


Negli ultimi anni sono diventate le star della ricerca: gli articoli che le riguardano sulle riviste scientifiche ormai non si contano più. Del resto, da quando si è riusciti a farle crescere in provetta, alla fine degli anni Novanta, si è capito subito il potenziale di queste cellule «bambine» in grado di trasformarsi in qualsiasi altra cellula e quindi, in teoria, di dar vita a qualsiasi organo e tessuto del nostro organismo. E, nonostante i dubbi etici che una parte della società ha sollevato sull’utilizzazione delle cellule staminali embrionali, molti ricercatori in tutto il mondo stanno lavorando per capire come sfruttare questa loro caratteristica. Ma a che punto è il passaggio dalla ricerca alla clinica? Ovvero, le cellule staminali sono già utilizzabili per curare le persone? Uno speciale della rivista «Science» parte proprio da questa domanda e, attraverso una serie di articoli che riassumono le ricerche più recenti, arriva alla conclusione che il passaggio verso l’applicazione clinica delle staminali è ancora in costruzione. E non è una costruzione semplice. Ancora non sono chiari i materiali da usare (cellule progenitrici o tipi cellulari già differenziati da riportare ad uno stato indifferenziato), le tecnologie e neppure la destinazione (quali tessuti da rigenerare).
Nonostante, quindi, la ricerca di base stia facendo passi da gigante, per l’applicazione clinica delle staminali su larga scala si prevedono ancora tempi lunghi. Il problema è che i malati di tempo ne hanno poco. In particolare, i pazienti che non rispondono alle terapie convenzionali e che vedono nelle staminali la possibilità di una guarigione o un miglioramento della loro condizione spesso non accettano l’idea che prima di somministrare una terapia ed essere certi che sia sicura ed efficace (ovvero che non faccia male e, possibilmente, faccia anche bene), ci vogliono molte sperimentazioni cliniche e la messa a punto di linee guida. Tutte cose che richiedono anni di lavoro. Così, mentre la medicina ufficiale ci va con i pedi di piombo, sta prendendo forma un vero e proprio mercato parallelo di terapie basate sulle cellule staminali diffuso via internet. Un articolo pubblicato 7 mesi fa sulla rivista «Cell Stem Cell» spiega come avviene. Alcune cliniche private (la ricerca ne ha identificate 19) fanno pubblicità alle terapie da loro praticate rivolgendosi direttamente ai possibili consumatori via internet. Qualche esempio? Beite Biotech, una clinica cinese specializzata in malattie neurologiche, afferma sul suo sito di aver trattato oltre 3000 pazienti con le cellule staminali. Emcell, che ha la sua sede in Ucraina, dice di averne già trattati oltre 2000. I risultati sono sempre presentati come eccellenti. Le terapie offerte sono varie: le più diffuse sono quelle con cellule staminali adulte autologhe, seguono quelle con cellule staminali fetali, da cordone ombelicale e infine con cellule staminali embrionali. Per trattare quali malattie? Un po’ di tutto, dal Parkinson alle allergie, ma le più raccomandate sono le malattie neurologiche e quelle cardiovascolari. Naturalmente, mentre i vantaggi vengono ampliamente sottolineati, i rischi vengono per lo più sottaciuti. Purtroppo, si legge nella ricerca, non ci sono prove che possano sostenere le affermazioni fatte da queste cliniche private: le applicazioni cliniche delle staminali sono ancora incerte. In particolare, spiegano gli autori, non ci sono studi controllati sulle terapie con le staminali per il Parkinson e l’Alzheimer. Per la sclerosi multipla sembra che il trapianto autologo di cellule staminali ematopoietiche abbia un ruolo nel rallentare la progressione della malattia, ma gli esiti sono variabili. Solo nell’infarto del miocardio la stessa terapia risulta dotata di una certa efficacia. Considerando che un trattamento in media costa oltre 21mila dollari (viaggio escluso) e che il mercato cui si rivolgono è potenzialmente amplissimo (visto che ogni giorno solo negli Stati Uniti 8 milioni di persone cercano informazioni mediche su internet), sembra proprio che queste cliniche abbiano fiutato la gallina dalle uova d’oro. A fianco a questo fenomeno, sostiene un articolo pubblicato su «Science», ne sta nascendo un altro che potrebbe assumere nel futuro una dimensione importante. I pazienti che possono permetterselo cominciano a muoversi verso centri di ricerca accreditati dove si sperimentano terapie con le cellule staminali che nel loro paese non sono disponibili, magari perché sottoposte a un bando politico o religioso in quanto basate sull’uso di staminali embrionali. E questo, secondo gli autori, rientra nel diritto del paziente a cercare la migliore cura disponibile.
Le questioni sul tavolo sono molte, ma tutti si dichiarano convinti che solo evitando bandi e sostenendo la ricerca si potranno affrontare. Un passo avanti significativo in questa direzione è l’annuncio fatto dal presidente degli Stati Uniti di voler inaugurare una nuova politica sulle staminali. Obama ha deciso che il governo federale tornerà a finanziare le ricerche che utilizzano staminali embrionali, eliminando le principali limitazioni poste da Bush nel 2001. Questo vuol dire che gli Stati Uniti rientreranno in gioco e che, molto probabilmente, la ricerca sulle staminali da oggi progredirà più speditamente.

l’Unità 10.7.09
Intanto in Italia il governo vieta i finanziamenti


Tutto nasce da un recente bando di finanziamento nel campo della biologia delle cellule staminali gestito dal ministero della sanità. Il bando contiene una frase che esclude in modo esplicito le ricerche sulle staminali embrionali umane dalla possibilità di accedere ai finanziamenti. Tre ricercatrici non ci stanno e presentano ricorso contro il governo italiano. La storia è raccontata in un articolo pubblicato sulla rivista «Nature» del 2 luglio scorso. Il legale delle scienziate, Vittorio Angiolini, che ha depositato il ricorso presso il tribunale amministrativo di Roma il 24 giugno scorso, sostiene che escludere le cellule staminali embrionali è contrario alla libertà di ricerca scientifica sancita dalla Costituzione. In effetti, in Italia l’uso per la ricerca di linee di cellule staminali già derivate dagli embrioni non è vietato. È vietata invece la produzione di nuove linee. Le tre firmatarie sono Elisabetta Cerbai, farmacologa dell’Università di Firenze, Elena Cattaneo, neuroscienziata dell’università di Milano e Silvia Garagna, biologa dello sviluppo dell’università di Pavia. «Il nostro ricorso è una questione di principio – ha dichiarato Cerbai a «Nature» - I politici dovrebbero decidere gli obiettivi strategici della ricerca e lasciare scegliere agli scienziati come meglio raggiungere quegli obiettivi».
La storia si tinge anche di giallo. Sembra infatti che in una prima versione la frase che esclude l’accesso ai finanziamenti alle ricerche con staminali embrionali umane non ci fosse. A garantirlo è Giulio Cossu, biologo dello sviluppo al San Raffaele di Milano che ha partecipato alla stesura del testo in quanto membro del comitato voluto da Ferruccio Fazio proprio per elaborare una bozza del bando. La frase compare invece on line dopo l’incontro del 26 febbraio della Conferenza Stato-Regioni, l’organo composto dai rappresentanti delle venti regioni italiane che decide come distribuire i fondi nazionali per la sanità. Chi l’ha aggiunta? Fazio, a caldo, disse che era opera delle regioni, ma il rappresentante della Toscana affermò che nessuna modifica era stata fatta in Conferenza. «Noi sospettiamo – ha dichiarato Cerbai - che un accordo di compromesso sia stato fatto ad alti livelli politici». C.P.

l’Unità 10.7.09
Italia record per l’uso dei farmaci, dal 2000 a oggi il boom: +60%
di Ma.So.


Secondo il rapporto Osmed dell’Aifa in Italia cresce il consumo di farmaci e antibiotici: +60% rispetto al 2000. Gli italiani consumano una dose e mezza di farmaco al giorno. Cresce anche la popolarità dei generici.

Gli italiani consumano sempre più farmaci. È l’allarme lanciato dal rapporto Osmed 2008, realizzato dall’Istituto superiore di Sanità e dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) e presentato ieri nella sede dell’Istituto superiore sanità, secondo il quale per ogni cittadino italiano lo Stato ha speso mediamente 410 euro per un periodo di trattamento di 537 giorni. Numeri che certo risentono delle patologie croniche legate all’invecchiamento della popolazione e delle abitudini di tipo socio-culturale, ma che non fanno stare tranquilli. Perché se la spesa farmaceutica totale, circa 24,4 miliardi di euro tra pubblica (75%) e privata, nel 2008 è rimasta stabile (è calata dell’-1% invece quella a carico del Ssn), in compenso è aumentato sensibilmente il consumo di farmaci, addirittura +60% rispetto al 2000, certificato dal dato allarmante secondo il quale gli italiani consumano mediamente una dose e mezza di farmaco al giorno. Come se assumerne uno fosse diventato un fatto rituale, quasi come bere un caffè.
GLI ANTIBIOTICI
E in netta crescita c’è anche il consumo di antibiotici. «Rispetto ad altri paesi l’utilizzo di antibiotici in Italia è caratterizzato da un elevato consumo totale e da un trend in crescita», ha spiegato infatti Pietro Folino-Gallo, direttore dell’ufficio Osmed dell’Aifa, sottolineando che «il nostro Paese è secondo per consumo in Europa dopo la Francia». Ma a differenza dei cugini transalpini, dove la tendenza è al ribasso, «in Italia ogni giorno nel 2006 hanno fatto uso di antibiotici 27,6 persone su mille contro le 24,5 del ’99». Il rapporto Osmed specifica inoltre che il consumo farmaceutico territoriale di classe A-Ssn, ovvero quelli interamente rimborsabili, risulta cresciuto del 4,9% rispetto al 2007: in altre parole, ogni mille abitanti sono state prescritte 924 dosi di farmaco al giorno (erano 580 nel 2000). «Una esplosione non giustificata nè giustificabile - evidenzia Roberto Racchetti, responsabile del rapporto - ora si tratta di trovare strumenti e intervenire alla radice con meccanismi strutturali di formazione e informazione su medici e pazienti». Scorrendo poi la classifica dei farmaci più utilizzati, troviamo in cima alla lista, come da tradizione, i farmaci del sistema cardiovascolare, con oltre 5 milioni di euro di spesa, coperti per il 93% dal Ssn. Seguono i farmaci gastrointestinali (13% della spesa), quelli del sistema nervoso centrale (12,1%), gli antimicrobici (11%) e gli antineoplastici (11%). È invece un ace-inibitore, l’antipertensivo Ramipril, la sostanza più prescritta nel 2008.
CALABRIA MAGLIA NERA
Ovviamente la spesa varia da Regione a Regione, con la Calabria maglia nera (277 euro pro capite di spesa pubblica per i farmaci di classe A-Ssn), seguita da Campania, Sicilia e Lazio. Mentre è la Provincia di Bolzano quella più virtuosa (149 euro). Di pari passo all’andamento generale va segnalato l’aumento dei consumi dei farmaci generici, che dal 2002 al 2008 sono passati dal 13 al 43%, ma che scontano oltre alla diffidenza degli operatori e dei cittadini il peso di una lunga copertura dei brevetti.

Corriere della Sera 10.7.09
La corsa al riarmo dei cittadini Usa


Giunte al ventesimo mese della recessione più dura degli ultimi 80 anni, sono poche le impre­se Usa che riescono a stare bene a galla. Ma c’è un settore che ignora la crisi e, anzi, è in pieno «boom»: quello delle armi. Per tutti i produtto­ri di pistole, fucili e munizioni, come la Remington, è «boom» di vendite, Smith & Wesson e Sturm Ruger hanno moltiplicato i profitti.
Impressionante, in un Paese scosso di continuo da eruzio­ni di violenza spesso provocate da squilibrati che ottengono armi con troppa facilità. E anche apparentemente inspiega­bile, visto che negli Usa, a fronte di 300 milioni di abitanti, ci sono già più di 200 milioni di armi registrate. Pistole e fucili che possono essere usati per generazioni, visto che le armi non si logorano come un’auto né diventano tecnologi­camente obsolete come un computer.
La Nra, la lobby degli armieri, inneggia all’«effetto Oba­ma »: al neopresidente, che aveva inserito nel suo program­ma elettorale la reintroduzione della messa al bando delle armi d’assalto (decisa da Clinton nel 1993 e abolita da Bush nel 2004), i titolari dei negozi di armi hanno affibbiato ironi­camente il titolo di «miglior venditore d’armi dell’anno». «Riempite casa di armi e munizioni prima che arrivino i di­vieti » è il ritornello ripetuto in tutte le armerie.
«Geni del marketing che so­no riusciti ad allargare un mer­cato già saturo», commenta con amarezza Dennis Henigan, attivista delle leghe anti armi e autore di «Lethal Logic», recen­tissimo saggio sulle cause psi­cologiche della diffusione del­le armi in America. Non è solo l’attaccamento alla filosofia dei conquistatori del «selvaggio west» e a una libertà solennemente sancita dal Secondo emendamento della Costituzione: ora c’è chi teme che, con la recessione e le nuove povertà, furti e rapine si moltiplichi­no.
Ma soprattutto, nota Henigan, non è stato difficile creare un «panico Obama» tra gente che ragiona per slogan, quelli che si leggono sui paraurti delle auto: «Una società armata è una società ben educata», «Se le armi sono fuorilegge, solo i fuorilegge hanno le armi». L’ironia di questa situazione è che il nuovo presidente per ora non farà nulla per arginare la diffusione delle armi: in Congresso è già in difficoltà su vari fronti e i leader della sua stessa maggioranza lo hanno avvertito che decine di deputati democratici sono pronti a votare contro qualunque limitazione del diritto all’autodife­sa.
E allora? Un altro pensiero, il più spaventoso, viene sus­surrato a mezza bocca dal titolare di un’armeria: «Se il pri­mo presidente nero d’America venisse assassinato, rischie­remmo la guerra civile. L’ondata di violenza vissuta nel ’91 da Los Angeles dopo il pestaggio di Rodney King, risulterà, al confronto, un pic-nic al parco. Meglio prepararsi per tem­po a difendere la propria famiglia».

l’Unità 10.7.09
«Ci salveranno i piedi non le radici»
Reato di clandestinità. Si punisce una persona non per ciò che fa ma per ciò che è...
Intervista a Marco Aime di Marco Rovelli


Senza fondamento
A dimostrare la mancanza di basi scientifiche e biologiche per una divisione in razze dell’umanità è Luigi Luca Cavalli Sforza attraverso i suoi studi sulla genetica popolazionale, poi rielaborati in «Geni, popoli e lingue» (Adelphi 1996).
Un unico Dna
La mappatura del codice genetico umano ha abbattuto l’ultimo possibile baluardo razzista: il Dna di due eschimesi, può contenere più differenze che quelli di un eschimese e un africano. Un panorama su queste e altre recenti ricerche è in «Europei senza se e senza ma. Storie di neandertaliani e di immigranti» di Guido Barbujanni (Bompiani 2008)

Marco Aime, docente di Antropologia culturale all’università di Genova e scrittore, ha pubblicato di recente due libri: La macchia della razza (Ponte alle Grazie), Il primo libro di antropologia e Una bella differenza (entrambi per Einaudi). Ma è soprattutto un appassionato antropologo che guarda al nostro presente, e ci è parso importante riflettere con lui, mettendo in gioco il suo acuto «sguardo da lontano», su quella che è la vera emergenza italiana di questi tempi: l'emergenza razzismo.
Nel suo «La macchia della razza» riflette a lungo sul linguaggio, sulle parole usate per «dire» l'immigrazione: una grandissima operazione di mascheramento, di costruzione di una realtà fittizia.
«La retorica comunicativa relativa al problema immigrazione, come a quello della sicurezza è significativa di una precisa volontà di stravolgere i fatti. Pensiamo al grande spazio dato agli sbarchi e ai respingimenti. La percentuale di stranieri che arriva dal mare è irrisoria, ma adeguatamente mediatizzato questo diventa il problema principale. Innanzitutto, quando avviene un reato si enfatizza l’origine se a commetterlo è uno straniero, ma non si fa la stessa cosa se a delinquere è un italiano. Così si mettono le basi all’equazione “straniero uguale criminale”, tacendo sulla stragrande maggioranza di immigrati che lavorano onestamente nel nostro paese. Poi si passa all’etnicizzazione del crimine. Basti pensare alle aberranti parole di Calderoli: “Ci sono etnie che hanno propensione a delinquere”. Ecco come ci si avvicina pericolosamente alle teorie razziali. Nel Manifesto della razza del 1938 c’era scritto: “È ora che gli italiani si proclamino francamente razzisti”. Il tono non è molto diverso da quel «Finalmente cattivi» della Padania, il giorno dopo i primi respingimenti».
Nel libro lei scrive che all'origine di questa «emergenza razzismo» c'è anche una politica senza pensiero, senza orizzonte, che non scalda i cuori. E una sinistra che si è dimessa da se stessa.
«Purtroppo è così. La politica si è ridotta ad amministrazione e a soddisfacimento dei sondaggi. Non si sente nessun politico italiano in grado di suscitare qualche emozione, rilanciando un’idea di politica che significhi tentare di realizzare una società migliore. In fondo è quello che ha fatto Obama, cambiando linguaggio e puntando a un futuro, non limitandosi a osservare l’oggi, come accade da noi. La politica deve appassionare, altrimenti è pura contabilità o burocrazia. L’appiattimento su un livello retorico becero o comunque arido e povero è uno dei segnali della mancanza di vero pensiero. Il groviglio dei tatticismi e delle speculazioni minime è invece segno di autoreferenzialità, che esclude la gente dalla partecipazione».
Un punto qualificante del suo libro è la riflessione sulla perdita di memoria. Una memoria che fa selezione dei ricordi, e che dimentica quanto dovrebbe essere ricordato. Una selezione forse inevitabile, dacché la memoria è sempre vittima dei rapporti di forza, e noi oggi, che siamo i forti, siamo «condannati» a dimenticare. E allora, più che ricordare il nostro passato di emigranti (che è precisamente ciò di cui ci si vuole dimenticare) non converrà piuttosto come strategia retorica – ciò che lei fa peraltro - ricordare il razzismo istituzionalizzato dall'Italia fascista, e guardare la nostra faccia di forti e feroci?
«L’una e l’altra cosa, direi. Dimenticare la nostra storia, peraltro molto recente, per quanto amara, significa privarsi di ogni possibile metro di comprensione. Significa osservare e giudicare ciò che sta accadendo, come se fosse la prima volta che ciò avviene. È curioso che i fondamentalisti della tradizione e i fanatici delle “radici”, finiscano poi per sorvolare sul fatto che la nostra tradizione è fatta anche di tanta emigrazione e che molti di noi si sono salvati perché avevano piedi e non radici. Allo stesso tempo rievocare le tragiche derive razziste del ventennio mussoliniano è indispensabile perché molte cose sembrano ripetersi. Una fra tutti e l’apparente disinteresse generale. Sembra che tutto ciò non ci riguardi, che debba accadere ad altri. Immagino sia successo qualcosa di analogo, mentre i fascisti iniziavano a insinuarsi nelle pieghe del potere. Si è minimizzato, si è lasciato fare, tanto...».
Un altro punto qualificante del suo discorso - e in questo si manifesta il debito con Giorgio Agamben - è la finzione dei diritti umani. La negazione dello statuto di persona quando non c'è nome, e diritto. Ciò che rende necessaria, allora, una lotta per il «diritto universale».
«Il problema è che non basta nascere per esistere. E non basta esistere per avere dei diritti. Con l’introduzione del reato di clandestinità, si è arrivati a punire una persona non per ciò che fa, ma per ciò che è. Siamo alla negazione dello status di essere umano, alla riduzione delle relazioni umane ad atto burocratico, asettico. In questa progressiva spersonalizzazione mi sembra di risentire gli echi della “banalità del male” descritta da Hannah Arendt. Si spostano le tragedie umane su un piano formale, giuridico, privo di emotività e di senso di umanità. Poi ci si trincera dietro all’asettico rispetto delle norme. Esattamente come facevano i capi nazisti, che dicevano di avere semplicemente eseguito ordini».

l’Unità 10.7.09
Un premio per i registi migranti
Film dall’Asia, dall’Africa, dall’America, dall’Europa dell’est: a Bologna un riconoscimento al cinema di qualità dal mondo
di Chiara Affronte


Ci sono film che raccontano quasi sempre storie di migranti, perché dai registi migranti sono fatti. A Bologna la Cineteca, un’associazione creata ad hoc – Officina Cinema Sud-est - e un premio di recente costituzione – il premio Gianandrea Mutti - si occupano di questo cinema. E stasera, nello scenario suggestivo del grande schermo sul Crescentone di piazza Maggiore, il regista Fatih Akin consegnerà, a uno di quattro finalisti, il premio che dal 2008 cerca di sostenere questi autori e le loro opere.
Vengono dall’Asia, dall’Africa, dal centro dal Sud America, dall’Europa dell’Est, dall’Iran i cineasti che l’associazione bolognese Officina Cinema Sud-est sta facendo emergere dall’ombra. «Stiamo scoprendo registi e opere di grande valore che altrimenti sarebbero rimasti sconosciuti», spiega la presidente dell’associazione Giulia Grassili. Questo perché la maggior parte di questi autori, essendo residente in Italia ma non avendo acquisito la cittadinanza, non riesce ad accedere ai finanziamenti – seppur scarsi – destinati al cinema emergente. E spesso neanche a quelli dei loro paesi d’origine, per lo stesso motivo. È una vita a metà la loro, sia umanamente che professionalmente, vissuta in bilico e spesso nell’ombra tra la terra d’origine e l’Italia. Ed è anche per questo che spesso le loro sono storie di migrazione. Come era successo, nella prima edizione del premio (questa è la seconda) al film del marocchino Mohamed Zineddaine Ti ricordi di Adil?: racconto di un giovane il cui sogno è lasciare il Marocco per raggiungere il fratello in Italia, a Bologna. Lì si troverà aggrovigliato nelle trame di due mondi lontani e vicini, destinati a convivere seppur con difficoltà: Adil vivrà due vite parallele, come a tanti migranti accade.
Il premio adesso è intitolato a Gianandrea Mutti, figura nota nel mondo del cinema, collaboratore per lungo tempo della Bim distribuzione, scomparso prematuramente lo scorso agosto. Tre mesi fa gli amici si sono riuniti in un’associazione per ricordare lui e la sua passione per il cinema, racconta Laura Traversi, e hanno deciso, come primo passo, di sostenere il cinema migrante di qualità. In poco tempo hanno raccolto 15mila euro: «Una cifra – spiega Grassili – che in alcuni casi può anche coprire l’intero costo del film, se si tratta di un’opera a basso budget, ma che comunque è significativa per emergere e per trovare altri finanziatori». Sono quattro, degli otto candidati, gli autori finalisti e stasera verrà decretato il vincitore a cui consegnerà il premio Fatih Akin, prima della proiezione in piazza del suo film La sposa turca, Orso d’oro a Berlino nel 2004. Mohsen Melliti (già autore di Io, l’altro con Raul Bova), una vita tra la Tunisia e Roma, partecipa con la sceneggiatura de I nemici, il giornalista, musicista e cineasta Reda Zine, che vive tra Bologna, Casablanca e Parigi, presenta un documentario su Malik Farakhan, attivista afroamericano e bodyguard dei Public Enemy; Kivanc Szeser, che vive tra Bologna e la Turchia, partecipa con I figli di Turabdin sugli Assiriani in Turchia; Fred Kudjo Kuwornu, attore e regista bolognese di origine africana (ha lavorato a Miracolo a Sant’Anna con Spike Lee e da questa esperienza è nato il documentario Inside Buffalo) ha presentato un progetto sul tema del diritto di cittadinanza.

Corriere della Sera 10.7.09
Eretici «La vocazione minoritaria», libro intervista di Goffredo Fofi con Oreste Pivetta, riapre il dibattito sulla funzione degli intellettuali
Maestri del pensiero scomodo
Da Albert Camus a George Orwell, gli scomunicati dalla sinistra ortodossa
di Pierluigi Battista


La lezione dei Camus, degli Orwell e delle Arendt, al contrario degli algidi e imperturbabili «erasmiani» di cui l’ul­timo Ralph Dahrendorf ha tessuto un vivido elogio, sta proprio in questo ca­rattere pugnace della loro militanza in­tellettuale. Persero, ma non si piegaro­no. Ricordarli oggi è un omaggio ai no­bili protagonisti di una sconfitta che ebbero ragione anche quando era più facile stare dalla parte del torto.

Tra i maestri di cui bisognereb­be riprendere la lezione, scri­ve Goffredo Fofi concludendo La vocazione minoritaria cura­ta da Oreste Pivetta (Laterza), si segna­lano «anche Albert Camus e Simone Weil, George Orwell e Nicola Chiaro­monte, Paul Goodman e una certa Han­nah Arendt». Ripetiamoli ancora: Ca­mus, Weil, Orwell, Chiaromonte, Goo­dman, Arendt. Sono in gran parte gli stessi nomi che ricorrono con una cer­ta frequenza anche nei libri scritti o fat­ti scrivere da intellettuali che più o me­no, anche con meno anni alle spalle, hanno incrociato lo stesso percorso po­litico- intellettuale di Fofi. Più o meno sono di sinistra. Più o meno sono scon­tenti e delusi dalla tradizione «maggio­ritaria » della sinistra. Più o meno han­no preso a coltivare quel piccolo ma nutrito Pantheon di maestri che seppe­ro reggere un destino di «minoranza» quando era molto difficile essere «mi­noritari ». Perché i «maggioritari» era­no ferocemente conformisti, intolle­ranti, refrattari a ogni dubbio, guardia­ni dell’ortodossia e dell’ordine, titolari di un potere di scomunica che prevede­va l’isolamento e l’ostracismo del reo. I «minoritari» non hanno avuto la vita facile. L’hanno avuta difficilissima.
Alfonso Berardinelli, curatore di una collana di saggistica dell’editore Scheiwiller, ha voluto tradurre in Italia il ritratto di George Orwell scritto da Christopher Hitchens. Filippo La Porta ha incluso tra i suoi «maestri irregola­ri » Camus e Chiaromonte, Simone Weil e Orwell. Vittorio Giacopini ha ri­proposto gli scritti politici di Camus. Francesco M. Cataluccio si è impegna­to nella diffusione delle opere di Gu­staw Herling, che collaborò lungamen­te con la rivista «Tempo Presente» di Chiaromonte e Silone. Hannah Aren­dt, che pure ha rappresentato una figu­ra poliedrica e sfaccettata, viene sem­pre più spesso ricordata per il suo pen­siero originale, per le sue battaglie con­dotte in solitudine, per la sfrontatezza con cui affrontò temi destinati a met­terla in urto con il suo milieu intellet­tuale di appartenenza. Tutte personali­tà, quelle rilette da Fofi, Berardinelli, La Porta, Giacopini e Cataluccio, che hanno messo l’umanesimo, la ripulsa del terrore rivoluzionario, l’attenzione ai mezzi con cui perseguire anche i fi­ni più generosi, al centro della loro ela­borazione culturale. Erano i campioni di un pensiero di sinistra antitotalita­ria che ha combattuto il totalitarismo quando era al suo apogeo. E proprio perché antitotalitari furono anche, e non si capisce se la parola susciti in Fo­fi, Berardinelli, La Porta, Giacopini e Cataluccio un certo fastidio e una persi­stente irritazione (forse in Fofi sì, negli altri quattro è più improbabile), fiera­mente anticomunisti. Nel nome degli stessi valori che li portarono ad essere antifascisti e nemici di ogni forma tota­litaria.
Chissà cosa sarebbe stata la sinistra se avesse dato retta a quegli irregolari «minoritari». Camus aveva offerto con L’uomo in rivolta una radiografia della malattia totalitaria che stava divoran­do il comunismo, e pervertendo a tal punto gli ideali originari di rivolta e di giustizia da creare un numero elevatis­simo di vittime da sacrificare sull’alta­re del nuovo mondo. Ma, trascinata da Sartre, la sinistra «maggioritaria» non volle dargli ascolto e anzi ne fece il ber­saglio di una terrificante campagna di denigrazione. Camus era guidato da una logica molto semplice: i campi di concentramento e di sterminio sono sempre un male, chiunque abbia sroto­lato il filo spinato, qualunque sia il co­lore e la bandiera dei carnefici. Un principio semplice, che rimase inascol­tato, essendo maggioritario il princi­pio secondo cui i lager allestiti in no­me del bene non meritano indignazio­ne e del Gulag è meglio tacere per non scoraggiare il morale della classe ope­raia occidentale. Una partita perduta. Come quella di Orwell, che stentò addi­rittura a trovare editori che pubblicas­sero il suo straordinario trittico antito­talitario, composto da Omaggio alla Catalogna, La fattoria degli animali e 
1984. Come quella di Nicola Chiaro­monte, che dovette chiudere la sua rivi­sta per mancanza di fondi e che aveva descritto con precisione e senza indul­genza il «tempo della malafede» in cui era immersa la maggioranza degli in­tellettuali che non volle vedere gli orro­ri del totalitarismo comunista. Come quella della Arendt, le cui Origini del totalitarismo, scritte alla fine degli an­ni Quaranta, dovettero aspettare due o tre decenni prima di essere tradotte in Italia e in Francia, trincee dell’intelli­ghentsia filocomunista («communisti­sant », come la definiva Raymond Aron).
Erano intellettuali che non nascon­devano le cose ignorate dalla cecità ide­ologica dominante. E vissero la loro «vocazione minoritaria» con spirito combattivo e persino temerario. Se c’è un pericolo nella rilettura che Fofi, Be­rardinelli e gli altri ne danno è la mes­sa tra parentesi del carattere conflittua­le del loro lavoro intellettuale. Fino al punto di uscire dai ranghi in cui avreb­bero potuto condurre una vita decente­mente confortevole anziché affrontare scomuniche e diffamazioni. Simone Weil vide le atrocità che anche la parte «giusta» stava commettendo nella guerra di Spagna (come Georges Ber­nanos dalla parte opposta) e non esitò a denunciarle fino al punto di rompere con il proprio fronte. Come Orwell nel­la Catalogna di sinistra martirizzata dai sicari di Stalin (e diversamente da Hemingway, che inviava in America re­portages ridicolmente enfatici e mon­chi). Camus non rinunciò a mettere sullo stesso piano la Spagna di Franco e le «democrazie popolari» dei proces­si farsa Rajk e Slansky. La Arendt attirò su di sé l’ira della cultura ebraica per il suo resoconto del processo Eichmann: ma non fece atti di contrizione. Chiaro­monte non edulcorò i suoi giudizi sprezzanti per i chierici che avevano tradito la loro missione di verità (a co­minciare dallo stesso Julien Benda, che del «tradimento dei chierici» fece un bersaglio salvo tradire l’intelligenza e la decenza giurando sull’assoluta «correttezza» dei processi di Mosca ba­sati su confessioni estorte con le tortu­re più spaventose). Orwell non si rasse­gnò all’idea di interrompere la sua bat­taglia contro la sinistra che non sapeva essere «antitotalitaria», e dunque ne­cessariamente antifascista e anticomu­nista insieme. Tutti «minoritari», cer­tamente. Ma agguerriti, testardi, con­vinti che valesse la pena sostenere le buone ragioni di una sinistra «minori­taria », liberata dalla schiavitù della menzogna e dell’ipocrisia.

Repubblica 10.7.09
Incontro con il regista che prepara il suo nuovo film, "Habemus papam", in cui si ritaglia la parte dello psicanalista, e due documentari: sul Pci e sull´informazione
"Pubblico svegliati, il cinema muore"
intervista a Nanni Moretti di Paolo D’Agostini


Si è abbassata la soglia dello stupore su una catastrofe etica, istituzionale umana, "culturale"
In questi anni la sinistra ha avuto paura di tutto. È stata prigioniera di personalismi senza personalità

«Anzitutto il titolo è Habemus papam. Commedia ma non solo. È la storia di un papa depresso. Sto ancora finendo la sceneggiatura. Con Federica Pontremoli e Francesco Piccolo, come per Il Caimano». L´imprevedibile disponibilità di Nanni Moretti nasce dal cortocircuito tra due poli della sua attenzione di questi giorni. La rassegna "Bimbi belli" che egli dedica, con dibattito ogni sera nella sua Arena Sacher, alle opere prime italiane della stagione. E il G8 in corso a L´Aquila. Inizia con qualche anticipazione sul film che si avvia a realizzare. Abbondante e generosa.
Un papa che non vuole fare il papa: è così?
«Dobbiamo proprio dirlo? Inizia con la morte di un papa e quindi con il Conclave».
Commedia come (quasi) sempre nei suoi film, o di più?
«Il film cercherà un equilibrio tra realismo di ambientazione, sentimento doloroso, e improvvisi scarti verso la leggerezza. Non è una satira. Racconta di un uomo che sembra non farcela».
Che non è lei?
«No. E non so ancora chi sarà. Io faccio uno psicoanalista che incontra il papa».
Disse mesi fa di aver avuto difficoltà a trovare un nuovo soggetto, per paura di fare un film che comunicasse soltanto pessimismo. Ora ci è riuscito?
«Penso di sì. Se in questo momento avessi messo in scena ambienti e personaggi più vicini a me, la storia sarebbe stata cupa e basta. Comincerò le riprese tra qualche mese. Ma questo non è il mio unico progetto. Sto accumulando materiale di repertorio televisivo che poi monterò. Per raccontare le oscenità politiche e giornalistiche a cui ci siamo abituati, o di cui non ci siamo accorti. Si chiamerà È successo in Italia. È tanto che dico "bisognerebbe farlo". Ho iniziato ad archiviare trasmissioni e telegiornali. È una cosa che tocca fare e la si fa».
Quanto indietro? Dall´inizio della vita politica di Berlusconi?
«Pressappoco. La soglia del nostro stupore e della nostra reazione nei confronti di una catastrofe etica, istituzionale, umana, "culturale", si è abbassata sempre di più, sempre di più... fino a scomparire sottoterra. Fino a considerare normale un orrendo spettacolo, che in un paese democratico tutto è tranne che normale. Con questo lavoro non voglio convincere nessuno, voglio semplicemente ricordare che questo schifo, di cui fa parte anche il conformismo e il servilismo di tanti giornalisti, è successo davvero. Da 15 anni 60 milioni di italiani sono ostaggio degli interessi di una sola persona. Un´umiliazione impensabile fino a poco tempo fa. Da parte della sinistra c´è stata un´incapacità totale di reagire e affermare la propria identità. Si è fatta aggredire e sbeffeggiare. È arretrata in continuazione, ha adottato luoghi comuni come quello che non bisogna demonizzare Berlusconi per non spaventare i moderati. Su certe spaventose posizioni e leggi volute dalla Lega da sempre hanno avuto parole più nette alcuni settori della Chiesa. Il pragmatismo della sinistra la porta addirittura a corteggiare e a ipotizzare alleanze con la Lega. E invece no, sono portatori di disvalori, punto e basta. In questi anni la sinistra ha avuto paura di tutto. È stata prigioniera di personalismi senza personalità. Senza dimenticare lo slogan penoso della destra e di molti giornalisti secondo il quale il conflitto di interessi non interessa agli italiani, dato che la maggioranza ha votato Berlusconi. C´è un piccolo dettaglio: interessa alla democrazia. Spero solo che, dopo gli ultimi avvenimenti, almeno un risultato sia ormai acquisito: il tramonto dell´ipotesi che un tipo che si considera al di sopra della legge possa aspirare al Quirinale».
Non tutti i giornali si sono comportati come lei dice.
«In quello che sta facendo Repubblica c´è finalmente un´idea di giornalismo. Non si può continuare ad accettare, come pugili suonati, la prevedibile sgradevolezza e violenza dei giornali di destra. Certo, avrei preferito che altre dieci, venti, trenta domande fossero state poste sui suoi rapporti con la mafia e con Dell´Utri, su Previti che ha corrotto la magistratura per conto di Berlusconi, sull´avvocato Mills, sull´incerta provenienza dei soldi negli anni 70. Molti anni fa si è preso tre reti televisive. Poi è stata fatta una legge apposta per lui. Da quel momento avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. E così è stato».
Ha anche un altro progetto, giusto?
«Insieme ad altri registi. Voglio produrre una storia del Pci. Senza finanziamenti tv, per ora. Non voglio perdermi nell´attesa: ti rispondono che siamo in campagna elettorale, poi bisogna aspettare le elezioni, poi c´è il rinnovo del consiglio di amministrazione, poi altre elezioni. Intanto lo produco, poi mi auguro che qualcuno lo compri. Saranno molte ore: le elezioni del ´48, lo stalinismo, l´espulsione del gruppo del Manifesto... Interviste a chi nel Pci c´è stato. Non una celebrazione acritica, ma mi fa piacere ricordare soprattutto a loro, a quelli che sono stati comunisti, che questa storia c´è veramente stata. Anche perché chi ricorda oggi il Pci è soprattutto chi non è stato comunista: Bocca, Scalfari. Quel pezzo di paese c´è stato».
Testimonianze di militanti raccolte in giro per l´Italia?
«Persone che hanno qualcosa da raccontarci. Che non parlino con il senno di poi, che siano oneste e autentiche tornando a quei momenti, a quegli errori, a quelle lotte».
C´è molto allarme per la pesante decurtazione dei fondi pubblici destinati al cinema.
«So e capisco tutto. Però c´è anche una responsabilità del pubblico, per il quale il cinema non è più centrale. Tutti stiamo sottovalutando il momento di difficoltà delle sale, che ora chiuderanno una ad una. Perché le persone sono disposte a spendere qualsiasi cifra per mangiare in un ristorante dove devono urlare per farsi sentire. O per una partita che forse finirà zero a zero. Ma il cinema, la cosa che è aumentata di meno negli ultimi quindici anni, quello no: costa troppo. Per non parlare dell´abitudine orrenda di scaricare illegalmente da Internet. E basta con il luogo comune di premettere sempre: "io non do giudizi". Io sì, li do. Non mi piace quel modo di vivere lì! Non mi piace che uno stia con il culo appiccicato alla sedia e con la sedia appiccicata al computer. Mi piace più il mio, di modo di vivere. E vedere i film in un cinema, in mezzo agli altri. Tra poco i cinema chiuderanno tutti. E non è colpa della politica o delle istituzioni, ma delle persone che hanno la possibilità di scegliere di fare una cosa e un´altra. Anche tra noi, registi o scrittori, c´è chi potrebbe scegliere ma non lo fa. Io, da quando fondai la Sacher con Angelo Barbagallo, ho escluso la possibilità di farmi finanziare i film dal gruppo Berlusconi. Ho cercato di essere coerente. Una cosa imparata da mio padre, che era liberale».

giovedì 9 luglio 2009

Repubblica 9.7.09
Creato in laboratorio lo sperma artificiale Verrà usato per curare l´infertilità maschile
Se l’uomo diventa inutile (o quasi) per fare i bambini
di Elena Dusi


Scienziati prudenti I gameti derivati non sono sicuri: per ora non si fanno fecondazioni
Ma lo spermatozoo sintetico non pare essere molto veloce Dinanzi a un ovulo potrebbe fare flop

Dal sesso al laboratorio: gli scienziati inglesi dell´università di Newcastle hanno creato il primo spermatozoo artificiale. La riproduzione fa così un altro passo dalla camera da letto verso la provetta. E anche se le prime reazioni all´esperimento inglese -che partendo da una cellula staminale embrionale umana è riuscito a far maturare uno spermatozoo in laboratorio - salutano un futuro in cui l´uomo non sarà più indispensabile per la fecondazione, a leggere bene i dati si scopre che la realtà è esattamente l´opposta.
Quando infatti le cellule staminali di partenza sono state ricavate da un embrione di sesso maschile - spiega la rivista Stem Cells and development, che ha pubblicato lo studio - ne è nato uno spermatozoo in grado di fecondare una cellula uovo. Le staminali di sesso femminile al contrario si sono arrestate alle prime tappe del processo di maturazione del gamete maschile, troppo lontane dalla metà per promettere alle donne un futuro di indipendenza dal punto di vista riproduttivo. Dal piccolo e gracile cromosoma Y, caratteristico del sesso maschile, allo stato delle conoscenze attuali non si può dunque prescindere per far nascere un cucciolo d´uomo.
Lo sperma ottenuto in laboratorio in Gran Bretagna non verrà usato per fecondare alcun ovulo, perché le leggi inglesi non lo permettono. Quando il processo di maturazione di una cellula si svolge completamente fra vetrini e brodi di coltura, è possibile che nel Dna si creino dei danni e il bambino nasca con dei difetti gravi. E la Human fertilisation embryology authority, cui sono affidati questi temi di ricerca in Gran Bretagna, in questo caso sceglie di derogare al suo notorio liberalismo: «Il livello di sicurezza dei gameti derivati in vitro è sconosciuto. Gli scienziati temono che il processo davvero complesso che porta alla loro creazione possa causare delle anomalie nei cromosomi o altri gravi difetti genetici».
Gli spermatozoi artificiali di Newcastle, hanno notato anche i loro "papà" in camice bianco, non hanno la stessa motilità, o "vivacità", di quelli normali e c´è il sospetto che di fronte a una vera cellula uovo (quella sì, impossibile da ricreare in laboratorio) finiscano col fare flop. «Il nostro obiettivo è capire in dettaglio cosa avviene quando uno spermatozoo si forma. Abbiamo bisogno di conoscere le cause dell´infertilità maschile per arrivare a curarle» ha spiegato Karim Nayernia, professore di genetica umana e leader dell´équipe dell´università di Newcastle. Nuovi esperimenti e il progredire delle conoscenze potrebbero comunque avvicinarci alla creazione di uno spermatozoo in vitro abbastanza sicuro da consentire la fecondazione di un ovulo. Per questo la Human fertilisation authority non chiude nessuna porta davanti a sé, prevedendo che «tra 5-10 anni lo sperma prodotto in vitro potrà forse essere usato per risolvere problemi di infertilità».
Mentre in Gran Bretagna la ricerca sulle "cellule bambine", in grado di trasformarsi in qualunque tessuto dell´organismo, procede a buon ritmo, martedì gli Stati Uniti hanno varato le loro nuove linee guida per l´utilizzo delle staminali embrionali. Il presidente Barack Obama aveva annunciato un´apertura rispetto alla rigida legislazione del predecessore George W. Bush. E il nuovo regolamento prevede in effetti l´erogazione di finanziamenti pubblici per ricerche che usano gli embrioni abbandonati nelle cliniche delle fertilità, oltre a facilitare l´importazione di queste cellule dall´estero. Continua però a negare fondi agli esperimenti in cui le staminali siano state ricavate da un embrione creato ad hoc e poi distrutto esclusivamente per scopi di ricerca. Si stima che le linee di cellule usate dalla scienza Usa possano aumentare da circa sessanta a diverse centinaia. La prossima volta che sentiremo parlare di spermatozoi artificiali, forse, non è un istituto inglese che dovremo citare, ma un gruppo di scienziati americani.

Corriere della Sera 9.7.09
Se si riescono a realizzare gameti, presto ci si può attendere qualsiasi cellula in laboratorio
Il risultato all’università britannica di Newcastle usando cellule embrionali umane
Creati spermatozoi da staminali
È la prima volta nella storia: servirà a curare l’infertilità
di Simona Ravizza




MILANO — Spermatozoi fabbricati in laboratorio con­tro la sterilità. Li hanno pro­dotti i ricercatori della Newca­stle University partendo da embrioni donati da coppie che si sono sottoposte alla fe­condazione assistita. Lo sper­ma è stato creato dalle cellule staminali maschili. È la prima volta nella storia. Il procedi­mento prevede una coltura delle cellule in una speciale soluzione chimica che per­mette di identificare quelle germinali (normalmente con­tenute nei testicoli), utilizza­te, poi, per innescare il pro­cesso riproduttivo. È una scoperta considerata rivoluzionaria: gli studiosi britannici, guidati da Karim Nayernia, sperano entro dieci anni di potere inserire la tec­nica tra le cure anti-sterilità. La ricerca — svolta in collabo­razione con il NorthEast En­gland Stem Cell Institute — è stata pubblicata dalla rivista scientifica Stem Cells and De­velopment.
Per arrivare alla creazione dello sperma ci vo­gliono dalle quattro alle sei settimane. Per documentare la sperimentazione l’équipe di Nayernia ha prodotto an­che un video. La convinzione è che gli spermatozoi creati in laboratorio — pur non es­sendo perfetti — abbiano tut­te le qualità fondamentali per il processo riproduttivo.
Lo hanno sopranominato «sperma derivato in vitro» (vitro derived sperm). «È un passo in avanti importante — dice Karim Nayernia —. Così potremo studiare con precisione come nascono e si evolvono gli spermatozoi. Non solo: una maggior cono­scenza del seme maschile ci permetterà di capire meglio le cause dell’infertilità e di aiutare con nuove cure le cop­pie in cerca di un figlio». Il ri­cercatore esclude, comun­que, un utilizzo diretto degli spermatozoi prodotti in labo­ratorio nella fecondazione as­sistita.
Per il genetista Carlo Alber­to Redi, direttore scientifico del Policlinico San Matteo di Pavia, si apre uno scenario ri­voluzionario per la cura della sterilità: «L’importante è do­tarsi di una cornice normati­va che allontani perplessità etiche. Potrebbero aprirsi ca­si da giallo poliziesco: un graf­fio in un uomo potrebbe ba­stare, infatti, per utilizzare il suo sperma e avere un figlio senza neppure il suo consen­so. Ma la ricerca non va fer­mata. Sarebbe miope e con­troproducente bloccare gli studi solo per timore».
Spiega Guglielmo Ragusa alla guida dell’Unità di ripro­duzione assistita dell’ospeda­le San Paolo di Milano: «Lo Human Fertilization and Em­bryology Act del 2008 vieta di usare sperma e ovuli artificia­li contro l’infertilità. In teo­ria, però, gli spermatozoi cre­ati in laboratorio potrebbero servire per fare avere figli a pazienti azospermici, quelli per i quali non è possibile re­cuperare gli spermatozoi nep­pure chirurgicamente. Lo stesso potrebbe valere per i giovani che hanno perso la ca­pacità riproduttiva dopo esse­re stati malati di cancro e per i pazienti con problemi gene­tici o cromosomici a livello dello spermatozoo. La scoper­ta, comunque, non è di appli­cazione immediata».
Non mancano le voci criti­che. Robin Lovell-Badge, esperto in spermatozoi del National Institute for Medical Research di Londra, storce il naso: «Anche se hanno la co­da e possono nuotare non vuol dire che questi sperma­tozoi siano normali».
Ma non finisce qui. I ricer­catori della Newcastle Univer­sity non escludono in futuro di poter creare sperma in la­boratorio con l’utilizzo di sta­minali solo femminili. Così una donna potrebbe avere un figlio senza alcun contributo maschile. Ma questa è ancora fantascienza. Almeno per il momento.

Corriere della Sera 9.7.09
E ora il maschio non è necessario
di Edoardo Boncinelli


Sembra che con cellule staminali di buona qualità e con gli opportuni trattamenti si possa fare proprio tutto.

Anche i gameti, cioè le cellule della riproduzione, che sono poi gli spermatozoi per i maschi e le cellule-uovo per le donne. L’ultima notizia è appunto la produzione di sperma maschile a partire dalle staminali. E se si riescono a fare gameti, ci si deve attendere di sapere fare presto qualsiasi tipo di cellula. I gameti sono infatti cellule molto particolari, sia per la loro costituzione che per le loro proprietà. Contengono solo la metà del patrimonio genetico dell’individuo che li produce e la metà dei suoi cromosomi: 23 invece di 46. Ciò è necessario perché il prodotto della fecondazione di una cellula-uovo da parte di uno spermatozoo dia un individuo normale, maschio o femmina che sia, e non un mostro. Questo individuo dovrà avere infatti il suo canonico corredo di 46 cromosomi, dei quali 23 verranno dallo spermatozoo del papà e 23 dalla cellula-uovo della mamma. I gameti sono perciò cellule «alleggerite» e semplificate, ma senza improvvisazione: tutto deve essere sistemato e in ordine. È necessario quindi un tipo molto particolare di moltiplicazione cellulare per passare da una cellula del corpo a un gamete. Mentre il normale processo di moltiplicazione cellulare si chiama mitosi, quello che porta alla produzione dei gameti si chiama meiosi (meion in greco significa «meno» e comporta infatti, come abbiamo appena detto, una riduzione del numero dei cromosomi nelle cellule prodotte). Non si può arrivare ad un gamete se non passando per una meiosi e questo è evidentemente quello che è avvenuto nelle cellule coltivate dai ricercatori di Newcastle, che così hanno ottenuto spermatozoi in quantità. Ma non è tutto qui. I gameti devono essere vitali e «vispi», soprattutto gli spermatozoi. Per poter parlare, come è stato fatto, di sperma vitale, si deve controllare che gli spermatozoi che lo compongono abbiano tutto in ordine ed essere capaci di maturare. Durante il loro eventuale «viaggio» all’interno dell’utero infatti gli spermatozoi devono acquisire certe capacità fisiologiche, nel quadro di un processo di maturazione che prende il nome di capacitazione. Evidentemente gli spermatozoi prodotti hanno superato tutte queste prove o, più verosimilmente, promettono di superarle presto. Gli stessi ricercatori parlano di un periodo di prova di una diecina di anni. A quel punto si potranno fare spermatozoi vitali dalle cellule del corpo di un maschio con problemi di sterilità, cosa più volte ventilata, ma per ora mai realizzata. Non è nemmeno necessario partire da cellule maschili, perché, anche partendo da cellule staminali femminili, la meiosi assicura comunque la presenza di un cromosoma X. Con gli spermatozoi così ottenuti non si potranno fare maschietti, ovviamente, ma femminucce sì. E non è nemmeno detto. Nascere e crescere resta un problema, ma sempre più semplice via via che il tempo passa e la scienza avanza.

Corriere della Sera 9.7.09
La sagrestia di Lambach, in Alta Austria, custodisce il segreto
Ecco la svastica che ispirò Hitler
di Vittorio Messori


Il futuro dittatore frequentò qui la terza elementare. I religiosi hanno interdetto l’accesso per impedire il pellegrinaggio di nostalgici. Quando i nazisti soppressero le case monastiche venne risparmiata solo quella

Per penetrare nel luogo proibito, ho dovuto giocare la carta del riconosci­mento, mostrando il passaporto e al­cune pubblicazioni recenti che ave­vo con me. Ho superato così la diffidenza del monaco guardiano, fortunatamente let­tore delle traduzioni tedesche dei miei libri. Affidato a un sagrestano e aperta la grande porta barocca chiusa a chiave, mi sono stati concessi pochi minuti per scattare qualche istantanea con la mia macchinetta automati­ca. Alla fine, l’esortazione a «far buon uso» del privilegio accordato a me e negato cate­goricamente a tanti altri, da molti anni.
Tutto questo per accedere alla sagrestia di una chiesa non solo aperta al pubblico ma anche assai frequentata, essendo al contem­po parrocchia e tempio della grande, antica abbazia di Lambach, nell’Alta Austria. Un monastero che, nella sua vita millenaria, ha vissuto anche una esperienza singolare: du­rante l’anno scolastico 1897/98 ospitò, per la terza classe elementare, un bambino di ot­to anni originario di Braunau am Inn. Bambi­no disciplinato, dal visetto grazioso (come mostra la ancora esistente foto della classe) ma ostinato e introverso. Il che non gli impe­dì di essere un diligente chierichetto e un buon elemento della corale di voci bianche, nonché un allievo attento delle lezioni di vio­lino impartitegli da un Padre benedettino. Dopo l’aula della scuola nell’abbazia, la mag­gior parte del suo tempo lo trascorse, quel­l’anno, proprio nella sagrestia ora interdetta ai visitatori. Lì, infatti, aiutava i sacerdoti ce­lebranti a indossare e a togliere i paramenti liturgici, lì lavava e riempiva le ampolle per l’acqua e per il vino, lì sistemava arredi e ve­sti negli armadi. Lì si radunava con gli altri bambini, ogni sabato pomeriggio, per le pro­ve dei canti per la messa grande domenicale e si esercitava per le melodie previste per matrimoni, funerali, feste liturgiche varie. Ebbene, quel vasto ambiente barocco è do­minato da una sorta di grande cenotafio in marmi dai colori vivaci, che termina in uno stemma abbaziale, sovrastato da una mitria e da un pastorale in pietra rossa, forse di Ve­rona. Nell’ovale del blasone, una svastica con gli uncini piegati, vistosamente dorata. La stessa doratura per la data (1869) e per le quattro lettere che circondano la croce: T.H.A.L. Cioè: Theoderic Ha­gn Abate (di) Lambach.
Per posizione, per impo­nenza, per policromia dei marmi pregiati, il cenotafio è il punto focale della sala, è impossibile non esserne at­tratti appena entrati. Dun­que, in quell’anno scolastico di oltre 110 anni fa, attrasse anche gli occhi, avidamente curiosi, dell’al­lievo di terza classe della Volks-Schule, nonché chierichetto e corista. Il suo nome era Adolf Hitler.
L’anno a Lambach del futuro Führer è ovviamente ben noto agli storici, anche perché l’interessato gli dedicò una pagina del Mein Kampf, dove dice di non avere condi­viso l’ideale di quei monaci ma di averne sti­mato la serietà e, soprattutto, di avere prova­to tali emozioni durante le solenni liturgie da sentirsi, lui che sarà sempre astemio, be­rauscht, ubriaco. Alcune biografie accenna­no anche alla svastica del monumento abba­ziale ma, curiosamente, sono quasi inesi­stenti, per quanto sappia, le fotografie che appaghino la curiosità dei lettori. In ogni ca­so, le rare immagini sono di molti anni fa, in sfocato bianconero. In effetti, come io stesso ho constatato, i religiosi hanno deci­so di interdire l’accesso alla sagrestia per troncare una sorta di pellegrinaggio, ove ai curiosi si aggiungevano, pare, anche inquie­tanti nostalgici se non dei pericolosi pazzoi­di.
La gran maggioranza dei visitatori ignora che un’altra svastica, seppur di dimensioni minori, potrebbe risvegliare la curiosità. La seconda croce uncinata è sulla fontana nel giardino di fronte all’ingresso. Il piccolo Adolf vide pure questa tutti i giorni, giungen­do al mattino in abbazia, ma nel dopoguerra è stata coperta da rampicanti e da vasi di fio­ri e per vederla bisogna conoscerne l’esisten­za e spostare le piante. Anche questa è «fir­mata » da padre Theoderic Hagn, abate di Lambach nella seconda metà dell’Ottocento che per il suo stemma (ogni superiore di mo­nastero benedettino ne ha uno, alla pari dei vescovi) scelse una svastica, forse perché se­gno dell’incontro tra la croce cristiana e la tradizione religiosa mondiale. È noto, infatti, che sin da tempi preistorici la croce uncinata è presente come simbolo sacro in ogni continente, America preco­lombiana e Oceania incluse. Soltanto il giudaismo sem­bra non conoscerla, probabil­mente perché è simbolo sola­re, mentre la tradizione ebraica, a cominciare dal ca­lendario, è soprattutto lunare. Sta di fatto che anche per questo la Hakenkreuz, la «cro­ce con gli uncini», fu dichiarata «segno aria­no » e prediletta, tra Ottocento e Novecento, dai gruppi ispirati al nazionalismo germani­co nonché all’esoterismo e all’antisemitismo in qualche modo «metafisico». Il giovane Hi­tler la conobbe (curiosamente, proprio nella forma «alla Lambach», con gli uncini piega­ti) presso la Thule-Gesellschaft, la società se­misegreta le cui dottrine e i cui uomini ali­mentarono il nazionalsocialismo nascente.
Fu nel maggio del 1920 che il futuro Führer presentò l’insegna del movimento, da lui stesso (pittore frustrato) disegnata: una svastica, appunto, ma con i bracci rad­drizzati e inclinata verso destra, per, disse, «dare l’idea di una valanga che travolga il mondo decadente».
Questa scelta del simbolo, tra tanti possi­bili, fu determinata anche dall’impressione ricavata dallo scolaro di terza elementare da­vanti alle svastiche dell’abate Hagn? Hitler non ne fece mai cenno, ma ci sono due epi­sodi che fanno pensare. Quando invase l’Au­stria, nel 1938, pur pressato da mille impe­gni, si fece portare a Lambach (riservata­mente, con Eva Braun, una foto lo mostra con un impermeabile bianco, da borghese) per rivedere l’abbazia e sostò nella sagre­stia, davanti al vistoso cenotafio dove tante volte aveva lavorato e cantato. C’è di più: co­me già in Germania, i nazisti soppressero subito le case monastiche austriache, ma Lambach fu risparmiata e i religiosi furono allontanati soltanto nel 1942. Dopo tutto, non sfugga un particolare: attorno ai bracci della svastica dell’abate, stanno anche una A e una H. Proprio quelle iniziali che Adolf Hitler volle incise accanto alla Hakenkreuz.

l’Unità 9.7.09
In nome della purezza
Ebrei-tedeschi, quel divieto di coppia che creò la madre di tutte le leggi razziali
A Norimberga nel 1935 Hitler implementò la quintessenza della sua politica interna, internazionale, familiare, patrimoniale e sessuale
di Giovanni Nucci


A Norimberga nel 1935 Hitler implementò la quintessenza della sua politica interna,
internazionale, familiare, patrimoniale e sessuale. Nelle norme varate si leggeva: «proteggere
il sangue e l’onore tedesco». Questioni interessanti, che potrebbero anche sembrare attuali

A leggerle colpiscono per la loro essenziale semplicità rispetto alle leggi italiane del ’38

Nel 1935, verso la metà di settembre (il 15 volendo essere esatti), a Norimberga doveva probabilmente fare già abbastanza freddo e, nonostante ciò, aveva pieno svolgimento il congresso del Partito della Libertà.
(Breve tergiversazione anche un po’ puntigliosa: occorre specificare che il nome di quel partito sembrava scelto con grande oculatezza. Ci sarebbe da domandare se fosse mai stato nelle loro intenzioni chiamarsi Popolo, invece che Partito. O chissà, per contrario, se ad altri l’idea di chiamarsi Popolo invece che Partito sia effettivamente venuta per distinguersi da certi predecessori, o solo per convenienza politica, o di marketing, o convinti dai convincimenti dei responsabili del settore vendite – e questo genere di cose a noi umani totalmente incomprensibili. Ma nonostante ciò – partito o popolo fa praticamente lo stesso – bisognerebbe porre una riflessione sul fatto che sembra automatico a chi viene esigenza, che ne so, di dominare il mondo o semplicemente di imporre il proprio punto di vista, di voler sterminarne buona parte dei suoi abitanti suddividendoli in categorie standardizzate o anche solo di trovare fra queste i colpevoli collettivi a cui accreditare buona parte delle umane sofferenze, bene: chiunque sia stato mosso da simili intenzioni, storicamente non ha mai saputo resistere troppo alla tentazione di farlo in nome della libertà. Nell’ultimo quarto di millennio se ne conteranno, non lo so, più di una mezza dozzina, tra dittatori, proletari o meno, cialtroni e ciarpami compresi, che ne hanno fatte di ogni tipo in nome della libertà. Bisognerebbe farne uno studio, cioè gli storici dovrebbero farlo).
Tornando a noi: in assenza di alcun impedimento a riguardo, l’oculato epiteto era stato scelto e attribuito al suo partito anche da Adolf Hitler, già allora Führer e cancelliere del Reich. Così, in un tripudio di stendardi e divise sfavillanti insieme al suo ministro degli Interni Frick, durante il congresso del suo Partito della Libertà, implementò la quintessenza della sua politica interna, internazionale, familiare, patrimoniale e sessuale, firmando una nuova legge, anzi due. Queste si dichiaravano lo scopo, una di «proteggere i sudditi dello stato tedesco nella loro cittadinanza», e l’altra di «proteggere il sangue e l’onore tedesco». Questioni piuttosto interessanti, che potrebbero anche sembrare attuali.
Queste leggi tedesche colpiscono, una volta lette, per la loro essenziale semplicità. Quelle italiane del ’38, ad esempio, in confronto erano molto più puntigliose, ipocrite, false nella loro atrocità: era come se avessero vigliaccamente deciso di mettersi lì a speculare filosoficamente e congetturare antropologicamente più che altro per paura di ciò che stavano facendo. Basti vedere la «Dichiarazione sulla razza del Gran Consiglio del Fascismo», quanto la fa lunga, e complicata, nel definire chi sia o meno ebreo: «Il Gran Consiglio del Fascismo, circa l'appartenenza o meno alla razza ebraica, stabilisce quanto segue: a) è di razza ebraica colui che nasce da genitori entrambi ebrei; b) è considerato di razza ebraica colui che nasce da padre ebreo e da madre di nazionalità straniera; c) è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da un matrimonio misto, professa la religione ebraica; d) non è considerato di razza ebraica colui che è nato da un matrimonio misto, qualora professi altra religione all'infuori della ebraica, alla data del 1° ottobre XVI». (A volte gli italiani sanno essere così finti, noiosi ed ipocriti da farci vergognare di loro anche quando commettono le azioni più spregevoli: non per le azioni in sé, ma per come lo fanno). Nel 1938, tra l’altro, quando in Italia con le leggi razziali molte persone perbene videro che altre persone perbene dovettero allontanarsi dai loro uffici, che alcuni dei compagni di scuola dei loro figli dovettero andar via dalle loro classi, cominciarono a rendersi conto di cosa davvero fosse il fascismo.
Le leggi tedesche, tornando a noi, appaiono invece limpide e lineari nella loro essenza: il che ha portato a degli effetti atroci, ma ha perlomeno il vantaggio di spiegarci molto bene di cosa si trattava. Si stava regolamentando la vita sessuale della gente: dire che uno per legge, solo perché è quello che è (un ebreo, così come boliviano in cerca di lavoro, un restauratore di quadri del seicento così come un ricottaro abruzzese) non possa avere una relazione sessuale extraconiugale con un altro, è quasi come dirgli che se sta male un medico non potrà curarlo. Detto ciò, forse più che girarci troppo intorno, con grandi parole, commenti, considerazioni o storici parallelismi, vale la pena andare a vedere com’erano, quelle leggi, fare come un piccolo approfondimento scolastico mettendosele lì, davanti agli occhi, la madre di tutte le leggi razziali. E farsi scendere poi un brivido lungo la schiena, ricordandosi cosa sono significate per l’umanità.

l’Unità 9.7.09
Le norme emanate dal Reich, esempio di crudele semplicità


Legge sulla cittadinanza tedesca
Norimberga 1935:

I
1. Il suddito dello Stato è quella persona che gode della protezione del Reich tedesco e che in conseguenza di ciò ha specifici ordini verso di esso.

2. Lo status di suddito del Reich viene acquisito in accordo con i decreti del Reich e la Legge di Cittadinanza dello Stato.

II
1. Un cittadino tedesco è un suddito dello Stato di sangue tedesco o affine, che dimostri con la sua condotta di voler servire fedelmente la Germania e il popolo tedesco.

2. La Cittadinanza del Reich viene acquisita attraverso la concessione di un Certificato Statale di Cittadinanza.

3. Il cittadino del Reich è l'unico detentore di tutti i diritti politici in accordo con la Legge.

Legge per la protezione del sangue e dell’onore
15 settembre 1935

Articolo I

1.I matrimoni tra ebrei e i cittadini di sangue tedesco e apparentati sono proibiti. I matrimoni contratti a dispetto della presente legge sono nulli anche quando fossero contratti senza l'intenzione di violare la legge.

2. Le procedure legali per l'annullamento possono essere iniziati soltanto dal Pubblico Ministero.

Articolo II

Le relazioni sessuali extraconiugali tra ebrei e cittadini di sangue tedesco e apparentati sono proibite.

Articolo III

Agli ebrei non è consentito di impiegare come domestiche cittadine di sangue tedesco e apparentate.

Articolo IV

1. Agli ebrei è vietato esporre la bandiera nazionale del Reich o i suoi colori nazionali.

2. Agli ebrei è consentita l'esposizione dei colori giudaici. L'esercizio di questo diritto è tutelato dallo Stato.

Articolo V

1. Chi violi la proibizione di cui all'Articolo 1 sarà condannato ai lavori forzati.

2. Chi violi la proibizione di cui all'Articolo 2 sarà condannato al carcere o ai lavori forzati.

3. Chi violi quanto stabilito dall'Articolo 3 o 4 sarà punito con un minimo di un anno di carcere o con una delle precedenti pene.

il Riformista 9.7.09
Libertà di fine vita
di Giovanni Maria Flick


Con la calendarizzazione, alla Camera, del disegno di legge approvato dal Senato nello scorso autunno, si riapre la discussione sul testamento biologico; e c'è da augurarsi che si svolga in un clima diverso da quello di allora, anche se molti indizi lasciano presagire il contrario. Il tema, infatti, meriterebbe di essere approfondito con un confronto il più ampio possibile, ma soprattutto ispirato a concretezza e umiltà; proprio ciò che è mancato (salve talune eccezioni) nel dibattito politico e istituzionale dello scorso anno.
La concretezza: ogni caso è diverso dall'altro; soprattutto, dietro ogni caso c'è una persona, la sua storia e la sua sofferenza. Basta guardare alla disinvoltura con cui, invece, i drammi di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro sono stati assimilati, nelle valutazioni politiche e mediatiche.
Il primo caso rientrava nel principio dettato dall'articolo 32 della Costituzione ed oramai pressoché da tutti condiviso: il diritto del paziente lucido e consapevole a rifiutare un trattamento sanitario, anche quando ne segua la morte; senza distinguere fra il rifiuto che comporta una omissione nella somministrazione di farmaci, e quello che comporta un'azione nel distacco della spina del respiratore artificiale. Mentre quella distinzione conserva tutta la sua efficacia rispetto al problema - ben diverso, anche concettualmente - del "suicidio assistito", che non può essere ricondotto alla previsione dell'articolo 32 della Costituzione. L'azione di chi aiuta una persona consenziente a morire, somministrandogli a quel fine un prodotto letale, è certamente diversa dall'omissione di chi interrompe la somministrazione di un farmaco su richiesta del paziente, anche se con esito letale.
Nel secondo caso - in una situazione di coma irreversibile e quindi di incapacità di intendere e volere della paziente - la Cassazione ha ritenuto che il rifiuto consapevole di un trattamento terapeutico potesse essere ricostruito in via presuntiva; e lo ha desunto dal comportamento precedente della paziente, in condizioni di capacità, in un mix con le volontà attuali del padre e del tutore. Inoltre, ha assimilato al trattamento terapeutico l'intervento di sostentamento, rappresentato dalla nutrizione e dalla idratazione della paziente in coma, in conformità a un orientamento prevalente, anche se non condiviso da tutti.
La concretezza è necessaria altresì per evitare di trasformare una vicenda umana di sofferenza in un emblema e in un principio, alimentando uno scontro di ideologie. Si pensi alla distanza abissale fra la premessa rappresentata dal dramma umano di Eluana Englaro e della sua famiglia, e la sua conseguenza: un vero e proprio conflitto istituzionale fra poteri dello Stato (il Parlamento e la Cassazione); e al tempo stesso un conflitto politico tra chi accusava il giudice di aver violato la sacralità della vita, e chi all'opposto - invocando l'assolutezza dell'autodeterminazione - accusava il potere politico di violare l'indipendenza del giudice. La concretezza deve saldarsi perciò con l'umiltà, che è essenziale per ascoltare le ragioni dell'altro, per compiere ogni sforzo al fine di raggiungere una soluzione condivisa.
Mi fa paura l'idea di affrontare una materia così coinvolgente e sensibile per il rispetto della dignità umana, come la morte, muovendo dalla pregiudiziale ideologica e aprioristica dei "valori non negoziabili"; l'idea di rifiutare il dialogo; l'idea di usare la tutela della dignità umana come clava per dividere, anziché come obiettivo per unire; l'idea di chiedere al legislatore non già soluzioni il più possibile condivise e chiare, ma soluzioni ideologicamente orientate e perciò destinate a dividere. E penso alla lezione che, in questo senso, seppero darci i costituenti, i quali - muovendo da posizioni assai diverse, quando non opposte - elaborarono nella prima parte della Costituzione una serie di valori tuttora condivisi, attraverso quello che giustamente venne definito un "compromesso alto", in senso certamente non spregiativo.
Una vicenda come quella di Piergiorgio Welby poteva essere (e fu) risolta attraverso l'applicazione di un principio costituzionale, la cui portata non può essere contraddetta o ristretta dalla presenza nell'ordinamento di norme penali ordinarie, che tuttora (e giustamente) puniscono l'istigazione al suicidio o l'omicidio del consenziente. La nostra Costituzione muove certamente da un "diritto alla vita", cui ricollega la salute, come diritto per il singolo e interesse per la collettività. Ma quel diritto - pur calato nel contesto dei doveri di solidarietà di ciascuno verso gli altri e la società - non si trasforma in un dovere coercibile di vita o di cura. Un trattamento terapeutico può essere imposto al singolo, per legge e nel rispetto della sua dignità, solo quando venga in considerazione il diritto alla salute di terzi, come nel caso delle vaccinazioni.
Il valore sacrale della vita - per chi lo ritiene tale e ne fa discendere la indisponibilità assoluta di essa in quanto dono, anche nelle condizioni estreme - non può giungere, nel nostro sistema costituzionale, sino al punto di impedire al singolo la scelta lucida e consapevole di rinunziarvi; e quindi, a fortiori, sino al punto di impedire il rifiuto consapevole di un trattamento terapeutico o di un intervento di sostentamento, la mancanza dei quali determini la morte. Lo Stato e il legislatore non possono che prendere atto di una simile scelta. Mentre invece, in mancanza di essa, devono porre ogni impegno nella tutela della vita, anche e soprattutto di quella del soggetto debole e incapace; e ben possono perseguire penalmente il terzo che istighi o aiuti qualcuno a morire, in quanto può interferire sulla autodeterminazione del soggetto e inquinarla per gli interessi più diversi (da quelli ideali, a quelli riprovevoli).
La vicenda di Eluana Englaro pone un problema diverso. Si tratta di verificare quale valore possa avere una manifestazione di volontà espressa in precedenza - allora per ora - da un soggetto in quel momento capace; e destinata ad avere effetto successivamente, quando quel soggetto abbia perduto la capacità di esprimere o prima ancora di formare una volontà, a causa di una patologia sopravvenuta.
La Cassazione ha ritenuto di poter e dover rispondere alla domanda di giustizia che era stata proposta dal padre di Eluana Englaro - pur in assenza di una legge, della quale siamo in attesa da troppo tempo e con troppe polemiche - con il principio di diritto che ho richiamato prima, facendolo discendere dai principi generali e costituzionali, da quelli deontologici e da quelli delle convenzioni internazionali.
Non spetta a me, come non spettava alla Corte costituzionale - cui si era rivolto il Parlamento, sollevando un conflitto di attribuzione - decidere se la Cassazione avesse ragione o torto. La Corte costituzionale si è limitata a constatare c e non poteva fare altro c che il principio enunciato dalla Cassazione valeva soltanto per il caso concreto; quel principio non poteva quindi e comunque (giusto o sbagliato che fosse) usurpare o menomare le competenze del potere legislativo. Da ciò la decisione di manifesta inammissibilità del conflitto, che non entrava nel merito; e che, a torto, l'uno e l'altro schieramento a confronto hanno cercato di tirare dalla propria parte.
Personalmente - ma sono in buona compagnia - sono convinto che sia necessaria una legge (una buona legge) per regolare con chiarezza il tema del testamento biologico. Quest'ultimo richiede una serie di scelte, di indicazioni precise, che soltanto il legislatore può e deve fissare in termini generali: sia per la sensibilità specifica del tema, in considerazione dei diritti, degli interessi e delle responsabilità in esso coinvolti, che richiedono la maggior certezza possibile; sia perché, più ampiamente, le prospettive e le attese dei nuovi diritti - dischiuse dal progresso scientifico - richiedono una mediazione legislativa in generale e non soltanto una giudiziaria nel particolare, per il bilanciamento dei valori coinvolti e spesso fra loro contrapposti. La mediazione legislativa preliminare mi sembra essenziale per consentire - in termini di omogeneità, di eguaglianza e di certezza - l'altra mediazione affidata in concreto alla decisione responsabile del medico e, nei casi di conflitto, a quella del giudice. Ed essa deve muovere da una triplice premessa.
In primo luogo, il valore dell'autodeterminazione responsabile è una componente essenziale della vita, intesa anche come relazione con gli altri; perciò la perdita sopravvenuta della capacità di autodeterminarsi non può annullare retroattivamente una volontà validamente espressa in precedenza, e impedire di tenerne conto nei limiti del possibile e della situazione nuova. In secondo luogo, la salute è percepita attualmente non più come un valore statico e negativo (l'assenza di malattie); bensì come un valore dinamico, di benessere globale, di qualità della vita e soprattutto di apprezzamento soggettivo della persona. In terzo luogo, il rapporto terapeutico, oggi, ha abbandonato definitivamente la prospettiva di un paternalismo illuminato - che demanda al medico ogni decisione - a favore di un dialogo, di una codecisione, di una "alleanza terapeutica" fra medico e paziente, in cui è dominante il rispetto dell'autodeterminazione di quest'ultimo.
In questo quadro, tener conto della volontà precedentemente espressa dal paziente, quando si trovi in uno stato di incapacità sopravvenuta, mi sembra una forma di doveroso rispetto del valore che la Costituzione attribuisce alla persona, alla sua dignità, alla sua capacità di autodeterminarsi e di disporre del proprio corpo. Il problema diventa, per il legislatore, quello di poter e saper garantire l'effettività e l'attualità di una simile autodeterminazione allora per ora, definendone i limiti e i requisiti di formulazione, di revocabilità e durata, di efficacia. Senza, beninteso, rendere troppo difficile o di fatto impossibile l'esercizio di tale autodeterminazione; e con la consapevolezza che ci si trova in una situazione profondamente diversa da quella di un rifiuto, attuale ed informato, di un trattamento terapeutico specifico.
Mi sembra allora particolarmente persuasiva l'impostazione che al problema è stata data dalla Convenzione di Oviedo sulla bioetica, affermando la necessità «di tenere in considerazione i desideri espressi dal paziente». La traduzione lessicale della volontà in desiderio vale ad esprimere efficacemente l'oggettività, l'attualità e la complessità di una situazione in cui la volontà, a suo tempo manifestata, non può più essere modificata; neppure in relazione all'insorgenza di situazioni nuove, a suo tempo non previste e magari non volute dal soggetto ora incapace.
Come non sarebbe giusto azzerare retroattivamente la volontà di allora del soggetto, così non si può azzerare la valutazione e la responsabilità di ora del medico. E ciò dovrebbe valere con riferimento sia al trattamento terapeutico, sia agli interventi di sostentamento mediante nutrizione o idratazione, che hanno la medesima invasività del primo, anche se non la stessa finalità specifica. Né mi sembra ragionevole e giustificato introdurre degli ostacoli al rispetto dell'autodeterminazione del paziente e della responsabilità del medico, per il timore di aprire in qualche modo la via al "suicidio assistito" (al quale personalmente sono contrario, poiché non credo che la Costituzione riconosca un "diritto a morire" con l'ausilio dei terzi, pur non affermando un "dovere di vivere").
Insomma, si tratta di una volontà che - in quanto riferita a un futuro incerto e ipotetico - è più l'espressione di una scelta e di un "progetto di vita e di coerenza", che non la manifestazione di un rifiuto anticipato; l'espressione di un modo di vivere e di un dominio della vita, di cui la morte è "solo" il momento di chiusura. E spero che il legislatore - al di la delle soluzioni tecniche - sappia cogliere questo respiro di libertà, evitando la rigidità e le contrapposizioni ideologiche, e facendo applicazione dei criteri di concretezza e di umiltà.

Repubblica 9.7.09
Un articolo del Nyt: "Quando stava al Metropolitan era una star"
Il vaso di Eufronio e la vendetta americana "A Roma nessuno lo vede"
di Francesco Erbani


Il vaso di Eufronio, l´antico capolavoro greco opera di uno dei più grandi scultori dell´antichità, rubato nei pressi di Cerveteri, poi finito al Metropolitan di New York e restituito all´Italia dopo un lungo braccio di ferro, è ora «in una galleria sempre deserta» del museo di Villa Giulia a Roma. Finché è rimasto nella Grande Mela, attirava migliaia e migliaia di visitatori.
Lo scrive il New York Times in un reportage da Roma firmato da Michael Kimmelman. Il giornalista racconta che, un anno dopo il suo rientro in Italia, salutato con molto clamore, il vaso greco è chiuso nel museo, in quella che gli appare «un´ingombrante teca di vetro circondato da piccole luci natalizie». Secondo Kimmelman, inoltre, il reperto sarebbe collocato «in una galleria sempre deserta». Nel museo il cratere passerebbe pressoché inosservato, sostiene ancora il giornale americano, sistemato in mezzo ad altre opere dello stesso tipo, «non rappresentando una grossa novità per gli italiani».
La vicenda rischia di alimentare le polemiche sulla valorizzazione dei beni culturali in Italia. Sul rilievo che i nostri musei sono in grado di assicurare ai materiali esposti. Una questione di sistemazione, di collocazione, più che di sicurezza o di tutela. Ma tanto basta, agli occhi del quotidiano americano, per segnalare il destino di un´opera d´arte antica, trafugata in Italia nel 1971 e finita attraverso i canali dei mercanti in uno dei più grandi musei del mondo.
«Non condivido affatto questo giudizio», è la replica di Anna Maria Moretti, Soprintendente per l´Etruria meridionale e direttrice del Museo di Villa Giulia. «Il vaso di Eufronio è nel piano nobile del palazzo, al centro di una sala a fianco di un´altra che ospita l´Apollo di Veio. Non è affatto in un luogo secondario, tantomeno poco visitato. Credo che il giornalista americano sia andato al museo alle 9 del mattino. In questo periodo c´è un calo di visitatori che riguarda tutti i beni culturali del nostro paese. D´altronde, quando alcuni anni fa sono stata al Metropolitan, il vaso di Eufronio non era in una condizione molto diversa».
Il vaso, risalente al 515 a.C., venne trafugato da una tomba di Greppe Sant´Angelo, frazione di Cerveteri, nel 1971, zona di scavi etruschi. Autori del furto furono un gruppo di tombaroli. Il grande cratere attico di ceramica (è alto 45,7 centimetri, per 55,1 di diametro) è il solo integro dei ventisette dipinti da Eufronio, il più abile del cosiddetto Gruppo dei Pionieri, come furono definiti i primi pittori tardo-arcaici che svilupparono la tecnica a figure rosse. Sul lato principale del cratere è raffigurata la scena di uno degli episodi della guerra di Troia: la morte di Sarpedonte, l´eroe figlio di Zeus e Laodamia che combatteva come alleato dei Troiani. Giovani in atto di armarsi prima della battaglia ornano invece il lato secondario del vaso.
Il vaso era stato acquistato nel 1972 dal Met, che era consapevole del fatto che si trattava di un´opera rubata. L´ex direttore del museo di New York, Thomas Hoving, lo definiva una "hot pot" (pentola bollente) e lo aveva voluto fortemente, tanto da sborsare un milione di dollari all´antiquario americano Robert Hecht Jr, che lo aveva a sua volta comprato da un mercante d´arte italiano, Giacomo Medici, condannato in primo grado dalla giustizia italiana a 10 anni di carcere.
Trentasei anni dopo, nel gennaio del 2008, il vaso di Eufronio tornò in Italia, dopo una lunga trattativa. Il reperto venne esposto nella mostra «Nostoi, i capolavori ritrovati» (che raccoglieva altre settanta opere recuperate in tutto il mondo), allestita al Quirinale. Il giorno stesso del suo arrivo a Roma, l´allora ministro dei Beni Culturali, Francesco Rutelli, esibì il vaso davanti alle telecamere della Rai, nello studio del Tg1: «Si tratta di una grandissima vittoria», disse allora Rutelli, «una volta tanto parliamo delle cose buone che il nostro paese sa fare».
Il reperto è prezioso, oltre che per il perfetto stato di conservazione, perché porta indicate le firme di Eufronio stesso e di Euxitheos come vasaio, segno che questi riconobbero l´opera come una delle loro creazioni migliori.
Le trattative fra le autorità italiane e il museo americano sono state lunghe e serratissime e iniziate praticamente all´indomani dell´acquisto da parte del Met. L´accordo venne firmato nel febbraio del 2006.
In Italia la vicenda dei beni trafugati ebbe diversi risvolti giudiziari. Nel 2005 venne infatti celebrato un processo a Roma a carico dell´ex curatrice del Paul Getty Museum di Los Angeles, Marion True, e dell´intermediario svizzero Emanuel Robert Hecht. Dovevano rispondere di associazione per delinquere, ricettazione, relativamente al commercio di beni archeologici e omessa denuncia di reperto. La vicenda riguardava molti beni archeologici trafugati in Italia, "ripuliti" in Svizzera e poi rivenduti a collezionisti e grandi musei internazionali. Quello stesso anno era stato condannato a dieci anni di reclusione con rito abbreviato Giacomo Medici, romano residente a Ginevra, ritenuto dall´accusa fra i più grandi trafficanti italiani di reperti archeologici trafugati dai tombaroli.

Corriere della Sera 9.7.09
Il Festival della Mente dal 4 al 6 settembre a Sarzana. Apre una lectio di Cavalli Sforza
Quella ventata di ottimismo che viene dalla scienza
di Ida Bozzi




MILANO — Ci salveranno l’eti­ca o l’estetica? Entrambe, a giudi­care dalle tematiche scelte da in­tellettuali e scienziati per il Festi­val della Mente, che ritorna per la VI edizione dal 4 al 6 settembre a Sarzana (La Spezia). E a giudicare dall’ottimismo degli organizzatori di festival culturali, secondo l’inda­gine presentata ieri a Milano insie­me alla manifestazione.
Intanto, temi forti della cultura si contendono il calendario sarza­nese. «Nella rassegna, dedicata ai processi creativi — ha spiegato Giulia Cogoli, direttrice del Festi­val — in quest’edizione è evidente un’esigenza forte, molto sentita dai relatori, quella dell’etica, spes­so incrociata con diverse discipli­ne ». Così, il genetista Luigi Luca Cavalli Sforza apre il 4 settembre con la lectio su «Evoluzione cultu­rale: è più importante di quella biologica?», Luis Sepúlveda rac­conta «L’etica della parola», men­tre in ambito filosofico Roberta De Monticelli propone la «Libertà del volere: un’illusione antica?». Via via si percorrono altri terreni dell’etica, la guerra, nella «Creati­vità distruttrice» dei tre incontri con Alessandro Barbero, o il rap­porto con l’«Alterità umana» di cui parlerà Adriano Prosperi, fino all’identità femminile e maschile, con gli interventi di Miriam Mafai e Luigi Zoja.
Intrecci tra etica, prassi, biogra­fia ed estetica, prendono corpo nei legami tra vita e scrittura di cui parlerà lo scrittore Aharon Ap­pelfeld con Ranieri Polese, o nel «Pensiero della bellezza» del neu­roscienziato Semir Zeki. Inoltre, ri­tornano gli incontri con Piergior­gio Odifreddi, le lezioni del ciclo «approfonditaMente», e ci sarà spazio per letture di Baudelaire con Anna Bonaiuto, spettacoli di Stefano Benni e di Stefano Bartez­zaghi, laboratori per bambini, co­me quelli del milanese Museo del­la scienza e della tecnologia.
Un programma denso, come è proprio dei festival culturali. Che piacciono così. Almeno secondo quanto emerge dalla ricerca cura­ta da Guido Guerzoni, «Effetto Fe­stival 2009», presentata ieri alla conferenza stampa del Festival, che aggiorna l’analoga ricerca del 2008, «per verificare — ha spiega­to il docente della Bocconi — se la formula 'festival', dopo i segnali della crisi internazionale, mostra­va crepe. Sospetto allontanato». Da Festivaletteratura al Festival della Matematica, da quello della Creatività a BergamoScienza, dice l’indagine di Guerzoni, il format tiene, il 75 per cento degli organiz­zatori interpellati non ha subìto quest’anno o non prevede perdite di spettatori, e in buona parte si dichiara ottimista. Anche la Cogo­li, che ha concluso: «I consumi di libri e di cultura stanno tenendo, gli italiani hanno recepito la bon­tà del rapporto prezzo/soddisfa­zione di libri, festival ed eventi cul­turali. E io sono ottimista».

l’Unità 9.7.09
La stampa estera insiste
«È uno showman ma non un leader»
di U. D. G.


Il «New York Times» contro il premier: sia Obama a guidare
il vertice, dal governo italiano «imperdonabile rilassatezza politica»
E il francese «L’Express» titola: «Inchiesta sul buffone dell’Europa»

I guastafeste non demordono. E rilanciano la loro sfida al Cavaliere. Un editoriale del New York Times irrompe nel primo giorno dei lavori del G8. «Showmanship: perhaps. Leadership: no», scrive il giornale della Grande mela che sferra un duro attacco al Cavaliere.
Nel giorno in cui Silvio Berlusconi inaugura il summit dell’Aquila. il quotidiano della city spara ad alzo zero nei confronti del premier e invita Barack Obama a prendere in mano le redini del vertice G8. Il governo italiano accusa «una imperdonabile rilassatezza politica» («inexcusably lax planning»), scrive il New York Times in un editoriale dal titolo «Oh, that G8». Quanto al Cavaliere, la critica non potrebbe essere più esplicita. «Nelle scorse settimane il primo ministro italiano ha investito la maggior parte delle sue energie politiche nel tentativo di respingere le accuse dei giornali» che gli imputano «di essere stato cliente di escort e di essersi intrattenuto con minorenni in vesti succinte». lapidaria la conclusione del NWT: «Può andare bene per uno showman, non per un leader». Secca la replica del titolare della Farnesina; Franco Frattini: «Non tollero critiche all'organizzazione del G8».
Dall’America alla Gran Bretagna. Dalla Spagna alla Francia. Il fronte dei «guastatori» si allarga. Il settimanale francese L'Express, in edicola oggi ha la foto di Silvio Berlusconi in copertina e il titolo «Inchiesta sul buffone dell’Europa». L'inchiesta descrive il presidente del Consiglio come personaggio che «cento volte dato per morto, cento volte è resuscitato. In un’Italia che non crede nella politica (il 25% associano la parola a “disgusto” e il 22% a “rabbia”) lui sfugge all’archetipo del potere: personaggio hollywoodiano, incantatore eccentrico, comico grossolano, coach della mente, amico del bar, illusionista poliglotta colpito dalla sindrome di Zelig - il potere di trasformarsi a seconda delle attese - Berlusconi ha inventato un nuovo modello di dirigente, un politico-people che buca lo schermo da 15 anni, e le cui farse soffocano, spesso, i veri problemi del Paese».
Articoli e vignette. Come quella che il Times di Londra dedica ieri al Cavaliere, in cui il presidente del Consiglio italiano è disegnato sorridente, in un suo classico doppiopetto blu, dalle cui tasche e taschino fuoriescono indumenti di biancheria intima femminile: reggiseni e slip. Nella vignetta Berlusconi compare accanto ad una scritta «G8», dove però la cifra otto è sostituita da un reggiseno, che il premier tiene per la spallina. È la stampa, Cavaliere. Quella libera.


l’Unità lettere 9.7.09
Ambiguità delle prediche

Lunedì le agenzie e i quotidiani on-line danno particolare risalto alle prediche di mons. Crociata. Lì per lì mi aveva divertito immaginare tutti questi giornalisti ammassati col taccuino in mano sotto l’ambone in attesa di due paroline sulle attività extra-parlamentari del governo ma poi ho scoperto che la predica, disponibile in formato word sul sito della CEI, e in realtà , sufficientemente generica da poter essere interpretata anche come circolare a uso interno sull’emergenza pedofilia nel clero, per cui è poco chiaro l’eccessivo risalto politico datole dalla stampa. Da che mondo è mondo, del resto, la Chiesa si lamenta della lussuria. Da che mondo è mondo, tuttavia, la Chiesa concede un pio dodicesimo di silenzi al regime che le garantisce un benedetto sedicesimo di privilegi.
Roberto Martina


Il testo originale, come inviato al giornale:

Cara Unità, oggi le agenzie e i quotidiani on-line danno particolare risalto alle prediche di mons. Crociata. Lì per lì mi aveva divertito immaginare tutti questi giornalisti ammassati col taccuino in mano sotto l’ambone in attesa di due paroline sulle attività extra-parlamentari del governo. Poi ho scoperto il trucco. L’intera predica è disponibile in formato word sul sito della CEI. È come tutte le prediche, sufficientemente generica da poter essere interpretata anche come circolare a uso interno sull’emergenza pedofilia nel clero, per cui è poco chiaro l’eccessivo risalto politico datole dalla stampa. Da che mondo è mondo la Chiesa si lamenta della lussuria, lo dimostra il cumulo di citazioni bibliche. È molto chiaro invece che, da che mondo è mondo, la Chiesa concede un pio dodicesimo di silenzi al regime che le garantisce un benedetto sedicesimo di privilegi. Roberto Martina