martedì 14 luglio 2009

L’Altro 05.07.09
Così la nonviolenza è stata sconfitta
Fausto Bertinotti racconta il tentativo fallito di rifondare la politica ripartendo da un’altra idea di conflitto
“Sinistra o riparti dalla nonviolenza o sei morta”
Intervista a Bertinotti sulla necessità di rilanciare una cultura politica che rimetta tutto in discussione. A partire da sé
di Angela Azzaro

Non è la notizia del giorno, ma per noi è l’apertura del giornale perché la consideriamo di grande interesse per il futuro della sinistra. Quindi per il nostro futuro. Vi proponiamo un’intervista a Fausto Bertinotti in cui spiega il perché della sconfitta della nonviolenza, ma anche la necessità oggi di rilanciarla. Per Bertinotti, che quando era segretario di Rifondazione comunista fu tra i principali sostenitori di questa idea, la sconfitta è stata prodotta dall’aver limitato la nonviolenza a una dimensione esclusivamente politica. Lo sforzo, dice oggi Bertinotti, doveva essere fatto e deve essere fatto anche su un piano culturale e antropologico. “Invece – ci dice – non ci siamo riusciti”.
La nonviolenza non è una targhetta da mettere sopra la propria storia, lasciando tutto il resto intatto, ma una riscrittura del paradigma a partire da una messa in gioco personale. Per la sinistra è una questione di vita e di morte, soprattutto oggi, in un momento in cui prevale la confusione e la divisione. Per ripartire, e aprire la discussione sul giornale dando spazio alle diverse posizioni dalle più negative alle più interessate, abbiamo voluto mettere in evidenza i punti critici ma anche la ricchezza, politica e umana, che secondo noi la nonviolenza porta con sé.
“Tu, proprio tu, vuoi rinunciare alla vita militare?”. Per Fausto Bertinotti la nonviolenza è prima di tutto una chiamata in causa personale. E’ quel “tu” pronunciato dai cristiani dell’inizio del primo millennio e poi diventato il sale della lotta politica a sinistra. Quel sale oggi non c’è più. E’ difficile trovarlo, rintracciarne qualche scheggia in una situazione di frammentazione e di confusione. Ma per noi dell’Altro resta una delle questioni principali per continuare lo sforzo di creare una sinistra moderna. Una sinistra in grado di capire criticamente il presente: di interpretarlo ma anche di cambiarlo. E’ per questa ragione che abbiamo deciso di intervistare Fausto Bertinotti, cioè il leader politico che nella nonviolenza ci ha creduto di più e che ci crede ancora nonostante la sconfitta. Non solo e non tanto elettorale, ma soprattutto la sconfitta di non aver davvero saputo rivedere il proprio paradigma, i propri valori. La propria visione del mondo. “Penso – sottolinea senza dubbi Bertinotti – che oggi la nonviolenza sia indispensabile per ricreare, a sinistra, una soggettività critica e una unitarietà tra le varie componenti, ora così litigiose”.
Ma per rilanciarla non si può non fare i conti con le critiche che le sono state mosse, da quelle più significative e impegnative a quelle più diffuse come quella che giudica la svolta nonviolenta della Rifondazione comunista guidata da Bertinotti come una scelta per accreditarsi nelle stanze dei bottoni. E’ la posizione che identifica nonviolenza e “governismo”.
Bertinotti, partiamo subito da qui, da una delle critiche che in questi anni si sono sentite di più. La sua Rifondazione ha scelto la nonviolenza per poter andare al governo con Prodi?
Non mi sembra questo il punto principale del suo afflosciarsi. In questi anni abbiamo sentito una serie di repliche politiche che hanno messo in discussione la nonviolenza, alcune di queste molto nobili. Sinceramente l’accusa di governismo mi sembra quella più risibile di tutte. Gli esclusi che sono entrati a far parte del governo, vale questo per comunisti e socialisti nella storia d’Italia, non hanno mai posto il problema della nonviolenza. Noi siamo stati i primi a farlo. Inoltre c’è una contraddizione tra questa visione e l’entrare nel governo, che porta con sé sempre una buona dose di violenza. Rifondazione comunista aveva già fatto un grande sforzo ponendo la questione della critica allo stalinismo, poteva finire lì. E invece abbiamo deciso di andare avanti.
Ma quale è stata allora la critica più forte e decisa che è stata opposta a questo passaggio?
Il discorso che viene opposto è che la violenza, agli effetti della storia rivoluzionaria, è elemento difensivo fondamentale. Questo vale per la lotta di liberazione dal nazifascismo, vale per tutte le lotte di liberazione anti colonialiste, vale per la guerriglia. Ponendo la questione della nonviolenza entri, cioè, in contrasto con la nostra storia. Mentre l’accusa di governismo è banale, con questa obiezione ci si deve fare i conti.
Come si esce da questa contraddizione?
Noi avevamo cercato di dare una risposta fin da subito, ma ce l’abbiamo fatta solo parzialmente. Non siamo riusciti a mettere in discussione il mito della vittoria e dell’eroismo. E’ stato un limite nostro, perché abbiamo pensato la nonviolenza dentro la dimensione unicamente politica.
Facciamo un passo indietro. In quale humus nasce la proposta?
Fu subito dopo Genova nel 2001. La reazione pacifica dei manifestanti davanti alle cariche della polizia – quell’onda che arretrava senza rispondere – ci fece supporre che stava nascendo una propensione nonviolenta in una generazione che allora si affacciava alla politica. Se la stessa cosa fosse accaduta negli anni 60 sarebbe stata una strage. Venivamo da Porto Alegre, cioè dal primo Social forum mondiale, e lì avevamo visto altre forme di organizzazione politica diverse da quelle militari e gerarchiche. L’altro elemento di riflessione fu la guerra che allora definimmo infinita e permanente. Come opporsi? Pensammo che la risposta più radicale per i popoli fosse quella pacifica. E’ in questo contesto che nasce la risposta alla domanda di prima: come conciliare la nonviolenza e la nostra storia, dalla Resistenza a Che Guevara? Collocandola nel qui e ora. La risposta nonviolenta vale per l’oggi, per il presente. Vale qui. Lo stesso Gandhi pensava che la nonviolenza non fosse valida per tutti allo stesso modo. Diceva meglio la violenza contro l’ingiustizia che l’accettazione dell’ingiustizia.
Ma allora che cosa non ha funzionato? Qual è stato l’errore?
Abbiamo sorvolato l’approfondimento. I cattolici che si interessano della nonviolenza hanno scritto migliaia di libri, ne hanno fatto un rovello. Noi ci siamo fermati alla politica, senza indagare cosa comporti l’assunzione anche personale della nonviolenza. Abbiamo operato una giustapposizione. Lo stesso errore che abbiamo fatto per il femminismo e per l’ambientalismo. Non abbiamo rimesso in discussione il nostro paradigma, abbiamo pensato che la nonviolenza, così come il femminismo e l’ambientalismo, potessero essere aggiunti senza altro sforzo. L’innovazione si è fermata a metà.
Quali altri dimensioni andavano indagate?
Prima di tutto quella personale. La nonviolenza doveva diventare bussola delle relazioni individuali. Così non è stato. Non è stata, come doveva essere, l’occasione per scardinare e rivedere i rapporti sociali, per entrare nella sfera della vita e della sfera personale. La nonviolenza ha molte dimensioni, quella collettiva, quella individuale e poi, centrale, quella duale, cioè quella del rapporto con l’altro, a partire dal rapporto uomo-donna. Ma non siamo riusciti a fare esperienza, una volta enunciata la teoria, la pratica è rimasta la stessa. Qui abbiamo perso.
A parte le critiche, a volte vere e proprie ostilità, qualcosa di positivo e innovativo lo ha però prodotto?
C’è stato un momento d’urto, importante. Un partito di sinistra che diventa nonviolento produce scandalo. Ma sono stati tutti effetti difensivi. Siamo riusciti, per esempio, a smontare la spirale guerra/terrorismo, battendo posizioni filoterroriste che pure ci sono nella nostra storia. Abbiamo cioè potuto dire no alla connessione tra l’adozione della violenza dei “giusti” e la violenza dei potenti. La nonviolenza ci ha permesso di stare nel movimento pacifista, ma la nostra pratica è rimasta la stessa. Se pensiamo alle cose che abbiamo fatto in quegli anni, anche senza la nonviolenza sarebbero state le stesse.
Qual è l’effetto più alto che può provocare?
E’ la chiamata in causa personale. Il cristianesimo delle origini, quello che poi è stato spazzato via dalla svolta violenta di Costantino, parlava chiaro. “Tu, proprio tu, rinunci alla vita militare?”. La nonviolenza richiama una visione del mondo in cui ci sei “proprio tu”. Il problema dell’altro, diventa il problema principale della tua esistenza. Per noi invece è rimasto come un caciocavallo appeso: né agire collettivo né agire personale. Questa chiamata in causa personale è del resto la migliore eredità che ci viene dalla nostra storia. Il socialismo d’inizio secolo era questo. Uno per diventare socialista doveva rinunciare a qualcosa. Essere socialista significava prima di tutto una modalità di comportamento. Così la nonviolenza pretende la testimonianza.
Che cosa significa quel “proprio tu” nella contesa politica? Essere sempre d’accordo su tutto?
No, chiaro. Significa non trasformare l’avversario in nemico. La non criminalizzazione di chi la pensa in maniera diversa da te come misura elementare da assumere. La nonviolenza richiede di scoprire la verità interna dell’altro. In che cosa lui ha qualche ragione in quello che sostiene? Non si tratta quindi di dismettere la contesa ma di porti il problema di come dare una risposta diversa a quella verità interna.
Torniamo al contesto in cui è nata la nonviolenza e ai suoi effetti. Tra quelli negativi c’è stata la rottura tra il Prc e una parte del movimento che ha visto quella svolta come un attacco alle sue pratiche e alla sua gestione del conflitto. E’ una ferita, in parte, ancora aperta. Qual è la posizione di Bertinotti?
Fino a Genova abbiamo lavorato in una totale internità al movimento. Ma proprio sulla questione della nonviolenza si è scatenata un’offensiva che era già latente e che aveva a che fare con propensioni egemoniche. Penso che all’inizio, anche in nome di una giusta unità del movimento, non avessimo esplorato a sufficienza le diversità nell’analisi della società e nelle risposte da dare. C’è stata cioè un’opacizzazione delle differenze, la nonviolenza è diventata un’occasione per fare chiarezza. Una parte del movimento si è riappropriata di una sua radice: la propensione a considerare la nonviolenza come estranea alla rivoluzione.
“L’Altro” è stato messo sotto accusa per aver dato spazio a posizioni e a firme dell’area di destra. Noi, dalla nostra, rivendichiamo l’apertura e pensiamo di stare in linea con quello che dici tu: necessità di conoscere la verità interna dell’altro e rompere alcuni schemi consolidati.
Penso che l’atteggiamento dell’Altro sia apprezzabile. Fatico perfino a capire l’obiezione che è stata sollevata. Se vuoi capire, devi conoscere “lui”, non il tuo pensiero su di “lui”. Devi sempre distinguere quando un’ideologia diventa regime, dalle persone in carne e ossa. Di ogni forma di contestazione, anche quando presenta elementi spuri, contestabili, devi capire quale è la molla. Nella cultura di destra c’è una forma di ribellione resistente che va raccontata: senza rinunciare al vaglio critico, ma senza ridurla all’elemento per te repellente. Céline, non era solo antisemita, ma nella sua opera esprimeva anche una forte opposizione al Male.
L’obiezione principale è che non siamo abbastanza anti-fascisti. Ma la nonviolenza non richiede anche una revisione delle categorie e della propria storia?
Il momento più alto della lotta antifascista è stato l’avvio del processo costituente. Quando dicono che la Costituzione fu una mediazione tra le componenti, sbagliano. Tutti erano d’accordo: la democrazia era uguaglianza. Era progressiva e partecipativa. L’antifascismo, fino a quel momento fenomeno compiuto, viene assunto, dopo la divisione del mondo in blocchi, come scudo di legittimazione democratica da una parte sola. Negli anni Sessanta la mia generazione riattualizza l’antifascismo nella forma del no all’autoritarismo, come riscoperta della cultura orale, popolare, come idea di nuovo mondo. L’errore è stato la riproposizione dell’antifascismo militante, delle origini, in assenza però del regime. Quando nel ’60, a Genova, ci furono gli scontri per impedire il congresso del Msi, c’era dietro una grande nobiltà. Io senza quella spinta oggi non sarei in politica. Detto questo, però, non si può non vedere come, a un certo punto, lo scontro non diventa contro il fascismo, ma contro i fascisti. Il salto e la violenza nascono quando qualcuno – come chi praticò la lotta armata – pensò, sbagliando, che il fascismo potesse tornare come regime.
Nell’elaborazione della nonviolenza c’è stato un forte richiamo al femminismo. Ma le femministe lo hanno visto come un richiamo che è rimasto lì. Giustapposto come si diceva prima. Come mai?
Per me questa questione resta aperta. Resta un rovello. Sento mia la sollecitazione del femminismo alla mutazione del paradigma, alla necessità di andare oltre la giustapposizione. Ma è vero: non siamo riusciti. Io posso parlare per me. Quando leggo Lea Meandri sono d’accordo su tutto, ma se mi chiedi di ridirlo non sono in grado. Come mai? Intanto il mio essere maschio. Poi ci sono altre due condizioni che incidono: la mia cultura da un lato, dall’altro che il femminismo, nel suo giusto diritto di affermazione, non poteva che elaborare una lingua propria. Il mio organicismo mi disturba, ma resto tale e ho difficoltà a capire la lingua dell’altra. Sono però convinto che non si possa pensare la liberazione della persona, a partire dal rapporto tra donna e uomo, senza una revisione del paradigma. Come? Forse la nonviolenza, in quanto dotata di uno statuto proprio, potrebbe favorire questo lavoro comune.
Abbiamo detto che la nonviolenza non è una priorità della sinistra, ma che anche la sinistra non sta tanto bene. Vale allora la pena oggi rilanciare questa proposta?
E’ una necessità assoluta. Penso sia una chiave di volta per ricomporre la frammentazione. Per far comunicare enne diversità non basta mettere insieme i pezzi. C’è bisogno di una reinvenzione della sinistra che passi per la dimensione europea e che ricostruisca un’idea di civiltà. Non basta cioè dire che bisogna mettere insieme conflitto di classe, contraddizione uomo-donna, pacifismo e critica allo sfruttamento delle risorse naturali, ci vuole una ricostruzione della soggettività critica. La nonviolenza può essere l’elemento propulsore, anche perché ti permette di riconoscere la verità interna comune di chi si batte contro l’oppressore.
Intanto si litiga, anche tra fratelli, tra sorelle. Altro che nonviolenza…
Proviamo a fare un esperimento. Mettiamo insieme per una settimana tutti i protagonisti italiani della sinistra. Partiti, associazioni, giornali. E mandiamo un testimone che poi dovrà riferire ad un convegno, supponiamo in Giappone. Alla fine, questo signore, andrà via convinto che la sinistra in Italia esista e che, nonostante alcune, anche importanti, differenze, ha molte idee in comune. Se lo stesso signore, sente le persone, una ad una, in un confessionale capirà che sono tutti contro tutti. La nonviolenza servirebbe a migliorare anche i rapporti tra di noi.

Repubblica 14.7.09
Padre Lombardi: più rispetto. Di Bella: nessuna ironia
Camera, appello all´Onu. Binetti vota anche il testo Udc
Tg3, gaffe sul Papa in vacanza "Lo ascoltano in quattro gatti"
di Orazio La Rocca

Proteste bipartisan "Deriva anticlericale" La redazione: accusa infondata
Parere favorevole del governo sia ai testi della maggioranza che dell´opposizione

ROMA - «Ad ascoltare il Papa sono ormai quattro gatti». E sul Tg3 si abbatte la bufera. La contestata frase è di Roberto Balducci, il vaticanista del Tg3, il quale nell´edizione delle 19 di domenica scorsa, parlando delle vacanze di Benedetto XVI, con un tono piuttosto ironico ha detto che «domani il Papa va in vacanza e ci saranno anche due gatti che gli strapperanno un sorriso, almeno quanto i proverbiali quattro gatti, forse un po´ di più, che hanno ancora il coraggio e la pazienza di ascoltare le sue parole».
Il primo a protestare contro il Tg3 è stato il vice presidente della Commissione di vigilanza Rai, Giorgio Merlo (Pd), il quale, ieri nel dirsi «stupito» per «le parole del servizio», lamenta che «è singolare ed inconsueto che una testata importante come il Tg3 scivoli in questa anacronistica, e volgare, deriva anticlericale. Un errore o un costume?». Analoghi richiami anche da Giorgio Lainati (Pdl) l´altro vicepresidente della stessa Commissione, che parla di «ironie sgangherate» e avverte che «neppure una linea editoriale vicina alla sinistra può giustificare un atteggiamento così anticlericale».
Critiche, comunque, respinte dal direttore del Tg3 Antonio Di Bella, che ricorda come il suo tg abbia sempre avuto «grande rispetto e grande attenzione per il magistero della Chiesa e la figura del Pontefice». «Un passaggio del servizio sulle vacanze del Papa - ha però ammesso - può avere indotto l´onorevole Merlo o altri a ritenere che tale rispetto sia venuto a mancare. Così non è. Anche per questo, subito dopo il giornale, prima ancora di qualsiasi polemica, ho richiamato formalmente il vaticanista e il collega mi ha assicurato che non era sua intenzione ironizzare, o peggio irridere il Pontefice». Vicino al direttore, anche il Cdr del Tg3 che definisce «infondata l´accusa di deriva anticlericale» nei servizi trasmessi».
A mettere fine alle polemiche il portavoce papale, padre Federico Lombardi, che nel prendere «atto delle dichiarazioni» di Di Bella, si augura che il Tg3 «sia sempre, come egli dice, effettivamente caratterizzato da attenzione e rispetto per la Chiesa e per la figura del Papa».

Repubblica 14.7.09
No all´aborto come contraccettivo tutti d´accordo, mozioni divise
di Mario Favale

ROMA - No all´aborto come mezzo di controllo delle nascite. Tutti d´accordo, certo. Ma ognuno lo vuol dire con parole sue. Oggi (salvo slittamenti) verranno votate alla Camera quattro mozioni che impegnano il governo a farsi promotore presso le Nazioni Unite di una risoluzione per condannare l´aborto come strumento di controllo demografico. Concetto già espresso dalla Conferenza internazionale del Cairo del 1994. Il merito è lo stesso per tutte e quattro (una a testa per Udc, Pd, Pdl e Idv): ma destra e sinistra vogliono usare parole diverse. O meglio, per dirla con Livia Turco, prima firmataria della mozione targata Pd, ognuno parte «dal proprio approccio culturale». Anche per evitare "trappole" e scoprirsi su uno dei due fronti.
L´idea di una "moratoria dell´aborto" da presentare all´Onu risale alla scorsa legislatura. Presentata dai centristi (sull´onda di una campagna stampa del Foglio di Giuliano Ferrara) non fu mai discussa a causa della caduta del governo Prodi. Ieri, ripresentata da Rocco Buttiglione, è approdata in un´aula praticamente vuota. All´inizio della seduta si contavano appena otto parlamentari. Tra i banchi dell´opposizione, a lungo unica rappresentante del Pd, Paola Binetti, cofirmataria sia della mozione Buttiglione sia di quella Turco. «La mozione dei democratici ha un dispositivo più ampio di quella dell´Udc ma non ci sono elementi di contrasto». Lei oggi voterà sì per entrambe. «E spero – dice – che così faccia tutto il Pd. Chi ha onestà intellettuale noterà che nella mozione Udc non c´è nulla di irritante o di conflitto con quella nostra». La Turco è meno netta ma anche lei troverebbe curioso «votare contro la mozione Buttiglione. Al più, sarebbe ragionevole un´astensione». Perché, afferma, «non c´è differenza nel merito. Noi, però, ci teniamo a partire da un presupposto che non neghi la contraccezione e che si concentri sulla libertà e sull´autodeterminazione delle donne». Il Governo ha espresso parere favorevole alle mozioni. La premessa, per tutti, è comunque sempre la stessa: nessuno pensa di modificare la legge 194 sull´aborto.

Repubblica 14.7.09
"Mazzette per costruire centrali elettriche" indagato l´ex ministro Pecoraro Scanio

CROTONE - Pagavano mazzette milionarie per ottenere i finanziamenti pubblici e le autorizzazioni per realizzare e gestire le centrali elettriche a turbogas della Calabria. Soldi che finivano a funzionari e politici nazionali e regionali. In un sistema che li vedrebbe coinvolti assieme a imprenditori senza scrupoli, legati in alcuni casi alle logge massoniche e titolari di conti esteri e società offshore. Nella bufera esponenti del centrodestra come l´ex sottosegretario Pino Galati e l´ex governatore Giuseppe Chiaravalloti, ma anche dello schieramento opposto come l´ex ministro Alfonso Pecoraro Scanio e l´ex assessore regionale all´Ambiente dei Verdi Diego Tommasi. Secondo la procura di Crotone, che ieri ha emesso 16 avvisi di garanzia e ordinato una decina di perquisizioni, l´obiettivo era quello di controllare i finanziamenti pubblici per la realizzazione delle centrali di Scandale (nel crotonese) e di Rizziconi (nella Piana di Gioia Tauro). Il pm titolare dell´inchiesta Pierpaolo Bruni, ha ipotizzato reati che vanno dall´associazione a delinquere alla concussione, dal falso alla truffa, per finire alla ricettazione e alla violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete. Quest´ultimo reato è ipotizzato per Chiaravalloti e Giovanni Iannini (magistrato del Tar della Calabria), accusato anche di abuso d´ufficio per due sentenze su ricorsi contro le società che si erano aggiudicate la costruzione delle centrali. Per la Procura, il sistema prevedeva il pagamento di tangenti che sarebbero finite sui conti di società estere. In particolare, soggetti «con ruoli istituzionali» avrebbero favorito imprenditori amici. In tal modo, alcuni indagati realizzavano «provviste di denaro» che poi si spartivano attraverso società offshore. Pecoraro Scanio e Tommasi, sono stati chiamati in causa dal procuratore legale della società «Crotone Power Development», Antonio Argentino, che ha riferito ai giudici di avere ricevuto richieste di denaro «attraverso false consulenze a favore di società riconducibili ai due politici». Sia Pecoraro Scanio che Tommasi hanno annunciato querela per calunnia. Galati, ha parlato di «teoremi e pregiudizi», mentre Chiaravalloti ha detto di «ignorare di cosa si tratti». (giuseppe baldessarro)

Repubblica 14.7.09
Così la Cina rilancia la sfida alla leadership della moneta Usa
di Federico Rampini

I mercati americani hanno una dimensione superiore e una notevole liquidità Ma, dopo l´Europa, adesso ci sono altri paesi che ne discutono l´egemonia e che non utilizzano più i dollari
Le autorità cinesi usano la recessione globale per rimettere in discussione vecchie gerarchie e rapporti di forza: gli esperti finanziari sanno bene quanto questo Paese sia importante
Resta l´unica valuta veramente universale eppure nel nuovo ordine economico c´è chi chiede un cambiamento. Come ha fatto Pechino al G8

Riuscirà la Cina dove ha fallito l´Europa, cioè nel ridimensionare l´egemonia monetaria degli Stati Uniti? «Il dollaro è la nostra moneta ma è il vostro problema». Quella battuta fu pronunciata nel 1971 da John Connally, segretario al Tesoro Usa, quando l´Amministrazione Nixon decise di sganciare il dollaro dalla parità con l´oro e precipitò il mondo in un decennio di iperinflazione, tassi alle stelle e tempeste finanziarie. È una battuta che oggi nessun dirigente americano osa pronunciare, ma che riflette fedelmente il dilemma in cui si trova la Cina, principale creditore degli Stati Uniti. Nel 1971 era l´Europa il bersaglio principale di quella battuta sprezzante. Quanto è cambiata, da allora a oggi, la posizione di sua maestà il dollaro?
Molto meno di quanto ci si poteva aspettare. Il dollaro resta l´unica moneta veramente universale, per le due funzioni che svolge al di fuori degli Stati Uniti.
La prima funzione è quella di mezzo di pagamento. Gran parte del commercio mondiale continua a essere pagato in dollari, anche quando si tratta di petrolio venduto dall´Arabia saudita all´India, cioè due paesi che in teoria potrebbero benissimo decidere di regolare le proprie transazioni bilaterali in rupie indiane, o magari in euro o in franchi svizzeri.
Seconda funzione è quella di "deposito di valore". I due terzi delle riserve valutarie delle banche centrali sono in dollari. E anche una quantità rilevante della ricchezza privata degli europei, degli asiatici, degli arabi e dei latinoamericani viene investita in dollari. Questa centralità era perfettamente logica nel 1944, quando alla conferenza di Bretton Woods venne disegnato l´ordine economico internazionale in vista della fine della seconda guerra mondiale. L´America di Roosevelt aveva allora una supremazia assoluta, nel campo economico, politico, militare. Ne abusò, almeno dal punto di vista monetario, quando cominciò a stampare dollari esportando la sua inflazione nel resto del mondo: prima con la guerra di Corea, poi con la guerra del Vietnam. È quanto rischia di succedere, in futuro, per effetto dei giganteschi deficit pubblici accumulati a Washington con le manovre anti-recessione.
L´instabilità monetaria aperta nel 1971 diede una spinta potente al progetto europeo di creazione di una moneta unica: si trattava anzitutto di proteggere il mercato unico europeo da choc monetari esogeni. Quando non esisteva l´euro, le fluttuazioni brutali del dollaro destabilizzavano anche le parità di cambio fra il marco tedesco, la lira italiana, il franco francese. L´euro ha protetto da quegli choc l´interscambio commerciale fra i paesi dell´Unione.
Ma non è stato capace di sfidare il ruolo del dollaro negli scambi con altre aree del mondo (Asia, America latina, Africa); tantomeno sul terreno finanziario dove solo il dollaro continua ad avere lo status di moneta universale al punto che i due terzi dei dollari in circolazione sono detenuti all´estero. La ragione: la superiore dimensione dei mercati finanziari americani e la loro notevole liquidità.
Ora una nuova sfida alla leadership universale del dollaro è stata lanciata dalla Cina. La proposta cinese di una "valuta globale" che sostituisca il dollaro come strumento di riserva, lanciata a marzo prima del G20 a Londra, è stata ribadita al G8 dell´Aquila.
La Cina usa la recessione globale per rimettere in discussione vecchie gerarchie e rapporti di forza. Poiché i mercati finanziari sanno perfettamente quanto sia importante la Cina come acquirente di titoli pubblici americani, e quindi quanto sia cruciale la fiducia dei leader asiatici nel dollaro, quell´uscita contiene un´implicita minaccia.
È la prima volta nella storia che un presidente americano, nel definire la sua politica fiscale, è costretto a tener conto di un "vincolo esterno" che sta a Pechino, fornendo promesse alla Cina sulla solvibilità di lungo periodo del Tesoro americano. L´idea cinese è stata espressa dal governatore della banca centrale Zhou Xiaochuan. Zhou sostiene che l´attuale recessione mondiale «riflette vulnerabilità e rischi sistemici nel sistema monetario internazionale». A suo avviso uno dei modi per evitare in futuro il ripetersi di turbolenze finanziarie gravi è la creazione di una moneta di riserva «slegata da nazioni individuali e capace di rimanere stabile nel lungo periodo, eliminando così i difetti inevitabili delle monete nazionali».
La sostituzione del dollaro come moneta di riserva è un progetto di lungo periodo, sul quale il governatore Zhou ha dato suggerimenti concreti. In primo luogo ha proposto che venga allargato il paniere di monete che compongono i diritti speciali di prelievo; in seguito gli Stati dovrebbero affidare in gestione una parte delle loro riserve valutarie al Fondo monetario internazionale (Fmi).
Creati nel 1969 come un paniere di quattro valute (oggi sono dollaro, euro, sterlina e yen), i diritti speciali finora sono usati solo come unità di conto e nelle operazioni del Fmi. L´idea cinese di istituire una valuta globale non è nuova (ci pensò Keynes a Bretton Woods nel 1944, poi fu ripresa dal generale Charles De Gaulle e infine dall´Opec) ma cambia di segno perché viene da una superpotenza con il peso della Cina: sia per le dimensioni della sua economia sia per il suo ruolo di creditore di ultima istanza degli Stati Uniti. Ora la Cina moltiplica gli accordi bilaterali con India, Russia, Brasile, Argentina; in quel club già si abbandona il dollaro per passare a pagamenti bilaterali con le valute nazionali.
È naturale che questo avvenga. Basti pensare che la Cina ha sostituito gli Stati Uniti come primo partner economico del Brasile.

Repubblica 14.7.09
Ascesa e caduta di un regno
L´onnipotente biglietto verde
di Vittorio Zucconi

La sua adozione come "currency" degli Stati Uniti nel 1792 nasce dalla vittoria di Washington; diventa di carta con Lincoln. Dopo il 1945 è il riferimento per tutti ben prima del concetto di "globalizzazione"
Le guerre hanno minato la supremazia della valuta

Prima ancora di chiederci se davvero lo "Almighty Dollar", l´onnipotente biglietto verde, diventerà come il Rublo che i sudditi dell´Impero Sovietico rifiutavano inorriditi, la domanda che si impone è: come è possibile? Come ha potuto, la nazione che appena 65 anni or sono aveva costruito in quella moneta il perno attorno al quale tutte le altre dovevano ruotare, svalutare il simbolo più eloquente e indiscusso della propria primazia mondiale? La risposta più semplice e diretta, fra le tante complesse, è nel filo che segnala l´andamento delle maree che hanno sospinto in alto e poi in basso il dollaro: la guerra. Parafrasando il libro dell´Ecclesiaste, «ciò che la guerra ha dato, la guerra gli ha tolto».
La storia dell´ascesa e della caduta del thaler è legata inseparabilmente alle fortune militari degli Stati Uniti. La sua adozione ufficiale come currency dei neonati Stati Uniti d´America nel 1792 proviene dalla vittoria di George Washington. Per sette decenni, fino al 1862 sarebbe rimasto, con variazioni di peso, quello che i padri fondatori avevano immaginato, una moneta poggiata sull´equivalente aureo o argenteo. Se fu trasformata in semplice carta da Abramo Lincoln, avvenne per finanziare la Guerra Civile. La riunificazione di Nord e Sud, lo slancio industriale del dopo guerra avrebbero riportato la moneta americana a nuovi rapporti fissi con i metalli preziosi, che avrebbero resistito anche alla Grande Depressione, almeno nominalmente. Ma sarebbe stata la Seconda Guerra Mondiale a fare del greenback, della "schiena verde", verde essendo sempre stato il colore della banconota, la moneta di riferimento per ogni altra valuta. Per altri vent´anni, pur sballottato da periodiche bufere monetarie il regno del dollaro sarebbe continuato, autentica valuta globale prima che la globalità divenisse luogo comune. Dal tassista israeliano che accettava di portare giornalisti in guerra sul Golan purché pagassero in dollari, al venditore di falsi Buddha in Birmania, qualsiasi transazione era possibile, purché in dollari.
Poi, venne un´altra guerra. Il Vietnam e fu l´inizio della fine. Come tutte le guerre fanno, sempre e ovunque, anche il Vietnam ebbe un solo e sicuro risultato, quello di sfasciare i bilanci federali americani. Nella doppia, impossibile impresa di finanziare il Grande Stato Assistenziale voluto da Johnson per ammansire la popolazione e di alimentare insieme i costi del conflitto, il naufragio era inevitabile. Nel 1971, Richard Nixon dichiarò ufficialmente finita la convertibilità del dollaro in oro, e l´ingegneria costruita dopo la Seconda Guerra si sfasciò. Mai più, dalla fine del doppio mito della invincibilità della forza americana e del suo dollaro, il pronipote del tallero avrebbe riguadagnato la propria onnipotenza. Nel 2001, quando un´altra guerra si sarebbe abbattuta su di esso, George Bush avrebbe riaperto quella voragine di debito nazionale che il predecessore Clinton aveva cominciato a colmare con il "dividendo" della vittoria politica sull´Urss, producendo addirittura un sostanzioso profitto fiscale.
Nella suprema ironia di cui la storia è maestra, la guerra voluta a tavolino per riaffermare la superiorità americana anche sul XXI secolo, avrebbe devastato l´espressione più chiara e universale di questa supremazia, il dollaro. E dove non arrivò la guerra, sarebbe arrivato il settembre nero di Wall Street. Ora si legge che esportatori cinesi appendono il cartello «non si accettano dollari», come al tramonto dell´Impero Sovietico i cambiavalute dei cosiddetti paesi fratelli avvertivano che non accettavano Rubli. Siamo molto lontani da quell´umiliazione, ma molto più vicini a quel motto stampato proprio sui dollari come se l´Onnipotente fosse un banchiere americano: «In God We Trust». Confidiamo in Dio, ormai, più che nella Federal Reserve.

lunedì 13 luglio 2009

Corriere della Sera 13.7.09
L’incontro con il filosofo nei «Ricordi» di Fejtö editi da Sellerio
Scontro «György mi attaccò perché equiparai fascismo e comunismo»
«Che delusione Lukács genio fedele a Stalin»
In nome del partito mi chiese di mentire su Attila József
di François Fejtö


Adolescente, avido di letture di estetica, avevo trovato nella biblioteca di mio pa­dre, fra Kant e Benedetto Croce, molto ap­prezzato in Ungheria, La storia del dram­ma moderno e L’anima e le forme di Lukács. Nacque così la mia ammirazione per Lukács e il suo stile dif­ficile ma ricco. Poi ci fu un lungo vuoto che neppure la mia conversione al marxismo verso la fine degli anni Venti riuscì a colmare. Assente dall’Ungheria, esiliato a Vienna e poi a Mosca, Lukács era stato ra­diato dalla vita intellettuale ungherese. Fu anche un periodo, in seno al partito divenuto illegale, di lotte violente alle quali Lukács — che si era dato alla poli­tica nel 1919 — partecipò attivamente. Ma all’inizio degli anni Trenta, ero troppo neofita, troppo a mar­gine per esserne informato. Solo più tardi, grazie a Ernö Normai, ottenni informazioni di prima mano sulla personalità e il comportamento politico del Lukács di fine anni Venti. All’epoca non avevo anco­ra letto la Geschichte und Klassenbewustsein ( Sto­ria e coscienza di classe), ignoravo che il libro era stato condannato da Lenin e da Zinoviev. Per con­tro, ero orgoglioso di aver ricevuto, nel 1932, da pub­blicare nella rivista semilegale da me fondata con il poeta Attila József, un articolo di Lukács. La mia rot­tura con il Pc, cui seguì l’adesione al partito socialde­mocratico, non mise fine alla stima che avevo per lui, o piuttosto per la sua leggenda; ai miei occhi egli era la prova che si potesse essere un intellettuale raf­finato e un marxista militante. Fu allora che lessi La montagna incantata. La personalità di Naphta, che mi dicevano fosse modellata su Lukács, mi affascina­va, ancorché le mie simpatie andassero piuttosto per il noioso ma razionale Settembrini. Lukács era dunque stato ammesso nel mio Pantheon, accanto agli idoli del momento: Romain Rolland, John Reed, Tretiakov, Louis Fischer, Upton Sinclair, Egon Erwin Kisch, che mi confortavano nel mio impegno pur esortandomi alla cautela.

Se io ammiravo Lukács senza conoscere le peripe­zie della sua vita e le sue metamorfosi, lui seguiva le mie attività. In qualità di direttore della rivista in lin­gua ungherese «Uj hang» («Voce nuova») pubblicata a Mosca, Lukács, che d’altronde era un pensatore troppo cosmopolita per dedicare molto tempo alla letteratura ungherese che considerava provinciale, si vide tuttavia costretto a piegarsi sulle nostre «lettere » e a esprimersi sul ruolo svolto dalla nostra rivista «Szép Szó».

Mi aveva personalmente rimproverato per aver definito il sistema staliniano totalitario al pari del sistema fascista. Colmo del sacrilegio, avevo citato una frase di Mussolini a difesa della mia tesi: «Ammetto », aveva detto il Duce, «che se è vero che fra noi, fascisti e comunisti, non esistono legami politici, è anche vero che c’è un’affinità intellettuale incontestabile». Mi chiedevo se Mussolini non avesse visto più giusto di Lukács, il quale si sforzava di convincerci che lo stalinismo aveva un volto umano, e che gli unici bastioni contro il nazismo erano l’Urss e il movimento comunista.

Lukács mi rimproverava altresì le simpatie per Emmanuel Mounier e la sua filosofia, per il «giusto mezzo » esaltato dai dottrinari dell’epoca di Luigi Filippo. Me ne voleva di avere per Guizot un giudizio diverso — perché favorevole — da quello di Marx, che l’uomo politico francese aveva espulso dalla Francia. Mi rimproverava di mettere Nietzsche sullo stesso piano di Hegel, dimostrando con questo «una mancanza di spirito critico nei riguardi dei teorici della reazione imperialista». (Io ritengo che l’interpretazione di Nietzsche — come quella di Gundalf, di Klages, di Stefan George... — di Lukács sia da annoverarsi fra le pagine più deplorevoli della sua opera). Lukács contestò anche — senza addurre argomenti storici seri — che pre­sentassi il regime di Luigi Filippo come il migliore possibile per la borghesia francese, quello che corri­spondeva meglio alle sue strutture degli anni 1830-50. Spiegavo che il «re borghese» era stato ro­vesciato per ragioni capricciose che non potevano essere spiegate dai deterministi marxisti. Era più o meno l’opinione di due testimoni straordinari, Hei­ne e Hugo, e ne sono convinto ancora oggi. Lukács sbagliava a filosofare su un’epoca che non aveva studiato scientificamente.

Tuttavia, la sua critica principale circa il no­stro gruppo riguardava il nostro rifiuto di allear­ci con «l’avanguardia della classe operaia». Ma si astenne dall’analizzare le ragioni che portaro­no Attila József e me a ripudiare lo stalinismo nel 1934, e a preconizzare la revisione del marxismo.

Venni a conoscenza delle critiche di Lukács solo dopo la guerra; non reagii, considerandole superate. Ma non fu dello stesso avviso Pál Ignotus che a Lon­dra era meglio informato di me sul ruolo — quasi dittatoriale — svolto da Lukács nella vita culturale ungherese. Cercò di avere una spiegazione con lui prima di rilanciare «Szép Szó», difendendo la nostra politica degli anni Trenta con molta fermezza: nes­sun organo di stampa aveva condotto fra le due guer­re la battaglia antifascista e democratica con più coraggio. Lukács mise come condizione al suo appog­gio alla rivista che ci impegnassimo ad essere «più democratici», ossia, nella terminologia moscovita, di rinunciare a ogni critica della politica del partito comunista e dell’Unione Sovietica. Io scrissi a Igno­tus: «Meglio niente piuttosto di questo». Così il gran­de filosofo fece tacere una voce che gli avrebbe dato fastidio, per l’influenza che essa avrebbe potuto ave­re su «una buona parte dell’intellighenzia unghere­se ».

Lukács dunque mi deluse. Non per averci critica­to: era naturale, nella sua situazione di esule a Mo­sca, che non fosse d’accordo con ciò che dicevamo, era quasi lusinghiero che si fosse dato tanta pena a confutarci. Mi deluse il suo comportamento dopo la guerra, i suoi argomenti per giustificare l’opposizio­ne alla ripresa di «Szép Szó»: erano indegni di un discepolo di Weber, di un condiscepolo di Karl Man­nheim.

Il modo in cui si svolse il nostro primo incontro (che fu anche l’ultimo) aggravò ancora la mia delu­sione. Lukács era stato invitato a Parigi, nel 1948, per un ciclo di conferenze alla Sorbona; venne ospitato da Károlyi in residenza. Prese lui l’iniziativa di invi­tarmi per il tè, noi due soli. Venne subito al punto: «Le parlo a nome della direzione del partito unghe­rese », disse, «ora che i due partiti operai si sono uni­ti le proponiamo di candidarsi a membro del neo-partito unificato, e di accludere alla domanda un curriculum dettagliato e un’autocritica sincera. E soprattutto — qui alzò la voce per sottolineare l’im­portanza delle sue parole — lei deve assumersi la responsabilità dell’influenza perniciosa che ha eser­citato sul poeta Attila József per allontanarlo dal par­tito comunista».

Esitai fra collera e voglia di ridere, prima di ri­spondere: «Lei mi chiede l’impossibile. Se Attila, che era maggiore di me di cinque anni, ha lasciato il partito è perché ne disapprovava la politica». Lukács scosse tristemente il capo: «Possibile, possibile. Ma lei capisce, il partito ha bisogno della sua testimo­nianza ».

Capii benissimo: il partito comunista voleva an­nettersi il prestigio del poeta, paragonabile a Majakovskij o Eluard, ma che non aveva aspettato i processi di Mosca per palesare il vero volto dello sta­linismo. Se avessi accettato di essere responsabile della sua eresia, lo avrebbero presentato come una vittima della manipolazione borghese. Rifiutai: «Del resto, non ho alcuna intenzione di aderire al parti­to ». Ne fu dispiaciuto. Io molto di più. Non mi capa­citavo che quest’uomo, celebrato da tutti ancora og­gi come uno dei grandi pensatori del nostro secolo, potesse abbassarsi a tanto. Che idea avevano di lui coloro che (Révai, Rákosi o Farkas?) l’avevano incari­cato di una simile incombenza? Sicuramente erano convinti di potergli chiedere di tutto.


Corriere della Sera 13.7.09
Il libro di Dario Buzzolan
Donne in fuga l’amore al tempo della Resistenza
Ideali traditi e sentimenti
di Ermanno Paccagnini 

«Un bel romanzo sulla memoria della Resisten­za in Italia», scrive lo storico Giovanni De Lu­na. E non si può che concordare. Salvo ag­giungere che il parere può suonare parzialmente depi­stante, se si fa poi riferimento al «sangue dei vinti» richia­mato nel risvolto. Che c’entra anche, ma come sottofon­do, dato che uno dei misteri riguarda l’omicidio nell’im­mediato dopoguerra di un aguzzino fascista. Ma I nostri occhi pieni di terra di Dario Buzzolan (Baldini Castoldi Dalai, pp. 304, e 17,50) sono assai di più, perché sul tema resistenziale e sull’omicidio si sviluppa un andamento da inchiesta da parte di due donne, Ella e Marianna, che coinvolge la figura di Davide, padre della ventisettenne Marianna, che ne apprende la scomparsa dovuta forse a suicidio al ritorno da un viaggio. Ed è, per Marianna, una autentica coazione a capire quella figura di padre sempre più scostante e solitario, che lascia inspiegabilmente per tutti il ruolo di docente universitario di filosofia per gesti­re — in modo fallimentare — una rivendita di liquori. Una inchiesta in cui Marianna coinvolge una sfuggente Ella, attrice che proprio Davi­de nell’ultima telefonata alla figlia ha invitato a sentir reci­tare nel Lutto si addice ad Elettra , per poi scoprire che è stata amante del padre.

Di qui i misteri: l’omicidio; i rapporti padre-figlia; il rap­porto Ella-Davide, tanto più che la donna è moglie di Gior­gio, studente che proprio Da­vide le ha fatto conoscere e il cui odio per l’antico maestro che lo spinge a denunciarlo per omicidio non è però per il tradimento coniugale, ma per qualcosa di più complesso, che coinvolge la madre stessa di Giorgio e il padre di Davi­de, da cui discende che i due sono fratellastri (con mie per­plessità circa la poco chiara fi­gura della donna e certe agni­zioni, anche se spiegano gli sviluppi della vicenda).

Anche se poi il vero mistero è proprio l’atteggiamento di Davide verso tutti, che fa del libro un romanzo della delusione: della svalutazione e dello svuotamento degli ideali di chi ha combattuto da parte dei «gestori» della vittoria; e su un mondo che ha tradito molte aspettative. Di qui il muoversi del romanzo per continui intrecci che spostano i personaggi fisicamente e memorialmente in un arco temporale che va dal 1945, in cui la ragazzina Ella accudisce un giovane partigiano ferito che porta in sé un segreto che conserverà tenacemente per 50 anni, al 1994 in cui Marianna inizia la sua interrogazione. Per un narra­re che Dario Buzzolan sviluppa con forte tensione e a struttura aperta e mossa, alternando punti di vista e in­trecciando le temporalità, con finestre di flashback che scandiscono un attraversamento (ora contiguo e ora a sal­ti) i decenni della storia italiana nella accennata prospetti­va del tradimento degli ideali. Perché al centro sta soprat­tutto il tema delle scelte. D’opportunismo, per alcuni. Sof­ferte per chi vuol conoscere la verità. Radicali per chi, co­me Davide, in nome della libertà interiore, sia pur con le contraddizioni della propria umanità, è però disposto a pagarne le conseguenze.

Repubblica 13.7.09
Si chiama Sabatino Finzi, vive a Roma e non ha mai dimenticato C´era anche lui tra i piccoli ebrei salvati dagli americani
"Io, il bambino numero 1000 nell´inferno di Buchenwald"
di Marco Ansaldo

"Nelle baracche c´era un odore terribile. Pesavo 29 chili e non so come sono sopravvissuto"
A 16 anni fu deportato dal Ghetto: su 1022 prigionieri se ne salvarono solo 17

«Sono quattro notti che sogno mia madre. Da quando ho saputo di questi documenti». La voce si incrina, un velo di lacrime copre gli occhi. Si commuove, quest´uomo di 82 anni. L´unico della famiglia a essere tornato dai Lager. Sono passati 64 anni. E per un attimo bisogna cambiare argomento perché non si accasci nel dolore del ricordo.
Tra i mille bambini ebrei stipati in un pugno di baracche - fra cui il futuro premio Nobel, Elie Wiesel - e trovati vivi dagli americani quando entrarono a Buchenwald, c´era anche un ragazzino italiano. Uno solo. Finito però nel blocco riservato agli adulti. Le carte del suo internamento emergono dal nuovo archivio nazista di Bad Arolsen, in Germania. A reperirle è il professor Kenneth Waltzer, direttore del Dipartimento di studi ebraici alla Michigan State University, autore di un prossimo libro sui bambini detenuti a Buchewald. Repubblica ha cercato se quel piccolo prigioniero fosse ancora in vita, e lo ha infine trovato a Roma. Si chiama Sabatino Finzi. E´ uno dei 17 ebrei romani, dei 1022 rastrellati, tornati dalla deportazione al Ghetto dell´ottobre 1943. Aveva 16 anni. Nessun altro dei 207 minorenni presi quel giorno tornò più.
Con l´aiuto delle carte Waltzer ricostruisce il percorso. Sabatino arrivò a Birkenau-Auschwitz, dove perse subito la madre Zaira e la sorella Amelia, 12 anni, inviate nelle camere a gas. Lui e il padre vennero spediti a Jawisowice, dove lavorarono nelle cave di lavagna. «Quando Auschwitz e i campi satellite dovettero essere evacuati - spiega il professore - i due Finzi furono trasferiti insieme a Buchenwald. Era il 22 gennaio 1945. Ma li separarono subito, e Giuseppe fu mandato a Ohrdruf».
Su quella lista di trasporto, assieme a una cinquantina di ragazzini, erano stati messi anche 5 piccoli italiani. Quattro però vennero mandati altrove, due a Ohrdruf, due a Schwalbe/Berga. Solo uno fu tenuto a Buchenwald. «Il suo nome - continua Waltzer - come risulta dalla dozzina di documenti recuperati, è Sabatino Finzi, prigioniero numero 117662. Ma non venne mandato al blocco 8, quello cosiddetto dei bambini. Fu piazzato prima alla baracca 2 e poi spostato alla 28». Perché?
Oggi il signor Sabatino cammina a fatica. Nemmeno a figli e nipoti, che lo circondano con affetto, ha mai raccontato nei particolari quel periodo tristissimo. «Mio padre in sessant´anni anni ha parlato sempre molto poco», dice il figlio Giorgio. Sabatino si esprime a tratti. Frasi corte, interrotte da lunghi silenzi. Le scene del Lager arrivano come lampi improvvisi nella memoria. «Pugni e schiaffi. Così si andava avanti laggiù». Prende una penna, sopra un foglio disegna una stella. «Questa ce la facevano mettere qui, al petto». La scritta gialla: giudeo. Osserva con curiosità le schede che lo riguardano, confronta il suo numero di detenuto con quello sul braccio. E´ il 158556. «Papà aveva il 158557», dice. Poi nota la propria firma, in calce a un documento consegnato agli Alleati al momento della liberazione. Riscrive la sua firma: è identica, il medesimo sbaffo in fondo.
«Lavoravo nella cave. Un kapò polacco mi diede una botta in testa, perché non l´avevo capito in tempo. Ricordo ancora il nome, e il numero. Mi venne un ematoma. Fui operato da un altro detenuto, chirurgo all´Università di Pisa, che intervenne con un cucchiaio affilato per terra e reso incandescente con un accendino». Il nipote Andrea, 12 anni, gli stampa un bacio sulla guancia. Il 5 giugno scorso il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, ha celebrato il 60° anniversario del suo matrimonio con la moglie, Esterina Pavoncello.
«Sono nato nel 1927. Ma sulle carte i nazisti avevano scritto ‘28: ho insistito. Ecco, qui si vede che la data è stata infine cambiata con un tratto di penna. Dovevo sembrare più grande. Perché avevo visto che i bambini li ammazzavano tutti. Non lavoravano, e alle SS non servivano. Li portavano fuori dai blocchi, e ta-ta-ta. Li mitragliavano. Io ero già un giovanetto. Allora ho detto di avere più anni, perché in quel modo potevo rendermi utile. Così sono sopravvissuto. Ho sempre avuto un sesto senso». Il ragazzino Finzi si salvò da solo. Fu tolto dalle liste dei piccoli e assegnato alle baracche degli adulti. Gli ultimi giorni, prima dell´arrivo degli americani, i blocchi dei bambini furono oggetto di una tragica evacuazione forzata.
«Papà non l´ho più veduto. Quando trovai del cibo, stavo per morire mangiando della scatolette di fegato d´oca. Nelle baracche c´era un odore terribile. Qualcuno dava di stomaco, e uno affamato dietro di lui mangiava il suo vomito. Pesavo 29 chili. All´Ospedale Sant´Orsola di Bologna rimasi 7 mesi».
Sembra tutto. Ma c´è un ultimo squarcio di memoria: «Sono andato a Gerusalemme, al Muro del pianto. E anch´io, come tutti, ho infilato un bigliettino. Ci ho scritto sopra: "Hitler, non ce l´hai fatta a farmi fuori. Sabatino Finzi è ancora qui, come mio figlio Giorgio e come mio nipote"». Sabatino anche lui.

domenica 12 luglio 2009

Corriere della Sera 12.7.09
Polemiche sul dirigente locale di partito fermato per le violenze
«Stupratore, questione morale» L’accusa di Marino agita il Pd
Marino: questione morale. Il Pd: è assurdo
di Maria Teresa Meli


Dario Franceschini Offesi centinaia di migliaia di iscritti. Attenzione a non strumentalizzare
Ignazio Marino I dirigenti locali vengono imposti in base agli equilibri delle correnti

ROMA — La sfibrante fase precongressuale del Pd sta già provocando i suoi effetti sui dirigenti di quel partito: i nervi sono scoperti, il clima del sospetto impera. E così ac­cade che persino la vicenda di Luca Bianchini, il presunto se­rial- stupratore di Roma, pro­vochi scambi di accuse.
Ignazio Marino, uno dei tre candidati alla segreteria del Pd, non riesce a trattenere il suo stupore: «È evidente che nel Pd abbiamo una questio­ne morale grande come una montagna. Trovo davvero in­credibile che un criminale che già 13 anni fa era stato coinvolto in odiosi reati di violenza sessuale possa esse­re arrivato a coordinare un cir­colo del Pd». Ma questo può avvenire, secondo Marino, perché i dirigenti locali vengo­no «imposti per rispondere agli equilibri delle correnti». Insomma l’atto d’accusa del senatore-chirurgo riguarda tutto il «sistema» del Partito Democratico. Sistema che, ov­viamente, viene difeso dai ver­tici dell’apparato, che si sono scagliati tutti, indistintamen­te, franceschiniani e bersania­ni, ad attaccare Marino.
Durissimo Franceschini: a suo giudizio le parole del se­natore- chirurgo «sono offen­sive per centinaia di migliaia di iscritti al Pd». Attenzione a non strumentalizzare, avverte Franceschini. Netto anche l’al­tro candidato alla segreteria, Pierluigi Bersani: «Cose del genere non le pensa di noi ne­anche il nostro peggiore av­versario ». Per Beppe Fioroni l’atteggiamento di Marino «è vergognoso»: «Non può fare di tutta l’erba un fascio per lu­crare qualche consenso in più al Congresso». E Rosi Bindi passa all’insulto diretto senza troppi giri di parole: «Marino non ha il cuore né l’intelligen­za per dirigere un grande par­tito come il Pd».
La capogruppo del Pd al se­nato Anna Finocchiaro chiede «più rispetto per il Pd e i suoi iscritti» e definisce «veramen­te inaccettabili» le affermazio­ni di Marino. A difendere il buon nome del partito e dei suoi dirigenti scendono in campo anche i due volti nuo­vi, nonché già stranoti del par­tito: Debora Serracchiani e Da­vid Sassoli. La prima bolla co­me «un’inopportuna strumen­talizzazione ai fini congressua­li » la sortita di Marino. Sasso­li sostiene invece che sia «po­co dignitoso prestarsi a stru­mentalizzazioni ». La stessa co­sa detta in maniera diversa.
Contro il senatore-chirur­go scende in campo Filippo Penati, coordinatore della mo­zione Bersani: lo accusa di «al­lontanare ancora di più i citta­dini dalla politica». E uno dei due vicepresidenti del grup­po del Partito Democratico a palazzo madama, Luigi Zan­da: «Non accetto l’equazione stupratore è uguale a questio­ne morale nel Pd». Insomma, il «partito-partito» si schiera contro Marino che, alla fine è costretto a fare una precisazio­ne: «Non intendevo offendere nessuno», dice. Ma poi non re­siste e tiene il punto: «Non può accadere che un persona che ha avuto dei problemi con la giustizia per un reato odioso e ignobile come la vio­lenza sessuale finisca per co­ordinare un circolo del Pd. Trovo che non cia sia niente di male nel riconoscere che è stato fatto un errore che non deve mai più ripetersi». Ma siamo alla vigilia del congres­so e un errore, qualsiasi erro­re, deve passare per i sondag­gi prima di esser definito tale. 


Repubblica 12.7.09
Marino sul dirigente arrestato: c´è una questione morale
Franceschini e Bersani: offende il partito più di un avversario
La Bindi: non ha cuore né intelligenza per dirigere un grande partito
Stupro di Roma è bufera nel Pd
di Luciano Nigro


ROMA - È scontro nel Pd per l´allarme sulla questione morale lanciato dal candidato alle primarie Ignazio Marino. «È incredibile che un condannato per violenza sessuale abbia coordinato un nostro circolo», ha detto riferendosi a Luca Bianchini, arrestato con l´accusa di essere il violentatore seriale di Roma. Pioggia di repliche all´interno del partito. Per il segretario Dario Franceschini le parole di Marino «sono offensive per i nostri iscritti». E Pierluigi Bersani: «Cose del genere non le pensa il nostro peggiore avversario».

ROMA - «Nel Pd c´è una questione morale grande come una montagna». Ignazio Marino, il chirurgo-senatore che punta alla segreteria del Pd, dopo l´arresto del segretario-stupratore parte all´attacco sul tesseramento e sui dirigenti. «E´ incredibile - accusa - che un criminale già coinvolto in odiosi reati di violenza sessuale possa essere arrivato a coordinare un circolo del Pd. Come vengono individuati i dirigenti? E´ chiaro che non sono scelti liberamente, ma imposti in base agli equilibri di corrente. E per di più senza sapere chi siano e se siano in grado, anche dal punto di vista morale, di guidare un circolo». Affonda il bisturi, il chirurgo che si presenta come campione della laicità. Lo affonda su una ferita ancora aperta, però. E provoca la reazione di rigetto, violenta. Dai dirigenti romani su su fino al segretario Dario Franceschini che definisce «offensive» per migliaia di militanti le parole di Marino e a Pierluigi Bersani che allarga le braccia: «Cose del genere non le pensa di noi neanche il nostro peggior avversario».
All´ora di cena, travolto da proteste e di indignazione, mentre Rosy Bindi lo accusa di «non avere cuore né intelligenza per dirigere un grande partito come il Pd», Marino è costretto a frenare: «Mi dispiace se qualcuno si è sentito offeso».
Non verrà ricordato come uno dei giorni più luminosi della breve e tormentata vita del Pd, questo sabato 11 luglio su cui si è abbattuto il ciclone Marino. Già l´arresto di Luca Bianchini, segretario di sera e violentatore mascherato di notte, aveva guastato il fine settimana al popolo democratico. Ma dopo pranzo ecco i fulmini di Marino: «Cosa dobbiamo ancora aspettarci? Io ai miei collaboratori chiedevo il certificato del casellario giudiziario. Il Pd deve essere rigoroso e attento agli aspetti morali». E giù con l´"altra" questione morale: «Il tesseramento gonfiato in Campania, i trucchi e le furbizie».
E´ d´imbarazzo la prima reazione dei leader che si aspettavano il bisturi e si ritrovano un concorrente con la mannaia: «Mamma mia, meglio non commentare». I romani, però, scalpitano. «Il caso di una doppia personalità criminale non ha nulla a che vedere con il congresso del Pd» protesta Umberto Marroni capogruppo in Campidoglio. «Poco dignitoso strumentalizzare» sentenzia l´eurodeputato David Sassoli. «Vergognoso, uno squallido calcolo di visibilità» rincara il rutelliano Luciano Nobili. E mentre la federazione romana segnala che «nessun precedente risulta sul casellario giudiziario» del mister Hyde del Torrino, il caso diventa nazionale. «Chi si candida deve costruire, non distruggere. Assurdo parlare di questione morale», lamenta il milanese Filippo Penati, coordinatore della campagna di Bersani. E´ Franceschini a prendere le difese di iscritti e dirigenti «che non meritano di essere trascinati in una presunta questione morale, originata da una drammatica storia individuale». Poi tocca al responsabile dell´organizzazione, Maurizio Migliavacca: «Le nostre regole sono le più rigorose, ogni iscrizione viene vagliata da due filtri, e questo vale anche anche in Campania dove c´è un commissario». Anna Finocchiaro contesta un Marino «confuso» che dovrebbe usare più «equilibrio e prudenza»; per Rosy Bindi «si dimostra un campione di strumentalizzazione»; «a fini congressuali», puntualizza Debora Serracchiani. Pure Mario Adinolfi invita il concorrente alla segreteria a «darsi una calmata». E Luigi Zanda lancia l´appello: «Non facciamoci del male con le nostre mani». Rimasto solo, Marino prova a ricucire: «Non volevo offendere nessuno. Ma è stato fatto un errore che non deve mai più ripetersi. E occorre tenere alto il livello di vigilanza».

il Riformista 12.7.09
Violenza sessuale, dibattito surreale nel pd
Stupro da Congresso gaffe di Marino. Dopo l'arresto a Roma di un coordinatore di un circolo Pd, parla di questione morale. Franceschini: «Sei offensivo». Bersani: «Peggio di un avversario».
Incredibile il chirurgo parla di questione morale. gli altri: strumentalizza
Marino scivola sullo stupratore. E resta solo
di Matteo Valerio


L'arresto di Luca Bianchini, presunto stupratore seriale e coordinatore di un circolo del Pd romano, diventa la miccia per l'ennesima polemica dentro il partito. Ad aprire le danze, il senatore Ignazio Marino, terzo uomo nella corsa alla segreteria in vista del congresso di ottobre: «È evidente che nel Pd abbiamo una questione morale grande come una montagna, che non può essere ignorata né sottovalutata». Parole forti e, per i più, inopportune, considerata la delicatezza del caso, e che gli hanno attirato una valanga di critiche. Per il segretario Dario Franceschini «queste parole suonano come offensive per centinaia di migliaia di iscritti», mentre per l'altro candidato alla segreteria, Pier Luigi Bersani, «cose del genere non le pensa di noi il nostro peggiore avversario». Ma, soprattutto, Marino è accusato di aver strumentalizzato una vicenda drammatica per fini congressuali.
Nel frattempo, le indagini su Bianchini procedono, alla ricerca di ulteriori riscontri, mentre domani mattina il gip deciderà se convalidare o meno l'arresto dell'accusato.
Trance. È questo il termine che meglio descrive lo stato d'animo dei militanti del Pd romano dopo l'arresto di Luca Bianchini, il coordinatore del circolo del Torrino (nel quartiere Eur) sospettato di essere lo stupratore seriale che negli ultimi mesi ha terrorizzato Roma. E mentre continuano a emergere particolari sempre più sconcertanti sulla doppia vita del presunto stupratore, il dibattito travolge, forse in un modo non proprio opportuno, la corsa alla segreteria nazionale. È Ignazio Marino, candidato laicista voluto da Goffredo Bettinti e adottato dai giovani "piombini", a innescare la miccia. Deprecando il fatto che Bianchini fosse potuto arrivare a essere il coordinatore di un circolo, Marino arriva ad affermare che «è evidente che nel Pd abbiamo una questione morale grande come una montagna». Il medico piddino sostiene che i coordinatori dei circoli «non sono scelti liberamente ma imposti per rispondere agli equilibri delle correnti, e per di più senza sapere se siano davvero in grado di guidare un circolo, anche dal punto di vista morale».
Infine, evoca la visura del casellario giudiziario per chi voglia entrare nel partito. Le sue dichiarazioni si guadagnano il fuoco di fila degli altri dirigenti del Pd, a partire da Dario Franceschini: «Da segretario sento il dovere di respingere le parole di Marino. Una cosa è il dibattito congressuale tra candidati, un'altra cosa è utilizzare un episodio oscuro e terribile per parlare di questione morale nel Pd. Queste parole suonano offensive per migliaia di coordinatori di circolo e di quadri del partito, per centinaia di migliaia di iscritti». Dispiaciuto anche l'altro candidato alla segreteria, Pier Luigi Bersani: «Cose del genere non le pensa di noi il nostro peggiore avversario». Debora Serracchiani arriva addirittura a parlare di «un'inopportuna strumentalizzazione di questa vicenda ai fini congressuali». Luciano Nobili, uno dei giovani della direzione nazionale, è ancora più esplicito: «L'atteggiamento di Marino, che per uno squallido calcolo di visibilità congressuale strumentalizza una vicenda così dolorosa, come neanche la destra più becera, merita lo sdegno di tutti noi». Filippo Penati, ex presidente della Provincia di Milano, non è meno duro: «Chi si candida alla segreteria del partito deve costruire e non distruggere, e non dovrebbe usare in maniera strumentale casi drammatici come quello dello stupratore seriale di Roma facendo assurdi accostamenti con la questione morale». Si schiera anche Luigi Zanda, vicecapogruppo del Pd al Senato: «Il Pd si sta avvicinando a un congresso delicato e importante, non facciamoci male con le nostre mani». Una valanga di critiche cui Marino ha risposto sostanzialmente allo stesso modo: «Mi dispiace se qualcuno si è sentito offeso. È importante tenere alto ovunque il livello della vigilanza e questo caso, che è un caso certamente isolato, deve rappresentare per noi un campanello d'allarme».
Patrizia Prestipino, assessore provinciale ed ex presidente del municipio XII, quello del circolo Torrino, definisce «pessime» le dichiarazioni di Marino. Prestipino conosceva bene Bianchini, ed è ancora sconvolta: «Luca è cresciuto nel territorio come tutti i nostri ragazzi, una persona corretta, precisa, un militante da quando aveva 24-25 anni. Ha fatto i volantinaggi, i gazebo, le raccolte di firme. Nel quartiere lo conoscono tutti, e la gente è ancora incredula». Sì, perché «Luca era non solo un militante convinto, ma anche un vero e proprio gentiluomo». Solo ultimamente, «qualcuno lo rimproverava perché era un po' più assente, ogni tanto arrivava tardi per aprire il circolo». Al Torrino il dibattito nazionale interessa poco, e in molti evitano di parlare. C'è però un'altra donna, Paola Vaccari, coordinatrice dei circoli del Pd nel municipio, che non si sottrae.
Parla al presente, come se non avesse ancora realizzato: «Lavoro a stretto contatto con Luca e neanche col senno di poi riesco a ricordarmi di un solo episodio in cui abbia mostrato qualche turba. L'ultima serata insieme l'abbiamo trascorsa lunedì scorso, mi ha anche accompagnato alla macchina». Un amico di Luca, oltre che compagno di circolo, conferma: «Si è impegnato anche alle europee, e proprio in quei giorni avvenivano gli ultimi stupri. Uscivamo insieme la sera, magari per una birra, ma non abbiamo mai notato niente di strano». Anche nel partito romano, però, il fermento è alto, sebbene ancora sottotraccia. Roberto Morassut, che potrebbe sfidare l'attuale segretario romano Riccardo Milana, si ritrova con una nuova freccia al suo arco. Sperando che non la sprechi come ha fatto Marino.

il Riformista 12.7.09
Finora tutti pazzi per Ignazio il nuovo
Candidato rivelazione o bolla mediatica?
di Alessandro Calvi



Una bolla, pronta a sgonfiarsi perché rappresenta «il partito gassoso», come dice Paola Binetti. Oppure no, tutt'altro: destinato addirittura a piazzarsi secondo nella corsa alla segreteria del Pd. Insomma, Ignazio Marino rimane ancora un oggetto misterioso: quante tessere, e quanti voti alle primarie, riuscirà a mettere insieme è ancora difficile dirlo.
«Allo stato non posseggo elementi per dire quanto la candidatura di Marino peserà», dice Renato Mannheimer, di Ispo. Qualche segnale però è già possibile coglierlo e, dice Mannheimer, «la candidatura di Marino potrebbe rappresentare l'elemento di novità che molti elettori del centrosinistra esterni al Pd stanno cercando». Marino lo sa e infatti più volte ha lanciato appelli per favorire nuove iscrizioni al partito e, «in parte ci sta riuscendo, attraendo - conclude Mannheimer - quella fascia di elettorato di centrosinistra mai iscritta al partito e che vede con disturbo la tradizionale competizione Veltroni-D'Alema».
Anche Roberto Weber, di Swg, spiega che al momento non è facile dare una dimensione del fenomeno Marino. «La sensazione, ma è soltanto una sensazione, è che al momento quella di Ignazio Marino possa rimanere una terza candidatura», osserva Weber. Ciò non significa però che la sua presenza non abbia conseguenze sulla corsa. «Certo, sulle dimensioni che potrà raggiungere quella candidatura, per ora è difficile esprimersi - ripete Weber - ma tenderei a pensare che sia una candidatura significativa e che potrebbe erodere qualcosa a entrambi gli schieramenti».
Idee molto chiare sembra invece averle Paola Binetti, che di Marino è stata a lungo un vero e proprio contraltare nel partito. Per mesi, quando ancora il Pd non esisteva e al governo c'era Romano Prodi, i due sono stati raccontati come i campioni delle due scuole di pensiero sulla bioetica nell'area di riferimento del futuro Pd. Ora Marino corre per diventare il segretario di quel partito. E la Binetti non nasconde la propria preoccupazione. «Le contraddizioni che leggo nel personaggio e la capacità di spaccatura assoluta che ha avuto, mi fanno chiedere cosa potrebbe accadere», attacca. E spiega che si tratta di un personaggio nel quale è «difficile trovare quello che l'immaginario collettivo gli attribuisce». «La verità - aggiunge la Binetti - è che siccome non è in realtà molto conosciuto, ciascuno proietta su di lui le aspettative che si hanno sul Pd. Si vuole un partito giovane? Ecco il candidato giovane, che però è più vecchio di Franceschini. Si vuole un candidato cattolico? Eccolo. Si vuole quello laico? Eccolo, sempre lui». Insomma, è il succo, una costruzione mediatica,una bolla, appunto, che però ha successo nella opinione pubblica. Ma, avverte la Binetti, c'è un «profilo di ambiguità nello sviluppo successivo». Ovvero, «il Pd non ha bisogno di un leader simpatico» e un domani Marino come segretario «che garanzie può dare?». Ciò detto, «quando alle primarie potrà votare chiunque, una mediatizzazione così importante può avere conseguenze imprevedibili».
Ma «non si può prendere la Binetti come punto di riferimento nel Pd», protesta Massimo Bordin, direttore di Radio Radicale, secondo il quale, «semmai, c'è il problema di alcuni ex popolari come Castagnetti o Fioroni». Anche secondo Bordin, però, cosa accadrà «è ancora tutto da vedere». Se infatti Marino dovesse superare la prima fase in cui si pesa l'appoggio degli iscritti poi «ha buone probabilità, perché il metodo che affida anche ai non iscritti la scelta del segretario avvantaggia l'outsider se ha una capacità di impatto». I radicali, a quanto pare, sono pronti a fare la loro parte per aumentarla.


il Riformista 12.7.09
Marino, che delusione. Ora cali il silenzio
Deliri nuovisti. Se persino Bianchini diventa «apparato»


Ignazio Marino è persona mite e intelligente. Davvero non si capisce come sia potuto saltargli in mente di avventurarsi laddove nemmeno un Maurizio Gasparri ieri si è arrischiato ad arrivare. Marino, candidato alla segreteria del Pd, ha infatti dettato alle agenzie un comunicato per sostenere che l'arresto dello stupratore romano, coordinatore di un circolo democratico, è la prova che nel partito esiste una questione morale.
«Come vengono individuati - si chiede il senatore chirurgo - i coordinatori dei circoli? È chiaro che non sono scelti liberamente - si risponde - ma imposti. Sono messi in quelle posizioni per rispondere agli equilibri delle correnti e per di più senza nemmeno sapere chi siano queste persone».
Davvero non si capisce, dicevamo. O forse, invece, si capisce fin troppo. Perché l'idea di trasformare un'agghiacciante caso di cronaca nera in una polemica da congresso contro gli apparati e le correnti è integralmente figlia di una recita nuovista di cui Marino non è certo l'inventore, ma nella quale si è immedesimato decisamente troppo.
E così il candidato «che svecchia», quello «fuori dai giochi di vertice e di palazzo», l'idolo dei lingottini o piombini o come diavolo si chiamano, deve aver pensato che l'arresto di un coordinatore di circolo del Pd fosse un formidabile argomento per dimostrare quanto corrotto sia il partito degli «apparati», per dirla alla Debora Serracchiani. Naturalmente è difficile dire se sia più grave e sciocca l'intenzione di farsi campagna congressuale su una vicenda del genere o l'idea, di cui purtroppo Marino deve essere davvero convinto, che Bianchini coordinasse il circolo del Torrino in quanto espressione di un qualche potentato locale, magari disposto pure a chiudere un occhio sul sinistro passato dell'uomo pur di aver un referente di fiducia al posto giusto.
Marino, che essendo senatore dovrebbe aver presente quanto contino i parlamentari del Pd, cioè poco più di zero, forse ha il metro di giudizio adatto a farsi un'idea di quanto potere abbia nelle sue mani un segretario di sezione. Figura indispensabile per far funzionare un partito sul territorio, ma non propriamente centrale nell'era della politica liquida. Quanto alla convinzione che i coordinatori siano «imposti» agli iscritti, essa può testimoniare solo del fatto che Marino non ha mai messo piede in una sezione o circolo o come diavolo si chiamano pure loro, se non per qualche appuntamento elettorale. Purtroppo la tentazione dei campioni della società civile e del nuovo è di scindere buoni e cattivi a ogni grado e livello, con grande sprezzo della logica e del ridicolo. A loro non basta contrapporre iscritti (cattivi) ed elettori (buoni), partito (cattivo) e base (buona). No, persino su venti persone di un circolo, diciannove sono buone e una è «apparato». Pensavamo che Marino, persona mite e intelligente, non cavalcasse una tragedia per adagiarsi sui più vieti luoghi comuni dell'antipolitica. E ora speriamo solo che su questa polemica cali il silenzio.

Comunicato stampa Roma, 11 luglio 2009.
Sinistra d'alternativa (Prc-Pdci-Soc 2000): "Per un nuovo inizio: costruiamo insieme la federazione della sinistra di alternativa".
Appuntamento il 18 luglio al centro congressi Frentani, h 10.00.
Nota stampa a cura degli uffici stampa di Prc-Pdci-Socialismo 2000.


Sinistra d'alternativa, verso la Federazione: "Per un nuovo inizio: costruiamo insieme la federazione della sinistra di alternativa". Appuntamento il 18 luglio al centro congressi Frentani, h 10.00.

Diffondiamo il testo dell'appello "Per un nuovo inizio: costruiamo insieme la federazione della sinistra di alternativa" (in allegato nella sua formula integrale) testo sottoscritto e lanciato da partiti (Prc-Pdci-Socialismo 2000), associazioni, movimenti personalità indipendenti della sinistra, che propone di costruire una federazione della sinistra tra partiti, associazioni, movimenti, comitati e singole personalità della sinistra d'alternativa.
Tra i firmatari dell'appello figurano molte personalità di partito, di movimento e indipendenti, tra cui:
Paolo Ferrero, Oliviero Diliberto, Cesare Salvi, Vittorio Agnoletto, Margherita Hack, Lidia Menapace,Bruno Amoroso, Elio Bonfanti, Benedetta Buccellato, Elena Canali, Omar Sheikh Esahaq, Valerio Evangelisti,Barbara Fois, Haidi Giuliani, Rita Lavaggi, Maria Rita Lodi, Maria Rosaria Marella,Ibrahima Niane, Nicola Nicolosi, Gian Paolo Patta, Tonino Perna, Rossano Rossi, Nadia Sabato, Bassam Saleh, Raffaele K. Salinari, Laura Stochino, Ermanno Testa, Vauro, Mario Vegetti, Massimo Villone

Di seguito un sunto del testo dell'appello, in allegato il testo completo.

"Per un nuovo inizio: costruiamo insieme la federazione della sinistra di alternativa".

La crisi sta mostrando una volta di più il volto distruttivo del capitalismo e delle politiche liberiste. Parimenti mostra il fallimento delle politiche socialdemocratiche in tutta Europa e del centrosinistra in Italia.

Nella debolezza dell’opposizione e della sinistra, la crisi sociale si impasta con la crisi della politica, producendo guerre tra i poveri che si esprimono in separatezza dalla politica, in astensione, quando non in consenso alle destre razziste.

Abbiamo quindi dinnanzi un compito tanto grande quanto necessario, quello di costruire una efficace opposizione sociale, politica e culturale, in grado di proporre e rendere credibile una uscita da sinistra dalla crisi, lungo una strada contrapposta alle ricette della destra e alternativa al liberismo temperato proposto dal centrosinistra.

A tal fine è assolutamente necessario costruire un punto di riferimento politico della sinistra di alternativa, che abbia massa critica e programmi tali da risultare credibile per tutti coloro che stanno subendo e pagando la crisi e che si ponga l’obiettivo di aggregare tutte le forze politiche, sociali, culturali e morali che come noi sentono questa urgenza.

Riteniamo che gli elementi fondanti di questo processo di aggregazione siano principalmente quattro:

In primo luogo una rinnovata critica al capitalismo globalizzato e alla sua tendenza alla mercificazione di ogni cosa e relazione sociale.

In secondo luogo una forte opposizione al sistema bipolare che rappresenta la forma istituzionale con cui il pensiero unico ha cercato di sancire l’espulsione del tema dell’alternativa dalla politica.

In terzo luogo noi riteniamo che questo polo della sinistra di alternativa non possa essere costruito solo tra le forze politiche oggi esistenti ma debba coinvolgere a pieno titolo tutte le esperienze di sinistra che si muovono al di fuori dei partiti.

In quarto luogo noi pensiamo che la sinistra di alternativa sia pienamente nel solco della storia del movimento operaio, del movimento socialista e comunista, del movimento femminista, GLBTQ e dei diritti civili, delle lotte ambientaliste, per la giustizia e la solidarietà, del movimento altermondialista.

La proposta che avanziamo trova la sua collocazione politica naturale nel contesto di tutte le forze della sinistra europea che si collocano a sinistra delle socialdemocrazie e che hanno ottenuto significativi consensi nelle ultime elezioni europee, come in Francia, Germania, Grecia, Portogallo, Olanda e nei paesi nordici.

Proponiamo pertanto di dar vita a una Federazione unitaria che comprenda – oltre alle forze che hanno dato vita alla lista anticapitalista e comunista – tutti i soggetti politici, i movimenti e le persone che avvertono l’urgenza di affrontare insieme i compiti che ci sono davanti e che abbiamo prima indicato nelle linee generali.

Vogliamo discutere nel modo più diffuso e aperto della nostra proposta unitaria e a tal fine proponiamo quindi di vederci il 18 luglio alle ore 10,00 a Roma al Centro Congressi di via Frentani.

Paolo Ferrero, Oliviero Diliberto, Cesare Salvi, Vittorio Agnoletto, Margherita Hack, Lidia Menapace,Bruno Amoroso, Elio Bonfanti, Benedetta Buccellato, Elena Canali, Omar Sheikh Esahaq, Valerio Evangelisti,Barbara Fois, Haidi Giuliani, Rita Lavaggi, Maria Rita Lodi, Maria Rosaria Marella,Ibrahima Niane, Nicola Nicolosi, Gian Paolo Patta, Tonino Perna, Rossano Rossi, Nadia Sabato, Bassam Saleh, Raffaele K. Salinari, Laura Stochino, Ermanno Testa, Vauro, Mario Vegetti, Massimo Villone
Ufficio stampa Prc-SE

il Riformista 12.7.09
Washington. Annunciato un progetto di legge che potrebbe spaccare anche i liberal
Tasse ai super-ricchi per la sanità di Obama
di Anna Momigliano


Obiettivo: tassare i ricchi per pagare le spese sanitarie ai poveri Robin Hood. Colpire i redditi più alti per coprire i costi dell'ambiziosa riforma, sfida cruciale per il potere democrat. La maggioranza al Congresso sulla carta c'è ma i "blue dog" del partito - sostenitori della "responsabilità fiscale" - sono pronti a ribellarsi. E il presidente ancora non si pronuncia.

Obiettivo: tassare i ricchi per pagare le spese sanitarie ai poveri. Il progetto di legge è pronto e sarà presto presentato al Congresso americano. Lo ha annunciato nella serata di venerdì il deputato democratico Charles Rangel, presidente della House Ways and Means committee, la commissione della Camera dei rappresentanti che si occupa di scrivere le tasse. L'idea è introdurre una sovratassa per gli americani con un reddito alto (stabilito come 280 mila dollari annui per i singoli, e 350 mila per le coppie), onde coprire circa la metà dei costi della riforma della sanità sostenuta dall'attuale amministrazione.
Fa un po' Robin Hood, ma soprattutto fa molto Barack Obama. Ieri il New York Times definiva la proposta come «la più chiara espressione del mandato che i Democratici sono convinti di avere ricevuto lo scorso Novembre, quando gli elettori hanno esteso la maggioranza democratica nel Congresso e hanno mandato Barack Obama alla Casa Bianca». Il quotidiano newyorchese citava una fonte vicina a Nancy Pelosi, la speaker della Camera dei rappresentanti, secondo cui ormai sarebbe stato raggiunto un consenso tra la leadership democratica a sostegno del progetto: «Sarebbe il modo principale di coprire i costi della priorità principale di Obama, cioè estendere l'assicurazione sanitaria virtualmente a tutti gli americani, contenendo l'aumento vertiginoso dei costi delle cure mediche e migliorando i risultati per i pazienti».
Tra gli obiettivi di Obama c'è anche evitare che la riforma del sistema sanitario gravi sul debito pubblico: un problema già complicato di per sé negli Stati Uniti. Infatti la manovra annunciata da Rangel dovrebbe generare un introito per le casse dello Stato di circa 550 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. Il deputato ha inoltre aggiunto che, per la metà restante, i costi della riforma sanitaria saranno coperti attraverso il contenimento della spesa per i programmi statali già esistenti che garantiscono le cure mediche ad alcuni settori della popolazione: per esempio "Medicare", introdotto da Lyndon Johnson negli anni Sessanta a beneficio dei cittadini statunitensi con più di 65 anni.
Facile a dirsi, ma difficile a farsi. Perché ci sono sempre state forti resistenze verso progetti di questo tipo: un po' perché il concetto stesso di sanità universale è ancora estraneo ai settori più conservatori della società americana (fa molto Europa, se non, God forbid!, socialista), un po' perché il principio di aumentare le tasse fa alzare più di un sopracciglio. I Repubblicani hanno già affilato le armi e promesso lotta dura: il Grand Old Party tuttavia è in minoranza in ambedue le camere del Congresso. Alcuni problemi potrebbero arrivare dalle ali più conservatrici dello stesso partito democratico, e in particolare dai "Blue Dog Democrat", la corrente tradizionalmente associata con gli Stati del Sud che fa della politica fiscale conservatrice un punto d'onore.
Ieri il New York Times notava che nel Senato, dove lo svantaggio dei conservatori è minore, il progetto potrebbe non passare. Ma anche nella la House of Representative, l'iter legislativo potrebbe avere una vita difficile: nella camera bassa i democratici hanno un vantaggio di 255 contro 178, ma tra i primi ci sono 52 Blue Dog. Obama, quando le pagine di questo giornale sono state chiuse, non aveva ancora ufficialmente commentato la proposta. Ma nella conferenza stampa dell'Aquila aveva ribadito la sua linea a favore di un'innalzamento delle tasse: «Quando una legge viene introdotta, i costi devono essere coperti. E allora si creano delle difficoltà, perché la gente vorrebbe avere i benefici senza pagare».
Un'ultima considerazione. Dati alla mano (e ideologie messe da parte) basterebbe poco per rendersi conto che non sempre un efficiente sistema sanitario universale corrisponde a una spesa alta. L'Italia e la Francia, due delle nazioni europee che hanno la migliore sanità pubblica (come notato anche nella graduatoria stilata nel 2000 dall'Organizzazione mondiale per la sanità), spendono tra gli undici e i nove punti percentuali del loro prodotto interno lordo. Austria e Germania ne spendono il 10%, mentre la media dei paesi sviluppatiè di poco inferiore al 9 (dati Ocse 2006). Oggi come oggi gli Stati Uniti ne spendono già più 15.

il Riformista 12.7.09
A Kashgar, sulla Via della Seta Pechino annienta la cultura uigura
di Andrea Pira


Xinjiang. Mitica città-oasi, è la migliore espressione della cultura tradizionale islamica in Asia centrale. La Cina vuole radere al suolo il suo antico centro e sfollare migliaia di persone nei palazzoni di periferia. È la via cinese alla modernità. E all'uniformità nazionale.

I muri degli edifici della Città Vecchia di Kashgar sono segnati dal carattere cinese "chai", demolire. Il cuore della capitale culturale degli uighuri, la minoranza turcofona e musulmana che abita la Regione autonoma dello Xinjiang, all'estremo ovest della Cina sta per scomparire, spazzata via dai bulldozer. Kashgar è «l'esempio meglio conservato di città tradizionale islamica in Asia centrale», scrive lo storico e architetto George Michell nel suo saggio Kashgar, città-oasi sull'antica Via della Seta cinese. Ma oggi il destino della Città Vecchia è simile a quello dei "centri storici" di altre città cinesi, da Pechino a Lhasa. I minareti, le torri, gli stretti vicoli e le case di fango e paglia di Kashgar come gli "hutong" della capitale, il labirinto di viuzze e piccole case a un piano che caratterizza il centro di Pechino. Demoliti per far spazio a "nuovi" centri storici, moderni e turistici. D'altra parte l'architettura cinese, caratterizzata dall'utilizzo di materiali deperibili come il legno, non è mai stata concepita come ricordo del passato. Ed è in questa tradizione che si colloca il progetto di ricostruzione di Kashagar.
Un piano da 400 milioni di dollari, che comporterà la demolizione di almeno l'85% della Città Vecchia. Il governo motiva la decisione con la necessità di sostituire le vecchie abitazioni con nuove case, costruite secondo i moderni sistemi antisismici - nell'ottobre 2008 un terremoto di magnitudo 6.8 ha colpito una zona a qualche centinaio di chilometri dalla città - così da mettere al sicuro la popolazione. Almeno tredicimila famiglie dovranno lasciare le loro abitazioni, trovando riparo nei nuovi e moderni palazzi della periferia. Ma nel caso di Kashgar la demolizione del antico centro urbano porta con sé significati diversi. Non è solo la modernità che avanza, è il simbolo della distruzione di una cultura, quella uighra, che considera la città la sua culla.
Annessa all'impero cinese sotto la dinastia Qing, intorno alla seconda metà del Settecento, e per questo chiamato Xinjiang, Nuova frontiera, la regione è stata da allora scossa da pulsioni autonomiste. Con la caduta dell'impero cinese nel 1912, il Turkestan orientale, come gli uiguri chiamano la propria terra, ha conosciuto per ben due volte l'indipendenza: la prima nel 1933; la seconda nel 1944. Un'esperienza dalla vita breve, che nel 1949 venne presto reincorporata nella neonata Repubblica popolare cinese di Mao Zedong, per diventare nel 1955 Regione autonoma.
Fino agli anni Sessanta la regione era abitata quasi esclusivamente da uighuri, circa il 75% della popolazione, mentre pochi erano i cinesi "han", solo il 6 percento. Una situazione che ha portato gli uighuri a rifiutare il proprio stato di "minoranza nazionale" all'interno delle Repubblica popolare cinese. La massiccia immigrazione di cinesi "han", iniziata negli anni Ottanta e proseguita poi con la campagna "per lo sviluppo dell'Ovest", ha modificato gli equilibri demografici della regione. Dei 18 milioni di abitanti censiti nel 2000, il 45% è uiguro, mentre il 40% è di nazionalità "han". La regione ha assistito ad un progressivo processo di sinizzazione, percepito come una minaccia dell'identità e della cultura uighura. Senza dubbio le differenze culturali, religiose, storiche e linguistiche sono più marcate rispetto ad altre minoranze nazionali della Cina. Ed è l'impossibilità a trattare queste differenze che viene denunciata dai leader uighuri.
Rebiya Kadeer, in esilio negli Stati Uniti parla di ritorno agli anni della Rivoluzione culturale. Denuncia le limitazioni all'uso della lingua uigura, allo studio della storia del suo popolo. Chi si dedica a questi argomenti rischia di essere accusato di separatismo. Lo stesso utilizzo del termine Turkestan orientale può essere pericoloso. In questo contesto di scontro tra centro e periferia, tra cultura cinese e uigura, non stupisce perciò il radicalizzarsi di alcune posizioni. Sono soprattutto i giovani a riscoprire una forte identità, motivati dalle difficoltà ad accedere ai posti di lavoro se non si conosce bene il cinese, o dall'impossibilità di poter professare liberamente la propria fede, l'islam.
La demolizione di Kashgar, città simbolo per il Turkestan orientale perciò sembra rappresentare la distruzione della cultura uighura.

Repubblica Firenze 12.7.09
Da Petra a Shawbak
L’antica città che riemerse dal deserto
Limonaia di Boboli. Una mostra sulle scoperte degli archeologi fiorentini
di Paolo Russo


Una storia millenaria di frontiere, di romani, bizantini, arabi, crociati, mamelucchi, ayubidi e magnifiche città perdute al confine fra Occidente mediterraneo e Medioriente sulle antiche rotte dei grandi commerci fra Egitto e Siria. È Shawbak il fulcro di questa storia: la città-castello riemersa dal deserto a sud della Giordania grazie ai vent´anni di ricerche della missione archeologica dell´Università di Firenze, che ha a lungo indagato anche Petra. La cui storia è strettamente legata a quella di Shawbak, che ne risulta esser stata l´erede politica, economica, militare e amministrativa nel ruolo di posto di controllo dell´intera Transgiordania meridionale, fra mar Morto e Mar Rosso, sul leggendario confine del Limes Arabicus dell´età antica, il confine fra Impero romano e Arabia. La mostra Da Petra a Shawbak. Archeologia di una frontiera, alla Limonaia di Boboli con la curatela di Guido Vannini, ordinario di Archeologia medievale a Firenze, ripercorre ora quella avvincente storia fino all´epoca medievale, quando Shawbak fu prima castello del re crociato di Gerusalemme Baldovino I e poi la raffinata capitale islamica voluta da Saladino. La storia dunque di un luogo mobile nella sua identità quanto nell´appartenenza, il cui destino fu profondamente segnato dal variare delle frontiere di quel deserto così pieno di vita e di segni dell´uomo: una storia che finalmente può ora essere scritta grazie all´accordo fra Dipartimento di Antichità della Giordania e Università di Firenze (promotori della mostra insieme a Ente Cassa e Polo Museale), che integra ricerca archeologica, restauro conservativo e valorizzazione (Shawbak è già ottimamente avviata a una nuova vita turistica) e impegna la missione fiorentina negli anni a venire in una delle più rilevanti zone del Medioriente medievale. Del quale si possono ammirare in mostra preziosi reperti di ottima fattura e assai ben conservati legati al culto, alla vita quotidiana, alle attività militari, accompagnati da testi esaurienti e saggiamente divulgativi (ma un po´ troppo numerosi: c´è il rischio di non farcela a leggerli tutti), incorniciati in allestimento dominato da magnifici fotocolor di grandi dimensioni dei luoghi; da segnalare il percorso multisensoriale predisposto per non vedenti, ipovedenti e non udenti.

Corriere della Sera 12.7.09
Una «Colazione sull’erba» Avventure di un capolavoro
Risponde Sergio Romano



Sono tornata dalla Russia, dove ho visitato il museo Pushkin a Mosca. Tra i tanti quadri impressionisti si trova le «Déjeuner sur l’herbe» di Claude Monet, ma io sono sicura di aver visto lo stesso quadro, grande da riempire una stanza tutta sua, al Museo de la Gare d’Orsay di Parigi qualche anno fa. I russi ritengono di possedere questo quadro dalla fine dell’Ottocento. Ho cercato delucidazioni su internet. Un sito lo colloca al Pushkin di Mosca, un altro al Museo della Gare d’Orsay. Magari lei ne sa qualcosa di più e mi può illuminare.
Monika Tosti 

Cara Signora, 
Le colazioni sull’erba, tradizionale svago del­la borghesia francese soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, sono state il tema di numerosi quadri. L’archetipo è il «déjeuner» di Edouard Ma­net che fece scandalo al Sa­lone del 1863. Manet si era ispirato al Concerto campe­stre di Tiziano e, per la di­sposizione dei personaggi, a una incisione di Raffaello. Ma aveva vestito i due uo­mini in abiti moderni e col­locato accanto a loro una donna nuda che, il volto so­stenuto dalla mano destra, guarda maliziosamente lo spettatore. Quel nudo par­ve incongruo, se non osce­no, e provocò il veto degli organizzatori del Salon. Ma divenne famoso quando fe­ce la sua apparizione, nelle settimane seguenti, al Salo­ne dei respinti (il Salon des réfusés) insieme a opere di Claude Monet, Camille Pis­sarro, James Whistler.
Due anni dopo, nella pri­mavera del 1865, Monet de­cise di riprendere il tema, forse per rendere omaggio all’amico Manet, forse per dimostrare che anch’egli era capace di affrontare una grande composizione con figure e paesaggi. Co­minciò con alcuni grandi schizzi, uno dei quali finì per l’appunto al Museo Pu­shkin di Mosca, e s’impe­gnò finalmente in un’opera di straordinarie dimensio­ni( 4 metri per 6) che fu per molto tempo la sua passio­ne e il suo incubo. Afflitto da difficoltà economiche e probabilmente insoddisfat­to, dette infine il quadro in pegno al padrone di casa che lo arrotolò e lo mise in cantina. Quando poté recu­perarlo, parecchi anni do­po, Monet constatò che al­cune parti del dipinto era­no state guastate dalla muf­fa, e divise l’opera in tre frammenti. Due di essi ven­nero comperati dallo Stato francese e sono oggi al Mu­seo della Gare d’Orsay, il terzo è andato perduto. Se lei potesse confrontare il quadro di Parigi con quello di Mosca, scoprirebbe che nel primo, a sinistra della si­gnora seduta sull’erba al centro del dipinto, vi è un personaggio che non appa­re nel secondo. È un uomo robusto, il volto coperto da una grande barba, che asso­miglia straordinariamente a Gustave Courbet. Si dice che il grande Courbet, nel­l’inverno fra il 1865 e il 1866, abbia fatto visita a Monet nel suo studio e che questi, lusingato, lo abbia inserito nel dipinto.
Un’ultima informazione. Il Monet del Pushkin appar­teneva alla collezione di Ser­gej Ivanovic Shukhin, l’uo­mo che insieme a Ivan Abra­movic Morozov riunì a Mo­sca, prima della rivoluzione bolscevica, una straordina­ria raccolta di opere dell’im­pressionismo francese. Sco­prì Monet durante un viag­gio a Parigi del 1897 e gli comprò tredici quadri fra cui lo schizzo che lei ha vi­sto a Mosca. Nazionalizzate da un decreto di Lenin, le opere delle due collezioni furono esposte per qualche anno in un Museo dell’arte occidentale, aperto a Mosca nel 1922, e divise poi fra il Pushkin e l’Ermitage di Le­ningrado. Ma rimasero na­scoste al pubblico sino alla morte di Stalin e riapparve­ro fra il 1954 e il 1955.

sabato 11 luglio 2009

l’Unità 11.7.09
La giacca del Presidente
Il Quirinale può rifiutarsi di firmare una legge lo dice la Costituzione, c’è chi lo pretende. In realtà è un potere “debole” e poco usato
di Tania Groppi


Nella democrazia maggioritaria e conflittuale alla quale è approdata la lunga transizione italiana, guardare in modo salvifico al Colle più alto, invocando un intervento del Capo dello Stato che ponga freno allo strapotere di una maggioranza onnipotente e la riporti nell’alveo della Costituzione è diventata un’abitudine.
Ciampi prima, Napolitano poi, sono stati di frequente “tirati per la giacchetta” dall’opposizione, invitati più o meno pesantemente a usare i propri poteri di garanzia: l’autorizzazione alla presentazione al Parlamento dei disegni di legge governativi, la promulgazione delle leggi, l’emanazione degli atti normativi del governo.
Dei tre poteri, è soprattutto la promulgazione delle leggi ad essere al centro dell’attenzione: quasi non c’è legge importante sulla quale non si chieda al Presidente di “non firmare”, utilizzando la possibilità di rinviarla alle camere per un nuovo esame. L’esperienza tuttavia ci mostra (emblematico il caso, nel luglio 2008, della “legge Alfano”, fulmineamente promulgata dal Presidente nonostante le molteplici richieste di rinvio, non in ultimo quella di cento costituzionalisti) che assai raramente queste pressioni hanno successo: non è una novità, se già nel 1953 il presidente Einaudi promulgò la cosiddetta “legge truffa” e lo stesso fece Ciampi con la legge elettorale del 2005.
I presidenti hanno sempre usato con grande prudenza il potere di rinvio. A partire dal primo caso, Einaudi nel 1949, i rinvii sono stati soltanto 59: in particolare 23 fino al 1983 e 36 dal 1983 ad oggi, con un incremento significativo nelle presidenze Pertini (7) e Cossiga (ben 22, di cui 15 negli ultimi 19 mesi di mandato). I motivi del rinvio, che la Costituzione lascia indefiniti rimettendoli alla discrezionalità del Presidente, hanno riguardato in ben 36 casi la violazione dell’articolo 81.4 della Costituzione, ovvero la norma che impone alle leggi di spesa di indicare la copertura finanziaria. Al di fuori di questo settore (nel quale tra l’altro il controllo della Corte costituzionale è molto difficile), i rinvii si contano sulla punta delle dita: se si escludono i 13 di Cossiga ne restano due di Einaudi, uno di Leone, uno di Scalfaro e cinque di Ciampi. Proprio la prassi della presidenza Ciampi è la più interessante: nonostante il Presidente abbia affermato (rispondendo alla domanda di una studentessa in un dibattito pubblico a Berlino, nel 2003) di poter utilizzare il rinvio soltanto in caso di «manifesta non costituzionalità» della legge, ha poi compiuto rinvii dettagliati e di grande peso, come nel caso della legge Gasparri sull’emittenza radiotelevisiva e della riforma dell’ordinamento giudiziario.
Dietro questa cautela c’è la considerazione che il potere di rinvio sia “un’arma spuntata”. Esso sconta limiti pesanti, proprio sulla base delle previsioni costituzionali: il Parlamento può infatti superare il rinvio con una nuova deliberazione a maggioranza semplice, lasciando la legge immutata (anche se le leggi riapprovate senza alcuna modifica sono solo 8 su 59), o apportando poche modifiche formali che non soddisfano i rilievi presidenziali. Non si tratta di un’ipotesi di scuola: i più importanti rinvii della presidenza Ciampi hanno prodotto meri ritocchi, senza intaccare l’essenza dei testi rinviati. A questo punto il Presidente è comunque obbligato a promulgare, tranne (secondo la dottrina, non essendosi mai in concreto realizzata l’ipotesi) qualora la legge sia tale da attentare ai principi supremi dell’ordinamento, nel qual caso egli potrebbe rifiutarsi, aprendo la via ad un drammatico conflitto istituzionale. Non è quindi difficile capire perché spesso i presidenti (non ultimo Napolitano, che non ha ancora operato alcun rinvio, pur avendo rifiutato di emanare un decreto-legge, nel caso Englaro) preferiscano incidere sulla produzione legislativa con il complesso di strumenti informali che vanno sotto il nome di “moral suasion”, spesso più efficaci. Tuttavia, anche qui non mancano i problemi, muovendosi in una zona sottratta al controllo dell’opinione pubblica, nella quale diventa difficile individuare le responsabilità. In definitiva, si ripropone, con estrema urgenza e attualità, il vero problema: quello delle nuove esigenze di garanzia che implica l’evoluzione della nostra forma di governo. Esigenze che né il rinvio presidenziale né la “moral suasion” possono soddisfare. Soltanto un ripensamento delle garanzie costituzionali nel loro complesso (che comprenda anche nuove vie d’accesso alla Corte costituzionale da parte delle minoranze parlamentari) può alleggerire il compito immane che oggi grava sul Presidente e contribuire a preservare la legalità costituzionale dalle aggressioni alle quali è sempre più sottoposta.

Corriere della Sera 11.7.09
Il candidato Pd Il chirurgo da anni segue i progetti nei Paesi poveri: «Attenzione all’effetto annuncio»
Marino: «Con 5 dollari si salva una vita»
di M.Antonietta Calabrò 



ROMA — Pochi sanno che Ignazio Marino, (Pd), chirurgo di fama in un settore della me­dicina «ad alta tecnologia», si è sempre inte­ressato anche della medicina nei Paesi in via di sviluppo, quella che con cure a basso costo salva la vita a milioni di persone. Ha fondato un’organizzazione non governativa in Hondu­ras, «Imagine», dal titolo della canzone di John Lennon. Come senatore ha seguito gli in­terventi del Global fund, per l’aiuto a 140 Pae­si, istituito al G8 di Genova.
«Sono soddisfatto - concede Marino riferen­dosi ad un aumento del 50 per cento dell’impe­gno italiano in materia sanitaria - , ma, secon­do me, siamo nuovamente all’effetto annun­cio. Certamente è stata aumentata la promessa di fondi, ma fino a ieri, venerdì 10 luglio 2009, non è stato speso neppure un dollaro degli aiu­ti a cui l’Italia si era impegnata per quest’anno. Quindi, adesso, non capisco come faremo a spendere in cinque mesi oltre duecento milio­ni. O meglio chiedo a Berlusconi: quando ver­ranno spesi i fondi previsti per il 2009, dal mo­mento che siamo già a metà luglio?».
Marino è però preoccupato soprattutto dal­l’impatto che i ritardi nel versamento degli aiuti possono avere sulle popolazioni bisogno­se. «Ogni dollaro non speso, ogni ritardo ­spiega il senatore del Pd - , sono vite umane perse. Le faccio un esempio. Bastano cinque dollari per comprare una zanzariera trattata con repellenti (che ha efficacia per 5 anni) che è la migliore prevenzione per la malaria. Con 100 dollari si paga un trattamento contro l’Ai­ds ». E a questo punto emergono le cifre dram­matiche delle malattie considerate i «tre gran­di killer» nel mondo e cioè la malaria, la tuber­colosi e l’Aids.
«Due milioni di Aids, 1,5 milioni di tuberco­losi, due milioni di malaria - dettaglia Marino -. Gli infettati dalla tubercolosi sono due mi­liardi, cioè un terzo della popolazione mondia­le ». E poi il dato più drammatico: «Solo in Africa, per la malaria, ogni giorno muoiono 3.000 bambini, bambini sotto i cinque anni. E’ una cifra mostruosa». Secondo il chirurgo-senatore non sarebbe «la prima volta che l’Italia non fa quello che dice. E’ già successo nel 2005, nel 2006 e nel 2007. Con le ultime tre Finanziarie del gover­no Berlusconi che ha preceduto il governo Prodi si erano accumulati 280 milioni di dolla­ri di arretrato italiano». Una situazione a cui avrebbe posto rimedio «il ministro degli Este­ri D’Alema che per recuperare ha dovuto stan­ziare 400 milioni di dollari nel 2008».
C’è la questione sostanziale delle vite uma­ne perse, ma c’è n’è anche una di credibilità internazionale. «Certamente, tanto più che nel 2001 a Genova l’Italia aveva promesso di essere il secondo donatore in assoluto del Glo­bal fund, dopo gli Stati Uniti - ricorda Marino -. Per questo avevamo ottenuto un posto nel consiglio di amministrazione del Fondo. La Francia (che ha donato quest’anno 450 milio­ni di dollari) e la Spagna (215) nominano inve­ce un consigliere in comune. Finirà che recla­meranno il nostro posto». 


Repubblica 11.7.09
Ma il leader storico è prudente: "Non vogliamo mettere il cappello su Ignazio e magari aumentare le sue difficoltà"
Radicali: "Doppia tessera per Marino"
Pannella contro il divieto dei Democratici, Rutelli apre. Mina Welby si iscrive
di Giovanna Casadio


Per lo scienziato-senatore il primo ostacolo è ottenere l´appoggio del 5% degli iscritti

ROMA - Marco Pannella, il leader radicale, protesta con Rutelli: «Non capisco perché voi Democratici vietate la doppia tessera...». Francesco Rutelli, ultimo segretario della Margherita e leader democratico, apre: «Se gli obiettivi sono gli stessi, se non sono contrastanti», perché no; anche se «il divieto nasce da un´esigenza di lealtà che però non deve essere irregimentazione». Dialogo tra i due a Radioradicale. I Radicali sono molto tentati dal sostegno a Ignazio Marino, e sul web parte un tam tam, in vista del tesseramento (che si chiude tra dieci giorni) per il congresso. Mina Welby, la vedova di Piergiorgio, si schiera e, «come atto di disobbedienza civile contro il divieto della doppia tessera», lei radicale prende quella democratica. Oggi sarà con Marino (e con Beppino Englaro) al Rototom Sunsplash festival reggae a Osoppo.
L´appoggio dei Radicali allo scienziato-senatore - ora sfidante di Dario Franceschini e Pierluigi Bersani per la leadership del Pd - non si spinge fino a fare una lista ad hoc. «Oddio, da noi tutto può succedere, se alcuni decidono, auguri - replica Pannella - Non vogliamo mettere il cappello su Ignazio e magari aumentare le sue difficoltà, però ai radicali lui piace molto» Inoltre, «la vittoria di Marino sarebbe un grosso contributo a una riforma del Pd, sarebbe un fatto positivamente traumatico». Il feeling tra il Pr e lo scienziato, in prima linea nelle battaglie laiche sulle questioni bioetiche e dei diritti civili, è di vecchia data: «C´è una profonda sintonia». Pannella è convinto che effettivamente alle primarie, se supererà la soglia del 5% prevista al congresso, Marino avrà il popolo dalla sua. E Marco voterà per Ignazio? «Vedremo , non lo escludo però voglio prima vedere il percorso. E poi, detto senza acrimonia né sufficienza vorremmo un Pd più anglosassone. Stiamo comunque dando una mano al dibattito con queste trasmissione, dopo Franco Marini e Rutelli, per i quali sono state fatte trasmissioni ad hoc, potrebbero venire Franceschini e Bersani...».
La partita in questo momento si gioca sul tesseramento, saranno i tesserati entro il 21 luglio a votare nei circoli le diverse mozioni presentanti dai candidati. Secondo i dati che circolano nel partito i tesserati sarebbero 470 mila più 7 mila tessere online e le regioni pià arretrate rispetto agli obiettivi del tesseramento sarebbero quelle del Nord, oltre al Molise. È qui che potrebbero entrare in gioco doppia tessera e Radicali.
I supporter di Marino, in particolare i "piombini" cioè il gruppo dei trenta-quarantenni, hanno lanciato la mobilitazione per il tesseramento soprattutto sui blog, Giuseppe Civati, che della mozione-Marino è coordinatore, invita nel suo blog a iscriversi e a segnalare eventuali difficoltà ad avere la tessera. Paola Concia fa di più, e sul blog indica il numero telefonica della sua segreteria alla Camera per il supporto pratico.
Al programma sta lavorando in questi giorni il segretario uscente e ricandidato, Franceschini oltre alla ricerca del luogo in cui presentarlo. Doveva essere Prato, la città persa dal centrosinistra dopo 63 anni e dove forte si è abbattuta la crisi. Ma l´ipotesi è tramontata, e probabilmente la kermesse di Franceschini sarà a Roma.

l’Unità 11.7.09
Il Pd stoppa la doppia tessera
«Non si può fare»


La prima è stata Mina Welby: in tasca la tessera radicale, si è andata a iscrivere al Pd, vicino casa. Roma, quartiere Tuscolano, circolo Subaugusta. Obiettivo: sostenere la candidatura di Ignazio Marino. E a quanto pare - secondo le segnalazioni arrivate al suo staff - ha già fatto proseliti. Ma il Garante Luigi Berlinguer conferma che né la sua né le altre iscrizioni potranno essere confermate. A meno di non modificare lo statuto che non consente la doppia tessera. Ma per farlo bisognerebbe convocare l’assemblea nazionale. E a questo punto - spiega Berlinguer - non c’è più tempo né modo per farlo. MA.GE.

l’Unità 11.7.09
L’antagonista «ombra» di Marino e la sua idea di laicità
«Su temicome questo significa il rispetto delle diverse posizioni»
Spina etica per il Pd, Binetti con Buttiglione contro l’aborto
di Susanna Turco


Coi centristi per «ammortizzare» gli effetti della 194. E contro Marino, perché la sua posizione sul ddl Calabrò non diventi «l’unica del Pd». Così, la Binetti sfida il Pd a «dimostrare la sua laicità».

La teodem per eccellenza del Partito democratico aveva avvertito tutti per tempo. «Se si candida Ignazio Marino, mi candido anche io». Era il 12 giugno, appena dopo le europee. Ma Paola Binetti, una che dalle battaglie contro la 194 in poi di tutto si può incolpare tranne che di incoerenza, aveva già le idee chiare. Sapeva che, se il fronte del dibattito del Pd si fosse spostato sui temi etici, lei sarebbe stata lì pronta, col suo filo da torcere.
E oggi che, tra una polemica sul fine vita e un duello in punta lama su laicità e «posizione prevalente», il suo profilo (toh, la Binetti) ricomincia a stagliarsi sugli assetti del centrosinistra come ai tempi in cui deteneva al Senato la golden share della sopravvivenza del governo Prodi, la numeraria dell’Opus Dei non fa altro che dar corpo a quell’annuncio.
Si muove e parla infatti come una candidata ombra al congresso del Pd. Contro Marino, anzitutto. Non per contendere la «leadership organizzativa», «per la quale ci vogliono competenze e strutture che non ho», bensì per conquistare la «leadership morale del partito», ossia «valorizzare quei valori cattolici di cui il Pd ha bisogno»: tutte cose già dette in sordina un mese fa.
L’anti-Marino
Tutte cose che la Binetti conferma tanto più adesso, sotto forma di un suo «forte impegno personale per il bene del partito»: «Perché certo, la candidatura di Marino comporta il rischio che tutte le posizioni sul tema della laicità si spostino a sinistra: un motivo in più per sostenere con maggior forza le mie convinzioni, ed evitare che finiscano nell’angolo», ragiona.
Con una mano, intanto, puntella in commissione Affari sociali il ddl Calabrò sul fine vita, da lei condiviso nella sostanza e per il quale si augura una approvazione «tempestiva ma non precipitosa». E, con l’altra, sostiene alla Camera la mozione del centrista Buttiglione per «una iniziativa per la moratoria contro l’aborto»: un testo semplice, si discuterà lunedì, che porta la firma di sei deputati Udc, più la sua - che non compare in calce «per un disguido». Una mozione che, spiega Buttiglione, «non ha nulla contro la 194». Eppure, aggiunge la Binetti, «naturalmente chiede più attenzioni verso la vita nascente, e dunque anche una applicazione completa di quella legge, come ammortizzatore dei suoi effetti, visto che oggi la 194 non può essere toccata: provocherebbe troppe divisioni».
Cosa abbia tutto ciò in comune con la laicità «sacra e indiscutibile» appena proclamata da Franceschini, è la stessa Binetti a spiegare. «Su temi così, laicità significa precisamente rispetto delle diverse posizioni. Dunque, quanto il Pd sia laico lo verificheremo nei fatti, sul fine vita per esempio». Di certo, c’è che lei si «batterà» perché la «posizione prevalente di Marino» non diventi «unica ed esclusiva». «Non permetteremo che accada», ha detto ieri in un convegno. Parole che da sole valgono una mozione congressuale.

il Riformista 11.7.09
Laicità va cercando anche il Pd
di Ritanna Armeni



La candidatura di Ignazio Marino per la segreteria del Pd ha un merito e, insieme, mostra un limite.
Il merito consiste nella possibilità di riportare il tema della laicità al centro del dibattito del partito. Il Pd sui temi della laicità è stato spesso insufficiente, timido, propenso alla mediazione prima che all'approfondimento. E lo è ancora oggi. Ne è spia la preoccupazione mostrata da Dario Franceschini per il quale quella di Marino è «una candidatura che divide». I suoi timori e le sue incertezze hanno contribuito non poco alle sconfitte che si sono susseguite su questioni fondamentali: la legge sulla fecondazione assistita, i diritti delle coppie omosessuali, il testamento biologico. Temi importanti, sui cui si forma la cultura e il comune sentire di un Paese e la cui soluzione non può essere influenzata dalla necessità di mediare con le gerarchie ecclesiastiche prima di fare un esame delle esigenze poste dalla società e dei nuovi orizzonti proposti dalla scienza.
Il limite (che non è di Marino ma della situazione in cui si trova il Pd) sta nel fatto che per riportare i temi della laicità nella composizione della identità del Pd si è ricorsi a una candidatura alla segreteria, come se ormai fosse impossibile costruire una parte importante del volto di un partito senza ricorrere all'immagine di un leader, senza riportarla alla contesa fra uomini (e qualche donna). Insomma la candidatura di Marino mostra l'incapacità grave in un'organizzazione politica di parlare di contenuti, magari in forma anche aspra, senza introdurre l'elemento della personalizzazione leaderistica.
Comunque, immaginiamo si possa riaprire il negletto capitolo laicità e si possa discuterne in modo approfondito evitando gli errori passati. Il primo da evitare è la stucchevole differenza ormai in voga (l'ultimo a riproporla è stato Piero Fassino) fra laicità e laicismo. Dove il laicismo è termine negativo e la laicità positivo. Il primo evoca radicali e mangiapreti. I laicisti un po' come i comunisti negli anni 50. Quelli mangiavano i bambini, questi uccidono gli embrioni e non hanno una cultura della vita. Il secondo indica ragionevolezza, mediazione con il mondo cattolico, moderazione nei contenuti, rapporto imprescindibile con la Chiesa. Come si vede la distinzione, proposta da un teocon come Marcello Pera, a seconda dei punti di vista, getta una luce negativa su entrambi i termini.
Il secondo errore da evitare è quello di pensare che il concetto di laicità possa rimanere sempre uguale a se stesso. Che la laicità del terzo millennio non abbia nulla di diverso da quella novecentesca o da quella ottocentesca. Che sia un residuo di queste, o che costituisca il suo spontaneo prolungamento. Non è così. Anch'essa va ripensata alla luce delle novità politiche e sociali. In un mondo in cui le religioni hanno acquistato nel bene e nel male una così grande importanza (imprevista fino a qualche anno fa) uno Stato laico non può che essere includente, cioè garantire l'espressione dello spirito religioso senza pregiudizi o chiusure. Compito duro, ma necessario, nel momento in cui la globalizzazione fa convivere negli stessi confini uomini e donne che praticano diverse fedi e hanno con esse un diverso rapporto. La laicità del terzo millennio non è la negazione di valori o l'adeguamento a un'anarchia etica e a un edonismo privo di responsabilità, ma è la ricerca di valori in un mondo che è divenuto molto più complicato in seguito al progresso scientifico, alla convivenza stretta nei nostri territori di diverse religioni e culture, a una più complessa distinzione fra bene e male. Come si risolve il problema del rispetto delle scelte religiose quando calpestano i diritti umani? Come si affrontano i nuovi confini fra la vita e la morte? Mettere paletti, distinguere fra bene e male, fra giusto e ingiusto per il bene del singolo e dell'umanità è oggi un compito necessario per un'etica laica, che non può supinamente accettare l'esistente (né quello della ricerca scientifica e delle tecnologie né quello dello stravolgimento dei diritti della persona legati alla religione) e che non ha come come àncora il messaggio rivelato di un soprannaturale.
Essere laici oggi è un percorso di dubbio e di ricerca. Con un consapevole e fortissimo senso del limite. I laici devono anche accettare di non trovare la soluzione giusta in assoluto ad un problema, ma, sicuramente, possono e devono trovare la soluzione meno dolorosa, meno dannosa e più rispettosa. Possono sostenere a esempio una legge sull'aborto che limiti il più possibile danni e dolore, senza pretendere di intervenire sul rapporto di ciascuno con la vita e con la morte.
Un partito di sinistra ha il dovere di percorrere la strada della laicità. Sapendo che l'uso del dubbio, della critica, il senso del limite non possono intaccare la determinazione ad andare al fondo dei problemi. Oggi la laicità non riguarda solo il rapporto con la Chiesa, ma innanzitutto il rapporto che gli uomini e le donne hanno con se stessi e fra di loro, il tipo di relazione che vogliono costruire, le regole che vogliono darsi. Un partito che vuole essere nuovo e moderno può prescindere da tutto questo? No. Su questo si misurano gli elementi di novità e di gioventù e non sull'età anagrafica di uomini e donne.

il Riformista 11.7.09
Conti in rosso
Prc in bolletta taglia i dipendenti
di Mattia Salvatore



Vento di crisi economica a Rifondazione Comunista. I conti non sono in rosso, peggio. E i dipendenti saranno i primi a pagarne le conseguenze. Le cifre sono da brivido: nel 2008 il partito ha chiuso con un buco di 500mila euro e quest'anno la stima prevista è ancor più gravosa, arriva a 2 milioni. Il Prc campa grazie ai rimborsi statali per le elezioni a Camera e Senato del 2006. Nel 2008 la batosta della Sinistra Arcobaleno e alle europee la lista Comunista, pur avendo miglior sorte, non ha ottenuto nessun rimborso perché l'asticella fissata al 4%. Prima della legge votata in fretta e furia l'anno scorso al Parlamento era al 2. Uno dei motivi per cui il segretario Paolo Ferrero è nero dalla rabbia. Ora si trova costretto, a malincuore, a tagliare posti di lavoro.
Come qualsiasi altra impresa in stato di crisi. Anzi, forse anche peggio perché i dipendenti di partito non godono dello statuto dei lavoratori, quindi possono esser mandati per strada senza alcun problema. Dai 125 attuali si dovrà scendere a non più di 40. Per i licenziati la direzione del Prc ha previsto una buonuscita: 7mila euro per chi ha lavorato meno di 56 mesi, invece per chi supera questa soglia spetta una mensilità per ogni anno di servizio. Il piano al momento non è stato sottoscritto dalla maggioranza dei lavoratori tra cui monta il malcontento. M., quarantenne, ha diciotto anni di lavoro alle spalle nel Prc e adesso si troverà con quasi 30mila euro in tasca ma senza alcuna possibilità di futuro. Come lui molti altri. «Mi sembra di rivivere il caso Alitalia - denuncia qualcuno - I manager hanno portato l'azienda al fallimento e poi loro hanno buonuscite profumate mentre a rimetterci sono i lavoratori». Altri ricordano a Ferrero la battaglia sull'estensione dell'articolo 18. Tanto che per Vittorio Mantelli, responsabile del dipartimento Inchiesta, bisogna fare una battaglia politica per «estendere lo statuto dei lavoratori anche agli stipendiati di partito, bisogna fare pressioni su Fini perché spiga il Governo a fare subito un decreto». A sentire il tesoriere Sergio Boccadutri la situazione è ancor più grave: «Da aprile 2010 andranno per strada anche i dirigenti, perché toccheremo il fondo - dice - Quelli allontanati ora almeno avranno una buonuscita». Per risalire si punta alle regionali dell'anno prossimo, dove basta un eletto per avere il rimborso, e a ridurre le spese. «Sarò molto più rigoroso sui rimborsi spese», aggiunge Boccadutri, che tra le voci in entrate menziona «la valorizzazione del patrimonio». Forse il trasferimento in una sede più modesta. Poi c'è il capitolo Liberazione, un passivo gravoso per Rifondazione che per salvarla ci ha già rimesso 10 milioni in 5 anni.
Il 16 luglio ci sarà un incontro tra Fnsi, Fieg e redazione per valutare un piano di ridimensionamento: giornale a 12 pagine, riduzione dei redattori da 33 a 16 con contratti di solidarietà e rilancio del web le proposte sul tavolo. Per gli altri dipendenti ci sarebbero prepensionamenti e cassa integrazione. «Capiamo lo stato di crisi ma il ridimensionamento è eccessivo», afferma il cdr di Liberazione, il quale non ha comunque intenzione di alzare muri, «vogliamo però che ci sia un piano di rilancio che adesso manca». Infine una grana tutta romana: la città è piena di manifesti «Rifondazione è come i padroni, non paga i lavoratori». Ad affiggerli una cooperativa di attacchinaggio «Zona Rossa» che da anni lavora per il Prc. Nel 2008 ha lavorato per la campagna elettorale della Sinistra Arcobaleno, fatturando alla fine 70mila euro. Soldi che non sono mai arrivati perché la federazione capitolina, scossa da scissioni, ha un buco di 300mila euro. Pare addirittura che il bilancio in rosso del partito sia finito nelle aule dei tribunali.

Corriere della Sera 11.7.09
Diplomazia Il termine «Judenrein» nel colloquio con il tedesco Steinmeier
Israele, polemica su Netanyahu Ha usato una parola nazista
Il premier: la Cisgiordania non sarà «ripulita dagli ebrei»
di Davide Frattini


GERUSALEMME — La pa­rola lo avrebbe lasciato sen­za parole. Frank-Walter Steinmeier ha annuito senza replicare, quando Benjamin Netanyahu ha evocato la pu­lizia etnica nazista contro gli ebrei per difendere gli inse­diamenti in Cisgiordania. «I territoripalestinesinonpos­sono diventare juden­rein», ha dichiarato il pri­mo ministro israeliano al­l’ospite diplomatico che più di tutti è ipersensibile al ter­mine. «Non ha detto nulla. Che altro poteva fare?», ha raccontato un consigliere del premier.
Il ministro degli Esteri te­desco ha parlato, dopo il ri­torno ieri in Germania (è sta­ta la quattordicesima visita nella regione). E ha ripetuto la posizione europea e ame­ricana: «Le possibilità di rag­giungere un accordo di pace sono le migliori degli ultimi quindici anni. Bisogna trova­re una soluzione e non sarà possibile fino a quando le co­lonie continuano a essere in­grandite ». Quella di Netanyahu non è stata una gaffe. Il governo ha inserito «judenrein» nel vocabolario da usare per contrastare l’offensiva della comunità internazionale. Il premier ha incitato i mini­stri a usarlo per sostenere le costruzioni in Cisgiordania e la richiesta che i palestine­si riconoscano Israele come Stato ebraico. Il vice Dan Me­ridor ha invitato i giornalisti stranieri a chiedere «se i pa­lestinesi permetteranno agli ebrei di vivere tra loro o se invece sarà proibito. Juden­rein: così è stato chiamato in altre nazioni». Il giorno dopo la frase è stata ribadita da un parlamentare del Likud. «Netanyahu ha dimo­strato orgoglio nazionale», lo ha lodato Arieh Eldad, de­putato dell’estrema destra.
La strategia è criticata da chi come Avi Primor ha rap­presentato Israele in Germa­nia (è stato ambasciatore fi­no al 1999). «Una mossa sba­gliata, proprio con il mini­stro del Paese che ha com­piuto un profondo esame di coscienza sul passato. Dob­biamo stare attenti a non ba­nalizzare il ricordo dell’Olo­causto. In Europa si oppon­gono all’occupazione, nessu­no è contrario al fatto che in futuro gli ebrei vivano in uno Stato palestinese». «E’ un errore associare ad altri gli orrori commessi dai nazi­sti — commenta Zalman Shoval, ex ambasciatore a Washington —. I palestinesi sono contrari ad accettare il riconoscimento di Stato ebraico come precondizione per non pregiudicare le trat­tative sul ritorno dei rifugia­ti ».
I primi cento giorni di go­verno sono stati segnati dal­le schermaglie con gli ameri­cani sul blocco delle colo­nie. Avigdor Lieberman, il ministro degli Esteri e lea­der del partito ultranaziona­lista Israel Beytenu, si è tira­to fuori dalle trattative con una spiegazione che ai com­mentatori è sembrata solo sarcasmo: «Vivo a Nokdim (un insediamento a sud di Betlemme, ndr) e potrei es­sere accusato di conflitto d’interessi».

Corriere della Sera 11.7.09
Lessico hitleriano
Judenrein


Letteralmente «ripulito dagli ebrei», o meglio ancora «purificato», Judenrein è un termine dell’ideologia nazista degli anni ’30 e ’40 spesso scambiato con il più comune Judenfrei («libero dagli ebrei») Il glossario della Shoah
A differenza di «Judenfrei», la parola «Judenrein» contiene un più esplicito riferimento all’ideologia ariana, perché implica la «purificazione» non solo dagli ebrei, ma anche da qualsiasi traccia di sangue ebraico: al termine di questa «pulizia», nell’aberrante ideologia nazista, sarebbe stata possibile l’arianizzazione della società. Il termine, quindi, è stato identificato con la soluzione finale.
Nel 1941 l’Estonia è stata definita il primo Paese «Judenfrei». In tutta Europa, in nome di quest’ideologia, sono stati uccisi 6 milioni di ebrei

l’Unità 11.7.09
Saint Etienne nel sobborgo di Firminy tre notti di devastazioni dei giovani arabo-francesi
Aveva ventun anni Momo, il ragazzo arabo-francese impiccato in cella. Per la polizia è un suicidio
Francia, altri roghi e rivolte contro la polizia nella Loira
di Rachele Gonnelli


Come nelle banlieue parigine la tranquilla cittadina della Loira di Saint Etienne è messa a ferro e a fuoco dalla rabbia dei ragazzi figli di immigrati. Non credono al suicidio in cella di un loro amico, Mohamed detto Momo.

Tre notti di devastazioni e grida, di macchine e negozi dati alle fiamme, a Saint Etienne nella Loira, sud est della Francia. Una nuova fiammata di rabbia dei giovani arabo-francesi, come nel 2005, come nel 2007. Solo che stavolta non sono le banlieue parigine a rivoltarsi contro la polizia ma i ragazzi dei casermoni firmati Le Corbusier di Firminy, sobborgo di una placida cittadina immersa nella campagna. La rabbia invece è la stessa. Anche questa volta la polizia è sotto accusa per la morte di un ragazzo di appena 21 anni, Mohamed Benmouna, fermato per una sciocchezza, un tentativo di estorsione, e morto in cella in circostanze a dir poco singolari. Fermato e portato in commissariato da cui è uscito lunedì in coma. È morto in ospedale. Sul suo corpo non c’erano segni di violenze, l’autopsia dice «arresto cardiaco per soffocamento». Gli agenti hanno raccontato che il ragazzo si sarebbe costruito una fune con brandelli di lenzuola e vestiti, avrebbe praticato due buchi nella parete di cartongesso della cella e si sarebbe legato e appeso. La telecamera della guardiania è risultata essere rotta, da mesi e mai aggiustata. E soltanto un mese fa Amnesty International ha pubblicato un rapporto in cui accusa la polizia francese di brutalità e abusi verso detenuti in attesa di giudizio soprattutto africani o nordafricani, con casi di sevizie e omicidio come fu l’anno scorso per il sans papier Abou Bakar Tandia, del Mali, morto in cella per ferite multiple, secondo la polizia autoprocurate.
La famiglia di Mohamed si dispera e non crede alla versione della gendarmeria di Chambon-Feugerolles. «Cosa è successo? - vuole sapere il padre Abdelkader, nato in Algeria - dov’erano per tutto quel tempo i poliziotti? E poi la corda, i buchi, non è possibile, voglio delle verifiche». La madre Malika è convinta che suo figlio sia stato picchiato a morte e poi sia stato simulato un suicidio. «Non era cattivo e aveva appena trovato un lavoro». Di certo non ci credono gli amici di Mohamed «aka Momo», cioè alias Momo, il suo nome da tenero nelle bande di graffitari e ballerini free-style per le strade maleodoranti di Firminy. Tra martedì e giovedì notte hanno devastato e dato alle fiamme 32 auto, un centro commerciale con tabaccheria e farmacia, un ristorante. «Urlavano fortissimo e spaccavano tutto - racconta una signora ai microfoni di France2 - ho avuto davvero paura e ho telefonato ai miei figli».
L’inchiesta già quasi chiusa
La polizia ha faticato a respingerli con cariche e gas lacrimogeni. E la sarabanda è durata tre notti. Nove ragazzi sono stati fermati ma ora Brice Hortefeux, ministro dell’Interno, ha promesso «misure di sicurezza eccezionali». La famiglia di Momo ha fatto un appello alla calma e convocato per ieri nel primo pomeriggio un corteo silenzioso. Gli ispettori del Dipartimento di polizia della Loira hanno avviato un’inchiesta interna e riscontrato «disfunzioni» nel commissariato di Chambon. Ma il procuratore Jacques Pin per Momo continua a parlare solo di suicidio.

l’Unità 11.7.09
A Teheran la conta dei morti
«Ma i basiji trafugano corpi dalle morgue degli ospedali»
di Rachele Gonnelli


Sarebbero molti di più dei 20 morti denunciati dalle autorità le vittime della repressione in Iran. I medici raccontano di come le milizie basiji trafugano i corpi e falsificano i referti. Sui blog video delle violenze di ieri l’altro.

Ci sarebbe anche un cittadino statunitense residente a Teheran, tra le persone arrestate ieri per aver partecipato alle manifestazioni di commemorazione del massacro di studenti di dieci anni fa, il 9 luglio. Si chiama Kian Tajbakhsh ed è stato anni fa consulente della fondazione di George Soros, il magnate molto attivo nel sostenere le «rivoluzioni di velluto» dei Paesi dell’est. Haadi Ghaemi dell’associazione internazionale Human Right in Iran ha denunciato alla rivista Time che la polizia ha fatto irruzione in casa sua, sequestrato il suo computer e lo ha messo in arresto.
Secondo il sito Roozonline, collegato agli iraniani d’America, molte persone che sono state arrestate in queste ultime ore e nelle settimane successive alle elezioni per le proteste contro i brogli e Ahmadinejad, sono detenute in condizioni disumane. «Particolarmente in pericolo è Mahsa Amrabadi - scrive Rooz - una giornalista incinta che si dice essere sottoposta a forti pressioni». Bijan Khajehpur, analista economico, arrestato la scorsa settimana all’aeroporto internazionale di Teheran sarebbe «in cattive condizioni di salute, anche a causa dell’insufficienza renale di cui è affetto». Altri testimoni confermano che le autorità carcerarie costringerebbero i detenuti a fornire confessioni di comodo, estorte anche con la tortura.
Basiji style
Sui blog e su Facebook continuano a essere postati numerosi video delle violenze perpetrate per strada contro i dimostranti del 9 luglio. Si vedono di nuovo in azione le milizie Basiji, già responsabili del massacro di dieci anni fa. Vanno ancora in due sulle moto, con i caschi e i bastoni, ma a differenza dei pestaggi subito dopo il voto quando si mostravano neri come cavalieri dell’apocalisse, ora indossano abiti civili, magari con il gilet antiproiettile sopra. Sono loro, sempre loro, secondo le testimonianze raccolte dal quotidiano progressista britannico Guardian, a sottrarre i cadaveri delle persone uccise per strada dalle camere mortuarie degli ospedali. Prima ancora di chiedere alle famiglie di omettere le circostanze della morte del parente o di imporre ai medici di stilare referti di comodo inventando malattie o decessi improvvisi. «I basiji - racconta una fonte ospedaliera - hanno manipolato i registri degli ospedali, e identificato i feriti. I cadaveri li confiscano, e dicono alle famiglie che stati trasferiti in altre strutture per la donazione di organi. Se i decessi sono causati da armi da fuoco, tolgono i proiettili dai corpi che poi riportano in ospedale, annotando una causa di morte diversa». E un altro medico: «Solo nell’ospedale in cui lavoravo, nella prima settimana di proteste, abbiamo registrato la morte di 38 dimostranti, la gran parte uccisi da colpi di arma da fuoco». «Un collega mi ha riferito che nel suo ospedale ci sono state 36 persone ricoverate per ferite da armi da fuoco e 10 morti».
Cosa ci guadagnano per tutto questo? «Ad esempio non pagano le rette universitarie - spiega il blogger Saeed Valadbaygi - e hanno quote riservate nei posti pubblici e nelle facoltà». «Saranno tutti basiji nel prossimo anno accademico, temo», dice Saeed.

Repubblica 11.7.09
L’ultima trama di Sindona
di Simonetta Fiori


L´11 luglio di 30 anni fa un killer sparò ad Ambrosoli Il libro del giudice dell´inchiesta Turone (scritto con Simoni) ricostruisce quegli anni
Il bancarottiere si uccise: voleva che fosse una morte strana per offuscare la memoria del commissario liquidatore

Potrebbe apparire una storia d´altri tempi l´avventura tra politica, Vaticano e mafia di Michele Sindona, il bancarottiere siciliano morto oltre vent´anni fa per un caffè al cianuro. E´ un grande romanzo criminale quello appena licenziato non da giallisti esperti, come si potrebbe ricavare dal passo narrativo, ma dai due magistrati che indagarono meticolosamente i crimini nazionali e internazionali di un finanziere-assassino dotato di un inusuale talento istrionico, nella vita come nella morte. Giuliano Turone era il giudice istruttore che condusse con Gherardo Colombo l´inchiesta giudiziaria sull´omicidio di Ambrosoli, ucciso da un killer americano assoldato da Sindona. Gianni Simoni era il magistrato che investigò sulla misteriosa morte del detenuto eccellente nel carcere di Voghera. Insieme hanno scritto un libro di duecento pagine che sulla base di innumerevoli atti giudiziari, sparsi in altrettanti processi, ricostruisce esemplarmente un pezzo di storia italiana fondata sull´intreccio tra potere politico, potere finanziario e potere criminale (Il caffè di Sindona, Garzanti, euro 16). Intrighi di un´Italia scomparsa? «Non del tutto», risponde Turone. «E´ di pochi giorni fa l´intervento del procuratore generale della Corte dei Conti sulla larga diffusione della corruzione in Italia. Siamo tra i primi in Europa per trame oscure e strapotere di mafie e camorre. Sembra difficile raddrizzare certe storiche storture nazionali. Da quelle vicende sono trascorsi molti anni, ma siamo ancora in mezzo al guado».
L´urgenza civile che muove il racconto è anche quella di onorare la memoria di Giorgio Ambrosoli, il commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, assassinato l´11 luglio di trent´anni fa su ordine di Sindona. Il risarcimento dell´«eroe borghese» - dal titolo del bellissimo libro di Corrado Stajano - passa anche attraverso la soluzione di un enigma rimasto irrisolto nell´opinione pubblica, ma non nelle (poco conosciute) carte processuali. Il mistero riguarda il cianuro inghiottito dal bancarottiere nel carcere di Voghera. Omicidio o suicidio? Se nell´immaginario comune è radicata la tesi più spettacolare dell´assassinio, i due magistrati non hanno dubbi sull´uscita di scena volontaria: si trattò dell´ultima straordinaria beffa di Sindona, simulatore beffardo e talentuoso, che scelse di ingoiare il veleno, ma mettendo in scena un omicidio del tutto verosimile. L´ultima sceneggiata di un criminale fantasioso, «autentico Fregoli dei trasformismi malandrineschi», che morendo da vittima di poteri oscuri voleva dare nuova dignità a sé e alla sua famiglia, intossicando il lavoro di chi si era adoperato per scoprire i suoi delitti. «Nel progetto freddamente coltivato da Sindona», dice Turone, «il suo omicidio, destinato a rimanere senza responsabili, avrebbe fatalmente indebolito le diverse inchieste condotte su di lui. Ma come, avete scoperto tutte le sue malefatte e non sapete chi l´ha ucciso? Anche il coraggioso lavoro di Ambrosoli rischiava di essere offuscato da quest´ultima beffa».
I capitoli più avvincenti riguardano la romanzesca uscita di scena di Sindona, ricostruita nelle motivazioni più profonde - l´ossessione per la morte di un ex potente abbandonato da tutti - e nei dettagli più inaspettati, dalle bustine di zucchero fatte sparire dal suicida alla sorveglianza blindata ad opera di giovani agenti di Monastir. A sostegno del suicidio, la prova più convincente consiste nella particolare qualità del cianuro, sostanza dotata di un odore e un sapore così ripugnanti da indurre qualsiasi persona a fermarsi disgustata al primo sorso di caffè (ricordiamo che Sindona bevve il caffè chiuso in gabinetto, senza lasciarne neppure una goccia nel bicchiere). Per gli appassionati del genere «caffè al veleno», va aggiunto che Pisciotta fu assassinato con la stricnina, che ha altre caratteristiche. Come Sindona si procurò il cianuro? Non gli era difficile - sostengono i magistrati - riceverne una dose nel corso delle udienze che lo videro incriminato per il delitto Ambrosoli. Il suo biografo tedesco Nick Tosches ha raccontato che al termine del loro primo incontro, nella cella di Voghera, gli aveva domandato "quale vago raggio di speranza lo sostenesse". E lui, col sorriso luciferino: «Morire».
Ma le pagine più impressionanti investono direttamente la storia d´Italia, i suoi palazzi del potere, gli intrecci tra la politica, la finanza, i poteri criminali, il Vaticano. Sindona era un finanziere potentissimo, uomo di fiducia dello Ior, celebrato nel 1973 da Giulio Andreotti come il «salvatore della lira». La trama dei loro rapporti è documentata da una fitta mole di carte giudiziarie, oltre che da atti politici e nomine di banchieri - come quella di Mario Barone al Banco di Roma - che negli anni Settanta tentarono di favorire i traffici di Sindona. Nel prosieguo della lettura, ci si imbatte in trame occulte, ricatti, mascalzonate - non ultima l´incriminazione di Mario Sarcinelli e Paolo Baffi - tutti rigorosamente certificati nelle note a piè di pagine. Tra i protagonisti figura anche Licio Gelli, il capo di quella loggia P2 di cui Sindona insieme a molti altri era un affiliato. Fu indagando sulla morte di Ambrosoli che i magistrati Giuliano Turone e Gherardo Colombo scoprirono il 17 marzo del 1981 gli elenchi della loggia segreta e successivamente il piano di Rinascita nazionale. Quello stesso piano di Rinascita nazionale recentemente rivendicato con orgoglio da Gelli, risuscitato in una televisione locale. «Peccato non averlo depositato alla Siae per i diritti», ha detto Gelli in conferenza stampa. «Tutti ne hanno preso spunto. L´unico che può andare avanti è Silvio Berlusconi, non perché era iscritto alla P2, ma perché ha la tempra del grande uomo». Che sentimenti prova oggi l´ex magistrato Turone di fronte a questa Italia? «Una grande malinconia», dice sottovoce. «Si prende atto con amarezza che i tentativi che sono stati fatti per combattere le mafie, tutte le mafie, sono per larga parte falliti. Cosa proverebbe oggi uno come Giorgio Ambrosoli davanti allo spettacolo della finanza corrotta? In Italia manca una religione civile, capace di legare responsabilmente l´individuo alla società».
Al pari di altri suoi colleghi autorevoli, Giuliano Turone ha lasciato la magistratura prima del tempo. Oggi si dedica agli studi giuridici e al teatro. Gli piace recitare soprattutto Shakesperare e Kafka.

Repubblica 11.7.09
Quando la democrazia era il governo dei peggiori
Per secoli ha goduto di pessima fama. Era il regime della moltitudine incolta e vendicativa contro i benestanti, perciò facile alla manipolazione da parte dei tiranni
di Nadia Urbinati


Anticipiamo un brano dall´introduzione di Lo scettro senza il re, il nuovo libro di che esce in questi giorni (Donzelli, pagg. 138, euro 15)

Gli antichi consideravano la democrazia come il governo dei poveri. Si ha democrazia, si legge nella Politica di Aristotele, quando il potere supremo è nelle mani della moltitudine dei nati liberi (in alcuni casi, sia da parte di padre che da parte di madre), i quali sono in maggioranza poveri. Ma per i moderni la democrazia è il governo della classe media, come Alexis de Tocqueville aveva appreso nel corso del suo viaggio americano (1831). È corretto affermare che la storia della cittadinanza moderna prende avvio dalla fine del lavoro servo e che i moderni abbiano adattato la democrazia a una società fondata sul lavoro retribuito e lo scambio monetario, un ordine economico che ha bisogno di una moltitudine di consumatori, gente né troppo ricca né troppo povera.
Una conseguenza importante di questa conquista di civiltà è che nella democrazia moderna i cittadini e le cittadine devono essere responsabili in modo diretto del proprio sostentamento, con la conseguenza di disporre di un tempo limitato per la cura degli affari pubblici. Ciò ha indotto alcuni pensatori a sostenere, come ha fatto Montesquieu, che il governo dei moderni assomiglia a un governo misto, perché l´elezione – come ci hanno tramandato Erodoto e Aristotele – è un´istituzione «aristocratica», in quanto discrimina tra i cittadini (chi elegge deve scegliere e quindi escludere) e soprattutto non consente loro, a tutti loro indistintamente, di governare ed essere governati a turno. Ma dalla diagnosi di Montesquieu si può trarre anche un´altra conclusione: ovvero che, invece di essere alternativa alla partecipazione, la rappresentanza rende quest´ultima più complessa e l´esclusione meno appariscente.
L´eguaglianza universale ha arricchito il valore normativo della democrazia dei moderni facendola più inclusiva di quella antica, ma nello stesso tempo ha ristretto la possibilità della partecipazione e, soprattutto, ne ha modificato le modalità. Autorevoli filosofi politici hanno per questo considerato la rappresentanza un espediente necessario ma non un´istituzione democratica (...). Tuttavia la rappresentanza non è semplicemente un ripiego per ciò (la sovranità diretta) che noi moderni non riusciamo più ad avere, è invece un processo politico capace di attivare nuove forme di partecipazione politica, diverse ma non meno importanti delle forme dirette degli antichi.
È senz´altro vero che la rappresentanza è stata concepita come un espediente per limitare e non per realizzare la democrazia. Per secoli, del resto, la democrazia ha goduto di pessima fama, come governo dei peggiori perché governo della moltitudine, vendicativa contro i benestanti e incolta, perciò facile alla manipolazione da parte di demagoghi e tiranni. Anche nell´era democratica per eccellenza, quella iniziata dopo la seconda guerra mondiale, e nonostante la retorica contemporanea della globalizzazione della democrazia, molte istituzioni (certamente la rappresentanza) sono ancora giudicate secondo la stessa prospettiva degli architetti settecenteschi del governo rappresentativo, la cui agenda politica non contemplava certo l´obiettivo di facilitare la partecipazione delle moltitudini. Le premesse non-democratiche (e perfino anti-democratiche) difese dagli autori dei Federalist Papers (James Madison, Alexander Hamilton e John Jay) o da Emmanuel-Joseph Sieyès sono diventate luoghi canonici per molti studiosi di istituzioni politiche. Come si legge nel Federalist n. 63: «Il vero elemento distintivo tra queste forme politiche e quella americana è rappresentato dal fatto che quest´ultima esclude completamente il popolo nella sua capacità collettiva da una partecipazione diretta alla cosa pubblica, e non nel fatto che le prime escludessero completamente i rappresentanti del popolo dall´amministrazione». La pratica del suffragio universale non ha scalfito questa idea anti-democratica del ruolo della rappresentanza. Come ha scritto di recente uno studioso francese, Bernard Manin, le strutture portanti del governo dei moderni «sono rimaste le stesse» dal tempo delle rivoluzioni settecentesche, da quando cioè quello rappresentativo era ancora un governo di notabili eletti da pochi cittadini privilegiati».

il Riformista Lettere 11.7.09
Fratello Piero sorella Ritanna

Caro direttore, non erano sufficienti i servizi a reti unificate sulla nuova enciclica papale; non lo erano la sua pubblicazione integrale sui maggiori quotidiani, né l'esegesi dei vaticanisti e dei più importanti opinionisti. Doveva arrivare dunque una lettura apologetica del messaggio di Ratzinger da sinistra! Fratello Piero Sansonetti (su L'Altro) e sorella Ritanna Armeni (sul giornale da lei diretto) sono i primi convertiti sulla via di Damasco: tanti li seguiranno. Perché non si tratta di conversione, ma di un vero "auto da fé", che rende finalmente chiaro che cosa significhi la parola "cattocomunismo". L'invito che viene dai novelli san Francesco e santa Chiara ad abbeverarsi al fonte cattolico per purificare lo spirito e far risorgere la Sinistra, non è un inizio, ma la cronaca di una morte annunciata. L'alleanza terribile proposta dai due neo-crociati con una chiesa intollerante e conservatrice, che di tutto sa o vuole sapere, fuorché di amore tra uomo e donna, piuttosto della formula magica per la rinascita della Sinistra, è il testamento della stessa e il motivo per cui essa è defunta. Anche se, come Papa vuole, cerca di rimanere attaccata a un sondino detto "Caritas in veritate".
Paolo Izzo