lunedì 31 agosto 2009

l’Unità 31.8.09
Tutti in piazza contro l’elettroregime
L’attacco alla libertà di stampa
di Vincenzo Vita


È, quello di Berlusconi, un regime autoritario populista, supportato e protetto da una gendarmeria mediatica: violenza simbolica, non oltraggio fisico dei corpi, bensì occupazione dell’immaginario. Ma anche i corpi vengono giocati nell’autorappresentazione del potere, come dimostra la vicenda tragica dell’immigrazione ‘clandestina’. Si può pronunciare una definizione: elettroregime. Gli esempi si sprecano. Solo nelle ultime settimane: dapprima il provvedimento del ministro Alfano sulle intercettazioni con relativo bavaglio dell’informazione e dei blog, i continui attacchi censori ad internet; eppoi la durissima offensiva contro la terza rete televisiva, il tg3 e –implicitamente – verso tutto ciò che esce dalla volgare leggerezza del tempo, dalla subcultura oggi egemone. Nel mirino Rainews, programmi e volti o voci più o meno famosi, fuori dal coro. Come fu per Enzo Biagi. Per finire (?) all’incredibile querela contro ‘la Repubblica’ dopo la pubblicazione di legittime domande ad un personaggio che fa il premier, con stupore del resto di gran parte delle più prestigiose testate straniere. E per passare pure attraverso la vicenda dell’attacco al direttore dell’’Avvenire’ da parte del giornale di famiglia. Sullo sfondo tagli, tagli, tagli: alla scuola, all’università, alla cultura, allo spettacolo. E spericolate operazioni di mercato, come la forzosa uscita della Rai dalla piattaforma satellitare di Sky, a beneficio della pay tv digitale di Mediaset. Attenzione a considerare solo un’antipatica patologia quanto sta avvenendo, o un puro abuso di potere. In verità, si tratta dell’avvio di un’involuzione politica, istituzionale e sociale profonda: un sistema presidenziale senza contrappesi democratici, deregolato e celebrato a reti unificate. Del resto, nel nuovo secolo permeato da universi cognitivi a scorrimento iperveloce e fondato su una struttura immateriale tutt’altro che libera, il controllo rigido delle fonti della conoscenza e del senso comune è un imperativo categorico di chi intende scalare governo e potere in pieno conflitto di interessi. Ecco perché sta succedendo qualcosa di inquietante. E forse inedito. Una sorta di prova generale. Mai prima il tg1 aveva così platealmente occultato (non solo manipolato) le notizie; mai qualcuno si era sognato di portare un quotidiano in tribunale per delle domande. Ci si mobiliti, con tutte le forze disponibili. Incoraggia la quantità enorme di adesioni all’appello sulla libertà di informazione di Franco Cordero, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky, nonché a quello dell’associazione ‘Articolo 21’. Si metta insieme, già nelle prossime ore, un comitato promotore non limitato alle forze poltiche, ma ricco di momenti organizzati e non della società, per programmare a settembre una straordinaria manifestazione nazionale per i diritti e le libertà. Lanciò la proposta Dario Franceschini, raccolta un po’ da tutti. Dalle parole ai fatti. Alla lotta.

l’Unità 31.8.09
Aborto
Altro che moratoria, in gioco sono i diritti
di Carlo Flamigni


L’aula della Camera ha approvato una mozione che impegna il Governo a farsi promotore presso le Nazioni Unite di una risoluzione che condanni l’uso dell’aborto come strumento demografico e come strumento di una «nuova eugenetica», promuovendo una «moratoria». Il buon senso mi impone di considerare questa richiesta come un ennesimo tentativo, tortuoso e ingenuo, di rinnovare l’ormai stanco assalto alla legge 194, quella che in Italia regolamenta le interruzioni volontarie della gravidanza.
In verità, i primi a criticare questa nuova forma di provocazione sono stati alcuni riflessivi cattolici italiani: «Il voto del Parlamento non scalfisce nemmeno il bunker di idee sbagliate intorno all’aborto, anzi le accetta e le assume come piattaforma comune di dialogo e di confronto... questo voto può trasformarsi addirittura in un colossale autogol... [in quanto dà per scontata] l’idea che il diritto di aborto sia indiscutibile, e che si possa soltanto garantire la “libertà della donna di non abortire”» (Verità e Vita, comunicato 76).
Questa mozione dimostra comunque alcune cose, che elenco: 1) i parlamentari italiani (ne sutor supra crepidam!) sanno poco di queste cose: il vero dramma di molti Paesi che non fanno parte delle nazioni canaglia, quelle che hanno approvato leggi sull’aborto volontario, è il cosiddetto «controllo mestruale», che sfugge a ogni regola e a ogni norma; in altri comincia a prevalere l’uso di farmaci (che, al contrario di quanto accadrà con la pillola abortiva, si trovano già in farmacia anche in Italia); 2) nel nostro Paese l’interruzione della gravidanza non viene utilizzata come metodologia contraccettiva dalla stragrande maggioranza della donne (gli aborti ripetuti sono il 38% per le donne straniere e il 21% per le italiane, uno dei dati più bassi del mondo); 3) sempre nel nostro Paese la maggior parte delle donne pensa all’interruzione di gravidanza come a una scelta difficile, nella quale occorre cimentare la propria coscienza, ma anche come a un diritto; sempre da noi, l’idea di eugenetica che la gente si è fatta non ha niente a che fare con il desiderio di avere figli sani e normali.
Chiunque voglia parlare ancora di «moratoria» dovrà prima ragionare su altre, essenziali «interruzioni a tempo indeterminato»: dovrà chiedere una moratoria sulla violenza sulle donne, sulla ingiustizia sociale, sulla mancanza di cultura e di educazione sessuale, sulla protervia di tanti maschi, sulla discriminazione. L’elenco è molto lungo, lo dovrete completare voi.
Buon lavoro.

l’Unità 31.8.09
4 risposte da Mimmo Pantaleo
segretario generale Flc-Cgil
di Felicia Masocco


1. Insegnanti sui tetti
Sono persone che rimangono senza lavoro, disperati ed esasperati. Le proteste dei questi giorni, come quella dei coniugi di Caserta che hanno minacciato di lanciarsi da una finestra perché rimasti senza incarico, sono spia di tensioni sociali che rischiano di non essere governate.
2. Che fare
È fissato un incontro per il 3 settembre, ma è chiaro che non si può continuare a discutere su tavoli tecnici. Sono necessarie misure concrete, a cominciare dagli ammortizzatori sociali per chi resta senza lavoro, e dalla copertura dei posti rimasti vacanti. E serve una drastica revisione dei tagli.
3. Licenziamenti di massa
I precari della scuola pagheranno conseguenze pesantissime per la scelta del governo di tagliare la spesa per l’istruzione. Sono tagli che mettono una seria ipoteca sulla qualità della formazione oltre che sull’occupazione.
4. La mobilitazione
Se dovessimo constatare il solito rinvio delle decisioni o il solito scaricabarile tra questo e quel ministro non staremo fermi. Scenderemo in campo già ai primi giorni di settembre con iniziative di mobilitazione fino allo sciopero generale se sarà necessario. Cioè se il ministro Gelmini, che sta distruggendo la scuola pubblica, non cambia rotta.

l’Unità 31.8.09
Un licenziamento di massa


Non riesco a capire perché si parla così poco dei precari (o exprecari) della scuola. In questi giorni molte, tantissime famiglie e giovani coppie non hanno più lavoro o speranza di lavoro. Siamo di fronte ad un licenziamento di massa, se ne parla troppo poco.
Giuseppe Vinciguerra

RISPOSTA La possibilità di affrontare le fasi di crisi mandando a casa i lavoratori meno protetti dal punto di vista sindacale è il desiderio naturale di un governo di destra. Berlusconi ha lavorato, per realizzarlo, ad una cancellazione delle norme volute da Prodi sulla stabilizzazione dei precari della Pubblica Amministrazione e, successivamente, a un taglio forte delle previsioni di spesa. È in sede di approvazione della finanziaria per il 2009 che la Gelmini e Tremonti hanno deciso dunque la grande mattanza che si sta realizzando in questi giorni nella scuola. Una parte degli otto miliardi così da loro risparmiati andrà alle scuole private care alla ministra formigoniana, il resto servirà a coprire i buchi prodotti dall’evasione fiscale tanto cara al ministro della finanza creativa. Con tanti saluti ai bilanci delle famiglie e delle coppie abituate a sostenersi lavorando e alle attese naturali dei bambini che nella scuola dovrebbero trovare tutti gli insegnanti di cui hanno bisogno. Di tutti quelli, cioè, di cui poco ci si preoccupa quando al governo ci sono persone interessate a difendere gli interessi di chi ha di più.
Luigi Cancrini

Repubblica 31.8.09
Dove è finita l´informazione
di Edmondo Berselli


Esploso in questi mesi come una battaglia di verità, davanti alle contraddizioni e alle bugie del premier, lo scandalo Berlusconi diventa oggi un problema di libertà, come sottolineano tutti i grandi quotidiani europei, evidenziando ancor più il conformismo silente dei giornali italiani. Prima la denuncia giudiziaria delle 10 domande di "Repubblica", un caso unico al mondo: un leader che cita in giudizio le domande che gli vengono rivolte, per farle bloccare e cancellare, visto che non può rispondere. Poi l´intimidazione alla stampa europea, perché non si occupi dello scandalo. Quindi il tentativo di impedire la citazione in Italia degli articoli dei giornali stranieri, in modo che il nostro Paese resti all´oscuro di tutto. Ecco cosa sta avvenendo nei confronti della libertà di informazione nel nostro Paese.
A tutto ciò, si aggiunge lo scandalo permanente, ma ogni giorno più grave, della poltiglia giornalistica che la Rai serve ai suoi telespettatori, per fare il paio con Mediaset, l´azienda televisiva di proprietà del premier. È uno scandalo che tutti conoscono e che troppi accettano come una malattia cronica e inguaribile della nostra democrazia. E invece l´escalation illiberale di questi giorni conferma che la battaglia di libertà si gioca soprattutto qui. La falsificazione dei fatti, la mortificante soppressione delle notizie ridotte a pasticcio incomprensibile, rendono impossibile il formarsi di una pubblica opinione informata e consapevole, dunque autonoma. Anzi, il degrado dei telegiornali fa il paio con il pestaggio mediatico dei giornali berlusconiani. Molto semplicemente, il congresso del pd, invece di contemplare il proprio ombelico, dovrebbe cominciare da viale Mazzini, sollevando questa battaglia di libertà come questione centrale, oggi, della democrazia italiana.
In quest´ultima stagione del berlusconismo abbiamo contemplato l´apice del conflitto d´interessi, l´anomalia più grave (a questo punto la mostruosità) della politica italiana. Si è vista l´occupazione della Rai e specialmente dei vertici dei telegiornali, cioè ruoli pubblici trasformati in postazioni partigiane; e nello stesso tempo la blindatura militare dei media di proprietà diretta o indiretta del capo del governo.
Berlusconi voleva un´anestesia della società italiana, in modo da poter comunicare ai cittadini esclusivamente le sue verità, i successi, le vittorie, le sue spettacolari "scese in campo" contro i problemi nazionali. L´immondizia a Napoli, il terremoto in Abruzzo, la continua minimizzazione della recessione. Una e una sola voce doveva essere udita, e gli strumenti a disposizione hanno fatto sì che fosse praticamente l´unica a essere diffusa e ascoltata.
Ma evidentemente tutto questo non bastava. Non bastava una maggioranza parlamentare praticamente inscalfibile. Non bastava al capo del governo neppure il consenso continuamente sbandierato a suon di sondaggi. Nel momento in cui la libertà di informazione ha investito lo stile di vita di Berlusconi, e soprattutto il caotico intreccio di rozzi comportamenti privati in luoghi pubblici o semi-istituzionali, il capo della destra ha deciso che occorreva usare non uno bensì due strumenti: il silenziatore, per confondere e zittire l´opinione pubblica, e il bastone, per impedire l´esercizio di un´informazione libera.
Negli ultimi mesi chiunque non sia particolarmente addentro alla politica ha potuto capire ben poco, in base al «sistema» dei telegiornali allineati, dello scandalo che si stava addensando sul premier. Un´informazione spezzettata, rimontata in modo incomprensibile, privata scientemente delle notizie essenziali, ha occultato gli elementi centrali della vicenda della prostituzione di regime. Allorché alla lunga lo scandalo ha bucato la cortina del silenzio, è scattata la seconda fase, quella dell´intimidazione. L´aggressione contro il direttore di Avvenire, Dino Boffo, risulta a questo punto esemplare: il giornale di famiglia, riportato rapidamente a una funzione di assalto, fa partire il suo siluro; nello stesso tempo l´informazione televisiva, con una farragine di servizi senza capo né coda, rende sostanzialmente incomprensibile il caso.
Come in una specie di teoria di Clausewitz rivisitata e volgare, il killeraggio giornalistico, cioè una forma di guerra totale, priva di qualsiasi inibizione, si rivela un proseguimento della politica con altri mezzi. In grado anche di fronteggiare le ripercussioni diplomatiche con la segreteria di Stato vaticana e con la Cei. La strategia rischia di essere efficace, peccato che configuri un drammatico problema di sistema. Ossia una ferita gravissima a uno dei fondamenti della democrazia reale (non dell´astratta democrazia liberale descritta dai nostri flebili maestri quotidiani). Purtroppo non si sa nemmeno a quali riserve di democrazia ci si possa appellare. Ci sono ancoraggi, istituzioni, risorse di etica e di libertà a cui fare riferimento? Oppure il peggio è già avvenuto, e i principi essenziali della nostra democrazia sono già stati frantumati?
Basta una scorsa alla più accreditata informazione straniera per rendersi conto del penoso provincialismo con cui questo problema viene trattato qui in Italia, della speciosità delle argomentazioni, del servilismo della destra (un esponente della maggioranza ha dichiarato ai tg che la rinuncia di Berlusconi a partecipare alla Perdonanza, dopo l´attacco del Giornale a Boffo, «disgustoso» per il presidente della Cei Angelo Bagnasco, era un atto «di straordinario valore cristiano»). Oltretutto, risulta insopportabile l´idea che nel nostro futuro, cioè nella nostra politica, nella nostra cultura, nella nostra idea di un paese, ci sia un blocco costituito dall´informazione di potere, un consenso organizzato mediaticamente nella società, e al di fuori di questo perimetro pochi e rischiosi luoghi di dissenso. Questa non è una democrazia. È un regime che non vuole più nemmeno esibire una tolleranza di facciata. Quando tutti se ne renderanno conto sarà sempre troppo tardi.

Repubblica 31.8.09
Il posto della Chiesa in tempi pagani
di Ilvo Diamanti


È singolare vedere la Chiesa all´opposizione. Soprattutto oggi, che governa il centrodestra guidato da Silvio Berlusconi, particolarmente attento e disponibile nei confronti delle richieste della Chiesa: sulla bioetica, sulla scuola e sull´educazione, sulla famiglia. Mentre le incomprensioni con il precedente governo di centrosinistra erano comprensibili. Eppure mai, nella contrastata (per quanto breve) stagione dei rapporti con il governo Prodi, si era assistito ad attacchi tanto violenti, nei confronti della Chiesa, come quelli lanciati negli ultimi giorni dal centrodestra. Prima: le reazioni della Lega alle critiche espresse dal mondo cattolico in merito alle politiche sulla sicurezza e sull´immigrazione. Culminate nella minaccia – apertamente evocata dal quotidiano "La Padania" – di rivedere il Concordato. Poi l´attacco rivolto dal "Giornale" al direttore di "Avvenire", Dino Boffo (il quale ha parlato di "killeraggio").
Accusato di non avere titolo per esprimere giudizi "morali" sugli stili di vita del premier. Troppi e troppo ravvicinati, troppo violenti, questi interventi per apparire casuali. Come si spiega l´esplodere di queste tensioni? E, in particolare, cosa ha spinto all´opposizione la Chiesa, fino a ieri interlocutore affidabile del governo?
In effetti, occorre distinguere. I rapporti con la Lega sono sempre stati conflittuali. Basti pensare al periodo intorno alla metà degli anni Novanta, quando la Chiesa si oppose alla strategia secessionista della Lega. Allora Bossi si scagliò contro il Papa polacco e i "vescovoni romani arruolati nell´esercito di Franceschiello, l´esercito del partito-Stato". In altri termini: contro la Chiesa, ritenuta (non senza ragione) il collante, forse più denso, dell´unità nazionale. Oggi, invece, il problema è prodotto dalle critiche del mondo cattolico – le associazioni, i media, le gerarchie – contro le politiche del governo sulla sicurezza e l´immigrazione. Cioè: il vero marchio della Lega (degli uomini spaventati). Più ancora del federalismo. D´altronde, il mondo cattolico, su questi temi, esprime un progetto fondato sull´accoglienza, sulla carità, sull´integrazione. Concretamente praticato attraverso associazioni e istituzioni diffuse sul territorio. Dalla Caritas, ai gruppi di volontariato, alle parrocchie. Assai più della sinistra, è il mondo cattolico l´alternativa alla cultura e al linguaggio leghista. Non solo sui temi della sicurezza e degli immigrati. Perché il mondo cattolico è presente e attivo soprattutto dove è forte la Lega. Cioè: nella provincia del Nord. Dove i campanili costituiscono ancora un centro della vita sociale. Da ciò un conflitto inevitabile. Che è, in parte, competizione. Anche perché la Lega si propone come una sorta di "Chiesa del Nord". Con i suoi riti, i suoi simboli, i suoi valori, le sue reti di appartenenza locale. Ronde comprese.
Della tradizione cattolica accetta gli aspetti, appunto, più tradizionali e tradizionalisti. Le "radici cristiane" rivendicate dalla Lega coincidono, in effetti, con la "religione del senso comune".
Diverso – e meno prevedibile – è invece il contrasto diretto con il premier e il PdL. Innescato dalla velenosa inchiesta dedicata dal "Giornale" al direttore dell´"Avvenire". Definito un «lapidatore che non ha le carte in regola per lapidare alcuno». In particolare il premier. Immaginare Dino Boffo – prudente per natura (e incarico) – impegnato a scagliare parole dure come le "pietre" risulta (a noi, almeno) davvero difficile. Per questo, la reazione del "Giornale" appare sproporzionata rispetto al contenuto e al tono delle critiche apparse su "Avvenire". Era difficile, d´altronde, che i vescovi italiani tacessero di fronte al disagio emerso in molti settori del clero e in molti esponenti del mondo cattolico. Tanto più al tempo di Papa Ratzinger, che ha fatto del contrasto al relativismo etico un marchio e un programma.
Tuttavia, nonostante le smentite di questi giorni, ci riesce altrettanto difficile pensare che Vittorio Feltri abbia lanciato il suo attacco "senza preavviso". Senza, cioè, avvertire almeno il premier. Il che suggerisce una ulteriore spiegazione della singolare (op) posizione assunta dalla Chiesa in questa fase. Vi sarebbe stata spinta, più che per propria scelta, dallo stesso premier e dalla Lega. Per diverse ragioni. (a) Intimidire l´unico soggetto capace, nell´Italia d´oggi, di esercitare un effettivo controllo morale, istituzionale e sociale. (b) Dividere la Chiesa stessa, al proprio interno; isolando gli ambienti accusati di simpatie per la "sinistra"; e ponendola in contrasto con il suo stesso popolo. In larga parte vicino alle posizioni della Lega, in tema di sicurezza e immigrazione. E indulgente verso i comportamenti e gli stili di vita esibiti dal premier. (c) C´è, infine e al fondo di tutto, la crisi del modello, proposto e imposto da Ruini alla fine della prima Repubblica. La "Chiesa extraparlamentare" (come la definisce Sandro Magister), che agisce ora come movimento, ora come gruppo di pressione. A sostegno dei propri riferimenti di valore e di interesse. Senza partiti cattolici né "di" cattolici. Oggi sembra suscitare molti dubbi. E in alcuni settori della Chiesa e del mondo cattolico emerge la nostalgia di un polo alternativo: a una destra amica ma pagana. E a una sinistra laicista e comunque inaffidabile. Da ciò l´idea (post-ruiniana) di un soggetto politico che metta insieme Casini, Tabacci, Pezzotta. Rutelli e Montezemolo. Magari Letta (Gianni). D´altra parte, 4 cattolici praticanti su 10 non hanno un partito di riferimento. Sono patologicamente incerti. Anche così si spiega la reazione di Berlusconi – e l´azione di Feltri. Volta a scoraggiare la costruzione di un nuovo partito collaterale alla Chiesa. Mentre al premier – e alla Lega – piace di più l´idea di una Chiesa collaterale o, comunque, affiancata al PdL. In grado – non da ultimo – di santificare un modello di vita che – come ha ammesso il premier – santo non è. Ma, anzi, piuttosto pagano.

Repubblica 31.8.09
I Muri che nutrono la nostra paura
di Michela Marzano


Il clima d´intolleranza che serpeggia oggi in Italia è sintomo di una società che ha paura e che, non sapendo bene come arginarla, si trincera dietro un magro numero di certezze, chiudendosi su se stessa e rifiutando l´Altro.

Una parte sempre più grande dell´opinione pubblica resta infatti indifferente di fronte alle violenze che subiscono coloro che parlano un´altra lingua, che vengono da un´altra cultura, che hanno un orientamento sessuale differente o che si allontanano dalla morale convenzionale e dalle tradizioni locali.
Che si tratti degli extracomunitari o degli omosessuali, l´atteggiamento più diffuso è chiudere gli occhi e far finta di niente. E, quando se ne parla, spesso si minimizza o si altera la realtà. «Non c´è assolutamente un´escalation di violenza contro i gay. Roma è una città tollerante», dichiara il 27 agosto Gianni Alemanno, come se l´attentato incendiario alla discoteca gay del Muccassassina, appena quattro giorni dopo l´agguato omofobo dell´Eur, non meritasse un serio dibattito sulla necessaria protezione delle minoranze. «La legge italiana sull´immigrazione e i respingimenti non sono un atto di razzismo, ma di civiltà», afferma il ministro Luca Zaia il 24 agosto, ospite di Klaus Davi, qualche giorno dopo la tragica morte di oltre 70 immigrati che cercavano di raggiungere la Sicilia, come se ogni extracomunitario, prosegue il ministro, fosse «destinato a ingrossare le fila della criminalità».
Nonostante alcune voci discordanti comincino a farsi sentire per denunciare il razzismo e l´intolleranza, la xenofobia e l´omofobia aumentano nel nostro paese, conseguenze di una cultura della non-accoglienza che genera e alimenta la paura nei confronti di tutto ciò che è diverso. Come negare d´altronde l´esistenza di un´ideologia dell´intolleranza quando alcune persone sembrano giustificare gli atti di violenza contro gli omosessuali perché "provocati" dai loro gesti di tenerezza, come spiega l´aggressore dell´Eur?
In ogni epoca storica, anche se in modo diverso, la gente ha avuto paura del disordine, e le società si sono organizzate in modo tale da allontanare tutto ciò che potesse destabilizzarle. Ma è soprattutto nei periodi di transizione e di crisi che si è assistito a reazioni esasperate di rigetto dei "diversi", come se l´unica soluzione per calmare l´angoscia della gente consistesse nell´identificare capri espiatori da sacrificare. Per secoli, il ruolo di capro espiatorio è stato giocato dai lebbrosi o dagli ebrei. Poi è stato il turno dei malati mentali e dei criminali. Oggi, non è forse la volta degli extracomunitari e degli omosessuali? Incarnazione perfetta della "devianza", queste nuove vittime sacrificali sembrano permettere alla gente di illudersi che a partire dal momento in cui gli extracomunitari saranno banditi dalla società e gli omosessuali ridimensionati nelle loro "eccessive" richieste non ci sarà più ragione di aver paura…
Ma il vero problema non è la paura – reazione spontanea di tutti di fronte al pericolo. Il problema è la sua strumentalizzazione politica. Un conto, infatti, è aver paura di ciò che non si conosce ancora, aprendosi tuttavia all´altro per costruire un clima di fiducia e di rispetto reciproci; altro conto è trincerarsi dietro la paura, strumentalizzarla, e combattere sistematicamente gli "altri", come se la differenza fosse sempre sinonimo di pericolo.
Certo l´Altro, in quanto "altro", disturba e sconcerta. A causa della sua "differenza", l´altro obbliga ognuno di noi a interrogarsi sul ruolo che l´alterità occupa nella nostra vita, e sullo spazio che siamo disposti a darle. La differenza rinvia a ciò che si pensa di non essere e di non diventare, alla nostra fragilità e alle nostre debolezze. L´altro è il contrario dell´ordinario e dell´abituale. È per questo che lo si rifiuta: ci fa paura perché richiama "l´inquietante stranezza" di cui parlava Freud, il fatto cioè che ognuno di noi porti all´interno di sé una parte sconosciuta, una zona d´ombra che si cerca di soffocare e che si risveglia quando ci si confronta con gli altri, i diversi, gli stranieri. Non è un caso che la nozione di identità (personale o nazionale) sia stata spesso utilizzata per far credere alla gente che esista una barriera rigida capace di distinguere l´io dal non-io, il fratello dallo straniero: una barriera che si erige ogniqualvolta una cultura o una società non riesce né a pensare l´altro, né a pensarsi con l´altro; una barriera che spinge le persone a trattare tutti coloro che sono diversi come dei "mostri" capaci di minacciare la loro stessa esistenza.
Nel momento stesso in cui, con la globalizzazione, si valorizzano i legami d´interdipendenza tra gli uomini e le donne di tutto il mondo e in cui, grazie a Internet, ognuno è ormai libero di comunicare con tutti indipendentemente dalle frontiere, emergono paradossalmente nuovi muri che impediscono alle persone non solo di spostarsi liberamente, soprattutto quando si tratta dei più poveri e dei più fragili, ma anche di dialogare fraternamente con coloro che sono diversi. Da una parte, si consacra il libero mercato. Dall´altro, le frontiere si chiudono. Nel cuore stesso dell´Italia sorgono muri e barriere fisiche o simboliche che ci separano gli uni dagli altri, che ghettizzano tutti coloro che non corrispondono agli standard di "normalità".
È un modo di garantire la sicurezza sul territorio nazionale e di proteggere gli italiani, dicono in molti. È un modo per salvaguardare i valori tradizionali, aggiungono in tanti. È l´unica soluzione per contenere la paura, credono quasi tutti. Ma la paura diminuisce solo apparentemente. Perché il risultato, in realtà, è opposto alle aspettative: invece di proteggere, le barriere cristallizzano le differenze, favoriscono il ripiego identitario e alimentano proprio quella paura che dovrebbero contenere. Più ci si chiude all´altro, più la paura aumenta. Perché progressivamente si finisce col credere che i nemici siano ovunque e che tutti i mezzi siano legittimi per proteggersi.
Spetta allora a ognuno di noi restare vigilante e non soccombere alla paura e alla sua strumentalizzazione. Perché, "come la notte, anche l´oppressione arriva progressivamente", diceva William O. Douglas, giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti all´epoca del Maccartismo. È giunto il momento di prestare attenzione ai cambiamenti, anche impercettibili, se si vuole evitare di soccombere, senza rendersene conto, al crepuscolo dell´intolleranza.

Repubblica 31.8.09
Schiaffo alla Merkel, vola la sinistra
Germania al voto in tre laender: crollo della Cdu a un mese dalle politiche
di Andrea Tarquini


La formula di governo preferita dalla Cancelliera non sembra più l´unica via

BERLINO - Forte vittoria della Linke, la sinistra radicale, e schiaffo alla Cdu della Cancelliera Angela Merkel alla «superdomenica elettorale» tedesca, con le elezioni svoltesi in tre dei sedici Stati della Repubblica federale (Sassonia e Turingia all´est, Saarland all´ovest) e le comunali in Nordreno- Westfalia, il Bundesland più popoloso. Quasi vent´anni dopo la caduta del Muro e a quattro settimane dalle politiche federali, ogni steccato tra forze politiche cade nella Germania unita, ogni maggioranza appare possibile fuorché con l´ultradestra, e la «donna più potente del mondo» incassa un colpo d´avvertimento: la sua formula di governo preferita, cioè una coalizione con i liberali (Fdp) resta favorita nei sondaggi nazionali ma non sembra più l´unica via.
Il trauma per i cristianoconservatori è stato forte ieri sera, mentre da Erfurt, in Turingia, a Saarbruecken, al confine francese, leader e seguaci della Linke festeggiavano. La sinistra radicale tallona infatti la Cdu nella Turingia stessa col 27,9 per cento contro il 31,3 dei democristiani che perdono 12,3 punti.
Tracollo conservatore di 13 punti anche nella Saar dove la Cdu scende al 34,5, cala quindi più della Spd che perde 7,7 punti attestandosi al 24,5 per cento. Qui invece la Linke guadagna ben 19 punti arrivando al 21,3. La sinistra radicale - composta, ricordiamolo, dai postcomunisti dell´est e dai seguaci di Oskar Lafontaine, transfuga dalla Spd e nemico del riformismo dell´ex cancelliere Schroeder e dei suoi eredi - è secondo partito anche nell´altro Bundesland orientale andato alle urne, la Sassonia, dove si attesta al 21 per cento. Solo in Sassonia la Cdu, guidata dal popolare governatore Stanislaw Tillich, venuto da una minoranza etnica slava, regge col suo forte 40,6 per cento mentre la socialdemocrazia ha col 10 % meno della metà dei voti della Linke. I neonazisti Npd restano nel parlamento locale, ma dimezzati.
«Il cambiamento politico appare possibile da oggi in Germania, e da noi in Turingia è iniziato», ha detto il leader e capolista della Linke in Turingia, Bodo Ramelow. A Erfurt il governatore Cdu uscente, Dieter Althaus, ha clamorosamente perso, e Ramelow potrebbe succedergli guidando una coalizione Linke-Spd-Verdi. Anche nella Saarland, il leader locale socialdemocratico Heiko Maas ha detto di pensare soprattutto a negoziati con Linke ed ecologisti, e di considerare una grande coalizione con la Cdu (come quella uscente a livello federale) solo come seconda ipotesi.
Sorrisi e buon umore anche in casa socialdemocratica. Il candidato cancelliere Spd, cioè il vicecancelliere e ministro degli Esteri socialdemocratico, ha affermato che il voto smentisce prognosi e sondaggi e boccia la proposta agli elettori di coalizione tra democristiani e liberali. Sul piano federale, i sondaggi danno ancora la Cdu e l´alleata bavarese Csu in vantaggio, e in grado di raggiungere il 51% alleata con la Fdp. Ma molti sono gli indecisi, il margine di errore dunque resta alto. Per dopo le elezioni nazionali del 27 settembre, non si possono più escludere formule di governo impreviste, o addirittura governi (come una riedizione della grosse Koalition, che Merkel non vuole) incapaci di durare un´intera legislatura.

Repubblica 31.8.09
Henri Matisse
Quell´altra metà dell´avanguardia


Al Thyssen-Bornemisza di Madrid una rassegna per dimostrare la purezza della pittura del grande maestro
Si trasferì a Nizza davanti allo spettacolo del mare che lo affascinò per tutta la vita
L´amore dell´artista per il Marocco e l´Oriente diede vita alle grandi e sensuali Odalische

MADRID. L´altra metà dell´avanguardia a Parigi si chiama senza alcuna esitazione Henri Matisse, dato per scontato che Picasso occupa il primo posto. Al pittore francese sono state dedicate negli ultimi anni numerose mostre, ma sempre sul confronto con un altro da sé: da quella al Centre Pompidou con il malageño alla più recente al Vittoriano con Pierre Bonnard. Matisse è un pittore-pittore che non conosce intenzionalità seconde. Infatti non dipinse Guernica né mai l´avrebbe potuta dipingere, dipinse colombe, ma non quelle della pace col ramoscello d´olivo in bocca, così care a Picasso e a Stalin, ma proprio colombe: pennuto docile, dal capino piumato e dal corpo bianco e morbido. Come quella che il vecchio maestro tiene tra le mani in una celebre foto che scattò, nel suo atelier, Cartier-Bresson.
Per un artista che conobbe il furore dell´avanguardia Fauve ma che si tenne distante dal grande gorgo del Cubismo, la pittura è la pittura e niente altro. Lo si vede assai bene nella mostra Matisse 1917-1941, al Museo Thyssen-Bornemisza (fino al 20 settembre) la quale adotta una periodizzazione centrata sugli anni della piena maturità. Nel 1917 la grande spallata delle avanguardie s´andava esaurendo e si avvia quel rappel à l´ordre a cui non si sottrassero né Picasso né Stravinsky. Matisse non doveva tornare all´ordine, l´ordine in effetti non l´aveva mai davvero trasgredito: anche se s´era appassionato alle maschere africane ancora prima di Picasso, anche se il colore dissonante e gridato l´aveva praticato da Fauve la sua forma rimase idealmente vicina alla linea che ebbe in Jean-Dominique Ingres un incontrastato capostipite. Anche per questo Matisse lasciò Parigi e si trasferì nel sud, a Nizza, dinanzi allo spettacolo del mare che continuò ad attrarlo e affascinarlo per il resto della vita. Fece una scelta simile a quella di Ingres che era approdato al sole di Roma. La ville lumière è attraversata da troppe tensioni e conflitti che possono prosciugare il colore sulla tavolozza e nelle setole del pennello. A Nizza abbandona i grandi formati e i colori distesi a larghe pennellate adoprati in quelle che lui stesso chiamò "composizioni decorative": si volse a una "pittura di intimità".
La mostra madrilena è scandita in sei sezioni tematiche: mescolare le carte è un gioco come un altro, ma la cara scansione cronologica è a mio avviso sempre strada maestra. Dipinge molti interni negli anni che vanno dal 1917 al ´20: la finestra e il balcone sono degli occhi che guardano verso il paesaggio e verso il tempo.
Alcuni privilegiano un oggetto come quello con un violino in primo piano. Nella pittura del Novecento la flessuosa forma degli strumenti musicali ebbe un straordinaria fortuna. Qui il violino è in un astuccio dal rivestimento blu: una persiana verde è per metà aperta. In due altre tele i balconi sono spalancati sull´azzurro del mare, in una si scorge una palma della Promenade des Anglais. Un tavolino con uno scrittoio da un lato, nell´altra una donna che medita: ci sono tende ai balconi per proteggere l´interno con un parato giallo uovo, in un caso, virato sui verdi grigi nell´altro.
Gli interni sono spesso dei piccoli teatri in miniatura come nella Lettrice distratta (1919) o La pianista e i giocatori di dama: l´intimo è la cifra di questa tela che ci offre del mondo un angolo che diremmo essere fuori dal reale tempo storico. È questo il dono di cui è capace Matisse che ci induce a sognare scrutando l´intimo del suo piccolissimo mondo: il piano e la dama, i fiori e gli specchi o le gioie di una toilette femminile, un libro aperto su una scrivania. I formati dei dipinti sono sempre gli stessi e non superano quasi mai il metro per settanta. Lo spazio esterno è assai spesso incorniciato in un telaio visivo che riduce l´effetto naturalistico, ma dà spessore alla Donna seduta con le spalle volte alla finestra (1922 ca.), vele bianche all´orizzonte, palme, colori azzurri ritagliati dal giallo e da un tessuto decorativo all´orientale.
Matisse amò molto il Marocco e il mondo arabo proprio come l´Ingres dell´Odalisque e tra i più bei pezzi in mostra c´è infatti la sua celebre odalisca del Musée d´Art moderne de la ville de Paris. Poggia il capo su un canapé la fanciulla dai lunghi capelli neri, ha pantaloni a sbuffo e alla caviglia un bracciale. In primo piano una scacchiera, segno di meditazione, e alle spalle un splendido vaso di fattura islamica. Un tessuto decorativo rosso e blu cobalto avvolge la scena. Ma l´odalisca, donna dalle forme sode, seduta su un divano e in posa impudica, torna in una tale del ´25; odalische in coppia, come i nudi michelangioleschi della Cappella Medici, ritornano in numerose tele della metà degli anni Venti dove la sensualità delle forme muliebri è intensamente incline al volume e alla profondità. Nel 1930 Alfred Barnes gli chiese per la pinacoteca che aveva costruito a Filadelfia una grande composizione: Matisse tornò al tema della Danza già affrontata nel 1910 per un mecenate russo. Dopo quattro anni di lavoro, ritornò alla pittura dell´intimo, al liquefarsi del colore e alle tinte tenui, con la stessa gioia di vivere.

Repubblica 31.8.09
Vincent van Gogh tra cielo e terra: i paesaggi
Kunstmuseum. Fino al 27 settembre.


Da non perdere la mostra che riunisce settanta dipinti del maestro olandese, tra capolavori assoluti e opere meno note. A cominciare dall'Ulivo del Museum of Modern Art di New York. Stabilitosi ad Arles, l'artista trova ispirazione nella luce del Mezzogiorno della Francia ed esegue numerosi capolavori. Ricoverato nell'ospedale di Saint-Rémy, dopo la crisi seguita alla rottura del rapporto con Gauguin, dipinge intensamente l'ambiente e i dintorni: è il periodo dei cipressi, degli olivi, delle stelle ruotanti sul destino umano. Tutti gli elementi del paesaggio sembrano agitati da un profondo disagio interiore. Il percorso espositivo documenta la statura e la continuità della sua ricerca espressiva nella pittura di paesaggio, la straordinaria importanza e densità delle sue innovazioni formali, colore, materia, gestualità, segno, portati al massimo della tensione, al massimo dell'energia vitale e tragica, insieme al variare della sua tavolozza, dai colori terrei dei primi lavori olandesi alle gamme cromatiche squillati delle opere realizzate nel sud della Francia.

Repubblica 31.8.09
Roma. Palma Bucarelli. Il museo come avanguardia
Galleria Nazionale d'Arte Moderna. Fino al 1° novembre


Centocinquanta opere, tra dipinti, sculture, grafica, e di altrettante fotografie d'epoca, invitano a riflettere sull'attività pionieristica di Palma Bucarelli, storica direttrice della Gnam, indirizzata all'incremento delle collezioni del museo, alla conoscenza di personalità del mondo artistico di rilievo, sia italiane che internazionali, alla promozione dell'arte italiana all'estero. Il percorso della mostra, curata da Mariastella Margozzi, si articola in varie sezioni dedicate alla scultura italiana degli anni Cinquanta e Sessanta, con opere di Fontana, Mannucci, Colla, Consagra, Mastroianni, Mattiacci, Ceroli, Guerrini, Pascali, Uncini e Zorio, all'arte cinetica e all'arte programmata italiana e straniera, con lavori di Alviani, Mari, Gruppo T, Gruppo N, Schoeffer, Huecker e Le Parc, alla storica Esposizione di arte contemporanea 1944-1945. L'esposizione non manca di prendere in esame anche il personaggio Palma, dando conto della sua vita di società, attraverso gli abiti del suo guardaroba, donato nel 1992 al Museo Boncompagni Ludovisi, e un gruppo di gioielli raccolti per sé e per la Galleria.

Corriere della Sera 31.8.09
Quel giorno la Germania nazista, forte dell’accordo Molotov-Ribbentrop, invadeva la Polonia
Danzica, 1˚ settembre 1939 La guerra al mondo di Hitler
di Sergio Romano


Domani ricorre il Settantesimo anniversario dell’invasione nazista della Polonia, evento che diede inizio alla Seconda guerra mondiale. Il 1˚settembre 1939 le truppe di Hitler varcarono il confine stabilito al termine della Prima guerra mondiale per ricongiungere la «città libera» di Danzica alla «Madrepatria tedesca». In realtà, il dittatore nazista si era segretamente accordato con Stalin per spartirsi l’intero territorio polacco. In pochi giorni, il «Blitzkrieg» (guerra lampo) scatenata da terra, dal mare e dall’aria, con i bombardamenti degli Stukas sulle città e i villaggi, ebbe ragione dell’esercito polacco. Il 17 settembre anche l’Urss attaccò la Polonia. Il 1˚ottobre il Paese era completamente occupato e diviso in «sfere di influenza». Per rimarcare gli avvenimenti di 70 anni fa, si ritroveranno dunque a Danzica i capi di Stato e di governo di una ventina di Paesi. Alla cerimonia, presieduta dall’attuale presidente polacco, Lech Kaczynski, e dal premier Donald Tusk, parteciperanno anche la cancelliera tedesca Angela Merkel, il premier russo Vladimir Putin e l’italiano Silvio Berlusconi.

Negli ultimi giorni, persino nelle ultime ore prima dell’inizio del con­flitto, i governi e le diplomazie con­tinuarono a comportarsi come se la pace fosse ancora possibile. I consi­gli dei ministri delle maggiori po­tenze europee tennero frenetiche riunioni straordinarie. Gli amba­sciatori ricevettero concitati dispac­ci, chiesero udienza ai governi pres­so i quali erano accreditati, avanza­rono proposte, suggerirono confe­renze quadripartite come quella che un anno prima, a Monaco, ave­va regalato all’Europa una pace bre­ve e illusoria. A Londra, a Parigi, a Roma esistevano ancora persone che tentavano disperatamente di riannodare il filo spezzato dei rap­porti tedesco-polacchi. Qualcuno, senza dubbio sarebbe stato pronto, come nell’incontro quadripartito di Monaco, a sfamare Hitler con un’altra libbra di carne. Era tutto inutile. Il primo ad accorgersi che i giochi erano fatti e che non vi sa­rebbero stati, per la diplomazia eu­ropea, «tempi supplementari», fu l’ambasciatore d’Italia a Berlino Ber­nardo Attolico. Tentò di convince­re Ribbentrop a ricevere l’ambascia­tore polacco ed ebbe il dubbio ono­re di una udienza con il Führer da cui ricevette il testo delle inaccetta­bili e umilianti proposte che la Ger­mania aveva inviato alla Polonia. Tentò un’ultima carta e propose la mediazione dell’Italia. Ma Hitler, con falsa cortesia, disse che non vo­leva mettere il Duce in una situazio­ne imbarazzante. Ma allora, chiese Attolico, «è tutto finito?». La rispo­sta fu, freddamente, «sì».

Che la guerra fosse stata decisa da tempo e destinata a scoppiare nella notte fra il 31 agosto e il 1˚ settembre è dimostrato dagli inci­denti che i tedeschi avevano minu­ziosamente inscenato per giustifica­re il conflitto. I più macabri e grot­teschi furono quelli di Gleiwitz e Hohlinden, due cittadine tedesche a breve distanza dalla frontiera po­lacca. A Gleiwitz un drappello di SS in uniforme polacca entrò negli uf­fici della radio locale alle otto della sera del 31 agosto, rinchiuse gli ad­detti tedeschi nelle cantine e an­nunciò trionfalmente agli ascoltato­ri della piccola emittente, in polac­co, che la stazione era stata «con­quistata ». Per dare un tocco di veri­tà alla menzogna un altro drappel­lo di SS portò sul luogo un cittadi­no polacco, da tempo prigioniero della Gestapo, e lo uccise. La poli­zia, più tardi, trovò altri due cada­veri che non furono mai identifica­ti.

Nella sede della dogana di Hohlinden, più o meno alla stessa ora, andò in scena un copione anco­ra più sanguinoso. Quando la vicen­da venne alla luce, durante i proces­si di Norimberga, i giudici apprese­ro che l’edificio della dogana era stato «espugnato» da un altro drap­pello di SS in uniforme polacca. Di­strussero l’edificio, spararono pa­recchie salve di proiettili e si lascia­rono docilmente arrestare dalla po­lizia del Reich. Ma sul posto, dopo la farsa, cominciò la mattanza. Tra­sportati da un campo di concentra­mento, sei prigionieri dovettero re­citare la parte delle vittime. Furono uccisi, gettati sul luogo del delitto, esposti ai flash dei fotografi e, per­ché nessuno potesse riconoscerli, sfigurati. Sembra, a onore del vero, che la Wehrmacht, pronta ad ese­guire gli ordini del comando supre­mo e a entrare in territorio polacco, ignorasse di questi spudorati prete­sti.

La vera guerra, quella dei bolletti­ni ufficiali cominciò alle quattro e quarantacinque del mattino del 1˚ settembre con le bordate di una na­ve di battaglia, la Schleswig Hol­lstein, contro la guarnigione polac­ca di Westerplatte, accanto a Danzi­ca. I polacchi reagirono, difesero vi­gorosamente la cittadella di Gdy­nia, tentarono un contrattacco e, prima di soccombere, tennero in scacco i tedeschi per cinque giorni. Vi furono altri scontri e altre resi­stenze, ma la Wehrmacht e la Luf­twaffe (come scrive Donald C. Watt in un bel libro sul 1939 pubblicato da Leonardo vent’anni fa) «aveva­no una schiacciante superiorità nu­merica in tutti gli elementi decisi­vi: negli uomini, negli armamenti, nell’addestramento e nella tattica; di fatto in tutto tranne che nel co­raggio ». La guerra sarebbe durata forse più a lungo se i polacchi, co­me scrive B.H. Liddel Hart nella sua Storia della Seconda guerra mon­diale , avessero concentrato le loro forze dietro due grandi fiumi, la Vi­stola e il San. Ma la strategia di Var­savia fu dettata da una combinazio­ne di considerazioni economiche ed errori politici. I polacchi voleva­no conservare il controllo delle mi­niere di carbone della Slesia, vicino alla frontiera tedesca, e credettero di poter contare sull’immediata as­sistenza militare della Francia e del­la Gran Bretagna. Non compresero che né Londra né Parigi erano allo­ra in condizione di sguarnire il fronte occidentale. E non capirono soprattutto che la loro sorte era sta­ta decisa a Mosca il 23 agosto quan­do Ribbentrop e Molotov, sotto lo sguardo benedicente di Stalin, ave­vano firmato il patto di non aggres­sione tedesco-sovietico. I polacchi ignoravano in quel momento che un protocollo segreto, firmato nel­le stesse ore, prevedeva la spartizio­ne del loro Paese. Ma non poteva­no ignorare che l’Urss aveva dato al­la Germania, con il patto di non ag­gressione, una formale «licenza di uccidere».

A Roma il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano trascorse l’intera giornata del 31 agosto nel tentativo di organizzare una nuova conferen­za quadripartita. Parlò al telefono con Attolico e ricevette gli amba­sciatori di Francia e di Gran Breta­gna. Quando informò Mussolini, verso le nove della sera, che ogni tentativo era stato inutile, questi ne rimase «impressionato» e disse: «È la guerra. Però domani faremo una dichiarazione in Gran Consi­glio che noi non marciamo». Il gior­no dopo, mentre in Polonia si com­batteva, Ciano annotò nel suo dia­rio: «Il Duce è calmo. Ormai ha pre­so la decisione del non intervento e la lotta che ha agitato il suo spirito durante queste ultime settimane è cessata». Vi fu un Consiglio dei mi­nistri alle tre del pomeriggio duran­te il quale venne approvato l’ordi­ne del giorno con cui l’Italia annun­ciava al mondo la sua «non bellige­ranza ». Tutti i ministri, sembra, ap­provarono con un sospiro di sollie­vo e qualcuno disse a Ciano, abbrac­ciandolo, che aveva «reso un gran servigio al Paese». Ancora più pro­fondo fu il sospiro di sollievo degli italiani. Cominciò così un felice in­terludio durante il quale potemmo sperare che l’Italia non avrebbe commesso l’errore di gettarsi in una guerra che il suo popolo non desiderava e a cui le sue forze arma­te erano del tutto impreparate. L’in­terludio finì il 10 giugno 1940.

Liberazione 30.8.09
«Siamo all'attacco finale: sostituire l'informazione con la propaganda»
intervista a Giuseppe Giulietti di Sandro Podda



«Se non ora, quando?». E' tempo di scendere in piazza con un blocco sociale il più ampio possibile per Giuseppe Giulietti portavoce di Articolo 21 che in questi giorni ha lanciato il suo appello per la libertà di stampa, dopo l'affondo del premier a La Repubblica . Per Giulietti non si tratta di semplice nervosismo e di reazione scomposta di un Berlusconi in difficoltà, ma l'attacco finale con cui il premier vuole chiudere tutti gli spazi di dissenso e sostituire integralmente l'informazione con la propaganda. Un attacco che riguarda milioni di italiani e che chiede una risposta di massa.

L'attacco a La Repubblica, ma anche a Famiglia Cristiana o ancora più spregiudicato a L'Avvenire. Come giudica gli avvenimenti di questi giorni?
Bisogna sfrondare questa vicenda dai tanti dettagli di cui si compone. Sembra che Berlusconi all'improvviso abbia perso le staffe, ch eabbia avuto quasi uno scatto di semplice ira nei confronti della stampa. A mio giudizio non è così. E' un disegno lucido, che Berlusconi covava da tempo e che al di là delle forme in cui si è manifestato adesso corrisponde al progetto finale di costruzione a tappe forzate di una repubblica presidenziale a "reti semiunificate" e forse tra breve anche a "reti unificate".
Berlusconi è un leader arrivato probabilmente al termine della sua parabola, che non riuscendo più a dare risposte di governo al suo blocco sociale, tenta un'operazione piuttosto torbida e inedita in Europa occidentale: sostituire completamente la politica con la propaganda attraverso le armi a sua disposizione, come il controllo delle piazze mediatiche, in particolare le televisioni. 

Un fatto non del tutto inedito.
C'è però un'accelerazione in questo senso che non dovrebbe essere sottovalutata. In passato lo schema con cui Berlusconi delegittimava chiunque lo criticasse era: i miei nemici sono tutti rossi e comunisti, io guido l'assalto contro i comunisti ed espello giornalisti, scrittori autori "rossi" che mi infastidiscono. La novità è che ora inserisce nell'elenco dei nemici, di quelli che chiama i "deviati" e i "devianti", ancora prima che i direttori dei giornali, sono finiti alcuni temi sociali, i soggetti sociali che li rappresentano e i giornali che in modo diverso e spesso tenue, affrontano questi temi. Un esempio: è chiaro che Berlusconi consideri nemica Rai3 e il Tg3. Ma dove è scattata la rabbia livida e l'attacco? Una volta che, forse del tutto casualmente, il Tg3 ha deciso di aprire con gli operai della Inse e con i dati dell'Istat. Il giorno dopo Berlusconi è furioso e dichiara che ora di farla finita e che non se ne può più. Il Tg3 diventa il nemico che rappresenta la crisi, anzi che tenta di aggravarla. L' Avvenire non è certo un giornale contrario al premier, anzi ha appoggiato la sua vittoria elettorale. Come mai diventa un nemico? Non per i riferimenti alla vita privata di Berlusconi, ma per la vicenda del reato di clandestinità. Nel momento in cui Avvenire scrive che il peccato originale è il reato di clandestinità, tocca uno di quei temi che cementa l'alleanza di Berlusconi e la Lega e diventa un avversario. Così Famiglia Cristiana se affronta il tema delle mense dei poveri. A mio avviso Berlusconi sta preparando questa "campagna d'autunno" per mettere sotto silenzio Rai3, trovando magari anche due del centrosinistra da inserire che gli vadano bene dicendo "o accettate chi dico io o le nomine le faccio a maggioranza anche per Rai3". Il tentativo è quello di eliminare quegli spazi anche residuali di dissenso. Un assalto che riguarda i temi che non vuole più veder rappresentati. Lo ha detto esplicitamente mesi fa, non vuole più vedere in televisione notizie che riguardino la povertà o la crisi economica e sociale e tutto quello che può determinare «ansia». La propaganda deve invadere tutti gli spazi di informazione. 

Non corre però su questioni come i migranti il pericolo di scontrarsi con quel blocco sociale dei cattolici di base, del volontariato cattolico?
Il limite di questa sua azione è proprio qui. Da una parte tenta una dimostrazione di forza estrema. Dall'altra c'è la questione con cui Berlusconi non riesce a fare i conti e con cui rischia la rottura. Dal suo punto di vista vorrebbe oscurare tutto quello che non gli piace. Ma, proprio perchè c'è una crisi economica e sociale in essere, quello che non gli piace non riguarda solo quelli che lui chiama i "rossi", ma riguarda milioni di italiani, compresi quelli che si percepiscono moderati o addirittura molte delle persone che hanno votato per lui. Questo è il grande limite della carta estrema che sta giocando. 

Potrebbe uscire indebolito da questo braccio di ferro o addirittura sconfitto?
Non sottovaluterei la sua capacità di muoversi fuori dalle regole e la situazione in cui ci troviamo abbastanza "torbida", come i grandi esponenti del movimento operaio definivano in passato quei passaggi sociali poco chiari, aperti ad ogni sbocco. Sia positivo che paradossalmente peggiorativo. Non va sottovalutato Berlusconi, perché è un uomo e un politico irrituale, al di fuori degli schemi e deciso a giocare tutte le carte compresa la rottura costituzionale. Bisogna tenere conto che il Parlamento è in sostanza già chiuso, le decisioni le prende lui a colpi di maggioranza. 

Ma il peccato originale di questa situazione non è in fondo il non aver mai varato una legge sul conflitto di interesse e lasciare che in Italia si generasse una situazione piuttosto unica nelle democarazie occidentali
Sta venendo fuori il grave errore di valutazione del conflitto di interessi. Non si trattava di un dato sovrastrutturale, un epifenomeno. Attraverso di esso Berlusconi ha pompato veleno nelle arterie della comunità, alterando la percezione della società. Solo in Italia ho potuto leggere articoli o addirittura libri che sostenessero che le televisioni non influenzano i voti. Una corte di opinionisti o intellettuali che hanno scritto saggi che fanno ridere. Questo è ciò che non è stato colto, scambiato per una questione degli addetti ai lavori o una rivendicazione dei fissati con la Costituzione. 

Sulla Rete però l'informazione sembra ancora poter diffondersi più liberamente. Non sarà anche questo il motivo degli attacchi previsti per bloggers e internauti in generale?
Il problema dell'indignazione che si solleva su Internet è la sua traduzione poi in fatti concreti. Un tempo, quando c'erano le grandi organizzazioni politiche e operaie in Italia, quando avveniva un attacco alla democrazia, o c'era il rischio di una rottura costituzionale, di uno stravolgimento dell'articolo 21 della Costituzione, ferme restando tutte le differenze tra le forze politiche e sociali, c'era uno scatto di tutti. E ci potrebbe essere ancora. In Francia si direbbe "Se non ora, quando". C'è bisogno di una grande manifestazione nazionale che parta dalla stampa, dalla cultura e lo spettacolo pesantamente attaccati con il taglio del Fus, dalle organizzazioni sindacali. Serve una grande manifestazione nazionale. Il titolo potrebbe essere "Sbavagliamoci", sulla difesa dell'art.21. A sfilare devono essere non solo i giornalisti, ma tutti i soggetti che rischiano di essere oscurati: il cinema, lo spettacolo, gli operai dela Inse, di Bagnoli, chi si occupa di immigrazione, gli operatori della Caritas... Tutti, anche i moderati, perché quando si tratta di un valore così alto come quello della Costituzione e della democrazia vanno chiamati a raccolta non soltanto i "fedelissimi", ma tutti i soggetti espropriati da un diritto.

Il deterioramento della società è comunque palpabile. E' possibile veramente tornare uniti in un piazza?
C'è un intorpidimento, quasi il senso dell'inutilità. Ma le condizioni sociali ci sono. Sarebbe meglio che non partisse da un partito, a sinistra c'è una grossa litigiosità, l'iniziativa di una componente sarebbe boicottata dall'altra. La cosa migliore sarebbe che l'iniziativa fosse promossa dalla stessa Fnsi, da economisti, dalle Arci, dalle Acli, coinvolgendo anche cinema, spettacolo e cultura. Riuscire cioè a riunire una rete associativa amplia, coinvolgendo anche le realtà del precariato culturale. Berlusconi ha esplicitato il suo piano e fatto capire che lo porterà avanti in maniera anche più canagliesca. Non serve solo indignarsi, ma bisogna organizzare una risposta di piazza magari nel giorno in cui tenteranno di approvare la legge bavaglio sulle intercettazioni.



Liberazione 30.8.09
La Cgil deciderà martedì sul da farsi. Pantaleo: «Un movimento che fermi i tagli» A lezione di sciopero: si estende nella scuola la lotta degli insegnanti
di Fabio Sebastiani



La vera notizia è che la cifra degli esuberi nella scuola potrebbe essere molto più altra dei 18mila di cui si è parlato nei tavoli di confronto tra ministero della Pubblica istruzione e sindacati. La Cgil pretende di avere i numeri giusti dal Governo. Il tam tam degli insegnanti è già al lavoro per fare una prima ricognizione. Il tema sarà all'ordine del giorno nel prossimo "incontro tecnico" previsto per il 3 settembre. Incontro che non cambierà certo il volto dell'emergenza. Intanto, il movimento dei precari della scuola sta crescendo di giorno in giorno, soprattutto al Sud, con tante le forme di lotta. Mentre a Palermo prosegue lo sciopero della fame, e l'incatenamento, davanti a palazzo d'Orleans, sede della Giunta regionale della Sicilia, a Benevento sette insegnanti si sono arrampicati fin sopra il tetto del provveditorato agli studi (Ups) e ci resteranno fino a quando tutta questa vicenda delle espulsioni non avrà termine. Proteste sono in corso anche a Taranto, a Salerno, a Messina, a Bari. Tra le altre, anche forme fantasione come in Umbria, dove gli insegnanti che hanno vinto il "terno al lotto" dell'incarico si sono presentati a ritirare la nomina in mutande. A Belluno, un professore di educazione fisica, precario da un quarto di secolo, si è vestito da sposa per ritirare la sua nomina annuale celebrando così le "sue nozze d'argento" con il precariato. Ad accompagnarlo, alcune decine di allievi che gli tenevano il velo. Fabrizio Pra Mio, 48 anni, originario di Enna, da 25 residente a Forno di Zoldo (Belluno), bomber tra l'altro nella squadra di calcio zoldana con 265 reti, è da anni che esprime la sua protesta con i travestimenti. Con 19 anni di precariato, raccontano i giornali locali, era arrivato al primo posto in graduatoria: per festeggiare il fatto di essere arrivato in cima, si era travestito da scalatore. A 20 anni di precariato, ha indossato i panni di Eolo, dio dei venti. Successivamente, ha indossato i panni di mago Merlino: forse la magia avrebbe potuto dargli un posto fisso. Anche quest'anno invece resterà precario, con part time in due località poste su versanti diversi delle Dolomiti bellunesi. Tra i travestimenti di Pra Mio, un costume con attaccati tanti barattoli, su ognuno dei quali c'era il nome di una delle sedi scolastiche in cui ha lavorato. 
Ci sono anche situazioni molto meno ironiche di questa, come a Caserta dove marito e moglie, entrambi con incarico annuale nella scuola, ieri hanno minacciato minacciando di lanciarsi nel vuoto da una finestra dell'Ufficio scolastico provinciale. I due, hanno spiegato a polizia e carabinieri, sono rimasti senza posto di lavoro. Entrambi hanno rinunciato all'incarico in una scuola di Brescia, perchè alcuni sindacalisti, secondo il racconto dei due, avrebbero detto loro che sarebbero riusciti ad entrare in graduatoria a Caserta grazie al punteggio alto. Invece non sono riusciti ad avere l'assegnazione nel casertano e sono stati esclusi dalla graduatoria di Brescia, per rinuncia. Nel 2002 l'uomo fu protagonista insieme con altri di una protesta: s'incatenò perchè il Comune non intendeva rinnovare il suo contratto a termine. 
La segreteria nazionale della Flc-Cgil è pronta a dichiarare iniziative di lotta, tra cui anche lo sciopero generale. E la prima riunione utile per decidere il da farsi sarà il primo settembre. 
«Siamo al caos generale - sottolinea a Liberazione il segretario generale della Flc-Cgil Mimmo Pantaleo -. Occorre un movimento che metta in discussione i tagli e che faccia una lotta dura. Non dobbiamo dimenticarci infatti che i tagli continueranno anche per i prossimi due anni». 
Barbara Battista, della segretria nazionale della Cub-Scuola, polemizza proprio con la Cgil ricordando le vicende dell'autunno del 2008 quando «mentre il sindacalismo di base fece uno sciopero generale senza precedenti il sindacalismo confederale ha giocato benen le sue carte facendo mobilitare la scuola dopo l'approvazione del decreto Gelmini sul maestro unico». «Questo - aggiunge la Battisti - se lo ricordano gli insegnanti, soprattutto quelli che stanno ai sit in e in queste ore stanno lottando». La Cub-Scuola mette l'accento sui contratti di disponbilità, definiti una elemosina dagli insegnanti. «La Cgil ha detto che i contratti di disponibilità e le ventimila assunzioni in ruolo sono un successo della Cgil. Invece dimostrano - aggiunge la Battista - che il Governo ha bisogno di far lavorare i precari. Ma a quali condizioni? Il movimento vincerà perché sulla scuola ci giochiamo la democrazia del nostro paese. E quindi l'obiettivo è l'assunzione a tempo indeterminato dei trecentomila precari su tutti i posti disponbili perché è possibile». 
Paradossale e al limite della farsa, invece, la dichiarazione del segretario della Cisl Raffaele Bonanni che di fronte alle iniziative di protesta non trova di meglio da dire che non ci sarà «un autunno caldo ma un autunno di lavoro». «Sappiamo che da lunedì dobbiamo iniziare a lavorare incessantemente per convincere tutti che la soluzione migliore in questo momento è quella di avere una sola strategia tra governo e opposizione, imprenditori e sindacati» ha aggiunto Bonanni che chiede quindi la convocazione di un grande summit tra governo e tutte le parti sociali. L'obiettivo è, udite udite, quello di «concordare» una politica economica da seguire avendo dal governo «l'indicazione sugli investimenti, selettivi, che intende effettuare» così come la garanzia di spesa su quelli già programmati.

Liberazione 30.8.09
Benevento, parla una insegnante che partecipa alla protesta «Ormai non abbiamo davvero
più nulla da perdere»
di Fa. Seba.


In sette, tra insegnanti e personale amministrativo, hanno occupato ieri il terrazzo della sede dell'Ufficio scolastico provinciale di Benevento per protestare contro i tagli nella scuola. Rimarranno lassù fino a quando il Governo non ritirerà i tagli. La sera precedente un altro gruppo di precari era salito sul palco del concerto di Francesco De Gregori e Lucio Dalla, dove hanno letto un documento. Liberazione ha intervistato Daniela, che sta partecipando alla protesta. 

Perché avete deciso questa forma estrema di lotta?
Perché ormai non abbiamo nulla da perdere. C'è gente che alla soglia dei 50 anni e dopo venti di precariato si vede sbattere fuori. Ti basta? In questi anni abbiamo fatto di tutto e aggiunto sempre nuovi titoli, ma il ministero spostava sempre più avanti la soglia per poter entrare nella scuola. Così è uno sfinimento. L'immissione in ruolo non arriva mai. Quest'anno la cosa grave è che non arriva nemmeno l'incarico annuale. In Campania c'è il maggior numero di tagli, circa seimila. Solo a Benevento, circa 500, e non ci sono più alternative. I tagli del governo stanno colpendo l'anello più debole, i precari.

La Gelmini ha tirato fuori il contratto di disponibilità. Cosa ne pensate?
Il contratto di disponibilità è una elemosina. Verremmo utilizzati per le supplenze. Noi ci siamo abilitati per insegnare non per rattoppare i buchi. E' un provvedimento che ci toglie ancora una volta la dignità lavorativa. Ci sentiamo privati di tutto, e non più tutelati. Quando apro i giornali e mi sento dire che sono una professoressa terrona e somara mi sale una rabbia da non credere. 

Come vi siete organizzati per reggere l'occupazione?
Ci siamo portati cibo, sali minerali e un materassino gonfiabile. Per le nostre necessità utilizziamo le buste. Sotto ci sono i volontari che ci riforniscono. Le brigate della solidarietà, per esempio, ci stanno dando una mano. Stiamo su un terrazzo catramato dove la temperatura raggiunge anche i 40 gradi. 

Reazioni della gente?
Di solidarietà. I miei figli hanno detto di non mollare. I nostri figli per andare in palestra e per uscire il sabato sera debbono sperare che la mamma prenda l'incarico. Mio figlio ha 16 anni e mi ha detto di non preoccuparmi perché l'anno prossimo quando prenderà il diploma all'alberghiero ci penserà lui. Come genitore è umiliante. 

Come avete deciso la squadra che è salita sul tetto?
Abbiamo raccolto adesioni volontarie. Ci siamo resi conto che le mobilitazioni non servivano più a niente. Non possono più nascondersi dietro un dito e dire che non ci sono licenziati. E noi che siamo, fantasmi? 

Solidarietà dagli altri insegnanti?
Anche quelli di ruolo si sentono precari. Ci sono colleghi che sono andati in esubero addirittura sulle proprie materie. Molti sono rimasti senza cattedra. Dato che il contratto prevede che se entro due anni non trovi un'altra collocazione nella scuola vieni cacciato, allora molti verranno utilizzati nel sostegno. Ma la legge prevede che per il sostegno devi avere un titolo biennale. E il ministero dice che glielo farà conseguire in seguito. Un vero scandalo.

Liberazione 30.8.09
I "crediti" dei docenti di religione cattolica
Quel regolamento è illegittimo
di Antonia Sani



Cara "Liberazione", l'ambiguità del Regolamento sulla valutazione pubblicato recentemente sulla Gazzetta ufficiale del 20 agosto per quanto riguarda l'art. 6, ha scatenato reazioni controverse, che rischiano di creare confusione. Prima di tutto va chiarita la differenza tra "scrutinio finale" e "attribuzione dei crediti". Sono entrambe operazioni che spettano al Consiglio di classe, ma non sono la medesima operazione. La partecipazione del docente di religione cattolica (r. c.) allo scrutinio è regolata dal Testo unico delle leggi sulla scuola e dall'Intesa del 1990 e non può essere mutata da un Regolamento. Quindi, per quanto riguarda lo scrutinio, non ci possono essere cambiamenti. Per quanto riguarda l'attribuzione del credito, il Tar si è espresso chiaramente con la sent. 7076. Qui sta l'ambiguità dell'art. 6. E' sempre il Consiglio di classe che attribuisce il credito scolastico, ma i docenti di r. c., che pure fanno parte "a pieno titolo" del Consiglio di classe, non possono attribuire il credito per i motivi citati nella sentenza del Tar del Lazio. Nell'art.6 questo non è detto chiaramente! Anzi. Nel Regolamento, come si dice che gli insegnanti di r. c. hanno titolo a partecipare allo scrutinio «limitatamente agli alunni che si avvalgono», così si dovrebbe aggiungere «nei limiti stabiliti dalla sentenza 7076 del Tar del Lazio». In verità, la speranza di molti è che nelle scuole si interpreti il regolamento illegittimamente ignorando la sentenza del Tar, così come in molte scuole si è ignorata la disposizione contenuta nell'Intesa del 1990; non sono pochi gli alunni e alunne promossi/e illegittimamente col voto determinante del docente di r. c.! Quindi, sono del parere che questo art. 6 debba essere considerato illegittimo, finché non sarà chiarito che il docente di r. c. non può attribuire crediti che potrebbero attrarre a scegliere l'insegnamento della religione cattolica per motivi di opportunismo. Bisogna abituarsi a pensare che quel "pieno titolo" applicato a un insegnamento confessionale incontra inevitabilmente dei limiti!

Liberazione 30.8.09
Marcello Sorgi e lo spazio degli atei
di Marco Bertinatti

Cara "Liberazione", dopo aver letto l'ultimo editoriale di Marcello Sorgi "Tutti cattolici se i laici non parlano", pubblicato su "La Stampa", mi sono chiesto se l'autore intendesse fare della sottile ironia o se veramente crede in ciò che ha scritto. Nel secondo caso desidererei domandargli quali siano gli spazi riservati ai laici per esprimere la loro opinione. Già la scelta del vocabolo utilizzato per definire chi non ha ricevuto il "dono della fede" è indicativa del suo timore nei confronti di quell'aggettivo maledetto, ateo (ovvero mancante di qualcosa), riservato a chi crede solo nella Natura e nell'Uomo. E se invece fossero i credenti ad avere qualcosa di troppo? Qual è il rapporto tra lo spazio riservato agli atei per presentare le loro tesi e quello dedicato ai credenti dai mass media? Dal momento che i decimali per scriverlo sono molti, mi limiterò alla mia personale esperienza proprio con il giornale del quale l'autore è stato anche direttore. Essendo per l'appunto ateo, conosco i fondamenti del cristianesimo meglio della maggioranza dei credenti e pertanto mi è naturale evidenziarne le incongruenze correlandole con i fatti di cronaca. Purtroppo con i miei interventi che "La Stampa" ha rifiutato di pubblicare potrei realizzare un intero volume. Questa mia esperienza è condivisa da tanti altri che, come me, sono riusciti a liberarsi dal "dono della fede" e desidererebbero confrontarsi con chi non ci è ancora riuscito. Senza questo "dono" il Mondo sarebbe certamente un posto migliore in cui vivere (con meno guerre e meno tasse) e questa opinione viene condivisa dalle più brillanti menti, passate e presenti, dell'Umanità…

domenica 30 agosto 2009

l’Unità 30.8.09
Il colpo di stato d’autunno
Luigi De Magistris


Nei prossimi mesi la maggioranza politica tenterà di attuare il più devastante disegno autoritario dal dopoguerra in poi
Credo che il popolo italiano debba essere consapevole che la maggioranza politica di ispirazione piduista tenterà di utilizzare le Istituzioni per portare a compimento nei prossimi mesiil più devastante disegno autoritario mai concepito dal dopoguerra in poi. Un vero golpe d’autunno.
Da un punto di vista istituzionale si cercherà di rafforzare il progetto presidenzialista di tipo peronista disegnato su misura dell’attuale Premier. Poteri assoluti al Capo dello Stato eletto dal popolo. Elezioni supportate dalla propaganda di regime costruita attraverso il controllo quasi totale dei mezzi di comunicazione. Il Parlamento coerentemente ad un assetto autoritario e verticistico del potere ridotto ad organo di ratifica dei desiderata dell’esecutivo con le opposizioni democratiche messe in condizione di esercitare mera testimonianza. La distruzione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura attraverso la sottoposizione del pubblico ministero al potere esecutivo con modifiche costituzionali realizzate illegittimamente con legge ordinaria (quale quella che subordina il Pm all’iniziativa della polizia giudiziaria e, quindi, del governo), nonché attraverso la mortificazione del suo ruolo attraverso leggi quale quella che elimina di fatto le intercettazioni (rafforzando quindi la cd. microcriminalità in modo, poi, da invocare poteri straordinari per combatterla).
La revisione della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura – non però nella direzione di liberare tali fondamentali organi dalle influenze partitiche e di poteri che pure sono presenti – ma attraverso il rafforzamento della componente politica e partitocratica. La soppressione della libertà di stampa e del pluralismo dell’informazione formalizzando normativamente la scomparsa dei fatti. La disintegrazione della scuola pubblica, dell’università e della ricerca, in modo da favorire il consolidamento della sub-cultura di regime, quella per intenderci che ha realizzato il mito del «papi», ossia del padrone che dispensa posti e prebende.
Il prossimo Presidente della Repubblica – il desiderio dei nuovi peronisti è ovviamente quello che Berlusconi diventi il Capo, il Capo di tutto e di tutti dovrà avere ampi poteri e con questi anche il comando delle forze armate (dopo aver già ottenuto la gestione della sicurezza attraverso la sua privatizzazione con l’utilizzo delle ronde da lanciare magari a caccia di immigrati e omosessuali) in modo da poter governare anche eventuali conflitti sociali con la forza.
Sul piano economico e del lavoro la maggioranza prepara la repressione al dissenso ed al conflitto sociale causato da un disegno che punta a rafforzare le disuguaglianze attraverso una politica economica che consolida sempre più i poteri forti e squilibra fortemente il Paese come nei regimi (chi ha già tanto deve avere di più, mentre sempre di più saranno quelli che non riescono ad arrivare alla fine del mese), con l’assenza del contrasto all’evasione fiscale e l’approvazione di norme che rafforzano il riciclaggio del denaro sporco. Il furto delle risorse pubbliche che vanno a finire nelle tasche dei soliti comitati d’affari. Il mancato adeguamento dei salari al costo della vita. L’incapacità di favorire l’iniziativa economica privata fondata sulla libera concorrenza supportando, invece, la rapacità dei soliti prenditori. L’assenza di strategia che possa rilanciare il lavoro pubblico e privato fondandolo sulla meritocrazia e non sul privilegio e sull’occupazione della cosa pubblica (come, per fare un esempio, nella sanità). Assenza di politiche economiche fondate su sviluppo e lavoro, tutela delle risorse e rispetto della natura e della vita. Il saccheggio, in definitiva, della nostra «Storia».
Un progetto contro il nostro futuro. Il colpo di Stato apparentemente indolore ed a tratti invisibile reso possibile dall’istituzionalizzazione delle mafie, dalla loro penetrazione nelle articolazioni economiche e pubbliche del Paese, dal loro controllo del territorio, dalla capacità di neutralizzare la resistenza costituzionale. Un golpe senza armi ma intriso di violenza morale con l’utilizzo del diritto illegittimo, della creazione di norme in violazione della Costituzione. L’eversione attraverso l’uso di uno schermo legale. L’uccisione della democrazia dal suo interno. È necessario, quindi, che si realizzino subito le condizioni per una grande mobilitazione civile, sociale e politica che si opponga a questo disegno autoritario che stravolge gli equilibri costituzionali e l’assetto democratico del nostro Paese.

Repubblica 30.8.09
Le convulse giornate della Perdonanza
di Eugenio Scalfari


Venerdì scorso il Tg1 diretto dall´ineffabile Minzolini, incurante del fatto che le notizie del giorno fossero l´attacco del «Giornale» contro il direttore dell´"Avvenire", lo scontro tra la Cei e la Santa Sede da un lato e il presidente del Consiglio dall´altro e infine la querela di Berlusconi a Repubblica per le 10 domande a lui dirette e rimaste da giugno senza risposta; incurante di queste addirittura ovvie priorità, ha aperto la trasmissione delle ore 20 con l´intervento del ministro Giulio Tremonti al meeting di Comunione e Liberazione.
Farò altrettanto anch´io. Quell´intervento infatti è rivelatore d´un metodo che caratterizza tutta l´azione di questo governo, mirata a sostituire un´onesta analisi dei fatti con una raffigurazione completamente artefatta e calata come una cappa sulla pubblica opinione curando col maggiore scrupolo che essa non percepisca alcun´altra voce alternativa.
Cito il caso Tremonti perché esso ha particolare rilievo: la verità del ministro dell´Economia si scontra infatti con dati ed elementi di fatto che emergono dagli stessi documenti sfornati dal suo ministero, sicché l´improntitudine tocca il culmine: si offre al pubblico una tesi che fa a pugni con i documenti ufficiali puntando sul fatto che il pubblico scorda le cifre o addirittura non le legge rimanendo invece colpito dalle tesi fantasiose che la quasi totalità dei «media» si guardano bene dal commentare.
Dunque Tremonti venerdì a Rimini al meeting di Cl. Si dice che fosse rimasto indispettito per il successo riscosso in quello stesso luogo due giorni prima di lui dal governatore della Banca d´Italia, Mario Draghi, con il quale ha da tempo pessimi rapporti. Non volendo entrare in diretta polemica con lui si è scagliato contro gli economisti e i banchieri.
Nei confronti dei primi l´accusa è di cretinismo: non si avvidero in tempo utile che stava arrivando una crisi di dimensioni planetarie. Quando se ne avvidero – a crisi ormai esplosa – non chiesero scusa alla pubblica opinione e sdottorarono sulle terapie da applicare mentre avrebbero dovuto tacere almeno per due anni prima di riprendere la parola.
Nei confronti dei banchieri la polemica tremontiana è stata ancor più pesante; non li ha tacciati di cretinismo ma di malafede. Nel momento in cui avrebbero dovuto allentare i cordoni della borsa e aiutare imprese e consumatori a superare la stretta, hanno invece bloccato le erogazioni. «Il governo» ha detto il ministro «ha deciso di non aiutare i banchieri ma di stare vicino alle imprese e ai consumatori».
Così Tremonti, il quale si è spesso auto-lodato di aver avvistato per primo ed unico al mondo l´arrivo della «tempesta perfetta» che avrebbe devastato il mondo intero.
Ho più volte scritto che la primazia vantata da Tremonti non è esistita, ma ammettiamo che le sue capacità previsionali si siano manifestate. Tanto più grave, anzi gravissimo è il fatto che la politica economica da lui impostata fin dal giugno 2008 sia stata l´opposto di quanto la tempesta perfetta in arrivo avrebbe richiesto. Sarebbe stato infatti necessario accumulare tutte le risorse disponibili per fronteggiare l´emergenza, per sostenere la domanda interna, per finanziare le imprese e i redditi da lavoro.
Tremonti fece l´esatto contrario. Abolì l´Ici sulle prime case dei proprietari abbienti (sui proprietari meno abbienti l´abolizione di quell´imposta l´aveva già effettuata il governo Prodi). Si accollò l´onere della liquidazione di Alitalia. Versò per ragioni politico-clientelari fondi importanti ad alcuni Comuni e Province che rischiavano di fallire. Dilapidò risorse consistenti per «aiutini» a pioggia.
In cifre: le prime tre operazioni costarono oltre 10 miliardi di euro; la pioggia degli aiutini ebbe come effetto un aumento del 5 per cento della spesa corrente ordinaria per un totale di 35 miliardi. Ho chiesto più volte che il ministro elencasse la destinazione di questo sperpero ma questo governo non risponde alle domande scomode; resta comunque il fatto.
Ne deduco che il ministro preveggente fece una politica opposta a quello che la preveggenza avrebbe dovuto suggerirgli. Se gli economisti sono cretini che dire di chi, avendo diagnosticato correttamente, applicò una terapia sciagurata?
Quanto ai banchieri: il governo Berlusconi-Tremonti si è più volte vantato di avere ottenuto, nei primissimi incontri parigini avvenuti dopo lo scoppio della crisi, interventi di garanzia a sostegno di eventuali «default» bancari. In Italia tali interventi non furono necessari (altrove in Europa ci furono in misura massiccia) perché le nostre banche erano più solide che altrove, situazione riconosciuta ed elogiata dallo stesso ministro quando ancora i suoi rapporti con Draghi erano passabili. Se ci fu un blocco nei crediti interbancari, questo fu dovuto ai dissesti bancari internazionali. Se c´è tuttora scarsa erogazione creditizia ciò si deve al fatto che i banchieri guardano attentamente al merito del credito e debbono farlo. Tremonti sostiene che i soldi delle banche riguardano le banche mentre quelli del Tesoro riguardano i contribuenti. Ma su un punto sbaglia di grosso: il credito elargito dalle banche è di proprietà dei depositanti che sono quantitativamente addirittura maggiori dei contribuenti.
Concludo dicendo che il nostro ministro dell´Economia ha detto al meeting di Cl un cumulo di sciocchezze assumendo per l´occasione un «look» da profeta biblico che francamente non gli si addice. Ha riscosso molti applausi, ma il pubblico del meeting di Cl applaude convintamente tutti: Tremonti e Draghi, Tony Blair e Bersani, Passera e Tronchetti Provera, il diavolo e l´acqua santa e naturalmente Andreotti. Chi varca quei cancelli si «include» e questo è più che sufficiente per batter le mani. Ecco una questione sulla quale bisognerà ritornare.
* * *
Torniamo ai fatti rilevanti di questi giorni: l´aggressione del «Giornale» all´«Avvenire», il rapporto tra il premier e le gerarchie ecclesiastiche, la querela di Berlusconi contro le domande di Repubblica. Sul nostro giornale sono già intervenuti in molti, da Ezio Mauro a D´Avanzo, a Sofri, a Mancuso, al documento firmato da Cordero, Rodotà e Zagrebelsky sul quale si sta riversando un plebiscito di consensi che mentre scrivo hanno già superato le cinquantamila firme.
Poiché concordo con quanto già stato scritto in proposito mi restano poche osservazioni da aggiungere.
Che Vittorio Feltri sia un giornalista dedito a quello che i francesi chiamano «chantage» o killeraggio che dir si voglia lo sappiamo da un pezzo. Quella è la sua specialità, l´ha praticata in tutti i giornali che ha diretto. Proprio per questa sua caratteristica fui molto sorpreso quando appresi tre anni fa che la pseudofondazione che gestisce un premio intitolato al nome di Mario Pannunzio lo avesse insignito di quella medaglia che in nulla poteva ricordare la personalità del fondatore del «Il Mondo».
I telegiornali e buona parte dei giornali hanno parlato in questi giorni del «giornale di Feltri» omettendo una notizia non secondaria e non sempre presente alla mente dei lettori: il «giornale di Feltri» è il «Giornale» che fu fondato da Indro Montanelli, per molti anni di proprietà di Silvio Berlusconi e poi da lui trasferito prudentemente al suo fratello.
Lo stesso Feltri ha scritto che dopo aver ricevuto la nomina da Paolo Berlusconi si è recato a Palazzo Chigi dove ha avuto un colloquio di un´ora con il presidente del Consiglio. Una visita di cortesia? Di solito un direttore di un giornale appena nominato non va in visita di cortesia dal presidente del Consiglio. Semmai, se proprio sente il bisogno di un atto di riguardo verso le istituzioni, va a presentarsi al Capo dello Stato. E poi un´ora di cortesie è francamente un po´ lunga.
Lo stesso Feltri non ha fatto misteri che il colloquio ha toccato molti argomenti e del resto la sua nomina, che ha avuto esecuzione immediata, si inquadra nella strategia che i «berluscones», con l´avvocato Ghedini in testa, hanno battezzato la controffensiva d´autunno. Cominciata con Minzolini al Tg1 è continuata con l´arrivo di Feltri al «Giornale» e si dovrebbe concludere tra pochi giorni con la normalizzazione di Rete Tre e l´espianto di Fazio, Littizzetto, Gabanelli e Dandini.
La parola espianto è appropriata a questo tipo di strategia: si vuole infatti fare terra bruciata per ogni voce di dissenso. Non solo: si vogliono mettere alla guida del sistema mediatico persone di provata aggressività senza se e senza ma quando la proprietà del mezzo risale direttamente al «compound» berlusconiano, oppure di amichevole neutralità se la proprietà sia di terzi anch´essi amichevolmente neutrali.
Berlusconi avrà certamente illustrato a Feltri la strategia della controffensiva e i bersagli da colpire. Aveva letto l´attacco contro il direttore dell´«Avvenire» prima della sua pubblicazione? Sapeva che sarebbe uscito venerdì? Lo escludo. Feltri è molto geloso della sua autonomia operativa e non è uomo da far leggere i suoi articoli al suo editore. Ma che il direttore di «Avvenire» fosse nel mirino è sicuro. Berlusconi si è dissociato e Feltri ieri ha chiosato che aveva fatto benissimo a dissociarsi da lui. «Glielo avrei suggerito se mi avesse chiesto un parere».
Si dice che la gerarchia vaticana avrebbe sollecitato il suo licenziamento, ma Berlusconi, se anche lo volesse, non lo farà. L´ha fatto con Mentana, ma Mentana non è un giornalista killer. Farlo con Feltri sarebbe assai pericoloso.
Una parola sulle dichiarazioni di dissenso da Feltri fatte ieri da tutti i colonnelli del centrodestra, da Lupi a Gasparri, a Quagliariello, a Rotondi. Berlusconi si è dissociato? I colonnelli si allineano. E´ sempre stato così nella casa del Popolo della Libertà. Tremonti, pudicamente, ha parlato d´altro.
E la Perdonanza?
* * *
Come si sa la Perdonanza fu istituita da Celestino V, il solo papa che si sia dimesso nella millenaria storia della Chiesa, come una sorta di pre-Giubileo che fu poi istituzionalizzato dal suo successore Bonifacio VIII.
I potenti dell´epoca avevano molti modi e molti mezzi per farsi perdonare i peccati, ma i poveri ne avevano pochi e le pene erano molto pesanti. La Perdonanza fu una sorta di indulgenza di massa che aveva come condizione la pubblica confessione dei peccati gravi, tra i quali l´omicidio, la bestemmia, l´adulterio, la violazione dei sacramenti. Confessione pubblica e perdono. Una volta l´anno. Di qui partirono poi le indulgenze ed il loro traffico che tre secoli dopo aveva generato una sistematica simonia da cui nacque la scissione di Martin Lutero.
E´ difficile immaginare in che modo si sarebbe svolta l´altro ieri la festa della Perdonanza con la presenza del Segretario di Stato vaticano inviato dal Papa in sua vece e con accanto il presidente del Consiglio a cena e nella processione dei «perdonati». Diciamo la verità: il killeraggio di Feltri contro Boffo ha risparmiato al cardinal Bertone una situazione che definire imbarazzante è dir poco anche perché era stata da lui stesso negoziata e voluta.
Dopo l´attacco di Feltri quella situazione era diventata impossibile, ma non facciamoci illusioni: la Chiesa vuole includere tutto ciò che può portar beneficio alle anime dei fedeli e al corpo della Chiesa.
Se Berlusconi si pentisse davvero, confessasse i suoi peccati pubblicamente, si ravvedesse, la Chiesa sarebbe contenta. Ma se lo facesse sarebbe come aver risposto alle 10 domande di Repubblica. Quindi non lo farà.
Nessun beneficio per l´anima sua, ma resta il tema dei benefici per il corpo della Chiesa. Lì c´è molto grasso da dare e il premier è prontissimo a darlo.
In realtà il prezzo sarà pagato dalla democrazia italiana, dalla laicità dello Stato e dai cittadini se il paese non trarrà da tutto quanto è accaduto di vergognoso ed infimo un soprassalto di dignità.

Corriere della Sera 30.8.09
Strappi visibili e mutamenti di fondo
Quelle distanze con la Chiesa
di Ernesto Galli Della Loggia


È certamente un fatto nuovo nel dopo­guerra lo scontro al calor bianco che si registra in queste ore tra una parte delle alte gerar­chie cattoliche e il centrode­stra. Non è certo un dato da sottovalutare, anche se è probabile che nel giro di qualche tempo esso sarà in un certo modo riassorbito, non convenendo una rottu­ra a nessuna delle due parti in causa. E allora emergerà in tutta evidenza un dato so­stanziale: il mutamento del­l’opinione pubblica circa i rapporti tra Chiesa e Stato e tutto ciò che essi significa­no e comprendono. Si trat­ta di un mutamento di fondo. Questa svolta dell’opi­nione pubblica comincerà a far sentire sempre di più il suo peso.
Il mutamento di cui sto parlando ha un effetto so­prattutto: quello di rendere progressivamente inattuale la vecchia distinzione antago­nistica laici-cattolici. Una lun­ga fase della storia italiana è stata percorsa da questo anta­gonismo. Esso aveva il pro­prio epicentro nella periodi­ca disputa circa la legislazio­ne dello Stato in alcune mate­rie «sensibili» (istruzione, matrimonio, ecc.), ma era per così dire tenuto sotto controllo dall’esistenza nel Paese di un’opinione assolu­tamente maggioritaria circa un punto decisivo: il ricono­scimento dell’imprescindibi­le carattere istituzionale del­la Chiesa cattolica. Cioè che questa, per svolgere la sua missione, ha bisogno di una totale e piena autonomia che in pratica solo la riconosciu­ta sovranità nei propri ambi­ti può assicurarle, nonché di adeguati strumenti (anche fi­nanziari) di presenza e d’in­tervento nella società. È da ta­le opinione diffusa che è di­scesa per tutti i decenni della prima Repubblica la presso­ché unanime accettazione del Concordato come stru­mento regolativo dei rappor­ti tra Stato e Chiesa. Alla cui base, difatti, non c’è una que­stione di oggettiva «libertà» della Chiesa (a tal fine baste­rebbe qualunque Costituzio­ne democratica), ma la que­stione della sua «sovranità»: per cui essa si «sente» libera solo se in qualche modo è an­che «sovrana».
Ciò che sta mutando (e ve­nendo meno) è proprio la pressoché unanime accetta­zione di cui ora ho detto. Sia tra i credenti che tra i non credenti va facendosi strada, infatti, l’idea che la Chiesa non debba possedere un ca­rattere istituzionale di segno forte. I primi lo pensano per il rinnovato sogno di una fe­de capace di vivere e di affer­marsi nel mondo per la sola forza dello Spirito e della Pa­rola; nonché per la sempre rinnovata paura di contami­nare l’altezza dei «principi» con la miseria della «realtà». Tra i secondi, invece, va dif­fondendosi la convinzione — fatta propria in preceden­za da pochi laici doc — che una Chiesa istituzionalizzata e «sovrana», e dunque il Con­cordato che ne è il riconosci­mento, non solo rappresenti­no un attentato all’eguaglian­za dei cittadini e all’esercizio di una sfera dei diritti sem­pre più ampia e orientata soggettivisticamente, ma configurino altresì un’indebi­ta presenza della religione nello spazio pubblico. La di­stinzione si sta appunto spo­stando su questo piano: non più tra «laici» e «cattolici» ma tra chi è favorevole e chi è contrario al riconoscimen­to del carattere istituzionale della Chiesa e di un suo spa­zio sociale. Il che comporta una completa dislocazione dei vecchi schieramenti: sic­ché così come credenti e non credenti possono tran­quillamente trovarsi da una medesima parte contro la Chiesa ufficiale considerata « autoritario- temporalisti­ca », egualmente sul versante opposto può avvenire lo stes­so, considerando comunque la religione, anche i non cre­denti, un contributo prezio­so all’identità collettiva e alla definizione dei valori di fon­do della società.

Liberazione 29.8.09
Dario Fo: «Censurano la memoria collettiva e la sinistra rimane in trance»
intervista di Boris Sollazzo


Dario Fo lo troviamo ad Alcatraz. Tranquilli, non lo hanno (ancora) rinchiuso, il suo teatro politico non è diventato così inviso al Potere da costringere il nostro più grande attore e teatrante in una cella d'isolamento. L'Alcatraz di cui parliamo è il paradiso ideale dove molti di noi vorrebbero stare, quella libera università del figlio Jacopo che rappresenta un esempio di ideali di progresso sostenibile portati nella realtà (per saperne di più iscrivetevi al suo esilarante e geniale blog). Ha appena concluso una lezione per gli alunni di Stefano Benni, è già in fibrillazione per lo spettacolo Da Giotto a Mistero buffo (mix tra l'ultimo lavoro e quello più famoso) che lo vedrà mattatore il 1° settembre nella Piazza Grande di Gubbio. 
Nel frattempo, nella splendida cornice della cittadina umbra, sarà tra i protagonisti della manifestazione "Life in Gubbio", frutto dell'impegno di Michele Francesco Afferrante e Filippo Mauceri, autori de Il senso della vita di Paolo Bonolis, collaboratore onnipresente della manifestazione. Immagini, musica e parole, mostre, concerti e incontri letterari, tra performance e ospiti d'eccezione. Come quelli premiati con il riconoscimento alla carriera "Senso di una vita": Gigi Proietti, Nicola Piovani e, appunto, Dario Fo. E il premio Nobel lo avevamo già incontrato un anno fa, a Locarno, per il documentario di Andrea Nobile Io non sono un moderato , viaggio nella sua candidatura a sindaco di Milano. Esaltante, turbolenta, istrionica e piena di sincero impegno civile e intellettuale come ogni suo spettacolo. La conferenza stampa divenne un comizio di rabbia e passione, e persino i sempre compassati svizzeri ne furono travolti. Lucido e coraggioso nei suoi spettacoli- i migliori rimangono quelli che uniscono la sua arte straripante alle verità nascoste del passato (anche remoto) italiano-, è sempre alla ricerca di ciò che viene celato. E così lo abbiamo potuto vedere in un altro documentario, Zero , sostenere tesi avventurose e di sicuro scomode sull'11 settembre o nello spettacolo teatrale Giotto, non Giotto , ritratto apocrifo e personale del pittore e indagine lunga e documentata, restituire a Pietro Cavallini e non al grande artista la paternità dei noti affreschi della Basilica Superiore di Assisi. Che gli sono costati l'ultima censura, da un vescovo. Guai a toccare le false verità della Chiesa, anche quando non riguardano i segreti del Dogma ma solo un pittore troppo giovane per una commissione troppo prestigiosa. Già, perché tra le tante cose che Dario Fo ci può raccontare, c'è anche il fatto che nell'Italia attuale si può essere imbavagliati anche per una lezione di storia dell'arte.

Senso di una vita, bella dicitura per uno come lei, di solito restio alle celebrazioni
Un premio con una dicitura simpatica e importante. Per questo l'ho accettato, io non amo molto i riconoscimenti e ne rifiuto una quantità industriale ogni anno, ma qui c'erano persone chiare e pulite, non c'era nessun tentativo di "scambio merce", il classico ricatto di chi vuole premiarti per sfruttare la tua immagine, magari per avere il numero, la presenza a sensazione sul palco. L'assenza di questo tipo di speculazione e la loro credibilità mi ha convinto, qui hanno da proporre una forte attenzione all'arte e la cultura, ma anche alla cosa pubblica a un certo interesse al teatro politico.

Gubbio non la vedrà solo ritirare un premio, però…
Già, rimarrò qui, il 1° settembre per lo spettacolo Da Giotto a Mistero buffo . Ricorderò la polemica vergognosa che mi ha colpito quando il mio spettacolo sul pittore è stato censurato (circa due mesi fa- ndr ). Un problema costante in Italia, e pensare che allora fu il sindaco a proporci lo spettacolo, parlammo anche con i frati di Assisi del Sacro Convento, nessuno aveva da eccepire nulla. Poi, però, è arrivato il diktat, l'intervento a piedi uniti del vescovo. E in questo caso parliamo solo di un modo diverso di leggere una forma di pittura, di chi ha avuto un'idea e l'ha sviluppata in un posto importante come Assisi in quegli anni. La dice lunga sullo stato della cultura italiana.

Censura secolare, in tutti i sensi. Cosa ne dice del trailer negato dalla Rai a "Videocracy" di Erik Gandini?
Non faccio fatica a immaginare che la tv di stato abbia proibito il trailer. Io mi trovo in difficoltà a proporre oggi in televisione quello che proponevo solo l'anno scorso. Ogni spazio per qualcosa di diverso si è ristretto, censurano qualsiasi cosa e buttano all'aria tutto. C'è l'arraffo totale, Berlusconi vuole mettere le mani su qualsiasi momento espressivo, e ovviamente la televisione è centrale in questa caccia.

Berlusconi è il grande nemico. Ma lei di censure ne ha subite sempre e da ogni parte. Segno che è un problema dell'intero sistema politico e culturale?
Ovvio che è un problema che riguarda tutta l'Italia, la nostra storia. Il mio teatro politico, le nostre verità scomode hanno sempre dato fastidio. Berlusconi ha poi determinato un caso anomalo e parossistico. Anche grazie, alla sinistra, certo, a chi, ancora in carica, ha contrattato con lui la possibilità di fare quel che voleva, in cambio di piccoli spazi di potere.

Una tattica ben precisa. Secondo lei l'attacco frontale ai fondi per lo spettacolo ne è una parte determinante?
I tagli al Fus sono fondamentali all'interno di questa strategia della destra, del pensiero berlusconiano. Da una parte viene massacrato il diritto all'opinione, dall'altra si va contro il diritto all'espressione, l'annullamento della cultura critica. E in questo quadro, ovvio, entra anche l'oscurantismo di una Chiesa che interviene pesantemente nella vita del paese, com'è successo a me appunto.

Questo paese sembra privo di anticorpi. Che ruolo ha la sinistra in tutto questo?
 La sinistra dorme, è in trance. Trovo questo periodo di vuoto e di silenzio assolutamente vergognoso, viviamo un momento difficile e la sinistra tutta, l'opposizione, non reagisce. Semplicemente non prende posizione e lascia correre, è sconcertante, visto che si definiscono vivi e democratici. Si stanno dissolvendo, proprio a partire dalla televisione, tutti i momenti più alti dell'espressione culturale e democratica, e sta accadendo nell'indifferenza. E così la tv di stato sarà molto più a destra di quella di Berlusconi stesso, non c'è più spazio per nessuno. Finiremo per non capire più dove ha i soldi! 
E l'annullamento sistematico della memoria collettiva è il punto di partenza e di arrivo 
La memoria storica e civile è la prima vittima di questa drastica censura quotidiana, solo che ora non è più addolcita da ipocriti atteggiamenti di finta democrazia. E questo comportamento da parte del governo, che non vuole ascoltare voci dissonanti, non parte dal combattere gli altri, ma dal ridurre drammaticamente gli spazi dell'espressione stessa. Io lo dico da tanto tempo e fa male non essere ascoltati. 

L'unica reazione possibile è la sua? Riempire i teatri e fare politica attiva? Vincere il Nobel e provare a diventare sindaco di Milano?
 Non bisogna dividere l'arte dalla politica, è un alibi. Non bisogna lasciare nulla d'intentato. E io, per questo motivo, mi sono messo a disposizione, ho cercato anche il coinvolgimento diretto. La reazione della politica, però, è stata ostile. Se penso alla mia esperienza come candidato sindaco di Milano, ricordo che ho lottato da solo mentre cercavo di aggregare le persone sui grandi temi. Tutti i partiti, compreso il vostro - anche se devo riconoscere che Rifondazione Comunista mi ha sostenuto più di altri-, cercavano il piccolo cabotaggio. Non c'era opposizione, slancio, tutti erano ammucchiati su posizioni di compromesso, su un accordo con un prefetto! Francamente, una cosa vergognosa. Mi dispiace dirlo, ma tutto quello che so sulla politica attuale della sinistra sono cose assurde, orrende. Stanno distruggendo l'esperienza di anni, quanto fatto di buono in passato.

il Riformista 30.8.09
Finiti i farmacisti
L'Italia resta terra di preti e carabinieri
Il cattolicesimo ha perduto le sue caratteristiche religioso-prescrittive ed è diventato una "cultura della sicurezza"
di Rina Gagliardi


Dio è tornato ad essere il vero protagonista della politica italiana? Mi pongo la domanda con il dovuto rispetto per Nostro Signore, nelle giornate "terremotate" proprio dalla questione religiosa. E annoto quella che di primo acchito sembra proprio una contraddizione flagrante: in un Paese ormai secolarizzato, quasi scristianizzato, con i conventi vuoti, le Chiese mezzo deserte, la crisi galoppante delle vocazioni sacerdotali, nonché un'indifferenza massiccia, se non di massa, nei confronti dell'ultraterreno, tutto sembra ruotare attorno al grado di fede o non fede (cattolica), di ubbidienza o di non ubbidienza, di moralità o non moralità dei politici. E qualcosa (molto) richiama l'era lontana del conflitto che per sessant'anni oppose lo Stato italiano alla Chiesa (a proposito dell'anniversario dell'unità nazionale) - un po' come fossimo ancora ai tempi della legge sulle guarentigie e del non expedit. Non mi riferisco soltanto alla vita notoriamente "peccaminosa" di Silvio Berlusconi e ai suoi patetici tentativi di riguadagnare la pienezza della perdonanza, ma a un fenomeno più generale.
Riassumiamo. Nel centrodestra "bouleversato" dalle vicende private del Cavaliere, il presidente della Camera si dichiara "non credente", smarcandosi contemporaneamente da se stesso, dai suoi e dal motto "Dio, Patria, Famiglia". Su posizioni convergenti (ma anche in parte sostanziali opposte), il leader della Lega attacca furiosamente vescovi e un più generico Vaticano - poi precisa di avere collocato un crocifisso in posizione strategica, che usa toccare ogni giorno «a mo' di portafortuna». Intanto, al Meeting ciellino di Rimini, l'ex leader laburista infiamma la platea narrando della sua conversione al cattolicesimo - e lo stesso fa il futuro candidato conservatore alla Casa Bianca, l'ultimo rampollo della dinastia Bush, quello che dice che Barack Obama «minaccia la libertà degli americani». Ma, se proviamo a dare uno sguardo dalle parti dell'opposizione, si scopre che mutatis mutandis la dialettica è sempre quella - la competizione tra Franceschini e Bersani non è forse anche tra un miscredente e un cattolico, quest'ultimo sostenuto da quasi tutti i cattolici del Pd? E il contenzioso più forte non riguarda proprio i problemi così detti etici e di fede, dai teodem ai "mariniani"? Insomma, in una situazione confusa e intricata come di rado è accaduto, con un premier che vede appannarsi la sua immagine ad ogni giorno che passa e un'opposizione che ha trovato finalmente la sua identità nel ruolo (inedito?) dello spettatore, la costante è sempre quella: il rapporto tra religione e politica. Il peso della questione cattolica. In un Paese dove la fede e la pratica cattolica riguardano una minoranza sì e no del 25 per cento. Perché? 
Lasciamo stare l'ovvio, vale a dire che siamo comunque in Italia, e l'Italia, si sa, era e resta un luogo privilegiato della cristianità. Storia e tradizione c'entrano, forse, ma in termini nuovi e, a mio parere, modernissimi: nell'Italia del XXI secolo, il cattolicesimo ha perduto le sue caratteristiche religioso-prescrittive, ed è diventato una "cultura", nel senso sociologico e anche un po' antropologico del termine. Una cultura intrisa di superstizioni (il culto di padre Pio) e di simboli usati superstiziosamente (Bossi - foto - che usa il crocifisso come talismano, i calciatori che si fanno uno sbrigativo ma preciso segno della croce prima di ogni partita importante, i battesimi e le prime comunioni come occasioni di festa e incontri parentali) e perciò a suo modo "rassicurante". Anzi, forse proprio una cultura "della sicurezza" - della certezza di avere radici, una qualche identità, un luogo certo di nascita, per fronteggiare le complicazioni del mondo globale. la sensazione di spaesamento che esso induce, la paura dell'invasione dello straniero. La fede è un'altra cosa, rispetto a questa propensione, chiamiamola così, sentimentale, diffusa quasi certamente nella maggioranza del popolo italiano. Ma è forse questo che spiega, prima di tutto, la persistenza e la forza di questo cattolicesimo secolarizzato, quasi miscredente, tanto più radicato quanto superficiale. E spiega anche perché i leghisti possono dichiararsi al settanta per cento cattolici (addirittura i "nuovi crociati", come ha detto il ministro Zaia) ma anche al cento per cento antipapalini, anticlericali, antivaticani: il loro cattolicesimo è parte integrante non della fede in Cristo o nel pontefice di Roma, ma della terra, del territorio densamente abitato dalle parrocchie (a proposito, quale altro soggetto gode a tutt'oggi di una capillarità così intensa? Mica per caso il leggendario Pietro Secchia, negli anni Cinquanta, voleva «una sezione in ogni campanile»), delle abitudini pagane. E ci fa capire, forse, il senso effettivo del permanente inseguimento dell'"elettorato cattolico" che praticano tutti i partiti e tutti gli schieramenti: è il consenso di "pancia", non di testa, quello che cercano. Nell'Italia forse eterna dei preti e dei carabinieri (ora che i farmacisti, come maitre-à-penser di villaggio si sono davvero estinti).

l’Unità 30.8.09
Morte in carcere di un incensurato, nessuno ne parla
Luigi Manconi Andrea Boraschi


Stefano Frapporti era un muratore di 48 anni di Rovereto. È ̆morto circa un mese fa, nel carcere di quella città, suicidatosi tramite impiccagione con il cordino elastico del pantalone di una tuta. Era stato fermato, al ritorno dal lavoro, da due agenti in borghese con il pretesto di una sua infrazione in bicicletta; pare che i due, invero, stessero indagando sul presunto spaccio di hashish in un bar lì vicino. Frapporti, perquisito senza esito, avrebbe confessato spontaneamente di detenere nella sua abitazione una certa quantità della stessa sostanza; e dunque sarebbe stato lì condotto, senza testimoni e, con tutta probabilità, senza un mandato di perquisizione. La casa, poi, non sarebbe stata “perquisita” dal momento che al mattino seguente non vi era segno alcuno della ricerca che gli agenti vi avrebbero svolto, come se Frapporti avesse indicato loro dove fossero i 99 grammi di hashish ritrovati. Egli avrebbe firmato un modulo con cui rinunciava ad avvertire i suoi famigliari dell’arresto; in seguito la sua richiesta di un contatto con sua sorella sarebbe stata rifiutata a causa di quel brogliaccio. Alcuni poliziotti penitenziari lo descrivono ancora tranquillo e pronto alla battuta alle 23.30, l’ora in cui avrebbe fatto ingresso in cella. Poco dopo veniva rinvenuto cadavere. I familiari, avvertiti il giorno seguente, hanno potuto vedere il suo corpo solo 48 ore dopo.
Di questa storia si sono occupate le “solite” testate giornalistiche e i “soliti” ambienti: ovvero è stata raccontata nel mondo antiproibizionista e tra chi si occupa di carcere. Questa storia, che pure ha suscitato molta emozione tra i concittadini del Frapporti, è rimbalzata in questo microcosmo e non più oltre: ovvero non la conosce quasi nessuno.
Non è ̆la prima volta che ci occupiamo di morti in carcere avvenute in circostanze poco chiare. Ma questa vicenda chiama in causa, ancor prima, una legge (la Fini-Giovanardi) irrazionale e criminogena, ottusa e crudele, che finisce col penalizzare indiscriminatamente comportamenti diversi, assimilando consumo e spaccio. E chiama in causa, poi, una amministrazione penitenziaria sempre più incapace di custodire in sicurezza i detenuti, specie chi varca la soglia del carcere per la prima volta (è qui che è maggiore la percentuale dei suicidi). Infine. Se la ricostruzione dei fatti fosse davvero quella indicata all’inizio di questo articolo, chiediamo: qualcuno è in grado di motivarne la totale assurdità? Perché in assenza di una spiegazione diversa, il dubbio di un carcere incapace di garantire l’incolumità di quanti vi sono reclusi, senza tutela e senza diritti, si fa sempre più incalzante. E temibile.
Scrivere a: abuondiritto@abuondiritto.it

l’Unità 30.8.09
L’italiano e i dialetti /1
Barricarsi dietro una sola lingua? Un’idea nazista
di Tullio De Mauro


Secondo il linguista le uscite leghiste filodialettali rassomigliano a un sciocco remake della cavalleria nei vecchi film di Tom Mix, una cavalleria che arriva in ritardo. L’idea che in un’area o entro un territorio, debba esserci un’unica lingua è falsificata dagli studi

I dialetti sono l’espressione di un patrimonio di cultura e tradizioni, di arte
Il 95% della popolazione sa esprimersi in italiano e il 60% conserva il dialetto nella vita privata

Probabilmente è soprattutto colpa della corporazione cui appartengo, quella dei linguisti, se alle ripetute provocazioni di leghisti in materia di dialetti e di scolarità e lingue di immigrati le risposte sono state ispirate più a giusto sdegno e ad amor di patria che a considerazione dei fatti. Tre fatti soprattutto meriterebbero di essere tenuti in conto se si guarda all’Italia linguistica di oggi, al volto che essa ha assunto dopo sessant'anni di vita repubblicana e democratica. Rispetto a essi le uscite leghiste, i loro «arrivano i nostri» filodialettali, rassomigliano a uno sciocco remake dell’arrivo della cavalleria nei vecchi film di Tom Mix, una cavalleria che arriva in ritardo quando le cose sono profondamente mutate.
Il primo fatto potrebbe dirsi storico, se questo aggettivo non fosse ormai inflazionato. Conosciamo abbastanza bene le vicende delle popolazioni italiane lungo tre millenni. E si può dire con certezza che mai nella loro lunga storia esse avevano conosciuto un così alto grado di convergenza effettiva e generalizzata verso un’unica lingua come è avvenuto in questi nostri anni. Dopo secoli in cui, Firenze e Toscana a parte, l’uso dell’italiano era restato appannaggio dei soli radi ed esili ceti istruiti quando scrivevano, dopo i decenni posteriori all’Unità politica, in cui l’uso effettivo dell’italiano aveva mosso alcuni passi, restando però sempre nettamente minoritario rispetto all’uso dei molti dialetti, nell’Italia della Repubblica e delle istituzioni democratiche masse crescenti si sono volte all’uso dell’italiano. Oggi ne è capace, come l’Istat permette di affermare con attendibilità statistica, il 95% della popolazione. Una convergenza del genere non si era mai vista nella nostra storia. Connesso a questo, un secondo fatto. Non in tutte, ma in molte famiglie italiane (comprese quelle di leghisti) l’italiano è diventato lingua d’uso abituale: si stima (sempre grazie all’Istat) nel 40% dei casi. Non bisogna più nascere in Toscana o in famiglie «di signori», come era ancora cinquanta o sessant’anni fa, per possedere l’italiano come un bene propriamente nativo, che si trova in famiglia e non più soltanto o soprattutto a scuola. Certamente questo è destinato a pesare e già pesa nella nuova familiarità e tranquillità con cui molti usano la nostra lingua.
Con ciò siamo al terzo fatto. Solo i più colti ricordano i nomi di Graziadio Isaia Ascoli e Giacomo Devoto. I due grandi linguisti, il primo nel 1874, il secondo quasi un secolo dopo sostennero che l’italiano andava appreso e usato generalmente, cosa che a lor tempo non avveniva, senza che però si dovessero mettere al bando i dialetti e le parlate minoritarie (di cui Ascoli fu tra i primi indagatori), ma anzi conservandone l’uso come punto di partenza dell’apprendimento scolastico della lingua (diceva Ascoli) e (aggiungeva Devoto) come riserva naturale di energie espressive per un parlare e scrivere meno inamidato e paludato dell’usuale. Usuale allora, ma ancora anni dopo Italo Calvino diagnosticava il «terrore semantico», il terrore delle efficaci e semplici parole dirette che troviamo nel parlato e nei dialetti, come difetto costitutivo dello scrivere di troppi intellettuali italiani. Ascoli e Devoto pochi li hanno letti, qualcuno in più ha letto i saggi di Calvino, ma a buon senso, affidandosi istintivamente al fai da te nazionale, se il 95% della popolazione sa esprimersi in italiano, il 60% conserva, accanto all’uso della lingua comune, la possibilità e abitudine di usare uno dei dialetti, nella vita privata, tra amici e conoscenti.
Ma i dialetti italiani non sono solo questo. Tutti sono la testimonianza viva di un patrimonio di cultura e di tradizioni e, spesso, sono diventati espressione d’arte. E la cultura italiana migliore, Croce come Gramsci, non ha esitato a considerare e additare come cosa propria, parte di un composito patrimonio unitario, i grandi testimoni delle letterature dialettali, il romanesco Belli come il milanese Porta, e, nel Novecento, Tessa e Noventa, Buttitta e il Pasolini friulano, Pierro e De Filippo, il ligure Firpo e il marchigiano Scataglini. E si potrebbe e dovrebbe continuare. Del resto, anche su più ampia scala di massa, la fortuna delle canzoni dialettali, tradizionali e recenti o recentissime, le napoletane, milanesi, siciliane, è una fortuna significativamente nazionale. Nessuna grossolanità leghista impedirà di sentire nostre, dalle Alpi e Trieste a Lampedusa, O mia bela Madunina e O suldato innammurato. Paolo Conte ha spiegato bene, una volta, che ritmo e struttura sillabica delle nostre parlate dialettali rispondono meglio dell'italiano alle esigenze non solo della melodia, ma dei ritmi rock. Molti, non solo genialmente Renzo Arbore, hanno sfruttato questa indicazione. E, canzoni a parte, il toscano Benigni, il napoletano Troisi, il romano Sordi, il milanese Iannacci, a tacere di Fo che ha varcato i confini nazionali, circolano liberamente, senza passaporto regionale, nella nostra comune cultura. Nessun passaporto ha chiesto e chiede nemmeno la nostra prosa letteraria per intarsiarsi di dialettalità lombarda o napoletana o romana o siciliana come hanno fatto Gadda e Pasolini, fanno Mazzucco e Pariani e Starnone. Tutto questo sta dentro il nostro dna comune sia più affinato sia più popolare.
Così l’Italia ci si consegna oggi come un paese capace finalmente di possedere e usare la comune lingua nazionale, ma anche capace d’essere un paese fruttuosamente e marcatamente plurilingue. Oggi sappiamo che il plurilinguismo non è un’eccezione. L’idea che in un’area, entro i confini di un territorio, o nel cervello di un singolo, ci sia e debba esserci un’unica lingua è ampiamente falsificata dagli studi. A partire dagli anni cinquanta una valorosa e tenace sociolinguista americana, Barbara Grimes, ha avviato e aggiornato il non facile censimento delle lingue vive nel mondo. Oggi ne contiamo settemila, mediamente circa 35 per ogni stato della terra. Lasciando per ora da parte le parlate importate dagli immigrati, che richiedono un’attenzione specifica, con le sue trentasei parlate native (italiano, grandi raggruppamenti di dialetti, lingue di minoranza d’antico insediamento) l’Italia è dunque nella media. Se fa eccezione è per la circolazione nazionale dei patrimoni linguistici locali entro la comune italianità linguistica.
In questo consapevole costituirsi in grande comunità plurilingue ha avuto una parte di rilievo la nostra scuola di base. Ho accennato prima ad Ascoli e Devoto. Ho omesso di dire che le indicazioni ascoliane furono raccolte e tradotte in chiave educativa da un grande filologo, Ernesto Monaci, e un non meno grande pedagogista, Giuseppe Lombardo Radice. A partire dagli anni sessanta e settanta del Novecento i loro suggerimenti e le loro esperienze educative sono stati raccolti prima da singoli gruppi di insegnanti, come quelli delMovimento di Cooperazione Educativa, poi, filtrati e coordinati, sono diventati indicazioni di programma e di curricolo nella scuola di base. Il rispetto delle differenze linguistiche e dialettali è diventato pratica ovvia e corrente nella scuola elementare ed è stato certamente non ultimo dei fattori che l'hanno portata a diventare una delle migliori, più efficienti e qualificate del mondo. Questa consapevole vocazione plurilingue della nostra scuola di base è stata di recente additata a modello esemplare nel recente DERLE-Document européen de référence pour les langues de l’éducation, elaborato da studiosi di vari paesi (non italiani!) entro il Consiglio d'Europa e ora in traduzione in italiano a cura di una associazione di insegnanti e studiosi.
La mediocrità opinante a ruota libera di troppa parte degli interventi giornalistici in materia di educazione e scuola annebbia tra troppi colti e tra i politici la percezione di tutto ciò. E forse neanche educatori e linguisti hanno fatto tutto il possibile per rendere noto che la pluralità idiomatica non è un accidente stravagante, ma un fatto fisiologico per la specie e le comunità umane e che una cattiva scuola o provvedimenti stolidi possono tentare di soffocare questo fatto, ma non riescono a spegnerlo senza tentare di spegnere l’umanità stessa. Nel mondo antico di cui restiamo sempre debitori furono primi gli Epicurei e poi i primi cristiani, quelli del miracolo della Pentecoste, a capire e insegnare ciò che gli studi moderni confermano: che il seme della differenza linguistica e culturale è in ciascuno di noi, nelle nostre coscienze e nel nostro cervello. Soltanto un nazista pazzoide, come fu Hitler, o un decerebrato che si rivolga a decerebrati può rovinosamente fantasticare di altre strade.
(1/Continua)

l’Unità 30.8.09
Migranti delle terre lontane e della mente: Venezia a voi
Il filo rosso sangue
“Lo sguardo dei migranti su di noi è uno dei temi ricorrenti dei film veneziano, capovolgere gli stereotipi può essere sconvolgente ma è utile”
di Alberto Crespi


Il «Colore delle parole» sugli africani arrivati in Italia con le borse i studio, ma anche «The Road» tratto da McCarthy... è la migrazione il tema nascosto del festival

All’Arsenale di Venezia c’è una sala stretta e lunghissima chiamata «Corderia». Lì si fabbricavano le corde che poi sostenevano le vele destinate a portare il Leone di San Marco nei sette mari. Venezia ha sempre scorrazzato per il mondo e ha sempre accolto gli stranieri, come testimoniano i «fondaci» che ricordano le varie comunità presenti in città. È triste pensare che oggi il Veneto, terra di viaggiatori e di emigranti, è fra gli angoli d’Italia più riottosi all’ipotesi di una società multietnica e multiculturale: ma accade in quasi tutta l’Italia, feroce con gli immigrati e dimentica del proprio passato.
Che i «migranti» siano i protagonisti di un filo rosso che percorre numerosi film della Mostra è quindi bello e giusto. Venezia, in questo caso, fa il proprio dovere. Samuel Eto’o, il calciatore camerunese che è passato dal Barcellona all’Inter, è solito dire: «Io vivo e gioco a calcio in Europa, ma penso e dormo in Africa». È un modo di ribadire la propria identità – e il diritto a sognarla, ogni notte. Ma Teodoro Ndjock Ngana, camerunese di etnia Basaa che vive a Roma, non sarebbe d’accordo con lui: «Se vivi in un paese, non puoi essere con la testa a 7.000 chilometri di distanza. Noi africani che abbiamo scelto l’Italia ci siamo identificati con i problemi di questo paese». Teodoro è uno dei fondatori dell’associazione culturale Kal’lem, che ha sede a Roma in via Prenestina e si occupa della conoscenza reciproca fra italiani e immigrati; ed è il protagonista di Il colore delle parole, documentario di Mario Simon Puccioni che passerà nella sezione Orizzonti. Gli immigrati che Puccioni ha intervistato sono ex studenti arrivati in Italia negli anni ’70 con borse di studio, quindi sono signori oggi cinquantenni, colti, che parlano perfettamente italiano e hanno un vissuto non molto diverso dalla generazione dei «settantasettini». È un’immigrazione consolidata, con una coscienza politica che molti ragazzi che sbarcano oggi in Sicilia (quando non li lasciano annegare prima) non possono avere.
Ecco alcune frasi di Teodoro e dei suoi amici: «Se tutti gli immigrati scioperassero, l’Italia si fermerebbe» (vero, e un giorno o l’altro bisognerebbe provarci: i sindacati che ne pensano?); «Un tempo criticavamo la legge Martelli, ma oggi sembra di un altro mondo... La Turco-Napolitano non risolveva tutto, la Bossi-Fini non risolve nulla. Non è una legge sull’immigrazione, è la campagna elettorale di alcuni partiti politici». «Ormai è passata l’equazione immigrato = clandestino. È sbagliato. Migrare non è un reato! Ma oggi in Italia lo è diventato».
Lo sguardo dei migranti su di noi è uno dei temi ricorrenti dei film veneziani. Good Morning Aman, film italiano della Settimana della critica (regia di Claudio Noce), è tutto negli occhi di un ragazzo somalo che parla romanesco e incrocia per caso la vita di un italiano che sta peggio di lui. Francesca, del romeno Robert Paunescu (Orizzonti), è la storia di una ragazza che vuole emigrare da Bucarest a Milano nonostante la ammoniscano: «In Italia, sei matta? Lì ti arrestano solo perché sei romena. Ci sono delle bande armate che vanno a caccia di romeni». La doppia ora di Giuseppe Capotondi (concorso) vede Ksenia Rappoport in un ruolo al quale, dopo La sconosciuta, si è ormai abituata: l’immigrata slava – stavolta slovena – in Italia (ma se ti chiami Ksenia, «straniera», è destino). Capire come ci vedono gli stranieri può essere sconvolgente, ma è sicuramente utile.
Il tema dei migranti attraversa anche film di grandi registi come Harragas di Merzak Allouache e Honeymoons di Goran Paskaljevic (entrambi alle Giornate degli autori, che riproporranno anche un classico sull’emigrazione italiana, I magliari di Rosi); e, in modo indiretto, Soul Kitchen di Fatih Akin (concorso), Piccole volpi della slovacca Mira Fornay (Sic), White Material di Claire Denis (concorso), in senso lato Bad Lieutenant di Herzog e Napoli Napoli Napoli di Abel Ferrara...
In fondo è una «migrante» anche Margherita Buy di Lo spazio bianco, il film di Francesca Comencini, insegnante sperduta, sola di fronte al dramma di una bimba nata prematura che rischia di morire. E sono «migranti» anche il padre e il figlio di The Road, che in un mondo devastato da un’apocalisse senza nome tentano di raggiungere il mare, unica speranza di vita. Quel mare che i migranti veri attraversano sui gommoni, trovandovi spesso la morte.

Repubblica 30.8.09
I bambini? Più svegli di quanto crediamo
Nuova teoria Usa: la loro mente è aperta e flessibile
L’evoluzione della scienza Più neuroni nel cervello dei bambini rispetto a quello degli adulti. Per questo le loro facoltà sono infinite
di Alessandra Retico


Più intelligenti di quanto crediamo. I bambini piccoli sono così, tutt´altro che inconsapevoli. Fanno operazioni logiche, sono creativi, capiscono il mondo. Gli danno un senso, molti sensi, non escludono niente. La vita la conoscono tutta, perché per loro è tutta nuova e travolgente. I bambini, in qualche modo, sono filosofici.
Bella definizione, l´ha usata una psicologa cognitiva americana, Alison Gopnik, che insegna all´Università di Berkeley in California, per il suo libro The philosophical baby appunto. La tesi è: i bimbi sono molti più coscienti di quanto riusciamo noi a vedere, immersi come sono nella palpitante attività dell´esistenza, quella che tedia o stressa noi. Quella vita lì, da zero a quattro anni grosso modo, non è un magma indistinto di bisogni e necessità e poi nient´altro.
Da piccoli siamo tutto, piuttosto, forse proprio grazie a un po´ di cervello in meno. Nuove tecniche d´indagine hanno scoperto che i bambini piccoli hanno più cellule cerebrali, o neuroni, degli adulti così come le varie parti della loro corteccia cerebrale sono collegate meglio rispetto a quelle della nostra. Significa che nella primissima infanzia si assimilano facilmente una grande quantità di informazioni, che da grandi invece "sfoltiamo" ritenendole inutili. Possediamo un cervello più efficiente, ma meno capace di apprendere del loro, più "irrigidito" nel già noto. Il loro è più aperto e flessibile: hanno molti meno neurotrasmettitori inibitori, le sostanze chimiche che impediscono ai neuroni di attivarsi. Disinibiti, vanno verso ogni cosa e non usano filtri.
Smontano e rimontano il reale. Gopnik cita l´esempio delle macchine. «Sono in grado di valutare le probabilità condizionate, cioè il rapporto tra alcuni blocchi e l´accensione o lo spegnimento della macchina. Ma quando si presenta a un bambino questa complessa serie di relazioni e gli si chiede di mettere in moto o di fermare la macchina, lui fa la cosa giusta. Anche se coscientemente non sa come funzionano le probabilità condizionate, inconsciamente tiene conto delle informazioni». La psicologa americana ama la seguente metafora: «Se negli adulti l´attenzione funziona come un riflettore, un raggio direzionale che illumina un particolare aspetto della realtà, nei bambini piccoli somiglia più a una lanterna, che getta una luce diffusa su tutto quello che li circonda».
Una passeggiata con un bambino di due anni: vede cose che noi manco notiamo. Ogni momento è una Disneyland, per loro. Noi ci concentriamo, loro si distraggono. Noi magari un obiettivo lo raggiungiamo, loro no, ma si arricchiscono di più: sperduti nella totalità, per questo ipercoscienti. L´attenzione non focalizzata e non utilitaristica favorisce nei bambini una migliore capacità di memoria. Grazie alla corteccia prefrontale, la regione responsabile di varie capacità cognitive, che in loro non è ancora totalmente sviluppata. Hanno una "immaturità" vantaggiosa. Magari le scarpe non riescono ad allacciarle, ma le lingue le imparano in fretta, capiscono le relazioni di causa-effetto e persino la morale: giusto e sbagliato, etico e convenzionale. La nostra maturità porta banalità, e oblìo. Riformuliamoci con un più illuminato cogito ergo sum, baby.

Repubblica 30.8.09
La psicologa Tilde Giani Gallino
"Intelligenti e creativi perché curiosi"


ROMA - «Immaginare è la loro conoscenza». Tilde Giani Gallino, ordinario di psicologia dello sviluppo all´Università di Torino, lavora da anni sui bambini in età prescolare. Si è occupata dei processi cognitivi ed emotivi infantili, dedicandosi in particolare al gioco e alle rappresentazioni mentali dei piccoli.
Filosofi, bisognerebbe chiamarli piuttosto.
«L´abbiamo sempre sostenuto: sono più intelligenti degli adulti, hanno capacità eccezionali, osservano il mondo e registrano tutto in fretta. La loro è una creatività totale».
In che modo lo dimostrano?
«Anche con quelli che noi impropriamente chiamiamo scarabocchi. Disegnano una loro esperienza e conoscenza, la raccontano anche se non sanno parlare. Sono storie di apprendimento molto intense. Un altro modo è quando imparano a camminare: a loro non interessa il movimento, ma avvicinarsi alle cose più da vicino, per toccarle, sperimentarle».
Poi cosa succede?
«Che perdono quella curiosità "biologica": si adattano alle convenzioni degli adulti, non giudicano più per quello che vedono, acquistano i pregiudizi dei grandi: tutto il mondo diventa già visto».
(a.r.)

Repubblica 30.8.09
Scuola, esplode la rabbia dei precari "La Gelmini ha tagliato 18 mila posti"
Sit-in e prof in catene: faremo come gli operai della Innse
di Salvo Intravaia


A Benevento docenti sul tetto del provveditorato. Franceschini: licenziamento collettivo da record

ROMA - A pochi giorni dall´avvio delle lezioni scoppia la rabbia dei precari della scuola. Sono quasi 18 mila i supplenti che, dopo anni di incarichi, resteranno a casa senza stipendio. Motivo? I tagli agli organici del personale docente ordinati dal ministro dell´Economia, Giulio Tremonti, e predisposti dalla collega dell´Istruzione, Mariastella Gelmini.
«In un periodo in cui si lotta per tutelare i posti di lavoro, lo Stato mette in atto il più grande licenziamento collettivo mai fatto», dice il segretario del Pd, Dario Franceschini. Per i precari della scuola non c´è neppure traccia dei cosiddetti Contratti di disponibilità, promessi dallo stesso inquilino di viale Trastevere ai sindacati per attenuare il colpo di scure.
Insomma: per migliaia di operatori della scuola si apre una stagione difficile e la protesta non si fa attendere. Ieri, a Benevento un gruppo di 7 donne del Comitato insegnanti precari sono salite sul tetto dell´Ufficio scolastico provinciale (l´ex provveditorato agli studi) e minacciano di non scendere fino a quando non avranno risposte sui tagli.
«Faremo come gli operai dell´Innse, scenderemo da qui solo quando avremo una risposta concreta contro i licenziamenti e la disoccupazione», afferma Elvira, una delle insegnanti sul tetto che, ieri sera, hanno portato la protesta sul palco del concerto di Francesco De Gregori. Sempre ieri, a Caserta, marito e moglie rimasti senza posto di lavoro hanno scavalcato una finestra dell´ufficio scolastico provinciale minacciando di lanciarsi nel vuoto. Qualche giorno fa, a Trapani un gruppo di insegnanti ha occupato per alcune ore i locali dell´Usp e a Venezia si è svolto un sit-in di docenti e Ata (amministrativi, tecnici e ausiliari).
A Milano e Torino i prof scenderanno in piazza il primo settembre: nel capoluogo lombardo si incateneranno davanti al provveditorato «fino al ritiro dei tagli». Mentre a Palermo, due assistenti tecnici (di laboratorio) rimasti senza contratto sono al quinto giorno di sciopero della fame ma hanno rifiutato il ricovero in ospedale consigliato dai medici del 118. «Non molleremo fino quando non avremo risposte», dicono Giacomo Rizzo e Francesco Paolo Di Maggio. Anche a Bari i precari affilano le armi mentre la mobilitazione passa anche attraverso il web, dove gli interessati pressano per una mega manifestazione nella Capitale.
Per comprendere quanti stipendi verranno meno quest´anno basta fare due conti. Nonostante l´aumento degli alunni il governo ha tagliato 57.368 posti mentre i posti lasciati liberi da coloro che sono andati in pensione sono poco meno di 40 mila. In totale mancano all´appello 17.530 posti per altrettanti precari che lavorano da anni nella speranza di essere immessi in ruolo. Ma che rimarranno appiedati. E siamo solo all´inizio, perché il piano del governo è quello di tagliare in tre anni (2009/2010 – 2011/2012) 130 mila posti nella scuola. Per questa ragione i 286 mila supplenti iscritti nelle graduatorie ad esaurimento tremano: a 40/45 anni potrebbero uscire definitivamente dal giro.
«La situazione è ingovernabile e il governo non interviene», dice il segretario generale della Flc Cgil, Domenico Pantaleo. «Non c´è tempo da perdere – aggiunge Francesco Scrima della Cisl scuola – bisogna condurre in porto, nel più breve tempo possibile, le annunciate misure straordinarie per i precari che perderanno il posto di lavoro». Mentre per i 473 mila iscritti nelle graduatorie d´istituto (senza abilitazione) non ci sono praticamente speranze.

Repubblica 30.8.09
Scrima, Cisl scuola: situazione tragica, verso la mobilitazione
"A settembre molti istituti rischiano di non aprire"


ROMA - «Capisco chi protesta: la situazione è drammatica e non è possibile più gestire la scuola con la calcolatrice», dice Francesco Scrima, segretario generale della Cisl scuola, che si chiede: «Chi aprirà i portoni delle scuole primarie a settembre?».
La protesta divampa, quanti sono i docenti che rischiano di restare senza contratto?
«Circa 18mila e capisco il loro dramma».
Per loro ci sono novità in vista?
«Le liste di disponibilità concordate con il ministero, ma si sta perdendo troppo tempo. Si tratta di contratti per chi ha avuto nel 2008/2009 l´incarico annuale, che consentirebbero di percepire una somma pari al 70 per cento circa dello stipendio restando a disposizione delle scuole per supplenze o altro».
Si faranno?
«Il ministro si è impegnato ma è già tardi, la scuola sta per iniziare. Se non si provvederà in tempi brevi andremo alla mobilitazione».
E il personale Ata?
«Per certi versi la situazione è ancora più grave perché al taglio si è aggiunto il nuovo regolamento che mette a rischio l´apertura a settembre di tantissimi plessi di scuola primaria perché non ci saranno i bidelli a disposizione».
E la fine del precariato annunciata di recente dal ministro Gelmini?
«Si tratta del vecchio numero chiuso a livello regionale, ma nessuno sa che fine faranno gli oltre 250 mila precari inseriti nelle graduatorie provinciali ad esaurimento».
Ma non hanno fatto il tirocinio.
«Mi chiedo: è meglio un anno di tirocinio o 10 anni di insegnamento in classe e diverse abilitazioni all´insegnamento? I precari hanno grande esperienza e vanno tutelati».
(s. i.)

Repubblica 30.8.09
La voce di una ventiquattrenne indignata


Discussione di ferragosto tra uno zio ex-idealista, ex-sessantottino, probabilmente ex-troppe cose e me, nipote ancora idealista, studentessa. Discussione sui massimi sistemi, i tempi e i giovani che cambiano. A 24 anni sentir dire da uno zio che ha vissuto il sessantotto che bisognerebbe mettere il coprifuoco alle 8 di sera, che per risolvere tante situazioni ci vorrebbe una bella "bombetta atomica" e che i giovani di oggi sono tutti drogati, maleducati e privi di valori, lascia l'amaro in bocca. E' semplice generalizzare. Io m'indigno per quella generazione che pur non avendo contatti con i giovani punta il dito, con chi per aver visto un servizio in tv sa che i ragazzini si drogano. M'indigno con chi ha vissuto in prima linea e che ora che, tra internet e inglese non si orienta più, vorrebbe che nessuno vivesse. Sono grande e riesco ancora a sognare ma che reazione deve avere un dodicenne che pensa a quando si sposerà e intorno a sé sente solo «non ti sposare mai!»? Che reazione deve avere il dodicenne che guarda il sorriso di un bambino e pensa "che bello il mondo che continua" e la risposta è sempre «I figli quando crescono ti abbandonano»? Che reazione deve avere il solito dodicenne che di fronte alla propria vocazione pensa a tutti i sacrifici che dovrà fare e arriva il solito Signor Adulto che gli risponde «tanto ormai la laurea non vale più nulla, tanto ormai siamo tutti precari»? Questo povero dodicenne che non crede più a nulla è ovvio che cercherà di vivacchiare nel paese dei balocchi più che può! Voi ci insegnate che quella bella ragazza che in tv è tutta scosciata, merita il suo posto proprio per quello, che il corpo di una donna può essere un'arma in più e poi quando una ragazzina si veste provocante, se le succede qualcosa, la risposta è «le sta bene impara ad andare in giro coperta!» Siamo la generazione che sa che la storia d'amore migliore finirà in un tradimento e allora perché innamorarsi? Io vivo i miei coetanei! Io vedo i dubbi che ci portiamo dentro. E chissà perché tutti questi giovani che abusano di alcool e droghe non li vedo. Vedo incertezze e chi è stufo di porsi domande e cerca rifugio in una realtà non vera. Ma non siamo tutti così! Vogliamo ancora credere e vivere come hanno fatto i nostri genitori, con una famiglia, dei figli, gli affetti, magari un lavoro. Siamo maleducati e irrispettosi? Forse siamo solo stanchi di vederci distruggere i sogni, stanchi di sentirci dire che non vale la pena vivere da chi ha già vissuto. Ci sono i cattivi ragazzi, eccome se ce ne sono? forse non ci sono sempre stati? Ci sono anche le poco di buono, ma da sempre? E l'alcool e la droga non c'erano prima? Adesso sono più alla portata dei più deboli, ma siete convinti di volerci accusare? L'Italia è un paese per vecchi, governato da vecchi, noi non abbiamo un posto e un ruolo e non ci lasciate sperare di poter arrivare. Ma siete ancora convinti che il male dell'Italia siamo noi?
Aurora nimaki@hotmail.it

Repubblica 30.8.09
JFK: «Io sono un immigrato»
Un testo di John Kennedy, pubblicato per la prima volta in Italia, racconta la via crucis dei migranti Parole di mezzo secolo fa che sembrano scritte oggi
di John Fitzgerald Kennedy


l´11 maggio 1831 Tocqueville, giovane aristocratico francese, sbarcò nel caotico porto di New York. Aveva attraversato l´oceano per cercare di capire le implicazioni che il nuovo esperimento democratico in corso sulla sponda opposta dell´Atlantico avrebbe avuto per la civiltà europea. Per i successivi nove mesi, Tocqueville e il suo amico Gustave de Beaumont percorsero in lungo e in largo la parte orientale del continente, da Boston a Green Bay, da New Orleans fino al Québec, alla ricerca dell´essenza della società americana.
Tocqueville rimase affascinato da ciò che vide. Fu sbalordito dall´energia delle persone che stavano costruendo una nuova nazione, apprezzando le nuove istituzioni e gli ideali politici. Ma, sopra ogni cosa, rimase impressionato dallo spirito di uguaglianza che permeava la vita e le usanze di quella gente. Pur nutrendo qualche riserva verso alcune manifestazioni di quello spirito, riuscì a scorgerne i meccanismi in ogni aspetto della società americana: nella politica, negli affari, nei rapporti personali, nella cultura, nel pensiero. Tale dedizione al principio di uguaglianza strideva con la società classista europea. Eppure Tocqueville considerava quella «rivoluzione democratica» irresistibile. [...]
Ciò che Tocqueville vide in America fu una società di immigrati che avevano cominciato una nuova vita su un piano di uguaglianza. Era questo il segreto dell´America: una nazione fatta di uomini che avevano ancora vivo il ricordo delle antiche tradizioni e si erano avventurati a esplorare nuove frontiere, uomini desiderosi di costruire da sé la propria esistenza in una società in cui c´era posto per tutti e che non limitava la libertà di scelta e di azione.[...]
Strappati alla loro vecchia vita, sbarcavano nel nuovo Paese stremati Ma non potevano fermarsi per recuperare le forze, dovevano proseguire il cammino finché non trovavano un lavoro
Non c´è nulla di più straordinario della ridda di emozioni e sentimenti che inducono una famiglia a dire addio ai vecchi legami, a solcare le scure acque dell´oceano per approdare in una terra straniera
In poco più di 350 anni, si è sviluppata una nazione di quasi 200 milioni di abitanti, popolata per la quasi totalità da individui provenienti da altre nazioni o i cui antenati erano emigrati da altri paesi. Come ha dichiarato il presidente Franklin Delano Roosevelt al congresso delle Daughters of the American Revolution: «Ricordate sempre che tutti noi, io e voi in special mondo, discendiamo da immigrati e rivoluzionari».
Tutti i grandi movimenti sociali lasciano un´impronta, e la massiccia migrazione di persone nel Nuovo mondo non ha fatto eccezione. L´interazione tra culture differenti, la forza degli ideali che spinsero gli immigrati a venire fin qui, le opportunità che una nuova vita schiudeva, tutto ciò ha conferito all´America un´essenza e un carattere che la rendono inconfondibile e straordinaria agli occhi della gente oggi, come era stato nella prima metà del Diciannovesimo secolo per Tocqueville. Il contributo degli immigrati è visibile in ogni aspetto della vita della nostra nazione: nella religione, nella politica, negli affari, nelle arti, nell´istruzione, perfino nello sport e nello spettacolo. Non vi è settore che non sia stato investito dal nostro passato di immigrati. Ovunque gli immigrati hanno arricchito e rafforzato il tessuto della vita americana. Come ha detto Walt Whitman: Questi Stati sono il poema più ampio, / Qui non v´è solo una nazione ma / una brulicante Nazione di nazioni.
Per conoscere l´America, dunque, è necessario comprendere questa rivoluzione sociale squisitamente americana. È necessario capire perché più di 42 milioni di persone hanno rinunciato a una vita consolidata per ricominciare da zero in un paese straniero. Dobbiamo capire in che modo essi andarono incontro a questo paese e in che modo questo paese andò incontro a loro e, cosa ancor più importante, dobbiamo capire cosa implica tutto ciò per il nostro presente e per il nostro futuro. [...]
Non vi è nulla di più straordinario della decisione di emigrare, nulla di più straordinario della ridda di emozioni e pensieri che inducono infine una famiglia a dire addio ai vecchi legami e ai luoghi familiari, a solcare le scure acque dell´oceano per approdare in una terra straniera. Oggi, in un´epoca in cui grazie ai mezzi di comunicazione di massa a un capo del mondo si sa tutto ciò che accade nell´altro, non è difficile capire come la povertà o la tirannia possa spingere una persona a lasciare il proprio paese per un altro. Ma secoli fa l´emigrazione era un salto nel buio, era un investimento intellettuale ed emotivo enorme. Le forze che indussero i nostri antenati a quella decisione estrema - lasciare la propria casa e intraprendere un´avventura gravida di incognite, rischi e immense difficoltà - dovevano essere soverchianti.
Nel suo libro intitolato Gli sradicati, Oscar Handlin descrive l´esperienza degli immigranti:
Il viaggio sottoponeva l´emigrante a una serie di emozioni sconvolgenti ed ebbe un´influenza decisiva sulla vita di tutti coloro che riuscirono a sopravvivere. Fu questo il primo contatto con lo stile di vita che li attendeva. Per molti contadini era la prima volta che si allontanavano da casa, che uscivano dalla sicurezza di piccoli villaggi in cui avevano passato tutta la vita. Ora avrebbero dovuto imparare a trattare con persone completamente diverse. Si sarebbero scontrati con problemi a cui non erano avvezzi, avrebbero imparato a comprendere costumi e linguaggi stranieri, si sarebbero industriati per affermarsi in un ambiente oltremodo ostile.
Come prima cosa, dovevano mettere da parte il denaro necessario per il viaggio. Dopodiché salutavano i loro cari e gli amici, consapevoli che con ogni probabilità non li avrebbero mai più rivisti. Quindi cominciava il viaggio che dai villaggi li avrebbe condotti ai porti di imbarco. Alcuni si spostavano a piedi; i più fortunati trasportavano i loro pochi averi su carretti che poi rivendevano prima di imbarcarsi. In certi casi facevano tappa durante il viaggio lavorando nei campi per mangiare. Prima ancora di riuscire a raggiungere i porti erano esposti alle malattie, agli incidenti, alle intemperie e alla neve, e attaccati anche dai banditi. Una volta giunti al porto, spesso dovevano attendere giorni, settimane, talvolta mesi prima di imbarcarsi, contrattando con i capitani e gli agenti il costo della traversata. Nell´attesa, vivevano ammassati in stamberghe a poco prezzo a ridosso dei moli, dormendo sulla paglia in stanzette buie, a volte in quaranta in uno spazio di tre metri per quattro.
Fino alla metà del Diciannovesimo secolo gli immigranti viaggiavano a bordo di navi a vela. In media la traversata da Liverpool a New York durava quaranta giorni, ma all´epoca qualsiasi previsione era azzardata, poiché la nave era esposta ai venti e alle maree, le tecniche di navigazione primitive, l´equipaggio inesperto e la rotta soggetta ai capricci del capitano. Per le imbarcazioni di allora, non così massicce, trecento tonnellate costituivano una buona stazza, e tutte erano stipate di passeggeri, dai quattrocento ai mille, in ogni angolo.
Il mondo degli immigranti a bordo della nave si riduceva alla stiva, lo spazio ristretto sottostante il ponte, generalmente lungo trenta metri e largo sette. Su molte navi le persone alte più di un metro e settanta non potevano neanche stare in piedi. Lì vivevano giorno e notte, ricevevano la razione quotidiana di acqua con l´aggiunta di aceto e tentavano di sopravvivere con le provviste che si erano portate per il viaggio. Quando i viveri finivano, si ritrovavano spesso alla mercé dei metodi usurai dei capitani.
Se ne stavano assiepati in cuccette anguste e dure, dove quando venivano aperti i boccaporti si gelava e si soffocava dal caldo quando erano chiusi. L´unica fonte di luce proveniva da una fioca lanterna pencolante. Il giorno e la notte erano indistinguibili, ma i passeggeri imparavano a riconoscere gli infidi venti e i flutti, lo zampettio dei topi e il tonfo dei cadaveri gettati in mare. Le malattie - colera, febbre gialla, vaiolo e dissenteria - facevano strage: uno su dieci non riusciva a sopravvivere alla traversata.
Alla fine il viaggio terminava. I passeggeri guardavano la costa americana con un senso di sollievo misto a eccitazione, trepidazione e ansia. Strappati alla loro vecchia vita, si ritrovavano ora «in un continuo stato di crisi, nel senso che erano, e rimanevano, nomadi», come scrive Handlin. Sbarcavano nel nuovo paese stremati dalla mancanza di riposo, dalla cattiva alimentazione, dalla reclusione, gravati dalla fatica di adeguarsi alle nuove condizioni di vita. Ma non potevano fermarsi per recuperare le forze. Non avevano scorte di cibo né denaro, quindi erano costretti a proseguire il cammino finché non trovavano un lavoro. [...]
Probabilmente le motivazioni per venire in America erano tante quante le persone che arrivarono qui: si trattava di una decisione del tutto personale. Tuttavia si può dire che tre grandi spinte - persecuzione religiosa, oppressione politica e difficoltà economiche - costituirono le ragioni principali delle migrazioni di massa nel nostro paese. Questi uomini rispondevano, a modo loro, alla promessa sancita dalla Dichiarazione di indipendenza di garantire il diritto «alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità». [...]
Nei paesi che avevano lasciato, gli immigrati in genere avevano un lavoro stabile. Portavano avanti l´attività artigianale o commerciale dei loro padri, coltivavano la terra di famiglia o il piccolo appezzamento ereditato in seguito alla spartizione con i fratelli. Solo grazie a un talento e a un´intraprendenza eccezionali gli immigrati potevano rompere lo stampo nel quale la loro vita era stata forgiata. Non c´era uno stampo simile ad attenderli nel Nuovo mondo. Una volta rotto con il passato, a parte i legami affettivi e l´eredità culturale, dovevano fare affidamento esclusivamente sulle proprie capacità. Erano obbligati a volgere lo sguardo al futuro, non al passato. A eccezione degli schiavi neri, gli immigrati potevano andare dovunque e fare qualsiasi cosa il talento consentisse loro. Si apriva dinanzi a loro un continente sconfinato, non dovevano far altro che collegarne le parti con canali, ferrovie e strade. E se non fossero riusciti a realizzare il sogno per se stessi, potevano sempre serbarlo per i loro figli. È stata questa l´origine dell´inventiva e dell´ingegno americani, delle tante e nuove imprese e della capacità di raggiungere il tenore di vita più elevato del mondo.[...]
Sul finire del Diciannovesimo secolo l´emigrazione verso l´America subì un cambiamento notevole. Cominciarono infatti ad arrivare, in gran numero, italiani, russi, polacchi, cechi, ungheresi, rumeni, bulgari, austriaci e greci, creando nuovi problemi e dando origine a nuove tensioni.
Per loro la barriera linguistica era ancor più insormontabile di quanto non fosse stato per i gruppi che li avevano preceduti, cosicché lo scarto tra il mondo che si erano lasciati alle spalle e quello in cui erano approdati si approfondì. Si trattava per la gran parte di gente di campagna, costretta però all´arrivo in America a stabilirsi nella maggioranza dei casi nelle città. Già nel 1910 in molte città esistevano delle "Little Italy" o "Little Poland" dai confini ben definiti. Stando al censimento del 1960, abitavano più persone di origini o di genitori italiani a New York che non a Roma.
La storia delle città dimostra che quando vi è sovraffollamento, quando la gente è povera e le condizioni di vita sono pessime, le tensioni si inaspriscono. È un sistema che si autoalimenta: la povertà e la delinquenza all´interno di un gruppo generano paura e ostilità negli altri; ciò, a sua volta, impedisce che il primo gruppo venga accettato e ne ostacola il progresso, protraendone così la condizione di arretratezza. Fu in questa penosa situazione che si ritrovarono molti immigrati provenienti dall´Europa meridionale e orientale, così com´era accaduto ad alcuni gruppi delle prime ondate migratorie. Un giornale di New York riservò ai nuovi arrivati italiani parole impietose: «Le cateratte sono aperte. Le sbarre abbassate. Le porte sono incustodite. La diga è stata spazzata via. La fogna è sturata […]. La feccia dell´immigrazione si sta riversando sulle nostre coste. Dai serbatoi di melma del Continente la marmaglia di terza classe viene travasata nel nostro paese». [...]
Le leggi sull´immigrazione dovrebbero essere generose, dovrebbero essere eque, dovrebbero essere flessibili. Con leggi siffatte potremo guardare al mondo, e al nostro passato, con le mani pulite e la coscienza tranquilla. Una tale politica non sarebbe che una conferma dei nostri antichi principi. Esprimerebbe la nostra adesione alle parole di George Washington: «Il grembo dell´America è pronto ad accogliere non solo lo straniero ricco e rispettabile, ma anche gli oppressi e i perseguitati di ogni nazione e religione; a costoro dovremmo garantire la partecipazione ai nostri diritti e privilegi, se con la loro moralità e condotta decorosa si mostrano degni di goderne».
Traduzione di Marianna Matullo
© Donzelli Editore 2009

Repubblica 30.8.09
Reportage
Iran. Dietro le notizie l’attualità
di Emilio Radice


Un giornalista in incognito sulle strade e nelle città persiane nell´estate più calda del regime degli ayatollah: tra bazar traboccanti di adolescenti, famiglie in vacanza, militari di leva Per scoprire che dietro la ribellione di Teheran c´è un popolo ragazzo, curioso e con una grande voglia di cambiare
Le grosse moto qui sono proibite, le usa solo la polizia: così a Tabriz ci fanno parcheggiare in salotto Un soldato ventenne chiede che cosa pensiamo di loro e tutti aspettano in silenzio la risposta Appena passato il confine, le donne si tolgono il velo e sciolgono i capelli, le più giovani danzano

«Allah u akbar», «Allah u akbar»... È così che la notte del 29 luglio Teheran ci ha dato il suo benvenuto. In Iran da una settimana, non potevamo dire quanto ancora fosse consistente la protesta contro il regime, finita davanti agli occhi del mondo con le immagini degli scontri in piazza e l´agonia di Neda, la ventenne uccisa a colpi di pistola dai basiji. E la prudenza ci aveva suggerito di non far troppe domande. Poi quel grido, «Allah u akbar», lanciato di tetto in tetto e una ragazza, la figlia del padrone di casa, che era scattata in piedi e aveva spalancato la finestra: «Sentite... Domani si va di nuovo in piazza».
Erano passate da poco le dieci di sera. Il giorno dopo, attorno a Khomeini Square e poi nella parte settentrionale di Valiars Street, nel cuore di Teheran, abbiamo visto centinaia di giovani e meno giovani, in gran parte vestiti di nero, che tentavano di entrare in massa nelle moschee per ricordare a quaranta giorni dalla morte i compagni caduti. Sono usciti dai portoni e dai vicoli del centro in improvvise sortite. Sono statiaffrontati da plotoni di poliziotti che agitavano i calci dei mitra come clave. Si sono dileguati in altri portoni, in altri vicoli. Per strada sono rimasti cassonetti dati alle fiamme e qualche auto rovesciata. E noi, testimoni abusivi (tutti i giornalisti occidentali erano stati espulsi dall´Iran), dopo aver guardato da lontano la disperata Primavera di Teheran, ci siamo allontanati per evitare il raggio lungo dei rastrellamenti. «Essere fermati è una esperienza da evitare», ci aveva avvertito con una punta di sarcasmo un amico di Teheran. «Il figlio di una coppia che conosciamo dopo essere stato "interrogato" è stato restituito morto alla famiglia, e sono molti gli scomparsi. Non si sa nulla nemmeno del fidanzato di Neda, Alireza "Caspian" Makan. Date retta, prendete il largo. In questi giorni qui si rischia troppo».
Via dunque da Teheran, districandoci a fatica da una periferia sconvolta dai cantieri della metropolitana. Verso il Sud, con la sensazione di essere gli unici turisti in circolazione nei giorni cruciali dell´insediamento di Ahmadinejad. La gente ci guarda, ci saluta mentre siamo lanciati a centoventi sull´autostrada. Spesso le auto superano la nostra moto e poi si fanno di nuovo superare. «Hallo, hallo», gridano dai finestrini. Altri si sbracciano per fare foto con i telefonini. E quando ci fermiamo per la benzina, c´è chi chiede di farsi ritrarre assieme noi e ci mette accanto mogli e figlie. Altre volte l´interesse è tutto per il mezzo di trasporto. Ma questo è più comprensibile, perché in Iran le moto di grossa cilindrata sono proibite. «Le hanno solo i basiji e la polizia speciale. Hanno paura che servano per compiere attentati, e poi per loro sono un segno di potere», ci avevano spiegato. Un tipo incontrato a una stazione di servizio per sottolineare meglio il concetto fa il segno delle manette. Siamo fuorilegge, e questo si trasforma stranamente in un privilegio, perché non ci sono regole per noi. Tutto ci è proibito, dunque tutto è possibile. O ci fermano o si va. Come in autostrada, appunto, dove circoliamo pur non potendo circolare, dove non paghiamo il pedaggio al casello, e dove la polizia ci ordina lo stop e poi si mette a guardare ammirata la nostra vecchia Bmw: «Italia? Oh yes, Totti, Materazzi, Buffon». E via senza una multa.
Il vero padrone dell´Iran alla fine sembra il solleone. Si arriva nella città di Kashan poco dopo mezzogiorno. Il proprietario dell´Hotel Sayyah non è simpatico, ma parla inglese e ci fa sistemare la moto nel cortile (a Tabriz ce l´avevano fatta mettere in salotto). La camera costa trecentomila real (un euro equivale a circa quindicimila real). Un po´ cara, ma si affaccia sui tetti del bazar ed è pulita. Una doccia e via per le stradine del centro storico, dove impariamo subito una cosa: a quell´ora qui si dorme, si riposa. È il caldo la notte dell´Iran, quello che ferma la gente, mentre col buio le persone si risvegliano e affollano strade e negozi fino a tardi. Dunque, percossi dal sole del deserto, battiamo in ritirata. Altra doccia e poi, che fare?, si accende la tv. Ci troviamo davanti alle sequenze di un film sul nazismo, dove, però, al posto della svastica c´è la stella di David. Trama: una famiglia palestinese viene sterminata per regalare ai coloni israeliani la loro abitazione, compreso il figlioletto sopravvissuto alla strage. Per vedere come andasse a finire la storia abbiamo perso buona parte delle suggestioni di Kashan. Ma ne valeva la pena, perché per la prima volta abbiamo respirato, non capito e basta, l´aria di un regime.
Il giorno dopo ci arrampichiamo su, verso Qamsar, nascosta fra i contrafforti dei monti Zagros. E per farlo passiamo accanto al brivido di decine di cannoni contraerei piantati nella sabbia del deserto, le canne rivolte verso il cielo d´Occidente, in attesa dell´Attacco, del Nemico. Fiori e cannoni. A Qamsar distillano rose, riempiono bottiglie di acque aromatiche e curative. È il paradiso dei naturalisti e della pace. Un vecchio distillatore ci fa segno di fermare, di sedere accanto a lui. Quindi tira fuori frutta e biscotti. Non vuole nulla, non dice nemmeno un parola. Mangiamo, ci dissetiamo, ci salutiamo con un cenno.
Tornati nella piana, verso Natanz, a un distributore di benzina ci raggiunge un camion pieno di soldati. Sono quelli delle mitragliere nel deserto, gli "obiettivi militari". Vent´anni, occhi ridenti, si accavallano attorno a noi per guardare la moto e offrirci altra frutta, un gelato, una cocacola. Uno di loro, Omar, parla bene l´inglese. Chiede: «Cosa pensi di noi iraniani?». E tutti aspettano la risposta, manco fossimo un oracolo. Ecco, la troviamo: «Penso che in Iran ci sono tanti giovani pieni di vita e che vogliono cambiare». Azzeccato. I ragazzi esplodono in grida di gioia, si stringono la mano l´un l´altro, come se avessero ricevuto un dono concreto, materiale. Poi, felici, risalgono sul camion e spariscono in una nuvola di terra, nel deserto. Noi si riprende la strada, per Natanz e poi per Abyaneh.
È qui, sotto un platano e in riva a una fonte, che incontriamo Hussein, Malika («come la madre dell´imam Ali prima di diventare musulmana») e le loro due bambine. Sono insegnanti di scuola, parlano una dozzina di parole di inglese e vengono da una cittadina del Khoozestan arroventata dal sole: «Fifty», cinquanta gradi, ci spiegano sventolando le mani attorno al viso. Seduti in terra, su una stuoia, ci invitano a stare con loro e quando una delle figlie ci porta una tazza di tè non possiamo dire più di no. Hanno una bussola che gli serve per pregare in direzione della Mecca. Sono miti, osservanti. Insistono per dividere con noi il loro cibo. E poi, in qualche modo, ci chiedono di spiegargli cosa succede in Iran: «Teheran? Student? Police?», e con le dita di una mano il segno di una pistola che spara. Poi restano lì fermi, silenziosi, in attesa che proprio noi, turisti polverosi, gli diciamo quel che accade nel loro Paese. Ascoltano quel che avevamo visto e sentito a Teheran, poi si mettono la mano sopra il cuore e recitano una preghiera che ci rende per sempre loro fratelli.
A Esfahan il caldo ci tende un agguato. Arriviamo in città verso le cinque del pomeriggio pensando di aver dribblato il sole più forte, ma l´asfalto bollente ce lo rigetta addosso con miasmi di bitume e vapori di benzina. Intanto è anche esplosa l´ora del risveglio dei bazar e le strade sono intasate. E così capiamo dove sono finite tutte le Renault 5 del mondo e tutti i vecchi modelli di Peugeot. D´altra parte qui la benzina non costa un soldo: tre euro a prezzi da turista per un pieno. Via dunque col traffico, e con l´inquinamento.
Ci salviamo nell´aria condizionata dell´Hotel Pars, a un passo dal caos di Chaar Bagh Abbasi Street. E lì poi, col buio, torniamo per berci un paio di litri di succo di ciliegia. Che confusione, e che meraviglia. È forse questa la sorpresa più grande per chi arriva in Iran la prima volta: la quantità dei giovani e la loro bellezza. Le ragazze passeggiano con il capo coperto da hejab multicolori, spesso minimi, comunque portati con civetteria. Ne vediamo una avvolta in un mantello nero con scaglie di seta d´oro, un ciuffo di capelli biondi che le orna un lato del viso, occhi verdi truccati col cajal, labbra rosso fuoco. Un´altra ha il chador stretto alla vita da una cintura di Versace. I ragazzi hanno le Nike ai piedi, gli zaini dell´Eastpack, le magliette della Puma. Vanno in motorino stretti uno all´altro. Sono come i nostri figli. Sembrano più europei dei coetanei di Turchia. Negli internet cafè con un gioco di dita fanno saltare i filtri che bloccano i programmi di comunicazione (lo hanno fatto anche per noi). E poi si appartano, la sera, sulle panchine dei giardini. La polizia vigila, ma è come fermare il vento con le dita. Un amico ci dice: «I giovani, qui come in ogni parte del mondo, fanno i giovani. Nonostante Khamenei».
Da Esfahan al fascino del fango di Yazd e delle torri zoroastriane dove fino a cinquanta anni fa i morti venivano offerti agli avvoltoi per non inquinare la terra. Poi nel deserto verso Kerman e l´inquietante vicinanza con i confini afgani, per piegare infine di nuovo verso il Nord e raggiungere la magia di Shiraz. È davvero difficile stringere in poche righe un viaggio del genere. Potremmo dire del fascino degli zurkhaneh, dove gli uomini si allenano in una antica ginnastica marziale al suono dei tamburi. Oppure del ragazzo incontrato all´Hotel Anvar di Shiraz, che sapeva tutto su Rossellini, De Sica, Rosi e Dino Risi, per poi concludere: «Ma io preferisco Bertolucci». O potremmo raccontare delle ragazze col "burkini", naturali nelle piscine di qui mentre da noi diventano un caso politico.
Ma è di nuovo Teheran infine, che ormai sulla strada del ritorno, a ferragosto, ci consegna gli ultimi enigmi e le ultime risposte. Lo fa facendoci entrare, clandestini nonostante la sorveglianza militare, nell´immenso cantiere del Mosallà, il centro di preghiera islamico che, una volta ultimato, sarà l´emblema monumentale del regime. Fra queste mura gigantesche e l´altezza infinita dei suoi minareti crediamo di intuire il sogno della Guida Suprema dell´Iran: il Mosallà per segnare un punto di non ritorno nella storia del Paese; la voce di Khamenei, assiso sulla piattaforma già pronta in mezzo al cantiere, per affermare la preminenza della sua figura come faro dell´Islam; il monumento di un´era, in un ideale braccio di ferro con la tomba di Ciro a Pasargade. «Khamenei vuol farsi re», dicono a Teheran. Ma poi aggiungono: «Speriamo che al posto del Mosallà ci si possano mettere cinema e teatri».
Il viaggio finisce dove era cominciato, a Bazargan. Un´ultima lotta con gli "sciacalli" che al valico con la Turchia cercano di estorcerti ogni quattrino (la corruzione impera) e alle nostre spalle si chiude il cancello che si era aperto circa un mese fa. Iran addio. E invece un poco di Iran è ancora lì con noi, per l´ultima sorpresa: le donne iraniane, tutte, passata la frontiera si tolgono il velo, scuotono la testa. Si sciolgono capigliature bionde, rosse, corvine. Appaiono collane e orecchini. Le più giovani cantano e accennano passi di danza. Le madri e le nonne sorridono, battono le mani. Quasi una festa.

Corriere della Sera 30.8.09
Destino, speranza, meditazione: Pierre Hadot, del Collège de France, ricostruisce gli «esercizi spirituali» del poeta tedesco
«Ricordati di vivere». L’inno alla vita di Goethe
di Nuccio Ordine


Ha scritto Goethe: «Perché dovrei, in una vita così breve, tormentarmi? Perciò ti raccomando: memento vivere»
Gli esercizi spirituali di Goethe sono atti dell’intelletto con i quali l’individuo si sforza di trasformare il suo modo di vedere il mondo al fine di trasformare se stesso

«Memento mori! / perché do­vrei, in una vita così breve, / tormentarmi?»: Johann Wolfgang Goe­the, in una stupenda poesia intitolata «Genio librantesi sopra la terra», tesse un inno alla vita, mostrando i limiti di una cultura dominata dal pensiero della morte. «Perciò, come un vecchio barbo­gio, / docendo ti raccomando, / caro amico, secondo il tuo modo, / Memen­to vivere, non altro». Il genio che vola al­to, nel tentativo di abbracciare l’infinito, si commuove di fronte allo spettacolo cosmico e scoprendosi parte del tutto trasforma la sua meraviglia in un amore illimitato per la vita.
L’esistenza merita di essere vissuta di per sé senza lasciarsi distrarre dalla pro­messa di altre vite altrove. Basta un atti­mo eccezionale, un’occasione insperata, per capire che la vita che stiamo viven­do, nonostante difficoltà e pene, ci può far gioire della vita e che le cose terrene non meritano disprezzo ma possono essere fonte di un’intensa felicità, incitando l’io ad andare oltre se stesso per mettersi anche al servizio degli altri.
A queste straordinarie riflessioni di Goethe dedica pagine appassionate Pier­re Hadot, professore emerito nel Collè­ge de France e internazionalmente rico­nosciuto come uno dei più grandi spe­cialisti di filosofia antica. Nel suo ultimo libro, Ricordati di vivere. Goethe e la tra­dizione degli esercizi spirituali — edito da Cortina (pp. 174, e 19,50) nell’ottima traduzione italiana di Anna Chiara Pe­duzzi — lo studioso ci propone una pro­fonda analisi dei testi goethiani alla luce delle fonti classiche (con una particola­re attenzione per epicurei, stoici e cini­ci). E attraverso tre ricchi capitoli, ci mo­stra come Goethe abbia compiuto dei ve­ri e propri «esercizi spirituali», espres­sione più volte utilizzata da Hadot in di­versi suoi libri e che, contrariamente a quanto credono alcuni critici, non ha nessuna connotazione religiosa. «Si trat­ta — specifica l’autore nella sua introdu­zione — di atti dell’intelletto o dell’im­maginazione o della volontà caratterizza­ti dalla loro finalità: grazie ad essi, l’indi­viduo si sforza di trasformare il suo mo­do di vedere il mondo al fine di trasfor­mare se stesso».
Hadot inizia soffermandosi sull’eser­cizio che più volte ritorna nell’opera di Goethe: concentrarsi sull’istante presen­te, cercando di vivere intensamente ogni attimo dell’esistenza. Nell’avvincen­te dialogo tra Faust («L’animo allor pla­cato non guarda a ciò che è stato né a quello che sarà. Solo il presente...») ed Elena («... è la nostra felicità») si concre­tizza lo splendore dell’essere: per liberar­si dalle banalità e dalla trivialità del quo­tidiano non c’è bisogno di evadere dalla realtà rifugiandosi nel passato o nel futu­ro, ma occorre sapersi liberare dagli ego­ismi che ci impediscono di vedere lo splendore del momento presente. Pro­prio in questa magica percezione è pos­sibile cogliere il senso profondo del valo­re della vita.
Basta librarsi in volo verso il cielo stel­lato o ascendere una montagna per intra­prendere un altro esercizio spirituale ca­ro all’olimpico Goethe. E proprio nel se­condo capitolo, Hadot mostra come lo sguardo dall’alto consenta ai personaggi goethiani di vivere istanti eccezionali at­traverso la contemplazione della natura. Il sublime spettacolo delle cose che ci circondano simbolizza anche il piacere e la serenità provocati dalla poesia o dall’arte, anch’esse sospese, come l’uomo, tra il cielo e la terra.
Nell’interpretazione della poesia intitolata «Parole primordiali» è possibile, per Hadot, individuare il terzo esercizio spirituale, fondato sulla «descrizione del destino umano», in cui la speranza «fa da coronamento alla poesia», costituendo un «atteggiamento fondamentale».
Alla fine di questo percorso affascinante il lettore ritroverà l’eco dell’amore di Goethe per la vita dalla prima all’ultima pagina del libro. E non potrà fare a meno di apprezzare che il rilancio dell’in­vito a vivere del poeta tedesco sia oggi promosso da un entusiasta ottantasetten­ne. Questo Goethe, nella rilettura di Ha­dot, ci insegna che non è vero che al di fuori dell’eternità non ci possa essere feli­cità. Dire sì al vivere e al mondo significa imparare a dare un valore infinito agli istanti minimi della nostra esistenza.



il Riformista 30.8.09
«L'Occidente non capisce che il Ramadan è magia»
Buttafuoco loda la spiritualità del digiuno islamico. Che però in Italia fa sempre più discutere
di Francesco De Leo



Appena la buia notte è rischiarata dalla prima falce di luna nuova, ha inizio un nuovo mese del calendario lunare. Il nono di questi ha, per gli islamici, il nome di Ramadan. Dura come gli altri, dai ventotto ai trenta giorni, ma è tanto diverso. Unico nel rappresentare la massima vicinanza tra Dio e l'individuo, è il momento di più elevata religiosità per l'uomo, vissuta nella massima unità sociale e familiare. Secondo la tradizione, fu proprio nel ventisettesimo giorno del Ramadan la laylat al-qadr, la Notte del Destino, in cui avvenne la rivelazione del Corano. «La Notte del Destino è migliore di mille mesi. In essa discendono gli angeli e lo Spirito, con il permesso del loro Signore, per fissare ogni decreto. È pace, fino al levarsi dell'alba». Il Ramadan è mese di astinenza. Non solo dal cibo, dall'acqua, dal sesso - dalla prima luce dell'alba fino al tramonto del sole - ma anche astinenza della mente, costretta a guardarsi dai peccati dell'udito, della vista e della parola, ma soprattutto del cuore, che cerca di allontanare tutte le preoccupazioni della vita terrena e ogni pensiero, che non sia il ricordo di Allah.
Il digiuno obbligatorio è, comunque, quanto colpisce maggiormente noi occidentali. Il privarsi, durante le ore del giorno, di cibo, bevande, fumo e sesso è antitetico ai nostri desideri. «In Occidente c'è un immagine stereotipata del musulmano», scrive Khadija Antermite, su Dentro la moschea, il libro di Yahya Pallavicini, vice presidente della Comunità Islamica in Italia. «Se lo sforzo fisico di certo non manca, si riceve un provvidenziale sostegno che rende l'astinenza dal cibo non solo del tutto sopportabile, ma un momento di benessere integrale per il corpo, l'anima e lo spirito. Il digiuno», prosegue Antermite, «corrisponde a una fase di rinascita di tutto l'essere umano e, non a caso, una rinascita molto simile a quella che caratterizza ogni donna durante la gravidanza. Più il bambino assorbe energie, rendendoti sempre più debole, più cresce in te una nuova vita». Il digiuno è quindi da intendersi solo come uno degli aspetti del Ramadan, mese, in verità, consacrato al controllo dei desideri. Nelle famiglie islamiche in genere è la mamma che si alza per prima, sveglia tutti e serve il suhur, la colazione che viene consumata prima del sorgere del sole. Si mangia cibo nutriente, ma leggero e senza aggiunta di spezie, che potrebbero far venir sete durante la giornata. Alla fine del digiuno si beve subito dell'acqua o un succo di frutta, spesso di albicocca, e si mangiano un paio di datteri, come da abitudine del Profeta. Allo spuntino, chiamato iftar, segue una preghiera, il maghrib, dopo la quale si da inizio alla cena, solitamente gioiosa, a cui intervengono familiari, amici e anche sconosciuti. Questo per tutti i giorni del nono mese, sino all'id al-fitr, la festa della rottura del digiuno. È il secondo grande giorno di festa del calendario annuale, ci si scambiano doni, si cena tutti assieme e si fa visita a parenti e amici.
Ma quanto conosciamo in Italia, paese in cui vivono un milione e seicentomila musulmani, del Ramadan? «Credo che gli italiani sappiano abbastanza poco», ci dice Massimo Campanini, tra i più apprezzati storici del Vicino Oriente. «Sulle specificità e le caratteristiche del digiuno, uno dei cinque pilastri dell'Islam, credo ci sia una diffusa ignoranza. Si tende a banalizzarlo, a ironizzare sulle sue modalità, abbiamo un'idea folcloristica più che approfondita del suo significato». Dopo le polemiche generate da alcuni datori di lavoro di Mantova, preoccupati per quei contadini musulmani che, rispettosi del Ramadan, avrebbero rischiato la disidratazione sui campi o per i dubbi di Mourinho alla vigilia del derby di Milano, si è dibattuto, anche da noi, sulle difficoltà di poter praticare la religione lontano dagli stati a maggioranza islamica. «Io non credo sia molto facile vivere il Ramadan in Italia», è l'opinione di Campanini. «Percepisco un senso di accerchiamento e di esclusione, in aggiunta ad irrisolti problemi logistici che vietano alla comunità, ancora oggi, la possibilità di vivere i momenti di grande socializzazione». Yahya Pallavicini, imam della Moschea al-Wahid di Milano, ritiene invece «il mese di Ramadan, un momento dove la maggioranza dei musulmani in Italia riescono a ritrovare e a rivivere un atmosfera di orientamento spirituale che rafforza e riunisce le famiglie e di riflesso l'intera comunità». Dice soddisfatto al Riformista: «Ci sono manifestazioni che da un lato sembrano ricordare e richiamare quello che viene fatto anche nel resto del mondo a maggioranza islamica, ma dall'altro, proprio come minoranza, a volte non così riconosciuta, rispettata o conosciuta, il Ramadan e le sue benedizioni sembrano veramente rivitalizzare e rinnovare lo spirito autentico di solidarietà e di completazione spirituale, che riunisce i fedeli musulmani anche in Italia».
Ma fatti salvi i principi fondamentali, una religione come l'Islam, così in espansione in Occidente, può adattarsi alle esigenze delle nostre società? «Premesso che il digiuno del Ramadan sarà il digiuno del Ramadan fin quando l'Islam sarà Islam», sostiene lo storico della filosofia islamica Campanini, «credo che anche questa religione abbia degli spazi di flessibilità che potrebbero consentire, ai musulmani, di sottoporre alcuni principi ad una prassi di maggiore duttilità. Ricordo che il Corano dice: "Dio da voi vuole le cose facili, non il difficile"». Sull'argomento un dibattito tradizionale c'è sempre stato nella comunità islamica, sostiene Pallavicini, «e da ben quattordici secoli». «Gli adeguamenti temporali e spaziali, del tempo e del luogo, sono sempre stati occasione di dibattiti e riflessioni intellettuali tra i sapienti e i teologi di ogni tempo e di ogni spazio», è la sua opinione. «L'Islam», per l'imam milanese, «ha sempre saputo cercare di rinnovare, senza riformare, la possibilità di accedere ai benefici spirituali dei riti e dei dogmi, adattandoli anche ai contesti che mutano, secondo il progresso del tempo e secondo le culture del luogo. Nessuna fissazione schematica», conclude Pallavicini, «ma neanche un riformismo privo di rispetto della natura e del simbolismo delle regole religiose. Il tutto, però, va perseguito tramite la concertazione dei sapienti, criterio che ha ispirato lo sviluppo di tutta la civiltà islamica dagli inizi e che noi ci auguriamo possa avvenire anche in Italia. Questo per evitare, che la comunità musulmana, possa essere messa alla mercé di predicatori impazziti e ignoranti o di rivoluzionari, che vogliano secolarizzare o ridicolizzare i principi sacri del nostro Islam». 
Lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco, autore di Cabaret Voltaire, è convinto che la conoscenza del Ramadan sia quanto mai utile alla nostra cultura. Dice al Riformista: «Ci sarebbe tanta magia nel Ramadan per noi occidentali… se solo ci sforzassimo di coglierla. Quando i musulmani ce lo spiegano e ce lo raccontano, in questa atmosfera che è un tutt'uno di riflessione e purificazione, nell'attesa delle ombre del tramonto, non fanno altro che riportare la nostra dimensione e la nostra ragione sentimentale a quella che abbiamo cancellato dalla nostra identità. Basterebbe solo specchiare il loro Ramadan alla nostra Quaresima, la loro milizia di ascesi e di preghiera alla nostra identità, legata al riferimento spirituale, per essere in grado di ri-svegliarci e ri-portarci alla condizione in cui tutto diventa comprensione. Vedremmo nell'altro», prosegue Buttafuoco, «qualcuno che è uguale a noi. Specchiandoci nel loro, noi ritroveremmo noi stessi». Pietrangelo Buttafuoco ci risponde telefonicamente dalla sua Sicilia. Le sue parole, a tratti, sono confuse con il vociare vivace dei bambini. Come definirebbe il Ramadan, se dovesse spiegarlo a loro? «È innanzitutto… una lenta preparazione ad un'esplosione di gioia. È simile ai dieci gradi di obbedienza, negli ultimi dei quali respiri una libertà simile a quella degli Dei». Ramadan karìm.