martedì 1 settembre 2009

Repubblica 22.8.09
Marco Bellocchio "Girerò una storia su Eluana Englaro"
"Un film per parlare di amore per la vita"
intervista di Paolo D'Agostini


Il regista parla del suo nuovo progetto cinematografico sul caso Englaro Intanto parte per presentare al pubblico internazionale il suo "Vincere"
Ho elaborato l´idea partendo dal caso di Eluana, ma i miei saranno personaggi d´invenzione
A questa costrizione a far vivere chi è già morto, oppongo un´altra costrizione a far vivere chi può e deve vivere
Visti i tempi, il declino generale del cinema, quello della politica direi che l´esito è stato buono
"Vincere" sarà distribuito all´estero dalla stessa società di "Gomorra"

ROMA. In partenza per un tour americano che sarà anche l´inizio della campagna di promozione del suo Vincere in vista dei prossimi Oscar, Marco Bellocchio (70 anni il 9 novembre) dà la notizia. Il prossimo film nascerà dalle riflessioni e dalle emozioni provocate in lui dal caso Englaro.
Così annuncia il progetto. «Tre elementi. Il primo è la fiaba della Bella addormentata. Il secondo: la tragedia della ragazza Eluana e del personaggio eroico del padre che vuole rispettare la volontà della figlia - viva ma solo vegetalmente - rispettando la legge, pretendendo l´applicazione della legge. Senza cercare scorciatoie. Il terzo, tema opposto e mia profondissima convinzione: quando invece ci sono condizioni per riportare alla vita qualcuno che vuole morire per forza - e penso alle anoressiche o ai depressi che vogliono uccidersi, che vogliono morire - lì non solo lo psichiatra ma anche chi è loro vicino, familiari o genitori, deve costringerli a vivere. Da una parte il rispettare la volontà della povera ragazza e quindi permetterle di morire. Dall´altra invece il caso di qualcuno che lotta fisicamente per impedire di morire, per costringere a vivere una persona che vuole morire ma che ha tutte le possibilità per poter vivere, per rinascere. Questa doppia storia mi interessa raccontare. Non so se riuscirò, è un tema secondo me molto positivo ma certo non molto divertente».
Un film nel quale dovrebbero convivere due storie.
«Esatto. Anche se non nascondo che ho iniziato a elaborare quest´idea a partire da Eluana, naturalmente i miei saranno personaggi d´invenzione. In un certo senso sono due aspetti della stessa lotta per la vita. Quella di un padre-eroe. E quella di chi lotta e impedisce di morire, costringe a vivere chi - penso anche ai giovani perduti nella droga degli anni passati - ha tutte le potenzialità per vivere una vita straordinariamente ricca. Nella stessa Italia, contemporaneamente forse in due città diverse, immagino queste due lotte. Una nei confronti dello Stato e dell´ipocrisia di chi per paura di perdere l´appoggio della Chiesa cattolica, pur non condividendone i principi, si è inchinato per conformismo e pavidità. A questa costrizione a far vivere chi è già morto, oppongo un´altra costrizione a far vivere chi può e deve vivere».
Può essere la metafora di qualcosa di più ampio? Un discorso sull´occuparsi degli altri, del prossimo, delle vite che ti circondano? Sull´esporsi, scegliere, impegnarsi. Sullo scambio fra discrezione e indifferenza?
«Penso a quella che è stata la fragilità di tutta la cultura di sinistra. Un certo tipo di "discrezione", sì. Adesso ha buon gioco la Lega che in nome di principi assurdi e disumani fa valere la voce del "no". Un certo tipo di durezza, o forse sicurezza, è qualcosa di cui la sinistra o quello che ne rimane dovrebbe appropriarsi. Vincere la paura di dire "no"».
Dunque, intanto, l´America. La vita internazionale che si dischiude a Vincere con le vendite e le uscite su altri mercati. A partire da Australia e Francia. In Nordamerica, dove il film sarà distribuito dalla stessa società che ha distribuito Gomorra, Vincere è stato invitato tra gli altri dai festival di Telluride, Toronto e New York da dove partirà il viaggio verso la conquista della candidatura all´Oscar di marzo. «Ho sempre saputo e detto che la celebrità della figura di Mussolini nel mondo ha il suo peso. Ma l´interesse un po´ speciale che effettivamente il film ha riscosso forse non dipende soltanto da questo. Ma anche dal come io ho visto e raccontato Mussolini, dallo stile del film. Il contrasto fascismo-antifascismo si è indubbiamente un po´ sbiadito. Nessun esponente politico o istituzionale di rilievo di matrice fascista, per esempio, in Italia è intervenuto. Quando ho presentato il film al cinema Eden di Roma mi ha fermato la nipote di Starace per dirmi che lo aveva apprezzato. Ma insomma non è un film che ha cercato la provocazione o lo scandalo, e non ho neanche sollecitato il confronto tra il Duce e Berlusconi, non ho soffiato sul fuoco. In realtà il film ha raccolto soprattutto un´attenzione di tipo estetico. Non di tipo ideologico. O di facile implicazione tra passato e presente. Semmai le implicazioni sono da cogliere in modo indiretto. Quando l´ho mostrato a Eugenio Scalfari mi ha colpito il suo commento. Ha detto che secondo lui oggi in Italia c´è la stessa "puzza" di allora. La puzza di una situazione nella quale ognuno pensa a sé: allora le mille lire al mese oggi le gratificazioni del Grande Fratello».
Il film è stato sottovalutato, incompreso?
«Prendere un premio a Cannes avrebbe favorito forse esiti migliori, ma onestamente - visti i tempi non favorevoli, la stagione già quasi estiva, il declino generale del cinema, quello della politica - direi che l´esito è stato buono».

l’Unità 1.9.09
Cuochi di cianuro
di Concita de Gregorio


Dicevamo dell'autunno che ci aspetta. Stracci lerci, veline confezionate su commissione, si dice, sembra che, una fonte anonima ci assicura. Esecutori di gambizzazioni a mezzo stampa ingaggiati a suon di milioni dal presidente del Consiglio, che fulmineo si dissocia dal sottoposto strapagato: non sapevo, non ci siamo parlati. La cosa è sfuggita di mano. Non è il premier il mandante, cercate altrove: le gerarchie ecclesiastiche, ecco, sì. È una resa dei conti tra cardinali. È una manovra contro Ruini. È la guerra tra Ruini e Bertone. E’ la «Lobby di velluto» alle strette. Ne sa qualcosa il Papa, Bruno Vespa lo vuole intervistare? Ne sa qualcosa Gianni Letta, il Copasir lo vuole sentire? Un altro prelato ci ha appena fatto sapere che. C'è la mano dei servizi deviati, no, di un africano che lavora alla Segreteria di Stato. Berlusconi è una vittima. Boffo non c'entra, è un pretesto. Avete letto cosa dice il direttore dell'Osservatore romano? Una fucilata, ma per conto di chi?
Questo, appunto. Siccome ogni paese ha gli scandali che gli assomigliano questa povera Italia sotto il tallone del plutocrate ha quello che con sarcasmo all'estero chiamano il Watergate all'italiana, il sorriso della penna non si vede ma leggendo si sente. A noi tocca un Watergate così, e chissà per quanto altro ancora ci si faranno grassi giornali e
siti internet servili (la tv no, quella parla di maltempo e code in autostrada), chi sarà il prossimo, per chi faranno preparare il prossimo plotone. Il Watergate all'italiana al contrario dell'originale non è pericoloso per nessuno tranne che per gli anelli deboli della catena, non mira al vertice ma a suscitare zizzania, ridde di voci, veline per far dimenticare altre veline, carta contro carne, dossier di distrazione di massa. C'è un'industria, al lavoro. Un po' cialtrona perché, di nuovo a differenza dell'originale, qui le fonti sono dilettanti, gente che non sa scrivere in italiano, amanuensi che si rivolgono a una Eccellenza evidentemente committente, forse, si dice, scribani della segreteria di Stato vaticana che, si sa, sono «indiani africani e filippini» dunque sbagliano l'ortografia. Scrive oggi Aldo Giannuli, che di minute «galleggianti» e dossier sporchi è uno dei massimi esperti in Italia. «Il termine Eccellenza (titolo onorifico episcopale) e quel "secretato" alla latina ci fanno sospettare una persona di ambiente cattolico. Avanziamo una congettura: una persona che ha motivo di rancore personale o rivalità nei confronti di Boffo, che si è rivolta ad un detective privato per ottenere il certificato generale (cosa cui non avrebbe dovuto avere accesso). Che poi ha raccolto voci, notizie, pettegolezzi cavandone il "documento" che ha inviato (insieme alla fotocopia del certificato) ai vescovi italiani fin da maggio (...) Una polpetta avvelenata. E cucinata pure male». Enzo Bianco, ex ministro dell’Interno ed ex presidente del Copaco, parla di «odori nauseabondi», «ritorno alle pratiche del Sifar anni Cinquanta». Tra gli odori nauseabondi il peggiore è quello dei morti, di calunnia si muore anche da vivi. Cosa ancora si aspetti a mobilitarsi per difendere l'informazione, la democrazia e l'Italia dai cuochi di cianuro e dal Gran Ristoratore che li ingaggia, davvero, non si sa.

Repubblica 1.9.09
Le due chiese e il principe
di Adriano Prosperi


«Abbiamo dunque con la Chiesa e con i preti noi italiani questo primo obligo: di essere diventati sanza religione e cattivi; ma ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra: questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa». Il tempo muta tutte le cose e non lascia niente com´era. Ma la realtà odierna, pur nelle nebbie che coprono ai nostri occhi i movimenti e i moventi reali, sembra offrire materiale adeguato per una verifica della diagnosi di Machiavelli.
Assistiamo oggi a un conflitto aperto e pubblico tra la coscienza morale del popolo cattolico italiano coi suoi preti e i suoi vescovi e le necessità strategiche della Chiesa come potere (quella che Machiavelli chiamava la Corte di Roma). Dalla parte dei primi è affiorato con toni sofferti il disagio davanti allo spettacolo di un potere senza freni e senza pudore. Annunciatosi in sordina, cresciuto col brontolio di un tuono lontano, quel disagio è esploso nello scandalo e nella protesta: i corpi utilizzati per i piaceri e quelli condannati a sparire nel Mediterraneo hanno scatenato un moto di ripulsa e il quotidiano dei vescovi e della Chiesa italiana ha dovuto dargli espressione, sia pure con i toni smorzati della retorica ecclesiastica. Ci si chiedeva che cosa corrispondesse a quel disagio nell´ovattato silenzio dei palazzi vaticani. E già le cene progettate e le perdonanze estorte all´ombra di quel papa Celestino morto prigioniero di un altro Papa facevano intuire che la diplomazia della Chiesa-Potere si stava adoperando per coprire e sedare. Forse un giorno i movimenti segreti della diplomazia saranno resi noti dagli storici. Ma non c´è stato bisogno di un appuntamento segreto come quello che ci fu tra il 19 e il 20 gennaio 1923 tra il cardinal Gasparri e il cavalier Mussolini per orientare la politica della comunicazione pubblica di parte vaticana e portare all´uscita di ieri del direttore dell´Osservatore Romano sul Corriere della Sera. Da quella intervista ricaviamo un giudizio severo: ma non sull´aggressione del quotidiano berlusconiano al dottor Boffo che il cardinal Bagnasco ha definito «disgustoso», bensì sulle critiche che il quotidiano diretto da Boffo aveva avanzato nei confronti del berlusconismo immorale.
E allora ci si chiede fino a che punto la marcia della Chiesa-Potere può accordarsi al cammino delle coscienze italiane. Per sfuggire all´emozione e all´ira di un ignobile, disgustoso scenario di primi piani - ma la politica non è roba da stomaci delicati, com´è noto - ricorriamo al campo lungo della storia. Ci soccorre un libro importante che finalmente riprende in esame la questione dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia in tutta la sua complessità e nell´intrico dei movimenti reali: lo ha scritto un valente storico, Roberto Pertici, lo pubblica per i tipi del Mulino il Senato della Repubblica (Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande Guerra al nuovo Concordato (1914-1984)). La storia è scienza difficile, richiede che le passioni tacciano e che lo sguardo acquisti la lucidità di chi può e vuole solo capire. Secondo Pertici è dalla Grande Guerra che si deve partire per comprendere perché la formula cavouriana del «libera Chiesa in libero Stato» sia stata accantonata per avviarsi sulla strada del concordato. Fu allora che il papato di Benedetto XV sottrasse la Chiesa cattolica al condizionamento degli Stati e fece della scelta di neutralità e della parola di pace il cuore della nuova posizione nel mondo che l´immane carneficina le offriva. Non le servivano più dei portavoce laici autorizzati né delle forze politiche confessionali. Di conseguenza lo stesso rapporto col Partito Popolare di don Sturzo e più avanti con la Democrazia Cristiana di De Gasperi non cancellarono più la volontà della Chiesa di perseguire la sua politica con un rapporto diretto coi governi. Nacque così la politica dei concordati. E l´atto con cui Togliatti nella notte tra il 25 e il 26 marzo 1947 - un vero «luogo della memoria» nella storia dell´Italia repubblicana, come osserva Pertici - portò l´adesione non desiderata e non gradita del Partito Comunista all´inserimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione nacque dalla coscienza della fragilità delle istituzioni del paese.
Togliatti ci tenne a dire pubblicamente a De Gasperi che aveva ben compreso un suo accenno al fatto che il nuovo regime italiano di tutto aveva bisogno fuorché di turbamenti alla pace religiosa. De Gasperi aveva letto pubblicamente la formula del giuramento concordatario col quale i vescovi si impegnavano a essere leali verso lo Stato italiano, a rispettare e a far rispettare dal clero il capo della repubblica e il governo costituzionale: e aveva concluso: «Amici, non siamo in Italia così solidificati, così cristallizzati nella forma del regime da poter rinunziare a simili impegni».
Questo lo scenario offerto dalla storia per affrontare la lettura del presente. Oggi niente è rimasto com´era nel paese Italia, un paese nei cui registri parrocchiali si leggeva allora molto spesso la qualifica di «miserabile», dove i mestieri più diffusi erano quelli di bracciante per gli uomini e di casalinga per le donne. Un abisso sociale divide oggi i nipoti dalla realtà di chi tornò allora vivo o morto dalla guerra. E tuttavia nemmeno oggi il regime è "cristallizzato", anzi. E la Chiesa fa la sua politica. Nell´incontro segreto del 1923 maturò la politica che portò il governo Mussolini a reintrodurre la religione cattolica come materia da insegnare nelle scuole e a fare tutti i passi che portarono al Concordato. Oggi un partito che ieri vantava il suo paganesimo e adorava le acque del Po si offre come il vero partito cattolico: non ci stupiremo pensando all´ateo Mussolini che sfidava la folgore di Dio dal pulpito. Un altro «uomo della Provvidenza» tenta la strada del Vaticano. E forse oltre Tevere qualcuno starà valutando freddamente la sua credibilità come successore di un ormai imbarazzante - anche per loro - presidente del Consiglio.

Repubblica 1.9.09
L’officina dei veleni
di Giuseppe D’Avanzo


DUNQUE la «nota informativa», pubblicata dal Brighella che dirige il Giornale del capo del governo, non è né una «nota» né un´«informativa» né tanto meno un atto giudiziario. È una "velina". Ora è ufficiale: nel fascicolo del Tribunale di Terni non c´è alcun riferimento a Dino Boffo, direttore dell´Avvenire, come a «un noto omosessuale». Lo dice il giudice di Terni: negli atti «non c´è assolutamente nessuna nota che riguardi le inclinazioni sessuali».
DA QUI - dalla menzogna del Giornale di Berlusconi - bisogna ripartire per comprendere il metodo e le minacce di un dispositivo politico che troverà - per ordine del potere che ci governa - nuovi bersagli contro cui esercitarsi, altri indiscutibili falsi da agitare per punire gli avversari politici o chi dissente. La storia è nota. Boffo osa criticare, con molta prudenza, lo stile di vita di Berlusconi e si ritrova nella lista dei cattivi. Dirige un giornale cattolico e non può permettersi di censurare l´Egoarca. Deve avere una lezione. Non c´è bisogno di olio di ricino, genere merceologico antiquato. Una bastonatura mediatica è ben più funesta di un lassativo. Può essere definitiva come un colpo di pistola. È quel che tocca al direttore dell´Avvenire: un colpo di pistola che lo tramortisce. Finisce in prima pagina del Giornale di Berlusconi descritto così: «Dino Boffo, alla guida del giornale dei vescovi e impegnato nell´accesa campagna di stampa contro i peccati del premier, intimidiva la moglie dell´uomo con il quale aveva una relazione».
C´è stata finora una regola accettata e condivisa nel pur rissoso giornalismo del nostro Paese diviso: spara duro, se vuoi, ma è legittimo farlo soltanto con notizie attendibili e fondate, confermate da testimonianze o documenti che reggano una verifica, pena il discredito pubblico, la squalifica di ogni reputazione professionale. Il collasso di questa regola di decenza può inaugurare una stagione critica. Per descriverla torna utile Brighella, antica maschera della commedia dell´arte che nasce nella Bergamo alta. Attaccabrighe, briccone, bugiardo, Brighella viene da briga, intrigo: «se il padrone promette di ricompensarlo bene, dirige gli imbrogli compiuti in scena». Il potere che ci governa immagina che i giornalisti debbano trasformarsi tutti in Brighella. Un Brighella in giro già c´è. Dirige il Giornale di Berlusconi. Si mette al lavoro e cucina l´aggressione punitiva per il dissidente. Gli hanno messo in mano un pezzo di carta anonimo, redatto nel gergo degli spioni e delle polizie. Chi glielo ha dato? Dov´è l´officina dei miasmi, dei falsi, dei dossier melmosi che il potere che ci governa promette di usare contro i non-conformi alla sua narrazione del Paese? Il foglietto che Brighella si ritrova sullo scrittoio è di quei frutti avvelenati. Non vale niente. È una diceria poliziesca. Il direttore del Giornale di Berlusconi la presenta ai lettori come una «nota informativa che accompagna e spiega il rinvio a giudizio del grande moralizzatore, alias il direttore dell´Avvenire, disposto dal gip del Tribunale di Terni». Quella "velina" diventa, nell´imbroglio di Brighella, un documento che gli consente di scrivere, lasciando credere al lettore di star leggendo un atto giudiziario: «Il Boffo è stato a suo tempo querelato da una signora di Terni destinataria di telefonate sconcie e offensive e di pedinamenti volti ad intimidirla, onde lasciasse libero il marito con il quale il Boffo, noto omosessuale attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni, aveva una relazione».
Disinformazione e "falso indiscutibile", in questa manovra, fanno un matrimonio d´amore. Il documento è un falso indiscutibile. È utile però a un lavoro di disinformazione. La disinformazione, metodo maestro della Russia sovietica, contrariamente alla menzogna, contiene una parte di verità (anche in questo caso: Boffo ha accettato una condanna per molestie), ma questa viene deliberatamente manipolata con abilità. A Brighella non importa nulla delle molestie. Vuole gridare al mondo: il direttore del giornale della Conferenza episcopale è un frocio! Chi ha sensibilità per i diritti civili, i movimenti gay afflitti dall´Italia omofoba di oggi discuteranno dell´uso dell´omosessualità come colpa, difetto, vergogna, addirittura come reato. Qui interessa l´uso del falso nel dispositivo politico che minaccia. Colto con le mani nel sacco dei rifiuti, quando diventa evidente che quella «nota informativa» è soltanto una «velina» di spione diventata lettera anonima ai vescovi e riesumata per la bastonatura, Brighella dice: «Non ho mai parlato di informative giudiziarie. Abbiamo un documento (ma è la sentenza di condanna per molestie). Il resto non conta. Non conta da chi l´abbiamo avuto, non conta se ci sono degli errori». Sincer come l´acqua dei fasoi dicono a Bergamo per dire falso, bugiardo. È quella schifezza presentata come «nota informativa»? Come documento? Addirittura come atto giudiziario? Non ne parliamo più? Non è accaduto nulla? È stupefacente che la menzogna di Brighella venga presa sul serio proprio da quell´autorevole giornalismo italiano che finora ha accettato e condiviso la regola che sia legittima anche la durezza, pure la brutalità se in presenza di fatti, notizie, documenti, testimonianze affidabili. È sorprendente che si legga sul Corriere della sera di Ferruccio de Bortoli: «(Il direttore del Giornale) non retrocede di un passo» e su la Stampa di Mario Calabresi: «Nessuna retromarcia (del direttore del Giornale) sulla vicenda, dunque». Nessuna retromarcia?
Fingere di non capire, non valutare con severa attenzione quanto è accaduto oggi a Dino Boffo (domani a chi?), accettare di chiudere gli occhi dinanzi al metodo sovietico inaugurato dal potere che ci governa, con il lavoro di Brighella, ci rende tutti corresponsabili perché se chi diffonde una disinformazione è colpevole e chi le crede è uno sciocco, chi la tollera è un complice. Quella lucida aggressione, che trasforma il giornalismo in una pratica calunniosa senza regole, non può essere accettata con un´alzata di spalle né dall´informazione ancora indipendente né dalle istituzioni di controllo come il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir). Perché due cose ormai sono chiare in un affare che sempre più assume i contorni di una questione di libertà. Berlusconi pretende che l´industria delle notizie si trasformi o in organizzazione del silenzio (a questo pensa il Tg1 di Augusto Minzolini) o in macchina della calunnia (è il caso di Brighella). La macchina della calunnia si sta alimentando, in queste ore, con "veline" e dossier che servitori infedeli delle burocrazie della sicurezza le offrono. Per sollecitazione del potere o per desiderio di servire un padrone, non importa. È rilevante il loro uso politico. A questo proposito, dice Francesco Rutelli, presidente del Copasir: «Non ho ricevuto finora nessuna segnalazione su coinvolgimenti diretti o indiretti di persone legate ai servizi di informazione». Ieri Rutelli ha incontrato Gianni De Gennaro, direttore del Dipartimento per l´informazione e la sicurezza (Dis). Chi sa se ha avuto qualche "segnalazione". Comunque, pare opportuno concludere con un messaggio agli spioni al lavoro nella bottega dei miasmi: per favore, dopo aver cucinato le vostre schifezze, mandate un sms a Francesco Rutelli. Grazie.

Repubblica 1.9.009
Quando il potere teme il controllo
di Stefano Rodotà


L´aggressione ai giornali sgraditi non riguarda solo i paesi totalitari, ma interroga la qualità delle democrazie

La guerra ingaggiata dai paesi totalitari contro la libertà di informazione su Internet costituisce la manifestazione ultima e spettacolare di un conflitto secolare, di una insofferenza di tutti i poteri costituiti nei confronti di chi agisce per rendere trasparente e controllabile il loro operato. È una vicenda lunga, accompagna la nascita dell´opinione pubblica moderna, che riesce a strutturarsi e a far crescere la sua influenza proprio grazie al ruolo della stampa. Qui è la radice di un processo che, insieme, dà senso alla democrazia e fa progressivamente emergere la stessa stampa come potere, il "quarto potere", al quale ne seguirà un "quinto", identificato nella televisione: poteri oggi unificati dal riferimento comune al sistema della comunicazione.
Non dimentichiamo che la democrazia è anche, e forse soprattutto, governo "in pubblico". Una caratteristica istituzionale affidata per lungo tempo quasi esclusivamente al parlamento, la cui funzione "teatrale" significava appunto che la politica doveva svolgersi su una scena visibile al pubblico. Una funzione prima accompagnata, poi appannata, infine spesso cancellata dal trasferimento della politica sulla scena televisiva: non è un caso che una trasmissione come "Porta a porta" sia stata definita "una terza Camera". Sono così cresciuti ruolo e responsabilità del sistema informativo. E la definizione della stampa come quarto potere significava proiettarsi al di là della tripartizione di Montesquieu, rafforzando proprio la funzione di garanzia che, nel dilatarsi del ruolo dello Stato e nell´ampliarsi della sfera pubblica, non poteva essere pienamente assicurata nell´ambito delle tradizionali strutture istituzionali. La stampa prima, e l´intero sistema della comunicazione poi, si presentavano così come luogo della libertà e di una nuova forma di rappresentanza della società.
Ma questa trasformazione portava con sé anche l´allargarsi dell´area del conflitto, e un ricorso diffuso a strumenti capaci di controllare il sistema dell´informazione. Si tratta di tecniche ben note, dalla censura al condizionamento economico, dal regime proprietario all´accurata selezione di giornalisti compiacenti, dalle minacce all´eliminazione fisica. Tecniche che continuano a convivere, caratterizzate tutte da un´intima carica di violenza. L´italiano Antonio Russo scompare in Cecenia; Anna Politkovskaja è divenuta il simbolo di una indomabile devozione alla libertà che può essere spenta solo con l´assassinio; Yahoo! si fa complice del governo cinese svelando il nome di un giornalista che aveva inviato alcune notizie negli Stati Uniti, Shi Tao, che così può essere arrestato e condannato a dieci anni di carcere. Sono soltanto tre esempi di uno stillicidio quasi quotidiano, di una irresistibile voglia di bavaglio di cui ci parlano vicende recenti in Cina, Birmania, Iran.
Ma non sono soltanto i regimi totalitari e autoritari a doverci inquietare. Nei paesi democratici il carattere pervasivo dei diversi strumenti di comunicazione, che strutturano la sfera pubblica, fa crescere le pretese di un potere politico che considera appunto il sistema della comunicazione come uno strumento essenziale per acquisire e mantenere il consenso. Si opera così un capovolgimento istituzionale. Il sistema dell´informazione vede alterata la propria natura e si trasforma in strumento servente di un potere che, insieme, si libera del controllo esterno e accentua il suo controllo sulla società.
Tutto questo avviene in forme che mantengono l´apparenza del pluralismo. A che vale, però, l´offerta di centinaia di canali televisivi se le centrali di produzione dei contenuti sono nelle mani di monopolisti, obbediscono alla stessa logica, hanno gli stessi "azionisti di riferimento"? Rendere possibile l´esposizione di ciascuno al massimo possibile di opinioni diverse è ormai la condizione fondamentale per il funzionamento dei sistemi democratici. Altrimenti la democrazia pluralista si trasforma in un guscio vuoto. Di questo è ben consapevole il nuovo "Zar dell´informazione", Cass Sunstein, nominato da Obama proprio per affrontare i nuovi problemi del sistema della comunicazione, che ha proposto per i siti Web particolarmente influenti l´obbligo di indicare un collegamento con siti che manifestano opinioni diverse. E, proprio per allentare la presa dei vari centri di potere sull´informazione, in Francia si prepara un sistema di calcolo dei tempi televisivi che escluda privilegi per lo stesso Sarkozy, mentre in Gran Bretagna si guarda alle tv private in un´ottica che tenga conto della funzione pubblica che anch´esse rivestono.
Rispetto a tutto questo, la situazione italiana si configura non solo come eccezione, ma come profonda deviazione. Consideriamo un caso davvero esemplare per il rapporto potere, informazione, cittadini. Un recente rapporto Censis ha rilevato che il 69.3% degli elettori forma le proprie opinioni in base alle informazioni fornite dai telegiornali. Il controllo dei telegiornali, dunque, è un veicolo essenziale per l´acquisizione del consenso. E il fatto che si tratti di una informazione quasi monocorde, ridotta a un denominatore davvero minimo, che nega alla radice il pluralismo, altera i caratteri democratici del sistema e svela pure il carattere ormai ingannevole dei sondaggi, la cui attendibilità dipende dall´ampiezza del patrimonio informativo di cui dispone ciascuno degli interrogati.
Ma la normalizzazione del sistema televisivo evidentemente non basta. E così, con una mossa tipicamente autoritaria, si vuole normalizzare anche la stampa, spegnendone le voci dissenzienti. Non si commetta l´errore di ritenere che, in definitiva, siamo di fronte a casi isolati, di cui ci si può disinteressare. Le resistibili ascese sono sempre cominciate così – ci ammonisce la storia dei rapporti tra stampa e potere. Quando, poi, ci si accorge che quello era solo un primo passo, che si voleva colpirne uno per educarne cento, può essere troppo tardi.

l’Unità 1.9.09
Quando la mafia regna
di Giancarlo De Cataldo


Si accusano spesso scrittori e sceneggiatorispecie di storie criminalidi invadere il campo degli storici di professione. Di creare confusione fra realtà e finzione. T.J.English, americano, autore di serie di culto come “NYPD Blue” e “Homicide”, è andato addirittura oltre. Ha scritto un saggio storico. Si chiama “Notturno Avana” (ed. Il Saggiatore) e racconta di quando Cuba era governata dalla Mafia. È un libro che “ti prende”, scritto con il piglio del narratore, e insieme molto documentato: English, per intenderci, è andato a rivedersi montagne di atti dell' epoca, e persino i porno amatoriali girati in club esclusivi ad uso e consumo dei boss e dei politici compiacenti. La Cuba dei grandi casinò, delle ville spagnoleggianti, della corruzione diffusa e del “glamour” hollywoodiano incarnava il sogno di ogni capomafia: uno stato interamente finanziato, controllato e persino governato dal crimine. Un sogno che viene impietosamente spezzato da una rivoluzione. Ci voleva uno sceneggiatore americano per restituire l'onore al primo Fidel Castro (le fucilazioni, la repressione, la dittatura erano ancora di là da venire) e per farci riflettere su uno dei tanti ricorrenti paradossi della Storia: Meyer Lanski, la vera mente dell'occupazione mafiosa di Cuba, era figlio di ebrei sfuggiti ai “pogrom” di inizio secolo. Il dittatore Batista veniva da una famiglia poverissima di raccoglitori di canna da zucchero: suo padre lavorava nelle piantagioni dei Castro. Entrambi erano pronti a tutto pur di non ripiombare in quella povertà che aveva avvelenato la loro infanzia. Il giovane Fidel era un ricco studente dall'animo focoso e dai costumi alquanto intemperanti. I poveri diventati ricchi, insomma, stavano dalla parte dello sfruttamento e della malavita, mentre Fidel, nato ricco, stava dalla parte dei poveri veri.❖

Corriere della Sera 1.9.09
Immigrati respinti, la Ue vuole chiarimenti
Protesta l’Alto commissariato Onu. Maroni: è la prassi, noi andremo avanti
di M. Ne.


ROMA — L’Unione euro­pea chiede spiegazioni all’Ita­lia e a Malta. Vuole sapere chi c’è sui barconi dei migran­ti che vengono respinti.

Ci sono clandestini op­pure persone che han­no diritto ad essere ac­colte? La richiesta di informazioni è parti­ta dopo il respingi­mento verso la Li­bia, avvenuto l’altro ieri, di un gommone carico di 75 migranti fra cui 15 donne e 3 mi­norenni.

«Attendiamo notizie — fa sapere il portavoce del­l’Esecutivo comunitario Den­nis Abbott — per poter valuta­re la situazione». L’iniziativa di Bruxelles ha il senso di un vero e proprio ammonimen­to. In pratica, vuol dire che i respingimenti sono conside­rati illegittimi dall’Unione eu­ropea. Difatti Abbott aggiun­ge che «qualunque essere umano ha diritto di sottopor­re una domanda che gli rico­nosca lo stato di rifugiato o la protezione internazionale».

Il portavoce di Bruxelles rafforza poi le sue affermazio­ni citando le frasi contenute in una lettera del commissa­rio alla giustizia Jacques Bar­rot. «Il principio di non re­spingimento — si legge nel testo di Barrot —, così come è interpretato dalla Corte eu­ropea dei diritti dell’uomo, si­gnifica essenzialmente che gli Stati devono astenersi dal respingere una persona, diret­tamente o indirettamente, laddove potrebbe correre un rischio reale di essere sotto­posta a tortura o a pene o trat­tamenti inumani e degradan­ti ».

Non è la prima volta che l’Unione europea solleva il problema. Tuttavia il mini­stro dell’Interno Roberto Ma­roni ribadisce che non cam­bia nulla. «I respingimenti— dice — continueranno. L’ulti­mo è avvenuto in acque inter­nazionali ». Maroni chiede prudenza: «Si è detto che gli occupanti del gommo­ne provenivano dal Cor­no d’Africa. Non si sa chi ha messo in giro questa voce. E’ suc­cesso anche la setti­mana scorsa per il barcone con 75 mi­granti, è stato scritto che erano curdi e ira­cheni, invece si è ac­certato che erano tutti egiziani, e in Egitto so­no stati rispediti».

Stiamo attenti, ammoni­sce Piero Fassino (Pd), alle modalità con cui si effettua­no i respingimenti. «Bisogna agire in modo da impedire l’arrivo dei clandestini, ma al tempo stesso verificare se ci sono persone che hanno dirit­to all’asilo».

L’Italia ha più volte solleci­tato la Comunità europea, at­traverso gli interventi dei mi­nistri Frattini e Ronchi, a con­siderare il problema immigra­ti come una questione di tut­ta l’Europa. In particolare è stata lanciata la proposta che gli immigrati non vengano la­sciati solo sul territorio italia­no, ma ciascuno dei 27 part­ner europei ne accolga una quota. L’idea non piace affat­to ad alcuni Paesi. Secondo notizie che arrivano da Bru­xelles, la respingono decisa­mente Austria e Germania. Al­lora il commissario alla giusti­zia Jacques Barrot ha deciso di inviare domani una lettera a tutti gli Stati europei chie­dendo che venga presa una decisione comune, in base al­la quale ogni Paese dovrebbe aprire le porte a un certo nu­mero di rifugiati.

Intanto i 75 migranti ferma­ti l’altro ieri su un gommone in acque internazionali sono stati accompagnati dalla Guardia di finanza nel porto libico di Zawia, vicino a Tripo­li. Sembra che sulla nave ita­liana ci siano stati momenti di tensione, perché i 75 non volevano mettere piede in ter­ritorio libico.

Repubblica 1.9.09
Le elezioni in tre laender rilanciano la Linke di Lafontaine: "Ora i socialdemocratici non possono ignorarci"
Dopo il trionfo la sinistra avverte la Spd "Costruiamo insieme l´Ulivo tedesco"
Malgrado la netta sconfitta, la Merkel non ha dubbi: "Le elezioni politiche le abbiamo in pugno"
Il leader Lothar Bisky: "Il nostro successo è un segnale di voglia di giustizia sociale"
di Andrea Tarquini


BERLINO - Il giorno dopo il grande successo della Linke alla "superdomenica elettorale", e a quattro settimane dalle elezioni politiche federali del 27 settembre, un vento soffia sulla Germania, imprevisto fino a ieri: il vento di un trend verso l´unità della sinistra. "L´Ulivo di Lafontaine", titola l´editoriale del Tagesspiegel di Berlino, esprimendo il tema con la massima chiarezza. La Linke stravince, dice la Sueddeutsche Zeitung. "Trionfo di Lafo" (Oskar Lafontaine, appunto) spara in prima a caratteri cubitali persino il popolare Bild, vicinissimo alla Cdu-Csu della cancelliera. E il leader della Linke, Lothar Bisky, dice a Repubblica: «Il nostro successo è un chiaro segnale di voglia di giustizia sociale, voglia diffusa in ampi strati della società tedesca all´ovest come all´est. E adesso alla Spd tocca riflettere, capire che isolarci non le serve, anzi la danneggia».
«Noi restiamo sicuri, continuiamo ad avere in pugno ogni possibilità di vincere le elezioni», ha detto Angela Merkel, commentando il voto di domenica in tre dei sedici Stati della federazione, in due dei quali il suo partito ha avuto un tracollo mentre ovunque la sinistra radicale, cioè il partito di Lafontaine e dei postcomunisti dell´Est ha volato. «E sono convinta che la soluzione migliore per la Germania sia una coalizione tra noi della Cdu-Csu e i liberali della Fdp», ha continuato. Ma il problema esiste: il trionfo della Linke ha mostrato per la prima volta che la Germania può diventare imprevedibile, e che formule di governo o alleanze ritenute impensabili fino a ieri adesso stanno entrando nella realtà. Non ancora a livello nazionale, ci vorrà tempo, dice Lafontaine in persona. Ma la prospettiva di un Ulivo di Prodi alla tedesca, sottolinea sempre il Tagesspiegel, a medio-lungo termine «adesso è una visione, non più un´allucinazione».
Tre grandi interrogativi dominano adesso la vita politica: primo, chi governerà nei tre Bundeslaender dove si è votato domenica, perché se coalizioni di sinistra "rosso-rosso-verdi" s´imporranno, il Bundesrat (Camera delle regioni) diverrà un ostacolo per una possibile maggioranza di centrodestra. Secondo, quale riflesso avrà il voto di domenica sulle politiche del 27 settembre. Terzo, quali prospettive di dialogo e cooperazione si apriranno tra Spd e Verdi da un lato e Linke dall´altro a livello nazionale.
«La Cdu ha preso un grande schiaffo in Saarland e Turingia, e il nostro 20 per cento nella Saarland è un risultato mai visto prima», dice Lothar Bisky. «Merito essenziale di Lafontaine, ma comunque anche segnale di nuovi bisogni dell´elettorato. La Spd si trova al bivio: è ormai a rimorchio della Cdu, perché la Merkel prosegue la politica di "riforme" di Schroeder, o dà contenuti socialdemocratici alla sua politica. La Spd ha prima introdotto con Schroeder tagli al welfare che hanno aumentato la povertà specie tra bambini e anziani, poi ora accodandosi alla politica "socialdemocratizzata" della cancelliera ha perso profilo. Non è in una situazione invidiabile».
La strategia di lungo termine della Linke sembra ormai tentare di diventare il motore di un processo di unificazione a sinistra. «La Spd - sottolinea Bisky - spero capisca che aderire alla politica di Ausgrenzung, di emarginazione ideologica del nostro partito, non le porta consensi ma emorragie e perdita di profilo. Dire no alla Linke rafforza la Cdu, non la Spd». Molti elettori, e all´est ma non solo anche elettori che nel passato recente votavano Cdu o Spd, sottolinea Bisky, «adesso votano per noi. Per voglia di più giustizia sociale, o se sono benestanti per solidarietà con chi non lo è».
Tempi maturi per un "Ulivo tedesco", dunque? «È ancora presto per coalizioni a livello nazionale», replica Bisky. Al vertice della Spd decide ancora chi ci dice di no, con una rigidità ideologica. Ma se la Spd continuerà a perdere consensi e identità, quei suoi leader che sono più aperti verso di noi, e che nei suoi ranghi, lo so bene, non mancano, si faranno avanti».
Il senior leader della Linke sembra pensare soprattutto a Klaus Wowereit, borgomastro Spd di Berlino che governa insieme alla Linke la capitale città-Stato. «Di Wowereit ce n´è uno solo, ma lui è giovane, ha il tempo dalla sua parte. E con noi è pragmatico, non ha bende ideologiche sugli occhi». Qualcuno dice (nel centrodestra con crescenti timori) che il sogno e l´ambizione di Wowereit sono fare il grande balzo, da borgomastro di Berlino a cancelliere-leader di una sinistra unita, un Willy Brandt del dopo-guerra fredda.
a. t.

Corriere della Sera 1.9.09
Il successo del partito di Lafontaine resuscita (e torna a dividere) gli orfani dell’Ulivo
Effetto Linke sulla sinistra italiana
Ferrero: «Giusto essere radicali». Mussi: «Non è Rifondazione comunista»
di Alessandro Trocino


ROMA — Tagesspiegel titola: «L’Ulivo di Lafontaine». E azzarda: Oskar il rosso «ha tradotto nel dia­letto della Saar la formula dell'Uli­vo italiano». Riconoscimento in­sperato per una formula, l’Ulivo, che nel mercato italiano della poli­tica da qualche tempo non trovava più molto spazio, travolta da una si­nistra litigiosa, poi sconfitta e di­sgregata, e da un Partito democrati­co che sembrava inclinare più ver­so una vocazione all’autosufficien­za che verso la volontà di ricostrui­re il centrosinistra.

I risultati di Oskar Lafontaine danno linfa a chi crede ancora a questa visione. Rosy Bindi, mozio­ne Bersani al congresso, registra in­nanzitutto che «il vento della de­stra comincia a essere meno impe­tuoso ». Poi non nasconde un po’ d’orgoglio: «E’ evidente che la for­mula dell’Ulivo è stata anticipatri­ce ». Il risultato di Lafontaine corri­sponde a una crisi dell’Spd: «Non a caso anche il Pd, per quanto abbia perso 4 milioni di voti in un anno, alle Europee si è confermato il par­tito di centrosinistra più grande d’Europa. La formula del futuro non sta nella socialdemocrazia, nel­le vecchie case politiche del Nove­cento, ma nell’unione delle culture riformiste». Certo, i voti mancano: «Per farli tornare occorre ricostrui­re il perimetro del centrosinistra». Però per le alleanze Bersani sem­bra guardare più al centro che a si­nistra: «E’ vero — conferma Bindi —. Nel dibattito precongressuale si sta parlando poco di questo. Ma io credo che con l’Udc sia possibile solo un’alleanza tattica. Come dice Casini, si può mettere insieme un comitato di liberazione da Berlu­sconi. Invece per quanto riguarda un’alleanza strategica, a lungo ter­mine, credo che si debba invece guardare a sinistra».

Vincenzo Vita, Pd, conferma: «Questo risultato può riaprire la questione di un centrosinistra più avanzato. Mi piacerebbe che tor­nasse di moda il dialogo con la sini­stra ». Per ora, nel Pd, non sembra aria: «E’ vero, nessuna delle tre mo­zioni risponde al problema. France­schini ce l’avrebbe anche nel Dna, ma deve fare i conti con il baricen­tro della sua coalizione; Bersani sa­rebbe il più adatto per la sua cultu­ra politica, ma deve parare l’accusa di essere troppo a sinistra; Marino elude il problema, si muove su un altro piano». Per Vita, Lafontaine aggrega elettori che la sinistra ita­liana ha perso: «Die Linke dà una risposta anche a quello che da noi è antiberlusconismo generico e che si rifugia nel dipietrismo. La nostra sinistra ha perso il contatto con questi elettori».

Vecchia o meno, la sinistra italia­na è comunque doppia. E non per­de occasione per litigare. Il segreta­rio di Rifondazione comunista Pao­lo Ferrero ha subito telefonato a La­fontaine per spiegare che è stato «premiato il coraggio di scelte radi­cali, come quelle che hanno porta­to alla rottura con la deriva modera­ta della Spd e alla scelta di costrui­re una formazione di sinistra auto­noma ».

Prc come la Linke? «Macché — risponde Fabio Mussi, di Sinistra e Libertà —. Lafontaine non ha mica rifatto il partito comunista della Ddr. Non ha messo la falce e il mar­tello: il Prc mi sembra più simile a Democrazia Proletaria che a Die Linke». Claudio Fava la somiglian­za la vede con Sinistra e Libertà: «Hanno una storia molto più simi­le alla nostra che a quella del Prc. Loro non hanno mai detto che sta­ranno per sempre all’opposizio­ne ».

Notazione colta da Marina Sere­ni, franceschiana del Pd: «Gli elet­tori di sinistra saranno di più quan­do avranno la percezione di una proposta di governo che scelga un centrosinistra di governo e non sia solo di opposizione sterile«. Cesare Salvi, Socialismo 2000, ricorda che «le due liste di sinistra alle elezioni europee hanno ottenuto più del 6%, due milioni di voti, la stessa ba­se dalla quale partiva la Linke. Ora bisogna uscire dalle contrapposi­zione e creare una Federazione del­la sinistra». E «ricostruire lo spiri­to dell’Ulivo di 13 anni», come dice Fava. «Ma la strada è lunga e irta di difficoltà — aggiunge Mussi —. Perché il Pd non è l’Spd, la nostra sinistra non è Die Linke, i Verdi ita­liani non sono i Verdi tedeschi. Ser­virebbe un po’ di coraggio per cam­biare».

Liberazione 1.9.09
Killer in famiglia. Il patriarcato assassino
di Monica Lanfranco


Alla fine di questa estate si faranno i conti, e si vedrà, per pura statistica, se le cifre del rapporto dell'Eures del 2007, secondo il quale il numero di omicidi maturati all'interno della famiglia e dei "rapporti di prossimità" (parenti, amici, vicini) ha superato quello degli omicidi legati alla malavita e alla criminalità organizzata, sono valide anche per il 2009. Due anni fa in famiglia erano morte ammazzate 174 persone, in maggioranza donne e minori uccisi dai padri, mariti, conviventi (pari al 29,5 per cento del totale, superando in misura rilevante le vittime della criminalità comune e mafiosa all'esterno della casa). I numeri, però, sono solo numeri, mentre le storie, le immagini, i racconti del dolore e della violenza sono altro: sono la realtà incarnata in vite distrutte, spezzate dalla solitudine, schiacciate dal peso di valori sociali e pregiudizi che scavano la roccia fino a creare voragini che inghiottono le persone, e le rendono anche assassine.
A Genova qualche giorno fa una donna di 35 anni ha ucciso il suo bambino di 19 giorni e poi si è impiccata: era sola, con alle spalle una storia familiare di lutti e di abbandoni. La depressione post partum, il killer silenzioso in agguato in una società come la nostra dove la maternità reale non è, né per la collettività né per le istituzioni, quella facile e solare delle pubblicità dei pannolini senza antipatiche fuoriuscite, ha fatto un'altra tacca nel suo carnè di sangue. Ieri a Reggio Emilia un operaio disoccupato ha ucciso a coltellate e colpi di martello moglie e figlio di 19 anni, ridotto in fin di vita l'altro figlio di 4 anni e l'anziana padrona di casa. Poi ha tentato il suicidio. Dopo due anni di cassa integrazione, da maggio non riscuoteva più sussidi; il Centro di salute mentale che lo seguiva da tempo sostiene che l'uomo non avesse mai mostrato segni di squilibrio. Ma c'è, spesso insidiosamente latente e poco visibile, un altro silenzioso assassino annidato in chi, quasi sempre maschio e padre di famiglia, compie gesti mortali dentro la sua casa, con una disperata furia annientatrice: il senso di possesso della propria compagna e dei figli e figlie, l'eredità assassina del patriarcato. Nella raggelante follia omicida che annienta gli affetti e arma la mano di un uomo contro chi gli è più caro c'è anche l'ancestrale, terribile radice che gli permette di concepire questo gesto, iscritto nella genealogia del padre/padrone: «se io non ce la faccio nulla mi deve sopravvivere, perché la mia famiglia è mia».
Carlo Marx scrisse che c'era qualcuno ancora più oppresso e schiavo del proletario nel sistema del capitalismo: sua moglie, spesso resa schiava anche da lui, oltre che dal struttura economica. Non ci sono smentite all'orizzonte, purtroppo.

Repubblica 1.9.009
Perché non possiamo più dirci cartesiani
Esce in una nuova edizione l’opera completa del filosofo che è all´origine della nostra modernità Cosa resta di lui oggi che il suo motto è diventato "Non penso dunque sono"?
Si può sospettare che la sua filosofia sia stata un esempio di militarizzazione del pensiero
La sovranità assoluta del suo "Io penso" si è frantumata sui muri del Novecento
di Antonio Gnoli


Quando alla fine degli anni venti Edmund Husserl tenne le sue lezioni parigine su Descartes (che poco dopo sarebbero state raccolte con il titolo Meditazioni cartesiane), sembrava che la partita, giocata nel nome di un legame fondamentale tra filosofia e scienza, potesse avere la meglio sulle inquietudini e le incertezze speculative che negli stessi anni cominciavano a serpeggiare nella filosofia europea. Perfino un acuto poeta aperto al pensiero scientifico, come Paul Valèry, nel ricostruire le algide movenze mentali di Monsieur Teste, rivendicava l´assoluta autonomia cartesiana del pensiero dalle faccende del mondo, lasciando al lettore la sensazione che una efficace macchina solipsistica potesse in qualche modo ristabilire la supremazia del cogito su tutto il resto. Ma quella vicenda, ammantata di razionalismo, andò come è noto in tutt´altro modo. Del resto, quando René Descartes mise mano a quei due o tre capolavori filosofici che avrebbero segnato i secoli successivi - e tra questi Il discorso sul metodo e le varie Meditazioni - non poteva immaginare che proprio il Novecento avrebbe lasciato esplodere le grandi questioni da lui così efficacemente poste. È probabile perciò che egli stenterebbe a orientarsi tra le tumultuose trasformazioni che il pensiero filosofico ha subìto, allineando accanto alle celebri idee chiare e distinte quelle oscure e complicate di molti altri filosofi, e perfino semplicistiche, come si rileva attraverso il più efficace General Intellect che ci sia rimasto, ossia la televisione.
Ora, chi voglia in qualche modo rendersi conto di che cosa sia stato questo genio che seppe con eguale acutezza misurarsi con i grandi problemi della matematica e della filosofia, lo può fare grazie alla nuova edizione delle Opere che Bompiani pubblica in tre volumi a cura di Giulia Belgioso, studiosa che ha al suo attivo anche la cura di tutte le Lettere apparse sempre da Bompiani nel 2005. Grazie a questo programma meritorio di pubblicazione dei grandi testi della filosofia classica (e il merito è qui soprattutto di Giovanni Reale), abbiamo a disposizione, con testo a fronte, l´intero corpus cartesiano, vero e proprio monumento filosofico che è alle origini di tutte le possibili considerazioni sul moderno.
Ma chi è stato Descartes? Le poche immagini a disposizione lo ritraggono in pose che suggeriscono solidità di vedute e insieme qualcosa di sfuggente. Il capello fluente e mosso fin sulle spalle, la frangia irregolare che gli scende sulla fronte, il baffo e il pizzo à la mode secentesca, l´occhio di un pesce abituato alle profondità marine, restituiscono i tratti di un signore che avrebbe potuto intraprendere la professione del soldato, o quella del borghese se non proprio quella del filosofo. In effetti, non disdegnò le armate. Si arruolò nel reggimento del principe Maurizio di Nassau. Si conosce la sua passione per il gioco d´azzardo, la scherma e l´arte della fortificazione. E a volte si può anche sospettare che sia stato il primo vero esempio di una militarizzazione del pensiero filosofico. Del resto erano anni in cui le guerre, i dissidi, le imboscate esplodevano improvvisi. L´urto delle armature, il rumore dei primi cannoni, lo spostamento delle truppe, gli assedi, rappresentavano uno spettacolo violento e prolungato nel tempo. Mostravano i segni che l´uomo lasciava sulla terra. Ma l´uomo era questo o anche altro? Il mondo nel quale Descartes si trovò a vivere si era improvvisamente svegliato da un profondo letargo. Il lungo dominio esercitato dalla teologia era minacciato dalle scoperte geografiche e scientifiche. Costruzioni del pensiero ritenute fino ad allora saldissime rischiavano di crollare sotto il peso delle insidie che la scienza, con Galileo, Harvey e poi Newton, aveva scatenato.
La mente prensile di Descartes si muoveva con estrema agilità in quella nuova visione del mondo. Il suo talento per le scienze non era da meno del suo genio filosofico. La sua ambizione era di riuscire a unire saldamente i due saperi: la filosofia non avrebbe dovuto fare a meno della scienza, che a sua volta si sarebbe dovuta servire delle conoscenze filosofiche per dar vita a quel sistema di regole certe senza il quale l´uomo avrebbe continuato a vivere nel disorientamento e nell´oscurità. Quella tensione fu il lascito che Descartes trasmise ai secoli successivi.
Anche nel merchandising filosofico Descartes eccelleva: fu un genio della formula breve. Coniò con tre parole una sentenza il cui successo sarebbe giunto indenne fino ai giorni nostri: Penso dunque sono. Icastica, evidente, esplosiva come un messaggio pubblicitario. Ma davvero pensare equivaleva ad essere? E poi pensare a cosa? Possiamo immaginare il filosofo mentre con cura esamina il dettato della mente e lo separa dal corpo; vederlo chino su quella macchina prodigiosa che è l´uomo, destinata a corrompersi; osservarlo davanti al sorprendente spettacolo che il mondo consegna al suo sguardo, colmo di ammirazione ma non fino al punto da trarlo in inganno. Troppe cose che vi accadono sono soggette alla contraddizione, alle incertezze. Nasce qui il famoso dualismo cartesiano: separare e dubitare sono le sue armi conoscitive. Il dubbio in lui non ha una portata scettica. È un´arma metodologica per dirimere il vero dal falso, il reale dal sogno, il ragionevole dal folle. In genere queste partite filosofiche finivano ancor prima di cominciare. Prima di René la filosofia armeggiava con le sue certezze, le sue gerarchie, i suoi modi scolastici. Se si scrutava il cielo lo si faceva con gli occhi di Aristotele e guai a sgarrare, guai a controvertire idee e processi stabiliti e saldamente nelle mani dei dotti. Pensare in modo non retto poteva essere molto pericoloso. Descartes, così incline al nuovo, sapeva a cosa sarebbe andato incontro nel sostenere certe tesi. L´accusa di ateismo avrebbe potuto distruggergli la carriera, buttarlo nello sconforto o peggio in qualche buia galera. Quest´uomo accorto - in corrispondenza con mezza Europa, mentre con l´altra metà litigava - era conscio di ciò che rischiava. Memore delle disavventure accadute a Galileo, della censura e poi dell´abiura nelle quali il grande scienziato era incappato, Descartes agì con cautela. Rinunciò a pubblicare alcuni libri. Il che non gli impedì di imbattersi in lunghe e asfissianti polemiche con chi vedeva nella sua filosofia una temibile rivoluzione, una cancellazione di Dio, un insulto ai grandi e stabili precetti della Chiesa. Il nichilismo, su cui oggi molto si discetta, incubava involontariamente nei pensieri di Descartes, prima che in quelli di Nietzsche.
Eppure egli non voleva sbarazzarsi di Dio. Anzi la sua ambizione era di dare a questa entità somma la dignità ontologica che le spettava. Ma dopo aver sentenziato cogito ergo sum, come poteva credere che i lupi della scolastica lo avrebbero risparmiato?
Proviamo a scendere per un momento nel dettaglio. Al penso dunque sono Cartesio vi giunge dopo un esame che libera il pensiero dalle insidie che la realtà può riservargli. D´altra parte, posso io dubitare di quest´ultima? Certo che sì, dal momento che potrei sognare ciò che ritengo di aver vissuto, o perfino posso essere ingannato da qualche diavolo, per non parlare del folle che ritiene che il suo corpo sia di vetro. La sola cosa che gli appare dotata di inoppugnabile certezza è l´idea stessa del pensare. Anche se sognassi, o fossi ingannato o finissi nei fumi dell´allucinazione, non potrei mettere in dubbio il fatto stesso che quelle cose le ho pensate.
Questa lezioncina di filosofia non sgomenti, perché l´aspetto interessante non è tanto l´argomentazione cartesiana, quanto quello che la celebre frasetta poté produrre sul piano delle conseguenze. Si può sospettare, per esempio, che penso dunque sono sia un duplicato della potenza divina, traducibile in Dio pensa, dunque è, dunque crea. Ma il fatto di aver ricondotto questa potenza alla natura umana suggerisce questioni ulteriori. Che cosa accade se l´uomo si sostituisce a Dio? Descartes non era del tutto ignaro dei rischi ai quali sarebbe incorso dando all´Io penso lo statuto della sovranità assoluta. Tutte le avventure moderne del Soggetto nascono lì e si sviluppano fino a infrangersi sui muri del Novecento che frantuma quell´Io diventato impensabile. È dunque un passaggio obbligato chiederci che cosa resta del nostro magnifico filosofo, espropriato di quell´Io sul quale tanta filosofia successiva ha provato in modi diversi a fondarsi. Oggi - che lo slogan è "non penso dunque sono" - oggi che il pensiero è diventato il più futile tra gli strumenti del conoscere, e che pensare equivale a quell´apparire sempre miracolosamente in bilico tra una certa idea di successo e l´essere ricacciati nell´anonimato, oggi che il corpo ha spostato in modo sensibile le argomentazioni filosofiche, non avrebbe molto senso definirsi cartesiani. La monumentale iniziativa di Bompiani ci restituisce nella sua integrità filologica un´incantevole figura metafisica, dalla quale tutto ci divide tranne il desiderio di misurarsi con la sua intelligenza. Che fu aspra e scevra da pregiudizi, e in ultima analisi egocentrica e introspettiva come poche. Descartes morì nel 1650 a 54 anni per una polmonite. In spregio al medico curante che Cristina di Svezia gli aveva mandato, tentò di curarsi da solo. La leggenda vuole che sia stato avvelenato.

l’Unità 1.9.09
L’italiano e i dialetti /2
Alcol, alcova, assassino
Nella lingua le tracce dell’immigrazione passata
di Tullio De Mauro


Secondo il linguista un idioma è dato dall’amalgama di tante contaminazioni Il vocabolario non è un sistema statico. È un insieme dinamico sempre ampliabile La nostra storia è piena di richiami esterni che si sono cementati nel corso degli anni

Il seme della differenza linguistica trova terreno adatto in ogni essere umano e possiamo, anzi dobbiamo rendercene conto, piaccia o no, per molti motivi. Uno è che sul possesso della nostra lingua materna, povero dialetto o lingua illustre che sia, una volta acquisitolo possiamo innestare l’apprendimento di altre lingue anche molto diverse. E, anzi, l’esperienza dei bambini bilingui dice che fin dall’inizio del cammino che porta al linguaggio è possibile imparare a un sol tempo due lingue diverse. Un grande pensatore tedesco del primo Ottocento, politico e insieme grande filologo e linguista, Wilhelm von Humboldt, diceva che possedere una lingua significa possedere la chiave per ogni altra. Se avessimo buona memoria storica e perfino autobiografica o un po’ di spirito d’osservazione, non avremmo bisogno dell’autorità di Humboldt per affermarlo: milioni di noi italiani, emigrati spesso conoscendo solo un dialetto, si sono integrati nell’uso di lingue diverse. Fino al 1975 il saldo migratorio italiano era passivo o, detto più alla buona, emigravamo assai più di quanto non accogliessimo immigrati di nuovo arrivo. Questa è cosa che a quanto pare non si ama ricordare. Ma la cosa è avvenuta e ha creato tra noi diffuse testimonianze della capacità di conquistare nuove lingue, anche nelle circostanze assai difficili in cui si trovano in genere i migranti.
Ciò che è avvenuto per noi italiani, avviene in tanta parte del mondo per i milioni di migranti, ispanici in USA, cinesi, indiani e africani di varia lingua un po’ dappertutto. Anche paesi a lungo isolati dai flussi migratori, come il Giappone, si sono ormai aperti alle ondate di migranti coreani, cinesi e del sud-est asiatico. Sono flussi demografici che creano nuovi spazi per il plurilinguismo e nuove necessità per sperimentare la capacità umana di apprendere altre lingue oltre la materna. E lo stesso avviene sotto i nostri occhi nelle scuole, nelle imprese, nelle case dove milioni di immigrati conservando ovviamente la loro lingua materna, cui spesso si aggiungono un buon inglese o francese, vengono imparando i nostri dialetti e la nostra lingua, come da molti anni analizzano con cura studiosi delle università di Pavia, Bergamo, Siena, Roma. Non voglio qui riprendere polemiche contro la squallida mozione Cota sulle classi ghetto. Al contrario, voglio invitare a una saggia pazienza: Cota può far del male a breve termine, ma i Cota passano e la vocazione plurilingue dell’uomo resta.
Ma altre possibilità abbiamo per valutare oggettivamente la vocazione umana alla diversità linguistica. La più accessibile è considerarne gli effetti in tutte le parlate del mondo o almeno su quelle molte che, tra le settemila oggi un uso, abbiamo studiato e possiamo documentare più analiticamente. Una lingua non è un sistema statico, chiuso e fermo. È un insieme dinamico sempre ampliabile e integrabile in risposta alle necessità dell’uso. A molte integrazioni chi parla una lingua provvede con mezzi interni alla
lingua stessa. Ma una continua fonte di novità e integrazioni è per i parlanti di ogni lingua ricorrere ad altre lingue, importandone strutture anche sintattiche e grammaticali, ma soprattutto parole nuove. Tre secoli prima che la linguistica cominciasse a studiare e documentare i flussi di prestiti da una lingua all’altra, con il genio dell’osservatore e dello storico Niccolò Machiavelli scriveva: «Non si può trovare una lingua che parli ogni cosa per sé senza aver accattato da altri». Il prestito linguistico non solo non è fatto marginale, ma in certi casi modifica profondamente nel tempo la fisionomia di una lingua. Un caso noto è quello del persiano moderno, una lingua indoeuropea in cui, sotto la spinta religiosa dell’Islam, il vocabolario si è arabizzato. Al contrario il malti, una lingua semitica prossima all’arabo, si è indoeuropeizzato nel vocabolario e, più in particolare, si è arricchito di prestiti dal sici-
liano e dall’italiano comune. Il prestito da altre lingue ha raggiunto proporzioni eccezionali nell’inglese sia britannico sia americano. L’inglese, si sa, è una lingua di origine germanica, affine a tede-
sco, olandese e alle lingue nordiche. Dal tardo medioevo è stato arricchito da prestiti di matrice latina, tratti o dal francese o direttamente dal latino e il suo volto è cambiato. Studiando un campione di parole dell’Oxford English Dictionary risulta che soltanto il 10% delle parole registrate dal dizionario appartiene all’originario fondo germanico. Il 25% è rappresentato da neoformazioni createsi nella storia della lingua. Ben il 65% del vocabolario inglese attuale è tratto dal latino, dal francese e, in misura più modesta, da italiano e spagnolo.
Gli ispanismi, ma anche gli italianismi, sono meglio rappresentati nell’inglese d’America. La presenza latina e neolatina è così forte che uno studioso inglese, James Dee, si è spinto a dire che l’inglese è la lingua che meglio conserva l’eredità del latino classico, medievale e moderno.
Rispetto all’inglese l’italiano è un po’ più fedele alle sue origini, cioè alle origini latine. Una grande fonte dizionaristica italiana, paragonabile per estensione all’Oxford English Dictionary, permette di affermare che nell’italiano oggi in uso le parole di diretta eredità latina sono quasi 41mila, poco meno di un sesto del totale e quindi assai più del decimo di parole germaniche in inglese. Il latino è presente in italiano in modi diversi. Come nelle altre lingue europee, è stato e resta il filtro di grecismi: democrazia, economia, matematica ecc. Ci sono poco più di 10mila parole che un grande storico della lingua, Bruno Migliorini, definiva patrimoniali: sono parole presenti dall’origine nelle parlate toscane, quindi poi in italiano, e, con le dovute varianti, nei dialetti: abbondare, avere, dovere, faccia, rabbia ecc. La gran maggioranza delle parole d’origine latina è stata presa dalla tradizione scritta e colta antica e medievale e introdotta di peso
nell’italiano ormai formato e, in parte, anche nei dialetti: abate e abbazia, abietto e abiezione, abile e abilità, acacia (la forma patrimoniale c’è ed è gaggia), popolo (la forma patrimoniale fu, in antico, povolo) ecc. In terzo
luogo, non solo tra giuristi e medici continuano a circolare un migliaio di locuzioni latine antiche o medievali: ab antico, ad hoc, a latere, ab origine, grosso modo, sine die. Infine ci sono i «cavalli di ritorno»: latinismi dell’inglese che tornano per questa via tra noi come abstract, education o sentimentale.
Il latino è una cava a cielo aperto sempre attiva per chi ha parlato e parla o scrive l’italiano. Ma nella nostra storia abbiamo attinto anche ai giacimenti di altre lingue per costruire l’identità dell’italiano e dei dialetti. Dall’area francese e provenzale vengono moltissime parole, quasi diecimila, come abbandonare,ab-
Ma non è possibile tacere degli apporti che l’italiano e i dialetti hanno tratto nei secoli da un’altra lingua, l’arabo. Alcune parole come ayatollah, kebab (giuntoci come caffè attraverso il turco), kefiyyah hanno avuto una reviviscenza recente. Altre non hanno bisogno di reviviscenza tanto sono radicate profondamente sul suolo italiano. Anzitutto nei nostri dialetti, specie nelle parlate siciliane, attraverso cui sono poi spesso passate nell’italiano comune, come cosca, dammuso, sciarra e sciarriari, zagara, ma si pensi anche al genovese camallo o all’orginariamente veneziano arsenale. Molte si sono insediate nell’italiano dai primi secoli della nostra storia linguistica come effetto del superiore prestigio culturale che avevano gli islamici dall’Arabia all’Africa Settentrionale alla Spagna. Ecco una piccolissima scelta di queste parole: alambicco,albicocca, alchimia, alcol, alcova,alfiere, algebra, algoritmo, almanacco, ammiraglio, arsenale, auge, assassino, azimut, azzardo, azzurro. Nutrizione e astronomia, chimica e costume, tecnologia e matematiche: tutti campi in cui noi, ma anche altri europei, abbiamo imparato cose e parole dalla grande cultura araba.
Dell’amalgama (arabismo!) di tante contaminazioni è fatta l’identità delle nostre parlate e dell’italiano.
(2. Fine)

l’Unità 1.9.09
L’invasione della Polonia. Settanta anni fa Hitler dette avvio alla Seconda guerra mondiale
Terra di conquista. Cautelatosi con Stalin, il dittatore nazista voleva il paese a est di Berlino
Primo settembre 1939 Quando l’Apocalisse iniziò
di Oreste Pivetta


«Ho sempre avuto l’intenzione di colpire per primo». Hitler non faceva mistero delle sue strategie d’attacco. Il 1º settembre 1939 la Germania invadeva la Polonia: iniziava la peggior carneficina della Storia.

Ho sempre avuto l'intenzione di colpire per primo». E fu così anche quella volta, settant'anni fa, il primo settembre 1939, il giorno della guerra. Gli altri discutevano, spedivano messaggi, tramavano, correvano lungo il Baltico su lentisimi mercantili. Hitler aveva deciso da mesi che quello sarebbe stato il giorno della guerra. Aveva preparato l'esercito, distribuito gli incarichi, scritto gli ordini, creato l'Oberkommando der Wehrmacht. Persino il nostro Ciano gli si presentò per implorarlo di un rinvio a nome di Mussolini, come sempre a corto di tutto. Lo trovò immerso tra le carte a disegnare fronti e schieramenti con le freccette, lo sguardo corrucciato della stratega immerso nel calcolo delle traiettorie dei cannoni. Voleva Danzica, la città libera sotto la protezione (dalla pace di Versailles del 1919) del formidabile baluardo delle Nazioni unite, e voleva soprattutto la Polonia, perché il destino della sua Germania marciava ad est, perché quella era terra di conquista facile, del grano e del legno, perché infine s'era cautelato con l'alleanza di Stalin, nell'idea, per cominciare, di fare a metà (alleanza che Stalin avrebbe magari sottoscritto anche con gli occidentali, se questi non fossero rimasti prudentemente a guardare).
SEMPRE LA STESSA STORIA
In fondo era sempre la stessa storia: in Austria, nei Sudeti. La versione era che loro, Hitler, Himmler, Goebbels andavano a riprendersi qualcora di confine, ben guidati da due convinti sottufficiali, e la Polonia fu e la guerra fu. Non mancò la foto. Quella che segna l'inizio di un furibondo conflitto mondiale che si rivelò qualcosa di peggio di bombe e di cannoni e di morti e sangue non possiede la meravigliosa e vittoriosa retorica della bandiera rossa sul Reichstag e neppure l'eroismo mistico (e forse un poco artefatto) del drappo a stelle e strisce stretto a forza all'isolotto di Iwo Ima. La foto dell'inizio è semplice, inutilmente affollata: come se un gruppo di ragazzi si stringesse al palo per contendersi l'onore di spezzarlo. Uno in mezzo persino ride. Banale come il male che accende. Chissà come li avrebbe scoperti, fotografati e intervistati Claude Lanzmann, il francese amico di Sartre, l'inventore del più straordinario racconto cinematografico della Shoah: per mostrarci l'aridità dei colpevoli e dei complici, la superficialità, la convinzione, la giustificazione, il senso onnipotente dell'obbedienza nell'arroganza di qualsiasi assoluzione...
Era chiaro quello che sarebbe accaduto, anche se alle terme di Badenheim, tra ricchi ebrei, si ballava e brindava come sempre ad ogni fine stagione, nella gaiezza che così lieve e cupa, premonitrice, descriveva il grande Aharon Appenfeld: «Se i vagoni sono così sporchi, vorrà dire che non si andrà lontano».
Era già stato detto e scritto: «Gli ottanta milioni di tedeschi hanno risolto i loro problemi ideologici, ma restano tuttora aperti i problemi d'ordine economico... Per risolvere questi, occorre coraggio, nè è accettabile il metodo di tentare di sottrarsi a questa necessità semplicemente adattandosi alle circostanze. Bisogna al contrario, adattare le circostanze alle esigenze. Senza violare la sovranità di altri stati, senza metter le mani sull'altrui proprietà, nulla si potrebbe fare... Danzica non è l'obiettivo al quale miriamo. Si tratta , per noi, di allargare il nostro spazio vitale in Oriente...». Così i carri armati procedettero
nelle pianure contro la cavalleria polacca. Qui si vide all'opera la grande aviazione tedesca, mentre gli alleati occidentali lanciavano ultimatum. Infine dichiararono la guerra: era il 3 settembre. Per arrivare a Varsavia i tedeschi impiegarono neppure un mese: il 27 settembre la capitale polacca cadeva. Mussolini se la cavò con l'invenzione della «non belligeranza»: d'altra parte aveva più volte avvertito l'alleato che in fondo non aveva granché da spendere. Quello che teneva, l'avrebbe lanciato nella mischia più avanti, quando sarebbe stato chiaro il bottino dei tedeschi: qualche migliaio di morti per partecipare alla spartizione. In Polonia la Germania (e siamo solo all'ottobre del 1939) impose i suoi «diritti»: il ritorno tedesco di Danzica e di tutti i territori sottratti dopo la prima guerra mondiale, mentre il resto del paese diventava un Governatore generale. Nel suo Governatorato Hitler potrà imporre la sua lingua, le sue scuole, il lavoro coatto, la schiavitù insomma fino allo sterminio nei campi per i renitetenti e i poco resistenti: milioni di esseri umani.
Alla Polonia toccò il privilegio di Auschwitz, ma a Varsavia toccò quello della rivolta. Il ghetto fu via via gasato, incendiato, bombardato: ebrei e partigiani si lanciavano vivi dai palazzi in fiamme e c'era un premio per chi li colpiva al volo. Faceva parte della Grande Azione voluta da Himmler e guidata dal generale Joseph Stroop (si faceva chiamare Junger per sembrare più ariano). Nel ghetto resistettero giorni e giorni e la resistenza fu un miracolo: quasi la dimostrazione che una umanità poteva ancora sopravvivere, anche se proprio Auschwitz per parafrasare Hans Joans («Il concetto di Dio dopo Auschwitz») aveva ribaltato il senso dell'esistenza: non tanto la possibilità di esistere, quanto il segno stesso dell'esistenza...❖

il Riformista Lettere 1.9.09
Lo stile dell' avvenire

Caro direttore, l'attacco mediatico di cui è stata vittima il direttore dell'Avvenire Boffo rientra nello stile del quotidiano dei Vescovi. Non è forse "killeraggio giornalistico allo stato puro" paragonare l'aborto al nazismo e accusare di assassinio le donne che abortiscono? Non è una "polpettona avvelenata" parlare di "società meno umana" a proposito di Ru486? Ha forse a che fare con qualche deontologia condire il dibattito sull'aborto con interventi pseudoscientifici sulle presunte attività intrauterine dei feti e con i dati falsi sugli effetti collaterali dei farmaci specifici? Non è barbarie minacciare di scomunica i medici e invitare a boicottare la Legge 194 con l'obiezione di coscienza? Non fu "attacco disgustoso e molto grave" l'oscena presa di posizione sul caso Englaro? Scrivevano il 10 Febbraio del 2009: "Eluana è stata uccisa". Non è assurdo definire la sentenza del TAR sull'ora di religione "semplicemente assurda" e non è inverosimile e capzioso parlare di professori di serie A e altri di serie B? Non parlano la vita e il lavoro di quanti hanno chiesto un riconoscimento di fatto della loro unione? Come definire le accuse di eugenetica alla ricerca sulla procreazione assistita: carità? Per non parlare del killeraggio del referendum sulla Legge 40, che ha costretto migliaia di coppie a rivolgersi a centri specializzati all'estero: si è forse mai chiesto Boffo quale fosse il punto di vista dei diretti interessati? E non fu "disgustoso e molto grave" definire Welby "servo della tattica pro-eutanasia dei radicali"? Boffo, domandati quanta responsabilità ha avuto l'Avvenire nello svilire il dibattito democratico in Italia, soprattutto dopo l'operazione incrociata di killeraggio mediatico anti-Prodi montata ad arte col pasticciaccio della Sapienza. L'Avvenire non è un giornale di santi e paga e raccoglie i cocci che ha rotto appoggiando l'attuale maggioranza.
Roberto Martina

lunedì 31 agosto 2009

l’Unità 31.8.09
Tutti in piazza contro l’elettroregime
L’attacco alla libertà di stampa
di Vincenzo Vita


È, quello di Berlusconi, un regime autoritario populista, supportato e protetto da una gendarmeria mediatica: violenza simbolica, non oltraggio fisico dei corpi, bensì occupazione dell’immaginario. Ma anche i corpi vengono giocati nell’autorappresentazione del potere, come dimostra la vicenda tragica dell’immigrazione ‘clandestina’. Si può pronunciare una definizione: elettroregime. Gli esempi si sprecano. Solo nelle ultime settimane: dapprima il provvedimento del ministro Alfano sulle intercettazioni con relativo bavaglio dell’informazione e dei blog, i continui attacchi censori ad internet; eppoi la durissima offensiva contro la terza rete televisiva, il tg3 e –implicitamente – verso tutto ciò che esce dalla volgare leggerezza del tempo, dalla subcultura oggi egemone. Nel mirino Rainews, programmi e volti o voci più o meno famosi, fuori dal coro. Come fu per Enzo Biagi. Per finire (?) all’incredibile querela contro ‘la Repubblica’ dopo la pubblicazione di legittime domande ad un personaggio che fa il premier, con stupore del resto di gran parte delle più prestigiose testate straniere. E per passare pure attraverso la vicenda dell’attacco al direttore dell’’Avvenire’ da parte del giornale di famiglia. Sullo sfondo tagli, tagli, tagli: alla scuola, all’università, alla cultura, allo spettacolo. E spericolate operazioni di mercato, come la forzosa uscita della Rai dalla piattaforma satellitare di Sky, a beneficio della pay tv digitale di Mediaset. Attenzione a considerare solo un’antipatica patologia quanto sta avvenendo, o un puro abuso di potere. In verità, si tratta dell’avvio di un’involuzione politica, istituzionale e sociale profonda: un sistema presidenziale senza contrappesi democratici, deregolato e celebrato a reti unificate. Del resto, nel nuovo secolo permeato da universi cognitivi a scorrimento iperveloce e fondato su una struttura immateriale tutt’altro che libera, il controllo rigido delle fonti della conoscenza e del senso comune è un imperativo categorico di chi intende scalare governo e potere in pieno conflitto di interessi. Ecco perché sta succedendo qualcosa di inquietante. E forse inedito. Una sorta di prova generale. Mai prima il tg1 aveva così platealmente occultato (non solo manipolato) le notizie; mai qualcuno si era sognato di portare un quotidiano in tribunale per delle domande. Ci si mobiliti, con tutte le forze disponibili. Incoraggia la quantità enorme di adesioni all’appello sulla libertà di informazione di Franco Cordero, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky, nonché a quello dell’associazione ‘Articolo 21’. Si metta insieme, già nelle prossime ore, un comitato promotore non limitato alle forze poltiche, ma ricco di momenti organizzati e non della società, per programmare a settembre una straordinaria manifestazione nazionale per i diritti e le libertà. Lanciò la proposta Dario Franceschini, raccolta un po’ da tutti. Dalle parole ai fatti. Alla lotta.

l’Unità 31.8.09
Aborto
Altro che moratoria, in gioco sono i diritti
di Carlo Flamigni


L’aula della Camera ha approvato una mozione che impegna il Governo a farsi promotore presso le Nazioni Unite di una risoluzione che condanni l’uso dell’aborto come strumento demografico e come strumento di una «nuova eugenetica», promuovendo una «moratoria». Il buon senso mi impone di considerare questa richiesta come un ennesimo tentativo, tortuoso e ingenuo, di rinnovare l’ormai stanco assalto alla legge 194, quella che in Italia regolamenta le interruzioni volontarie della gravidanza.
In verità, i primi a criticare questa nuova forma di provocazione sono stati alcuni riflessivi cattolici italiani: «Il voto del Parlamento non scalfisce nemmeno il bunker di idee sbagliate intorno all’aborto, anzi le accetta e le assume come piattaforma comune di dialogo e di confronto... questo voto può trasformarsi addirittura in un colossale autogol... [in quanto dà per scontata] l’idea che il diritto di aborto sia indiscutibile, e che si possa soltanto garantire la “libertà della donna di non abortire”» (Verità e Vita, comunicato 76).
Questa mozione dimostra comunque alcune cose, che elenco: 1) i parlamentari italiani (ne sutor supra crepidam!) sanno poco di queste cose: il vero dramma di molti Paesi che non fanno parte delle nazioni canaglia, quelle che hanno approvato leggi sull’aborto volontario, è il cosiddetto «controllo mestruale», che sfugge a ogni regola e a ogni norma; in altri comincia a prevalere l’uso di farmaci (che, al contrario di quanto accadrà con la pillola abortiva, si trovano già in farmacia anche in Italia); 2) nel nostro Paese l’interruzione della gravidanza non viene utilizzata come metodologia contraccettiva dalla stragrande maggioranza della donne (gli aborti ripetuti sono il 38% per le donne straniere e il 21% per le italiane, uno dei dati più bassi del mondo); 3) sempre nel nostro Paese la maggior parte delle donne pensa all’interruzione di gravidanza come a una scelta difficile, nella quale occorre cimentare la propria coscienza, ma anche come a un diritto; sempre da noi, l’idea di eugenetica che la gente si è fatta non ha niente a che fare con il desiderio di avere figli sani e normali.
Chiunque voglia parlare ancora di «moratoria» dovrà prima ragionare su altre, essenziali «interruzioni a tempo indeterminato»: dovrà chiedere una moratoria sulla violenza sulle donne, sulla ingiustizia sociale, sulla mancanza di cultura e di educazione sessuale, sulla protervia di tanti maschi, sulla discriminazione. L’elenco è molto lungo, lo dovrete completare voi.
Buon lavoro.

l’Unità 31.8.09
4 risposte da Mimmo Pantaleo
segretario generale Flc-Cgil
di Felicia Masocco


1. Insegnanti sui tetti
Sono persone che rimangono senza lavoro, disperati ed esasperati. Le proteste dei questi giorni, come quella dei coniugi di Caserta che hanno minacciato di lanciarsi da una finestra perché rimasti senza incarico, sono spia di tensioni sociali che rischiano di non essere governate.
2. Che fare
È fissato un incontro per il 3 settembre, ma è chiaro che non si può continuare a discutere su tavoli tecnici. Sono necessarie misure concrete, a cominciare dagli ammortizzatori sociali per chi resta senza lavoro, e dalla copertura dei posti rimasti vacanti. E serve una drastica revisione dei tagli.
3. Licenziamenti di massa
I precari della scuola pagheranno conseguenze pesantissime per la scelta del governo di tagliare la spesa per l’istruzione. Sono tagli che mettono una seria ipoteca sulla qualità della formazione oltre che sull’occupazione.
4. La mobilitazione
Se dovessimo constatare il solito rinvio delle decisioni o il solito scaricabarile tra questo e quel ministro non staremo fermi. Scenderemo in campo già ai primi giorni di settembre con iniziative di mobilitazione fino allo sciopero generale se sarà necessario. Cioè se il ministro Gelmini, che sta distruggendo la scuola pubblica, non cambia rotta.

l’Unità 31.8.09
Un licenziamento di massa


Non riesco a capire perché si parla così poco dei precari (o exprecari) della scuola. In questi giorni molte, tantissime famiglie e giovani coppie non hanno più lavoro o speranza di lavoro. Siamo di fronte ad un licenziamento di massa, se ne parla troppo poco.
Giuseppe Vinciguerra

RISPOSTA La possibilità di affrontare le fasi di crisi mandando a casa i lavoratori meno protetti dal punto di vista sindacale è il desiderio naturale di un governo di destra. Berlusconi ha lavorato, per realizzarlo, ad una cancellazione delle norme volute da Prodi sulla stabilizzazione dei precari della Pubblica Amministrazione e, successivamente, a un taglio forte delle previsioni di spesa. È in sede di approvazione della finanziaria per il 2009 che la Gelmini e Tremonti hanno deciso dunque la grande mattanza che si sta realizzando in questi giorni nella scuola. Una parte degli otto miliardi così da loro risparmiati andrà alle scuole private care alla ministra formigoniana, il resto servirà a coprire i buchi prodotti dall’evasione fiscale tanto cara al ministro della finanza creativa. Con tanti saluti ai bilanci delle famiglie e delle coppie abituate a sostenersi lavorando e alle attese naturali dei bambini che nella scuola dovrebbero trovare tutti gli insegnanti di cui hanno bisogno. Di tutti quelli, cioè, di cui poco ci si preoccupa quando al governo ci sono persone interessate a difendere gli interessi di chi ha di più.
Luigi Cancrini

Repubblica 31.8.09
Dove è finita l´informazione
di Edmondo Berselli


Esploso in questi mesi come una battaglia di verità, davanti alle contraddizioni e alle bugie del premier, lo scandalo Berlusconi diventa oggi un problema di libertà, come sottolineano tutti i grandi quotidiani europei, evidenziando ancor più il conformismo silente dei giornali italiani. Prima la denuncia giudiziaria delle 10 domande di "Repubblica", un caso unico al mondo: un leader che cita in giudizio le domande che gli vengono rivolte, per farle bloccare e cancellare, visto che non può rispondere. Poi l´intimidazione alla stampa europea, perché non si occupi dello scandalo. Quindi il tentativo di impedire la citazione in Italia degli articoli dei giornali stranieri, in modo che il nostro Paese resti all´oscuro di tutto. Ecco cosa sta avvenendo nei confronti della libertà di informazione nel nostro Paese.
A tutto ciò, si aggiunge lo scandalo permanente, ma ogni giorno più grave, della poltiglia giornalistica che la Rai serve ai suoi telespettatori, per fare il paio con Mediaset, l´azienda televisiva di proprietà del premier. È uno scandalo che tutti conoscono e che troppi accettano come una malattia cronica e inguaribile della nostra democrazia. E invece l´escalation illiberale di questi giorni conferma che la battaglia di libertà si gioca soprattutto qui. La falsificazione dei fatti, la mortificante soppressione delle notizie ridotte a pasticcio incomprensibile, rendono impossibile il formarsi di una pubblica opinione informata e consapevole, dunque autonoma. Anzi, il degrado dei telegiornali fa il paio con il pestaggio mediatico dei giornali berlusconiani. Molto semplicemente, il congresso del pd, invece di contemplare il proprio ombelico, dovrebbe cominciare da viale Mazzini, sollevando questa battaglia di libertà come questione centrale, oggi, della democrazia italiana.
In quest´ultima stagione del berlusconismo abbiamo contemplato l´apice del conflitto d´interessi, l´anomalia più grave (a questo punto la mostruosità) della politica italiana. Si è vista l´occupazione della Rai e specialmente dei vertici dei telegiornali, cioè ruoli pubblici trasformati in postazioni partigiane; e nello stesso tempo la blindatura militare dei media di proprietà diretta o indiretta del capo del governo.
Berlusconi voleva un´anestesia della società italiana, in modo da poter comunicare ai cittadini esclusivamente le sue verità, i successi, le vittorie, le sue spettacolari "scese in campo" contro i problemi nazionali. L´immondizia a Napoli, il terremoto in Abruzzo, la continua minimizzazione della recessione. Una e una sola voce doveva essere udita, e gli strumenti a disposizione hanno fatto sì che fosse praticamente l´unica a essere diffusa e ascoltata.
Ma evidentemente tutto questo non bastava. Non bastava una maggioranza parlamentare praticamente inscalfibile. Non bastava al capo del governo neppure il consenso continuamente sbandierato a suon di sondaggi. Nel momento in cui la libertà di informazione ha investito lo stile di vita di Berlusconi, e soprattutto il caotico intreccio di rozzi comportamenti privati in luoghi pubblici o semi-istituzionali, il capo della destra ha deciso che occorreva usare non uno bensì due strumenti: il silenziatore, per confondere e zittire l´opinione pubblica, e il bastone, per impedire l´esercizio di un´informazione libera.
Negli ultimi mesi chiunque non sia particolarmente addentro alla politica ha potuto capire ben poco, in base al «sistema» dei telegiornali allineati, dello scandalo che si stava addensando sul premier. Un´informazione spezzettata, rimontata in modo incomprensibile, privata scientemente delle notizie essenziali, ha occultato gli elementi centrali della vicenda della prostituzione di regime. Allorché alla lunga lo scandalo ha bucato la cortina del silenzio, è scattata la seconda fase, quella dell´intimidazione. L´aggressione contro il direttore di Avvenire, Dino Boffo, risulta a questo punto esemplare: il giornale di famiglia, riportato rapidamente a una funzione di assalto, fa partire il suo siluro; nello stesso tempo l´informazione televisiva, con una farragine di servizi senza capo né coda, rende sostanzialmente incomprensibile il caso.
Come in una specie di teoria di Clausewitz rivisitata e volgare, il killeraggio giornalistico, cioè una forma di guerra totale, priva di qualsiasi inibizione, si rivela un proseguimento della politica con altri mezzi. In grado anche di fronteggiare le ripercussioni diplomatiche con la segreteria di Stato vaticana e con la Cei. La strategia rischia di essere efficace, peccato che configuri un drammatico problema di sistema. Ossia una ferita gravissima a uno dei fondamenti della democrazia reale (non dell´astratta democrazia liberale descritta dai nostri flebili maestri quotidiani). Purtroppo non si sa nemmeno a quali riserve di democrazia ci si possa appellare. Ci sono ancoraggi, istituzioni, risorse di etica e di libertà a cui fare riferimento? Oppure il peggio è già avvenuto, e i principi essenziali della nostra democrazia sono già stati frantumati?
Basta una scorsa alla più accreditata informazione straniera per rendersi conto del penoso provincialismo con cui questo problema viene trattato qui in Italia, della speciosità delle argomentazioni, del servilismo della destra (un esponente della maggioranza ha dichiarato ai tg che la rinuncia di Berlusconi a partecipare alla Perdonanza, dopo l´attacco del Giornale a Boffo, «disgustoso» per il presidente della Cei Angelo Bagnasco, era un atto «di straordinario valore cristiano»). Oltretutto, risulta insopportabile l´idea che nel nostro futuro, cioè nella nostra politica, nella nostra cultura, nella nostra idea di un paese, ci sia un blocco costituito dall´informazione di potere, un consenso organizzato mediaticamente nella società, e al di fuori di questo perimetro pochi e rischiosi luoghi di dissenso. Questa non è una democrazia. È un regime che non vuole più nemmeno esibire una tolleranza di facciata. Quando tutti se ne renderanno conto sarà sempre troppo tardi.

Repubblica 31.8.09
Il posto della Chiesa in tempi pagani
di Ilvo Diamanti


È singolare vedere la Chiesa all´opposizione. Soprattutto oggi, che governa il centrodestra guidato da Silvio Berlusconi, particolarmente attento e disponibile nei confronti delle richieste della Chiesa: sulla bioetica, sulla scuola e sull´educazione, sulla famiglia. Mentre le incomprensioni con il precedente governo di centrosinistra erano comprensibili. Eppure mai, nella contrastata (per quanto breve) stagione dei rapporti con il governo Prodi, si era assistito ad attacchi tanto violenti, nei confronti della Chiesa, come quelli lanciati negli ultimi giorni dal centrodestra. Prima: le reazioni della Lega alle critiche espresse dal mondo cattolico in merito alle politiche sulla sicurezza e sull´immigrazione. Culminate nella minaccia – apertamente evocata dal quotidiano "La Padania" – di rivedere il Concordato. Poi l´attacco rivolto dal "Giornale" al direttore di "Avvenire", Dino Boffo (il quale ha parlato di "killeraggio").
Accusato di non avere titolo per esprimere giudizi "morali" sugli stili di vita del premier. Troppi e troppo ravvicinati, troppo violenti, questi interventi per apparire casuali. Come si spiega l´esplodere di queste tensioni? E, in particolare, cosa ha spinto all´opposizione la Chiesa, fino a ieri interlocutore affidabile del governo?
In effetti, occorre distinguere. I rapporti con la Lega sono sempre stati conflittuali. Basti pensare al periodo intorno alla metà degli anni Novanta, quando la Chiesa si oppose alla strategia secessionista della Lega. Allora Bossi si scagliò contro il Papa polacco e i "vescovoni romani arruolati nell´esercito di Franceschiello, l´esercito del partito-Stato". In altri termini: contro la Chiesa, ritenuta (non senza ragione) il collante, forse più denso, dell´unità nazionale. Oggi, invece, il problema è prodotto dalle critiche del mondo cattolico – le associazioni, i media, le gerarchie – contro le politiche del governo sulla sicurezza e l´immigrazione. Cioè: il vero marchio della Lega (degli uomini spaventati). Più ancora del federalismo. D´altronde, il mondo cattolico, su questi temi, esprime un progetto fondato sull´accoglienza, sulla carità, sull´integrazione. Concretamente praticato attraverso associazioni e istituzioni diffuse sul territorio. Dalla Caritas, ai gruppi di volontariato, alle parrocchie. Assai più della sinistra, è il mondo cattolico l´alternativa alla cultura e al linguaggio leghista. Non solo sui temi della sicurezza e degli immigrati. Perché il mondo cattolico è presente e attivo soprattutto dove è forte la Lega. Cioè: nella provincia del Nord. Dove i campanili costituiscono ancora un centro della vita sociale. Da ciò un conflitto inevitabile. Che è, in parte, competizione. Anche perché la Lega si propone come una sorta di "Chiesa del Nord". Con i suoi riti, i suoi simboli, i suoi valori, le sue reti di appartenenza locale. Ronde comprese.
Della tradizione cattolica accetta gli aspetti, appunto, più tradizionali e tradizionalisti. Le "radici cristiane" rivendicate dalla Lega coincidono, in effetti, con la "religione del senso comune".
Diverso – e meno prevedibile – è invece il contrasto diretto con il premier e il PdL. Innescato dalla velenosa inchiesta dedicata dal "Giornale" al direttore dell´"Avvenire". Definito un «lapidatore che non ha le carte in regola per lapidare alcuno». In particolare il premier. Immaginare Dino Boffo – prudente per natura (e incarico) – impegnato a scagliare parole dure come le "pietre" risulta (a noi, almeno) davvero difficile. Per questo, la reazione del "Giornale" appare sproporzionata rispetto al contenuto e al tono delle critiche apparse su "Avvenire". Era difficile, d´altronde, che i vescovi italiani tacessero di fronte al disagio emerso in molti settori del clero e in molti esponenti del mondo cattolico. Tanto più al tempo di Papa Ratzinger, che ha fatto del contrasto al relativismo etico un marchio e un programma.
Tuttavia, nonostante le smentite di questi giorni, ci riesce altrettanto difficile pensare che Vittorio Feltri abbia lanciato il suo attacco "senza preavviso". Senza, cioè, avvertire almeno il premier. Il che suggerisce una ulteriore spiegazione della singolare (op) posizione assunta dalla Chiesa in questa fase. Vi sarebbe stata spinta, più che per propria scelta, dallo stesso premier e dalla Lega. Per diverse ragioni. (a) Intimidire l´unico soggetto capace, nell´Italia d´oggi, di esercitare un effettivo controllo morale, istituzionale e sociale. (b) Dividere la Chiesa stessa, al proprio interno; isolando gli ambienti accusati di simpatie per la "sinistra"; e ponendola in contrasto con il suo stesso popolo. In larga parte vicino alle posizioni della Lega, in tema di sicurezza e immigrazione. E indulgente verso i comportamenti e gli stili di vita esibiti dal premier. (c) C´è, infine e al fondo di tutto, la crisi del modello, proposto e imposto da Ruini alla fine della prima Repubblica. La "Chiesa extraparlamentare" (come la definisce Sandro Magister), che agisce ora come movimento, ora come gruppo di pressione. A sostegno dei propri riferimenti di valore e di interesse. Senza partiti cattolici né "di" cattolici. Oggi sembra suscitare molti dubbi. E in alcuni settori della Chiesa e del mondo cattolico emerge la nostalgia di un polo alternativo: a una destra amica ma pagana. E a una sinistra laicista e comunque inaffidabile. Da ciò l´idea (post-ruiniana) di un soggetto politico che metta insieme Casini, Tabacci, Pezzotta. Rutelli e Montezemolo. Magari Letta (Gianni). D´altra parte, 4 cattolici praticanti su 10 non hanno un partito di riferimento. Sono patologicamente incerti. Anche così si spiega la reazione di Berlusconi – e l´azione di Feltri. Volta a scoraggiare la costruzione di un nuovo partito collaterale alla Chiesa. Mentre al premier – e alla Lega – piace di più l´idea di una Chiesa collaterale o, comunque, affiancata al PdL. In grado – non da ultimo – di santificare un modello di vita che – come ha ammesso il premier – santo non è. Ma, anzi, piuttosto pagano.

Repubblica 31.8.09
I Muri che nutrono la nostra paura
di Michela Marzano


Il clima d´intolleranza che serpeggia oggi in Italia è sintomo di una società che ha paura e che, non sapendo bene come arginarla, si trincera dietro un magro numero di certezze, chiudendosi su se stessa e rifiutando l´Altro.

Una parte sempre più grande dell´opinione pubblica resta infatti indifferente di fronte alle violenze che subiscono coloro che parlano un´altra lingua, che vengono da un´altra cultura, che hanno un orientamento sessuale differente o che si allontanano dalla morale convenzionale e dalle tradizioni locali.
Che si tratti degli extracomunitari o degli omosessuali, l´atteggiamento più diffuso è chiudere gli occhi e far finta di niente. E, quando se ne parla, spesso si minimizza o si altera la realtà. «Non c´è assolutamente un´escalation di violenza contro i gay. Roma è una città tollerante», dichiara il 27 agosto Gianni Alemanno, come se l´attentato incendiario alla discoteca gay del Muccassassina, appena quattro giorni dopo l´agguato omofobo dell´Eur, non meritasse un serio dibattito sulla necessaria protezione delle minoranze. «La legge italiana sull´immigrazione e i respingimenti non sono un atto di razzismo, ma di civiltà», afferma il ministro Luca Zaia il 24 agosto, ospite di Klaus Davi, qualche giorno dopo la tragica morte di oltre 70 immigrati che cercavano di raggiungere la Sicilia, come se ogni extracomunitario, prosegue il ministro, fosse «destinato a ingrossare le fila della criminalità».
Nonostante alcune voci discordanti comincino a farsi sentire per denunciare il razzismo e l´intolleranza, la xenofobia e l´omofobia aumentano nel nostro paese, conseguenze di una cultura della non-accoglienza che genera e alimenta la paura nei confronti di tutto ciò che è diverso. Come negare d´altronde l´esistenza di un´ideologia dell´intolleranza quando alcune persone sembrano giustificare gli atti di violenza contro gli omosessuali perché "provocati" dai loro gesti di tenerezza, come spiega l´aggressore dell´Eur?
In ogni epoca storica, anche se in modo diverso, la gente ha avuto paura del disordine, e le società si sono organizzate in modo tale da allontanare tutto ciò che potesse destabilizzarle. Ma è soprattutto nei periodi di transizione e di crisi che si è assistito a reazioni esasperate di rigetto dei "diversi", come se l´unica soluzione per calmare l´angoscia della gente consistesse nell´identificare capri espiatori da sacrificare. Per secoli, il ruolo di capro espiatorio è stato giocato dai lebbrosi o dagli ebrei. Poi è stato il turno dei malati mentali e dei criminali. Oggi, non è forse la volta degli extracomunitari e degli omosessuali? Incarnazione perfetta della "devianza", queste nuove vittime sacrificali sembrano permettere alla gente di illudersi che a partire dal momento in cui gli extracomunitari saranno banditi dalla società e gli omosessuali ridimensionati nelle loro "eccessive" richieste non ci sarà più ragione di aver paura…
Ma il vero problema non è la paura – reazione spontanea di tutti di fronte al pericolo. Il problema è la sua strumentalizzazione politica. Un conto, infatti, è aver paura di ciò che non si conosce ancora, aprendosi tuttavia all´altro per costruire un clima di fiducia e di rispetto reciproci; altro conto è trincerarsi dietro la paura, strumentalizzarla, e combattere sistematicamente gli "altri", come se la differenza fosse sempre sinonimo di pericolo.
Certo l´Altro, in quanto "altro", disturba e sconcerta. A causa della sua "differenza", l´altro obbliga ognuno di noi a interrogarsi sul ruolo che l´alterità occupa nella nostra vita, e sullo spazio che siamo disposti a darle. La differenza rinvia a ciò che si pensa di non essere e di non diventare, alla nostra fragilità e alle nostre debolezze. L´altro è il contrario dell´ordinario e dell´abituale. È per questo che lo si rifiuta: ci fa paura perché richiama "l´inquietante stranezza" di cui parlava Freud, il fatto cioè che ognuno di noi porti all´interno di sé una parte sconosciuta, una zona d´ombra che si cerca di soffocare e che si risveglia quando ci si confronta con gli altri, i diversi, gli stranieri. Non è un caso che la nozione di identità (personale o nazionale) sia stata spesso utilizzata per far credere alla gente che esista una barriera rigida capace di distinguere l´io dal non-io, il fratello dallo straniero: una barriera che si erige ogniqualvolta una cultura o una società non riesce né a pensare l´altro, né a pensarsi con l´altro; una barriera che spinge le persone a trattare tutti coloro che sono diversi come dei "mostri" capaci di minacciare la loro stessa esistenza.
Nel momento stesso in cui, con la globalizzazione, si valorizzano i legami d´interdipendenza tra gli uomini e le donne di tutto il mondo e in cui, grazie a Internet, ognuno è ormai libero di comunicare con tutti indipendentemente dalle frontiere, emergono paradossalmente nuovi muri che impediscono alle persone non solo di spostarsi liberamente, soprattutto quando si tratta dei più poveri e dei più fragili, ma anche di dialogare fraternamente con coloro che sono diversi. Da una parte, si consacra il libero mercato. Dall´altro, le frontiere si chiudono. Nel cuore stesso dell´Italia sorgono muri e barriere fisiche o simboliche che ci separano gli uni dagli altri, che ghettizzano tutti coloro che non corrispondono agli standard di "normalità".
È un modo di garantire la sicurezza sul territorio nazionale e di proteggere gli italiani, dicono in molti. È un modo per salvaguardare i valori tradizionali, aggiungono in tanti. È l´unica soluzione per contenere la paura, credono quasi tutti. Ma la paura diminuisce solo apparentemente. Perché il risultato, in realtà, è opposto alle aspettative: invece di proteggere, le barriere cristallizzano le differenze, favoriscono il ripiego identitario e alimentano proprio quella paura che dovrebbero contenere. Più ci si chiude all´altro, più la paura aumenta. Perché progressivamente si finisce col credere che i nemici siano ovunque e che tutti i mezzi siano legittimi per proteggersi.
Spetta allora a ognuno di noi restare vigilante e non soccombere alla paura e alla sua strumentalizzazione. Perché, "come la notte, anche l´oppressione arriva progressivamente", diceva William O. Douglas, giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti all´epoca del Maccartismo. È giunto il momento di prestare attenzione ai cambiamenti, anche impercettibili, se si vuole evitare di soccombere, senza rendersene conto, al crepuscolo dell´intolleranza.

Repubblica 31.8.09
Schiaffo alla Merkel, vola la sinistra
Germania al voto in tre laender: crollo della Cdu a un mese dalle politiche
di Andrea Tarquini


La formula di governo preferita dalla Cancelliera non sembra più l´unica via

BERLINO - Forte vittoria della Linke, la sinistra radicale, e schiaffo alla Cdu della Cancelliera Angela Merkel alla «superdomenica elettorale» tedesca, con le elezioni svoltesi in tre dei sedici Stati della Repubblica federale (Sassonia e Turingia all´est, Saarland all´ovest) e le comunali in Nordreno- Westfalia, il Bundesland più popoloso. Quasi vent´anni dopo la caduta del Muro e a quattro settimane dalle politiche federali, ogni steccato tra forze politiche cade nella Germania unita, ogni maggioranza appare possibile fuorché con l´ultradestra, e la «donna più potente del mondo» incassa un colpo d´avvertimento: la sua formula di governo preferita, cioè una coalizione con i liberali (Fdp) resta favorita nei sondaggi nazionali ma non sembra più l´unica via.
Il trauma per i cristianoconservatori è stato forte ieri sera, mentre da Erfurt, in Turingia, a Saarbruecken, al confine francese, leader e seguaci della Linke festeggiavano. La sinistra radicale tallona infatti la Cdu nella Turingia stessa col 27,9 per cento contro il 31,3 dei democristiani che perdono 12,3 punti.
Tracollo conservatore di 13 punti anche nella Saar dove la Cdu scende al 34,5, cala quindi più della Spd che perde 7,7 punti attestandosi al 24,5 per cento. Qui invece la Linke guadagna ben 19 punti arrivando al 21,3. La sinistra radicale - composta, ricordiamolo, dai postcomunisti dell´est e dai seguaci di Oskar Lafontaine, transfuga dalla Spd e nemico del riformismo dell´ex cancelliere Schroeder e dei suoi eredi - è secondo partito anche nell´altro Bundesland orientale andato alle urne, la Sassonia, dove si attesta al 21 per cento. Solo in Sassonia la Cdu, guidata dal popolare governatore Stanislaw Tillich, venuto da una minoranza etnica slava, regge col suo forte 40,6 per cento mentre la socialdemocrazia ha col 10 % meno della metà dei voti della Linke. I neonazisti Npd restano nel parlamento locale, ma dimezzati.
«Il cambiamento politico appare possibile da oggi in Germania, e da noi in Turingia è iniziato», ha detto il leader e capolista della Linke in Turingia, Bodo Ramelow. A Erfurt il governatore Cdu uscente, Dieter Althaus, ha clamorosamente perso, e Ramelow potrebbe succedergli guidando una coalizione Linke-Spd-Verdi. Anche nella Saarland, il leader locale socialdemocratico Heiko Maas ha detto di pensare soprattutto a negoziati con Linke ed ecologisti, e di considerare una grande coalizione con la Cdu (come quella uscente a livello federale) solo come seconda ipotesi.
Sorrisi e buon umore anche in casa socialdemocratica. Il candidato cancelliere Spd, cioè il vicecancelliere e ministro degli Esteri socialdemocratico, ha affermato che il voto smentisce prognosi e sondaggi e boccia la proposta agli elettori di coalizione tra democristiani e liberali. Sul piano federale, i sondaggi danno ancora la Cdu e l´alleata bavarese Csu in vantaggio, e in grado di raggiungere il 51% alleata con la Fdp. Ma molti sono gli indecisi, il margine di errore dunque resta alto. Per dopo le elezioni nazionali del 27 settembre, non si possono più escludere formule di governo impreviste, o addirittura governi (come una riedizione della grosse Koalition, che Merkel non vuole) incapaci di durare un´intera legislatura.

Repubblica 31.8.09
Henri Matisse
Quell´altra metà dell´avanguardia


Al Thyssen-Bornemisza di Madrid una rassegna per dimostrare la purezza della pittura del grande maestro
Si trasferì a Nizza davanti allo spettacolo del mare che lo affascinò per tutta la vita
L´amore dell´artista per il Marocco e l´Oriente diede vita alle grandi e sensuali Odalische

MADRID. L´altra metà dell´avanguardia a Parigi si chiama senza alcuna esitazione Henri Matisse, dato per scontato che Picasso occupa il primo posto. Al pittore francese sono state dedicate negli ultimi anni numerose mostre, ma sempre sul confronto con un altro da sé: da quella al Centre Pompidou con il malageño alla più recente al Vittoriano con Pierre Bonnard. Matisse è un pittore-pittore che non conosce intenzionalità seconde. Infatti non dipinse Guernica né mai l´avrebbe potuta dipingere, dipinse colombe, ma non quelle della pace col ramoscello d´olivo in bocca, così care a Picasso e a Stalin, ma proprio colombe: pennuto docile, dal capino piumato e dal corpo bianco e morbido. Come quella che il vecchio maestro tiene tra le mani in una celebre foto che scattò, nel suo atelier, Cartier-Bresson.
Per un artista che conobbe il furore dell´avanguardia Fauve ma che si tenne distante dal grande gorgo del Cubismo, la pittura è la pittura e niente altro. Lo si vede assai bene nella mostra Matisse 1917-1941, al Museo Thyssen-Bornemisza (fino al 20 settembre) la quale adotta una periodizzazione centrata sugli anni della piena maturità. Nel 1917 la grande spallata delle avanguardie s´andava esaurendo e si avvia quel rappel à l´ordre a cui non si sottrassero né Picasso né Stravinsky. Matisse non doveva tornare all´ordine, l´ordine in effetti non l´aveva mai davvero trasgredito: anche se s´era appassionato alle maschere africane ancora prima di Picasso, anche se il colore dissonante e gridato l´aveva praticato da Fauve la sua forma rimase idealmente vicina alla linea che ebbe in Jean-Dominique Ingres un incontrastato capostipite. Anche per questo Matisse lasciò Parigi e si trasferì nel sud, a Nizza, dinanzi allo spettacolo del mare che continuò ad attrarlo e affascinarlo per il resto della vita. Fece una scelta simile a quella di Ingres che era approdato al sole di Roma. La ville lumière è attraversata da troppe tensioni e conflitti che possono prosciugare il colore sulla tavolozza e nelle setole del pennello. A Nizza abbandona i grandi formati e i colori distesi a larghe pennellate adoprati in quelle che lui stesso chiamò "composizioni decorative": si volse a una "pittura di intimità".
La mostra madrilena è scandita in sei sezioni tematiche: mescolare le carte è un gioco come un altro, ma la cara scansione cronologica è a mio avviso sempre strada maestra. Dipinge molti interni negli anni che vanno dal 1917 al ´20: la finestra e il balcone sono degli occhi che guardano verso il paesaggio e verso il tempo.
Alcuni privilegiano un oggetto come quello con un violino in primo piano. Nella pittura del Novecento la flessuosa forma degli strumenti musicali ebbe un straordinaria fortuna. Qui il violino è in un astuccio dal rivestimento blu: una persiana verde è per metà aperta. In due altre tele i balconi sono spalancati sull´azzurro del mare, in una si scorge una palma della Promenade des Anglais. Un tavolino con uno scrittoio da un lato, nell´altra una donna che medita: ci sono tende ai balconi per proteggere l´interno con un parato giallo uovo, in un caso, virato sui verdi grigi nell´altro.
Gli interni sono spesso dei piccoli teatri in miniatura come nella Lettrice distratta (1919) o La pianista e i giocatori di dama: l´intimo è la cifra di questa tela che ci offre del mondo un angolo che diremmo essere fuori dal reale tempo storico. È questo il dono di cui è capace Matisse che ci induce a sognare scrutando l´intimo del suo piccolissimo mondo: il piano e la dama, i fiori e gli specchi o le gioie di una toilette femminile, un libro aperto su una scrivania. I formati dei dipinti sono sempre gli stessi e non superano quasi mai il metro per settanta. Lo spazio esterno è assai spesso incorniciato in un telaio visivo che riduce l´effetto naturalistico, ma dà spessore alla Donna seduta con le spalle volte alla finestra (1922 ca.), vele bianche all´orizzonte, palme, colori azzurri ritagliati dal giallo e da un tessuto decorativo all´orientale.
Matisse amò molto il Marocco e il mondo arabo proprio come l´Ingres dell´Odalisque e tra i più bei pezzi in mostra c´è infatti la sua celebre odalisca del Musée d´Art moderne de la ville de Paris. Poggia il capo su un canapé la fanciulla dai lunghi capelli neri, ha pantaloni a sbuffo e alla caviglia un bracciale. In primo piano una scacchiera, segno di meditazione, e alle spalle un splendido vaso di fattura islamica. Un tessuto decorativo rosso e blu cobalto avvolge la scena. Ma l´odalisca, donna dalle forme sode, seduta su un divano e in posa impudica, torna in una tale del ´25; odalische in coppia, come i nudi michelangioleschi della Cappella Medici, ritornano in numerose tele della metà degli anni Venti dove la sensualità delle forme muliebri è intensamente incline al volume e alla profondità. Nel 1930 Alfred Barnes gli chiese per la pinacoteca che aveva costruito a Filadelfia una grande composizione: Matisse tornò al tema della Danza già affrontata nel 1910 per un mecenate russo. Dopo quattro anni di lavoro, ritornò alla pittura dell´intimo, al liquefarsi del colore e alle tinte tenui, con la stessa gioia di vivere.

Repubblica 31.8.09
Vincent van Gogh tra cielo e terra: i paesaggi
Kunstmuseum. Fino al 27 settembre.


Da non perdere la mostra che riunisce settanta dipinti del maestro olandese, tra capolavori assoluti e opere meno note. A cominciare dall'Ulivo del Museum of Modern Art di New York. Stabilitosi ad Arles, l'artista trova ispirazione nella luce del Mezzogiorno della Francia ed esegue numerosi capolavori. Ricoverato nell'ospedale di Saint-Rémy, dopo la crisi seguita alla rottura del rapporto con Gauguin, dipinge intensamente l'ambiente e i dintorni: è il periodo dei cipressi, degli olivi, delle stelle ruotanti sul destino umano. Tutti gli elementi del paesaggio sembrano agitati da un profondo disagio interiore. Il percorso espositivo documenta la statura e la continuità della sua ricerca espressiva nella pittura di paesaggio, la straordinaria importanza e densità delle sue innovazioni formali, colore, materia, gestualità, segno, portati al massimo della tensione, al massimo dell'energia vitale e tragica, insieme al variare della sua tavolozza, dai colori terrei dei primi lavori olandesi alle gamme cromatiche squillati delle opere realizzate nel sud della Francia.

Repubblica 31.8.09
Roma. Palma Bucarelli. Il museo come avanguardia
Galleria Nazionale d'Arte Moderna. Fino al 1° novembre


Centocinquanta opere, tra dipinti, sculture, grafica, e di altrettante fotografie d'epoca, invitano a riflettere sull'attività pionieristica di Palma Bucarelli, storica direttrice della Gnam, indirizzata all'incremento delle collezioni del museo, alla conoscenza di personalità del mondo artistico di rilievo, sia italiane che internazionali, alla promozione dell'arte italiana all'estero. Il percorso della mostra, curata da Mariastella Margozzi, si articola in varie sezioni dedicate alla scultura italiana degli anni Cinquanta e Sessanta, con opere di Fontana, Mannucci, Colla, Consagra, Mastroianni, Mattiacci, Ceroli, Guerrini, Pascali, Uncini e Zorio, all'arte cinetica e all'arte programmata italiana e straniera, con lavori di Alviani, Mari, Gruppo T, Gruppo N, Schoeffer, Huecker e Le Parc, alla storica Esposizione di arte contemporanea 1944-1945. L'esposizione non manca di prendere in esame anche il personaggio Palma, dando conto della sua vita di società, attraverso gli abiti del suo guardaroba, donato nel 1992 al Museo Boncompagni Ludovisi, e un gruppo di gioielli raccolti per sé e per la Galleria.

Corriere della Sera 31.8.09
Quel giorno la Germania nazista, forte dell’accordo Molotov-Ribbentrop, invadeva la Polonia
Danzica, 1˚ settembre 1939 La guerra al mondo di Hitler
di Sergio Romano


Domani ricorre il Settantesimo anniversario dell’invasione nazista della Polonia, evento che diede inizio alla Seconda guerra mondiale. Il 1˚settembre 1939 le truppe di Hitler varcarono il confine stabilito al termine della Prima guerra mondiale per ricongiungere la «città libera» di Danzica alla «Madrepatria tedesca». In realtà, il dittatore nazista si era segretamente accordato con Stalin per spartirsi l’intero territorio polacco. In pochi giorni, il «Blitzkrieg» (guerra lampo) scatenata da terra, dal mare e dall’aria, con i bombardamenti degli Stukas sulle città e i villaggi, ebbe ragione dell’esercito polacco. Il 17 settembre anche l’Urss attaccò la Polonia. Il 1˚ottobre il Paese era completamente occupato e diviso in «sfere di influenza». Per rimarcare gli avvenimenti di 70 anni fa, si ritroveranno dunque a Danzica i capi di Stato e di governo di una ventina di Paesi. Alla cerimonia, presieduta dall’attuale presidente polacco, Lech Kaczynski, e dal premier Donald Tusk, parteciperanno anche la cancelliera tedesca Angela Merkel, il premier russo Vladimir Putin e l’italiano Silvio Berlusconi.

Negli ultimi giorni, persino nelle ultime ore prima dell’inizio del con­flitto, i governi e le diplomazie con­tinuarono a comportarsi come se la pace fosse ancora possibile. I consi­gli dei ministri delle maggiori po­tenze europee tennero frenetiche riunioni straordinarie. Gli amba­sciatori ricevettero concitati dispac­ci, chiesero udienza ai governi pres­so i quali erano accreditati, avanza­rono proposte, suggerirono confe­renze quadripartite come quella che un anno prima, a Monaco, ave­va regalato all’Europa una pace bre­ve e illusoria. A Londra, a Parigi, a Roma esistevano ancora persone che tentavano disperatamente di riannodare il filo spezzato dei rap­porti tedesco-polacchi. Qualcuno, senza dubbio sarebbe stato pronto, come nell’incontro quadripartito di Monaco, a sfamare Hitler con un’altra libbra di carne. Era tutto inutile. Il primo ad accorgersi che i giochi erano fatti e che non vi sa­rebbero stati, per la diplomazia eu­ropea, «tempi supplementari», fu l’ambasciatore d’Italia a Berlino Ber­nardo Attolico. Tentò di convince­re Ribbentrop a ricevere l’ambascia­tore polacco ed ebbe il dubbio ono­re di una udienza con il Führer da cui ricevette il testo delle inaccetta­bili e umilianti proposte che la Ger­mania aveva inviato alla Polonia. Tentò un’ultima carta e propose la mediazione dell’Italia. Ma Hitler, con falsa cortesia, disse che non vo­leva mettere il Duce in una situazio­ne imbarazzante. Ma allora, chiese Attolico, «è tutto finito?». La rispo­sta fu, freddamente, «sì».

Che la guerra fosse stata decisa da tempo e destinata a scoppiare nella notte fra il 31 agosto e il 1˚ settembre è dimostrato dagli inci­denti che i tedeschi avevano minu­ziosamente inscenato per giustifica­re il conflitto. I più macabri e grot­teschi furono quelli di Gleiwitz e Hohlinden, due cittadine tedesche a breve distanza dalla frontiera po­lacca. A Gleiwitz un drappello di SS in uniforme polacca entrò negli uf­fici della radio locale alle otto della sera del 31 agosto, rinchiuse gli ad­detti tedeschi nelle cantine e an­nunciò trionfalmente agli ascoltato­ri della piccola emittente, in polac­co, che la stazione era stata «con­quistata ». Per dare un tocco di veri­tà alla menzogna un altro drappel­lo di SS portò sul luogo un cittadi­no polacco, da tempo prigioniero della Gestapo, e lo uccise. La poli­zia, più tardi, trovò altri due cada­veri che non furono mai identifica­ti.

Nella sede della dogana di Hohlinden, più o meno alla stessa ora, andò in scena un copione anco­ra più sanguinoso. Quando la vicen­da venne alla luce, durante i proces­si di Norimberga, i giudici apprese­ro che l’edificio della dogana era stato «espugnato» da un altro drap­pello di SS in uniforme polacca. Di­strussero l’edificio, spararono pa­recchie salve di proiettili e si lascia­rono docilmente arrestare dalla po­lizia del Reich. Ma sul posto, dopo la farsa, cominciò la mattanza. Tra­sportati da un campo di concentra­mento, sei prigionieri dovettero re­citare la parte delle vittime. Furono uccisi, gettati sul luogo del delitto, esposti ai flash dei fotografi e, per­ché nessuno potesse riconoscerli, sfigurati. Sembra, a onore del vero, che la Wehrmacht, pronta ad ese­guire gli ordini del comando supre­mo e a entrare in territorio polacco, ignorasse di questi spudorati prete­sti.

La vera guerra, quella dei bolletti­ni ufficiali cominciò alle quattro e quarantacinque del mattino del 1˚ settembre con le bordate di una na­ve di battaglia, la Schleswig Hol­lstein, contro la guarnigione polac­ca di Westerplatte, accanto a Danzi­ca. I polacchi reagirono, difesero vi­gorosamente la cittadella di Gdy­nia, tentarono un contrattacco e, prima di soccombere, tennero in scacco i tedeschi per cinque giorni. Vi furono altri scontri e altre resi­stenze, ma la Wehrmacht e la Luf­twaffe (come scrive Donald C. Watt in un bel libro sul 1939 pubblicato da Leonardo vent’anni fa) «aveva­no una schiacciante superiorità nu­merica in tutti gli elementi decisi­vi: negli uomini, negli armamenti, nell’addestramento e nella tattica; di fatto in tutto tranne che nel co­raggio ». La guerra sarebbe durata forse più a lungo se i polacchi, co­me scrive B.H. Liddel Hart nella sua Storia della Seconda guerra mon­diale , avessero concentrato le loro forze dietro due grandi fiumi, la Vi­stola e il San. Ma la strategia di Var­savia fu dettata da una combinazio­ne di considerazioni economiche ed errori politici. I polacchi voleva­no conservare il controllo delle mi­niere di carbone della Slesia, vicino alla frontiera tedesca, e credettero di poter contare sull’immediata as­sistenza militare della Francia e del­la Gran Bretagna. Non compresero che né Londra né Parigi erano allo­ra in condizione di sguarnire il fronte occidentale. E non capirono soprattutto che la loro sorte era sta­ta decisa a Mosca il 23 agosto quan­do Ribbentrop e Molotov, sotto lo sguardo benedicente di Stalin, ave­vano firmato il patto di non aggres­sione tedesco-sovietico. I polacchi ignoravano in quel momento che un protocollo segreto, firmato nel­le stesse ore, prevedeva la spartizio­ne del loro Paese. Ma non poteva­no ignorare che l’Urss aveva dato al­la Germania, con il patto di non ag­gressione, una formale «licenza di uccidere».

A Roma il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano trascorse l’intera giornata del 31 agosto nel tentativo di organizzare una nuova conferen­za quadripartita. Parlò al telefono con Attolico e ricevette gli amba­sciatori di Francia e di Gran Breta­gna. Quando informò Mussolini, verso le nove della sera, che ogni tentativo era stato inutile, questi ne rimase «impressionato» e disse: «È la guerra. Però domani faremo una dichiarazione in Gran Consi­glio che noi non marciamo». Il gior­no dopo, mentre in Polonia si com­batteva, Ciano annotò nel suo dia­rio: «Il Duce è calmo. Ormai ha pre­so la decisione del non intervento e la lotta che ha agitato il suo spirito durante queste ultime settimane è cessata». Vi fu un Consiglio dei mi­nistri alle tre del pomeriggio duran­te il quale venne approvato l’ordi­ne del giorno con cui l’Italia annun­ciava al mondo la sua «non bellige­ranza ». Tutti i ministri, sembra, ap­provarono con un sospiro di sollie­vo e qualcuno disse a Ciano, abbrac­ciandolo, che aveva «reso un gran servigio al Paese». Ancora più pro­fondo fu il sospiro di sollievo degli italiani. Cominciò così un felice in­terludio durante il quale potemmo sperare che l’Italia non avrebbe commesso l’errore di gettarsi in una guerra che il suo popolo non desiderava e a cui le sue forze arma­te erano del tutto impreparate. L’in­terludio finì il 10 giugno 1940.

Liberazione 30.8.09
«Siamo all'attacco finale: sostituire l'informazione con la propaganda»
intervista a Giuseppe Giulietti di Sandro Podda



«Se non ora, quando?». E' tempo di scendere in piazza con un blocco sociale il più ampio possibile per Giuseppe Giulietti portavoce di Articolo 21 che in questi giorni ha lanciato il suo appello per la libertà di stampa, dopo l'affondo del premier a La Repubblica . Per Giulietti non si tratta di semplice nervosismo e di reazione scomposta di un Berlusconi in difficoltà, ma l'attacco finale con cui il premier vuole chiudere tutti gli spazi di dissenso e sostituire integralmente l'informazione con la propaganda. Un attacco che riguarda milioni di italiani e che chiede una risposta di massa.

L'attacco a La Repubblica, ma anche a Famiglia Cristiana o ancora più spregiudicato a L'Avvenire. Come giudica gli avvenimenti di questi giorni?
Bisogna sfrondare questa vicenda dai tanti dettagli di cui si compone. Sembra che Berlusconi all'improvviso abbia perso le staffe, ch eabbia avuto quasi uno scatto di semplice ira nei confronti della stampa. A mio giudizio non è così. E' un disegno lucido, che Berlusconi covava da tempo e che al di là delle forme in cui si è manifestato adesso corrisponde al progetto finale di costruzione a tappe forzate di una repubblica presidenziale a "reti semiunificate" e forse tra breve anche a "reti unificate".
Berlusconi è un leader arrivato probabilmente al termine della sua parabola, che non riuscendo più a dare risposte di governo al suo blocco sociale, tenta un'operazione piuttosto torbida e inedita in Europa occidentale: sostituire completamente la politica con la propaganda attraverso le armi a sua disposizione, come il controllo delle piazze mediatiche, in particolare le televisioni. 

Un fatto non del tutto inedito.
C'è però un'accelerazione in questo senso che non dovrebbe essere sottovalutata. In passato lo schema con cui Berlusconi delegittimava chiunque lo criticasse era: i miei nemici sono tutti rossi e comunisti, io guido l'assalto contro i comunisti ed espello giornalisti, scrittori autori "rossi" che mi infastidiscono. La novità è che ora inserisce nell'elenco dei nemici, di quelli che chiama i "deviati" e i "devianti", ancora prima che i direttori dei giornali, sono finiti alcuni temi sociali, i soggetti sociali che li rappresentano e i giornali che in modo diverso e spesso tenue, affrontano questi temi. Un esempio: è chiaro che Berlusconi consideri nemica Rai3 e il Tg3. Ma dove è scattata la rabbia livida e l'attacco? Una volta che, forse del tutto casualmente, il Tg3 ha deciso di aprire con gli operai della Inse e con i dati dell'Istat. Il giorno dopo Berlusconi è furioso e dichiara che ora di farla finita e che non se ne può più. Il Tg3 diventa il nemico che rappresenta la crisi, anzi che tenta di aggravarla. L' Avvenire non è certo un giornale contrario al premier, anzi ha appoggiato la sua vittoria elettorale. Come mai diventa un nemico? Non per i riferimenti alla vita privata di Berlusconi, ma per la vicenda del reato di clandestinità. Nel momento in cui Avvenire scrive che il peccato originale è il reato di clandestinità, tocca uno di quei temi che cementa l'alleanza di Berlusconi e la Lega e diventa un avversario. Così Famiglia Cristiana se affronta il tema delle mense dei poveri. A mio avviso Berlusconi sta preparando questa "campagna d'autunno" per mettere sotto silenzio Rai3, trovando magari anche due del centrosinistra da inserire che gli vadano bene dicendo "o accettate chi dico io o le nomine le faccio a maggioranza anche per Rai3". Il tentativo è quello di eliminare quegli spazi anche residuali di dissenso. Un assalto che riguarda i temi che non vuole più veder rappresentati. Lo ha detto esplicitamente mesi fa, non vuole più vedere in televisione notizie che riguardino la povertà o la crisi economica e sociale e tutto quello che può determinare «ansia». La propaganda deve invadere tutti gli spazi di informazione. 

Non corre però su questioni come i migranti il pericolo di scontrarsi con quel blocco sociale dei cattolici di base, del volontariato cattolico?
Il limite di questa sua azione è proprio qui. Da una parte tenta una dimostrazione di forza estrema. Dall'altra c'è la questione con cui Berlusconi non riesce a fare i conti e con cui rischia la rottura. Dal suo punto di vista vorrebbe oscurare tutto quello che non gli piace. Ma, proprio perchè c'è una crisi economica e sociale in essere, quello che non gli piace non riguarda solo quelli che lui chiama i "rossi", ma riguarda milioni di italiani, compresi quelli che si percepiscono moderati o addirittura molte delle persone che hanno votato per lui. Questo è il grande limite della carta estrema che sta giocando. 

Potrebbe uscire indebolito da questo braccio di ferro o addirittura sconfitto?
Non sottovaluterei la sua capacità di muoversi fuori dalle regole e la situazione in cui ci troviamo abbastanza "torbida", come i grandi esponenti del movimento operaio definivano in passato quei passaggi sociali poco chiari, aperti ad ogni sbocco. Sia positivo che paradossalmente peggiorativo. Non va sottovalutato Berlusconi, perché è un uomo e un politico irrituale, al di fuori degli schemi e deciso a giocare tutte le carte compresa la rottura costituzionale. Bisogna tenere conto che il Parlamento è in sostanza già chiuso, le decisioni le prende lui a colpi di maggioranza. 

Ma il peccato originale di questa situazione non è in fondo il non aver mai varato una legge sul conflitto di interesse e lasciare che in Italia si generasse una situazione piuttosto unica nelle democarazie occidentali
Sta venendo fuori il grave errore di valutazione del conflitto di interessi. Non si trattava di un dato sovrastrutturale, un epifenomeno. Attraverso di esso Berlusconi ha pompato veleno nelle arterie della comunità, alterando la percezione della società. Solo in Italia ho potuto leggere articoli o addirittura libri che sostenessero che le televisioni non influenzano i voti. Una corte di opinionisti o intellettuali che hanno scritto saggi che fanno ridere. Questo è ciò che non è stato colto, scambiato per una questione degli addetti ai lavori o una rivendicazione dei fissati con la Costituzione. 

Sulla Rete però l'informazione sembra ancora poter diffondersi più liberamente. Non sarà anche questo il motivo degli attacchi previsti per bloggers e internauti in generale?
Il problema dell'indignazione che si solleva su Internet è la sua traduzione poi in fatti concreti. Un tempo, quando c'erano le grandi organizzazioni politiche e operaie in Italia, quando avveniva un attacco alla democrazia, o c'era il rischio di una rottura costituzionale, di uno stravolgimento dell'articolo 21 della Costituzione, ferme restando tutte le differenze tra le forze politiche e sociali, c'era uno scatto di tutti. E ci potrebbe essere ancora. In Francia si direbbe "Se non ora, quando". C'è bisogno di una grande manifestazione nazionale che parta dalla stampa, dalla cultura e lo spettacolo pesantamente attaccati con il taglio del Fus, dalle organizzazioni sindacali. Serve una grande manifestazione nazionale. Il titolo potrebbe essere "Sbavagliamoci", sulla difesa dell'art.21. A sfilare devono essere non solo i giornalisti, ma tutti i soggetti che rischiano di essere oscurati: il cinema, lo spettacolo, gli operai dela Inse, di Bagnoli, chi si occupa di immigrazione, gli operatori della Caritas... Tutti, anche i moderati, perché quando si tratta di un valore così alto come quello della Costituzione e della democrazia vanno chiamati a raccolta non soltanto i "fedelissimi", ma tutti i soggetti espropriati da un diritto.

Il deterioramento della società è comunque palpabile. E' possibile veramente tornare uniti in un piazza?
C'è un intorpidimento, quasi il senso dell'inutilità. Ma le condizioni sociali ci sono. Sarebbe meglio che non partisse da un partito, a sinistra c'è una grossa litigiosità, l'iniziativa di una componente sarebbe boicottata dall'altra. La cosa migliore sarebbe che l'iniziativa fosse promossa dalla stessa Fnsi, da economisti, dalle Arci, dalle Acli, coinvolgendo anche cinema, spettacolo e cultura. Riuscire cioè a riunire una rete associativa amplia, coinvolgendo anche le realtà del precariato culturale. Berlusconi ha esplicitato il suo piano e fatto capire che lo porterà avanti in maniera anche più canagliesca. Non serve solo indignarsi, ma bisogna organizzare una risposta di piazza magari nel giorno in cui tenteranno di approvare la legge bavaglio sulle intercettazioni.



Liberazione 30.8.09
La Cgil deciderà martedì sul da farsi. Pantaleo: «Un movimento che fermi i tagli» A lezione di sciopero: si estende nella scuola la lotta degli insegnanti
di Fabio Sebastiani



La vera notizia è che la cifra degli esuberi nella scuola potrebbe essere molto più altra dei 18mila di cui si è parlato nei tavoli di confronto tra ministero della Pubblica istruzione e sindacati. La Cgil pretende di avere i numeri giusti dal Governo. Il tam tam degli insegnanti è già al lavoro per fare una prima ricognizione. Il tema sarà all'ordine del giorno nel prossimo "incontro tecnico" previsto per il 3 settembre. Incontro che non cambierà certo il volto dell'emergenza. Intanto, il movimento dei precari della scuola sta crescendo di giorno in giorno, soprattutto al Sud, con tante le forme di lotta. Mentre a Palermo prosegue lo sciopero della fame, e l'incatenamento, davanti a palazzo d'Orleans, sede della Giunta regionale della Sicilia, a Benevento sette insegnanti si sono arrampicati fin sopra il tetto del provveditorato agli studi (Ups) e ci resteranno fino a quando tutta questa vicenda delle espulsioni non avrà termine. Proteste sono in corso anche a Taranto, a Salerno, a Messina, a Bari. Tra le altre, anche forme fantasione come in Umbria, dove gli insegnanti che hanno vinto il "terno al lotto" dell'incarico si sono presentati a ritirare la nomina in mutande. A Belluno, un professore di educazione fisica, precario da un quarto di secolo, si è vestito da sposa per ritirare la sua nomina annuale celebrando così le "sue nozze d'argento" con il precariato. Ad accompagnarlo, alcune decine di allievi che gli tenevano il velo. Fabrizio Pra Mio, 48 anni, originario di Enna, da 25 residente a Forno di Zoldo (Belluno), bomber tra l'altro nella squadra di calcio zoldana con 265 reti, è da anni che esprime la sua protesta con i travestimenti. Con 19 anni di precariato, raccontano i giornali locali, era arrivato al primo posto in graduatoria: per festeggiare il fatto di essere arrivato in cima, si era travestito da scalatore. A 20 anni di precariato, ha indossato i panni di Eolo, dio dei venti. Successivamente, ha indossato i panni di mago Merlino: forse la magia avrebbe potuto dargli un posto fisso. Anche quest'anno invece resterà precario, con part time in due località poste su versanti diversi delle Dolomiti bellunesi. Tra i travestimenti di Pra Mio, un costume con attaccati tanti barattoli, su ognuno dei quali c'era il nome di una delle sedi scolastiche in cui ha lavorato. 
Ci sono anche situazioni molto meno ironiche di questa, come a Caserta dove marito e moglie, entrambi con incarico annuale nella scuola, ieri hanno minacciato minacciando di lanciarsi nel vuoto da una finestra dell'Ufficio scolastico provinciale. I due, hanno spiegato a polizia e carabinieri, sono rimasti senza posto di lavoro. Entrambi hanno rinunciato all'incarico in una scuola di Brescia, perchè alcuni sindacalisti, secondo il racconto dei due, avrebbero detto loro che sarebbero riusciti ad entrare in graduatoria a Caserta grazie al punteggio alto. Invece non sono riusciti ad avere l'assegnazione nel casertano e sono stati esclusi dalla graduatoria di Brescia, per rinuncia. Nel 2002 l'uomo fu protagonista insieme con altri di una protesta: s'incatenò perchè il Comune non intendeva rinnovare il suo contratto a termine. 
La segreteria nazionale della Flc-Cgil è pronta a dichiarare iniziative di lotta, tra cui anche lo sciopero generale. E la prima riunione utile per decidere il da farsi sarà il primo settembre. 
«Siamo al caos generale - sottolinea a Liberazione il segretario generale della Flc-Cgil Mimmo Pantaleo -. Occorre un movimento che metta in discussione i tagli e che faccia una lotta dura. Non dobbiamo dimenticarci infatti che i tagli continueranno anche per i prossimi due anni». 
Barbara Battista, della segretria nazionale della Cub-Scuola, polemizza proprio con la Cgil ricordando le vicende dell'autunno del 2008 quando «mentre il sindacalismo di base fece uno sciopero generale senza precedenti il sindacalismo confederale ha giocato benen le sue carte facendo mobilitare la scuola dopo l'approvazione del decreto Gelmini sul maestro unico». «Questo - aggiunge la Battisti - se lo ricordano gli insegnanti, soprattutto quelli che stanno ai sit in e in queste ore stanno lottando». La Cub-Scuola mette l'accento sui contratti di disponbilità, definiti una elemosina dagli insegnanti. «La Cgil ha detto che i contratti di disponibilità e le ventimila assunzioni in ruolo sono un successo della Cgil. Invece dimostrano - aggiunge la Battista - che il Governo ha bisogno di far lavorare i precari. Ma a quali condizioni? Il movimento vincerà perché sulla scuola ci giochiamo la democrazia del nostro paese. E quindi l'obiettivo è l'assunzione a tempo indeterminato dei trecentomila precari su tutti i posti disponbili perché è possibile». 
Paradossale e al limite della farsa, invece, la dichiarazione del segretario della Cisl Raffaele Bonanni che di fronte alle iniziative di protesta non trova di meglio da dire che non ci sarà «un autunno caldo ma un autunno di lavoro». «Sappiamo che da lunedì dobbiamo iniziare a lavorare incessantemente per convincere tutti che la soluzione migliore in questo momento è quella di avere una sola strategia tra governo e opposizione, imprenditori e sindacati» ha aggiunto Bonanni che chiede quindi la convocazione di un grande summit tra governo e tutte le parti sociali. L'obiettivo è, udite udite, quello di «concordare» una politica economica da seguire avendo dal governo «l'indicazione sugli investimenti, selettivi, che intende effettuare» così come la garanzia di spesa su quelli già programmati.

Liberazione 30.8.09
Benevento, parla una insegnante che partecipa alla protesta «Ormai non abbiamo davvero
più nulla da perdere»
di Fa. Seba.


In sette, tra insegnanti e personale amministrativo, hanno occupato ieri il terrazzo della sede dell'Ufficio scolastico provinciale di Benevento per protestare contro i tagli nella scuola. Rimarranno lassù fino a quando il Governo non ritirerà i tagli. La sera precedente un altro gruppo di precari era salito sul palco del concerto di Francesco De Gregori e Lucio Dalla, dove hanno letto un documento. Liberazione ha intervistato Daniela, che sta partecipando alla protesta. 

Perché avete deciso questa forma estrema di lotta?
Perché ormai non abbiamo nulla da perdere. C'è gente che alla soglia dei 50 anni e dopo venti di precariato si vede sbattere fuori. Ti basta? In questi anni abbiamo fatto di tutto e aggiunto sempre nuovi titoli, ma il ministero spostava sempre più avanti la soglia per poter entrare nella scuola. Così è uno sfinimento. L'immissione in ruolo non arriva mai. Quest'anno la cosa grave è che non arriva nemmeno l'incarico annuale. In Campania c'è il maggior numero di tagli, circa seimila. Solo a Benevento, circa 500, e non ci sono più alternative. I tagli del governo stanno colpendo l'anello più debole, i precari.

La Gelmini ha tirato fuori il contratto di disponibilità. Cosa ne pensate?
Il contratto di disponibilità è una elemosina. Verremmo utilizzati per le supplenze. Noi ci siamo abilitati per insegnare non per rattoppare i buchi. E' un provvedimento che ci toglie ancora una volta la dignità lavorativa. Ci sentiamo privati di tutto, e non più tutelati. Quando apro i giornali e mi sento dire che sono una professoressa terrona e somara mi sale una rabbia da non credere. 

Come vi siete organizzati per reggere l'occupazione?
Ci siamo portati cibo, sali minerali e un materassino gonfiabile. Per le nostre necessità utilizziamo le buste. Sotto ci sono i volontari che ci riforniscono. Le brigate della solidarietà, per esempio, ci stanno dando una mano. Stiamo su un terrazzo catramato dove la temperatura raggiunge anche i 40 gradi. 

Reazioni della gente?
Di solidarietà. I miei figli hanno detto di non mollare. I nostri figli per andare in palestra e per uscire il sabato sera debbono sperare che la mamma prenda l'incarico. Mio figlio ha 16 anni e mi ha detto di non preoccuparmi perché l'anno prossimo quando prenderà il diploma all'alberghiero ci penserà lui. Come genitore è umiliante. 

Come avete deciso la squadra che è salita sul tetto?
Abbiamo raccolto adesioni volontarie. Ci siamo resi conto che le mobilitazioni non servivano più a niente. Non possono più nascondersi dietro un dito e dire che non ci sono licenziati. E noi che siamo, fantasmi? 

Solidarietà dagli altri insegnanti?
Anche quelli di ruolo si sentono precari. Ci sono colleghi che sono andati in esubero addirittura sulle proprie materie. Molti sono rimasti senza cattedra. Dato che il contratto prevede che se entro due anni non trovi un'altra collocazione nella scuola vieni cacciato, allora molti verranno utilizzati nel sostegno. Ma la legge prevede che per il sostegno devi avere un titolo biennale. E il ministero dice che glielo farà conseguire in seguito. Un vero scandalo.

Liberazione 30.8.09
I "crediti" dei docenti di religione cattolica
Quel regolamento è illegittimo
di Antonia Sani



Cara "Liberazione", l'ambiguità del Regolamento sulla valutazione pubblicato recentemente sulla Gazzetta ufficiale del 20 agosto per quanto riguarda l'art. 6, ha scatenato reazioni controverse, che rischiano di creare confusione. Prima di tutto va chiarita la differenza tra "scrutinio finale" e "attribuzione dei crediti". Sono entrambe operazioni che spettano al Consiglio di classe, ma non sono la medesima operazione. La partecipazione del docente di religione cattolica (r. c.) allo scrutinio è regolata dal Testo unico delle leggi sulla scuola e dall'Intesa del 1990 e non può essere mutata da un Regolamento. Quindi, per quanto riguarda lo scrutinio, non ci possono essere cambiamenti. Per quanto riguarda l'attribuzione del credito, il Tar si è espresso chiaramente con la sent. 7076. Qui sta l'ambiguità dell'art. 6. E' sempre il Consiglio di classe che attribuisce il credito scolastico, ma i docenti di r. c., che pure fanno parte "a pieno titolo" del Consiglio di classe, non possono attribuire il credito per i motivi citati nella sentenza del Tar del Lazio. Nell'art.6 questo non è detto chiaramente! Anzi. Nel Regolamento, come si dice che gli insegnanti di r. c. hanno titolo a partecipare allo scrutinio «limitatamente agli alunni che si avvalgono», così si dovrebbe aggiungere «nei limiti stabiliti dalla sentenza 7076 del Tar del Lazio». In verità, la speranza di molti è che nelle scuole si interpreti il regolamento illegittimamente ignorando la sentenza del Tar, così come in molte scuole si è ignorata la disposizione contenuta nell'Intesa del 1990; non sono pochi gli alunni e alunne promossi/e illegittimamente col voto determinante del docente di r. c.! Quindi, sono del parere che questo art. 6 debba essere considerato illegittimo, finché non sarà chiarito che il docente di r. c. non può attribuire crediti che potrebbero attrarre a scegliere l'insegnamento della religione cattolica per motivi di opportunismo. Bisogna abituarsi a pensare che quel "pieno titolo" applicato a un insegnamento confessionale incontra inevitabilmente dei limiti!

Liberazione 30.8.09
Marcello Sorgi e lo spazio degli atei
di Marco Bertinatti

Cara "Liberazione", dopo aver letto l'ultimo editoriale di Marcello Sorgi "Tutti cattolici se i laici non parlano", pubblicato su "La Stampa", mi sono chiesto se l'autore intendesse fare della sottile ironia o se veramente crede in ciò che ha scritto. Nel secondo caso desidererei domandargli quali siano gli spazi riservati ai laici per esprimere la loro opinione. Già la scelta del vocabolo utilizzato per definire chi non ha ricevuto il "dono della fede" è indicativa del suo timore nei confronti di quell'aggettivo maledetto, ateo (ovvero mancante di qualcosa), riservato a chi crede solo nella Natura e nell'Uomo. E se invece fossero i credenti ad avere qualcosa di troppo? Qual è il rapporto tra lo spazio riservato agli atei per presentare le loro tesi e quello dedicato ai credenti dai mass media? Dal momento che i decimali per scriverlo sono molti, mi limiterò alla mia personale esperienza proprio con il giornale del quale l'autore è stato anche direttore. Essendo per l'appunto ateo, conosco i fondamenti del cristianesimo meglio della maggioranza dei credenti e pertanto mi è naturale evidenziarne le incongruenze correlandole con i fatti di cronaca. Purtroppo con i miei interventi che "La Stampa" ha rifiutato di pubblicare potrei realizzare un intero volume. Questa mia esperienza è condivisa da tanti altri che, come me, sono riusciti a liberarsi dal "dono della fede" e desidererebbero confrontarsi con chi non ci è ancora riuscito. Senza questo "dono" il Mondo sarebbe certamente un posto migliore in cui vivere (con meno guerre e meno tasse) e questa opinione viene condivisa dalle più brillanti menti, passate e presenti, dell'Umanità…