mercoledì 2 settembre 2009

Repubblica 2.9.09
La strategia della menzogna
di Ezio Mauro


Poiché la sua struttura privata di disinformazione è momentaneamente impegnata ad uccidere mediaticamente il direttore di "Avvenire", colpevole di avergli rivolto qualche critica in pubblico (lanciando così un doppio avvertimento alla Chiesa perché si allinei e ai direttori dei giornali perché righino dritto, tenendosi alla larga da certe questioni e dai guai che possono derivarne) il Presidente del Consiglio si è occupato personalmente ieri di "Repubblica": e lo ha fatto durante il vertice europeo di Danzica per ricordare l´inizio della Seconda guerra mondiale, dimostrando che l´ossessione per il nostro giornale e le sue inchieste lo insegue dovunque vada, anche all´estero, e lo sovrasta persino durante gli impegni internazionali di governo, rivelando un´ansia che sta diventando angoscia.
L´opinione pubblica europea (ben più di quella italiana, che vive immersa nella realtà artefatta di una televisione al guinzaglio, dove si nascondono le notizie) conosce l´ultima mossa del Cavaliere, cioè la decisione di portare in tribunale le dieci domande che "Repubblica" gli rivolge da mesi. Presentata come attacco, e attacco finale, questa mossa è in realtà un tentativo disperato di difesa.
Non potendo rispondere a queste domande, se non con menzogne patenti, il Capo del governo chiede ai giudici di cancellarle, fermando il lavoro d´inchiesta che le ha prodotte. È il primo caso al mondo di un leader che ha paura delle domande, al punto da denunciarle in tribunale.
Poiché l´eco internazionale di questo attacco alla funzione della stampa in democrazia lo ha frastornato, aggiungendo ad una battaglia di verità contro le menzogne del potere una battaglia di libertà, per il diritto dei giornali ad indagare e il diritto dei cittadini a conoscere, ieri il Premier ha provato a cambiare gioco. Lui sarebbe pronto a rispondere anche subito se le domande non fossero «insolenti, offensive e diffamanti» e fossero poste in altro modo e soprattutto da un altro giornale. Perché "Repubblica" è «un super partito politico di un editore svizzero e con un direttore dichiaratamente evasore fiscale».
Anche se bisognerebbe avere rispetto per la disperazione del Primo Ministro, l´insolenza, la falsità e la faccia tosta di quest´uomo meritano una risposta. Partiamo da Carlo De Benedetti, l´editore di "Repubblica": ha la cittadinanza svizzera, chiesta come ha spiegato per riconoscenza ad un Paese che ha ospitato lui e la sua famiglia durante le leggi razziali, ma non ha mai dismesso la cittadinanza italiana, cioè ha entrambi i passaporti, come gli consentono la legge e le convenzioni tra gli Stati. Soprattutto ha sempre mantenuto la residenza fiscale in Italia, dove paga le tasse. A questo punto e in questo quadro, cosa vuol dire "editore svizzero"? È un´allusione oscura? C´è qualcosa che non va? Si è meno editori se oltre a quello italiano si ha anche un passaporto svizzero? O è addirittura un insulto? Il Capo del governo può spiegare meglio, agli italiani, agli elvetici e già che ci siamo anche ai cittadini di Danzica che lo hanno ascoltato ieri?
E veniamo a me. Ho già spiegato pubblicamente, e i giornali lo hanno riportato, che non ho evaso in alcun modo le tasse nell´acquisto della mia casa che i giornali della destra tengono nel mirino: non solo non c´è stata evasione fiscale, ma ho pagato più di quanto la legge mi avrebbe permesso di pagare. Ho versato infatti all´erario tasse in più su 524 milioni di vecchie lire, e questo perché non mi sono avvalso di una norma (l´articolo 52 del D.P.R. 26 aprile 1986 numero 131, sull´imposta di registro) che, ai termini di legge, mi consentiva nel 2000 di realizzare un forte risparmio fiscale.
Capisco che il Premier non conosca le leggi, salvo quelle deformate a sua difesa o a suo privato e personale beneficio. Ma dovrebbe stare più attento nel pretendere che tutti siano come lui: un Capo del governo che ha praticato pubblicamente l´elogio dell´evasione fiscale, e poi si è premurato di darne plasticamente l´esempio più autorevole, con i quasi mille miliardi di lire in fondi neri transitati sul "Group B very discreet della Fininvest", sottratti naturalmente al fisco con danno per chi paga le tasse regolarmente, con i 21 miliardi a Bettino Craxi per l´approvazione della legge Mammì, con i 91 miliardi trasformati in Cct e destinati a non si sa chi, con le risorse utilizzate poi da Cesare Previti per corrompere i giudici di Roma e conquistare fraudolentemente il controllo della Mondadori. Si potrebbe andare avanti, ma da questi primi esempi il quadro emerge chiaro.
Il Presidente del Consiglio ha detto dunque ancora una volta il falso, e come al solito ha infilato altre bugie annunciando che chi lo attacca perde copie (si rassicuri, "Repubblica" guadagna lettori) e ricostruendo a suo comodo l´estate delle minorenni e delle escort, negando infine di essere malato, come ha rivelato a maggio la moglie. Siamo felici per lui se si sente in forze («Superman mi fa ridere»). Ma vorremmo chiedergli in conclusione, almeno per oggi: se è così forte, così sicuro, così robusto politicamente, perché non provare a dire almeno per una volta la verità agli italiani, da uno qualunque dei sei canali televisivi che controlla, se possibile con qualche vera domanda e qualche vero giornalista davanti? Perché far colpire con allusioni sessuali a nove colonne privati cittadini inermi come il direttore di "Avvenire", soltanto perché lo ha criticato? Perché lasciare il dubbio che siano pezzi oscuri di apparati di sicurezza che hanno fabbricato quella velina spacciata falsamente dai suoi giornali per documento paragiudiziario?
Se Dino Boffo salverà la pelle, dopo questo killeraggio, ciò accadrà perché la Chiesa si è sentita offesa dall´attacco contro di lui, e si è mossa da potenza a potenza. Ma la prossima preda, la prossima vittima (un magistrato che indaga, una testimone che parla, un giornalista che scrive, e fa domande) non avendo uno Stato straniero alle spalle, da chi sarà difeso? L´uomo politico passato alla storia come il più feroce nemico della stampa, Richard Nixon, non ha usato per difendersi un decimo dei mezzi che Berlusconi impiega contro i giornali considerati "nemici". Se vogliamo cercare un paragone, dobbiamo piuttosto ricorrere a Vladimir Putin, di cui non a caso il Premier è il più grande amico.

Repubblica 2.9.09
A metà mese in piazza per la stampa Uniti l´opposizione e i giornalisti
In campo la Fnsi e le associazioni Il Pd offre "il massimo sostegno politico e organizzativo" Messaggi di adesioni dall´Europa
di Luciano Nigro


ROMA - «Sbavagliamoci». Sarà probabilmente questo il titolo della «grande manifestazione civica» per la libertà d´informazione che sta organizzando la federazione nazionale della stampa. Oggi stesso la Fnsi, che ha preso contatti con le organizzazioni sindacali e con un gran numero di associazioni, da «Articolo 21» alle Acli e all´Arci, dirà dove e quando si terrà l´incontro. Di sicuro parlerà Gustavo Zagrebelky il giurista che con Franco Cordero e Stefano Rodotà ha lanciato l´appello contro «il tentativo ridurre al silenzio la libera stampa» che ha già raccolto 190 mila firme. I partiti saranno i benvenuti, tutti, ma per evitare di etichettare la risposta al clima minaccioso che grava sui giornali e sulle tivù, le forze politiche hanno fatto un passo indietro. Il Pd ha deciso che non organizzerà direttamente alcuna risposta di piazza, ma offrirà «il massimo sostegno politico e organizzativo a una iniziativa unitaria». Anche Sinistra e Libertà, l´Italia dei Valori e il Prc sostengono l´iniziativa. La data? Nella segreteria del Pd, ieri, si è parlato del 12 settembre, ma potrebbe non essere quello il giorno prescelto. «Stiamo valutando il periodo tra il 10 e il 19 settembre», dice il segretario della Fnsi Franco Siddi, che ha ricevuto messaggi da mezza Europa. «Non è ammissibile che chi guida un governo pensi di impedire anche l´osservazione critica», protesta Siddi che elenca l´escalation di episodi recenti: «I giornalisti "delinquenti", l´invito a non fare pubblicità sui quotidiani sgraditi, la causa contro le domande di Repubblica, l´elogio dei cronisti sportivi che "non fanno domande", il "comunisti" gridato a Famiglia Cristiana, la vendetta contro Avvenire, non sono cose da democrazia normale».

il Riformista 2.9.09
Amnistia. Il Leader Radicale chiede l'atto di clemenza per riportare legalità nelle prigioni e nei tribunali
«Le carceri sono un girone infernale»
Marco Pannella da Radiocarcere


Ormai abbiamo deciso. Si continua, si rilancia e si otterrà: AMNISTIA!!
Dopo le visite dei parlamentari nei penitenziari è calato il silenzio sulla condizione drammatica dei detenuti.

Massimo Calearo, dopo l'ispezione ferragostana alle carceri promossa e organizzata da Rita Bernardini con il sostegno di Antonella Casu, l'ha evocata come un'immersione in un dantesco girone infernale. Chi l'ascoltava non avvertiva l'enfasi, ma il dolore per la verità scoperta e la determinazione di darle seguito. In molti, fra i quasi duecento che hanno esercitato la prerogativa attribuita dalla legge a parlamentari e consiglieri regionali, hanno condiviso la sua emozione e la volontà di impegnarsi. La comunità penitenziaria aveva assoluto bisogno - sperava - di trarre ulteriore conforto e coraggio dall'attualità emersa e dal dibattito così suscitato. Invano! Raiset, servizio pubblico e privato, era in vacanza, tranne che per le solite desolanti cronache "politiche" e criminali. Dibattiti, "approfondimenti", zero. Erano e restano invece maledettamente urgenti e necessari, per comprendere il da farsi, per sperare anziché disperare, per meglio concepire il nuovo possibile che c'è e urge. S'accentua la maledetta urgenza di condividere la ricerca delle vie d'uscita da questa Gehenna.
Ma occorre non cadere nell'errore di sempre. La tragedia, che c'è, non è di per se è il carcere: epifenomeno, conseguenza, indotto, di quella della Giustizia.
Lasciamo, per un attimo, la parola - preziosa - al Ministro della Giustizia Alfano, in un suo intervento alla Camera, il 27 gennaio 2009:
"Quello che di impressionante vi è da sottolineare è la mole dei procedimenti pendenti, cioè, detto in termini più diretti, dell'arretrato o meglio ancora del debito giudiziario dello Stato nei confronti dei cittadini: 5 milioni e 425 mila i procedimenti civili pendenti, 3 milioni e 262 mila quelli penali. Ma il vero dramma è che il sistema non solo non riesce a smaltire questo spaventoso arretrato, ma arranca faticosamente, senza riuscire neppure ad eliminare un numero almeno pari ai sopravvenuti, così alimentando ulteriormente il deficit di efficienza del sistema".
Il Ministro insomma denuncia il carattere strutturale della crisi della Giustizia italiana: ne vengono distrutti Stato e società. Massima tragedia, quindi, istituzionale e sociale del Paese.
La nostra proposta trentennale ha un nome semplice, tanto da suscitare nello sfascismo di Regime e nella sua partitocratica classe dominante, nei ruoli di governo e di opposizione, la scontata accusa d'essere idiota e mentecatta; il suo nome è Amnistia. Contro - tra l'altro - l'ignobile realtà del sistema di potere e di classe che consiste nel termine impronunciabile: PRESCRIZIONE. È questa infatti l'immonda realtà strutturale, necessaria al sessantennale Regime sfascista e al suo Disordine Costituito: nei soli ultimi dieci anni 1.800.000 beneficiari di prescrizioni. Almeno due milioni con il prossimo 2010. Fra i quali, certo, Berlusconi e berlusconidi a gogò; ma anche i due coimputati Massimo D'Alema e Pinuccio Tatarella.
Che il sessantennale Regime italiano sia sempre più (se possibile!) corrotto e corruttore pochi oserebbero negarlo. Che sia criminogeno e anche tecnicamente (non "moralmente"!) equiparabile non più alla figura del "delinquente abituale" ma a quella del delinquente " professionale", anche. Luigi Ferrajoli, giurista e persona liberale, annotava di recente quanto segue: " Il nostro è uno dei paesi più sicuri del mondo, in cui la criminalità è in costante calo da decenni. In Italia abbiamo 600 omicidi all'anno, nella sola Rio de Janerio sono 6.000. Negli Stati Uniti sono 20-25.000 (circa 40 volte in più che l'Italia) con una popolazione che è 6 volte quella italiana. Con tutte le nostre mafie, non c'è paragone. Lo stesso vale per i reati contro la persona. È chiaro, però, che se racconti ogni delitto in modo ossessivo, pensiamo di vivere nella giungla.."

l’Unità 2.9.09
La sinistra radicale è diventata un partito nazionale, non è più fenomeno politico dell’Est
Lafontaine si pone come unico avversario credibile della cancelliera nel voto di settembre
Germania, il ritorno di Oskar il rosso La sua Linke fa tremare Merkel e Spd
di Gherardo Ugolini


Il leader della Linke torna alla ribalta. Non c’è dubbio che sia lui il personaggio del giorno in Germania a sole quattro settimane dalle elezioni legislative che rinnoveranno il Bundestag.

Il successo che la Linke ha ottenuto domenica scorsa nei tre Länder in cui si è votato per le regionali porta la firma di Lafontaine. Certo, all’est il partito della sinistra radicale era già forte: il 20,6% conquistato in Sassonia e il 27,4% in Turingia (in entrambi i casi secondo partito dopo la Cdu) rappresentano la conferma di un forte radicamento sul territorio.
LA NOVITÀ POLITICA
La vera sorpresa è venuta dal Saarland, il Land più occidentale del Paese, dove la Cdu da dieci anni governava in solitudine e la sinistra estrema non aveva rappresentanza. Qui la Linke si è affidata a Lafontaine candidandolo governatore in una regione dove già in passato aveva ricoperto quella carica per conto della Spd. E Lafontaine ha fatto il miracolo portando il partito ad un risultato insperato: 21,3% con un balzo di 19 punti percentuali rispetto a quanto aveva raccolto la Pds cinque anni prima. Voti tolti alla Cdu in primo luogo (-13%), ma anche alla Spd (-6,3%). E così il «Napoleone della Saar», come veniva chiamato quando era governatore, ha compiuto la sua vendetta sugli ex compagni di partito. Laddove la Spd di Steinmeier, ingabbiata nel difficile ruolo di partner di governo e contemporaneamente avversario nella campagna elettorale, fa fatica ad ostacolare la corsa verso la rielezione di Angela Merkel, Oskar si propone come il vero antagonista. È stato lui, del resto, ad attaccare frontalmente la cancelleria in parlamento per «avere fallito nella gestione della crisi», per avere «lasciato troppo spazio ai mercati», ed anche per lo scandalo della cena di compleanno in onore del banchiere Ackermann, ospitata nella sede della Cancelleria e pagata coi fondi pubblici. «Se è la finanza a determinare la politica, allora il vero cancelliere è Ackermann, ed è giusto che la Merkel gli abbia organizzato la festa di compleanno» ha sostento con ironia Oskar il rosso.
LA ROTTURA
Sono passati undici anni da quando Lafontaine si dimise da ministro delle Finanze in disaccordo con le politiche moderate di Gerhard Schrö der. Oggi si può dire che il suo disegno di creare un partito a sinistra della Spd sia praticamente concluso. Così come può dirsi ben compiuta la problematica fusione tra gli ex comunisti della Pds orientale e i socialdemocratici dissidenti occidentali. Nei mesi scorsi la Linke è riuscita ad entrare nei parlamenti regionali di Brema, Amburgo e Assia. Se fino all’altro ieri si poteva pensare che quel partito fosse una forza politica transitoria, radicata all’Est ma quasi inesistente all’ovest, ora le cose sono cambiate. Guidata da Oskar il rosso la Linke ha messo un piede stabile anche ad Ovest, è diventata un partito nazionale con cui occorre fare i conti. E non a caso i leader della Spd hanno subito aperto all’ipotesi di governi regionali di sinistra, come quello che amministra la città-stato di Berlino. In passato soluzioni del genere erano sempre state escluse ad ovest, e laddove le si era tentate (per esempio in Assia l’anno scorso), si era andati incontro ad un fallimento totale.
LO SDOGANAMENTO
Certo, a livello nazionale la conventio ad excludendum verso la Linke rimane. Su temi come il ritiro dall’Afganistan, la UE e la politica internazionale, le differenze sono pesanti. E Steinmeier in tv ha ribadito che nella prossima legislatura non è pensabile un’alleanza tra Spd e Linke per il governo del paese.
Però i toni sono parsi meno perentori del solito. Se non sarà per la prossima legislatura, sarà forse per la successiva. Ma prima o poi lo sdoganamento della Linke appare inevitabile anche a livello di governo nazionale. ❖

l’Unità 2.9.09
In mutande per protesta cinque insegnanti del liceo Newton a Roma
Sultetto dell’exprovveditoratodiBeneventoperdenunciarelaperditadellavoro
Scuola, precari in rivolta contro i tagli della Gelmini
Da Sud a Nord esplodono le proteste dei precari della scuola davanti agli ex provveditorati. A Milano docenti in catene, a Roma in mutande, a Benevento sul tetto. 25mila posti di lavoro in meno: ecco la «rivoluzione» Gelmini.
di Giuseppe Vespo


MILANO Occupazioni negli ex provveditorati, sit-in di protesta, insegnanti che sfilano in mutande, si arrampicano sui tetti o s’incatenano.
Eccola la «rivoluzione» della scuola targata Gelmini. Come primo effetto ha dato il via alla carica dei diciottomila, tanti sono gli insegnanti precari che non saliranno in cattedra quest’anno, ai quali vanno aggiunti i circa settemila Ata (personale tecnico e amministrativo) che non verranno riconfermati.
Le stime sono dei sindacati. La rabbia è di chi un anno fa, oggi, veniva chiamato per il primo giorno di scuola. Così puntuali, al posto dei contratti a termine, sono partite le proteste. Da Sud a Nord, seguendo l’ordine dei tagli all’Istruzione operato dalla scure governativa.
SUD
Ieri a Catania il coordinamento precari ha occupato l’ufficio scolastico provinciale (Usp, ex provveditorato) e ha fatto appello ai cittadini «perchè solidarizzino con la lotta a difesa della scuola pubblica, la scuola di tutti». Stesso invito e stesse scene a Messina, dove si presidia l’Usp. Mentre a Palermo l’ex provveditorato è occupato da due giorni, con alcuni insegnanti in sciopero della fame. Nell’isola dove secondo la Uil sarebbero 3.600 i docenti precari non riconfermati «siamo al caos più totale ha commentato il segretario della Cisl siciliana, Maurizio Bernava Temiamo che le proteste possano degenerare».
A Benevento continua la protesta delle sei precarie salite cinque giorni fa sul tetto dell’Usp. Sotto al sole per dar voce ai 500 precari a spasso nella provincia beneventana, ottomila in tutta la Campania, sempre secondo stime sindacali. «Ci dicono di non mollare, di andare avanti», dice una delle sei, Daniela Basile, che non nasconde però la tristezza: «Questo avrebbe dovuto essere il nostro primo giorno di scuola». Ieri Daniela ha incontrato il sottosegretario al Lavoro, Pasquale Viespoli, cha le ha comunicato come «governo e regione Campania sono impegnati alla definizione di un’intesa per individuare iniziative e risorse utili a dare una prima concreta risposta alla questione dei precari».
A Napoli, dopo l’occupazione dell’ex provveditorato di lunedì e nonostante la tensione creata dalle proteste, l’ufficio scolastico ha continuato a lavorare. I manifestanti hanno provato a forzare il cordone dei poliziotti all’ingresso dell’Ufficio scolastico e una donna si è sentita male.
Mentre a Roma cinque insegnanti in attesa di una cattedra si sono spogliati e sono rimasti in mutande davanti il liceo Newton, una delle otto scuole individuate per assegnare le cattedre disponibili, per protestare hanno spiegato contro il loro stato di precarietà in quanto da anni non sono stati ancora messi in ruolo.
A NORD
A Torino, dove il taglio dovrebbe interessare 1.800 insegnanti e seicento impiegati tecnico amministrativi, i sindacati della scuola aderenti a Cgil, Cisl e Uil, hanno presidiato l’uffico scolastico regionale.
Proteste anche a Milano, dove sono state presentate 18mila domande per cinquemila posti disponibili nella provincia. Da ieri mattina gli insegnanti aderenti al coordinamento “lavoratori della scuola 3 ottobre” si sono incatenati davanti l’ex provveditorato. Tende, fornelli da campo e la solidarietà dei colleghi di ruolo, serviranno per andare avanti ad oltranza, promettono. «Il governo dicono ironicamente mantiene le promesse: il nuovo anno scolastico si apre con 43mila cattedre in meno in tutta Italia».
LA SCURE
Secondo i calcoli della Flc-Cgil, precari a parte, con i tagli all’Istruzione quest’anno avremo circa 42mila cattedre e 15mila impiegati amministrativi in meno sul 2008. Nonostante 32mila pensionamenti tra gli insegnanti e ottomila tra il personale. Mentre l’anno scorso i contratti a tempo sono stati 130mila tra gli insegnanti e 78mila tra gli amministrativi. I rappresentanti dei lavoratori adesso avvertono il governo. Il segretario generale della Flc-Cgil Mimmo Pantaleo chiede un tavolo di confronto sui precari a palazzo Chigi e parla di «piena emergenza sociale».
Di situazione esplosiva parla anche il Gilda, sindacato autonomo, che annuncia proteste». Mariastella Curreli, presidente del Cip (coordinamento insegnanti precari) parla di licenziamenti di massa. Ai docenti arriva anche la solidarietà dell’Unione degli studenti. Mentre Rdb-Cub annuncia per giovedì un presidio davanti alla sede del ministero dell’Istruzione. Nello stesso giorno al Miur i sindacati discuteranno di «contratti di disponibilità» e accordi tra ministero e regioni. I primi prevedono che i precari che l’anno scorso hanno avuto cattedre di un anno abbiano una corsia preferenziale nelle chiamate per le supplenze brevi e una indennità di disoccupazione per i periodi di non lavoro. Alle Regioni il Miur chiede di finanziare alcune attività scolastiche.❖

Repubblica 2.9.09
Scuola, l´autunno nero dei precari
Senza posto quasi 20mila docenti. In tutta Italia cortei e proteste shock
Si cerca una difficile soluzione per evitare licenziamenti di massa. Supplenti in catene a Milano, in mutande a Roma
di Mario Reggio


ROMA - Supplenti precari in catene a Milano. In corteo a Napoli e Palermo. In mutande a Roma. Sul tetto del provveditorato a Benevento. L´autunno caldo della scuola è partito quando mancano due settimane all´inizio dell´anno scolastico. Si tratta, comunque di una «mattanza» annunciata, visto che la legge sui tagli è stata approvata sei mesi fa. Meno 42 mila cattedre e 15 mila posti in meno per il personale non docente. Ed ora cosa succederà? Il ministero della Pubblica Istruzione sta cercando di trovare qualche soluzione tampone, per stemperare il clima rovente. Ha proposto alle Regioni contratti di formazione, durata un anno, per i supplenti annuali che non avranno più l´incarico. Metà dei costi sarebbero a carico del ministero della Pubblica Istruzione, il resto pagato dalle casse regionali. Per il momento l´accordo sarebbe stato chiuso con la Sardegna. Con Puglia, Sicilia, Campania l´accordo sarebbe in dirittura d´arrivo. Da Lombardia e Veneto ancora nessun segnale. Ma si tratterebbe, comunque, di una soluzione tampone, perché in tre anni i tagli nella scuola dovrebbero toccare quota 150 mila. Cosa succederà tra due settimane? I conti sono presto fatti. La legge fissa per l´anno scolastico 2009-2010 un taglio di 42.102 docenti e 15 mila dipendenti delle categorie non docenti. È vero che tra gli insegnanti sono 26 mila quelli che andranno in pensione entro il 2009, ma che fine faranno i precari annuali, quelli con il contratto fino al 31 agosto 2009? Per loro la legge parla chiaro: in 16 mila dovranno tornare a casa senza un «grazie per quello che avete fatto». Ci sono poi i 110 mila con il contratto che è scaduto il 30 giugno del 2009. Per loro il futuro è ancora più nero.
Mentre i precari scendono piazza si mobilitano i sindacati della scuola. Scendono in campo la Cisl e la Gilda. Dura la presa di posizione della Cgil: «Il governo si disinteressa dei 25000 precari della scuola che rimarranno senza lavoro e senza salario per colpa dei tagli alla scuola pubblica - dichiara il segretario nazionale Mimmo Pantaleo - siamo in piena emergenza sociale con migliaia di insegnanti, ausiliari, tecnici e amministrativi licenziati, graduatorie nel caos e uffici scolastici assediati mentre la Gelmini parla d´altro. Infatti in questi giorni abbiamo ascoltato dal ministro i soliti giudizi sulla scuola che non funziona, per arrivare ad avanzare proposte che calpestano la nostra Costituzione, come quella di finanziare allo stesso modo le scuole Statali e quelle paritarie».

l’Unità 2.9.09
Intervista a Desmond Tutu
«Ho rivisto l’apartheid nei check-point della Cisgiordania»
Il Nobel per la pace: «Centinaia di posti di blocco umiliano i palestinesi La sicurezza non è questa, Israele faccia tesoro della storia del Sudafrica»
di Umberto De Giovannangeli


Appello ai fratelli ebrei «La sicurezza non potrà venire attraverso recinzioni, muri e fucili, ma
dal rispetto dei diritti dei palestinesi»

In Sudafrica hanno cercato di ottenere la sicurezza dalla canna del fucile. Non l’hanno mai avuta. Perché la sicurezza per una parte non può essere realizzata sulla sofferenza, l’umiliazione, le punizioni collettive inflitte ad un’altra parte della popolazione o a un popolo che rivendica la propria libertà e autodeterminazione. È una lezione della storia di cui Israele dovrebbe far tesoro. Purtroppo ancora non è così». A parlare è colui che assieme a Nelson Mandela, è stato l’uomo simbolo della lotta al regime segregazionista sudafricano: Monsignor Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace nel 1984. Nei giorni scorso, Tutu ha visitato Israele e la Cisgiordania assieme ad altri Nobel per la Pace, tra i quali l’ex presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter. L’Unità ha avuto modo di rivolgergli alcune domande.
Monsignor Tutu, Lei ha visitato più volte i Territori occupati. In una nostra passata conversazione, Lei ha denunciato la condizione disperata in cui versa la popolazione di Gaza. In questo viaggio, Lei ha visitato la Cisgiordania. Qual è la cosa che l’ha piùcolpita?
«I check point. Sono centinaia e spezzano la Cisgiordania in mille frammenti territoriali. Quei check point, assieme al Muro, isolano villaggi, spezzano comunità; quei check point sono l’espressione di un dominio che segna la quotidianità di decine di migliaia di palestinesi. Li prostra, li umilia. Essi mi riportano indietro nel tempo, al Sudafrica dell' apartheid».
Un parallelo pesante, monsignor Tutu. «Lo so e me ne dispaccio, ma la realtà è questa. Ed una realtà in cui un soldato può ergersi a giudice ed emettere sentenze senza appello. È un arbitrio che spesso si rivolge contro anziani, donne, che non chiedono di entrare in Israele ma di raggiungere un villaggio nella Cisgiordania...».
Israele giustifica questa pratica in nome della sua sicurezza.. «È un approccio errato, oltre che profondamente ingiusto. È l’impotenza della ragione mascherata con l’esercizio della forza. È un’illusione, una tragica illusione. È quello che provo a ripetere ai miei amici israeliani ed ebrei: Israele non potrà mai ottenere la sicurezza attraverso le recinzioni,i muri, i fucili. La sicurezza potrà essere realizzata solo quando i diritti umani di tutti saranno riconosciuti e rispettati. È una lezione della storia che viene dal mio Paese, il Sudafrica».
Assieme ad altri Nobel per la Pace, lei ha incontrato i pacifisti palestinesi e israeliani che animano le proteste del villaggio di Bi’ilin contro la costruzione del Muro.
«La loro è una testimonianza straordinaria di resistenza non violenta. Agli attivisti di Bi’ilin ho portato la mia solidarietà e il mio sostegno, ricordando loro che con la non violenza Gandhi riuscì a sconfiggere l’impero britannico e Martin Luther King a portare avanti la lotta per i diritti della gente di colore negli Usa. La disobbedienza civile è la giusta via per far valere i diritti di una comunità, di un popolo. È una scelta coraggiosa, lungimirante, eroica. Essa va sostenuta da ogni persona che crede davvero nella pace e nella giustizia».
Lei parla di disobbedienza civile, ma tra i palestinesi sono ancora in molti a perorare, e praticare, la lotta armata. «In passato ho avuto modo di interloquire con dirigenti di Hamas. Ha loro ho ripetuto che sparare missili contro le città israeliane ai confini con Gaza era doppiamente sbagliato: perché è sempre sbagliato colpire civili e perché quelle azioni avrebbero rafforzato quanti in Israele ritengono che esista una soluzione militare alla questione palestinese. La realtà, purtroppo, mi sta dando ragione. Mi lasci aggiungere, però, che non c’è giustificazione alcuna ai crimini di guerra compiuti nella Striscia da Israele durante l’operazione denominata “Piombo Fuso”. A denunciarlo sono le agenzie Onu impegnate a Gaza e le più importante associazioni umanitarie internazionali. A confermarlo sono anche le testimonianze di diversi soldati israeliani impegnati nelle operazioni militari. Resto convinto che l’unico modo per porre fine alle violenze e all’ingiustizia è che israeliani e palestinesi si siedano attorno a un tavolo per cercare insieme un compromesso accettabile per le due parti. Non esistono scorciatoie al dialogo».
Una affermazione che riecheggia quanto più volte affermato dal presidente Usa, Barack Obama. «Nutro molte speranze nel presidente Obama. Mi ha molto colpito il suo discorso del giugno scorso al Cairo. Obama ha creato molte aspettative nel mondo arabo, tra i palestinesi. Sta a lui non deluderle. Per questo è importante che passi al più presto dalle parole ai fatti”.
Dialogo e di negoziato. Con dentro o fuori Hamas? «I conflitti si risolvono trattando con i nemici, non con gli amici».❖

Repubblica 2.9.09
Quando la Shoah non avrà più testimoni
di Aharon Appelfeld


I sopravvissuti finora hanno sottratto lo sterminio degli ebrei alla sfera dell´incredibile Tra poco non resteranno che i bambini di allora, con la loro memoria senza filtri
Nel momento stesso in cui raccontano e rivelano, i superstiti adulti non possono non nascondere
Per i bimbi invece non c´era un prima, l´orrore era il latte nero che bevevano da mattino a sera

Sono passati sessantaquattro anni dalla fine della seconda guerra mondiale e mi sembra che stiamo entrando in un periodo nuovo nel nostro rapporto con la Shoah. La novità si fa sempre più visibile perché i sopravvissuti stanno lasciando questo mondo.
I sopravvissuti erano e rimangono il terrore di chiunque – storico o narratore – scriva della Shoah. Hanno montato la guardia affinché gli eventi fossero narrati nell´ordine giusto, luoghi e nomi non venissero omessi e i particolari non fossero distorti. Per loro era indispensabile che la Shoah fosse raccontata nei suoi esatti dettagli. Sono stato rimproverato più di una volta da sopravvissuti per essere stato inesatto o per aver descritto ciò che avvenne durante o dopo la Shoah con toni critici nei confronti delle vittime.
Per il sopravvissuto, la memoria cronologica era un´àncora cui sia aggrappava con tutte le sue forze. La scrittura d´immaginazione sul tema della Shoah è stata considerata – e lo è tuttora – un atto sproporzionato rispetto alla gravità del tema. Spesso si sente affermare: sulla Shoah non si gioca con le parole né con la forma letteraria, ma si raccontano le cose com´erano, il più precisamente possibile. E´ vietato l´accesso a questo tema da parte di qualsiasi elemento creativo che non sia la memoria. Non è un caso che gran parte delle opere scritte sulla Shoah siano di natura storica: quelle psicologiche o teologiche sono una minima parte e quelle di fantasia sono pochissime. E´ ben vero che sull´argomento è stata prodotta un´abbondante letteratura sensazionalistica, ma le opere letterarie contenenti una verità profonda sono talmente rare che potrebbe contarle un bambino.
Memoria e commemorazione erano l´energia che alimentava i sopravvissuti: essi non dimenticavano mai il solenne impegno di raccontare tutto, di non trascurare neanche un angolino, di accerchiare l´orrore da ogni parte. Ma ormai siamo giunti sulla soglia di una nuova fase in cui la storia della Shoah dovrà andare avanti senza più sopravvissuti. Finché loro sono vissuti fra noi, la Shoah è stata una presenza estremamente tangibile: aveva un nome, in cognome, una città e un villaggio. Con la sua presenza, con i suoi silenzi, il sopravvissuto dava voce all´orrore. Lo incontravi per strada, a casa sua, alle cerimonie commemorative, insomma ovunque.
La costante presenza del sopravvissuto fra noi ha sottratto la Shoah alla sfera dell´incredibile e l´ha introdotta in quella del visibile. Se mai qualcuno dubitava del male che l´uomo può fare all´altro uomo, degli abissi di barbarie cui può giungere, arrivava il sopravvissuto e glielo spiegava.
Adesso che i sopravvissuti ci lasciano a uno a uno, si avverte un timore: come proseguirà la storia della Shoah senza di loro? In altre parole, come faremo a preservare l´individualità e l´intimità che il sopravvissuto conferiva a quell´esperienza atroce?
Ebbene, oggi sta venendo in primo piano una figura diversa di sopravvissuto. Penso a tutti coloro che allo scoppio della guerra erano bambini: la loro memoria è una memoria diversa, e diverso è il loro modo di esprimere gli eventi. Per tanti anni, i bambini non sono stati annoverati fra i sopravvissuti e il loro ricordo non è stato considerato ricordo. Ora, per comprendere il carattere della memoria del bambino, è importante capire la diversa natura della testimonianza del superstite adulto.
Sulla Shoah è disponibile un corpus imponente di testimonianze scritte, ma chi le studia a fondo non tarda ad accorgersi che esse mancano di introspezione: in effetti, per la maggior parte non sono che cronache. Tutto ciò che si è palesato all´ebreo in quegli anni era al di là della sua ragione e della sua anima. L´ebreo si è trovato nel punto esatto in cui è avvenuto l´orrore, e una volta libero ha desiderato poterlo considerare un incubo, uno strappo nella vita che andava rimarginato il prima possibile: un orrore che non meritava una considerazione spirituale, ma soltanto una maledizione.
Nel momento stesso in cui racconta e rivela, il sopravvissuto adulto nasconde. Perché non può non dire, ma non può neanche ammettere che l´accaduto non lo ha cambiato. E´ rimasto la stessa persona, legata agli stessi, vecchi concetti di civiltà.
Le testimonianze della Shoah vanno quindi lette con attenzione, se non si vuol vedere soltanto ciò che contengono ma anche – ed essenzialmente – ciò che ne manca. La testimonianza del sopravvissuto è innanzitutto la ricerca di un sollievo: ho fatto ciò che dovevo fare. Ma che cosa è veramente intercorso fra lui e l´orrore, durante i suoi anni di sofferenza? Che cosa è cambiato dentro di lui, e come sarà la sua vita d´ora in avanti? Le risposte a queste domande, mi sembra, non si troveranno mai. Aggiungo subito, per evitare malintesi, che la letteratura di testimonianza è indiscutibilmente l´autentica letteratura della Shoah. E´ un colossale serbatoio di cronologia ebraica.
Oggi però ci accostiamo a quanti erano bambini durante la Shoah, e la loro è una testimonianza diversa. I bambini non hanno assorbito l´orrore nella sua pienezza, ma soltanto per quella porzione che un bambino era in grado di assimilare. I bambini non hanno il senso della cronologia, del raffronto con il passato. Se il sopravvissuto adulto parlava di ciò che era stato prima della guerra, per i bambini la Shoah era il presente, era la loro infanzia e la loro giovinezza: non conoscevano altra infanzia, né conoscevano la felicità. Erano cresciuti nel terrore. Non conoscevano altra vita. Mentre gli adulti fuggivano da se stessi e dai loro ricordi, rimuovendoli e costruendosi una vita nuova al posto di quella di prima, i bambini non avevano una vita precedente oppure, se l´avevano, era ormai stata cancellata. La Shoah è il latte nero – come dice il poeta – che essi bevevano al mattino, a mezzogiorno e la sera.
Questo aspetto psicologico si carica anche di un significato ideologico. La Shoah è molto spesso concepita, anche dalle sue vittime, come una follia, un´eclissi, un episodio che non appartiene al normale flusso del tempo, un´eruzione vulcanica da cui ci si deve guardare, ma che non fornisce alcuna indicazione sul resto della vita. Le vittime hanno cioè respinto ogni possibilità di considerare la Shoah come vita, come vita nella sua forma più spaventosamente concentrata, sul piano sia esistenziale che sociale. I numerosi libri di testimonianza che sono stati scritti sulla Shoah sono, se vogliamo, un disperato tentativo di ricacciare la Shoah in un angolo remoto di follia, di tagliarla fuori dalla vita, o in altri casi di circondarla di una specie di aura mistica, inattingibile, parlandone come di un´esperienza che non si può esprimere a parole, ma semmai con un prolungato silenzio.
Invece nel caso dei bambini cresciuti all´epoca dello sterminio, la vita durante la Shoah è qualcosa che potevano capire, perché l´avevano assorbita attraverso il sangue. Quei bambini hanno conosciuto l´uomo come bestia da preda: non in senso metaforico, bensì come una realtà fisica, in tutta la sua statura, con i suoi panni indosso, col suo modo di stare in piedi o seduto, col suo modo di accarezzare il proprio figlio e picchiare il bambino ebreo.
I bambini stavano seduti per ore a osservare. Fame, sete e debolezza li dotavano di grande acume percettivo. Ma anziché gli assassini, essi osservavano i propri padri e fratelli maggiori, nella loro debolezza e nel loro eroismo. E quelle immagini sono rimaste impresse su di loro, così come l´infanzia si stampa sulla matrice della carne di ognuno.
(Traduzione di Marina Astrologo)

il Riformista 2.9.09
Sexgate Nuovi scenari nelle indagini dei pm baresi: non c'è pace per il governatore
Non solo escort, Tarantini offriva anche disoccupate
E intanto Vendola scivola su un'intervista a El Pais
di Samantha Dell'Edera


Donne disperate e senza lavoro, disposte a offrirsi ai politici in cambio di un posto. Il sistema dell'imprenditore che portò la D'Addario a Palazzo Grazioli comprendeva anche questo. Nei guai due ex assessori regionali. E intanto Vendola scivola su un'intervista a El Pais. Costretto a rettificare su alcune frasi su Fitto: «Eccesso di sintesi».

Bari. Una donna, maltrattata per anni e poi fuggita dal marito, alla ricerca di un impiego stabile per aiutare i suoi due bambini. Un'avvocatessa salentina di 28 anni con il sogno di intraprendere una carriera nella pubblica amministrazione. Sono solo due esempi di un traffico che la procura di Bari sta portando alla luce in queste ore: donne disperate e disoccupate, disposte a prostituirsi, ad offrire il loro corpo ai politici, in cambio di un posto di lavoro.Tra i personaggi coinvolti spiccherebbero i nomi di due ex assessori della prima giunta guidata da Nichi Vendola, non ancora iscritti nel registro degli indagati perché su di loro sono in corso accertamenti da parte della Guardia di Finanza. Secondo l'inchiesta, guidata dai pm Roberto Rossi e Lorenzo Nicastro, risulterebbe che Giampaolo Tarantini, imprenditore barese a capo della Techno Hospital, azienda che si occupa di forniture sanitarie, avrebbe messo a disposizione dei due ex assessori regionali prestazioni sessuali non solo escort da lui pagate, ma anche donne disoccupate alla ricerca di un impiego alla Regione Puglia o alla Camera di Commercio.
Nel corso delle indagini è stato appurato che, dopo aver consumato un rapporto sessuale con una escort, uno dei due assessori sarebbe andato a pranzo con Tarantini e la stessa donna per poter parlare di lavoro. Interrogata, però, la giovane escort non avrebbe riferito alcun particolare di quella conversazione.
Il nuovo filone di inchiesta è scaturito per caso, da alcune intercettazioni: gli investigatori infatti stavano indagando sull'esistenza di una presunta associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e al falso, alla quale avrebbero preso parte sei indagati, tra dirigenti, imprenditori e funzionari dell'assessorato regionale alla Sanità. Ma sull'intreccio tra politica e malaffare nella sanità pugliese sta indagando anche la pm Desirè Digeronimo: obiettivo del magistrato è di svelare il giro di appalti pilotati che fino ad ora ha portato ad iscrivere nel registro degli indagati sedici persone (tra le quali l'ex assessore regionale alla Sanità Alberto Tedesco).
Sono state ipotizzate anche operazioni sospette da parte di alcuni imprenditori baresi che avrebbero finanziato partiti in cambio di appalti e incarichi nel settore sanitario. In seguito alle ultime novità sull'indagine, ieri il Pdl regionale ha puntato il dito contro l'operato del presidente della Regione Nichi Vendola, mentre il ministro per gli Affari regionali Raffaele Fitto ha condannato l'intervista del governatore rilasciata al quotidiano spagnolo El Pais, nelle quali Vendola afferma: «Fitto, il suo aiutante Tato Greco e Tarantini sono tutti figli di papà senza la minima cultura istituzionale che hanno utilizzato una relazione distorta con le donne, il potere e la Chiesa per occupare il territorio. Hanno formato la cupola di una criminalità dal colletto bianco che ha sostituito la mafia». «Sono certo che dev'esserci stato un errore macroscopico o da parte di chi ha trascritto l'intervista o da parte di chi l'ha tradotta e richiamata sulla stampa locale. Quindi - afferma Fitto - mi auguro e sono certo che entro 24 ore il presidente Vendola vorrà smentire categoricamente di aver rilasciato quelle false e gravissime dichiarazioni nei miei riguardi. In caso contrario mi vedrò costretto ad agire di conseguenza».
Pronta la risposta del governatore pugliese. «Si è trattato di un colloquio durato quasi due ore che il bravo giornalista Miguel Mora ha dovuto, in alcuni tratti, per evidenti ragioni di spazio, tradurre in forma assai sintetica. L'eccesso di sintesi, nel caso del mio pensiero sul ministro Fitto, ha portato a mescolare cose tra loro diverse: il giudizio su una linea politica e persino su uno stile di vita pubblica è cosa differente dalla criminalità dei colletti bianchi; il rapporto malato con le donne e con il sesso è tema drammaticamente attuale ma imputabile al maschilismo imperante piuttosto che a uno schieramento politico; il tema del rapporto tra politica e Chiesa cattolica è troppo complesso e serio per essere ridotto ad una battuta. Mi spiace che l'eccesso di sintesi possa esser stato inteso, a causa del virgolettato, come un deliberato intento di offesa. Così non è».

il Riformista 2.9.09
Le donne della giunta Vendola
di Peppino Caldarola


La giunta Vendola non esce dalla bufera. Ieri su "Repubblica.it" c'erano le anticipazioni di un nuovo filone dell'inchiesta giudiziaria di Bari sulle escort che Tarantini, l'imprenditore inquisito, forniva per ottenere appalti nel campo sanitario. Scrive "Repubblica.it" che due ex assessori della prima giunta Vendola sono accusati, sulla base di intercettazioni telefoniche, di aver avuto rapporti con le ragazze procurate dal Tarantini. Non si fanno i nomi dei due assessori, ma basta guadare l'elenco dei non riconfermati per capire di chi si tratta. Questo nuovo filone aperto dalla magistratura di Bari è ancora più odioso degli altri. Le escort fornite da Tarantini cercavano lavoro e per questa ragione si prostituivano. Si racconta il caso di una giovane donna picchiata dal marito che in cambio di prestazioni sessuali con un ex assessore avrebbe ottenuto un posto in un ente pubblico. Uno degli ex assessori dopo gli incontri sessuali portava a pranzo la giovane donna che ha dichiarato di non ricordare gli argomenti di conversazione perchè "distratta". Se ho capito di chi si parla comprendo la noia della ragazza costretta a passare il tempo con uno degli uomini più noiosi del Mezzogiorno. Vendola ovviamente non c'entra con questa storia di donne. Ma fa una certa tristezza vedere la sua giunta, nata con tante promesse, naufragare per una storia di donne che si prostituivano per povertà e che venivano fornite a politici che avevano fatto della questione morale la loro bandiera.

il Riformista 2.9.09
Bertinotti dai democrat spara sul Pd
«È il problema, rifacciamo la sinistra» fausto. Alla festa di Genova: «La Linke? Non vedo l'equivalente in Italia». «Sbagliato sposare le tesi del liberalcapitalismo, la soluzione è costruire un grande partito». In Italia «regime leggero».
di Marco Innocente Furina



Mentre il segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero, dal palco della festa democratica di Genova si intesta la vittoria della Linke in Germania («ha vinto l'alternativa al sistema»), a pochi metri di distanza Fausto Bertinotti, "ispiratore" politico di Sinistra e Libertà, girando tra gli stand del Porto antico, lo smentisce con malcelato fastidio: «Un equivalente della Linke in Italia non c'è. Un partito che sia capace come quello di prendere il 20 per cento non lo vedo». Ma poi, incalzato dalle domande dei cronisti, dà una lettura della vittoria della sinistra radicale tedesca molto simile a quella dell'ex collega di partito: «Bisogna domandarsi perché la sinistra vince in tutto il mondo, Sudamerica, India, mentre da noi, a parte eccezioni, stenta». Perché? «Perché in Europa la sinistra ha sposato, sbagliando, le tesi del liberalcapitalismo». Di paralleli con la situazione tedesca non ne vuol sentire («provincialismo»). Ma poi parla con entusiasmo della forte socialdemocrazia di quel paese, e spiega: «La soluzione è costruire un grande partito di sinistra».
Il Bertinotti in salsa teutonica, cita la dialettica di Hegel: «Di sinistre ne avevamo due, ora nessuna, bisognerà riaverne una». Il sogno di Fausto è questo da tempo, un grande partito capace di riportare in auge i temi cari all'esperienza della sinistra italiana. E magari tornare al governo. Calma: «Primum vivere», intanto rinasciamo, poi si vedrà, risponde l'ex presidente della Camera. E il Pd? «Il Pd non è la soluzione del problema, è il problema».
Tornato monoteista (una sola sinistra, un solo partito), parla pure di Berlusconi. Quello italiano è un «regime leggero», che in questi ultimi giorni ha subito «un'accelerazione». Ma attenzione, il premier non è liquidabile come un'anomalia italiana, piuttosto è il caso specifico all'interno di una tendenza mondiale. Quella della tecnocrazie internazionali che impongono la loro visione. A tutti, anche «alla Chiesa», che pure con questo governo ha istaurato un «rapporto di scambio».
Fausto Bertinotti è a Genova per parlare del suo libro, Devi augurarti che la strada sia lunga. Un racconto di vita, un'autobiografia politica e umana la cui origine ha una data precisa: Il 14 aprile 2008. Il Dies orribilis della sinistra italiana, che dopo più di 100 anni di ininterrotta presenza (eccetto il periodo fascista), scompare dal Parlamento. Spazzata via dal vento di destra che percorre il paese e dalla teoria, e dalla pratica, del «voto utile». Allora è tempo di bilanci per chi, come l'ex presidente della Camera, alla costruzione di un'aggregazione di sinistra alternativa, radicale - ma lui direbbe semplicemente «di sinistra» - ha dedicato gli ultimi 15 anni della sua vita. Da questa riflessione nasce quest'opera che, ironia della sorte, Bertinotti presenta in un luogo doppiamente simbolico: la festa nazionale del Pd a Genova. Doppiamente simbolico perché avviene proprio qui, a Genova, dove il primo partito operaio, quello socialista, mosse i suoi primi passi più di un secolo fa; e perché Bertinotti parla davanti alla platea di quel partito che lui considera la deriva confindustriale e moderata dell'esperienza della sinistra italiana.
Una deriva a cui non bisogna arrendersi. Perché la sinistra va ripensata ma non abbandonata. Il primo ad ammettere gli errori compiuti è proprio lui, il leader che forse ingenerosamente in molti ricorderanno solo per la decisione di negare la fiducia al primo governo Prodi: lo spazio per la teoria dei due forni - due formazioni di sinistra: una moderata di governo e una radicale più vicina alla base - non c'è più, spiega. Serve un nuovo, grande partito. Questa la tesi del libro che non piacerà a molti dirigenti democratici, ma che, forse, toccherà i sentimenti di molti militanti, come quelli che qui a Genova hanno applaudito con calore Pierluigi Bersani.

L’Altro 17.8.09
Viva Nichi Vendola!
di Fausto Bertinotti


Viva Nichi Vendola! Questa è la mia risposta - la prima, la più immediata ma anche quella più meditata - alle vicende pugliesi. Non è solo la solidarietà che è giusto e doveroso esprimere a un amico, a un compagno di lunghissimo corso, con il quale si sono condivisi una stagione, molte sconfitte, qualche successo. E' anche e soprattutto un'idea della politica. Non malgrado, ma proprio in virtù del legame che ci unisce, sento la necessità di rivendicare, prima di ogni altra cosa, una presunzione di verità politica che è interamente dalla sua parte. Tanto più in una fase come questa, nella quale, anche nella sinistra in disfacimento, scatta invece la mera logica del "contro", quasi oramai come un vestito che ci si è cuciti addosso. Da parte mia, appunto, avverto come prioritaria l'idea di appartenenza pubblica. Nichi e io abbiamo fatto parte, facciamo tutt'ora parte, della stessa comunità politica scelta - una nozione che va ben oltre quella di partito e che ci richiama a quella diversità che è forse la ragione qualificante della nostra intrapresa.
Siamo diversi non perché migliori o antropologicamente surdeterminati, ma perché ci muove l'ambizione di cambiare il mondo. Siamo diversi non in quanto singole persone o ceto politico, ma perché rispondiamo a quella comunità, a quella storia collettiva, a quelle speranze di cambiamento - e l'azione della politica è solo l'ancella, per quanto privilegiata - di questa prospettiva.
uesto è l'essenziale nella storia di Nichi Vendola, da giovane comunista a governatore della Puglia, da brillante intellettuale a leader politico nazionale.
Questo è ciò che vale e che va rivendicato. Ma allo stesso tempo non è forse questo anche il metro garantista che ci dovrebbe guidare sempre, tutte le volte cioè che il potere giudiziario coinvolge l'autorità politica? Per noi l'autonomia della magistratura è un fondamento, quasi sacro, della civiltà moderna.
E anche in questa circostanza non possiamo che ribadire l'auspicio di sempre che "la giustizia faccia il suo corso". Solo che, nell'inchiesta pugliese, si sta verificando un paradosso pressoché clamoroso: il garantismo, che serve a tutelare chi è sottoposto a un'indagine che sfonda sulla presunzione di innocenza di chi è accusato, e gli fornisce gli strumenti necessari di difesa, almeno fino a quando non sia emesso un verdetto, da strumento nobile si va rovesciando nel suo contrario.
Nichi Vendola non è accusato di alcun reato, ne è soggetto ad un inchiesta specifica che lo riguardi: perciò nel nome di regole garantiste formalmente proclamate, nei suoi confronti viene brandita una vera e propria fiera del sospetto.
Scatta un'impressionante meccanismo mediatico accusatorio e scatta la sovrapposizione costante della figura di Nichi Vendola a la nozione di reati, ruberie, corruzione. E si leva un coro di condanna preventiva.
Perché? In verità, la natura di questa offensiva è sotto gli occhi di tutti, quotidianamente, ed è molto chiaro l'obiettivo che si propone: la demolizione di una personalità e di un'esperienza politica.
Non è una persecuzione dettata da chissà quale malevolenza. Non è un complotto classico. E' una risposta della politica conservatrice. Giacché Nichi Vendola è la Puglia - la Puglia che vuole cambiare, la Puglia che fa eccezione alle sconfitte che colpiscono nel resto d'Italia la sinistra e il centro sinistra.
Nichi ha reso possibile ciò che sembrava impossibile: prima, trasformare le primarie in un vero e proprio "patto col popolo", che assomiglia alle più avanzate esperienze dell'America latina assai di più che non all'esangue e spettacolare ritualità della Sinistra Europea; poi, proseguire in un azione di governo innovativa, che ha scosso molti interessi forti della società pugliese e costruito una mobilitazione della società civile che incarna le istanze gramsciane.
Lo ha fatto, come dicevamo, in controtendenza mentre la sinistra offriva di sé le note cattive prove - e non ha lavorato soltanto sul terreno del riscatto del sud, ma si è mosso nella direzione di un nuovo meridionalismo in stretta connessione con il Mediterraneo.
Ora, neppure sugli anni di governatorato di Nichi Vendola fin qui realizzati, rinunciamo alle virtù della critica e dell'autocritica. L'eccezione pugliese ha avuto, continua ad avere, i suoi limiti. Eppure resta un eccezione del tutto singolare nel panorama italiano.
Questo, ancora, è l'essenziale. Questo dovrebbe essere il criterio che guida tutta la sinistra, di qualunque orientamento.
Invece la sinistra appare del tutto inadeguata: non difende Vendola, oscilla tra l'invettiva giustizialista e mille giochi tattici di corto, cortissimo respiro. E' un segno inequivocabile della sua crisi strategica ma anche della sua incapacità di fronteggiare davvero l'offensiva degli avversari. Accade così che, dall'antica alterigia e presunzione di immunità rivendicata per tutti i suoi membri, si è passati alla propensione diametralmente opposta: non tutti eguali davanti alla legge, come è giusto che sia, ma tutti eguali!
Accade così che si getta via il bambino (le ragioni politiche ideali della diversità) insieme all'acqua sporca (la presunzione) e si offrono nuovi varchi alla deriva populista. Accade, ancora, che si è diventati incapaci di capire quali sono gli interessi materiali concreti colpiti, la loro reazione,la necessità di fronteggiarla - e con quali strumenti.
Anche qui con un rovesciamento culturale che ha dell'incredibile: dall'antica fissa giacobina del "complotto reazionario" che si vedeva sempre dietro l'angolo, si è passati alla cancellazione totale di ogni analisi delle forze in campo.
Come se la politica fosse di colpo diventata neutrale. Ma che in Puglia gli interessi colpiti si stiano mobilitando per mettere fine alla anomalia che Nichi Vendola rappresenta, e per riportare la regione all'ordinaria condizione del quadro italiano, a me pare evidente. Palmare.
Dunque, lo ripetiamo: la giustizia faccia il suo corso. Ma contemporaneamente la politica faccia la sua parte. Prenda parte.

il Riformista 2.9.09
Rivaluto Gramsci e voto Bersani
di Francesco Cossiga


Caro direttore, ho letto in un qualche giornale (ne leggo molti, e ormai la memoria,almeno quella recente, mi falla…) che vi è stato qualcuno nel Partito democratico, in questa vigilia di congresso arroventata, e non soltanto dalla calura di stagione, che ha avuto da ridire del richiamo al pensiero di Antonio Gramsci formulato dal Presidente della fondazione intitolata al grande filosofo, filologo e politico sardo, come pensiero che potrebbe informare la cultura del partito che si è soliti denominare di "centrosinistra".
Non sono iscritto a questo partito, nelle ultime elezioni politiche generali ho votato per esso, pur non sapendo bene per che cosa mai votassi, ma anche per il fatto che nel suo Statuto le primarie per la designazione del segretario sono aperte a tutti, penso di poter dire una mia parola in proposito.
Ho sempre sostenuto anche sulle colonne del tuo o del "nostro" giornale (posso chiamarlo così?) che un partito deve aver ancora oggi alla sua base una cultura e che oggi sul piano pratico non esiste, almeno in Europa, altro "riformismo" che non sia quello di cui sono espressione i partiti socialisti o socialdemocratici; il riferirsi come spesso fanno alcuni democrat al partito democratico degli Stati Uniti d'America è fuorviante perché il contesto storico e culturale di quel Paese è del tutto differente da quello italiano ed anche europeo e perché, come dimostra l'esperienza politica e di governo dell'amministrazione Obama, quel partito ha nei suoi ranghi, anche parlamentari, una gamma per così dire ideologica che va dai "neocon", con annessi "teocon" a quasi-trotskisti, macchiati dalla "tabe" dell'estremismo che il grande Lenin definiva malattia infantile del comunismo!
Mi sembra di aver letto che il vizio politico-culturale di Antonio Gramsci risiederebbe nel fatto che egli ha cercato di attualizzare il pensiero "egemonico" di Lenin nella realtà culturale italiana facendo riferimento all'archetipo machiavelliano de "Il principe" ed evocando altresì lo spettro della "dittatura" staliniana, che fu ben lontana dall'idea leninista di Stato e società, e dimenticando altresì che Antonio Gramsci fu antistalinista e che proprio per questo fu forse, come ho appreso in gioventù da Sandro Pertini, espulso dal Partito Comunista d'Italia.
Per questo, il Partito democratico per darsi una cultura potrebbe ben riferirsi al pensiero di Antonio Gramsci e nell'analisi dei fenomeni economici e sociali applicare i canoni del marxismo.E senza ricorrere a quella che fu la posizione politica e culturale di Franco Rodano e di Felice Balbo, ben i cattolici potrebbero militare in un siffatto partito, solo riferendosi al pensiero esposto in un libro non a caso intitolato "Il Capitale", scritto dal successore di Joseph Ratzinger sulla cattedra di Freising-Monaco, Monsignor Reihnard Marx, il quale, nel presentare il suo libro, disse che male avevano fatto i cattolici a dimenticare Marx e che «Marx non è morto ed è bene prenderlo sul serio». Non credo che Dario sia più ortodosso di Monsignor Marx.
Il recupero del pensiero di Karl Marx e di Antonio Gramci, e dello stesso Lenin nella cornice delle libertà individuali classiche declinate con il principio di eguaglianza, rivalutando il concetto di classe e anche quelli di lotta di classe modernamente inteso secondo il nuovo assetto delle classe dirigenti e dei poteri economici, sociali e tecnologiche al fine di costruire nuovi modelli di organizzazione della produzione volta alla massimizzazione del valore lavoro sia intellettuale che materiale. E questo per dare al paese e alla classe lavoratrice:contadina, operai, tecnica e insieme al Paese una sinistra moderna che si esprima in un partito socialista nuovo.
Di questo il Paese ha bisogno per una vera dialettica politica, sociale, culturale ed economica, un partito laico che riconosca il diritto di chi porta valori "non laici" a battersi per testimoniarli anche politicamente, nel Paese e nelle istituzioni.
Convinto che questo partito serva al Paese e alla democrazia, io cattolico e liberaldemocrat nelle primarie del Partito democratico voterò per Pierluigi Bersani, anche a motivo dell'endorsement ottenuto dall'amico Massimo D'Alema.



Repubblica 2.9.09
Accordo con Google Digitalizzati a Firenze 300 mila libri


FIRENZE – Potrebbe cominciare dalla Biblioteca Nazionale di Firenze il «matrimonio» d´interesse con Google. E potrebbe cominciare da un accordo per digitalizzare 300 mila libri, dalla metà del ‘400 al 1870, volumi cioè liberi dal copyright: «Chi decide sarà il direttore generale per la valorizzazione dei Beni culturali Mario Resca, ma se volete il mio parere, io sono favorevole», dice Antonia Ida Fontana, direttrice della Biblioteca Nazionale fiorentina, custode di un patrimonio di sei milioni di testi. Proprio oggi pomeriggio, la direttrice sarà al ministero per discutere la questione e mettere nero su bianco le prime proposte, anche se un nuovo incontro tra Google e il direttore generale avverrà intorno alla metà di settembre. «Mi sembra una grossa opportunità per divulgare la cultura italiana nel mondo, noi non abbiamo le risorse per digitalizzare tutto quello che possediamo, Google libri ci offre questa occasione, dunque parliamone e fissiamo noi dei paletti».
La prima condizione, secondo la direttrice della Nazionale, è la gratuità: «La consultazione del volume online deve essere libera, a disposizione di tutti, mentre si può pensare a un eventuale download a pagamento: in questo caso allora la Biblioteca Nazionale potrebbe stabilire delle royalties». L´accordo, secondo Antonia Ida Fontana, dovrebbe riguardare un periodo di tempo limitato, «dai cinque ai vent´anni, la discussione è aperta» e alla Biblioteca Nazionale dovrebbe andare anche una copia per ciascuna digitalizzazione. Perché soltanto libri fino al 1870? «Perché in questo caso abbiamo la garanzia che sono opere libere dal diritto d´autore», risponde la direttrice.

Repubblica Firenze 2.9.09
"Su Google 300mila libri della Nazionale"
Le proposte della direttrice per il primo accordo italiano con il colosso di Internet
Solo volumi anteriori al 1870: "Consultazione gratis, il download si può pagare"
di Laura Montanari


La grande biblioteca in riva all´Arno è pronta a spalancare le porte al mondo e «liberare» 300mila dei suoi sei milioni di volumi, offrirli a Google per digitalizzarli e mostrarli gratis, online a chiunque voglia leggerli. Volumi dal Quattrocento al 1870, cioè senza più copyright. «Sono favorevole al progetto, può essere un´opportunità, noi non abbiamo le risorse per digitalizzare il nostro patrimonio» spiega Antonia Ida Fontana, direttrice della Biblioteca Nazionale di Firenze precisando anche che comunque non sarà lei a decidere: «Spetta al direttore generale per la valorizzazione del patrimonio culturale del ministero Mario Resca». Ma il parere di Ida Fontana conta, così tanto che oggi sarà a Roma al ministero per mettere nero su bianco i paletti del possibile accordo con il più cliccato, amato e odiato motore di ricerca. Google, una potenza nel mondo della rete tanto da suscitare sospetti e timori: in Austria e in Germania un gruppo di intellettuali guidati da Gunter Grass si oppongono all´affitto di un´ampia fetta del patrimonio letterario al colosso americano. A Firenze la direttrice della Nazionale la pensa diversamente: «Basta essere chiari e mettere dei paletti, il nostro obiettivo è promuovere il più possibile la cultura italiana nel mondo, noi chiediamo che i testi siano consultabili a tutti gratuitamente online. Poi possiamo metterci a un tavolo e discutere se il download di un´opera possa essere a pagamento e in questo caso la Nazionale dovrà percepire delle royalties».
«La Biblioteca Nazionale secondo me si può impegnare soltanto per quei volumi liberi dai diritti d´autore, cioè quelli fino al 1870 con qualche flessibilità a seconda dei casi e valutando eventuali eccezioni». Per Google l´accordo con la Nazionale è di importanza strategica per sbarcare in Italia con il progetto della «biblioteca universale» che mette a portata di mouse il sapere delle diverse parti del mondo facendolo entrare ovunque ci sia un computer e una connessione. Tra i 300mila volumi che potrebbero passare dagli scaffali della Nazionale alla rete c´è un pezzo di storia, di scienza, di letteratura. Ci sono Dante, Petrarca, Manzoni, ci sono Galileo, Ariosto, Tasso, Petrarca, Machiavelli, Guicciardini, Pero, Cantù e centinaia di nomi che si inseguono nelle pagine di poesie, poemi, romanzi, trattati, saggi. «A mio avviso bisognerà coinvolgere anche la Biblioteca Nazionale di Roma, quella di Napoli e di Venezia, cioè dei grandi centri di tipografia che hanno stampato volumi fino al Settecento» spiega Fontana.
Le biblioteche hanno fondi scarsi, problemi di organici e di spazi insufficienti, l´offerta di Google si presenta interessante, ma anche un passaggio delicato, un salto nel futuro (già cominciato, cliccare su Google libri per saperne di più). La direttrice della Nazionale lo sa e insiste sulle condizioni per l´accordo: la durata, «io penserei a un tempo fra 5 e 20 anni», la gratuità e l´obbligo per Google a fornire una copia di ogni volume in digitale alla stessa Nazionale in modo da dotarla di una biblioteca parallela, non cartacea. Il nodo resta quello di cedere, in affitto temporaneo, un grande patrimonio: perché a Google? «Perché si è fatto avanti - risponde la direttrice - e possono fare un notevole investimento. Per digitalizzare 300mila volumi, calcolando una media di 200 pagine a libro, serviranno circa 60 milioni di euro». E se domani si facesse avanti Microsoft o Yahoo alle stesse condizioni? «Penso che l´esclusiva a Google sia necessaria per quei 300mila volumi, ma noi ne abbiamo 6 milioni. Si valuterà». Nelle prossime settimane nuovo incontro tra il ministero e il più importante motore di ricerca nella rete.

il Riformista 2.9.09
Settembre ’39. Meno tre giorni all'inferno
di Richard Overy


NUOVA USCITA. Arriva in Italia "Sull'orlo del precipizio", il nuovo libro dello storico inglese Richard Overy. Un diario struggente che ripercorre le ultime tesissime ore dell'Europa prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. È il 3 settembre di 70 anni fa. Da quel giorno il mondo non sarà più lo stesso.

Anticipiamo per gentile concessione dell'editore un estratto del libro di Richard Overy "Sull'orlo del precipizio. 1939, i dieci giorni che trascinarono il mondo in guerra" (ed. Feltrinelli, 160 pp., euro 14) da oggi in libreria.

La pace mancata - 3 settembre 1939
Il 3 settembre è il giorno in cui iniziò la guerra mondiale. Il romanziere inglese Storm Jameson racconta che cominciò «in una giornata di insolita bellezza, di sole limpido e caldo, di nuvole di un candore abbacinante sotto un cielo azzurro, con un insistente vento carezzevole». Finalmente, di fronte alla realtà, caddero le illusioni, da entrambe le parti, che l'avversario avrebbe ceduto. Questo giorno sarà sempre ricordato come il giorno di Chamberlain, mentre il primo settembre era stato quello di Hitler. Andando contro il proprio carattere e le proprie speranze, Chamberlain si vide costretto a dichiarare una guerra che non voleva. Anche se gli storici l'hanno sempre ritenuto piuttosto carente di coraggio, il passo finale di una dichiarazione dalle implicazioni profonde e di grande portata fu sicuramente un atto coraggioso. E non meno coraggiosa (...), fu la dichiarazione di guerra fatta poche ore dopo da Daladier, la cui ripulsa morale delle armi era potente quanto quella di Chamberlain, eppure non gli impedì di ammettere che sarebbe stato vano evitare un confronto diretto con la Germania di Hitler. I leader democratici non godono della disinvoltura che caratterizza i dittatori quando decidono di scatenare una guerra.
Il mattino del 3 settembre il cielo era coperto. Nella tarda serata si era arrivati alla decisione definitiva di presentare un ultimatum a breve scadenza, e durante la notte non era successo nulla che potesse cambiare le carte in tavola. Halifax arrivò al ministero degli Esteri britannico alle dieci del mattino, ma scoprì che «non c'era niente da fare». Fu poi informato che Nevile Henderson aveva consegnato l'ultimatum come gli era stato detto, quindi alle 10.50 arrivò una telefonata di Dahlerus, il quale suggerì di invitare immediatamente Göring per un colloquio finale. Cadogan ha poi raccontato di aver gridato «Col cavolo!» allo svedese, mentre Halifax diede una risposta più ponderata, anche se il senso era uguale. Alle 11 Halifax e Cadogan si recarono a piedi fino a Downing Street per sentire gli esiti dell'ultimatum. La strada era affollata di londinesi. Nelle fotografie vediamo di solito una folla entusiasta, tutta sorrisi e Union Jack. Al numero 10, la Bbc aveva improvvisato uno studio perché Chamberlain potesse rivolgersi via radio alla nazione. Alle 11.10, dieci minuti dopo la scadenza dell'ultimatum britannico, non essendo arrivate novità da Berlino, il primo ministro ordinò ai vari dipartimenti militari di «ritenersi in guerra». (...)
A Berlino, dove il governo, incerto sino all'ultimo sulle intenzioni di Francia e Gran Bretagna, si vedeva imposta una guerra a proposito della quale Hitler aveva ribadito a più riprese che non si sarebbe mai materializzata, si stava svolgendo un dramma diverso. Le indicazioni a Nevile Henderson di consegnare di persona l'ultimatum al ministero degli Esteri tedesco arrivarono alle cinque del mattino, anche se Hitler era già stato avvertito di attenderselo con un telegramma segreto inviato dall'ambasciata tedesca a Londra, giunto nella tarda serata. Poco prima delle nove di sera Henderson entrò nell'edificio, ma trovò soltanto Paul Schmidt, l'interprete di Hitler. I due si fronteggiarono imbarazzati mentre Henderson leggeva il breve ultimatum, poi Schmidt corse alla cancelleria del Reich dove trovò una folla ansiosa di funzionari e soldati in attesa. Appena fu ammesso alla presenza di Hitler e Ribbentrop, lesse lentamente l'ultimatum. Scrisse poi nelle sue memorie: «Quando terminai ci fu un gran silenzio. Hitler era seduto immobile e guardava nel vuoto». Dopo qualche secondo, il Führer si girò verso Ribbentrop con aria inferocita e chiese: «E adesso?».
Hitler stava contemplando la prospettiva di una grande guerra paneuropea, che sperava di evitare senza ritenerlo del tutto possibile. In un certo senso, come Chamberlain, aspettava che fosse qualcun altro a decidere, assumendosi sia la responsabilità sia, in un secondo tempo, la colpa. Ciò nonostante, come scrisse in seguito il suo primo addetto stampa Otto Dietrich, era «facile capire quanto fosse scosso». Aveva creduto alle frequenti rassicurazioni di Ribbentrop che Londra non avrebbe mai combattuto, perché voleva credergli. Non possiamo sapere quale esito si aspettava, però durante la giornata reiterò l'opinione già espressa: la Gran Bretagna, e men che meno la Francia, non avrebbe combattuto una vera guerra. Quando Joseph Goebbels arrivò alla cancelleria, trovò Hitler furioso per la posizione di Londra e deciso a combattere. (...) Però entro sera i toni di Hitler erano cambiati. Prima di partire con il suo treno speciale, nome in codice America, destinato a un binario morto nella Bassa Pomerania, a Gross-Born, sul confine con la Polonia, per essere più vicino al fronte orientale, disse a Goebbels che secondo lui Gran Bretagna e Francia avrebbero combattuto soltanto un Kartoffelkrieg, una "guerra delle patate", sinonimo di embargo economico, non un vero conflitto. Secondo Albert Speer, convocato alla cancelleria assieme ad altri componenti della cerchia ristretta del Führer per i saluti, nessuno all'esterno notò il nuovo signore della guerra mentre partiva con il suo seguito di auto nere per andare al treno attraverso le strade oscurate, «in sintonia con l'umore sotto i tacchi», a parere di Speer.
Una volta giunti alla guerra generalizzata non si parlava più di ritirare le truppe tedesche dalla Polonia. Göring fu informato del discorso radiofonico di Chamberlain alle 11.45 dal suo segretario di stato Paul Körner. Dahlerus, che era con lui, si accorse che ascoltava la notizia «con evidente dispiacere», accusando, però, subito la Gran Bretagna perché non aveva capito che un accordo anglo-tedesco era possibile. La sera della partenza di Hitler per il fronte, Goebbels incontrò Göring a Berlino. Il feldmaresciallo disse all'altro che a parer suo la Francia stava ancora mostrando segnali di esitazione, ed era difficile capire se sarebbe stata una guerra lunga. Il problema era il popolo tedesco, la sua accettazione del conflitto. Durante la giornata apparve chiaro che la dichiarazione di guerra aveva raffreddato gli animi nel paese. Poco dopo la scadenza dell'ultimatum britannico arrivarono nelle strade le edizioni straordinarie dei più grandi quotidiani tedeschi che annunciavano che l'Inghilterra (di rado usavano il termine Gran Bretagna) aveva dichiarato lo stato di belligeranza dopo che era stato respinto l'ultimatum. A Berlino, dove la dichiarazione fu annunciata dagli altoparlanti stradali, William Shirer notò che la gente ascoltava con attenzione, poi restava ferma sul posto scioccata. Quindi passeggiò per la città sotto il sole di fine estate, leggendo «stupore e depressione» sulle facce delle persone. Non ci furono dimostrazioni, «applausi, lanci di fiori, febbre bellica». Shirer andò all'Adlon Hotel, presso la Porta di Brandeburgo, dove incontrò alcuni funzionari dell'ambasciata britannica, che lo colpirono per la loro indifferenza. «Sembravano assolutamente immuni agli eventi, parlavano di cani e roba del genere" scrisse nel suo diario.
La dichiarazione di guerra della Francia fu accolta a Berlino senza troppo interesse, dato che si dava per scontato che, dopo quella britannica, la minaccia francese sarebbe arrivata a ruota. Alla fine il divario di quanto intendessero i capi militari e politici di Parigi. Dopo le liti all'interno del governo d'oltralpe la sera del 2 settembre, a mezzanotte Bonnet fu costretto contro la sua volontà a telegrafare all'ambasciatore francese di aspettarsi istruzioni la mattina seguente, in vista della consegna a mezzogiorno del 3 settembre di una nota in cui pretendeva una risposta alla precedente domanda di ritiro della Germania dalla Polonia. Bonnet sperava di procrastinare la scadenza di questa nuova richiesta fino alle 17 del 4 settembre, nel caso in cui ci fossero anche minimi spiragli di pace. Persino in quel frangente non riusciva a convincersi a dichiarare guerra. Alle 10.50 all'ambasciatore fu ordinato di dire semplicemente che se la Germania si rifiutava di rispondere, il governo francese sarebbe stato obbligato «a onorare... gli impegni che la Francia aveva contratto con per chiedere precisazioni su cosa andava considerato un rifiuto tedesco, Bonnet gli ordinò di cambiare la scadenza alle 17 del 3, un mutamento sollecitato da Daladier in mattinata perché aveva finalmente ricevuto da esercito e marina la garanzia che una dichiarazione di guerra anticipata sarebbe stata accettabile. 27 Anni dopo, nelle sue memorie Bonnet ricordò di aver lottato fino all'ultimo per guadagnare tempo nel caso in cui Hitler avesse ceduto all'ultimo momento, e scrisse, per giustificare il suo accanito pacifismo: «Ho combattuto per la pace come si lotta per salvare un malato finché ha un filo di fiato».

Titolo dell'opera originale 1939: "Countdown to War". (c) Richard Overy, 2009. First published in The United Kingdom by Penguin Books Ltd.,2009
(c) Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano. Prima edizione in "Storie" settembre 2009. www.feltrinellieditore.it

Liberazione 1.9.09
Incontro con Lothar Bisky«Premiata la chiarezza della nostra politica»
di Fabio Amato



Incontriamo Lothar Bisky nella splendida cornice del campo delle Erbarie, sul Canal Grande, dove si svolge la tradizionale festa di Liberazione , al termine del dibattito che lo ha visto protagonista con Paolo Ferrero, Gianni Rinaldini, Gian Paolo Patta e Gianfranco Bettin sul futuro della sinistra. E' naturalmente molto soddisfatto delle notizie che arrivano dalla Germania, dei primi exit poll, poi confermati, che danno le dimensioni di un successo senza precedenti della sua Linke, la formazione politica nata dalla fusione fra la ex PDS e la Wasg di Oskar Lafointane. 

Qual è il significato politico della vostra affermazione:? Prima di tutto è un segnale molto importante,di una forza politica che è in crescita a poche settimane dal voto per il rinnovo del Bundestag, il Parlamento tedesco, che avverrà il 27 Settembre prossimo. Secondo perché abbiamo raggiunto il 20 percento in una regione occidentale, come quella del Saarland, qualcosa di semplicemente inimmaginabile pochi anni fa, e terzo che all'est siamo di gran lunga la forza più importante della sinistra, superando notevolmente la SPD. Tutto ciò grazie ad una politica fatta di chiarezza, orientata alla giustizia sociale, netta, senza ambiguità o tentennamenti, di una sinistra coerente. Che chiede politiche sociali, a partire dalla difesa dei salari e dello stato sociale e di pace, come il ritiro dall'Afghanistan

Dai primi risultati sembrerebbero possibile, nei tre lander, maggioranze, rosso-rosso-verdi. Qual è la vostra posizione rispetto a possibili governi con SPD e Verdi? 
Per fare ipotesi dobbiamo aspettare i risultati definitivi, ma sicuramente in almeno due dei tre lander potrebbero esserci i numeri. Ma quello che noi guardiamo non è il governo in quanto tale, ma se c'è o meno la possibilità di cambiare indirizzo alle politiche neoliberiste, politiche portate avanti anche dalla Spd. Non vale la pena stare al governo per continuare con politiche neoliberiste. Continueremo a stare all'opposizione. A volte si possono ottenere risultati anche da un'opposizione forte e coerente.

Quale pensi sia l'effetto della crisi economica? Ha influito sul vostro risultato?
Solitamente, difronte ad una crisi, il rischio è che si cerchi affidamento in ciò che si ha, che si assuma un atteggiamento di paura e conservazione. Ma la nostra affermazione dimostra che qualcosa sta cambiando in Germania. Dimostra che è possibile aprire una strada al cambiamento. Più forte sarà la Linke, anche nelle prossime elezioni politiche e nel Parlamento, più reale sarà questa possibilità.il manifesto 1.9.09

martedì 1 settembre 2009

Repubblica 22.8.09
Marco Bellocchio "Girerò una storia su Eluana Englaro"
"Un film per parlare di amore per la vita"
intervista di Paolo D'Agostini


Il regista parla del suo nuovo progetto cinematografico sul caso Englaro Intanto parte per presentare al pubblico internazionale il suo "Vincere"
Ho elaborato l´idea partendo dal caso di Eluana, ma i miei saranno personaggi d´invenzione
A questa costrizione a far vivere chi è già morto, oppongo un´altra costrizione a far vivere chi può e deve vivere
Visti i tempi, il declino generale del cinema, quello della politica direi che l´esito è stato buono
"Vincere" sarà distribuito all´estero dalla stessa società di "Gomorra"

ROMA. In partenza per un tour americano che sarà anche l´inizio della campagna di promozione del suo Vincere in vista dei prossimi Oscar, Marco Bellocchio (70 anni il 9 novembre) dà la notizia. Il prossimo film nascerà dalle riflessioni e dalle emozioni provocate in lui dal caso Englaro.
Così annuncia il progetto. «Tre elementi. Il primo è la fiaba della Bella addormentata. Il secondo: la tragedia della ragazza Eluana e del personaggio eroico del padre che vuole rispettare la volontà della figlia - viva ma solo vegetalmente - rispettando la legge, pretendendo l´applicazione della legge. Senza cercare scorciatoie. Il terzo, tema opposto e mia profondissima convinzione: quando invece ci sono condizioni per riportare alla vita qualcuno che vuole morire per forza - e penso alle anoressiche o ai depressi che vogliono uccidersi, che vogliono morire - lì non solo lo psichiatra ma anche chi è loro vicino, familiari o genitori, deve costringerli a vivere. Da una parte il rispettare la volontà della povera ragazza e quindi permetterle di morire. Dall´altra invece il caso di qualcuno che lotta fisicamente per impedire di morire, per costringere a vivere una persona che vuole morire ma che ha tutte le possibilità per poter vivere, per rinascere. Questa doppia storia mi interessa raccontare. Non so se riuscirò, è un tema secondo me molto positivo ma certo non molto divertente».
Un film nel quale dovrebbero convivere due storie.
«Esatto. Anche se non nascondo che ho iniziato a elaborare quest´idea a partire da Eluana, naturalmente i miei saranno personaggi d´invenzione. In un certo senso sono due aspetti della stessa lotta per la vita. Quella di un padre-eroe. E quella di chi lotta e impedisce di morire, costringe a vivere chi - penso anche ai giovani perduti nella droga degli anni passati - ha tutte le potenzialità per vivere una vita straordinariamente ricca. Nella stessa Italia, contemporaneamente forse in due città diverse, immagino queste due lotte. Una nei confronti dello Stato e dell´ipocrisia di chi per paura di perdere l´appoggio della Chiesa cattolica, pur non condividendone i principi, si è inchinato per conformismo e pavidità. A questa costrizione a far vivere chi è già morto, oppongo un´altra costrizione a far vivere chi può e deve vivere».
Può essere la metafora di qualcosa di più ampio? Un discorso sull´occuparsi degli altri, del prossimo, delle vite che ti circondano? Sull´esporsi, scegliere, impegnarsi. Sullo scambio fra discrezione e indifferenza?
«Penso a quella che è stata la fragilità di tutta la cultura di sinistra. Un certo tipo di "discrezione", sì. Adesso ha buon gioco la Lega che in nome di principi assurdi e disumani fa valere la voce del "no". Un certo tipo di durezza, o forse sicurezza, è qualcosa di cui la sinistra o quello che ne rimane dovrebbe appropriarsi. Vincere la paura di dire "no"».
Dunque, intanto, l´America. La vita internazionale che si dischiude a Vincere con le vendite e le uscite su altri mercati. A partire da Australia e Francia. In Nordamerica, dove il film sarà distribuito dalla stessa società che ha distribuito Gomorra, Vincere è stato invitato tra gli altri dai festival di Telluride, Toronto e New York da dove partirà il viaggio verso la conquista della candidatura all´Oscar di marzo. «Ho sempre saputo e detto che la celebrità della figura di Mussolini nel mondo ha il suo peso. Ma l´interesse un po´ speciale che effettivamente il film ha riscosso forse non dipende soltanto da questo. Ma anche dal come io ho visto e raccontato Mussolini, dallo stile del film. Il contrasto fascismo-antifascismo si è indubbiamente un po´ sbiadito. Nessun esponente politico o istituzionale di rilievo di matrice fascista, per esempio, in Italia è intervenuto. Quando ho presentato il film al cinema Eden di Roma mi ha fermato la nipote di Starace per dirmi che lo aveva apprezzato. Ma insomma non è un film che ha cercato la provocazione o lo scandalo, e non ho neanche sollecitato il confronto tra il Duce e Berlusconi, non ho soffiato sul fuoco. In realtà il film ha raccolto soprattutto un´attenzione di tipo estetico. Non di tipo ideologico. O di facile implicazione tra passato e presente. Semmai le implicazioni sono da cogliere in modo indiretto. Quando l´ho mostrato a Eugenio Scalfari mi ha colpito il suo commento. Ha detto che secondo lui oggi in Italia c´è la stessa "puzza" di allora. La puzza di una situazione nella quale ognuno pensa a sé: allora le mille lire al mese oggi le gratificazioni del Grande Fratello».
Il film è stato sottovalutato, incompreso?
«Prendere un premio a Cannes avrebbe favorito forse esiti migliori, ma onestamente - visti i tempi non favorevoli, la stagione già quasi estiva, il declino generale del cinema, quello della politica - direi che l´esito è stato buono».

l’Unità 1.9.09
Cuochi di cianuro
di Concita de Gregorio


Dicevamo dell'autunno che ci aspetta. Stracci lerci, veline confezionate su commissione, si dice, sembra che, una fonte anonima ci assicura. Esecutori di gambizzazioni a mezzo stampa ingaggiati a suon di milioni dal presidente del Consiglio, che fulmineo si dissocia dal sottoposto strapagato: non sapevo, non ci siamo parlati. La cosa è sfuggita di mano. Non è il premier il mandante, cercate altrove: le gerarchie ecclesiastiche, ecco, sì. È una resa dei conti tra cardinali. È una manovra contro Ruini. È la guerra tra Ruini e Bertone. E’ la «Lobby di velluto» alle strette. Ne sa qualcosa il Papa, Bruno Vespa lo vuole intervistare? Ne sa qualcosa Gianni Letta, il Copasir lo vuole sentire? Un altro prelato ci ha appena fatto sapere che. C'è la mano dei servizi deviati, no, di un africano che lavora alla Segreteria di Stato. Berlusconi è una vittima. Boffo non c'entra, è un pretesto. Avete letto cosa dice il direttore dell'Osservatore romano? Una fucilata, ma per conto di chi?
Questo, appunto. Siccome ogni paese ha gli scandali che gli assomigliano questa povera Italia sotto il tallone del plutocrate ha quello che con sarcasmo all'estero chiamano il Watergate all'italiana, il sorriso della penna non si vede ma leggendo si sente. A noi tocca un Watergate così, e chissà per quanto altro ancora ci si faranno grassi giornali e
siti internet servili (la tv no, quella parla di maltempo e code in autostrada), chi sarà il prossimo, per chi faranno preparare il prossimo plotone. Il Watergate all'italiana al contrario dell'originale non è pericoloso per nessuno tranne che per gli anelli deboli della catena, non mira al vertice ma a suscitare zizzania, ridde di voci, veline per far dimenticare altre veline, carta contro carne, dossier di distrazione di massa. C'è un'industria, al lavoro. Un po' cialtrona perché, di nuovo a differenza dell'originale, qui le fonti sono dilettanti, gente che non sa scrivere in italiano, amanuensi che si rivolgono a una Eccellenza evidentemente committente, forse, si dice, scribani della segreteria di Stato vaticana che, si sa, sono «indiani africani e filippini» dunque sbagliano l'ortografia. Scrive oggi Aldo Giannuli, che di minute «galleggianti» e dossier sporchi è uno dei massimi esperti in Italia. «Il termine Eccellenza (titolo onorifico episcopale) e quel "secretato" alla latina ci fanno sospettare una persona di ambiente cattolico. Avanziamo una congettura: una persona che ha motivo di rancore personale o rivalità nei confronti di Boffo, che si è rivolta ad un detective privato per ottenere il certificato generale (cosa cui non avrebbe dovuto avere accesso). Che poi ha raccolto voci, notizie, pettegolezzi cavandone il "documento" che ha inviato (insieme alla fotocopia del certificato) ai vescovi italiani fin da maggio (...) Una polpetta avvelenata. E cucinata pure male». Enzo Bianco, ex ministro dell’Interno ed ex presidente del Copaco, parla di «odori nauseabondi», «ritorno alle pratiche del Sifar anni Cinquanta». Tra gli odori nauseabondi il peggiore è quello dei morti, di calunnia si muore anche da vivi. Cosa ancora si aspetti a mobilitarsi per difendere l'informazione, la democrazia e l'Italia dai cuochi di cianuro e dal Gran Ristoratore che li ingaggia, davvero, non si sa.

Repubblica 1.9.09
Le due chiese e il principe
di Adriano Prosperi


«Abbiamo dunque con la Chiesa e con i preti noi italiani questo primo obligo: di essere diventati sanza religione e cattivi; ma ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra: questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa». Il tempo muta tutte le cose e non lascia niente com´era. Ma la realtà odierna, pur nelle nebbie che coprono ai nostri occhi i movimenti e i moventi reali, sembra offrire materiale adeguato per una verifica della diagnosi di Machiavelli.
Assistiamo oggi a un conflitto aperto e pubblico tra la coscienza morale del popolo cattolico italiano coi suoi preti e i suoi vescovi e le necessità strategiche della Chiesa come potere (quella che Machiavelli chiamava la Corte di Roma). Dalla parte dei primi è affiorato con toni sofferti il disagio davanti allo spettacolo di un potere senza freni e senza pudore. Annunciatosi in sordina, cresciuto col brontolio di un tuono lontano, quel disagio è esploso nello scandalo e nella protesta: i corpi utilizzati per i piaceri e quelli condannati a sparire nel Mediterraneo hanno scatenato un moto di ripulsa e il quotidiano dei vescovi e della Chiesa italiana ha dovuto dargli espressione, sia pure con i toni smorzati della retorica ecclesiastica. Ci si chiedeva che cosa corrispondesse a quel disagio nell´ovattato silenzio dei palazzi vaticani. E già le cene progettate e le perdonanze estorte all´ombra di quel papa Celestino morto prigioniero di un altro Papa facevano intuire che la diplomazia della Chiesa-Potere si stava adoperando per coprire e sedare. Forse un giorno i movimenti segreti della diplomazia saranno resi noti dagli storici. Ma non c´è stato bisogno di un appuntamento segreto come quello che ci fu tra il 19 e il 20 gennaio 1923 tra il cardinal Gasparri e il cavalier Mussolini per orientare la politica della comunicazione pubblica di parte vaticana e portare all´uscita di ieri del direttore dell´Osservatore Romano sul Corriere della Sera. Da quella intervista ricaviamo un giudizio severo: ma non sull´aggressione del quotidiano berlusconiano al dottor Boffo che il cardinal Bagnasco ha definito «disgustoso», bensì sulle critiche che il quotidiano diretto da Boffo aveva avanzato nei confronti del berlusconismo immorale.
E allora ci si chiede fino a che punto la marcia della Chiesa-Potere può accordarsi al cammino delle coscienze italiane. Per sfuggire all´emozione e all´ira di un ignobile, disgustoso scenario di primi piani - ma la politica non è roba da stomaci delicati, com´è noto - ricorriamo al campo lungo della storia. Ci soccorre un libro importante che finalmente riprende in esame la questione dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia in tutta la sua complessità e nell´intrico dei movimenti reali: lo ha scritto un valente storico, Roberto Pertici, lo pubblica per i tipi del Mulino il Senato della Repubblica (Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande Guerra al nuovo Concordato (1914-1984)). La storia è scienza difficile, richiede che le passioni tacciano e che lo sguardo acquisti la lucidità di chi può e vuole solo capire. Secondo Pertici è dalla Grande Guerra che si deve partire per comprendere perché la formula cavouriana del «libera Chiesa in libero Stato» sia stata accantonata per avviarsi sulla strada del concordato. Fu allora che il papato di Benedetto XV sottrasse la Chiesa cattolica al condizionamento degli Stati e fece della scelta di neutralità e della parola di pace il cuore della nuova posizione nel mondo che l´immane carneficina le offriva. Non le servivano più dei portavoce laici autorizzati né delle forze politiche confessionali. Di conseguenza lo stesso rapporto col Partito Popolare di don Sturzo e più avanti con la Democrazia Cristiana di De Gasperi non cancellarono più la volontà della Chiesa di perseguire la sua politica con un rapporto diretto coi governi. Nacque così la politica dei concordati. E l´atto con cui Togliatti nella notte tra il 25 e il 26 marzo 1947 - un vero «luogo della memoria» nella storia dell´Italia repubblicana, come osserva Pertici - portò l´adesione non desiderata e non gradita del Partito Comunista all´inserimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione nacque dalla coscienza della fragilità delle istituzioni del paese.
Togliatti ci tenne a dire pubblicamente a De Gasperi che aveva ben compreso un suo accenno al fatto che il nuovo regime italiano di tutto aveva bisogno fuorché di turbamenti alla pace religiosa. De Gasperi aveva letto pubblicamente la formula del giuramento concordatario col quale i vescovi si impegnavano a essere leali verso lo Stato italiano, a rispettare e a far rispettare dal clero il capo della repubblica e il governo costituzionale: e aveva concluso: «Amici, non siamo in Italia così solidificati, così cristallizzati nella forma del regime da poter rinunziare a simili impegni».
Questo lo scenario offerto dalla storia per affrontare la lettura del presente. Oggi niente è rimasto com´era nel paese Italia, un paese nei cui registri parrocchiali si leggeva allora molto spesso la qualifica di «miserabile», dove i mestieri più diffusi erano quelli di bracciante per gli uomini e di casalinga per le donne. Un abisso sociale divide oggi i nipoti dalla realtà di chi tornò allora vivo o morto dalla guerra. E tuttavia nemmeno oggi il regime è "cristallizzato", anzi. E la Chiesa fa la sua politica. Nell´incontro segreto del 1923 maturò la politica che portò il governo Mussolini a reintrodurre la religione cattolica come materia da insegnare nelle scuole e a fare tutti i passi che portarono al Concordato. Oggi un partito che ieri vantava il suo paganesimo e adorava le acque del Po si offre come il vero partito cattolico: non ci stupiremo pensando all´ateo Mussolini che sfidava la folgore di Dio dal pulpito. Un altro «uomo della Provvidenza» tenta la strada del Vaticano. E forse oltre Tevere qualcuno starà valutando freddamente la sua credibilità come successore di un ormai imbarazzante - anche per loro - presidente del Consiglio.

Repubblica 1.9.09
L’officina dei veleni
di Giuseppe D’Avanzo


DUNQUE la «nota informativa», pubblicata dal Brighella che dirige il Giornale del capo del governo, non è né una «nota» né un´«informativa» né tanto meno un atto giudiziario. È una "velina". Ora è ufficiale: nel fascicolo del Tribunale di Terni non c´è alcun riferimento a Dino Boffo, direttore dell´Avvenire, come a «un noto omosessuale». Lo dice il giudice di Terni: negli atti «non c´è assolutamente nessuna nota che riguardi le inclinazioni sessuali».
DA QUI - dalla menzogna del Giornale di Berlusconi - bisogna ripartire per comprendere il metodo e le minacce di un dispositivo politico che troverà - per ordine del potere che ci governa - nuovi bersagli contro cui esercitarsi, altri indiscutibili falsi da agitare per punire gli avversari politici o chi dissente. La storia è nota. Boffo osa criticare, con molta prudenza, lo stile di vita di Berlusconi e si ritrova nella lista dei cattivi. Dirige un giornale cattolico e non può permettersi di censurare l´Egoarca. Deve avere una lezione. Non c´è bisogno di olio di ricino, genere merceologico antiquato. Una bastonatura mediatica è ben più funesta di un lassativo. Può essere definitiva come un colpo di pistola. È quel che tocca al direttore dell´Avvenire: un colpo di pistola che lo tramortisce. Finisce in prima pagina del Giornale di Berlusconi descritto così: «Dino Boffo, alla guida del giornale dei vescovi e impegnato nell´accesa campagna di stampa contro i peccati del premier, intimidiva la moglie dell´uomo con il quale aveva una relazione».
C´è stata finora una regola accettata e condivisa nel pur rissoso giornalismo del nostro Paese diviso: spara duro, se vuoi, ma è legittimo farlo soltanto con notizie attendibili e fondate, confermate da testimonianze o documenti che reggano una verifica, pena il discredito pubblico, la squalifica di ogni reputazione professionale. Il collasso di questa regola di decenza può inaugurare una stagione critica. Per descriverla torna utile Brighella, antica maschera della commedia dell´arte che nasce nella Bergamo alta. Attaccabrighe, briccone, bugiardo, Brighella viene da briga, intrigo: «se il padrone promette di ricompensarlo bene, dirige gli imbrogli compiuti in scena». Il potere che ci governa immagina che i giornalisti debbano trasformarsi tutti in Brighella. Un Brighella in giro già c´è. Dirige il Giornale di Berlusconi. Si mette al lavoro e cucina l´aggressione punitiva per il dissidente. Gli hanno messo in mano un pezzo di carta anonimo, redatto nel gergo degli spioni e delle polizie. Chi glielo ha dato? Dov´è l´officina dei miasmi, dei falsi, dei dossier melmosi che il potere che ci governa promette di usare contro i non-conformi alla sua narrazione del Paese? Il foglietto che Brighella si ritrova sullo scrittoio è di quei frutti avvelenati. Non vale niente. È una diceria poliziesca. Il direttore del Giornale di Berlusconi la presenta ai lettori come una «nota informativa che accompagna e spiega il rinvio a giudizio del grande moralizzatore, alias il direttore dell´Avvenire, disposto dal gip del Tribunale di Terni». Quella "velina" diventa, nell´imbroglio di Brighella, un documento che gli consente di scrivere, lasciando credere al lettore di star leggendo un atto giudiziario: «Il Boffo è stato a suo tempo querelato da una signora di Terni destinataria di telefonate sconcie e offensive e di pedinamenti volti ad intimidirla, onde lasciasse libero il marito con il quale il Boffo, noto omosessuale attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni, aveva una relazione».
Disinformazione e "falso indiscutibile", in questa manovra, fanno un matrimonio d´amore. Il documento è un falso indiscutibile. È utile però a un lavoro di disinformazione. La disinformazione, metodo maestro della Russia sovietica, contrariamente alla menzogna, contiene una parte di verità (anche in questo caso: Boffo ha accettato una condanna per molestie), ma questa viene deliberatamente manipolata con abilità. A Brighella non importa nulla delle molestie. Vuole gridare al mondo: il direttore del giornale della Conferenza episcopale è un frocio! Chi ha sensibilità per i diritti civili, i movimenti gay afflitti dall´Italia omofoba di oggi discuteranno dell´uso dell´omosessualità come colpa, difetto, vergogna, addirittura come reato. Qui interessa l´uso del falso nel dispositivo politico che minaccia. Colto con le mani nel sacco dei rifiuti, quando diventa evidente che quella «nota informativa» è soltanto una «velina» di spione diventata lettera anonima ai vescovi e riesumata per la bastonatura, Brighella dice: «Non ho mai parlato di informative giudiziarie. Abbiamo un documento (ma è la sentenza di condanna per molestie). Il resto non conta. Non conta da chi l´abbiamo avuto, non conta se ci sono degli errori». Sincer come l´acqua dei fasoi dicono a Bergamo per dire falso, bugiardo. È quella schifezza presentata come «nota informativa»? Come documento? Addirittura come atto giudiziario? Non ne parliamo più? Non è accaduto nulla? È stupefacente che la menzogna di Brighella venga presa sul serio proprio da quell´autorevole giornalismo italiano che finora ha accettato e condiviso la regola che sia legittima anche la durezza, pure la brutalità se in presenza di fatti, notizie, documenti, testimonianze affidabili. È sorprendente che si legga sul Corriere della sera di Ferruccio de Bortoli: «(Il direttore del Giornale) non retrocede di un passo» e su la Stampa di Mario Calabresi: «Nessuna retromarcia (del direttore del Giornale) sulla vicenda, dunque». Nessuna retromarcia?
Fingere di non capire, non valutare con severa attenzione quanto è accaduto oggi a Dino Boffo (domani a chi?), accettare di chiudere gli occhi dinanzi al metodo sovietico inaugurato dal potere che ci governa, con il lavoro di Brighella, ci rende tutti corresponsabili perché se chi diffonde una disinformazione è colpevole e chi le crede è uno sciocco, chi la tollera è un complice. Quella lucida aggressione, che trasforma il giornalismo in una pratica calunniosa senza regole, non può essere accettata con un´alzata di spalle né dall´informazione ancora indipendente né dalle istituzioni di controllo come il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir). Perché due cose ormai sono chiare in un affare che sempre più assume i contorni di una questione di libertà. Berlusconi pretende che l´industria delle notizie si trasformi o in organizzazione del silenzio (a questo pensa il Tg1 di Augusto Minzolini) o in macchina della calunnia (è il caso di Brighella). La macchina della calunnia si sta alimentando, in queste ore, con "veline" e dossier che servitori infedeli delle burocrazie della sicurezza le offrono. Per sollecitazione del potere o per desiderio di servire un padrone, non importa. È rilevante il loro uso politico. A questo proposito, dice Francesco Rutelli, presidente del Copasir: «Non ho ricevuto finora nessuna segnalazione su coinvolgimenti diretti o indiretti di persone legate ai servizi di informazione». Ieri Rutelli ha incontrato Gianni De Gennaro, direttore del Dipartimento per l´informazione e la sicurezza (Dis). Chi sa se ha avuto qualche "segnalazione". Comunque, pare opportuno concludere con un messaggio agli spioni al lavoro nella bottega dei miasmi: per favore, dopo aver cucinato le vostre schifezze, mandate un sms a Francesco Rutelli. Grazie.

Repubblica 1.9.009
Quando il potere teme il controllo
di Stefano Rodotà


L´aggressione ai giornali sgraditi non riguarda solo i paesi totalitari, ma interroga la qualità delle democrazie

La guerra ingaggiata dai paesi totalitari contro la libertà di informazione su Internet costituisce la manifestazione ultima e spettacolare di un conflitto secolare, di una insofferenza di tutti i poteri costituiti nei confronti di chi agisce per rendere trasparente e controllabile il loro operato. È una vicenda lunga, accompagna la nascita dell´opinione pubblica moderna, che riesce a strutturarsi e a far crescere la sua influenza proprio grazie al ruolo della stampa. Qui è la radice di un processo che, insieme, dà senso alla democrazia e fa progressivamente emergere la stessa stampa come potere, il "quarto potere", al quale ne seguirà un "quinto", identificato nella televisione: poteri oggi unificati dal riferimento comune al sistema della comunicazione.
Non dimentichiamo che la democrazia è anche, e forse soprattutto, governo "in pubblico". Una caratteristica istituzionale affidata per lungo tempo quasi esclusivamente al parlamento, la cui funzione "teatrale" significava appunto che la politica doveva svolgersi su una scena visibile al pubblico. Una funzione prima accompagnata, poi appannata, infine spesso cancellata dal trasferimento della politica sulla scena televisiva: non è un caso che una trasmissione come "Porta a porta" sia stata definita "una terza Camera". Sono così cresciuti ruolo e responsabilità del sistema informativo. E la definizione della stampa come quarto potere significava proiettarsi al di là della tripartizione di Montesquieu, rafforzando proprio la funzione di garanzia che, nel dilatarsi del ruolo dello Stato e nell´ampliarsi della sfera pubblica, non poteva essere pienamente assicurata nell´ambito delle tradizionali strutture istituzionali. La stampa prima, e l´intero sistema della comunicazione poi, si presentavano così come luogo della libertà e di una nuova forma di rappresentanza della società.
Ma questa trasformazione portava con sé anche l´allargarsi dell´area del conflitto, e un ricorso diffuso a strumenti capaci di controllare il sistema dell´informazione. Si tratta di tecniche ben note, dalla censura al condizionamento economico, dal regime proprietario all´accurata selezione di giornalisti compiacenti, dalle minacce all´eliminazione fisica. Tecniche che continuano a convivere, caratterizzate tutte da un´intima carica di violenza. L´italiano Antonio Russo scompare in Cecenia; Anna Politkovskaja è divenuta il simbolo di una indomabile devozione alla libertà che può essere spenta solo con l´assassinio; Yahoo! si fa complice del governo cinese svelando il nome di un giornalista che aveva inviato alcune notizie negli Stati Uniti, Shi Tao, che così può essere arrestato e condannato a dieci anni di carcere. Sono soltanto tre esempi di uno stillicidio quasi quotidiano, di una irresistibile voglia di bavaglio di cui ci parlano vicende recenti in Cina, Birmania, Iran.
Ma non sono soltanto i regimi totalitari e autoritari a doverci inquietare. Nei paesi democratici il carattere pervasivo dei diversi strumenti di comunicazione, che strutturano la sfera pubblica, fa crescere le pretese di un potere politico che considera appunto il sistema della comunicazione come uno strumento essenziale per acquisire e mantenere il consenso. Si opera così un capovolgimento istituzionale. Il sistema dell´informazione vede alterata la propria natura e si trasforma in strumento servente di un potere che, insieme, si libera del controllo esterno e accentua il suo controllo sulla società.
Tutto questo avviene in forme che mantengono l´apparenza del pluralismo. A che vale, però, l´offerta di centinaia di canali televisivi se le centrali di produzione dei contenuti sono nelle mani di monopolisti, obbediscono alla stessa logica, hanno gli stessi "azionisti di riferimento"? Rendere possibile l´esposizione di ciascuno al massimo possibile di opinioni diverse è ormai la condizione fondamentale per il funzionamento dei sistemi democratici. Altrimenti la democrazia pluralista si trasforma in un guscio vuoto. Di questo è ben consapevole il nuovo "Zar dell´informazione", Cass Sunstein, nominato da Obama proprio per affrontare i nuovi problemi del sistema della comunicazione, che ha proposto per i siti Web particolarmente influenti l´obbligo di indicare un collegamento con siti che manifestano opinioni diverse. E, proprio per allentare la presa dei vari centri di potere sull´informazione, in Francia si prepara un sistema di calcolo dei tempi televisivi che escluda privilegi per lo stesso Sarkozy, mentre in Gran Bretagna si guarda alle tv private in un´ottica che tenga conto della funzione pubblica che anch´esse rivestono.
Rispetto a tutto questo, la situazione italiana si configura non solo come eccezione, ma come profonda deviazione. Consideriamo un caso davvero esemplare per il rapporto potere, informazione, cittadini. Un recente rapporto Censis ha rilevato che il 69.3% degli elettori forma le proprie opinioni in base alle informazioni fornite dai telegiornali. Il controllo dei telegiornali, dunque, è un veicolo essenziale per l´acquisizione del consenso. E il fatto che si tratti di una informazione quasi monocorde, ridotta a un denominatore davvero minimo, che nega alla radice il pluralismo, altera i caratteri democratici del sistema e svela pure il carattere ormai ingannevole dei sondaggi, la cui attendibilità dipende dall´ampiezza del patrimonio informativo di cui dispone ciascuno degli interrogati.
Ma la normalizzazione del sistema televisivo evidentemente non basta. E così, con una mossa tipicamente autoritaria, si vuole normalizzare anche la stampa, spegnendone le voci dissenzienti. Non si commetta l´errore di ritenere che, in definitiva, siamo di fronte a casi isolati, di cui ci si può disinteressare. Le resistibili ascese sono sempre cominciate così – ci ammonisce la storia dei rapporti tra stampa e potere. Quando, poi, ci si accorge che quello era solo un primo passo, che si voleva colpirne uno per educarne cento, può essere troppo tardi.

l’Unità 1.9.09
Quando la mafia regna
di Giancarlo De Cataldo


Si accusano spesso scrittori e sceneggiatorispecie di storie criminalidi invadere il campo degli storici di professione. Di creare confusione fra realtà e finzione. T.J.English, americano, autore di serie di culto come “NYPD Blue” e “Homicide”, è andato addirittura oltre. Ha scritto un saggio storico. Si chiama “Notturno Avana” (ed. Il Saggiatore) e racconta di quando Cuba era governata dalla Mafia. È un libro che “ti prende”, scritto con il piglio del narratore, e insieme molto documentato: English, per intenderci, è andato a rivedersi montagne di atti dell' epoca, e persino i porno amatoriali girati in club esclusivi ad uso e consumo dei boss e dei politici compiacenti. La Cuba dei grandi casinò, delle ville spagnoleggianti, della corruzione diffusa e del “glamour” hollywoodiano incarnava il sogno di ogni capomafia: uno stato interamente finanziato, controllato e persino governato dal crimine. Un sogno che viene impietosamente spezzato da una rivoluzione. Ci voleva uno sceneggiatore americano per restituire l'onore al primo Fidel Castro (le fucilazioni, la repressione, la dittatura erano ancora di là da venire) e per farci riflettere su uno dei tanti ricorrenti paradossi della Storia: Meyer Lanski, la vera mente dell'occupazione mafiosa di Cuba, era figlio di ebrei sfuggiti ai “pogrom” di inizio secolo. Il dittatore Batista veniva da una famiglia poverissima di raccoglitori di canna da zucchero: suo padre lavorava nelle piantagioni dei Castro. Entrambi erano pronti a tutto pur di non ripiombare in quella povertà che aveva avvelenato la loro infanzia. Il giovane Fidel era un ricco studente dall'animo focoso e dai costumi alquanto intemperanti. I poveri diventati ricchi, insomma, stavano dalla parte dello sfruttamento e della malavita, mentre Fidel, nato ricco, stava dalla parte dei poveri veri.❖

Corriere della Sera 1.9.09
Immigrati respinti, la Ue vuole chiarimenti
Protesta l’Alto commissariato Onu. Maroni: è la prassi, noi andremo avanti
di M. Ne.


ROMA — L’Unione euro­pea chiede spiegazioni all’Ita­lia e a Malta. Vuole sapere chi c’è sui barconi dei migran­ti che vengono respinti.

Ci sono clandestini op­pure persone che han­no diritto ad essere ac­colte? La richiesta di informazioni è parti­ta dopo il respingi­mento verso la Li­bia, avvenuto l’altro ieri, di un gommone carico di 75 migranti fra cui 15 donne e 3 mi­norenni.

«Attendiamo notizie — fa sapere il portavoce del­l’Esecutivo comunitario Den­nis Abbott — per poter valuta­re la situazione». L’iniziativa di Bruxelles ha il senso di un vero e proprio ammonimen­to. In pratica, vuol dire che i respingimenti sono conside­rati illegittimi dall’Unione eu­ropea. Difatti Abbott aggiun­ge che «qualunque essere umano ha diritto di sottopor­re una domanda che gli rico­nosca lo stato di rifugiato o la protezione internazionale».

Il portavoce di Bruxelles rafforza poi le sue affermazio­ni citando le frasi contenute in una lettera del commissa­rio alla giustizia Jacques Bar­rot. «Il principio di non re­spingimento — si legge nel testo di Barrot —, così come è interpretato dalla Corte eu­ropea dei diritti dell’uomo, si­gnifica essenzialmente che gli Stati devono astenersi dal respingere una persona, diret­tamente o indirettamente, laddove potrebbe correre un rischio reale di essere sotto­posta a tortura o a pene o trat­tamenti inumani e degradan­ti ».

Non è la prima volta che l’Unione europea solleva il problema. Tuttavia il mini­stro dell’Interno Roberto Ma­roni ribadisce che non cam­bia nulla. «I respingimenti— dice — continueranno. L’ulti­mo è avvenuto in acque inter­nazionali ». Maroni chiede prudenza: «Si è detto che gli occupanti del gommo­ne provenivano dal Cor­no d’Africa. Non si sa chi ha messo in giro questa voce. E’ suc­cesso anche la setti­mana scorsa per il barcone con 75 mi­granti, è stato scritto che erano curdi e ira­cheni, invece si è ac­certato che erano tutti egiziani, e in Egitto so­no stati rispediti».

Stiamo attenti, ammoni­sce Piero Fassino (Pd), alle modalità con cui si effettua­no i respingimenti. «Bisogna agire in modo da impedire l’arrivo dei clandestini, ma al tempo stesso verificare se ci sono persone che hanno dirit­to all’asilo».

L’Italia ha più volte solleci­tato la Comunità europea, at­traverso gli interventi dei mi­nistri Frattini e Ronchi, a con­siderare il problema immigra­ti come una questione di tut­ta l’Europa. In particolare è stata lanciata la proposta che gli immigrati non vengano la­sciati solo sul territorio italia­no, ma ciascuno dei 27 part­ner europei ne accolga una quota. L’idea non piace affat­to ad alcuni Paesi. Secondo notizie che arrivano da Bru­xelles, la respingono decisa­mente Austria e Germania. Al­lora il commissario alla giusti­zia Jacques Barrot ha deciso di inviare domani una lettera a tutti gli Stati europei chie­dendo che venga presa una decisione comune, in base al­la quale ogni Paese dovrebbe aprire le porte a un certo nu­mero di rifugiati.

Intanto i 75 migranti ferma­ti l’altro ieri su un gommone in acque internazionali sono stati accompagnati dalla Guardia di finanza nel porto libico di Zawia, vicino a Tripo­li. Sembra che sulla nave ita­liana ci siano stati momenti di tensione, perché i 75 non volevano mettere piede in ter­ritorio libico.

Repubblica 1.9.09
Le elezioni in tre laender rilanciano la Linke di Lafontaine: "Ora i socialdemocratici non possono ignorarci"
Dopo il trionfo la sinistra avverte la Spd "Costruiamo insieme l´Ulivo tedesco"
Malgrado la netta sconfitta, la Merkel non ha dubbi: "Le elezioni politiche le abbiamo in pugno"
Il leader Lothar Bisky: "Il nostro successo è un segnale di voglia di giustizia sociale"
di Andrea Tarquini


BERLINO - Il giorno dopo il grande successo della Linke alla "superdomenica elettorale", e a quattro settimane dalle elezioni politiche federali del 27 settembre, un vento soffia sulla Germania, imprevisto fino a ieri: il vento di un trend verso l´unità della sinistra. "L´Ulivo di Lafontaine", titola l´editoriale del Tagesspiegel di Berlino, esprimendo il tema con la massima chiarezza. La Linke stravince, dice la Sueddeutsche Zeitung. "Trionfo di Lafo" (Oskar Lafontaine, appunto) spara in prima a caratteri cubitali persino il popolare Bild, vicinissimo alla Cdu-Csu della cancelliera. E il leader della Linke, Lothar Bisky, dice a Repubblica: «Il nostro successo è un chiaro segnale di voglia di giustizia sociale, voglia diffusa in ampi strati della società tedesca all´ovest come all´est. E adesso alla Spd tocca riflettere, capire che isolarci non le serve, anzi la danneggia».
«Noi restiamo sicuri, continuiamo ad avere in pugno ogni possibilità di vincere le elezioni», ha detto Angela Merkel, commentando il voto di domenica in tre dei sedici Stati della federazione, in due dei quali il suo partito ha avuto un tracollo mentre ovunque la sinistra radicale, cioè il partito di Lafontaine e dei postcomunisti dell´Est ha volato. «E sono convinta che la soluzione migliore per la Germania sia una coalizione tra noi della Cdu-Csu e i liberali della Fdp», ha continuato. Ma il problema esiste: il trionfo della Linke ha mostrato per la prima volta che la Germania può diventare imprevedibile, e che formule di governo o alleanze ritenute impensabili fino a ieri adesso stanno entrando nella realtà. Non ancora a livello nazionale, ci vorrà tempo, dice Lafontaine in persona. Ma la prospettiva di un Ulivo di Prodi alla tedesca, sottolinea sempre il Tagesspiegel, a medio-lungo termine «adesso è una visione, non più un´allucinazione».
Tre grandi interrogativi dominano adesso la vita politica: primo, chi governerà nei tre Bundeslaender dove si è votato domenica, perché se coalizioni di sinistra "rosso-rosso-verdi" s´imporranno, il Bundesrat (Camera delle regioni) diverrà un ostacolo per una possibile maggioranza di centrodestra. Secondo, quale riflesso avrà il voto di domenica sulle politiche del 27 settembre. Terzo, quali prospettive di dialogo e cooperazione si apriranno tra Spd e Verdi da un lato e Linke dall´altro a livello nazionale.
«La Cdu ha preso un grande schiaffo in Saarland e Turingia, e il nostro 20 per cento nella Saarland è un risultato mai visto prima», dice Lothar Bisky. «Merito essenziale di Lafontaine, ma comunque anche segnale di nuovi bisogni dell´elettorato. La Spd si trova al bivio: è ormai a rimorchio della Cdu, perché la Merkel prosegue la politica di "riforme" di Schroeder, o dà contenuti socialdemocratici alla sua politica. La Spd ha prima introdotto con Schroeder tagli al welfare che hanno aumentato la povertà specie tra bambini e anziani, poi ora accodandosi alla politica "socialdemocratizzata" della cancelliera ha perso profilo. Non è in una situazione invidiabile».
La strategia di lungo termine della Linke sembra ormai tentare di diventare il motore di un processo di unificazione a sinistra. «La Spd - sottolinea Bisky - spero capisca che aderire alla politica di Ausgrenzung, di emarginazione ideologica del nostro partito, non le porta consensi ma emorragie e perdita di profilo. Dire no alla Linke rafforza la Cdu, non la Spd». Molti elettori, e all´est ma non solo anche elettori che nel passato recente votavano Cdu o Spd, sottolinea Bisky, «adesso votano per noi. Per voglia di più giustizia sociale, o se sono benestanti per solidarietà con chi non lo è».
Tempi maturi per un "Ulivo tedesco", dunque? «È ancora presto per coalizioni a livello nazionale», replica Bisky. Al vertice della Spd decide ancora chi ci dice di no, con una rigidità ideologica. Ma se la Spd continuerà a perdere consensi e identità, quei suoi leader che sono più aperti verso di noi, e che nei suoi ranghi, lo so bene, non mancano, si faranno avanti».
Il senior leader della Linke sembra pensare soprattutto a Klaus Wowereit, borgomastro Spd di Berlino che governa insieme alla Linke la capitale città-Stato. «Di Wowereit ce n´è uno solo, ma lui è giovane, ha il tempo dalla sua parte. E con noi è pragmatico, non ha bende ideologiche sugli occhi». Qualcuno dice (nel centrodestra con crescenti timori) che il sogno e l´ambizione di Wowereit sono fare il grande balzo, da borgomastro di Berlino a cancelliere-leader di una sinistra unita, un Willy Brandt del dopo-guerra fredda.
a. t.

Corriere della Sera 1.9.09
Il successo del partito di Lafontaine resuscita (e torna a dividere) gli orfani dell’Ulivo
Effetto Linke sulla sinistra italiana
Ferrero: «Giusto essere radicali». Mussi: «Non è Rifondazione comunista»
di Alessandro Trocino


ROMA — Tagesspiegel titola: «L’Ulivo di Lafontaine». E azzarda: Oskar il rosso «ha tradotto nel dia­letto della Saar la formula dell'Uli­vo italiano». Riconoscimento in­sperato per una formula, l’Ulivo, che nel mercato italiano della poli­tica da qualche tempo non trovava più molto spazio, travolta da una si­nistra litigiosa, poi sconfitta e di­sgregata, e da un Partito democrati­co che sembrava inclinare più ver­so una vocazione all’autosufficien­za che verso la volontà di ricostrui­re il centrosinistra.

I risultati di Oskar Lafontaine danno linfa a chi crede ancora a questa visione. Rosy Bindi, mozio­ne Bersani al congresso, registra in­nanzitutto che «il vento della de­stra comincia a essere meno impe­tuoso ». Poi non nasconde un po’ d’orgoglio: «E’ evidente che la for­mula dell’Ulivo è stata anticipatri­ce ». Il risultato di Lafontaine corri­sponde a una crisi dell’Spd: «Non a caso anche il Pd, per quanto abbia perso 4 milioni di voti in un anno, alle Europee si è confermato il par­tito di centrosinistra più grande d’Europa. La formula del futuro non sta nella socialdemocrazia, nel­le vecchie case politiche del Nove­cento, ma nell’unione delle culture riformiste». Certo, i voti mancano: «Per farli tornare occorre ricostrui­re il perimetro del centrosinistra». Però per le alleanze Bersani sem­bra guardare più al centro che a si­nistra: «E’ vero — conferma Bindi —. Nel dibattito precongressuale si sta parlando poco di questo. Ma io credo che con l’Udc sia possibile solo un’alleanza tattica. Come dice Casini, si può mettere insieme un comitato di liberazione da Berlu­sconi. Invece per quanto riguarda un’alleanza strategica, a lungo ter­mine, credo che si debba invece guardare a sinistra».

Vincenzo Vita, Pd, conferma: «Questo risultato può riaprire la questione di un centrosinistra più avanzato. Mi piacerebbe che tor­nasse di moda il dialogo con la sini­stra ». Per ora, nel Pd, non sembra aria: «E’ vero, nessuna delle tre mo­zioni risponde al problema. France­schini ce l’avrebbe anche nel Dna, ma deve fare i conti con il baricen­tro della sua coalizione; Bersani sa­rebbe il più adatto per la sua cultu­ra politica, ma deve parare l’accusa di essere troppo a sinistra; Marino elude il problema, si muove su un altro piano». Per Vita, Lafontaine aggrega elettori che la sinistra ita­liana ha perso: «Die Linke dà una risposta anche a quello che da noi è antiberlusconismo generico e che si rifugia nel dipietrismo. La nostra sinistra ha perso il contatto con questi elettori».

Vecchia o meno, la sinistra italia­na è comunque doppia. E non per­de occasione per litigare. Il segreta­rio di Rifondazione comunista Pao­lo Ferrero ha subito telefonato a La­fontaine per spiegare che è stato «premiato il coraggio di scelte radi­cali, come quelle che hanno porta­to alla rottura con la deriva modera­ta della Spd e alla scelta di costrui­re una formazione di sinistra auto­noma ».

Prc come la Linke? «Macché — risponde Fabio Mussi, di Sinistra e Libertà —. Lafontaine non ha mica rifatto il partito comunista della Ddr. Non ha messo la falce e il mar­tello: il Prc mi sembra più simile a Democrazia Proletaria che a Die Linke». Claudio Fava la somiglian­za la vede con Sinistra e Libertà: «Hanno una storia molto più simi­le alla nostra che a quella del Prc. Loro non hanno mai detto che sta­ranno per sempre all’opposizio­ne ».

Notazione colta da Marina Sere­ni, franceschiana del Pd: «Gli elet­tori di sinistra saranno di più quan­do avranno la percezione di una proposta di governo che scelga un centrosinistra di governo e non sia solo di opposizione sterile«. Cesare Salvi, Socialismo 2000, ricorda che «le due liste di sinistra alle elezioni europee hanno ottenuto più del 6%, due milioni di voti, la stessa ba­se dalla quale partiva la Linke. Ora bisogna uscire dalle contrapposi­zione e creare una Federazione del­la sinistra». E «ricostruire lo spiri­to dell’Ulivo di 13 anni», come dice Fava. «Ma la strada è lunga e irta di difficoltà — aggiunge Mussi —. Perché il Pd non è l’Spd, la nostra sinistra non è Die Linke, i Verdi ita­liani non sono i Verdi tedeschi. Ser­virebbe un po’ di coraggio per cam­biare».

Liberazione 1.9.09
Killer in famiglia. Il patriarcato assassino
di Monica Lanfranco


Alla fine di questa estate si faranno i conti, e si vedrà, per pura statistica, se le cifre del rapporto dell'Eures del 2007, secondo il quale il numero di omicidi maturati all'interno della famiglia e dei "rapporti di prossimità" (parenti, amici, vicini) ha superato quello degli omicidi legati alla malavita e alla criminalità organizzata, sono valide anche per il 2009. Due anni fa in famiglia erano morte ammazzate 174 persone, in maggioranza donne e minori uccisi dai padri, mariti, conviventi (pari al 29,5 per cento del totale, superando in misura rilevante le vittime della criminalità comune e mafiosa all'esterno della casa). I numeri, però, sono solo numeri, mentre le storie, le immagini, i racconti del dolore e della violenza sono altro: sono la realtà incarnata in vite distrutte, spezzate dalla solitudine, schiacciate dal peso di valori sociali e pregiudizi che scavano la roccia fino a creare voragini che inghiottono le persone, e le rendono anche assassine.
A Genova qualche giorno fa una donna di 35 anni ha ucciso il suo bambino di 19 giorni e poi si è impiccata: era sola, con alle spalle una storia familiare di lutti e di abbandoni. La depressione post partum, il killer silenzioso in agguato in una società come la nostra dove la maternità reale non è, né per la collettività né per le istituzioni, quella facile e solare delle pubblicità dei pannolini senza antipatiche fuoriuscite, ha fatto un'altra tacca nel suo carnè di sangue. Ieri a Reggio Emilia un operaio disoccupato ha ucciso a coltellate e colpi di martello moglie e figlio di 19 anni, ridotto in fin di vita l'altro figlio di 4 anni e l'anziana padrona di casa. Poi ha tentato il suicidio. Dopo due anni di cassa integrazione, da maggio non riscuoteva più sussidi; il Centro di salute mentale che lo seguiva da tempo sostiene che l'uomo non avesse mai mostrato segni di squilibrio. Ma c'è, spesso insidiosamente latente e poco visibile, un altro silenzioso assassino annidato in chi, quasi sempre maschio e padre di famiglia, compie gesti mortali dentro la sua casa, con una disperata furia annientatrice: il senso di possesso della propria compagna e dei figli e figlie, l'eredità assassina del patriarcato. Nella raggelante follia omicida che annienta gli affetti e arma la mano di un uomo contro chi gli è più caro c'è anche l'ancestrale, terribile radice che gli permette di concepire questo gesto, iscritto nella genealogia del padre/padrone: «se io non ce la faccio nulla mi deve sopravvivere, perché la mia famiglia è mia».
Carlo Marx scrisse che c'era qualcuno ancora più oppresso e schiavo del proletario nel sistema del capitalismo: sua moglie, spesso resa schiava anche da lui, oltre che dal struttura economica. Non ci sono smentite all'orizzonte, purtroppo.

Repubblica 1.9.009
Perché non possiamo più dirci cartesiani
Esce in una nuova edizione l’opera completa del filosofo che è all´origine della nostra modernità Cosa resta di lui oggi che il suo motto è diventato "Non penso dunque sono"?
Si può sospettare che la sua filosofia sia stata un esempio di militarizzazione del pensiero
La sovranità assoluta del suo "Io penso" si è frantumata sui muri del Novecento
di Antonio Gnoli


Quando alla fine degli anni venti Edmund Husserl tenne le sue lezioni parigine su Descartes (che poco dopo sarebbero state raccolte con il titolo Meditazioni cartesiane), sembrava che la partita, giocata nel nome di un legame fondamentale tra filosofia e scienza, potesse avere la meglio sulle inquietudini e le incertezze speculative che negli stessi anni cominciavano a serpeggiare nella filosofia europea. Perfino un acuto poeta aperto al pensiero scientifico, come Paul Valèry, nel ricostruire le algide movenze mentali di Monsieur Teste, rivendicava l´assoluta autonomia cartesiana del pensiero dalle faccende del mondo, lasciando al lettore la sensazione che una efficace macchina solipsistica potesse in qualche modo ristabilire la supremazia del cogito su tutto il resto. Ma quella vicenda, ammantata di razionalismo, andò come è noto in tutt´altro modo. Del resto, quando René Descartes mise mano a quei due o tre capolavori filosofici che avrebbero segnato i secoli successivi - e tra questi Il discorso sul metodo e le varie Meditazioni - non poteva immaginare che proprio il Novecento avrebbe lasciato esplodere le grandi questioni da lui così efficacemente poste. È probabile perciò che egli stenterebbe a orientarsi tra le tumultuose trasformazioni che il pensiero filosofico ha subìto, allineando accanto alle celebri idee chiare e distinte quelle oscure e complicate di molti altri filosofi, e perfino semplicistiche, come si rileva attraverso il più efficace General Intellect che ci sia rimasto, ossia la televisione.
Ora, chi voglia in qualche modo rendersi conto di che cosa sia stato questo genio che seppe con eguale acutezza misurarsi con i grandi problemi della matematica e della filosofia, lo può fare grazie alla nuova edizione delle Opere che Bompiani pubblica in tre volumi a cura di Giulia Belgioso, studiosa che ha al suo attivo anche la cura di tutte le Lettere apparse sempre da Bompiani nel 2005. Grazie a questo programma meritorio di pubblicazione dei grandi testi della filosofia classica (e il merito è qui soprattutto di Giovanni Reale), abbiamo a disposizione, con testo a fronte, l´intero corpus cartesiano, vero e proprio monumento filosofico che è alle origini di tutte le possibili considerazioni sul moderno.
Ma chi è stato Descartes? Le poche immagini a disposizione lo ritraggono in pose che suggeriscono solidità di vedute e insieme qualcosa di sfuggente. Il capello fluente e mosso fin sulle spalle, la frangia irregolare che gli scende sulla fronte, il baffo e il pizzo à la mode secentesca, l´occhio di un pesce abituato alle profondità marine, restituiscono i tratti di un signore che avrebbe potuto intraprendere la professione del soldato, o quella del borghese se non proprio quella del filosofo. In effetti, non disdegnò le armate. Si arruolò nel reggimento del principe Maurizio di Nassau. Si conosce la sua passione per il gioco d´azzardo, la scherma e l´arte della fortificazione. E a volte si può anche sospettare che sia stato il primo vero esempio di una militarizzazione del pensiero filosofico. Del resto erano anni in cui le guerre, i dissidi, le imboscate esplodevano improvvisi. L´urto delle armature, il rumore dei primi cannoni, lo spostamento delle truppe, gli assedi, rappresentavano uno spettacolo violento e prolungato nel tempo. Mostravano i segni che l´uomo lasciava sulla terra. Ma l´uomo era questo o anche altro? Il mondo nel quale Descartes si trovò a vivere si era improvvisamente svegliato da un profondo letargo. Il lungo dominio esercitato dalla teologia era minacciato dalle scoperte geografiche e scientifiche. Costruzioni del pensiero ritenute fino ad allora saldissime rischiavano di crollare sotto il peso delle insidie che la scienza, con Galileo, Harvey e poi Newton, aveva scatenato.
La mente prensile di Descartes si muoveva con estrema agilità in quella nuova visione del mondo. Il suo talento per le scienze non era da meno del suo genio filosofico. La sua ambizione era di riuscire a unire saldamente i due saperi: la filosofia non avrebbe dovuto fare a meno della scienza, che a sua volta si sarebbe dovuta servire delle conoscenze filosofiche per dar vita a quel sistema di regole certe senza il quale l´uomo avrebbe continuato a vivere nel disorientamento e nell´oscurità. Quella tensione fu il lascito che Descartes trasmise ai secoli successivi.
Anche nel merchandising filosofico Descartes eccelleva: fu un genio della formula breve. Coniò con tre parole una sentenza il cui successo sarebbe giunto indenne fino ai giorni nostri: Penso dunque sono. Icastica, evidente, esplosiva come un messaggio pubblicitario. Ma davvero pensare equivaleva ad essere? E poi pensare a cosa? Possiamo immaginare il filosofo mentre con cura esamina il dettato della mente e lo separa dal corpo; vederlo chino su quella macchina prodigiosa che è l´uomo, destinata a corrompersi; osservarlo davanti al sorprendente spettacolo che il mondo consegna al suo sguardo, colmo di ammirazione ma non fino al punto da trarlo in inganno. Troppe cose che vi accadono sono soggette alla contraddizione, alle incertezze. Nasce qui il famoso dualismo cartesiano: separare e dubitare sono le sue armi conoscitive. Il dubbio in lui non ha una portata scettica. È un´arma metodologica per dirimere il vero dal falso, il reale dal sogno, il ragionevole dal folle. In genere queste partite filosofiche finivano ancor prima di cominciare. Prima di René la filosofia armeggiava con le sue certezze, le sue gerarchie, i suoi modi scolastici. Se si scrutava il cielo lo si faceva con gli occhi di Aristotele e guai a sgarrare, guai a controvertire idee e processi stabiliti e saldamente nelle mani dei dotti. Pensare in modo non retto poteva essere molto pericoloso. Descartes, così incline al nuovo, sapeva a cosa sarebbe andato incontro nel sostenere certe tesi. L´accusa di ateismo avrebbe potuto distruggergli la carriera, buttarlo nello sconforto o peggio in qualche buia galera. Quest´uomo accorto - in corrispondenza con mezza Europa, mentre con l´altra metà litigava - era conscio di ciò che rischiava. Memore delle disavventure accadute a Galileo, della censura e poi dell´abiura nelle quali il grande scienziato era incappato, Descartes agì con cautela. Rinunciò a pubblicare alcuni libri. Il che non gli impedì di imbattersi in lunghe e asfissianti polemiche con chi vedeva nella sua filosofia una temibile rivoluzione, una cancellazione di Dio, un insulto ai grandi e stabili precetti della Chiesa. Il nichilismo, su cui oggi molto si discetta, incubava involontariamente nei pensieri di Descartes, prima che in quelli di Nietzsche.
Eppure egli non voleva sbarazzarsi di Dio. Anzi la sua ambizione era di dare a questa entità somma la dignità ontologica che le spettava. Ma dopo aver sentenziato cogito ergo sum, come poteva credere che i lupi della scolastica lo avrebbero risparmiato?
Proviamo a scendere per un momento nel dettaglio. Al penso dunque sono Cartesio vi giunge dopo un esame che libera il pensiero dalle insidie che la realtà può riservargli. D´altra parte, posso io dubitare di quest´ultima? Certo che sì, dal momento che potrei sognare ciò che ritengo di aver vissuto, o perfino posso essere ingannato da qualche diavolo, per non parlare del folle che ritiene che il suo corpo sia di vetro. La sola cosa che gli appare dotata di inoppugnabile certezza è l´idea stessa del pensare. Anche se sognassi, o fossi ingannato o finissi nei fumi dell´allucinazione, non potrei mettere in dubbio il fatto stesso che quelle cose le ho pensate.
Questa lezioncina di filosofia non sgomenti, perché l´aspetto interessante non è tanto l´argomentazione cartesiana, quanto quello che la celebre frasetta poté produrre sul piano delle conseguenze. Si può sospettare, per esempio, che penso dunque sono sia un duplicato della potenza divina, traducibile in Dio pensa, dunque è, dunque crea. Ma il fatto di aver ricondotto questa potenza alla natura umana suggerisce questioni ulteriori. Che cosa accade se l´uomo si sostituisce a Dio? Descartes non era del tutto ignaro dei rischi ai quali sarebbe incorso dando all´Io penso lo statuto della sovranità assoluta. Tutte le avventure moderne del Soggetto nascono lì e si sviluppano fino a infrangersi sui muri del Novecento che frantuma quell´Io diventato impensabile. È dunque un passaggio obbligato chiederci che cosa resta del nostro magnifico filosofo, espropriato di quell´Io sul quale tanta filosofia successiva ha provato in modi diversi a fondarsi. Oggi - che lo slogan è "non penso dunque sono" - oggi che il pensiero è diventato il più futile tra gli strumenti del conoscere, e che pensare equivale a quell´apparire sempre miracolosamente in bilico tra una certa idea di successo e l´essere ricacciati nell´anonimato, oggi che il corpo ha spostato in modo sensibile le argomentazioni filosofiche, non avrebbe molto senso definirsi cartesiani. La monumentale iniziativa di Bompiani ci restituisce nella sua integrità filologica un´incantevole figura metafisica, dalla quale tutto ci divide tranne il desiderio di misurarsi con la sua intelligenza. Che fu aspra e scevra da pregiudizi, e in ultima analisi egocentrica e introspettiva come poche. Descartes morì nel 1650 a 54 anni per una polmonite. In spregio al medico curante che Cristina di Svezia gli aveva mandato, tentò di curarsi da solo. La leggenda vuole che sia stato avvelenato.

l’Unità 1.9.09
L’italiano e i dialetti /2
Alcol, alcova, assassino
Nella lingua le tracce dell’immigrazione passata
di Tullio De Mauro


Secondo il linguista un idioma è dato dall’amalgama di tante contaminazioni Il vocabolario non è un sistema statico. È un insieme dinamico sempre ampliabile La nostra storia è piena di richiami esterni che si sono cementati nel corso degli anni

Il seme della differenza linguistica trova terreno adatto in ogni essere umano e possiamo, anzi dobbiamo rendercene conto, piaccia o no, per molti motivi. Uno è che sul possesso della nostra lingua materna, povero dialetto o lingua illustre che sia, una volta acquisitolo possiamo innestare l’apprendimento di altre lingue anche molto diverse. E, anzi, l’esperienza dei bambini bilingui dice che fin dall’inizio del cammino che porta al linguaggio è possibile imparare a un sol tempo due lingue diverse. Un grande pensatore tedesco del primo Ottocento, politico e insieme grande filologo e linguista, Wilhelm von Humboldt, diceva che possedere una lingua significa possedere la chiave per ogni altra. Se avessimo buona memoria storica e perfino autobiografica o un po’ di spirito d’osservazione, non avremmo bisogno dell’autorità di Humboldt per affermarlo: milioni di noi italiani, emigrati spesso conoscendo solo un dialetto, si sono integrati nell’uso di lingue diverse. Fino al 1975 il saldo migratorio italiano era passivo o, detto più alla buona, emigravamo assai più di quanto non accogliessimo immigrati di nuovo arrivo. Questa è cosa che a quanto pare non si ama ricordare. Ma la cosa è avvenuta e ha creato tra noi diffuse testimonianze della capacità di conquistare nuove lingue, anche nelle circostanze assai difficili in cui si trovano in genere i migranti.
Ciò che è avvenuto per noi italiani, avviene in tanta parte del mondo per i milioni di migranti, ispanici in USA, cinesi, indiani e africani di varia lingua un po’ dappertutto. Anche paesi a lungo isolati dai flussi migratori, come il Giappone, si sono ormai aperti alle ondate di migranti coreani, cinesi e del sud-est asiatico. Sono flussi demografici che creano nuovi spazi per il plurilinguismo e nuove necessità per sperimentare la capacità umana di apprendere altre lingue oltre la materna. E lo stesso avviene sotto i nostri occhi nelle scuole, nelle imprese, nelle case dove milioni di immigrati conservando ovviamente la loro lingua materna, cui spesso si aggiungono un buon inglese o francese, vengono imparando i nostri dialetti e la nostra lingua, come da molti anni analizzano con cura studiosi delle università di Pavia, Bergamo, Siena, Roma. Non voglio qui riprendere polemiche contro la squallida mozione Cota sulle classi ghetto. Al contrario, voglio invitare a una saggia pazienza: Cota può far del male a breve termine, ma i Cota passano e la vocazione plurilingue dell’uomo resta.
Ma altre possibilità abbiamo per valutare oggettivamente la vocazione umana alla diversità linguistica. La più accessibile è considerarne gli effetti in tutte le parlate del mondo o almeno su quelle molte che, tra le settemila oggi un uso, abbiamo studiato e possiamo documentare più analiticamente. Una lingua non è un sistema statico, chiuso e fermo. È un insieme dinamico sempre ampliabile e integrabile in risposta alle necessità dell’uso. A molte integrazioni chi parla una lingua provvede con mezzi interni alla
lingua stessa. Ma una continua fonte di novità e integrazioni è per i parlanti di ogni lingua ricorrere ad altre lingue, importandone strutture anche sintattiche e grammaticali, ma soprattutto parole nuove. Tre secoli prima che la linguistica cominciasse a studiare e documentare i flussi di prestiti da una lingua all’altra, con il genio dell’osservatore e dello storico Niccolò Machiavelli scriveva: «Non si può trovare una lingua che parli ogni cosa per sé senza aver accattato da altri». Il prestito linguistico non solo non è fatto marginale, ma in certi casi modifica profondamente nel tempo la fisionomia di una lingua. Un caso noto è quello del persiano moderno, una lingua indoeuropea in cui, sotto la spinta religiosa dell’Islam, il vocabolario si è arabizzato. Al contrario il malti, una lingua semitica prossima all’arabo, si è indoeuropeizzato nel vocabolario e, più in particolare, si è arricchito di prestiti dal sici-
liano e dall’italiano comune. Il prestito da altre lingue ha raggiunto proporzioni eccezionali nell’inglese sia britannico sia americano. L’inglese, si sa, è una lingua di origine germanica, affine a tede-
sco, olandese e alle lingue nordiche. Dal tardo medioevo è stato arricchito da prestiti di matrice latina, tratti o dal francese o direttamente dal latino e il suo volto è cambiato. Studiando un campione di parole dell’Oxford English Dictionary risulta che soltanto il 10% delle parole registrate dal dizionario appartiene all’originario fondo germanico. Il 25% è rappresentato da neoformazioni createsi nella storia della lingua. Ben il 65% del vocabolario inglese attuale è tratto dal latino, dal francese e, in misura più modesta, da italiano e spagnolo.
Gli ispanismi, ma anche gli italianismi, sono meglio rappresentati nell’inglese d’America. La presenza latina e neolatina è così forte che uno studioso inglese, James Dee, si è spinto a dire che l’inglese è la lingua che meglio conserva l’eredità del latino classico, medievale e moderno.
Rispetto all’inglese l’italiano è un po’ più fedele alle sue origini, cioè alle origini latine. Una grande fonte dizionaristica italiana, paragonabile per estensione all’Oxford English Dictionary, permette di affermare che nell’italiano oggi in uso le parole di diretta eredità latina sono quasi 41mila, poco meno di un sesto del totale e quindi assai più del decimo di parole germaniche in inglese. Il latino è presente in italiano in modi diversi. Come nelle altre lingue europee, è stato e resta il filtro di grecismi: democrazia, economia, matematica ecc. Ci sono poco più di 10mila parole che un grande storico della lingua, Bruno Migliorini, definiva patrimoniali: sono parole presenti dall’origine nelle parlate toscane, quindi poi in italiano, e, con le dovute varianti, nei dialetti: abbondare, avere, dovere, faccia, rabbia ecc. La gran maggioranza delle parole d’origine latina è stata presa dalla tradizione scritta e colta antica e medievale e introdotta di peso
nell’italiano ormai formato e, in parte, anche nei dialetti: abate e abbazia, abietto e abiezione, abile e abilità, acacia (la forma patrimoniale c’è ed è gaggia), popolo (la forma patrimoniale fu, in antico, povolo) ecc. In terzo
luogo, non solo tra giuristi e medici continuano a circolare un migliaio di locuzioni latine antiche o medievali: ab antico, ad hoc, a latere, ab origine, grosso modo, sine die. Infine ci sono i «cavalli di ritorno»: latinismi dell’inglese che tornano per questa via tra noi come abstract, education o sentimentale.
Il latino è una cava a cielo aperto sempre attiva per chi ha parlato e parla o scrive l’italiano. Ma nella nostra storia abbiamo attinto anche ai giacimenti di altre lingue per costruire l’identità dell’italiano e dei dialetti. Dall’area francese e provenzale vengono moltissime parole, quasi diecimila, come abbandonare,ab-
Ma non è possibile tacere degli apporti che l’italiano e i dialetti hanno tratto nei secoli da un’altra lingua, l’arabo. Alcune parole come ayatollah, kebab (giuntoci come caffè attraverso il turco), kefiyyah hanno avuto una reviviscenza recente. Altre non hanno bisogno di reviviscenza tanto sono radicate profondamente sul suolo italiano. Anzitutto nei nostri dialetti, specie nelle parlate siciliane, attraverso cui sono poi spesso passate nell’italiano comune, come cosca, dammuso, sciarra e sciarriari, zagara, ma si pensi anche al genovese camallo o all’orginariamente veneziano arsenale. Molte si sono insediate nell’italiano dai primi secoli della nostra storia linguistica come effetto del superiore prestigio culturale che avevano gli islamici dall’Arabia all’Africa Settentrionale alla Spagna. Ecco una piccolissima scelta di queste parole: alambicco,albicocca, alchimia, alcol, alcova,alfiere, algebra, algoritmo, almanacco, ammiraglio, arsenale, auge, assassino, azimut, azzardo, azzurro. Nutrizione e astronomia, chimica e costume, tecnologia e matematiche: tutti campi in cui noi, ma anche altri europei, abbiamo imparato cose e parole dalla grande cultura araba.
Dell’amalgama (arabismo!) di tante contaminazioni è fatta l’identità delle nostre parlate e dell’italiano.
(2. Fine)

l’Unità 1.9.09
L’invasione della Polonia. Settanta anni fa Hitler dette avvio alla Seconda guerra mondiale
Terra di conquista. Cautelatosi con Stalin, il dittatore nazista voleva il paese a est di Berlino
Primo settembre 1939 Quando l’Apocalisse iniziò
di Oreste Pivetta


«Ho sempre avuto l’intenzione di colpire per primo». Hitler non faceva mistero delle sue strategie d’attacco. Il 1º settembre 1939 la Germania invadeva la Polonia: iniziava la peggior carneficina della Storia.

Ho sempre avuto l'intenzione di colpire per primo». E fu così anche quella volta, settant'anni fa, il primo settembre 1939, il giorno della guerra. Gli altri discutevano, spedivano messaggi, tramavano, correvano lungo il Baltico su lentisimi mercantili. Hitler aveva deciso da mesi che quello sarebbe stato il giorno della guerra. Aveva preparato l'esercito, distribuito gli incarichi, scritto gli ordini, creato l'Oberkommando der Wehrmacht. Persino il nostro Ciano gli si presentò per implorarlo di un rinvio a nome di Mussolini, come sempre a corto di tutto. Lo trovò immerso tra le carte a disegnare fronti e schieramenti con le freccette, lo sguardo corrucciato della stratega immerso nel calcolo delle traiettorie dei cannoni. Voleva Danzica, la città libera sotto la protezione (dalla pace di Versailles del 1919) del formidabile baluardo delle Nazioni unite, e voleva soprattutto la Polonia, perché il destino della sua Germania marciava ad est, perché quella era terra di conquista facile, del grano e del legno, perché infine s'era cautelato con l'alleanza di Stalin, nell'idea, per cominciare, di fare a metà (alleanza che Stalin avrebbe magari sottoscritto anche con gli occidentali, se questi non fossero rimasti prudentemente a guardare).
SEMPRE LA STESSA STORIA
In fondo era sempre la stessa storia: in Austria, nei Sudeti. La versione era che loro, Hitler, Himmler, Goebbels andavano a riprendersi qualcora di confine, ben guidati da due convinti sottufficiali, e la Polonia fu e la guerra fu. Non mancò la foto. Quella che segna l'inizio di un furibondo conflitto mondiale che si rivelò qualcosa di peggio di bombe e di cannoni e di morti e sangue non possiede la meravigliosa e vittoriosa retorica della bandiera rossa sul Reichstag e neppure l'eroismo mistico (e forse un poco artefatto) del drappo a stelle e strisce stretto a forza all'isolotto di Iwo Ima. La foto dell'inizio è semplice, inutilmente affollata: come se un gruppo di ragazzi si stringesse al palo per contendersi l'onore di spezzarlo. Uno in mezzo persino ride. Banale come il male che accende. Chissà come li avrebbe scoperti, fotografati e intervistati Claude Lanzmann, il francese amico di Sartre, l'inventore del più straordinario racconto cinematografico della Shoah: per mostrarci l'aridità dei colpevoli e dei complici, la superficialità, la convinzione, la giustificazione, il senso onnipotente dell'obbedienza nell'arroganza di qualsiasi assoluzione...
Era chiaro quello che sarebbe accaduto, anche se alle terme di Badenheim, tra ricchi ebrei, si ballava e brindava come sempre ad ogni fine stagione, nella gaiezza che così lieve e cupa, premonitrice, descriveva il grande Aharon Appenfeld: «Se i vagoni sono così sporchi, vorrà dire che non si andrà lontano».
Era già stato detto e scritto: «Gli ottanta milioni di tedeschi hanno risolto i loro problemi ideologici, ma restano tuttora aperti i problemi d'ordine economico... Per risolvere questi, occorre coraggio, nè è accettabile il metodo di tentare di sottrarsi a questa necessità semplicemente adattandosi alle circostanze. Bisogna al contrario, adattare le circostanze alle esigenze. Senza violare la sovranità di altri stati, senza metter le mani sull'altrui proprietà, nulla si potrebbe fare... Danzica non è l'obiettivo al quale miriamo. Si tratta , per noi, di allargare il nostro spazio vitale in Oriente...». Così i carri armati procedettero
nelle pianure contro la cavalleria polacca. Qui si vide all'opera la grande aviazione tedesca, mentre gli alleati occidentali lanciavano ultimatum. Infine dichiararono la guerra: era il 3 settembre. Per arrivare a Varsavia i tedeschi impiegarono neppure un mese: il 27 settembre la capitale polacca cadeva. Mussolini se la cavò con l'invenzione della «non belligeranza»: d'altra parte aveva più volte avvertito l'alleato che in fondo non aveva granché da spendere. Quello che teneva, l'avrebbe lanciato nella mischia più avanti, quando sarebbe stato chiaro il bottino dei tedeschi: qualche migliaio di morti per partecipare alla spartizione. In Polonia la Germania (e siamo solo all'ottobre del 1939) impose i suoi «diritti»: il ritorno tedesco di Danzica e di tutti i territori sottratti dopo la prima guerra mondiale, mentre il resto del paese diventava un Governatore generale. Nel suo Governatorato Hitler potrà imporre la sua lingua, le sue scuole, il lavoro coatto, la schiavitù insomma fino allo sterminio nei campi per i renitetenti e i poco resistenti: milioni di esseri umani.
Alla Polonia toccò il privilegio di Auschwitz, ma a Varsavia toccò quello della rivolta. Il ghetto fu via via gasato, incendiato, bombardato: ebrei e partigiani si lanciavano vivi dai palazzi in fiamme e c'era un premio per chi li colpiva al volo. Faceva parte della Grande Azione voluta da Himmler e guidata dal generale Joseph Stroop (si faceva chiamare Junger per sembrare più ariano). Nel ghetto resistettero giorni e giorni e la resistenza fu un miracolo: quasi la dimostrazione che una umanità poteva ancora sopravvivere, anche se proprio Auschwitz per parafrasare Hans Joans («Il concetto di Dio dopo Auschwitz») aveva ribaltato il senso dell'esistenza: non tanto la possibilità di esistere, quanto il segno stesso dell'esistenza...❖

il Riformista Lettere 1.9.09
Lo stile dell' avvenire

Caro direttore, l'attacco mediatico di cui è stata vittima il direttore dell'Avvenire Boffo rientra nello stile del quotidiano dei Vescovi. Non è forse "killeraggio giornalistico allo stato puro" paragonare l'aborto al nazismo e accusare di assassinio le donne che abortiscono? Non è una "polpettona avvelenata" parlare di "società meno umana" a proposito di Ru486? Ha forse a che fare con qualche deontologia condire il dibattito sull'aborto con interventi pseudoscientifici sulle presunte attività intrauterine dei feti e con i dati falsi sugli effetti collaterali dei farmaci specifici? Non è barbarie minacciare di scomunica i medici e invitare a boicottare la Legge 194 con l'obiezione di coscienza? Non fu "attacco disgustoso e molto grave" l'oscena presa di posizione sul caso Englaro? Scrivevano il 10 Febbraio del 2009: "Eluana è stata uccisa". Non è assurdo definire la sentenza del TAR sull'ora di religione "semplicemente assurda" e non è inverosimile e capzioso parlare di professori di serie A e altri di serie B? Non parlano la vita e il lavoro di quanti hanno chiesto un riconoscimento di fatto della loro unione? Come definire le accuse di eugenetica alla ricerca sulla procreazione assistita: carità? Per non parlare del killeraggio del referendum sulla Legge 40, che ha costretto migliaia di coppie a rivolgersi a centri specializzati all'estero: si è forse mai chiesto Boffo quale fosse il punto di vista dei diretti interessati? E non fu "disgustoso e molto grave" definire Welby "servo della tattica pro-eutanasia dei radicali"? Boffo, domandati quanta responsabilità ha avuto l'Avvenire nello svilire il dibattito democratico in Italia, soprattutto dopo l'operazione incrociata di killeraggio mediatico anti-Prodi montata ad arte col pasticciaccio della Sapienza. L'Avvenire non è un giornale di santi e paga e raccoglie i cocci che ha rotto appoggiando l'attuale maggioranza.
Roberto Martina