giovedì 3 settembre 2009

l’Unità 2.9.09
Bollettino quotidiano di crimini pubblici
Il made in Italy ora è un mostro
E la ribellione?

di Flore Murard Yovanovitch
giornalista francese


Immigrati nel mare, leggi internazionali violate: Fortezza Italia sprofonda ogni giorno di più nel suo delirio, incluso quello di «nemici immaginari». Ma la sua popolazione sembra paralizzata, come il tenente Drogo nel Deserto dei Tartari, incapace di un solo afflato di reazione. Governata da ormai accertati «malati di mente», aspetta rassegnata il bollettino quotidiano dei loro annunci e crimini pubblici. Eppure da qualche parte il disaccordo c’è, ma è sfiancato da un «senso dell’inutilità dell’agire politico come giustamente analizzava Nadia Urbinati oppure viene spesso soffocato dalla riproposizione di vecchie logiche stile anni 70. Mentre è in corso la fabbricazione di un nuovo mostro politico-sociale made in Italy, dalle imprevedibili forme e conseguenze... ».
Un’Italia a rovescio, dove viene ceduta la difesa degli immigrati alla chiesa e, al contempo, quella della laicità a uno spezzone ex fascista della destra; e dove l’opposizione brilla per la sua assenza consenziente. Ma dove, più di tutto, stride l’avere abdicato l’intera questione e dimensione umana al potere religioso. Totale confusione mentale.
Una società che sembra avere perso la chiarezza della differenza tra inaccettabile e «normale»; dove omosessuali, rom e immigrati, dovrebbero loro avere paura di noi (e non viceversa), perché trattati in modo disuguale, a volte persino come «non esseri», da picchiare, sgomberare o abbandonare a due passi da casa nostra...
Questi «diversi», ma uguali alla nascita, ci costringono d’urgenza a fare una rivoluzione culturale nonviolenta, laica e davvero egalitaria. Dove il rapporto con l’altro, base dell’identità umana, dovrebbe essere anche il principio cardine sul quale rifondare la nostra società.
Ci vuole una ribellione attuale, non l’ennesima fallimentare manifestazione di piazza in un paese di gomma dove tutto viene sempre ringhiottito nel nulla. Perché la politica non è rabbia effimera, ma agire concreto per costruire una società di rapporti interumani non distruttivi. Per contrastare le urgenti questioni sociali e culturali e fare una reale trasformazione del presente, ci vuole una ribellione della mente. Reinventare un antifascismo di oggi, facendo un «tuffo del pensiero» e cercando nella psiche e nella sua cura-trasformazione, perché come scriveva sul numero di Left del 21 agosto lo psichiatra Massimo Fagioli l’«Antifascismo è la conoscenza della parola trasformazione (...)».
Questione impellente, perché non possiamo rimanere come Drogo, catatonici, ad aspettare un improbabile giorno di battaglia, ma dobbiamo ribellarci oggi al mostro made in Italy, tutt’altro che immaginario.❖

l’Unità 2.9.09
Intervista a Shukri Said
«Le immagini sono drammatiche, l’Italia fermi i respingimenti»
La portavoce di Migrare: abbiamo testimonianze di torture, sevizie e persone uccise nella traversata dallo Yemen alla Libia. Il governo selezioni i profughi
diu Federica Fantozzi


I diritti umani
«Non si possono risarcire i libici e buttare a mare i somali. Sui diritti umani l’Italia non può mettersi sullo stesso piano di Gheddafi»

Shukri Said, somala, 37 anni, due figli piccoli, è in Italia da 18. Del nostro Paese ha preso la cittadinanza e ha dato nomi italiani ai suoi bambini.
Figlia di diplomatici, ex modella e attrice di fiction e teatro, adesso è segretario e portavoce dell’Associazione Migrare, un osservatorio sulle nuove migrazioni. Come è la situazione nel suo Paese d’origine? «Drammatica. Dal ’91, dalla caduta di Siad Barre e dai “signori della guerra” in poi, non c’è mai stato un governo legittimo. Solo esecutivi provvisori, ora anche alle prese con l’integralismo islamico. La Somalia è precipitata nella guerra civile e non si è più ripresa. La missione americana Restore Hope fu uno scandaloso fallimento: lì si capì che gli Usa non erano infallibili». Da cosa fuggono queste persone, disposte ad affrontare le violenze per l’ignoto? «Non solo dall’instabilità politica e da aggressioni per motivi di opinione. Da caos, guerra, malattie, carestia, faide che dividono fratelli fa cugini. Puoi essere ucciso in ogni momento da rappresaglie inspiegabili».
Nessun raggio di speranza?
«Finora la comunità intellettuale non è riuscita ad imporre regole democratiche per nuove elezioni. E da Paese laico, dove era raro incontrare una donna velata, la Somalia ha visto l’ingresso dell’integralismo. Proselitismo tra i poveri dietro cui si camuffa una grande infiltrazione di Al Qaeda».
Ha visto le foto della situazione nei campi libici pubblicate dall’Unità? «È da stamattina (ieri, ndr) che piango. Ma la nostra associazione aveva lanciato l’allarme prima dell’estate. Abbiamo testimonianze di torture, sevizie, gravidanze, persone uccise nella traversata dallo Yemen alla Libia. Donne e ragazzi minorenni legati e stuprati dai poliziotti, impazziti per le percosse».
Come giudica la nuova politica italiana dei respingimenti a mare? «Gravissimo e inaccettabile per uno Stato democratico. L’Italia ha ratificato la convenzione di Ginevra e le leggi internazionali sull’asilo che vietano i respingimenti indiscriminati. Quindi, o l’Italia abroga queste norme o seleziona i profughi». Non crede ci sia anche una responsabilità dell’Ue che manca di una voce sola e di una responsabilità condivisa sull’immigrazione?
«È così, ci sono diversi interessi in gioco. Anche l’Europa deve prendere in mano la situazione: l’Italia fa parte di una collettività che esprime una politica comunitaria. Roma ha ragione a chiedere collaborazione su quello che è un problema storico, un fenomeno biblico che non si argina con scelte miopi o con i demagogici proclami elettorali della Lega».
Gli sbarchi e i tentativi di sbarco peraltro aumentano. Come reagire? «Con la crisi economica ci saranno sempre più profughi. Bisogna lanciare un Sos alla comunità internazionale, a Obama, all’Onu, al mondo intero. Battete un colpo. È una situazione senza precedenti. Ma vorrei dire una cosa all’Italia...». Che cosa? «Il trattato con la Libia per il risarcimento dei danni coloniali dovrebbe essere esteso alle altre ex colonie come Eritrea, Somalia ed Etiopia. Non si possono risarcire i libici e buttare a mare i somali. Né l’Italia può mettersi sullo stesso piano di Gheddafi per il rispetto dei diritti umani». L’atteggiamento indifferente dell’Occidente può favorire l’espansione di Al Qaeda?
«Ma certo, è l’indifferenza che ricevono in continuazione a buttare le persone tra le braccia dei terroristi. La Somalia non è un Paese povero, possiede bestiame e coste. Però soffre il traffico di armi, rifiuti tossici, scorie radioattive, le ecomafie. È un territorio vasto in posizione strategica. Anche per il crimine».❖

l’Unità 2.9.09
Se non può comprare
di Concita De Gregorio


Così siamo al dunque. Quel che non si può comprare né corrompere deve tacere. Eccola qui la strategia d'autunno: zittire con ogni mezzo il dissenso, che ormai questo è diventato il semplice dovere di cronaca e diritto di critica. Il presidente del Consiglio, lo avete letto, è in guerra in queste settimane con i commissari europei, con le gerarchie ecclesiastiche, con i giornali che nel nostro paese e nel mondo documentano le sue gesta. Non ci sono in Italia molti organi d'informazione che non dipendano direttamente o indirettamente dal suo favore, dal suo smisurato potere economico e dal suo potere di influenza e di minaccia. Premere, corrompere o comprare. Dove non si può pagare, allora uccidere. Lo squadrismo mediatico di governo, forte di nuove reclute, è difatti al lavoro per distruggere le reputazioni dei giornalisti non a busta paga. Mezzi leciti e illeciti, menzogne, false prove, non importa. L'aggressione al direttore di Avvenire, che ieri persino Fini ha definito killeraggio. L’aggressione personale all’editore e al direttore di Repubblica, insieme la richiesta di risarcimento al giornale per aver posto dieci domande. L’Unità, unico quotidiano in Italia, le ha per due volte ripubblicate: è possibile giudicare diffamanti delle domande, non sarebbe doveroso rispondere? Il gruppo Prisa, editore del Paìs, è sotto offerta economica da parte di emissari spagnoli del premier. Ecco adesso l'attacco all'Unità. Due richieste di danni per una somma complessiva di 3 milioni di euro riferite non a un articolo o a un commento ma a due numeri del giornale nella loro interezza. Due numeri in cui ad alcune delle dieci domande si offriva risposta. I temi: lo stato della trattativa tra governo e Vaticano (indulgenza sulla condotta del premier contro leggi gradite oltretevere), il divieto di usare le intercettazioni telefoniche come strumento di indagine, lo stato della guerra privata del premier contro Sky e i danni che agli italiani ne derivano. Servizi di cronaca e libere opinioni, del resto da molti giornali anche stranieri condivisi. La novità, oggi, è che non si contesta un articolo ma un giornale intero. Una scrittrice, una editorialista, due giornaliste sono accusate insieme al direttore di aver concorso alla diffamazione che si dedurrebbe dal complesso generale dei loro scritti. È l’insieme che non gli piace. È il giornale: la sua linea, il suo tono. Chiedere un milione per ogni numero suona come un avvertimento: potrebbe farlo ogni giorno. Non vuole giustizia in sede penale, non gli interessa stabilire se quegli articoli riferiscano il vero. Vuole soldi. Minaccia di chiederne così tanti da ridurci al silenzio. Non accadrà, se accadesse sarà per sua mano. Come durante il fascismo, come quando la censura imponeva i sigilli.
È venuto il momento non solo di una grande mobilitazione, necessaria ma non sufficiente. È il momento di opporre allo strapotere dei soldi la politica, che sia quella l'argine al declino della democrazia. È anche venuto il momento, cari cittadini, di sostenere con forza rinnovata chi si sottrae alla logica del plutocrate. Di dare più forza alle voci del dissenso, ogni giorno. Non tanto e non solo per noi, che dal 1924 abbiamo conosciuto stagioni peggiori. Per tutti, per l'Italia che verrà.

l’Unità 2.9.09
Come il fascismo. Si tenta di realizzare quello che riuscì alla dittatura
Appello della direzione. Ai lettori e alle forze politiche per la difesa della testata
Berlusconi all’assalto. Nel mirino l’Unità e il diritto di cronaca
Citate in giudizio la direttrice, tre colleghe e la scrittrice Silvia Ballestra Tre milioni di euro la richiesta per articoli su escort e conflitto di interessi Anche uno sketch di Luciana Litizzetto finisce tra i temi incriminati
di Simone Collini


La notizia ha occupato per l’intera giornata di ieri le prime pagine di tutti i siti internet dei quotidiani nazionali e internazionali. Migliaia di messaggi di solidarietà sono giunti al nostro giornale on-line. L’intero Partito democratico si è unito alla condanna pronunciata dal segretario nazionale Dario Franceschini verso l’iniziativa del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi contro l’Unità e contro la libertà di stampa. Una richiesta esorbitante di risarcimento danni due milioni di euro all’editore, un milione alle autrici degli articoli per i servizi giornalistici e i commenti dedicati allo scandalo sessuale che ha coinvolto il premier.
Le argomentazioni contenute nei due atti di citazione sono formalmente dirette a dimostrare che è stata colpita la reputazione di Berlusconi, ma nella sostanza delineano un illecito non previsto dal nostro ordinamento, quello di lesa maestà. L’enormità della richiesta di risarcimento è idonea a mettere in pericolo la stessa sopravvivenza del giornale. In definitiva Berlusconi tenta di realizzare, con altri mezzi, quello che il fascismo aveva ottenuto con le leggi speciali. Il tentativo di chiudere una testata di opposizione è stato denunciato come «allarme assoluto» dalla Federazione nazionale della stampa.
Un passo degli atti prodotti dal legale del premier (consultabili integralmente su Unita.it) riassume bene il senso complessivo dell'iniziativa. «Si è scritto, spacciandolo per vero, che “tutto” sarebbe stato “nascosto” manipolando l'informazione attraverso le televisioni. E che il dottor Berlusconi non solo avrebbe tale controllo ma addirittura ne avrebbe abusato e continuerebbe ad abusarne in danno del servizio pubblico Rai e per i suoi interessi personali (che sarebbero una sorta di guerra contro Sky). Il che, come quant'altro divulgato dall'Unità, è mera invenzione». In definitiva, è «diffamatorio» anche dire che Berlusconi controlla l'informazione in Italia. Il legale, inoltre, contesta la citazione di battute di Luciana Littizzetto. «Affermazioni false e lesive dell' onore» del premier del quale, si legge nell’atto, «hanno leso anche la identità personale presentando l'on. Berlusconi come soggetto che di certo non è, ossia come una persona con problemi di erezione».
Non è possibile, nei due atti di citazione, trovare nulla che riguardi il merito delle affermazioni contestate. Né, quindi, ci viene data la possibilità di dimostrare che esse sono fondate su dichiarazioni pubbliche o su dichiarazioni già acquisite dall' autorità giudiziaria e diffuse da tutta la stampa mondiale.
La direzione de l’Unità ha lanciato un appello ai lettori e alle forze politiche per la difesa della testata. La determinazione dei giornalisti dell’Unità a respingere qualunque intimidazione è stata affermata dal Comitato di redazione. ❖

l’Unità 2.9.09
L’obiettivo di Silvio: scatenare l’offensiva prima che sia tardi
Attacco alla libera stampa per prevenire altre inchieste, nuovi scandali e processi delicati come per Dell’Utri. Con un pool di direttori fedeli e senza paura
di Rinaldo Gianola


Milano, agosto 2009. La calura è insopportabile, tutto pare immobile. Tranne nel quartiere generale di Silvio Berlusconi dove si prepara la campagna d’autunno. Una sera, casualmente, Vittorio Feltri e Maurizio Belpietro, le due stelle del giornalismo di destra ingaggiate con contratti che nemmeno Ronaldinho..., si incontrano al Matarel, ristorante milanese per uomini di potere con lo stomaco forte e la passione per la cassoeula. I due sono bergamaschi, gente di poche e chiare parole, anche un po’ incazzosi quando è il caso. Si stringono la mano, poche battute, qualche augurio, forse l’impegno a non farsi del male e via.
l’ombra di Feltri, poi si è emancipato pare dopo qualche vaffan...di evidente stampo padano. Sono i beneficiati, un po’ invidiati, del mercato estivo dei giornalisti. Mentre i quotidiani grandi e piccoli sono in difficoltà, nei giornali di destra volano quattrini e assunzioni. Feltri e Belpietro sono le star di questa campagna acquisti. Il primo lascia Libero, edito dagli Angelucci, per tornare alla direzione del Giornale, l’ex creatura di Indro Montanelli che chissà cosa direbbe oggi. Belpietro, invece, molla Panorama, settimanale una volta perla della Mondadori dove viene piazzato un fedelissimo di Cesare Previti: Giorgio Mulè, e si trasferisce a Libero al posto dell’amico. Il regista è Silvio Berlusconi il quale riceve Belpietro e gli garantisce il mantenimento della sua trasmissione mattutina su Canale 5. Una concessione che fa incavolare Feltri che vorrebbe, pure lui, una bella finestra televisiva.
Lo spostamento dei direttori della carta stampata di destra è complementare con le nuove direzioni al Tg1 e al Tg2 dove Berlusconi ha promosso Augusto Minzolini e Mario Orfeo, naturalmente con il voto favorevole del presidente di garanzia, Paolo Garimberti. Berlusconi vuole mettere la sordina alla storia del divorzio dalla moglie Veronica, non ne può più di farsi chiamare «Papi», non sopporta la Patrizia e quelle amiche che entrano a palazzo Grazioli e scattano foto e registrano le conversazioni private. E poi ci sono quei rompiballe di Repubblica con la storia delle dieci domande che finiscono sulla stampa straniera.
Bisogna passare all’attacco, preparare in anticipo l’autunno che si annuncia denso di prove impegnative. Nell’entourage del premier si teme che ci siano in giro altre fotografie, altre conversazioni compromettenti. Forse qualche inchiesta di una magistratura non ancora normalizzata. Si temono le critiche della Chiesa. Questo stillicidio deve finire. C’è bisogno di direttori fidati e senza paura perché l’autunno sarà impegnativo non solo per Berlusconi, ma anche per i suoi amici, come il senatore bibliofilo Dell’Utri che attende il nuovo processo dopo la prima condanna per mafia. Roba pesante che deve essere maneggiata da uomini esperti. Berlusconi vuole reagire subito, portare la guerra nel campo avversario, minacciare e sanzionare la libera stampa e chi non si adegua.
Feltri e Belpietro partono subito in quarta, pienamente allineati con la linea Berlusconi. Belpietro si scatena sulla famiglia Agnelli, Feltri si supera e giganteggia con il caso Boffo-Avvenire che nemmeno il suo amico l’agente Betulla, il parlamentare Farina, avrebbe saputo fare meglio. Si rovista a piene mani nelle vicende personali e familiari, comprese le modalità di acquisto di un’abitazione da parte del direttore di Repubblica, Ezio Mauro. Ma siamo solo all’inizio, girano voci su nuovi filoni «d’inchiesta» di Feltri e Belpietro come certi viaggi all inclusive con noti imprenditori e direttori di giornali. A ognuno il suo.
A noi dell’Unità è toccata una richiesta danni di tre milioni da parte del premier perché non ha gradito i nostri articoli. In tempi normali sarebbe una medaglia al valore. Oggi, invece, è una vera minaccia: bisogna vedere se ce la caviamo❖

l’Unità 2.9.09
Il Cdr: attacco alla Costituzione non ci faremo intimidire


La citazione in giudizio de l’Unità firmata Silvio Berlusconi segna un’ulteriore tappa nell’escalation di attacchi al diritto di critica e alla libertà di stampa ma ha il pregio di rendere ancora più chiaro il messaggio minatorio recapitato in questi giorni al mondo dell’informazione: è vietato raccontare ciò che fanno il premier e il suo governo da punti di vista diversi dal loro, come nel caso dei respingimenti di profughi in cerca di asilo; segnatamente, è vietato scrivere di condotte private del premier segnalandone i risvolti pubblici. Tutto questo avviene mentre si sta cercando di limitare, anche attraverso le nuove norme sulle intercettazioni telefoniche, il diritto-dovere dei giornalisti di rendere noto all’opinione pubblica il contenuto di inchieste giudiziarie, soprattutto se queste riguardano chi controlla la pubblica amministrazione e le leve del potere politico ed economico. I giornalisti dell’Unità ovviamente respingono ogni intimidazione al mittente e assicurano che i lettori del giornale verranno informati con puntualità di ogni avvenimento di pubblico rilievo, anche e a maggior ragione quando questo riguardi chi ricopre incarichi istituzionali di ogni tipo e livello. Chiedono a tutte le forze democratiche di reagire a questo vero e proprio assalto a principi cardine della nostra Costituzione. Al Direttore e alle quattro colleghe citate da Berlusconi la solidarietà di tutta la redazione. ❖

l’Unità 2.9.09
Laici e credenti due teste dure che dovranno dialogare
I dogmatismi degli scienziati e dei religiosi sono obsoleti: Ignazio Marino sulla necessità di un incontro per garantire la libertà di curaL’anticipazione
di Ignazio Marino, Medico e politico


La morte
Nell’800 la paura di essere sepolti vivi non era affatto irrazionale
Spesso non si allunga una vita ma si protrae il processo del morire
L’irrigidimento per paura dell’ignoto porta a predere l’identità
La cultura è «fuzzy», ha i margini sfuocati confusi e indistinti

Scienziato non è colui che sa dare le vere risposte, ma colui che sa porre le giuste domande». Così Claude Lévi-Strauss immaginava, poco meno di cento anni fa, l’uomo di scienza. Una definizione ancora attualissima, quella dell’antropologo francese: Paolo Vineis e Roberto Satolli sanno porre le giuste domande, ci offrono risposte meditate e ci ricordano che gli scienziati spesso non possiedono la verità, più di quanto essa appartenga agli umanisti, ai credenti, agli atei. Categorie, queste, forse già in cammino verso un’evoluzione fuzzy della cultura tutta, quella cornice del mondo dai margini sfuocati, confusi e indistinti in cui ogni giorno, per lo più inconsapevolmente e convinti di molte certezze, ci muoviamo.
Categorie, dunque, in una profonda crisi d’identità, portate a irrigidirsi per la paura dell’ignoto in cui vanno a sciogliersi cambiando forma, contratte nel disperato tentativo di innalzare barricate, tanto alte quanto fragili.(...)
Penso alla necessaria falsificazione della teoria del razzismo genetico o alla diffusa convinzione che i cosiddetti «integratori» vitaminici non possano che produrre benefici o alla difficile, mutevole, definizione del diabete o ancora al disorientamento che ci coglie quando ascoltiamo esponenti di scuole opposte, pronunciarsi in merito agli effetti dei cambiamenti climatici sulla nostra salute.
Tutti esempi articolati in questo testo, che si pone chiaramente l’obiettivo di superare, evidenziandone la contrapposizione, due dogmatismi. Il primo è la convinzione di larga parte del mondo scientifico di possedere definizioni univoche, non foss’altro perché raggiunte con una metodologia condivisa e collaudata da una ampia comunità, attraverso osservazioni riproducibili ed, in parte, empiriche; il secondo è quello di chi ritiene di essere il depositario di un superiore, trascendente, significato dell’esistenza e di tutto ciò che essa contiene. Insomma, l’incredibile e, a mio giudizio, artificioso conflitto tra Scienza e Dio.
È un conflitto, questo, di crescente estensione e intensità.
A volte anch’io, nella mia veste di scienziato credente, impegnato nelle istituzioni, mi sono trovato coinvolto in aspre discussioni (penso soprattutto al tema del testamento biologico e alla drammatica vicenda di Eluana Englaro). Il mio «triplo» profilo, di medico, uomo credente, e uomo politico, nella tradizionale banalizzazione e semplificazione delle definizioni, offerte soprattutto dalla televisione, è stato «metabolizzato» rapidamente dal sistema dei media. Eppure, nei fatti, continua a essere faticoso riuscire a rappresentare categorie del pensiero, presentate costantemente come avverse e avversarie. Uno dei principali problemi nei confronti pubblici, fuori e dentro le aule parlamentari, resta l’uso di linguaggi, di codici diversi: lo scienziato ha il suo vocabolario, il filosofo ha la sua terminologia, il religioso i suoi riferimenti, il politico il suo gergo. Mediamente vi è scarso interesse di comprensione reciproca, quando non manca del tutto la mera capacità di ascolto. Ma soprattutto si corre, troppo spesso, su binari paralleli, senza possibilità di reale dialogo. Specialisti della propria disciplina, analfabeti del mondo.
Altra difficoltà è accettare e condividere, per lo stesso mondo scientifico, un nuovo modello di classificazione, basato sulla logica fuzzy, che non comprende solo i valori A e B, ma anche tutti quelli intermedi. È la stessa scienza a funzionare per fuzzy sets, insiemi da confini incerti e indistinti. Insiemi che arrivano a coinvolgere la costruzione dell’identità degli esseri umani e che pertanto costringono anch’essi, per le implicazioni sociali ed etiche che comportano, all’individuazione di una nuova categoria: la biopolitica. Qui, più che fuzzy, i confini appaiono spesso strumentalmente mutevoli, a seconda delle ragioni di opportunità che la politica, ma a volte anche la scienza, individuano di volta in volta. Spesso è il sistema politico a guidare il percorso della scienza, ma capita anche che sia il mondo scientifico a entrare prepotentemente, con le sue scoperte e le sue tecnologie, nell’agone politico.
Lo stesso concetto di natura e la distinzione tra naturale e artificiale è stato ridefinito a seconda del contesto storico e della rilevanza che veniva data al grado di manipolazione umana. In altri tempi si è attinto alla natura come categoria kantiana, riferimento indispensabile per dare orientamento e senso alle nostre esperienze. In tempi più recenti, invece, la scienza si è orientata, più che ad analizzare rapporti di causa-effetto, a vedere i legami tra i fenomeni, secondo il concetto matematico di funzione.
Altro capitolo estremamente interessante è la definizione di morte. Basti pensare che, prima dell’avvento della medicina moderna, la paura di essere sepolti vivi non era affatto irrazionale: nel 1896 un impresario di pompe funebri americano riportò che quasi il 2 per cento delle persone riesumate potevano considerarsi vittime di uno stato di morte apparente. Allo scopo di evitare tali macabre evenienze, già alla fine del Settecento, l’anatomista danese Winslow indica una serie di misure da attuare sul presunto cadavere, affinché la diagnosi di morte sia certa (specchio davanti alla bocca per verificare che non si appannasse, insetti nelle orecchie, tagli sulle piante dei piedi).
L’evoluzione del concetto di morte diventa rivoluzione con l’invenzione del ventilatore meccanico, nel 1952: così nascono le terapie intensive. Pochi anni più tardi, nel 1957, Papa Pio XII chiede ai medici di definire scientificamente quando le funzioni vitali devono essere considerate indicatori della presenza di vita umana e due anni dopo i neurologi francesi Mollaret e Goulon definiscono lo stato di «coma irreversibile». Nel 1968 viene pubblicato il Rapporto del Comitato ad hoc della Harvard Medical School: da quel momento la morte è «morte cerebrale». Nella vasta area grigia, ancora una volta fuzzy, tra la vita e la morte, spesso ciò che accade con l’intervento medico, non è tanto allungare una vita, ma prolungare il processo del morire. Eppure la Costituzione italiana (scritta nel 1947, ma straordinariamente attuale) afferma che la libertà personale è inviolabile (art. 13), nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge e la legge non può in alcun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana (art. 32). (...)
E se è vero, come affermato dal filosofo Giulio Giorello, che «l’amore per la democrazia passa anche per un approccio che accantoni l’assolutismo da talk show per un percorso di negoziazione», credo che, in tal senso, anche il mondo scientifico possa dare il suo contributo, certamente non facendosi dettare l’agenda dalla politica e derogando al rigore metodologico, ma aprendosi (auto)criticamente, sicuro di poter contemplare la diversità di orientamenti come ricchezza e completezza nella visione di un fenomeno.❖

l’Unità 2.9.09
Le donne? Devono soffrire
di Maria Novella Oppo


Il presidente Gasparri è tornato in tv. Sì, perché pure lui è presidente, del gruppo Pdl al Senato. Del
resto, ormai, le cariche non si negano neanche alle escort, magari per farle tacere. Invece Gasparri lo hanno eletto per farlo parlare. Così ieri è tornato in tv per dire la sua sulla pillola Ru486, che, secondo lui, violerebbe la legge sull’aborto. Si tratta di uno dei cosiddetti ‘temi sensibili’ e, quando si parla di sensibilità, Gasparri è in prima linea, con tanto di elmetto e bazooka. Per questo ha iniziato come fascista ed è finito tra i berluscones di stretta osservanza, avendo anche firmato la legge che premia il conflitto d’interessi del premier. Legge che poi Berlusconi, con le nomine Rai, ha pure trasgredito. Ma Gasparri non se l’è presa: a lui preme di più difendere l’aborto da chi vorrebbe farlo diventare magari meno doloroso per le donne. Perché le donne devono soffrire, come vuole il capo, che ha querelato tutte noi dell’Unità.❖

Corriere della Sera 3.9.09
Il retroscena
Il 15 luglio Barrot scrive al presidente della Commissione libertà civili e si richiama alla Convenzione di Ginevra
La lettera all’Italia: dite perché li portate a Tripoli
Il punto di vista della commissione sui migranti intercettati: non mettere in pericolo i perseguitati
di Luigi Offeddu


Per Barrot, anche quando controllano le frontiere secondo Schengen, gli Stati non possono respingere i rifugiati in Paesi in cui «la loro libertà è minacciata»

Il mittente della lettera è Jacques Barrot, vicepresidente della Commissione europea e commissario alla Giustizia. Il destinatario è Lopez Aguilar, presidente della Commisione Libertà Civili del Parlamento europeo. Tema: i respingimenti dei migranti eseguiti in alto mare dall’Italia.
Barrot cita le norme e le convenzioni internazionali, firmate anche dall’Italia, che vietano i respingimenti quando mettono in pericolo la vita o la libertà dei migranti oppure li espongono al rischio di torture e maltrattamenti. Il commissario spiega inoltre di aver chiesto a Roma informazioni supplementari per avere la certezza del rispetto delle norme Ue Il testo
La parte più importante della lettera dice: «Il principio del non respingimento, così come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, significa essenzialmente che gli Stati non devono rimandare una persona (direttamente o indirettamente) laddove essa potrebbe correre un rischio reale di essere sottomessa alla tortura o a delle pene e trattamenti inumani o degradanti». Jacques Barrot cita anche l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951

BRUXELLES — Non ci sono né c’erano mi­steri, era già tutto detto: anzi, scritto. Quello che ha spiegato ieri in tema di immigrazione e respingimenti dei migranti, Jacques Barrot l’aveva scritto a metà luglio in una lettera uffi­ciale, vergata nella sua veste di commissario europeo alla giustizia. Nero su bianco, ba­sato sulle norme e trattati comu­nitari firmati da tutti i paesi, e ri­ferito esplicitamente al «caso Ita­lia »: l’Unione Europea non può ammettere i respingimenti in alto mare se questi mettano in perico­lo — anche indirettamente — la vi­ta di una persona o se la esponga­no al rischio di persecuzioni e mal­trattamenti nella terra d’origine.
Per Bruxelles, spiegato in soldoni, almeno in questo caso le norme in­ternazionali (per esempio la Conven­zione di Ginevra sui rifugiati) e so­prattutto i principi umanitari iscritti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, fanno premio sulle competen­ze giuridiche dei singoli Stati. E per­ciò, nel dubbio su che cosa stia effetti­vamente accadendo al limite delle loro acque territoriali, «la Commissione eu­ropea ha invitato le autorità italiane a fornirle informazioni supplementari sul­le circostanze del riconducimento in Li­bia delle persone interessate, e sulle mi­sure prese per assicurare la conformità con il principio del non-respingimento, all’entrata in vigore dell’accordo bilaterale fra i due paesi» (l’Italia e la Libia, ndr ).
Destinatario della missiva, sui «migranti intercettati in alto mare», il presidente della Commissione libertà civili del Parlamento Eu­ropeo, Lopez Aguilar, che ottiene così il punto di vista della Commissione, frutto di «un’ana­lisi preliminare alla luce del diritto comunita­rio ». Data della lettera, il 15 luglio. La «richie­sta di informazioni» all’Italia, cui si fa riferi­mento nel testo, dovrebbe avere una risposta proprio in questi giorni, più o meno alla sca­denza dei due mesi regolamentari. Nell’attesa, ecco il pensiero di Barrot e della Commissio­ne.
Punto primo: il diritto d’asilo riconosciuto e protetto dalla Ue si applica «unicamente» al­le domande fatte sul territorio degli Sta­ti- membri o nelle loro acque territoriali, dun­que «non si applica nelle situazioni in alto ma­re ». Secondo, le norme di Schengen «esigo­no » la sorveglianza delle varie frontiere «per impedire i passaggi non autorizzati». Apparen­temente, dunque, qui sembra entrare in gioco solo la competenza dei singoli governi, sotto­messa all’unico obbligo di sorvegliare i confi­ni comunitari. Ma nello stesso tempo, («cion­dondimeno », è il termine usato da Barrot) an­che le norme di Schengen devono essere con­formi «al principio del non-respingimento» e non devono «arrecare pregiudizio ai diritti dei rifugiato e delle persone che chiedono la protezione internazionale».
Ecco quindi il perno di tutto: «Il principio del non-respingimento, così come interpreta­to dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, si­gnifica essenzialmente che gli Stati devono evitare di rimandare una persona (direttamen­te o indirettamente) là dove questa potrebbe correre un rischio reale di essere sottoposta a torture, pene o trattamenti inumani o degra­danti. Inoltre gli Stati non possono rimandare i rifugiati alle frontiere di territori nei quali la loro vita o la loro libertà sarebbe minacciata a causa della loro razza, religione, della loro na­zionalità, dell’affiliazione a un gruppo sociale particolare o della loro opinione politica».
Questo «obbligo», aggiunge Barrot, deve es­sere rispettato dagli Stati europei anche «quando si attua il controllo delle frontiere se­condo le norme di Schengen, comprese le atti­vità di sorveglianza dei confini svolte in alto mare». Non solo: sempre secondo il commis­sario alla giustizia, «la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo indicate che le azioni compiute in alto mare da una na­ve di Stato rappresentano un caso di compe­tenza extraterritoriale e possono coinvolgere la responsabilità dello Stato interessato».

Repubblica 3.9.09
Mandante e utilizzatore
di Giuseppe D’Avanzo


Mai come oggi, i caratteri del "male italiano" sono il conformismo, l´obbedienza, l´inazione. Anche ora che un assassinio è stato commesso sotto i nostri occhi. Assassinio.
Con quale altra formula si può definire – in un mondo governato dalla comunicazione – la deliberata e brutale demolizione morale e professionale di Dino Boffo, direttore dell´Avvenire, "reo" di prudentissimi rilievi allo stile di vita di Quello-Che-Comanda-Tutto? Un funzionario addetto al rito distruttivo – ha la "livrea" di Brighella, dirige il Giornale del Padrone – «carica il fucile». Così dice. Il proiettile è un foglietto calunnioso, anonimo, privo di alcun valore. Si legge che Boffo è un «noto omossessuale». La diceria medial-poliziesca ripetuta tre o quattro volte assume presto la qualità di un prova storica. Non lo è. Non lo è mai stata. Brighella è un imbroglione e lo sa, ma è lì per sbrigare un lavoro sporco. Gli piace farlo. Se lo cucina, goloso. Colto con le mani nel sacco delle menzogne, parla ora d´altro: qualcuno gli crede perché sciocco o pavido. Non è Brighella a intimorire. È Quello-Che-Comanda-Tutto. È lui il mandante di quel delitto. È lui il responsabile politico. Contro Silvio Berlusconi ci sono quattro indizi. Già in numero di tre, si dice, valgono una prova.
Il primo indizio ha un carattere professionale. Qualsiasi editore che si fosse trovato tra i piedi un direttore che, con un indiscutibile falso, solleva uno scandalo che mette in imbarazzo Santa Sede, Conferenza episcopale, comunità cattoliche gli avrebbe chiesto una convincente spiegazione per l´infortunio professionale. In caso contrario, a casa. A maggior ragione se quell´editore è anche (come può accadere soltanto in Italia) un capo di governo che tiene in gran conto i rapporti con il Papa, i vescovi, l´opinione pubblica cattolica. Non è accaduto nulla di tutto questo. Gianni Letta ha dovuto minacciare le dimissioni per convincere Berlusconi a mettere giù due righe di «dissociazione». Può dissociarsi soltanto chi è associato e tuttavia nei giorni successivi, mentre il lento assassinio di Boffo continua, non si ode una parola di disagio dell´editore-premier a dimostrazione che il vincolo dell´associazione è ben più stretto di quella rituale presa di distanza: Berlusconi vuole far sapere Oltretevere che non ammette né critici né interlocutori né regole.
Il secondo indizio è documentale. Il 21 agosto, Mario Giordano, direttore del Giornale, è costretto a lasciare la poltrona a Brighella. Ne spiega così le ragioni ai suoi lettori: «Nelle battaglie politiche non ci siamo certi tirati indietro (…) Ma quello che fanno le persone dentro le loro camere da letto (siano essi premier, direttori di giornali, editori, ingegneri, first lady, body guard o avvocati) riteniamo siano solo fatti loro. E siamo convinti che i lettori del Giornale non apprezzerebbero una battaglia politica che non riuscisse a fermare la barbarie e si trasformasse nel gioco dello sputtanamento sulle rispettive alcove». Giordano non poteva essere più chiaro: mi è stato chiesto (e da chi, se non dall´editore-premier?) di fare del mio quotidiano una bottega di miasmi, per decenza non me la sono sentita e lascio l´incarico a chi quel lavoro sporco è disposto a farlo. Che il Giornale sia diventato un´officina di veleni lo conferma un redattore in fuga. Luca Telese, sul suo blog, racconta di dossier e schifezze già pronte al Giornale contro «giornalisti o parenti di giornalisti di Repubblica». L´indiscrezione è confermata in Parlamento da «uomini vicini al premier» (la Stampa, 29 agosto)
Il terzo indizio è, diciamo così, politico e cronachistico. Berlusconi, incapace di governare nonostante i numeri in eccesso e un´opposizione fragile, ha «rinunciato al suo profilo riformatore» (Il Foglio, 31 agosto). Non ha più alcun "fine". Difende soltanto "i mezzi", il suo potere personale. Lo vuole assoluto. Conosce un unico metodo per tenerselo ben stretto nelle mani: un giornalismo pubblicitario e servile che consenta di annullare ciò che accade nel Paese a vantaggio di una narrazione fatta di emozioni e immagini composte e ricomposte secondo convenienza; un racconto che elimina ogni criterio di verità; un caleidoscopio mediatico che produce un´ignoranza delle cose utile a credere in un´Italia meravigliosa senza alcun grave problema, in pace con se stessa, governata da un «Superman». Per questa ragione Berlusconi ingaggia l´obbediente Augusto Minzolini al telegiornale del servizio pubblico Rai. Per la stessa ragione, ma di segno opposto, liquida in un paio di mesi tre direttori di giornale. 2 dicembre 2008. Il Corriere della sera (direttore Paolo Mieli) e la Stampa (direttore Giulio Anselmi) rilevano il conflitto d´interessi dietro la decisione di inasprire l´Iva per Sky, diretto concorrente di Mediaset. Da Tirana, Berlusconi lancia il suo «editto»: «I direttori di giornali, come la Stampa e il Corriere dovrebbero cambiare mestiere». 10 febbraio. Enrico Mentana, fondatore del Tg5 e anchorman di Matrix, non riesce a ottenere uno spazio informativo da Canale5 per raccontare la morte di Eluana Englaro. Protesta. L´Egoarca lo licenzia su due piedi. In aprile l´editto di Tirana trova il suo esito. Il 6, Mieli lascia il Corriere. Il 20, tocca ad Anselmi. Mentana non è più tornato in video. Anselmi e Mieli non fanno più i giornalisti. Hanno davvero cambiato mestiere.
Il quarto indizio contro Berlusconi è concreto, diretto e recente. Quando non può licenziare o far licenziare i giornalisti che hanno rispetto di se stessi, Quello-Che-Comanda-Tutto organizza contro di loro intimidazioni: trascina in tribunale Repubblica colpevole di avergli proposto dieci domande e l´Unità per gli editoriali – quindi, per le opinioni – che pubblica. O dispone selvagge aggressioni. È il responsabile politico dell´assassino morale di Boffo preparato da Brighella. La maschera salmodiante combina campagne di denigrazione contro l´editore e il direttore di questo giornale. Poi l´editore-premier – come utilizzatore finale – si incarica di far esplodere quelle calunnie con pubbliche dichiarazioni rilanciate al tiggì della sera dall´obbediente Minzolini, che tace su tutto il resto.
Questa è la scena del delitto perfetto della realtà e del giornalismo. Sono in piena luce gli assassinii, gli assassinati, gli uccisori, il mandante. Vi si scorge anche un coro soi-disant neutrale. Vi fanno parte politici di prima e seconda fila che dicono: basta, torniamo alla realtà dei problemi del Paese. È proprio vero che «la pratica del potere ispessisce le cotenne». Queste teste gloriose, soffocate nella propria autoreferenzialità, non comprendono che è appunto questa la posta in gioco: la possibilità stessa di portare alla luce la realtà, di evitarne la distruzione, di raccontarla; di non fare incerta la distinzione tra reale e fittizio come Berlusconi pretende dai giornalisti anche a costo di annientare chi non accetta di farsi complice o disciplinato. Il dominio di Quello-Che-Comanda-Tutto passa, oggi e prima di ogni altra cosa, da questa porta. La volontà di tanti giornalisti "normali" che chiedono soltanto di fare il proprio lavoro con onestà e dignità ne esce umiliata. La loro inazione oggi non ha più una ragion d´essere di fronte alla brutalità dei "delitti" che abbiamo sotto gli occhi. La prudenza che induce tanti, troppi a decidere che qualsiasi azione o reazione sia impossibile, non li salverà. Il conformismo non li proteggerà. Il mandante dei delitti è un proprietario che conosce soltanto dipendenti docili e fedeli. Se non lo sei, ti bracca, ti sbrana, ti digerisce.

Repubblica 3.9.09
Intercettazioni hard e “ossessione del delirio senile”
La denuncia del Cavaliere tra "sesso malato"
Trenta pagine per sostenere che il premier è stato "diffamato e calunniato"
Secondo l´avvocato il quotidiano non avrebbe dovuto riportare dettagli a sfondo erotico
di Liana Milella


ROMA - No. Basta. Chi dice che Berlusconi è «un soggetto aduso a pretese iniezioni sui corpi cavernosi del pene oppure è affetto da problemi di erezioni» va punito. Lo ha scritto l´Unità il 13 luglio e il 6 agosto? Il premier, per mano del suo «legale rappresentante» a Roma avvocato Fabio Lepri, attacca il quotidiano, gli chiede tre milioni di euro di risarcimento, sostiene di essere stato ripetutamente «diffamato e calunniato».
Trenta pagine, in due distinte citazioni per due numeri del giornale, che vengono scritte per sostenere un´unica tesi. Questa: «Berlusconi viene presentato come protagonista di telefonate hard, come persona che impone, a fronte di collocazioni nel consiglio dei ministri o candidature elettorali, pesanti prestazioni sessuali». Affermazioni «false e lesive del suo onore, della sua reputazione, della sua immagine» scrive Lepri traducendo «l´indignazione del premier» in un atto giudiziario. Perché il presidente del Consiglio «viene presentato come soggetto che di certo non è», visto che è descritto «come una persona con problemi di erezione, che fa ricorso a misteriose iniezioni, che in modo spregevole impone prestazioni non gradite e le baratta con posti di governo o candidature elettorali». Insiste Lepri: «Il premier viene presentato come persona che intrattiene telefonate hard, poi intercettate, e i cui contenuti confermerebbero quanto sopra. E poi tenta di farle passare sotto silenzio, manipolando le televisioni, oppure per fini personali spingendo la Rai alla "guerra" contro Sky».
L´ossessione del delirio senile. L´avvocato Lepri traduce nelle citazioni contro l´Unità i leit motiv del Cavaliere. Scrive: «In scritti palesemente diffamatori, sia perché contengono falsità, sia perché sono comunque caratterizzati da forme insinuanti e diffamatorie, si presenta il dottor Berlusconi come persona affetta da una malattia, da un delirio senile di onnipotenza, che frequenterebbe perciò minorenni, parteciperebbe ad orge, incontrerebbe sessualmente prostitute e per tali attività non rispetterebbe neppure gli impegni istituzionali e opererebbe baratti col Vaticano per rifarsi una reputazione facendo approvare leggi contrarie agli interessi dei cittadini».
Sesso malato. Scrivendo ai giudici l´avvocato Lepri insiste: «L´Unità presenta Berlusconi come soggetto che di certo non è, ossia come una persona spregevole, "malata", che per il sesso (peraltro a pagamento) trascura i propri impegni istituzionali, arrivando addirittura a frequentare minorenni. Comunque una persona che sfrutta la propria carica politica per fini personali, promuovendo leggi al solo fine di "ingraziarsi" il Vaticano».
«Silvio è un porco». Il legale di Berlusconi contesta all´Unità di aver «recepito in toto facendole proprie le deliranti dichiarazioni» dell´ex parlamentare di Forza Italia Paolo Guzzanti, «aggiungendo del suo, condividendolo o addirittura utilizzandole per costruire altre falsità come la mendace "guerra" contro Sky». Il quotidiano non avrebbe dovuto «addirittura riportare dettagli a sfondo erotico». Contesta Lepri: «Si spazia da "rapporti anali non graditi", a "ore e ore di tormenti in attesa di una erezione che non fa capolino", da "discussioni sul prossimo set", a "consigli fra donne su come abbreviare i tormenti di una permanenza orizzontale pagata come pedaggio"». Il tutto, ci tiene a ribadirlo il legale del premier, «è completamente falso» perché «il dottor Berlusconi è stato presentato coram populo come persona diversa dalla realtà, sia nel privato che nel pubblico, la di lui immagine è stata deformata con attribuzione strumentale di fatti del tutto falsi e di condotte riprovevoli».
Intercettazioni hard. È uno dei peggiori incubi del premier. Le telefonate "calde" intercorse tra lui e alcune delle sue ministre. Per cui l´avvocato Lepri accusa l´Unità di aver messo in piedi una «premeditata strategia» quando ha titolato in prima pagina «L´intercettato» e ha poi dato conto delle notizie di colloqui tra il capo del governo e le esponenti di Forza Italia poi entrate a palazzo Chigi. S´indigna Lepri quando legge: «Vi sarebbero nastri di "celebri intercettazioni telefoniche tra signorine poi diventate ministro rimaste sui tavoli delle scrivanie delle redazioni, dei ministeri, degli uffici parlamentari il tempo necessario, poco, ma sufficiente a essere letti, fotocopiati, spediti in allegato per email a decine di persone"».
La D´Addario più di Silvio. «La reputazione del dottor Berlusconi è descritta come inferiore a quella di una prostituta». Così scrive l´avvocato Lepri contro l´Unità contestando i resoconti sul caso della escort barese Patria D´Addario e prendendosela con il direttore Concita De Gregorio quando afferma che «sarebbe più integra la reputazione della D´Addario piuttosto che quella di un uomo di Stato che promette solennemente una somma concordata per chi muore di fame in Africa e poi ne dispensa solo il 3%, cioè niente».

Repubblica 3.9.09
Berlusconi denuncia l´Unità De Gregorio: "L´obiettivo è far chiudere il giornale"
Fnsi: giornalisti in piazza il 19 settembre
di Luciano Nigro


Chiesti 3 milioni di euro di danni al giornale vicino al Pd. Citate cinque giornaliste per i servizi su caso escort, Rai e Vaticano. "Una cosa che non si era mai vista"

ROMA - Nel mirino di Silvio Berlusconi ora c´è l´Unità. Il premier chiede 3 milioni di euro di danni al giornale vicino al Pd. Una nuova causa civile per diffamazione contro una voce critica nei confronti del governo. Un´altra iniziativa senza precedenti, dopo i ripetuti attacchi contro Repubblica, le querele annunciate contro il Nouvel Observateur e altri giornali stranieri, la minaccia di bloccare l´Unione europea se i suoi portavoce non staranno zitti. Questa volta sotto accusa sono due interi numeri del quotidiano considerati "diffamatori" dal Cavaliere.
«Una cosa mai vista - protesta Concita De Gregorio, direttrice dell´Unità - quello che ci viene contestato è una linea politica, una visione del mondo. E questo chiarisce le ragioni della scelta della sede civile e la richiesta di un risarcimento esorbitante. E´ evidente che Berlusconi, come già il fascismo, vuole chiudere il giornale fondato da Antonio Gramsci». Anche il sindacato dei giornalisti, la Fnsi, che prepara una grande "manifestazione civica" in difesa della libertà di stampa per il 19 settembre, denuncia il «tentativo di strangolamento di una testata di opposizione».
E´ contro le edizioni dell´Unità del 13 luglio e del 6 agosto che gli avvocati del premier chiedono due milioni di risarcimenti più duecentomila euro da cinque giornaliste e scrittrici, tutte donne, che hanno firmato i pezzi contestati. Articoli nei quali si parla non soltanto degli scandali sessuali che hanno coinvolto il presidente del Consiglio, e di cui in quei giorni scrivevano i giornali di tutto il mondo, ma anche dei rapporti tra Rai e Mediaset e delle relazioni con il Vaticano. Al centro dell´offensiva legale di Berlusconi, assieme alle battute di Luciana Littizzetto sui «problemi di erezione» del presidente del Consiglio e alla definizione («un gran porco») dell´ex deputato del Pdl, già vicedirettore del Giornale Paolo Guzzanti, c´è ad esempio l´affermazione secondo cui Berlusconi «abuserebbe del suo ruolo per in danno della Rai per i suoi interessi personali». «In altre parole - ribatte Concita De Gregorio - oltre a contestare l´"illiceità" di due numeri del giornale, si considera "diffamatorio" anche dire che Berlusconi ha il controllo dell´informazione in Italia». La conclusione della direttrice dell´Unità è che «chiedere tantissimi soldi ad un giornale di opposizione equivale a dire che quello che non si può comprare si deve chiudere». Il comitato di redazione del giornale parla di un «messaggio minatorio».
Centinaia di messaggi di solidarietà sono arrivati ieri all´Unità, a cominciare dal segretario della Cgil Guglielmo Epifani («la situazione dell´informazione in Italia non è degna di un paese civile») e da quello del Pd Dario Franceschini che considera la causa all´Unità parte di una strategia «di intimidazione» nei confronti della libera informazione. La maggioranza ribatte che anche esponenti della sinistra avevano querelato i giornali. Ma a difesa dell´Unità interviene il sindacato dei giornalisti che lancia l´»allarme» contro «i tentativi di mettere il guinzaglio all´informazione».
Una preoccupazione nata dopo l´ultimatum al Tg3 («basta critiche al governo») e cresciuta nelle ultime settimane che ha spinto la Fnsi a promuovere una risposta "civica" per fermare «le minacce all´informazione ritenuta non gradita». La manifestazione organizzata con associazioni come «Articolo 21», «Libertà e Giustizia», le Acli, l´Arci e l´Anpi e in contatto con le confederazioni sindacali, ha ottenuto le adesioni della federazione europea dei giornalisti e dei sindacati svedese, francese, greco e britannico. L´appuntamento è per il 19 settembre a Roma.

il Riformista 3.9.09
Denuncia. il presidente del consiglio contro cinque giornaliste dell'Unità: gli rovinano l'immagine, dicono che ha problemi di erezione Impotente? Ma sa chi sono?
di Peppino Caldarola



Silvio Berlusconi ha querelato l'Unità per le stesse ragioni per cui ha querelato giornali di mezzo mondo. E per una in più. Ha chiesto un sacco di soldi non solo all'editore del quotidiano ex comunista ma anche a una agguerrita pattuglia di firme del giornale che l'avrebbero diffamato. Tutte donne. Si va dalla direttora Concita De Gregorio, alle croniste politiche Natalia Lombardo e Federica Fantozzi, a una firma storica del quotidiano come la terribile Maria Novella Oppo e finanche alla scrittrice Silvia Ballestra. Anche a loro ha chiesto denaro, molto denaro. Già pagare una donna non è carino, figurarsi farsi pagare. Lasciamo perdere.
Il premier questa volta è particolarmente offeso con questa pattuglia di perfide femmine perché in concorso fra di loro, e citando un'altra ragazzaccia come Luciana Littizzetto, avrebbero messo in discussione la sua virilità. L'avvocato Fabio Lepri, difensore del premier, ha scritto che le cinque ragazze avrebbero fatto «affermazioni false e lesive dell'onore del premier». Ammettiamolo, non è bello ferire l'onore del premier, chessò dargli dell'incapace, del perdigiorno, dell'incompetente. Ma non si è trattato di questo, scrive l'avv. Lepri per conto di Berlusconi in una lingua che assomiglia alla lontana all'italiano, perché le ragazze «hanno leso anche l'identità personale presentando l'onorevole Berlusconi come soggetto che di certo non è, ossia come una persona con problemi di erezione». Ma come? Sono mesi che stiamo discutendo di escort e di serate allegre, Fabrizio d'Esposito su questo giornale ha addirittura scoperto una malattia quasi sconosciuta chiamata satiriasi, e queste cinque burlone dell'Unità vogliono far passare il premier per un impotente?
Ma in che mondo vivono? Non sanno che agli uomini italiani puoi dire tutto tranne mettere in discussione il funzionamento del manufatto? C'è un'intera filmografia che va da Lino Banfi prima maniera a Lando Buzzanca giovane, compresi Gassman e Tognazzi, che esalta il maschio sovreccitato che non riesce a tenere a freno l'affare nei pantaloni e loro, cacchio cacchio, lanciano l'accusa più obbrobriosa? Invece di iscrivere il premier nel circolo ampio dei conquistatori di donne, dei veri e propri sciupafemmine che nelle loro "giovanottiere" (così dalle mie parti chiamano le "garçonniere" ormai sostituite da ville monumentali) intrattengono fanciulle in fiamme, vogliono farlo passare come il "Bell'Antonio", personaggio infelice creato da Vitaliano Brancati e celebrato nel film di Mauro Bolognini.
Colpendo il leader si colpisce l'immagine del maschio italiano. Se lui che è un uomo super fa cilecca, anche noi italiani di medie capacità siamo soggetti a rischio, penseranno all'estero. Putin. Gheddafi ma anche Angela Merkel saranno esterrefatti. Concita, Natalia, Federica, Maria Novella, Silvia ci avete combinato un bel guaio. Come faremo a dire lamentosamente al primo incontro sfortunato: «parliamone prima» ovvero «non mi era mai successo»? Ormai dovremo esibire a ogni incontro amoroso la confezione magnum di Viagra per garantire il buon esito dell'approccio. E se sorgono contestazioni? Se le signorine insoddisfatte faranno girare brutte storie su di noi dovremo tutti rivolgerci all'avv. Fabio Lepri o al teorico dell'"utilizzatore finale", l'on. Niccolò Ghedini? Certo «onus probandi incumbit ei qui dicit», ma ve li immaginate i tribunali italiani pieni di uomini costretti a dimostrare, per dirla con la battuta di un altro film, che «funziona la mazza»?
Diciamolo: è l'estate meno erotica della storia repubblicana, Siamo circondati da maschi che funzionano solo se vanno a pagamento e che talvolta non funzionano proprio. Il mito italiano si infrange rovinosamente. Ricostruire non sarà facile. Noi comunisti nel dopoguerra prendemmo in mano la bandiera lasciata cadere dalla borghesia. Ora che non siamo più comunisti come potremo prendere in mano ed erigere quest'altra bandiera lasciata cadere, per colpa di cinque cattive ragazze, dall'uomo simbolo della nuova borghesia italiana?

il Riformista 3.9.09
Carceri. La proposta del leader radicale sul Riformista riaccende il dibattito
E Pannella rilancia l'amnistia
di Sonia Oranges



Marco Pannella riapre il dibattito sull'amnistia come possibile strumento per risolvere l'emergenza nelle carceri. Ieri, dalle colonne del Riformista, il leader radicale ha ribadito che «la proposta di una vasta amnistia costituisce l'unica risposta seria e adeguata alla tragedia in corso della Giustizia italiana, della quale l'attuale disastrosa situazione delle carceri non è che l'epifenomeno». Un'idea cara ai radicali e su cui ora il mondo della politica torna a confrontarsi, facendo casomai il mea culpa per le scelte del passato. A cominciare dall'ex ministro della Giustizia Clemente Mastella: «Quando si fece l'indulto sembrò che la scelta fosse solo mia, come se con un gesto autarchico avessi deciso da solo invece che con i due terzi del Parlamento secondo la norma costituzionale. Anche allora si parlò di amnistia, poi ci fu una sorta di reticenza da parte della classe politica». D'accordo con lui il vicesegretario udc Michele Vietti: «È stato un errore fare l'indulto a suo tempo senza abbinarlo all'amnistia, come era invece sempre stato fatto in passato. A oggi non è facile immaginare la possibilità di creare il consenso che la Costituzione chiede per un provvedimento di amnistia, soprattutto con il clima di criminalizzazione generale che la maggioranza ha introdotto».
Ma nel Pdl c'è chi, come Gaetano Pecorella, pensa che la proposta di Pannella abbia un senso: «Siccome in questo momento la situazione è irrecuperabile si può pensare a un'amnistia legata a tempi più antichi, ad alcuni reati commessi fino a una certa data di alcuni anni fa e magari limitata ad alcuni reati che non destano allarme sociale».
Un'ipotesi che ha allarmato il presidente dell'Italia dei Valori Antonio Di Pietro: «La destra sragiona se pensa di ricorrere ancora una volta all'amnistia o all'indulto. Sono 60 anni che si va avanti con indulti e amnistie, con 30 provvedimenti per sfollare le carceri». Che, però, sono rimaste degli inferni sovraffollati.

Repubblica 3.9.09
La sentenza del Tar sull’ora di religione
risponde Corrado Augias


Caro Augias, il 12 agosto mons. Coletti definì la sentenza del Tar del Lazio sull'ora di religione bieco e negativo Illuminismo perché favorisce la perdita di identità dei popoli. Il bieco risvolto sarebbe la separazione del potere legislativo e giudiziario tra loro e da quello religioso. Il 26 agosto si sono compiuti 220 anni dalla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino, in base alla quale ognuno è libero di professare una religione o di non averne alcuna. Professare il Cristianesimo è consentito, non è consentito imporlo. Ci fu un tempo in cui esso fu perseguitato, ma i persecutori non erano certo illuministi.

Seguì un tempo (lunghissimo) in cui gli ex perseguitati riuscirono a imporsi tanto da far perdere ad altri la loro identità: nelle Americhe e non solo. C'è stato infine un tempo recente, dal 1870 al 1929, nel quale l'ora di religione nelle scuole non era prevista. Non ci sono state perdite d'identità religiosa negli italiani perchè un illuminismo ormai radicato e non bieco rispettò la religione di maggioranza in questo paese. E' vero che poi ci toccò un Fascismo che illuminista non era e fu bieco con altre religioni, ma Mons. Coletti sa che non è la bontà di una idea religiosa o meno a deciderne la sorte, bensì i rapporti di forza tra chi la sostiene e chi no, altro aspetto del Relativismo che talora dà, talora toglie.

Giovanni Moschini giovanni.moschini4@tin.it

T ra le molte polemiche di questa agitatissima estate dobbiamo registrare anche le reazioni alla sentenza del Tar del Lazio che escludeva l'insegnamento della religione dalla valutazione del profitto. Una circolare del precedente ministro della Pubblica Istruzione, Fioroni, aveva inserito la 'religione' fra le materie curricolari. Chi non voleva avvalersene veniva quindi discriminato in quanto le materie alternative non c'erano o non avevano uguali prerogative. I giudici amministrativi dovevano rispondere al quesito se la Circolare Fioroni del 2007 finiva o no per discriminare gli studenti che non si avvalgono dell'insegnamento della religione cattolica. La risposta è stata affermativa con questa motivazione: «Un insegnamento di carattere etico e religioso attinente alla fede individuale non può essere oggetto di valutazione sul piano del profitto scolastico per il rischio di valutazioni di valore proporzionalmente ancorate alla misura della fede. Sotto tale profilo è dunque evidente l'irragionevolezza dell'Ordinanza che, nel consentire l'attribuzione di vantaggi curriculari, inevitabilmente collega in concreto tale utilità alla misura dell'adesione ai valori dell'insegnamento cattolico». Un recente sondaggio ha registrato che il 70 per cento dei lettori erano favorevoli alla sentenza. E' davvero un problema?

il Riformista 3.9.09
Sexy scandalo in Puglia. Candidatura a rischio
di Stefano Cappellini


Il giorno in cui Nichi Vendola fu eletto alla presidenza della Regione Puglia pianse. «Di gioia?», chiesero i cronisti. «Dolore. Soffro perché entro nel cuore del potere». I numerosi detrattori del governatore giurano che piangerà presto per l'uscita da quelle stanze che tanto gli incutevano sofferenza e alle quali - aggiungono maligni - si sarebbe affezionato quanto un notabile democristiano. Certo è che l'avventura iniziata cinque anni fa sta volgendo al termine nel peggiore dei modi. Era partita come la «primavera» pugliese: l'estate non è mai arrivata. Era una rivoluzione sessuale. E di sessuale è rimasto solo lo scandalo.
declino il sexgate locale chiude una stagione iniziata con ben altre speranze Così s'è gelata
la primavera pugliese
L'ultima inchiesta della Procura di Bari, che chiama in causa un paio di ex assessori della giunta Vendola, è la più purulenta per chi - come Vendola - ha costruito il proprio curriculum politico sulla rivendicazione della propria diversità: politica, sessuale, infine antropologica. Sesso ai politici in cambio di un posto di lavoro. Ma le escort non c'entrano. Qui si parla di madri di famiglia, disoccupate, aspiranti professioniste. In fila a Palazzo per ottenere un lavoro pagandolo in natura. Una barbarie che, se confermata, aprirebbe squarci da ottocento dickensiano, da cupo neorealismo postbellico. O peggio, da signoraggio feudale. E questo nell'unica regione governata da da un omosessuale fiero e dichiarato, capace di sfiorare la maggioranza assoluta dei consensi in una terra del meridione senza mai negare la propria identità, anzi esaltandola e sublimandola. Un outsider in grado di portare al governo in prima persona la sinistra radicale, battendo prima quella riformista alle primarie e poi, alle regionali del 2005, Raffaele Fitto, il golden boy del forzismo post-democristiano.
Le ultime accuse, già di nuovo allargatesi sul fronte sanità, sono da provare, certo. I profili penali da definire. Ma la sostanza dei fatti sembra chiara. E il danno è devastante. Stavolta Vendola non ha preso le distanze dall'azione della Procura - com'era stato recentemente con la famosa lettera aperta in cui si provava a demolire alcune iniziative di un pm contro la sua ex giunta. Lettera fiera e dignitosa, però dannatamente affine nel metodo a certe intemerate berlusconiane contro la magistratura politicizzata. Stavolta il governatore ha risposto in modo diverso. Ha rilasciato dichiarazioni da crociata moralizzatrice. Ha parlato di bonifica necessaria. Non ci sta. Reclama l'opportunità di portare avanti il suo lavoro. Ma in queste condizioni sarà difficile avere una seconda chance. E questo al netto delle trame politiche in corso, e che vedono il destino del governatore in mano a Casini. Se l'Udc accettasse di esprimere un proprio candidato, alleandosi col centrosinistra, i giochi si chiuderebbero su questo schema. Ma non è questo il punto.
Vendola sta pagando anche lo scotto di aspettative altissime. Quando alle primarie del centrosinistra sconfisse Francesco Boccia - il candidato sostenuto da Ds e Margherita - lui che aveva alle spalle solo un partito come Rifondazione comunista e qualche cespuglio rosso-verde pareva destinato a sconfitta certa con Fitto. S'inventò una campagna memorabile. «Diverso». «Estremista». «Pericoloso». Così strillavano gli slogan dei suoi manifesti 6x3, che sottraevano agli avversari i tipici argomenti usati contro di lui. Eletto nella tornata del famoso undici a due del centrosinistra sulla Casa delle libertà, si accompagnava a citazioni da papa Giovanni Paolo II, a licenze poetiche pericolosamente a cavallo tra sogno veltroniano e retorica bertinottiana, a dichiarazioni che rilette oggi, dopo le ultime notizie, dopo le settimane trascorse dal presidente ad azzerare giunte, a tampinare e licenziare assessori in odore di avviso di garanzia, suonano chissà se sincere, ma certo davvero beffarde: «Vorrei dire al centrosinistra che non bisogna avere paura di immettere nel circuito della politica la linfa vitale dei nuovi alfabeti che vengono dalle storie del femminismo, del pacifismo, dell'ecologismo, delle contestazioni giovanili, del nuovo conflitto di classe, del radicalismo cristiano». Il meno che si possa dire, dopo l'inchiesta sul sesso in cambio del lavoro, è che la politica pugliese non sembra aver imparato i nuovi alfabeti vendoliani. Ammesso che ne abbia mai conosciuto uno.

il Riformista 3.9.09
S'allarga il filone delle disoccupate escort
Appesa a un filo la ricandidatura di Nichi Vendola
di Samantha Dell'Edera



Bari. Il sexygate ha messo in ginocchio il centrosinistra pugliese. Il futuro di Nichi Vendola come candidato per le prossime elezioni regionali è a forte rischio. Il nome dell'attuale governatore che in un primo momento sembrava avesse trovato l'ok da parte di tutte le forze politiche in campo, ora sembra vacillare. L'ultimo colpo è stato dato dalle rivelazioni dell'inchiesta dei pm Roberto Rossi e Lorenzo Nicastro, che vedrebbe coinvolti due ex assessori regionali appartenenti alla prima giunta Vendola e che sono stati sostituiti nel luglio scorso.
I politici sarebbero implicati in un giro di escort e di prestazioni sessuali da parte di donne disoccupate che cercavano un posto di lavoro. «Guai, ogni qualvolta la politica si trasforma in un porcellaio - ha tuonato ieri Vendola - guai ogni qualvolta chi esercita potere smette di dimenticare quel senso del limite a cui dovrebbe ispirarsi, e il contenuto del senso del limite è il rispetto della dignità e della vita delle altre persone. Aspettiamo l'accertamento della verità prima di prendere qualsiasi decisione. Ma credo che tutta la politica debba interrogarsi sulla questione morale e sulle sue radici che riguardano la formazione dei sistemi di potere, la separatezza tra la gestione della vita pubblica e le domande dei cittadini. Purtroppo - ha aggiunto - nell'arena politica si usa la questione morale come un corpo contundente. Ciascuno la usa sulla testa dell'altro e si rischia di rimanere prigionieri della superficie delle cose, di non andare mai in profondità».
Vendola, che non mette in dubbio la sua ricandidatura, propone «una bonifica nei comportamenti che debba essere un tema che possa incontrare a 360 gradi le responsabilità di una classe dirigente, di chi fa politica, di chi ha responsabilità burocratiche, di chi ha responsabilità giornalistiche, di chi ha responsabilità nell'esercizio della giurisdizione».
Intanto ieri, mentre i cinque ex assessori regionali minacciavano querele e smentivano qualsiasi loro coinvolgimento o reato nel corso dell'attività politica e amministrativa, sono emersi altri particolari dall'inchiesta della procura. Le indagini si stanno focalizzando sulle cinque residenze sanitarie assistite (Rsa) che, in forza di una delibera di giunta ritenuta illegittima, sarebbero state accreditate alla Regione Puglia. Per questo la procura ha acquisito le visure presso le Camere di Commercio, proprio per capire se dietro le Rsa ci siano soci occulti.
E mentre rimbalzano le condanne da parte di tutte le forze politiche, dal Pdl che ha richiesto le dimissioni del governatore, allo stesso Pd, il centrosinistra perde la coesione sulle regionali 2010. L'Idv con Antonio Di Pietro ha già detto no a Vendola, «reo - ha spiegato Di Pietro - di aver mantenuto le serpi che hanno condizionato il lavoro del governo e squalificato la qualità della coalizione», mentre la spaccatura all'interno del Pd è alle porte. Il sindaco Michele Emiliano, in corsa per la riconferma alla segreteria regionale, ha ribadito insieme a Dario Franceschini la riconferma di Vendola.
Ma i mugugni e i dissensi sono tanti, perché in molti, a cominciare dall'area che fa riferimento a Enrico Letta, chiedono di aprire un dibattito sui risultati raggiunti in questi anni di governo e sul futuro della politica, prima di dare un sì unitario all'attuale governatore. Fondamentali saranno gli equilibri che si formeranno in seguito al congresso regionale del Pd ad ottobre. Ma chi potrebbe prendere il posto di Vendola, nella corsa alle regionali 2010? I nomi rimbalzano e non c'è ancora alcuna certezza, ma tra i papabili spiccano il parlamentare Francesco Boccia, la senatrice Adriana Poli Bortone alla guida di un movimento di centro, e per l'Idv Carlo Vulpio.

Repubblica 3.9.09
Perché è scomparso il coraggio della confessione
La rimozione di un atto liberatorio
di Sandro Veronesi


I confessionali sono vuoti, nelle aule giudiziarie nessuno fra i condannati vuole ammettere le sue colpe Ecco perché
Secoli di letteratura ci hanno insegnato che la colpa esercita un´attrazione fatale sul castigo
Quelli del Grande Fratello sono solo vaniloqui egoriferiti un vero festival dell´autoindulgenza

Un giorno, nove anni fa, ho provato il desiderio di confessarmi. A Roma, a ferragosto, c´era il Giubileo dei Giovani e io stavo curiosando per la città mescolato al milione di ragazzi venuti da tutto il mondo per festeggiare. Al Circo Massimo c´era una fila di gazebo simili a quelli delle Feste dell´Unità, sotto ai quali una batteria di sacerdoti stava confessando la gente: non so perché, quella visione produsse in me il lancinante desiderio di rientrare nel gregge. Mi appoggiai a un muretto e mi misi a riflettere: quando l´avevo lasciato, il gregge? Trent´anni prima, poco dopo la Cresima – ero ancora un bambino. E quanti comandamenti avevo infranto, da allora? Tutti, tranne il quinto e il settimo. E non vedevo forse che quelle confessioni che mi attiravano tanto avvenivano faccia a faccia col sacerdote, senza il filtro misericordioso del confessionale – cosa che ai miei tempi mi metteva addosso una vergogna tremenda? Insomma, confessarsi dopo trent´anni a faccia a faccia con un prete sconosciuto era una cosa enorme: avevo veramente voglia di farlo? Ero disposto ad affrontarne le conseguenze? Per esempio, avrei eseguito le penitenze che mi sarebbero state assegnate? Per quanto strano potesse suonare, la risposta a tutte quelle domande era sempre sì; non mi restava altro da fare che trarre il dado, pensai, senza farla tanto lunga. Zompai oltre il muretto e mi diressi – deciso, ispirato – verso il gazebo con dentro un sacerdote nero. Subito mi si parò davanti un volontario con la maglietta blu (quelle con la scritta "Ero forestiero e mi avete accolto") e mi chiese dove stessi andando. «A confessarmi», gli risposi, solennemente. «Non puoi», fece lui, «non hai il passi». Rimasi interdetto – non me l´aspettavo – ma mantenni una calma, per l´appunto, ovina: «E dove posso procurarmelo?», gli chiesi, mansuetamente. Ma la risposta fu una mannaia: «Su Internet». Era pomeriggio inoltrato, ora che tornavo a casa e andavo in cerca di questo passi su Internet (e su quale sito, poi? Andava stampato direttamente o bisognava andare a ritirarlo da qualche parte?) si faceva notte. «Avanti», dissi, «fammi passare. Per piacere, voglio solo confessarmi. Che male faccio?». Ma niente: «Non hai il passi» ripeté il ragazzo – e mi sorrise, ineffabile, inflessibile, e anche piuttosto grosso, purtroppo, tanto da togliermi ogni tentazione di sfondare. Così sfumò il mio rientro nel cattolicesimo.
Ho ricordato questo aneddoto perché da un po´ di tempo sto osservando un fenomeno curioso: le confessioni si stanno estinguendo. O meglio, stanno cambiando significato. Nei casi giudiziari sono del tutto scomparse: chi confessa più, ormai? Dopo aver visto che, negando, qualsiasi accusato può finire assolto – e comunque, nel peggiore dei casi, viene condannato, sì, ma con inevitabili remore da parte della giuria –, qualsiasi avvocato difensore raccomanda al proprio assistito di non confessare, mai. E fin qui si arriva a capirlo: strategia processuale, per quanto rozza. Quello che comincia a diventare misterioso è come facciano i colpevoli a non crollare. Insomma, da che mondo è mondo l´atto del confessare è liberatorio, salvifico, catartico, e secoli di letteratura ci hanno insegnato che il nucleo rappresentato dalla colpa esercita un´attrazione fatale nei confronti del castigo: eppure sono anni che nessuno confessa più, nemmeno dal fondo di una galera, o sotto l´incalzare del magistrato. Cito a memoria, senza nemmeno passare su Internet: Knox, Sollecito e Guede (omicidio Kercher), Annamaria Franzoni (delitto di Cogne), Scattone e Ferraro (omicidio di Marta Russo), Alberto Stasi (delitto di Garlasco), Raniero Busco (omicidio Cesaroni): nessuno di loro ha confessato. Perfino Rosa Bazzi e Olindo Romano (strage di Erba), che in un primo tempo l´avevano fatto, hanno ritrattato. Poiché mi rifiuto di credere che siano tutti vittime di errori giudiziari, mi chiedo: ma come diavolo fanno, quelli tra loro che sono colpevoli, a non confessare? Non gli rimorde la coscienza? Insomma, io stavo per convertirmi, nove anni fa, solo perché mi pesava avere mentito e commesso atti impuri e desiderato la roba d´altri – e questi riescono a convivere con quel po´ po´ di delitti solo perché glielo consiglia l´avvocato?
Poi però osservo un´altra cosa: mai come oggi le persone vivono immerse nel senso di colpa. Ci sguazzano, e lo dicono, lo ostentano, perfino, come se fosse indice di rettitudine, alimentando uno dei più sporchi giri d´affari che si siano mai visti (Prozac, bevande alcoliche, droghe). Maledizione, viene da dire, ma se vi sentite così in colpa non sarebbe il caso di confessarle, una buona volta, le vostre colpe? Al prete, se siete cattolici, o meglio ancora direttamente alle vittime del vostro comportamento – coloro che avete tradito, trascurato, ingannato, derubato, illuso, ferito? Ma niente: ti azzardi a fare un discorso del genere e salta fuori che, come per gli indiziati dei gialli di cronaca, sono tutti innocenti, il senso di colpa di cui soffrono è solo una sindrome, una malattia, e in realtà non c´è nessuna colpa.
Per cui, alla fine, la risposta sarebbe che le confessioni si stanno estinguendo perché non ci sono più colpe da confessare – hah –, e si passa direttamente ai significati secondi e terzi del verbo confessare. Ed ecco che Il Grande Fratello, questo bazar dell´autocontemplazione e dell´autoindulgenza, chiama "confessionale" il luogo in cui il concorrente spara vaniloqui egoriferiti nei quali non confessa proprio nulla – anche perché quello che ha fatto gli spettatori lo sanno già. Non è una bella fine, per il simbolo di un sacramento, ma non mi risulta che la Chiesa abbia chiesto il passi a Endemol.
Questo, nella realtà. Resta la finzione – letteratura, cinema, serie tv: lì le confessioni fioccano ancora, come se la mutazione antropologica che ci ha reso tutti innocenti non ci fosse stata. In molti casi sono solo l´espediente per finire la puntata, ma qualche volta, nel pieno di un´opera di grande valore, suppliscono alla mancanza delle confessioni vere, e ne assumono la sacertà: penso alla confessione di Andreotti nel Divo, che ancora mi commuove, e può perfino darsi che se ne sia commosso anche il buon Dio – e dunque che alla fine, grazie a Sorrentino, D´Avanzo e Servillo, Andreotti la sfanghi anche nel Giorno dei Giorni.



Corriere della Sera 3.9.09
Scoperte Uno studente trova un frammento nel monastero di Santa Caterina
La Bibbia più antica riemerge nel Sinai
di Armando Torno


Non sarà, c’è da giurare, l’ultimo caso di mirabolante scoperta biblica. E tuttavia il colpo messo a se­gno da Nikolas Sarris, uno studente greco che sta completando il suo dot­torato in Inghilterra, ha scatenato gli appetiti di moltissimi esperti: il gio­vane ha ritrovato — custodito nella rilegatura di un volume del XVIII se­colo — al monastero di Santa Cateri­na sul Sinai, in Egitto, un frammento del Codex Sinaiticus , il manoscritto più antico della Bibbia ancora esistente.
Del resto, le 800 pagine che forma­no l’intero corpus del codice erano già state raccolte virtualmente, su ini­ziativa della Biblioteca Britannica, ed erano dunque disponibili online, al sito www.codexsinaiticus.org (con le immagini ad alta risoluzione del manoscritto greco su pergamena del IV secolo dopo Cristo). In un certo senso, quella iniziativa ha dato un contributo decisivo, oggi, alla scoperta del frammento: Nikolas Sarris aveva partecipato all’opera di trasferimento del materiale online, ed è stato perciò in grado di ricono­scere all’istante, quando gli è capita­to sotto gli occhi al monastero di Santa Caterina sul Sinai, il pezzo di manoscritto e l’importanza della sua scoperta. «È stato un momento mol­to emozionante», ha commentato, «il Codex mi era rimasto impresso nella memoria. Ho controllato l’altez­za delle lettere e delle colonne e in breve ho compreso di avere davanti una parte mai vista del documento». Sarris ha poi preso contatto con Pa­dre Justin, il bibliotecario del mona­stero, che ha confermato: si tratta di un frammento di pergamena che cor­risponderebbe al capitolo primo, ver­so dieci, del libro di Giosuè.
La scoperta, per quanto abbia de­stato scalpore fra gli studiosi, potreb­be essere soltanto la prima di una se­rie: altri diciotto volumi simili a quel­lo dove è stato ritrovato il frammen­to, e rilegati dagli stessi monaci nel medesimo periodo, sono ancora cu­stoditi nella biblioteca di Santa Cate­rina.

mercoledì 2 settembre 2009

Repubblica 2.9.09
La strategia della menzogna
di Ezio Mauro


Poiché la sua struttura privata di disinformazione è momentaneamente impegnata ad uccidere mediaticamente il direttore di "Avvenire", colpevole di avergli rivolto qualche critica in pubblico (lanciando così un doppio avvertimento alla Chiesa perché si allinei e ai direttori dei giornali perché righino dritto, tenendosi alla larga da certe questioni e dai guai che possono derivarne) il Presidente del Consiglio si è occupato personalmente ieri di "Repubblica": e lo ha fatto durante il vertice europeo di Danzica per ricordare l´inizio della Seconda guerra mondiale, dimostrando che l´ossessione per il nostro giornale e le sue inchieste lo insegue dovunque vada, anche all´estero, e lo sovrasta persino durante gli impegni internazionali di governo, rivelando un´ansia che sta diventando angoscia.
L´opinione pubblica europea (ben più di quella italiana, che vive immersa nella realtà artefatta di una televisione al guinzaglio, dove si nascondono le notizie) conosce l´ultima mossa del Cavaliere, cioè la decisione di portare in tribunale le dieci domande che "Repubblica" gli rivolge da mesi. Presentata come attacco, e attacco finale, questa mossa è in realtà un tentativo disperato di difesa.
Non potendo rispondere a queste domande, se non con menzogne patenti, il Capo del governo chiede ai giudici di cancellarle, fermando il lavoro d´inchiesta che le ha prodotte. È il primo caso al mondo di un leader che ha paura delle domande, al punto da denunciarle in tribunale.
Poiché l´eco internazionale di questo attacco alla funzione della stampa in democrazia lo ha frastornato, aggiungendo ad una battaglia di verità contro le menzogne del potere una battaglia di libertà, per il diritto dei giornali ad indagare e il diritto dei cittadini a conoscere, ieri il Premier ha provato a cambiare gioco. Lui sarebbe pronto a rispondere anche subito se le domande non fossero «insolenti, offensive e diffamanti» e fossero poste in altro modo e soprattutto da un altro giornale. Perché "Repubblica" è «un super partito politico di un editore svizzero e con un direttore dichiaratamente evasore fiscale».
Anche se bisognerebbe avere rispetto per la disperazione del Primo Ministro, l´insolenza, la falsità e la faccia tosta di quest´uomo meritano una risposta. Partiamo da Carlo De Benedetti, l´editore di "Repubblica": ha la cittadinanza svizzera, chiesta come ha spiegato per riconoscenza ad un Paese che ha ospitato lui e la sua famiglia durante le leggi razziali, ma non ha mai dismesso la cittadinanza italiana, cioè ha entrambi i passaporti, come gli consentono la legge e le convenzioni tra gli Stati. Soprattutto ha sempre mantenuto la residenza fiscale in Italia, dove paga le tasse. A questo punto e in questo quadro, cosa vuol dire "editore svizzero"? È un´allusione oscura? C´è qualcosa che non va? Si è meno editori se oltre a quello italiano si ha anche un passaporto svizzero? O è addirittura un insulto? Il Capo del governo può spiegare meglio, agli italiani, agli elvetici e già che ci siamo anche ai cittadini di Danzica che lo hanno ascoltato ieri?
E veniamo a me. Ho già spiegato pubblicamente, e i giornali lo hanno riportato, che non ho evaso in alcun modo le tasse nell´acquisto della mia casa che i giornali della destra tengono nel mirino: non solo non c´è stata evasione fiscale, ma ho pagato più di quanto la legge mi avrebbe permesso di pagare. Ho versato infatti all´erario tasse in più su 524 milioni di vecchie lire, e questo perché non mi sono avvalso di una norma (l´articolo 52 del D.P.R. 26 aprile 1986 numero 131, sull´imposta di registro) che, ai termini di legge, mi consentiva nel 2000 di realizzare un forte risparmio fiscale.
Capisco che il Premier non conosca le leggi, salvo quelle deformate a sua difesa o a suo privato e personale beneficio. Ma dovrebbe stare più attento nel pretendere che tutti siano come lui: un Capo del governo che ha praticato pubblicamente l´elogio dell´evasione fiscale, e poi si è premurato di darne plasticamente l´esempio più autorevole, con i quasi mille miliardi di lire in fondi neri transitati sul "Group B very discreet della Fininvest", sottratti naturalmente al fisco con danno per chi paga le tasse regolarmente, con i 21 miliardi a Bettino Craxi per l´approvazione della legge Mammì, con i 91 miliardi trasformati in Cct e destinati a non si sa chi, con le risorse utilizzate poi da Cesare Previti per corrompere i giudici di Roma e conquistare fraudolentemente il controllo della Mondadori. Si potrebbe andare avanti, ma da questi primi esempi il quadro emerge chiaro.
Il Presidente del Consiglio ha detto dunque ancora una volta il falso, e come al solito ha infilato altre bugie annunciando che chi lo attacca perde copie (si rassicuri, "Repubblica" guadagna lettori) e ricostruendo a suo comodo l´estate delle minorenni e delle escort, negando infine di essere malato, come ha rivelato a maggio la moglie. Siamo felici per lui se si sente in forze («Superman mi fa ridere»). Ma vorremmo chiedergli in conclusione, almeno per oggi: se è così forte, così sicuro, così robusto politicamente, perché non provare a dire almeno per una volta la verità agli italiani, da uno qualunque dei sei canali televisivi che controlla, se possibile con qualche vera domanda e qualche vero giornalista davanti? Perché far colpire con allusioni sessuali a nove colonne privati cittadini inermi come il direttore di "Avvenire", soltanto perché lo ha criticato? Perché lasciare il dubbio che siano pezzi oscuri di apparati di sicurezza che hanno fabbricato quella velina spacciata falsamente dai suoi giornali per documento paragiudiziario?
Se Dino Boffo salverà la pelle, dopo questo killeraggio, ciò accadrà perché la Chiesa si è sentita offesa dall´attacco contro di lui, e si è mossa da potenza a potenza. Ma la prossima preda, la prossima vittima (un magistrato che indaga, una testimone che parla, un giornalista che scrive, e fa domande) non avendo uno Stato straniero alle spalle, da chi sarà difeso? L´uomo politico passato alla storia come il più feroce nemico della stampa, Richard Nixon, non ha usato per difendersi un decimo dei mezzi che Berlusconi impiega contro i giornali considerati "nemici". Se vogliamo cercare un paragone, dobbiamo piuttosto ricorrere a Vladimir Putin, di cui non a caso il Premier è il più grande amico.

Repubblica 2.9.09
A metà mese in piazza per la stampa Uniti l´opposizione e i giornalisti
In campo la Fnsi e le associazioni Il Pd offre "il massimo sostegno politico e organizzativo" Messaggi di adesioni dall´Europa
di Luciano Nigro


ROMA - «Sbavagliamoci». Sarà probabilmente questo il titolo della «grande manifestazione civica» per la libertà d´informazione che sta organizzando la federazione nazionale della stampa. Oggi stesso la Fnsi, che ha preso contatti con le organizzazioni sindacali e con un gran numero di associazioni, da «Articolo 21» alle Acli e all´Arci, dirà dove e quando si terrà l´incontro. Di sicuro parlerà Gustavo Zagrebelky il giurista che con Franco Cordero e Stefano Rodotà ha lanciato l´appello contro «il tentativo ridurre al silenzio la libera stampa» che ha già raccolto 190 mila firme. I partiti saranno i benvenuti, tutti, ma per evitare di etichettare la risposta al clima minaccioso che grava sui giornali e sulle tivù, le forze politiche hanno fatto un passo indietro. Il Pd ha deciso che non organizzerà direttamente alcuna risposta di piazza, ma offrirà «il massimo sostegno politico e organizzativo a una iniziativa unitaria». Anche Sinistra e Libertà, l´Italia dei Valori e il Prc sostengono l´iniziativa. La data? Nella segreteria del Pd, ieri, si è parlato del 12 settembre, ma potrebbe non essere quello il giorno prescelto. «Stiamo valutando il periodo tra il 10 e il 19 settembre», dice il segretario della Fnsi Franco Siddi, che ha ricevuto messaggi da mezza Europa. «Non è ammissibile che chi guida un governo pensi di impedire anche l´osservazione critica», protesta Siddi che elenca l´escalation di episodi recenti: «I giornalisti "delinquenti", l´invito a non fare pubblicità sui quotidiani sgraditi, la causa contro le domande di Repubblica, l´elogio dei cronisti sportivi che "non fanno domande", il "comunisti" gridato a Famiglia Cristiana, la vendetta contro Avvenire, non sono cose da democrazia normale».

il Riformista 2.9.09
Amnistia. Il Leader Radicale chiede l'atto di clemenza per riportare legalità nelle prigioni e nei tribunali
«Le carceri sono un girone infernale»
Marco Pannella da Radiocarcere


Ormai abbiamo deciso. Si continua, si rilancia e si otterrà: AMNISTIA!!
Dopo le visite dei parlamentari nei penitenziari è calato il silenzio sulla condizione drammatica dei detenuti.

Massimo Calearo, dopo l'ispezione ferragostana alle carceri promossa e organizzata da Rita Bernardini con il sostegno di Antonella Casu, l'ha evocata come un'immersione in un dantesco girone infernale. Chi l'ascoltava non avvertiva l'enfasi, ma il dolore per la verità scoperta e la determinazione di darle seguito. In molti, fra i quasi duecento che hanno esercitato la prerogativa attribuita dalla legge a parlamentari e consiglieri regionali, hanno condiviso la sua emozione e la volontà di impegnarsi. La comunità penitenziaria aveva assoluto bisogno - sperava - di trarre ulteriore conforto e coraggio dall'attualità emersa e dal dibattito così suscitato. Invano! Raiset, servizio pubblico e privato, era in vacanza, tranne che per le solite desolanti cronache "politiche" e criminali. Dibattiti, "approfondimenti", zero. Erano e restano invece maledettamente urgenti e necessari, per comprendere il da farsi, per sperare anziché disperare, per meglio concepire il nuovo possibile che c'è e urge. S'accentua la maledetta urgenza di condividere la ricerca delle vie d'uscita da questa Gehenna.
Ma occorre non cadere nell'errore di sempre. La tragedia, che c'è, non è di per se è il carcere: epifenomeno, conseguenza, indotto, di quella della Giustizia.
Lasciamo, per un attimo, la parola - preziosa - al Ministro della Giustizia Alfano, in un suo intervento alla Camera, il 27 gennaio 2009:
"Quello che di impressionante vi è da sottolineare è la mole dei procedimenti pendenti, cioè, detto in termini più diretti, dell'arretrato o meglio ancora del debito giudiziario dello Stato nei confronti dei cittadini: 5 milioni e 425 mila i procedimenti civili pendenti, 3 milioni e 262 mila quelli penali. Ma il vero dramma è che il sistema non solo non riesce a smaltire questo spaventoso arretrato, ma arranca faticosamente, senza riuscire neppure ad eliminare un numero almeno pari ai sopravvenuti, così alimentando ulteriormente il deficit di efficienza del sistema".
Il Ministro insomma denuncia il carattere strutturale della crisi della Giustizia italiana: ne vengono distrutti Stato e società. Massima tragedia, quindi, istituzionale e sociale del Paese.
La nostra proposta trentennale ha un nome semplice, tanto da suscitare nello sfascismo di Regime e nella sua partitocratica classe dominante, nei ruoli di governo e di opposizione, la scontata accusa d'essere idiota e mentecatta; il suo nome è Amnistia. Contro - tra l'altro - l'ignobile realtà del sistema di potere e di classe che consiste nel termine impronunciabile: PRESCRIZIONE. È questa infatti l'immonda realtà strutturale, necessaria al sessantennale Regime sfascista e al suo Disordine Costituito: nei soli ultimi dieci anni 1.800.000 beneficiari di prescrizioni. Almeno due milioni con il prossimo 2010. Fra i quali, certo, Berlusconi e berlusconidi a gogò; ma anche i due coimputati Massimo D'Alema e Pinuccio Tatarella.
Che il sessantennale Regime italiano sia sempre più (se possibile!) corrotto e corruttore pochi oserebbero negarlo. Che sia criminogeno e anche tecnicamente (non "moralmente"!) equiparabile non più alla figura del "delinquente abituale" ma a quella del delinquente " professionale", anche. Luigi Ferrajoli, giurista e persona liberale, annotava di recente quanto segue: " Il nostro è uno dei paesi più sicuri del mondo, in cui la criminalità è in costante calo da decenni. In Italia abbiamo 600 omicidi all'anno, nella sola Rio de Janerio sono 6.000. Negli Stati Uniti sono 20-25.000 (circa 40 volte in più che l'Italia) con una popolazione che è 6 volte quella italiana. Con tutte le nostre mafie, non c'è paragone. Lo stesso vale per i reati contro la persona. È chiaro, però, che se racconti ogni delitto in modo ossessivo, pensiamo di vivere nella giungla.."

l’Unità 2.9.09
La sinistra radicale è diventata un partito nazionale, non è più fenomeno politico dell’Est
Lafontaine si pone come unico avversario credibile della cancelliera nel voto di settembre
Germania, il ritorno di Oskar il rosso La sua Linke fa tremare Merkel e Spd
di Gherardo Ugolini


Il leader della Linke torna alla ribalta. Non c’è dubbio che sia lui il personaggio del giorno in Germania a sole quattro settimane dalle elezioni legislative che rinnoveranno il Bundestag.

Il successo che la Linke ha ottenuto domenica scorsa nei tre Länder in cui si è votato per le regionali porta la firma di Lafontaine. Certo, all’est il partito della sinistra radicale era già forte: il 20,6% conquistato in Sassonia e il 27,4% in Turingia (in entrambi i casi secondo partito dopo la Cdu) rappresentano la conferma di un forte radicamento sul territorio.
LA NOVITÀ POLITICA
La vera sorpresa è venuta dal Saarland, il Land più occidentale del Paese, dove la Cdu da dieci anni governava in solitudine e la sinistra estrema non aveva rappresentanza. Qui la Linke si è affidata a Lafontaine candidandolo governatore in una regione dove già in passato aveva ricoperto quella carica per conto della Spd. E Lafontaine ha fatto il miracolo portando il partito ad un risultato insperato: 21,3% con un balzo di 19 punti percentuali rispetto a quanto aveva raccolto la Pds cinque anni prima. Voti tolti alla Cdu in primo luogo (-13%), ma anche alla Spd (-6,3%). E così il «Napoleone della Saar», come veniva chiamato quando era governatore, ha compiuto la sua vendetta sugli ex compagni di partito. Laddove la Spd di Steinmeier, ingabbiata nel difficile ruolo di partner di governo e contemporaneamente avversario nella campagna elettorale, fa fatica ad ostacolare la corsa verso la rielezione di Angela Merkel, Oskar si propone come il vero antagonista. È stato lui, del resto, ad attaccare frontalmente la cancelleria in parlamento per «avere fallito nella gestione della crisi», per avere «lasciato troppo spazio ai mercati», ed anche per lo scandalo della cena di compleanno in onore del banchiere Ackermann, ospitata nella sede della Cancelleria e pagata coi fondi pubblici. «Se è la finanza a determinare la politica, allora il vero cancelliere è Ackermann, ed è giusto che la Merkel gli abbia organizzato la festa di compleanno» ha sostento con ironia Oskar il rosso.
LA ROTTURA
Sono passati undici anni da quando Lafontaine si dimise da ministro delle Finanze in disaccordo con le politiche moderate di Gerhard Schrö der. Oggi si può dire che il suo disegno di creare un partito a sinistra della Spd sia praticamente concluso. Così come può dirsi ben compiuta la problematica fusione tra gli ex comunisti della Pds orientale e i socialdemocratici dissidenti occidentali. Nei mesi scorsi la Linke è riuscita ad entrare nei parlamenti regionali di Brema, Amburgo e Assia. Se fino all’altro ieri si poteva pensare che quel partito fosse una forza politica transitoria, radicata all’Est ma quasi inesistente all’ovest, ora le cose sono cambiate. Guidata da Oskar il rosso la Linke ha messo un piede stabile anche ad Ovest, è diventata un partito nazionale con cui occorre fare i conti. E non a caso i leader della Spd hanno subito aperto all’ipotesi di governi regionali di sinistra, come quello che amministra la città-stato di Berlino. In passato soluzioni del genere erano sempre state escluse ad ovest, e laddove le si era tentate (per esempio in Assia l’anno scorso), si era andati incontro ad un fallimento totale.
LO SDOGANAMENTO
Certo, a livello nazionale la conventio ad excludendum verso la Linke rimane. Su temi come il ritiro dall’Afganistan, la UE e la politica internazionale, le differenze sono pesanti. E Steinmeier in tv ha ribadito che nella prossima legislatura non è pensabile un’alleanza tra Spd e Linke per il governo del paese.
Però i toni sono parsi meno perentori del solito. Se non sarà per la prossima legislatura, sarà forse per la successiva. Ma prima o poi lo sdoganamento della Linke appare inevitabile anche a livello di governo nazionale. ❖

l’Unità 2.9.09
In mutande per protesta cinque insegnanti del liceo Newton a Roma
Sultetto dell’exprovveditoratodiBeneventoperdenunciarelaperditadellavoro
Scuola, precari in rivolta contro i tagli della Gelmini
Da Sud a Nord esplodono le proteste dei precari della scuola davanti agli ex provveditorati. A Milano docenti in catene, a Roma in mutande, a Benevento sul tetto. 25mila posti di lavoro in meno: ecco la «rivoluzione» Gelmini.
di Giuseppe Vespo


MILANO Occupazioni negli ex provveditorati, sit-in di protesta, insegnanti che sfilano in mutande, si arrampicano sui tetti o s’incatenano.
Eccola la «rivoluzione» della scuola targata Gelmini. Come primo effetto ha dato il via alla carica dei diciottomila, tanti sono gli insegnanti precari che non saliranno in cattedra quest’anno, ai quali vanno aggiunti i circa settemila Ata (personale tecnico e amministrativo) che non verranno riconfermati.
Le stime sono dei sindacati. La rabbia è di chi un anno fa, oggi, veniva chiamato per il primo giorno di scuola. Così puntuali, al posto dei contratti a termine, sono partite le proteste. Da Sud a Nord, seguendo l’ordine dei tagli all’Istruzione operato dalla scure governativa.
SUD
Ieri a Catania il coordinamento precari ha occupato l’ufficio scolastico provinciale (Usp, ex provveditorato) e ha fatto appello ai cittadini «perchè solidarizzino con la lotta a difesa della scuola pubblica, la scuola di tutti». Stesso invito e stesse scene a Messina, dove si presidia l’Usp. Mentre a Palermo l’ex provveditorato è occupato da due giorni, con alcuni insegnanti in sciopero della fame. Nell’isola dove secondo la Uil sarebbero 3.600 i docenti precari non riconfermati «siamo al caos più totale ha commentato il segretario della Cisl siciliana, Maurizio Bernava Temiamo che le proteste possano degenerare».
A Benevento continua la protesta delle sei precarie salite cinque giorni fa sul tetto dell’Usp. Sotto al sole per dar voce ai 500 precari a spasso nella provincia beneventana, ottomila in tutta la Campania, sempre secondo stime sindacali. «Ci dicono di non mollare, di andare avanti», dice una delle sei, Daniela Basile, che non nasconde però la tristezza: «Questo avrebbe dovuto essere il nostro primo giorno di scuola». Ieri Daniela ha incontrato il sottosegretario al Lavoro, Pasquale Viespoli, cha le ha comunicato come «governo e regione Campania sono impegnati alla definizione di un’intesa per individuare iniziative e risorse utili a dare una prima concreta risposta alla questione dei precari».
A Napoli, dopo l’occupazione dell’ex provveditorato di lunedì e nonostante la tensione creata dalle proteste, l’ufficio scolastico ha continuato a lavorare. I manifestanti hanno provato a forzare il cordone dei poliziotti all’ingresso dell’Ufficio scolastico e una donna si è sentita male.
Mentre a Roma cinque insegnanti in attesa di una cattedra si sono spogliati e sono rimasti in mutande davanti il liceo Newton, una delle otto scuole individuate per assegnare le cattedre disponibili, per protestare hanno spiegato contro il loro stato di precarietà in quanto da anni non sono stati ancora messi in ruolo.
A NORD
A Torino, dove il taglio dovrebbe interessare 1.800 insegnanti e seicento impiegati tecnico amministrativi, i sindacati della scuola aderenti a Cgil, Cisl e Uil, hanno presidiato l’uffico scolastico regionale.
Proteste anche a Milano, dove sono state presentate 18mila domande per cinquemila posti disponibili nella provincia. Da ieri mattina gli insegnanti aderenti al coordinamento “lavoratori della scuola 3 ottobre” si sono incatenati davanti l’ex provveditorato. Tende, fornelli da campo e la solidarietà dei colleghi di ruolo, serviranno per andare avanti ad oltranza, promettono. «Il governo dicono ironicamente mantiene le promesse: il nuovo anno scolastico si apre con 43mila cattedre in meno in tutta Italia».
LA SCURE
Secondo i calcoli della Flc-Cgil, precari a parte, con i tagli all’Istruzione quest’anno avremo circa 42mila cattedre e 15mila impiegati amministrativi in meno sul 2008. Nonostante 32mila pensionamenti tra gli insegnanti e ottomila tra il personale. Mentre l’anno scorso i contratti a tempo sono stati 130mila tra gli insegnanti e 78mila tra gli amministrativi. I rappresentanti dei lavoratori adesso avvertono il governo. Il segretario generale della Flc-Cgil Mimmo Pantaleo chiede un tavolo di confronto sui precari a palazzo Chigi e parla di «piena emergenza sociale».
Di situazione esplosiva parla anche il Gilda, sindacato autonomo, che annuncia proteste». Mariastella Curreli, presidente del Cip (coordinamento insegnanti precari) parla di licenziamenti di massa. Ai docenti arriva anche la solidarietà dell’Unione degli studenti. Mentre Rdb-Cub annuncia per giovedì un presidio davanti alla sede del ministero dell’Istruzione. Nello stesso giorno al Miur i sindacati discuteranno di «contratti di disponibilità» e accordi tra ministero e regioni. I primi prevedono che i precari che l’anno scorso hanno avuto cattedre di un anno abbiano una corsia preferenziale nelle chiamate per le supplenze brevi e una indennità di disoccupazione per i periodi di non lavoro. Alle Regioni il Miur chiede di finanziare alcune attività scolastiche.❖

Repubblica 2.9.09
Scuola, l´autunno nero dei precari
Senza posto quasi 20mila docenti. In tutta Italia cortei e proteste shock
Si cerca una difficile soluzione per evitare licenziamenti di massa. Supplenti in catene a Milano, in mutande a Roma
di Mario Reggio


ROMA - Supplenti precari in catene a Milano. In corteo a Napoli e Palermo. In mutande a Roma. Sul tetto del provveditorato a Benevento. L´autunno caldo della scuola è partito quando mancano due settimane all´inizio dell´anno scolastico. Si tratta, comunque di una «mattanza» annunciata, visto che la legge sui tagli è stata approvata sei mesi fa. Meno 42 mila cattedre e 15 mila posti in meno per il personale non docente. Ed ora cosa succederà? Il ministero della Pubblica Istruzione sta cercando di trovare qualche soluzione tampone, per stemperare il clima rovente. Ha proposto alle Regioni contratti di formazione, durata un anno, per i supplenti annuali che non avranno più l´incarico. Metà dei costi sarebbero a carico del ministero della Pubblica Istruzione, il resto pagato dalle casse regionali. Per il momento l´accordo sarebbe stato chiuso con la Sardegna. Con Puglia, Sicilia, Campania l´accordo sarebbe in dirittura d´arrivo. Da Lombardia e Veneto ancora nessun segnale. Ma si tratterebbe, comunque, di una soluzione tampone, perché in tre anni i tagli nella scuola dovrebbero toccare quota 150 mila. Cosa succederà tra due settimane? I conti sono presto fatti. La legge fissa per l´anno scolastico 2009-2010 un taglio di 42.102 docenti e 15 mila dipendenti delle categorie non docenti. È vero che tra gli insegnanti sono 26 mila quelli che andranno in pensione entro il 2009, ma che fine faranno i precari annuali, quelli con il contratto fino al 31 agosto 2009? Per loro la legge parla chiaro: in 16 mila dovranno tornare a casa senza un «grazie per quello che avete fatto». Ci sono poi i 110 mila con il contratto che è scaduto il 30 giugno del 2009. Per loro il futuro è ancora più nero.
Mentre i precari scendono piazza si mobilitano i sindacati della scuola. Scendono in campo la Cisl e la Gilda. Dura la presa di posizione della Cgil: «Il governo si disinteressa dei 25000 precari della scuola che rimarranno senza lavoro e senza salario per colpa dei tagli alla scuola pubblica - dichiara il segretario nazionale Mimmo Pantaleo - siamo in piena emergenza sociale con migliaia di insegnanti, ausiliari, tecnici e amministrativi licenziati, graduatorie nel caos e uffici scolastici assediati mentre la Gelmini parla d´altro. Infatti in questi giorni abbiamo ascoltato dal ministro i soliti giudizi sulla scuola che non funziona, per arrivare ad avanzare proposte che calpestano la nostra Costituzione, come quella di finanziare allo stesso modo le scuole Statali e quelle paritarie».

l’Unità 2.9.09
Intervista a Desmond Tutu
«Ho rivisto l’apartheid nei check-point della Cisgiordania»
Il Nobel per la pace: «Centinaia di posti di blocco umiliano i palestinesi La sicurezza non è questa, Israele faccia tesoro della storia del Sudafrica»
di Umberto De Giovannangeli


Appello ai fratelli ebrei «La sicurezza non potrà venire attraverso recinzioni, muri e fucili, ma
dal rispetto dei diritti dei palestinesi»

In Sudafrica hanno cercato di ottenere la sicurezza dalla canna del fucile. Non l’hanno mai avuta. Perché la sicurezza per una parte non può essere realizzata sulla sofferenza, l’umiliazione, le punizioni collettive inflitte ad un’altra parte della popolazione o a un popolo che rivendica la propria libertà e autodeterminazione. È una lezione della storia di cui Israele dovrebbe far tesoro. Purtroppo ancora non è così». A parlare è colui che assieme a Nelson Mandela, è stato l’uomo simbolo della lotta al regime segregazionista sudafricano: Monsignor Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace nel 1984. Nei giorni scorso, Tutu ha visitato Israele e la Cisgiordania assieme ad altri Nobel per la Pace, tra i quali l’ex presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter. L’Unità ha avuto modo di rivolgergli alcune domande.
Monsignor Tutu, Lei ha visitato più volte i Territori occupati. In una nostra passata conversazione, Lei ha denunciato la condizione disperata in cui versa la popolazione di Gaza. In questo viaggio, Lei ha visitato la Cisgiordania. Qual è la cosa che l’ha piùcolpita?
«I check point. Sono centinaia e spezzano la Cisgiordania in mille frammenti territoriali. Quei check point, assieme al Muro, isolano villaggi, spezzano comunità; quei check point sono l’espressione di un dominio che segna la quotidianità di decine di migliaia di palestinesi. Li prostra, li umilia. Essi mi riportano indietro nel tempo, al Sudafrica dell' apartheid».
Un parallelo pesante, monsignor Tutu. «Lo so e me ne dispaccio, ma la realtà è questa. Ed una realtà in cui un soldato può ergersi a giudice ed emettere sentenze senza appello. È un arbitrio che spesso si rivolge contro anziani, donne, che non chiedono di entrare in Israele ma di raggiungere un villaggio nella Cisgiordania...».
Israele giustifica questa pratica in nome della sua sicurezza.. «È un approccio errato, oltre che profondamente ingiusto. È l’impotenza della ragione mascherata con l’esercizio della forza. È un’illusione, una tragica illusione. È quello che provo a ripetere ai miei amici israeliani ed ebrei: Israele non potrà mai ottenere la sicurezza attraverso le recinzioni,i muri, i fucili. La sicurezza potrà essere realizzata solo quando i diritti umani di tutti saranno riconosciuti e rispettati. È una lezione della storia che viene dal mio Paese, il Sudafrica».
Assieme ad altri Nobel per la Pace, lei ha incontrato i pacifisti palestinesi e israeliani che animano le proteste del villaggio di Bi’ilin contro la costruzione del Muro.
«La loro è una testimonianza straordinaria di resistenza non violenta. Agli attivisti di Bi’ilin ho portato la mia solidarietà e il mio sostegno, ricordando loro che con la non violenza Gandhi riuscì a sconfiggere l’impero britannico e Martin Luther King a portare avanti la lotta per i diritti della gente di colore negli Usa. La disobbedienza civile è la giusta via per far valere i diritti di una comunità, di un popolo. È una scelta coraggiosa, lungimirante, eroica. Essa va sostenuta da ogni persona che crede davvero nella pace e nella giustizia».
Lei parla di disobbedienza civile, ma tra i palestinesi sono ancora in molti a perorare, e praticare, la lotta armata. «In passato ho avuto modo di interloquire con dirigenti di Hamas. Ha loro ho ripetuto che sparare missili contro le città israeliane ai confini con Gaza era doppiamente sbagliato: perché è sempre sbagliato colpire civili e perché quelle azioni avrebbero rafforzato quanti in Israele ritengono che esista una soluzione militare alla questione palestinese. La realtà, purtroppo, mi sta dando ragione. Mi lasci aggiungere, però, che non c’è giustificazione alcuna ai crimini di guerra compiuti nella Striscia da Israele durante l’operazione denominata “Piombo Fuso”. A denunciarlo sono le agenzie Onu impegnate a Gaza e le più importante associazioni umanitarie internazionali. A confermarlo sono anche le testimonianze di diversi soldati israeliani impegnati nelle operazioni militari. Resto convinto che l’unico modo per porre fine alle violenze e all’ingiustizia è che israeliani e palestinesi si siedano attorno a un tavolo per cercare insieme un compromesso accettabile per le due parti. Non esistono scorciatoie al dialogo».
Una affermazione che riecheggia quanto più volte affermato dal presidente Usa, Barack Obama. «Nutro molte speranze nel presidente Obama. Mi ha molto colpito il suo discorso del giugno scorso al Cairo. Obama ha creato molte aspettative nel mondo arabo, tra i palestinesi. Sta a lui non deluderle. Per questo è importante che passi al più presto dalle parole ai fatti”.
Dialogo e di negoziato. Con dentro o fuori Hamas? «I conflitti si risolvono trattando con i nemici, non con gli amici».❖

Repubblica 2.9.09
Quando la Shoah non avrà più testimoni
di Aharon Appelfeld


I sopravvissuti finora hanno sottratto lo sterminio degli ebrei alla sfera dell´incredibile Tra poco non resteranno che i bambini di allora, con la loro memoria senza filtri
Nel momento stesso in cui raccontano e rivelano, i superstiti adulti non possono non nascondere
Per i bimbi invece non c´era un prima, l´orrore era il latte nero che bevevano da mattino a sera

Sono passati sessantaquattro anni dalla fine della seconda guerra mondiale e mi sembra che stiamo entrando in un periodo nuovo nel nostro rapporto con la Shoah. La novità si fa sempre più visibile perché i sopravvissuti stanno lasciando questo mondo.
I sopravvissuti erano e rimangono il terrore di chiunque – storico o narratore – scriva della Shoah. Hanno montato la guardia affinché gli eventi fossero narrati nell´ordine giusto, luoghi e nomi non venissero omessi e i particolari non fossero distorti. Per loro era indispensabile che la Shoah fosse raccontata nei suoi esatti dettagli. Sono stato rimproverato più di una volta da sopravvissuti per essere stato inesatto o per aver descritto ciò che avvenne durante o dopo la Shoah con toni critici nei confronti delle vittime.
Per il sopravvissuto, la memoria cronologica era un´àncora cui sia aggrappava con tutte le sue forze. La scrittura d´immaginazione sul tema della Shoah è stata considerata – e lo è tuttora – un atto sproporzionato rispetto alla gravità del tema. Spesso si sente affermare: sulla Shoah non si gioca con le parole né con la forma letteraria, ma si raccontano le cose com´erano, il più precisamente possibile. E´ vietato l´accesso a questo tema da parte di qualsiasi elemento creativo che non sia la memoria. Non è un caso che gran parte delle opere scritte sulla Shoah siano di natura storica: quelle psicologiche o teologiche sono una minima parte e quelle di fantasia sono pochissime. E´ ben vero che sull´argomento è stata prodotta un´abbondante letteratura sensazionalistica, ma le opere letterarie contenenti una verità profonda sono talmente rare che potrebbe contarle un bambino.
Memoria e commemorazione erano l´energia che alimentava i sopravvissuti: essi non dimenticavano mai il solenne impegno di raccontare tutto, di non trascurare neanche un angolino, di accerchiare l´orrore da ogni parte. Ma ormai siamo giunti sulla soglia di una nuova fase in cui la storia della Shoah dovrà andare avanti senza più sopravvissuti. Finché loro sono vissuti fra noi, la Shoah è stata una presenza estremamente tangibile: aveva un nome, in cognome, una città e un villaggio. Con la sua presenza, con i suoi silenzi, il sopravvissuto dava voce all´orrore. Lo incontravi per strada, a casa sua, alle cerimonie commemorative, insomma ovunque.
La costante presenza del sopravvissuto fra noi ha sottratto la Shoah alla sfera dell´incredibile e l´ha introdotta in quella del visibile. Se mai qualcuno dubitava del male che l´uomo può fare all´altro uomo, degli abissi di barbarie cui può giungere, arrivava il sopravvissuto e glielo spiegava.
Adesso che i sopravvissuti ci lasciano a uno a uno, si avverte un timore: come proseguirà la storia della Shoah senza di loro? In altre parole, come faremo a preservare l´individualità e l´intimità che il sopravvissuto conferiva a quell´esperienza atroce?
Ebbene, oggi sta venendo in primo piano una figura diversa di sopravvissuto. Penso a tutti coloro che allo scoppio della guerra erano bambini: la loro memoria è una memoria diversa, e diverso è il loro modo di esprimere gli eventi. Per tanti anni, i bambini non sono stati annoverati fra i sopravvissuti e il loro ricordo non è stato considerato ricordo. Ora, per comprendere il carattere della memoria del bambino, è importante capire la diversa natura della testimonianza del superstite adulto.
Sulla Shoah è disponibile un corpus imponente di testimonianze scritte, ma chi le studia a fondo non tarda ad accorgersi che esse mancano di introspezione: in effetti, per la maggior parte non sono che cronache. Tutto ciò che si è palesato all´ebreo in quegli anni era al di là della sua ragione e della sua anima. L´ebreo si è trovato nel punto esatto in cui è avvenuto l´orrore, e una volta libero ha desiderato poterlo considerare un incubo, uno strappo nella vita che andava rimarginato il prima possibile: un orrore che non meritava una considerazione spirituale, ma soltanto una maledizione.
Nel momento stesso in cui racconta e rivela, il sopravvissuto adulto nasconde. Perché non può non dire, ma non può neanche ammettere che l´accaduto non lo ha cambiato. E´ rimasto la stessa persona, legata agli stessi, vecchi concetti di civiltà.
Le testimonianze della Shoah vanno quindi lette con attenzione, se non si vuol vedere soltanto ciò che contengono ma anche – ed essenzialmente – ciò che ne manca. La testimonianza del sopravvissuto è innanzitutto la ricerca di un sollievo: ho fatto ciò che dovevo fare. Ma che cosa è veramente intercorso fra lui e l´orrore, durante i suoi anni di sofferenza? Che cosa è cambiato dentro di lui, e come sarà la sua vita d´ora in avanti? Le risposte a queste domande, mi sembra, non si troveranno mai. Aggiungo subito, per evitare malintesi, che la letteratura di testimonianza è indiscutibilmente l´autentica letteratura della Shoah. E´ un colossale serbatoio di cronologia ebraica.
Oggi però ci accostiamo a quanti erano bambini durante la Shoah, e la loro è una testimonianza diversa. I bambini non hanno assorbito l´orrore nella sua pienezza, ma soltanto per quella porzione che un bambino era in grado di assimilare. I bambini non hanno il senso della cronologia, del raffronto con il passato. Se il sopravvissuto adulto parlava di ciò che era stato prima della guerra, per i bambini la Shoah era il presente, era la loro infanzia e la loro giovinezza: non conoscevano altra infanzia, né conoscevano la felicità. Erano cresciuti nel terrore. Non conoscevano altra vita. Mentre gli adulti fuggivano da se stessi e dai loro ricordi, rimuovendoli e costruendosi una vita nuova al posto di quella di prima, i bambini non avevano una vita precedente oppure, se l´avevano, era ormai stata cancellata. La Shoah è il latte nero – come dice il poeta – che essi bevevano al mattino, a mezzogiorno e la sera.
Questo aspetto psicologico si carica anche di un significato ideologico. La Shoah è molto spesso concepita, anche dalle sue vittime, come una follia, un´eclissi, un episodio che non appartiene al normale flusso del tempo, un´eruzione vulcanica da cui ci si deve guardare, ma che non fornisce alcuna indicazione sul resto della vita. Le vittime hanno cioè respinto ogni possibilità di considerare la Shoah come vita, come vita nella sua forma più spaventosamente concentrata, sul piano sia esistenziale che sociale. I numerosi libri di testimonianza che sono stati scritti sulla Shoah sono, se vogliamo, un disperato tentativo di ricacciare la Shoah in un angolo remoto di follia, di tagliarla fuori dalla vita, o in altri casi di circondarla di una specie di aura mistica, inattingibile, parlandone come di un´esperienza che non si può esprimere a parole, ma semmai con un prolungato silenzio.
Invece nel caso dei bambini cresciuti all´epoca dello sterminio, la vita durante la Shoah è qualcosa che potevano capire, perché l´avevano assorbita attraverso il sangue. Quei bambini hanno conosciuto l´uomo come bestia da preda: non in senso metaforico, bensì come una realtà fisica, in tutta la sua statura, con i suoi panni indosso, col suo modo di stare in piedi o seduto, col suo modo di accarezzare il proprio figlio e picchiare il bambino ebreo.
I bambini stavano seduti per ore a osservare. Fame, sete e debolezza li dotavano di grande acume percettivo. Ma anziché gli assassini, essi osservavano i propri padri e fratelli maggiori, nella loro debolezza e nel loro eroismo. E quelle immagini sono rimaste impresse su di loro, così come l´infanzia si stampa sulla matrice della carne di ognuno.
(Traduzione di Marina Astrologo)

il Riformista 2.9.09
Sexgate Nuovi scenari nelle indagini dei pm baresi: non c'è pace per il governatore
Non solo escort, Tarantini offriva anche disoccupate
E intanto Vendola scivola su un'intervista a El Pais
di Samantha Dell'Edera


Donne disperate e senza lavoro, disposte a offrirsi ai politici in cambio di un posto. Il sistema dell'imprenditore che portò la D'Addario a Palazzo Grazioli comprendeva anche questo. Nei guai due ex assessori regionali. E intanto Vendola scivola su un'intervista a El Pais. Costretto a rettificare su alcune frasi su Fitto: «Eccesso di sintesi».

Bari. Una donna, maltrattata per anni e poi fuggita dal marito, alla ricerca di un impiego stabile per aiutare i suoi due bambini. Un'avvocatessa salentina di 28 anni con il sogno di intraprendere una carriera nella pubblica amministrazione. Sono solo due esempi di un traffico che la procura di Bari sta portando alla luce in queste ore: donne disperate e disoccupate, disposte a prostituirsi, ad offrire il loro corpo ai politici, in cambio di un posto di lavoro.Tra i personaggi coinvolti spiccherebbero i nomi di due ex assessori della prima giunta guidata da Nichi Vendola, non ancora iscritti nel registro degli indagati perché su di loro sono in corso accertamenti da parte della Guardia di Finanza. Secondo l'inchiesta, guidata dai pm Roberto Rossi e Lorenzo Nicastro, risulterebbe che Giampaolo Tarantini, imprenditore barese a capo della Techno Hospital, azienda che si occupa di forniture sanitarie, avrebbe messo a disposizione dei due ex assessori regionali prestazioni sessuali non solo escort da lui pagate, ma anche donne disoccupate alla ricerca di un impiego alla Regione Puglia o alla Camera di Commercio.
Nel corso delle indagini è stato appurato che, dopo aver consumato un rapporto sessuale con una escort, uno dei due assessori sarebbe andato a pranzo con Tarantini e la stessa donna per poter parlare di lavoro. Interrogata, però, la giovane escort non avrebbe riferito alcun particolare di quella conversazione.
Il nuovo filone di inchiesta è scaturito per caso, da alcune intercettazioni: gli investigatori infatti stavano indagando sull'esistenza di una presunta associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e al falso, alla quale avrebbero preso parte sei indagati, tra dirigenti, imprenditori e funzionari dell'assessorato regionale alla Sanità. Ma sull'intreccio tra politica e malaffare nella sanità pugliese sta indagando anche la pm Desirè Digeronimo: obiettivo del magistrato è di svelare il giro di appalti pilotati che fino ad ora ha portato ad iscrivere nel registro degli indagati sedici persone (tra le quali l'ex assessore regionale alla Sanità Alberto Tedesco).
Sono state ipotizzate anche operazioni sospette da parte di alcuni imprenditori baresi che avrebbero finanziato partiti in cambio di appalti e incarichi nel settore sanitario. In seguito alle ultime novità sull'indagine, ieri il Pdl regionale ha puntato il dito contro l'operato del presidente della Regione Nichi Vendola, mentre il ministro per gli Affari regionali Raffaele Fitto ha condannato l'intervista del governatore rilasciata al quotidiano spagnolo El Pais, nelle quali Vendola afferma: «Fitto, il suo aiutante Tato Greco e Tarantini sono tutti figli di papà senza la minima cultura istituzionale che hanno utilizzato una relazione distorta con le donne, il potere e la Chiesa per occupare il territorio. Hanno formato la cupola di una criminalità dal colletto bianco che ha sostituito la mafia». «Sono certo che dev'esserci stato un errore macroscopico o da parte di chi ha trascritto l'intervista o da parte di chi l'ha tradotta e richiamata sulla stampa locale. Quindi - afferma Fitto - mi auguro e sono certo che entro 24 ore il presidente Vendola vorrà smentire categoricamente di aver rilasciato quelle false e gravissime dichiarazioni nei miei riguardi. In caso contrario mi vedrò costretto ad agire di conseguenza».
Pronta la risposta del governatore pugliese. «Si è trattato di un colloquio durato quasi due ore che il bravo giornalista Miguel Mora ha dovuto, in alcuni tratti, per evidenti ragioni di spazio, tradurre in forma assai sintetica. L'eccesso di sintesi, nel caso del mio pensiero sul ministro Fitto, ha portato a mescolare cose tra loro diverse: il giudizio su una linea politica e persino su uno stile di vita pubblica è cosa differente dalla criminalità dei colletti bianchi; il rapporto malato con le donne e con il sesso è tema drammaticamente attuale ma imputabile al maschilismo imperante piuttosto che a uno schieramento politico; il tema del rapporto tra politica e Chiesa cattolica è troppo complesso e serio per essere ridotto ad una battuta. Mi spiace che l'eccesso di sintesi possa esser stato inteso, a causa del virgolettato, come un deliberato intento di offesa. Così non è».

il Riformista 2.9.09
Le donne della giunta Vendola
di Peppino Caldarola


La giunta Vendola non esce dalla bufera. Ieri su "Repubblica.it" c'erano le anticipazioni di un nuovo filone dell'inchiesta giudiziaria di Bari sulle escort che Tarantini, l'imprenditore inquisito, forniva per ottenere appalti nel campo sanitario. Scrive "Repubblica.it" che due ex assessori della prima giunta Vendola sono accusati, sulla base di intercettazioni telefoniche, di aver avuto rapporti con le ragazze procurate dal Tarantini. Non si fanno i nomi dei due assessori, ma basta guadare l'elenco dei non riconfermati per capire di chi si tratta. Questo nuovo filone aperto dalla magistratura di Bari è ancora più odioso degli altri. Le escort fornite da Tarantini cercavano lavoro e per questa ragione si prostituivano. Si racconta il caso di una giovane donna picchiata dal marito che in cambio di prestazioni sessuali con un ex assessore avrebbe ottenuto un posto in un ente pubblico. Uno degli ex assessori dopo gli incontri sessuali portava a pranzo la giovane donna che ha dichiarato di non ricordare gli argomenti di conversazione perchè "distratta". Se ho capito di chi si parla comprendo la noia della ragazza costretta a passare il tempo con uno degli uomini più noiosi del Mezzogiorno. Vendola ovviamente non c'entra con questa storia di donne. Ma fa una certa tristezza vedere la sua giunta, nata con tante promesse, naufragare per una storia di donne che si prostituivano per povertà e che venivano fornite a politici che avevano fatto della questione morale la loro bandiera.

il Riformista 2.9.09
Bertinotti dai democrat spara sul Pd
«È il problema, rifacciamo la sinistra» fausto. Alla festa di Genova: «La Linke? Non vedo l'equivalente in Italia». «Sbagliato sposare le tesi del liberalcapitalismo, la soluzione è costruire un grande partito». In Italia «regime leggero».
di Marco Innocente Furina



Mentre il segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero, dal palco della festa democratica di Genova si intesta la vittoria della Linke in Germania («ha vinto l'alternativa al sistema»), a pochi metri di distanza Fausto Bertinotti, "ispiratore" politico di Sinistra e Libertà, girando tra gli stand del Porto antico, lo smentisce con malcelato fastidio: «Un equivalente della Linke in Italia non c'è. Un partito che sia capace come quello di prendere il 20 per cento non lo vedo». Ma poi, incalzato dalle domande dei cronisti, dà una lettura della vittoria della sinistra radicale tedesca molto simile a quella dell'ex collega di partito: «Bisogna domandarsi perché la sinistra vince in tutto il mondo, Sudamerica, India, mentre da noi, a parte eccezioni, stenta». Perché? «Perché in Europa la sinistra ha sposato, sbagliando, le tesi del liberalcapitalismo». Di paralleli con la situazione tedesca non ne vuol sentire («provincialismo»). Ma poi parla con entusiasmo della forte socialdemocrazia di quel paese, e spiega: «La soluzione è costruire un grande partito di sinistra».
Il Bertinotti in salsa teutonica, cita la dialettica di Hegel: «Di sinistre ne avevamo due, ora nessuna, bisognerà riaverne una». Il sogno di Fausto è questo da tempo, un grande partito capace di riportare in auge i temi cari all'esperienza della sinistra italiana. E magari tornare al governo. Calma: «Primum vivere», intanto rinasciamo, poi si vedrà, risponde l'ex presidente della Camera. E il Pd? «Il Pd non è la soluzione del problema, è il problema».
Tornato monoteista (una sola sinistra, un solo partito), parla pure di Berlusconi. Quello italiano è un «regime leggero», che in questi ultimi giorni ha subito «un'accelerazione». Ma attenzione, il premier non è liquidabile come un'anomalia italiana, piuttosto è il caso specifico all'interno di una tendenza mondiale. Quella della tecnocrazie internazionali che impongono la loro visione. A tutti, anche «alla Chiesa», che pure con questo governo ha istaurato un «rapporto di scambio».
Fausto Bertinotti è a Genova per parlare del suo libro, Devi augurarti che la strada sia lunga. Un racconto di vita, un'autobiografia politica e umana la cui origine ha una data precisa: Il 14 aprile 2008. Il Dies orribilis della sinistra italiana, che dopo più di 100 anni di ininterrotta presenza (eccetto il periodo fascista), scompare dal Parlamento. Spazzata via dal vento di destra che percorre il paese e dalla teoria, e dalla pratica, del «voto utile». Allora è tempo di bilanci per chi, come l'ex presidente della Camera, alla costruzione di un'aggregazione di sinistra alternativa, radicale - ma lui direbbe semplicemente «di sinistra» - ha dedicato gli ultimi 15 anni della sua vita. Da questa riflessione nasce quest'opera che, ironia della sorte, Bertinotti presenta in un luogo doppiamente simbolico: la festa nazionale del Pd a Genova. Doppiamente simbolico perché avviene proprio qui, a Genova, dove il primo partito operaio, quello socialista, mosse i suoi primi passi più di un secolo fa; e perché Bertinotti parla davanti alla platea di quel partito che lui considera la deriva confindustriale e moderata dell'esperienza della sinistra italiana.
Una deriva a cui non bisogna arrendersi. Perché la sinistra va ripensata ma non abbandonata. Il primo ad ammettere gli errori compiuti è proprio lui, il leader che forse ingenerosamente in molti ricorderanno solo per la decisione di negare la fiducia al primo governo Prodi: lo spazio per la teoria dei due forni - due formazioni di sinistra: una moderata di governo e una radicale più vicina alla base - non c'è più, spiega. Serve un nuovo, grande partito. Questa la tesi del libro che non piacerà a molti dirigenti democratici, ma che, forse, toccherà i sentimenti di molti militanti, come quelli che qui a Genova hanno applaudito con calore Pierluigi Bersani.

L’Altro 17.8.09
Viva Nichi Vendola!
di Fausto Bertinotti


Viva Nichi Vendola! Questa è la mia risposta - la prima, la più immediata ma anche quella più meditata - alle vicende pugliesi. Non è solo la solidarietà che è giusto e doveroso esprimere a un amico, a un compagno di lunghissimo corso, con il quale si sono condivisi una stagione, molte sconfitte, qualche successo. E' anche e soprattutto un'idea della politica. Non malgrado, ma proprio in virtù del legame che ci unisce, sento la necessità di rivendicare, prima di ogni altra cosa, una presunzione di verità politica che è interamente dalla sua parte. Tanto più in una fase come questa, nella quale, anche nella sinistra in disfacimento, scatta invece la mera logica del "contro", quasi oramai come un vestito che ci si è cuciti addosso. Da parte mia, appunto, avverto come prioritaria l'idea di appartenenza pubblica. Nichi e io abbiamo fatto parte, facciamo tutt'ora parte, della stessa comunità politica scelta - una nozione che va ben oltre quella di partito e che ci richiama a quella diversità che è forse la ragione qualificante della nostra intrapresa.
Siamo diversi non perché migliori o antropologicamente surdeterminati, ma perché ci muove l'ambizione di cambiare il mondo. Siamo diversi non in quanto singole persone o ceto politico, ma perché rispondiamo a quella comunità, a quella storia collettiva, a quelle speranze di cambiamento - e l'azione della politica è solo l'ancella, per quanto privilegiata - di questa prospettiva.
uesto è l'essenziale nella storia di Nichi Vendola, da giovane comunista a governatore della Puglia, da brillante intellettuale a leader politico nazionale.
Questo è ciò che vale e che va rivendicato. Ma allo stesso tempo non è forse questo anche il metro garantista che ci dovrebbe guidare sempre, tutte le volte cioè che il potere giudiziario coinvolge l'autorità politica? Per noi l'autonomia della magistratura è un fondamento, quasi sacro, della civiltà moderna.
E anche in questa circostanza non possiamo che ribadire l'auspicio di sempre che "la giustizia faccia il suo corso". Solo che, nell'inchiesta pugliese, si sta verificando un paradosso pressoché clamoroso: il garantismo, che serve a tutelare chi è sottoposto a un'indagine che sfonda sulla presunzione di innocenza di chi è accusato, e gli fornisce gli strumenti necessari di difesa, almeno fino a quando non sia emesso un verdetto, da strumento nobile si va rovesciando nel suo contrario.
Nichi Vendola non è accusato di alcun reato, ne è soggetto ad un inchiesta specifica che lo riguardi: perciò nel nome di regole garantiste formalmente proclamate, nei suoi confronti viene brandita una vera e propria fiera del sospetto.
Scatta un'impressionante meccanismo mediatico accusatorio e scatta la sovrapposizione costante della figura di Nichi Vendola a la nozione di reati, ruberie, corruzione. E si leva un coro di condanna preventiva.
Perché? In verità, la natura di questa offensiva è sotto gli occhi di tutti, quotidianamente, ed è molto chiaro l'obiettivo che si propone: la demolizione di una personalità e di un'esperienza politica.
Non è una persecuzione dettata da chissà quale malevolenza. Non è un complotto classico. E' una risposta della politica conservatrice. Giacché Nichi Vendola è la Puglia - la Puglia che vuole cambiare, la Puglia che fa eccezione alle sconfitte che colpiscono nel resto d'Italia la sinistra e il centro sinistra.
Nichi ha reso possibile ciò che sembrava impossibile: prima, trasformare le primarie in un vero e proprio "patto col popolo", che assomiglia alle più avanzate esperienze dell'America latina assai di più che non all'esangue e spettacolare ritualità della Sinistra Europea; poi, proseguire in un azione di governo innovativa, che ha scosso molti interessi forti della società pugliese e costruito una mobilitazione della società civile che incarna le istanze gramsciane.
Lo ha fatto, come dicevamo, in controtendenza mentre la sinistra offriva di sé le note cattive prove - e non ha lavorato soltanto sul terreno del riscatto del sud, ma si è mosso nella direzione di un nuovo meridionalismo in stretta connessione con il Mediterraneo.
Ora, neppure sugli anni di governatorato di Nichi Vendola fin qui realizzati, rinunciamo alle virtù della critica e dell'autocritica. L'eccezione pugliese ha avuto, continua ad avere, i suoi limiti. Eppure resta un eccezione del tutto singolare nel panorama italiano.
Questo, ancora, è l'essenziale. Questo dovrebbe essere il criterio che guida tutta la sinistra, di qualunque orientamento.
Invece la sinistra appare del tutto inadeguata: non difende Vendola, oscilla tra l'invettiva giustizialista e mille giochi tattici di corto, cortissimo respiro. E' un segno inequivocabile della sua crisi strategica ma anche della sua incapacità di fronteggiare davvero l'offensiva degli avversari. Accade così che, dall'antica alterigia e presunzione di immunità rivendicata per tutti i suoi membri, si è passati alla propensione diametralmente opposta: non tutti eguali davanti alla legge, come è giusto che sia, ma tutti eguali!
Accade così che si getta via il bambino (le ragioni politiche ideali della diversità) insieme all'acqua sporca (la presunzione) e si offrono nuovi varchi alla deriva populista. Accade, ancora, che si è diventati incapaci di capire quali sono gli interessi materiali concreti colpiti, la loro reazione,la necessità di fronteggiarla - e con quali strumenti.
Anche qui con un rovesciamento culturale che ha dell'incredibile: dall'antica fissa giacobina del "complotto reazionario" che si vedeva sempre dietro l'angolo, si è passati alla cancellazione totale di ogni analisi delle forze in campo.
Come se la politica fosse di colpo diventata neutrale. Ma che in Puglia gli interessi colpiti si stiano mobilitando per mettere fine alla anomalia che Nichi Vendola rappresenta, e per riportare la regione all'ordinaria condizione del quadro italiano, a me pare evidente. Palmare.
Dunque, lo ripetiamo: la giustizia faccia il suo corso. Ma contemporaneamente la politica faccia la sua parte. Prenda parte.

il Riformista 2.9.09
Rivaluto Gramsci e voto Bersani
di Francesco Cossiga


Caro direttore, ho letto in un qualche giornale (ne leggo molti, e ormai la memoria,almeno quella recente, mi falla…) che vi è stato qualcuno nel Partito democratico, in questa vigilia di congresso arroventata, e non soltanto dalla calura di stagione, che ha avuto da ridire del richiamo al pensiero di Antonio Gramsci formulato dal Presidente della fondazione intitolata al grande filosofo, filologo e politico sardo, come pensiero che potrebbe informare la cultura del partito che si è soliti denominare di "centrosinistra".
Non sono iscritto a questo partito, nelle ultime elezioni politiche generali ho votato per esso, pur non sapendo bene per che cosa mai votassi, ma anche per il fatto che nel suo Statuto le primarie per la designazione del segretario sono aperte a tutti, penso di poter dire una mia parola in proposito.
Ho sempre sostenuto anche sulle colonne del tuo o del "nostro" giornale (posso chiamarlo così?) che un partito deve aver ancora oggi alla sua base una cultura e che oggi sul piano pratico non esiste, almeno in Europa, altro "riformismo" che non sia quello di cui sono espressione i partiti socialisti o socialdemocratici; il riferirsi come spesso fanno alcuni democrat al partito democratico degli Stati Uniti d'America è fuorviante perché il contesto storico e culturale di quel Paese è del tutto differente da quello italiano ed anche europeo e perché, come dimostra l'esperienza politica e di governo dell'amministrazione Obama, quel partito ha nei suoi ranghi, anche parlamentari, una gamma per così dire ideologica che va dai "neocon", con annessi "teocon" a quasi-trotskisti, macchiati dalla "tabe" dell'estremismo che il grande Lenin definiva malattia infantile del comunismo!
Mi sembra di aver letto che il vizio politico-culturale di Antonio Gramsci risiederebbe nel fatto che egli ha cercato di attualizzare il pensiero "egemonico" di Lenin nella realtà culturale italiana facendo riferimento all'archetipo machiavelliano de "Il principe" ed evocando altresì lo spettro della "dittatura" staliniana, che fu ben lontana dall'idea leninista di Stato e società, e dimenticando altresì che Antonio Gramsci fu antistalinista e che proprio per questo fu forse, come ho appreso in gioventù da Sandro Pertini, espulso dal Partito Comunista d'Italia.
Per questo, il Partito democratico per darsi una cultura potrebbe ben riferirsi al pensiero di Antonio Gramsci e nell'analisi dei fenomeni economici e sociali applicare i canoni del marxismo.E senza ricorrere a quella che fu la posizione politica e culturale di Franco Rodano e di Felice Balbo, ben i cattolici potrebbero militare in un siffatto partito, solo riferendosi al pensiero esposto in un libro non a caso intitolato "Il Capitale", scritto dal successore di Joseph Ratzinger sulla cattedra di Freising-Monaco, Monsignor Reihnard Marx, il quale, nel presentare il suo libro, disse che male avevano fatto i cattolici a dimenticare Marx e che «Marx non è morto ed è bene prenderlo sul serio». Non credo che Dario sia più ortodosso di Monsignor Marx.
Il recupero del pensiero di Karl Marx e di Antonio Gramci, e dello stesso Lenin nella cornice delle libertà individuali classiche declinate con il principio di eguaglianza, rivalutando il concetto di classe e anche quelli di lotta di classe modernamente inteso secondo il nuovo assetto delle classe dirigenti e dei poteri economici, sociali e tecnologiche al fine di costruire nuovi modelli di organizzazione della produzione volta alla massimizzazione del valore lavoro sia intellettuale che materiale. E questo per dare al paese e alla classe lavoratrice:contadina, operai, tecnica e insieme al Paese una sinistra moderna che si esprima in un partito socialista nuovo.
Di questo il Paese ha bisogno per una vera dialettica politica, sociale, culturale ed economica, un partito laico che riconosca il diritto di chi porta valori "non laici" a battersi per testimoniarli anche politicamente, nel Paese e nelle istituzioni.
Convinto che questo partito serva al Paese e alla democrazia, io cattolico e liberaldemocrat nelle primarie del Partito democratico voterò per Pierluigi Bersani, anche a motivo dell'endorsement ottenuto dall'amico Massimo D'Alema.



Repubblica 2.9.09
Accordo con Google Digitalizzati a Firenze 300 mila libri


FIRENZE – Potrebbe cominciare dalla Biblioteca Nazionale di Firenze il «matrimonio» d´interesse con Google. E potrebbe cominciare da un accordo per digitalizzare 300 mila libri, dalla metà del ‘400 al 1870, volumi cioè liberi dal copyright: «Chi decide sarà il direttore generale per la valorizzazione dei Beni culturali Mario Resca, ma se volete il mio parere, io sono favorevole», dice Antonia Ida Fontana, direttrice della Biblioteca Nazionale fiorentina, custode di un patrimonio di sei milioni di testi. Proprio oggi pomeriggio, la direttrice sarà al ministero per discutere la questione e mettere nero su bianco le prime proposte, anche se un nuovo incontro tra Google e il direttore generale avverrà intorno alla metà di settembre. «Mi sembra una grossa opportunità per divulgare la cultura italiana nel mondo, noi non abbiamo le risorse per digitalizzare tutto quello che possediamo, Google libri ci offre questa occasione, dunque parliamone e fissiamo noi dei paletti».
La prima condizione, secondo la direttrice della Nazionale, è la gratuità: «La consultazione del volume online deve essere libera, a disposizione di tutti, mentre si può pensare a un eventuale download a pagamento: in questo caso allora la Biblioteca Nazionale potrebbe stabilire delle royalties». L´accordo, secondo Antonia Ida Fontana, dovrebbe riguardare un periodo di tempo limitato, «dai cinque ai vent´anni, la discussione è aperta» e alla Biblioteca Nazionale dovrebbe andare anche una copia per ciascuna digitalizzazione. Perché soltanto libri fino al 1870? «Perché in questo caso abbiamo la garanzia che sono opere libere dal diritto d´autore», risponde la direttrice.

Repubblica Firenze 2.9.09
"Su Google 300mila libri della Nazionale"
Le proposte della direttrice per il primo accordo italiano con il colosso di Internet
Solo volumi anteriori al 1870: "Consultazione gratis, il download si può pagare"
di Laura Montanari


La grande biblioteca in riva all´Arno è pronta a spalancare le porte al mondo e «liberare» 300mila dei suoi sei milioni di volumi, offrirli a Google per digitalizzarli e mostrarli gratis, online a chiunque voglia leggerli. Volumi dal Quattrocento al 1870, cioè senza più copyright. «Sono favorevole al progetto, può essere un´opportunità, noi non abbiamo le risorse per digitalizzare il nostro patrimonio» spiega Antonia Ida Fontana, direttrice della Biblioteca Nazionale di Firenze precisando anche che comunque non sarà lei a decidere: «Spetta al direttore generale per la valorizzazione del patrimonio culturale del ministero Mario Resca». Ma il parere di Ida Fontana conta, così tanto che oggi sarà a Roma al ministero per mettere nero su bianco i paletti del possibile accordo con il più cliccato, amato e odiato motore di ricerca. Google, una potenza nel mondo della rete tanto da suscitare sospetti e timori: in Austria e in Germania un gruppo di intellettuali guidati da Gunter Grass si oppongono all´affitto di un´ampia fetta del patrimonio letterario al colosso americano. A Firenze la direttrice della Nazionale la pensa diversamente: «Basta essere chiari e mettere dei paletti, il nostro obiettivo è promuovere il più possibile la cultura italiana nel mondo, noi chiediamo che i testi siano consultabili a tutti gratuitamente online. Poi possiamo metterci a un tavolo e discutere se il download di un´opera possa essere a pagamento e in questo caso la Nazionale dovrà percepire delle royalties».
«La Biblioteca Nazionale secondo me si può impegnare soltanto per quei volumi liberi dai diritti d´autore, cioè quelli fino al 1870 con qualche flessibilità a seconda dei casi e valutando eventuali eccezioni». Per Google l´accordo con la Nazionale è di importanza strategica per sbarcare in Italia con il progetto della «biblioteca universale» che mette a portata di mouse il sapere delle diverse parti del mondo facendolo entrare ovunque ci sia un computer e una connessione. Tra i 300mila volumi che potrebbero passare dagli scaffali della Nazionale alla rete c´è un pezzo di storia, di scienza, di letteratura. Ci sono Dante, Petrarca, Manzoni, ci sono Galileo, Ariosto, Tasso, Petrarca, Machiavelli, Guicciardini, Pero, Cantù e centinaia di nomi che si inseguono nelle pagine di poesie, poemi, romanzi, trattati, saggi. «A mio avviso bisognerà coinvolgere anche la Biblioteca Nazionale di Roma, quella di Napoli e di Venezia, cioè dei grandi centri di tipografia che hanno stampato volumi fino al Settecento» spiega Fontana.
Le biblioteche hanno fondi scarsi, problemi di organici e di spazi insufficienti, l´offerta di Google si presenta interessante, ma anche un passaggio delicato, un salto nel futuro (già cominciato, cliccare su Google libri per saperne di più). La direttrice della Nazionale lo sa e insiste sulle condizioni per l´accordo: la durata, «io penserei a un tempo fra 5 e 20 anni», la gratuità e l´obbligo per Google a fornire una copia di ogni volume in digitale alla stessa Nazionale in modo da dotarla di una biblioteca parallela, non cartacea. Il nodo resta quello di cedere, in affitto temporaneo, un grande patrimonio: perché a Google? «Perché si è fatto avanti - risponde la direttrice - e possono fare un notevole investimento. Per digitalizzare 300mila volumi, calcolando una media di 200 pagine a libro, serviranno circa 60 milioni di euro». E se domani si facesse avanti Microsoft o Yahoo alle stesse condizioni? «Penso che l´esclusiva a Google sia necessaria per quei 300mila volumi, ma noi ne abbiamo 6 milioni. Si valuterà». Nelle prossime settimane nuovo incontro tra il ministero e il più importante motore di ricerca nella rete.

il Riformista 2.9.09
Settembre ’39. Meno tre giorni all'inferno
di Richard Overy


NUOVA USCITA. Arriva in Italia "Sull'orlo del precipizio", il nuovo libro dello storico inglese Richard Overy. Un diario struggente che ripercorre le ultime tesissime ore dell'Europa prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. È il 3 settembre di 70 anni fa. Da quel giorno il mondo non sarà più lo stesso.

Anticipiamo per gentile concessione dell'editore un estratto del libro di Richard Overy "Sull'orlo del precipizio. 1939, i dieci giorni che trascinarono il mondo in guerra" (ed. Feltrinelli, 160 pp., euro 14) da oggi in libreria.

La pace mancata - 3 settembre 1939
Il 3 settembre è il giorno in cui iniziò la guerra mondiale. Il romanziere inglese Storm Jameson racconta che cominciò «in una giornata di insolita bellezza, di sole limpido e caldo, di nuvole di un candore abbacinante sotto un cielo azzurro, con un insistente vento carezzevole». Finalmente, di fronte alla realtà, caddero le illusioni, da entrambe le parti, che l'avversario avrebbe ceduto. Questo giorno sarà sempre ricordato come il giorno di Chamberlain, mentre il primo settembre era stato quello di Hitler. Andando contro il proprio carattere e le proprie speranze, Chamberlain si vide costretto a dichiarare una guerra che non voleva. Anche se gli storici l'hanno sempre ritenuto piuttosto carente di coraggio, il passo finale di una dichiarazione dalle implicazioni profonde e di grande portata fu sicuramente un atto coraggioso. E non meno coraggiosa (...), fu la dichiarazione di guerra fatta poche ore dopo da Daladier, la cui ripulsa morale delle armi era potente quanto quella di Chamberlain, eppure non gli impedì di ammettere che sarebbe stato vano evitare un confronto diretto con la Germania di Hitler. I leader democratici non godono della disinvoltura che caratterizza i dittatori quando decidono di scatenare una guerra.
Il mattino del 3 settembre il cielo era coperto. Nella tarda serata si era arrivati alla decisione definitiva di presentare un ultimatum a breve scadenza, e durante la notte non era successo nulla che potesse cambiare le carte in tavola. Halifax arrivò al ministero degli Esteri britannico alle dieci del mattino, ma scoprì che «non c'era niente da fare». Fu poi informato che Nevile Henderson aveva consegnato l'ultimatum come gli era stato detto, quindi alle 10.50 arrivò una telefonata di Dahlerus, il quale suggerì di invitare immediatamente Göring per un colloquio finale. Cadogan ha poi raccontato di aver gridato «Col cavolo!» allo svedese, mentre Halifax diede una risposta più ponderata, anche se il senso era uguale. Alle 11 Halifax e Cadogan si recarono a piedi fino a Downing Street per sentire gli esiti dell'ultimatum. La strada era affollata di londinesi. Nelle fotografie vediamo di solito una folla entusiasta, tutta sorrisi e Union Jack. Al numero 10, la Bbc aveva improvvisato uno studio perché Chamberlain potesse rivolgersi via radio alla nazione. Alle 11.10, dieci minuti dopo la scadenza dell'ultimatum britannico, non essendo arrivate novità da Berlino, il primo ministro ordinò ai vari dipartimenti militari di «ritenersi in guerra». (...)
A Berlino, dove il governo, incerto sino all'ultimo sulle intenzioni di Francia e Gran Bretagna, si vedeva imposta una guerra a proposito della quale Hitler aveva ribadito a più riprese che non si sarebbe mai materializzata, si stava svolgendo un dramma diverso. Le indicazioni a Nevile Henderson di consegnare di persona l'ultimatum al ministero degli Esteri tedesco arrivarono alle cinque del mattino, anche se Hitler era già stato avvertito di attenderselo con un telegramma segreto inviato dall'ambasciata tedesca a Londra, giunto nella tarda serata. Poco prima delle nove di sera Henderson entrò nell'edificio, ma trovò soltanto Paul Schmidt, l'interprete di Hitler. I due si fronteggiarono imbarazzati mentre Henderson leggeva il breve ultimatum, poi Schmidt corse alla cancelleria del Reich dove trovò una folla ansiosa di funzionari e soldati in attesa. Appena fu ammesso alla presenza di Hitler e Ribbentrop, lesse lentamente l'ultimatum. Scrisse poi nelle sue memorie: «Quando terminai ci fu un gran silenzio. Hitler era seduto immobile e guardava nel vuoto». Dopo qualche secondo, il Führer si girò verso Ribbentrop con aria inferocita e chiese: «E adesso?».
Hitler stava contemplando la prospettiva di una grande guerra paneuropea, che sperava di evitare senza ritenerlo del tutto possibile. In un certo senso, come Chamberlain, aspettava che fosse qualcun altro a decidere, assumendosi sia la responsabilità sia, in un secondo tempo, la colpa. Ciò nonostante, come scrisse in seguito il suo primo addetto stampa Otto Dietrich, era «facile capire quanto fosse scosso». Aveva creduto alle frequenti rassicurazioni di Ribbentrop che Londra non avrebbe mai combattuto, perché voleva credergli. Non possiamo sapere quale esito si aspettava, però durante la giornata reiterò l'opinione già espressa: la Gran Bretagna, e men che meno la Francia, non avrebbe combattuto una vera guerra. Quando Joseph Goebbels arrivò alla cancelleria, trovò Hitler furioso per la posizione di Londra e deciso a combattere. (...) Però entro sera i toni di Hitler erano cambiati. Prima di partire con il suo treno speciale, nome in codice America, destinato a un binario morto nella Bassa Pomerania, a Gross-Born, sul confine con la Polonia, per essere più vicino al fronte orientale, disse a Goebbels che secondo lui Gran Bretagna e Francia avrebbero combattuto soltanto un Kartoffelkrieg, una "guerra delle patate", sinonimo di embargo economico, non un vero conflitto. Secondo Albert Speer, convocato alla cancelleria assieme ad altri componenti della cerchia ristretta del Führer per i saluti, nessuno all'esterno notò il nuovo signore della guerra mentre partiva con il suo seguito di auto nere per andare al treno attraverso le strade oscurate, «in sintonia con l'umore sotto i tacchi», a parere di Speer.
Una volta giunti alla guerra generalizzata non si parlava più di ritirare le truppe tedesche dalla Polonia. Göring fu informato del discorso radiofonico di Chamberlain alle 11.45 dal suo segretario di stato Paul Körner. Dahlerus, che era con lui, si accorse che ascoltava la notizia «con evidente dispiacere», accusando, però, subito la Gran Bretagna perché non aveva capito che un accordo anglo-tedesco era possibile. La sera della partenza di Hitler per il fronte, Goebbels incontrò Göring a Berlino. Il feldmaresciallo disse all'altro che a parer suo la Francia stava ancora mostrando segnali di esitazione, ed era difficile capire se sarebbe stata una guerra lunga. Il problema era il popolo tedesco, la sua accettazione del conflitto. Durante la giornata apparve chiaro che la dichiarazione di guerra aveva raffreddato gli animi nel paese. Poco dopo la scadenza dell'ultimatum britannico arrivarono nelle strade le edizioni straordinarie dei più grandi quotidiani tedeschi che annunciavano che l'Inghilterra (di rado usavano il termine Gran Bretagna) aveva dichiarato lo stato di belligeranza dopo che era stato respinto l'ultimatum. A Berlino, dove la dichiarazione fu annunciata dagli altoparlanti stradali, William Shirer notò che la gente ascoltava con attenzione, poi restava ferma sul posto scioccata. Quindi passeggiò per la città sotto il sole di fine estate, leggendo «stupore e depressione» sulle facce delle persone. Non ci furono dimostrazioni, «applausi, lanci di fiori, febbre bellica». Shirer andò all'Adlon Hotel, presso la Porta di Brandeburgo, dove incontrò alcuni funzionari dell'ambasciata britannica, che lo colpirono per la loro indifferenza. «Sembravano assolutamente immuni agli eventi, parlavano di cani e roba del genere" scrisse nel suo diario.
La dichiarazione di guerra della Francia fu accolta a Berlino senza troppo interesse, dato che si dava per scontato che, dopo quella britannica, la minaccia francese sarebbe arrivata a ruota. Alla fine il divario di quanto intendessero i capi militari e politici di Parigi. Dopo le liti all'interno del governo d'oltralpe la sera del 2 settembre, a mezzanotte Bonnet fu costretto contro la sua volontà a telegrafare all'ambasciatore francese di aspettarsi istruzioni la mattina seguente, in vista della consegna a mezzogiorno del 3 settembre di una nota in cui pretendeva una risposta alla precedente domanda di ritiro della Germania dalla Polonia. Bonnet sperava di procrastinare la scadenza di questa nuova richiesta fino alle 17 del 4 settembre, nel caso in cui ci fossero anche minimi spiragli di pace. Persino in quel frangente non riusciva a convincersi a dichiarare guerra. Alle 10.50 all'ambasciatore fu ordinato di dire semplicemente che se la Germania si rifiutava di rispondere, il governo francese sarebbe stato obbligato «a onorare... gli impegni che la Francia aveva contratto con per chiedere precisazioni su cosa andava considerato un rifiuto tedesco, Bonnet gli ordinò di cambiare la scadenza alle 17 del 3, un mutamento sollecitato da Daladier in mattinata perché aveva finalmente ricevuto da esercito e marina la garanzia che una dichiarazione di guerra anticipata sarebbe stata accettabile. 27 Anni dopo, nelle sue memorie Bonnet ricordò di aver lottato fino all'ultimo per guadagnare tempo nel caso in cui Hitler avesse ceduto all'ultimo momento, e scrisse, per giustificare il suo accanito pacifismo: «Ho combattuto per la pace come si lotta per salvare un malato finché ha un filo di fiato».

Titolo dell'opera originale 1939: "Countdown to War". (c) Richard Overy, 2009. First published in The United Kingdom by Penguin Books Ltd.,2009
(c) Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano. Prima edizione in "Storie" settembre 2009. www.feltrinellieditore.it

Liberazione 1.9.09
Incontro con Lothar Bisky«Premiata la chiarezza della nostra politica»
di Fabio Amato



Incontriamo Lothar Bisky nella splendida cornice del campo delle Erbarie, sul Canal Grande, dove si svolge la tradizionale festa di Liberazione , al termine del dibattito che lo ha visto protagonista con Paolo Ferrero, Gianni Rinaldini, Gian Paolo Patta e Gianfranco Bettin sul futuro della sinistra. E' naturalmente molto soddisfatto delle notizie che arrivano dalla Germania, dei primi exit poll, poi confermati, che danno le dimensioni di un successo senza precedenti della sua Linke, la formazione politica nata dalla fusione fra la ex PDS e la Wasg di Oskar Lafointane. 

Qual è il significato politico della vostra affermazione:? Prima di tutto è un segnale molto importante,di una forza politica che è in crescita a poche settimane dal voto per il rinnovo del Bundestag, il Parlamento tedesco, che avverrà il 27 Settembre prossimo. Secondo perché abbiamo raggiunto il 20 percento in una regione occidentale, come quella del Saarland, qualcosa di semplicemente inimmaginabile pochi anni fa, e terzo che all'est siamo di gran lunga la forza più importante della sinistra, superando notevolmente la SPD. Tutto ciò grazie ad una politica fatta di chiarezza, orientata alla giustizia sociale, netta, senza ambiguità o tentennamenti, di una sinistra coerente. Che chiede politiche sociali, a partire dalla difesa dei salari e dello stato sociale e di pace, come il ritiro dall'Afghanistan

Dai primi risultati sembrerebbero possibile, nei tre lander, maggioranze, rosso-rosso-verdi. Qual è la vostra posizione rispetto a possibili governi con SPD e Verdi? 
Per fare ipotesi dobbiamo aspettare i risultati definitivi, ma sicuramente in almeno due dei tre lander potrebbero esserci i numeri. Ma quello che noi guardiamo non è il governo in quanto tale, ma se c'è o meno la possibilità di cambiare indirizzo alle politiche neoliberiste, politiche portate avanti anche dalla Spd. Non vale la pena stare al governo per continuare con politiche neoliberiste. Continueremo a stare all'opposizione. A volte si possono ottenere risultati anche da un'opposizione forte e coerente.

Quale pensi sia l'effetto della crisi economica? Ha influito sul vostro risultato?
Solitamente, difronte ad una crisi, il rischio è che si cerchi affidamento in ciò che si ha, che si assuma un atteggiamento di paura e conservazione. Ma la nostra affermazione dimostra che qualcosa sta cambiando in Germania. Dimostra che è possibile aprire una strada al cambiamento. Più forte sarà la Linke, anche nelle prossime elezioni politiche e nel Parlamento, più reale sarà questa possibilità.il manifesto 1.9.09