Chi è più furbo
di Concita De Gregorio
Dice un antico adagio che in Italia senza il Vaticano non si governa. Quando è ostile suonano campane a morto. Lo spiegava Gianni Letta qualche giorno fa ai suoi più giovani colleghi, gli anziani lo sanno benissimo. Lo diceva ieri su questo giornale Cirino Pomicino, l’antica scuola democristiana non lascia dubbi: quando la Chiesa volta le spalle comincia il conto alla rovescia. È accaduto a governi di ogni colore, è accaduto sempre. Non c’è dubbio che l’eliminazione di Boffo avvenuta per mano del giornale di Berlusconi seppure funzionale ad una resa dei conti tutta interna alle gerarchie ecclesiastiche segni un punto di non ritorno. Letta aveva lavorato a lungo, nei mesi estivi, per accorciare la distanza tra le due sponde del Tevere. Oggi, dopo gli stracci, la distanza è una voragine. Dunque: meno dieci, meno nove... Per il dopo Berlusconi vescovi e cardinali stanno lavorando alla ricostituzione di una nuova Dc: un nuovo centro, si chiami Rosa bianca o altro, capace di tenere insieme i cattolici in fuga da Berlusconi e quelli che non dovessero sentirsi più a loro agio nel Pd in caso di sconfitta del progetto Franceschini. L’ago della bilancia il magnete della nuova Dc sarebbe in questo caso Pierferdinando Casini, da tempo in sapiente equilibrio al Centro. A sinistra c’è chi pensa, Bersani tra questi, che si debba guardare in prospettiva ad alleanze strategiche con l’Udc. C’è anche chi osserva Franceschini e Marino, in modo diversamente esplicito che le articolazioni dell’Udc sul territorio, i dirigenti locali nelle regioni e nelle città non siano esattamente quello che si intende quando si parla di rinnovamento e di risanamento della classe politica. Il popolo della sinistra forse, chissà non gradirebbe: a Cosenza e a Tempio Pausania assai meno che a Roma. A destra intanto scalda i muscoli Gianfranco Fini proiettato verso un prestigioso avvenire. An sta lavorando a un progetto sul testamento biologico, per dire l’ultima, assai distante da quello degli alleati di governo. Più equilibrato, diciamo. E sull’immigrazione, e sulle donne, e sul lavoro: Fini si smarca. In prospettiva anche il partito di Fini (depurato dai berluscones) potrebbe essere un buon alleato del Nuovo centro. Quando c’è di mezzo il Vaticano direbbe Andreotti non conviene fare a chi è più furbo. Meno che mai se Berlusconi impalla l’orizzonte. Speriamo che chi sovrintende alle strategie abbia fatto bene i conti nel disegnare il percorso dei prossimi cinque anni, speriamo che lo sforzo di prevedere il futuro non offuschi il presente. Bisognerebbe pensare ad una proposta per il paese, nell’attesa: una proposta di lungo respiro e se non porta frutti subito pazienza. Le astuzie, in tempi così, durano un attimo. Dei tempi che ci aspettano vi raccontiamo: storie di precari della scuola, di medici inoccupati, di operai ancora sui tetti. Un autunno disperato e frastornato dai rulli di tamburo delle truppe del Caimano assoldate per zittire. Lo scriveva qui Luigi De Magistris: è alle porte il tentativo finale di affondare il sistema democratico. Da oggi ogni domenica De Magistris scriverà per noi una pagina di diario: la sua «Agenda rossa», come quella scomparsa di Borsellino. Agenda dall’Europa, rossa perché è un gran bel colore. Benvenuto tra noi.
l'Unità 6.9.09
Il documentario
E il capitalismo cinese? Tristezza e miseria
Guo Xiaolu racconta dodici storie esemplare dalla Repubblica popolare cinese: il contadino, l’operaio, l’imprenditrice... Altro che liberalismo
«Il disastro è iniziato proprio con l’ossessione per il mercato»
di GA.G.
Michael Moore ci racconta la morte del capitalismo. La cinese Guo Xiaolu quella del comunismo. Vincitrice a Locarno con She a Chinese, qui presenta un documentario che dice davvero tanto sulla sua terra, un «tempo paese proletario»: Once upon a Time Proletarian, appunto, viaggio poetico ed esistenziale attraverso la Cina contemporanea raccontata dalle voci dei suoi cittadini, «selezionati» per classi sociali e generazioni. Il vecchio contadino, che ha perso la terra e mostra lo squallore e la povertà estrema delle campagne. «I comunisti oggi sono tutti corrotti. Quando c’era Mao tutto era sotto controllo. Invece adesso la gente pensa solo ai soldi». Anche l’operaio di una fabbrica di armi rimpiange quei tempi, nonostante abbia vissuto sulla sua pelle la Rivoluzione culturale e l’orrore di Tien An Men. L’adolescente arrivato in città a fare il lavamacchine ce l’ha «coi ricchi che sono senza cuore». Nessuno parla di libertà. Piuttosto di miseria e ritmi di lavoro massacranti. O magari di fede, come la signora che ha una bottega di ristoro nel paese di Lei Feng, eroe proletario della propaganda di un tempo che le canzoncine di regime celebravano come colui che «sa cos’è giusto e cos’è sbagliato». Del suo credo la donna parla con pudore, mentre racconta del «ministero dell’evoluzione spirituale» che si occupa anche delle anime dei cinesi. Ci sono gli uomini d’affari che si lamentano dell’andamento discontinuo delle società cinesi, ma alla sera l’unica preoccupazione è trovare la escort di turno, possibilmente russa «perché hanno le tette grosse». E c’è la costruttrice rampante che fa parte dell’associazione «giovani imprenditori di successo», sicura che quella del mercato sia la via giusta per una Cina moderna: «Qui si vive bene e ci sono molte più possibilità che in Occidente», dice mostrando un gigantesco cantiere di grattaceli destinati ai nuovi ricchi. «Volevo mettere in luce – spiega la regista – molti aspetti degli stenti del passato, mostrando anche il nuovo desiderio materialista e la fredda indifferenza verso la responsabilità sociale che entra in sintonia con l’impulso nazionale della nuova Cina. Un processo che fa parte del paesaggio capitalistico globale». C’è riuscita.?
l'Unità 6.9.09
Quella follia che chiamiamo identità
Percorsi Dall’uomo predatore al Leviathano, dall’idea di Stato alla formazione delle varie identità sociali: che non sono un sentimento,
ma un modo di essere riconosciuti. Un saggio del grande sociologo
di Alessandro Pizzorno
Sociologo
Luterani, Calvinisti, cattolici, ebrei... tutti figli di Hobbes?
La paura più grande: l'uomo non teme di essere attaccato ma di essere lasciato solo
Chi non ricorda il famoso motto di Hobbes: homo hominis lupus, e le sue conseguenze sull’antropologia negativa della natura umana che ne seguirono? Si sa che Hobbes era vissuto in tempi difficili, trent’anni di Guerre religiose, Cattolici, Luterani e Calvinisti che si scannavano a vicenda in gran parte d’Europa, il re che veniva decapitato in Inghilterra. Nel suoi libri che aprono il dibattito contemporaneo sulla teoria della giustizia Rawls si domanda come si spiega il mistero che popoli che entravano in guerra perchè avevano differenti idee sulla immortalità dell’anima individuale o sulla natura delle pene che si sarebbero sofferte nell’inferno siano riusciti in meno di tre secoli a mettersi d’accordo e a lavorare l’uno vicino all’altro indipendentemente dall’idea che intrattenevano sulla forma del giudizio universale (e naturalmente anche a scannarsi per altre ragioni del tutto differenti). Resta il fatto che la concezione hobbesiana della natura umana, pur nata in tempi particolarmente difficili, è rimasta a caratterizzare tutta l’idea dell’uomo che si è fatta la modernità fino ad oggi. L’idea dell’uomo ereditata dalla teoria economica che spiega il capitalismo come prodotto di scelte utilitarie, dalla teoria politica che spiega e giustifica il liberalismo, e dalla stessa teoria che spiega fenomemi marginali come il socialismo sovietico.
UN’IDEA DELL’UOMO
Vediamo meglio l’essenziale di questa idea dell’uomo. La natura umana è quella tipica dell’animale predatore. Come tutti gli animali predatori, l’uomo è convinto di avere tutti i diritti. Ma se mantiene simile convinzione è condannato a una guerra perpetua. Così non può durare. Va in cerca di una situazione in cui qualcuno lo protegga. Questo sarà il Leviathano, il grande dio mortale capace di togliere agli individui l’idea di possedere ognuno tutti diritti e assumerli per sè. È lo Stato, che promette protezione in cambio di ubbidienza. Ma non è facile creare il Leviatano, perchè non tutti gli uomini accettano di rinunciare ai propri diritti. E basta che uno non accetti, e si troverà immediatamente in vantaggio sugli altri. Basta che un membro della società non paghi le tasse, e tutti gli altri saranno danneggiati. (...)
Ritorniamo per un momento a Hobbes e la sua idea dello stato di natura: ce la descrive come una situazione orribile, insopportabile, con un’altra delle sue formule diventate famose: solitary, poor, nasty, bruti and short (solitaria, povera, odiosa, brutale e breve). Incomicia con solitaria. Come mai? In questo mondo di animali umani rapaci l’essere solitari, isolati dagli altri dovrebbe essere una fortuna. Ma vediamo meglio. Hobbes, e anche noi, sappiamo altre cose della natura umana. Per esempio (...) gli uomini cercano la gloria, la fama, la reputazione. E da chi mai ricevono queste cose che tanto ambiscono? E il potere? Su cosa mai è fondato, se non sul riconoscimento che altri danno a chi ha il potere. Ma sono obbligati a riconoscerlo, si dirà: c’è l’esercito, la polizia. E chi convince l’esercito, la polizia a riconoscere chi ha il potere? Non si è mai soli quando si possiede il potere. Si potrebbe addirittura dire che si cerca il potere perchè non si vuole essere soli. O perchè si vuole avere persone intorno che lo riconoscano; o perchè si vuole aver denaro per aver persone intorno cui farlo riconoscere.
RICONOSCERSI
Saltiamo secoli e situazioni. Germania, anni Trenta del Novecento. 400.000 Ebrei. Tra di essi Ebrei ortodossi ed Ebrei liberali, Ebrei che frequentano la Comunità, Ebrei che non ci vanno mai, e che non sanno neppure dove sia, Ebrei che vivono tra Ebrei ed Ebrei che vivono essenzialmente tra tedeschi, Ebrei ufficiali dell’esercito tedesco con decorazioni al valore della prima Guerra mondiale, o che in essa hanno perso i figli o i padri. 1934, viene emessa una legge che stabilisce che tutti i 400.000 individui in questione, indipendentemente da loro comportamenti specifici hanno un identità legale che comporta, per tutti, determinate conseguenze. Ecco, questa è la parola che cercavamo – identità e ora sappiamo come si può creare. Ma si trattava di un sentimento di identità che toccava la persona, era interno alla persona. Non è vero. L’identità non è un sentimento, è un riconoscimento con cui qualcuno ci definisce. Cioè, è un modo di venir riconosciuti da altri, in questo caso da un sistema legale. Non sappiamo per quanti si trattava anche di un sentimento, non sappiamo bene neanche come questo tipo di sentimenti sia eventualmente conoscibile. Sappiamo, questo sì, da dichiarazioni, diari, racconti, che gli Ebrei che sono usciti dai campi hanno una concezione della loro identità diversa da quella che avevano prima di entrare nei campi, o da quella che avevano i loro padri. Qualche settimana fa i giornali hanno riportato di una ragazza nordafricana, di religione mussulmana, cittadina francese, figlia di una famiglia integrata, laureata, insegnante di francese, poetessa in quella lingua, ha deciso di indossare il velo mussulmano. Ho citato due modi con cui l’identità si esprime. I primo implica che qualcuno definisce l’identità di una persona, di un gruppo, di una collettività, la quale non esisteva prima che qualcuno la identificasse. È assai probabile, ma non necessario, che dopo che qualcuno ha identificato una certa collettività come portatrice di un’identità (...) i membri di questa collettività che si accorgano inevitabilmente di appartenervi, acquisiscano questo sentimento. Ma non è del tutto esatto chiamarlo un sentimento. Si tratta semplicemente della consapevolezza che per gli altri si è oggi la stessa persona che si era il mese scorso. (...) Ora il secondo esempio, quello della poetessa franco-mussulmana. Lì, l’identità preesiste, con le sue cerimonie e i suoi simboli. Si è trattato di sceglierla: adottando un certo abito, simbolo, in quel particolare momento di quella identità, il velo. Perchè lo si fatto? Chi non sa, avendo viaggiato in paesi mussulmani, che il velo è lì molto meno universalmente indossato di quanto lo sia tra gli immigrati mussulmani in Europa. Come si spiega? Così: che quanto più i portatori di un’identità la sentono minacciata, tanto più moltiplicano l’uso di simboli e riti e teorie per farla sopravvivere. Non è stato forse il divampare del marxismo in Europa negli anni 70 il segno di una disperata difesa, tra i giovani europei, di quell’identità che credevano di poter ereditare dai loro maggiori? Di quella descrizione dello stato di natura che propone Hobbes, la parola che più conta mi sembra debba essere la prima: solitario. È quella che, segretamente, terrorizza di più. L’uomo non teme di essere atè oggi la stessa persona che si era il mese scorso. (...)
Ora il secondo esempio, quello della poetessa franco-mussulmana. Lì, l’identità preesiste, con le sue cerimonie e i suoi simboli. Si è trattato di sceglierla: adottando un certo abito, simbolo, in quel particolare momento di quella identità, il velo. Perchè lo si fatto? Chi non sa, avendo viaggiato in paesi mussulmani, che il velo è lì molto meno universalmente indossato di quanto lo sia tra gli immigrati mussulmani in Europa. Come si spiega? Così: che quanto più i portatori di un’identità la sentono minacciata, tanto più moltiplicano l’uso di simboli e riti e teorie per farla sopravvivere. Non è stato forse il divampare del marxismo in Europa negli anni 70 il segno di una disperata difesa, tra i giovani europei, di quell’identità che credevano di poter ereditare dai loro maggiori? Di quella descrizione dello stato di natura che propone Hobbes, la parola che più conta mi sembra debba essere la prima: solitario. È quella che, segretamente, terrorizza di più. L’uomo non teme di essere attaccato dagli altri uomini, ma di essere lasciato solo. I conflitti non sono mai, o, crediamo, quasi mai, contro attaccanti che non conosciamo (e non ci si citi il Nine Eleven), ma contro chi attacca perchè, per qualche ragione, pazza o giustificata, si sente tradito. La lotta è contro chi minaccia, o ostacola, o mina la solidarietà che credevamo ci potesse proteggere. La lotta per il potere, lungi dall’essere una gara (come si esprimeva Hobbes) per i superamento dell’altro, è una gara per l’avvicinamento all’altro, e una lotta contro chi tale avvicinamento ostacola.
Repubblica 6.9.09
Il coltello del solito Mackie Messer
di Eugenio Scalfari
Sotto la testata dell´Osservatore ci sono due motti: Unicuique Suum e Non Praevalebunt. Chi sono i nemici contro i quali Vaticano, la Chiesa e i cattolici devono mobilitarsi?
Si chiama Grande Centro. Il partito di Casini e Buttiglione più Montezemolo. Può diventare l'esecutore testamentario quando Berlusconi deciderà di farsi da parte
L´ATTENZIONE pubblica si è spostata dopo le dimissioni del direttore dell´Avvenire. Ora è tutta sulla Chiesa. Che cosa farà la Chiesa? Ci sono correnti all´interno della Chiesa? Quale Chiesa? Chi comanda veramente nella Chiesa?
Perfino la grande stampa internazionale, a cominciare dal Wall Street Journal, si pone queste domande sia pure con la sufficienza e il distacco che si ha quando si affrontano questioni che non riguardano casa propria, questioni esotiche il cui soffio di vento non riesce neppure a increspare l´erba che cresce nel proprio paese. Ma qui in Italia non è certo così; perciò quelle domande scuotono l´intero establishment nazionale, dato ma non concesso che ci sia un establishment e sia degno del nome in questo paese. Riflettevo oggi sulle dimissioni di Boffo e sulla lettera da lui indirizzata al cardinal Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale che ha la proprietà dell´Avvenire. Riflettevo e sfogliavo L´Osservatore Romano, il quotidiano del Vaticano il cui direttore pochi giorni fa ha lanciato un siluro contro il collega dell'Avvenire proprio mentre si trovava sotto il tiro di Vittorio Feltri e di Belpietro.
L'Osservatore Romano è il solo quotidiano che si stampa nello Stato vaticano ed ha naturalmente «l´imprimatur» della Segreteria di Stato. Sotto la testata ci sono due motti: «Unicuique Suum», «Non Praevalebunt». Il primo è di facile comprensione, ma il secondo è oscuro. «Non Praevalebunt»: di chi si parla? Chi sono i nemici contro i quali il Vaticano, la Chiesa, i cattolici debbono mobilitarsi?
I cattivi, ovviamente; i seguaci del diavolo. Dunque i peccatori? No, i peccati. Quali peccati? Prioritariamente quelli scritti nelle tavole mosaiche. Chi sono i responsabili dei peccati? Il diavolo naturalmente. E chi li commette? Se si confessa e si pente sarà perdonato. E se non li confessa e non si pente? Sarà giudicato alla fine dei tempi. Ma intanto? La Chiesa può sciogliere o legare secondo il mandato di Cristo all´apostolo Pietro e ai suoi successori. E qui, oggi, in Italia? Vedete, ho anch´io qualche domanda da proporre, ma arrivati al dunque, a quest´ultima domanda non c´è risposta, oppure ce ne sono molte ma contrastanti. Quanto al successore dell´apostolo Pietro attualmente in cattedra, una prassi millenaria gli ha insegnato come destreggiarsi in casi difficili: dica parole ispirate di speranza e di verità rampognando chi non le ascolta, ma poiché tutti le accolgono con compunzione e le condividono, quelle rampogne restano senza destinatario.
Qualcuno nel frattempo cade a terra colpito da fuoco amico? Dispiace. Recitiamo in suo suffragio il «requiescat in pace» e andiamo avanti.
Questo del resto l´ha detto perfino Vittorio Feltri: «Umanamente mi dispiace per Boffo». E l´ha detto, più o meno con le stesse parole, Francesco Cossiga in una lettera pubblicata dal Corriere della Sera e diretta al cardinal Bagnasco. E l´aveva già detto con largo anticipo il presidente di Mediaset, Confalonieri, in quanto persona «informata dei fatti» in un´intervista a quello stesso giornale pubblicata, vedi caso, insieme all´intervista di Vian, direttore dell´Osservatore Romano.
Mi viene in mente quella canzone che dice: «Son contento di morire ma mi dispiace / mi dispiace di morire ma son contento».
Di queste ipocrisie, per chi ci crede, sono lastricate le vie dell´Inferno.
* * *
In mancanza di altri lumi dobbiamo dunque orientarci da soli. Proviamoci.La Chiesa cattolica ha una sua gerarchia: il Papa, vescovo di Roma, e i vescovi che con lui condividono il ministero pastorale.
Così fu per secoli, ma ben presto il quadro cambiò quando i fedeli si moltiplicarono, gli interessi temporali si affiancarono alla missione pastorale, la gerarchia iniziale si rivelò insufficiente. Il Papa ebbe bisogno di collaboratori esperti, i vescovi di esser coadiuvati.
A quel punto la gerarchia si specializzò in due diverse direzioni, per altro strettamente intrecciate: la Santa Sede e la Curia per il governo della Chiesa e per i necessari contatti con i governi delle nazioni da un lato, i vescovi e il clero con cura d´anime dall´altro. E poi, altro elemento fondamentale della Chiesa, il popolo di Dio, cioè i fedeli.
La Santa Sede mantiene i rapporti politici. Il clero con cura d´anime predica la salvezza, amministra i sacramenti, scioglie e lega secondo il mandato del Signore. Il Papa, al di sopra di tutti, incoraggia, rampogna e benedice.
* * *
Oggi in Italia.Il cardinal Bertone, segretario di Stato, gestisce gli interessi della Chiesa nel mondo e in particolare in Italia. Per farlo deve colloquiare con i governi in carica. I giudizi morali se li tiene nell´intimo suo perché i suoi interlocutori sono spesso il fior fiore dei peccatori.
Berlusconi è sicuramente un peccatore, l´ha detto lui stesso. Se la veda con il suo confessore se avrà voglia di confessarsi, o con i tribunali quando i peccati siano diventati reati. Non è compito della Santa Sede.
Ma è compito del clero combattere i peccati. Denunciarli. Avvertire i fedeli affinché a loro volta non cadano in tentazione. Lo fanno. Lo ha fatto la stampa diocesana. L´ha fatto l´Avvenire. Con prudenza ma con chiarezza.
Sfortuna volle che Berlusconi perdesse, come si dice, la tramontana e non volesse più sentirsi criticato.
Il direttore dell´Osservatore Romano si è pubblicamente dato il merito di non aver mai sollevato il tema d'un peccato privato ed ha criticato il collega Boffo per averlo fatto. Strano vanto in verità. E quel «Non Praevalebunt» perché non sopprimerlo dalla testata del giornale? Può essere d´imbarazzo, collega Vian.
Ma Bertone non è il solo a gestire interessi. C´è Bagnasco alla testa dei vescovi. E c'è anche Ruini, vecchio ma non domo. Ci sono i cardinali arcivescovi che governano diocesi a volte grandi e popolose come piccoli Stati. Grandi elettori nei conclavi. Ci sono Università, Ospedali, Scuole cattoliche. Congregazioni. Ci sono gli Ordini religiosi, le Comunità. Un immenso universo sparso su cinque continenti ma il cuore sta a Roma e in Italia.
Questo cuore non prevedeva che il capo del governo italiano perdesse la tramontana. Non prevedeva che avesse imprevisti accessi di rabbia e li manifestasse in continuazione e pubblicamente. Non prevedeva che stesse sbagliando contro i propri interessi. E non prevedeva che armasse la mano del killer di turno.
Perciò la Chiesa nel suo complesso è stata presa alla sprovvista. Il Papa, Bertone, Bagnasco. Alla sprovvista. Forse Ruini, più esperto, aveva capito che uno «tsunami» era in arrivo e forse sperava che tornasse utile ad un progetto in via di prender forma.
* * *
Il progetto ha un nome. Si chiama Grande Centro. Il partito di Casini e Buttiglione più Montezemolo. Oppure di Montezemolo più Casini e Buttiglione. E il Forum delle famiglie, e l'associazione per la vita, e Formigoni sullo sfondo e Vittadini e le Coop bianche, eccetera eccetera.Questo Grande Centro non sarà mai grandissimo e non potrà mai governare da solo, ma può diventare il pesce pilota e l'esecutore testamentario quando Berlusconi deciderà di farsi da parte (con tutti gli onori e senza alcun onere, beninteso).
L'assetto finale è il grande partito dei moderati con forti venature cattoliche. A Ruini piace. A Bertone piace. Bagnasco? Piacerà anche a lui e poi Bagnasco semmai è un incidente di percorso.
Però la ferita Boffo brucia ancora. Perciò Berlusconi dovrà pagare un prezzo (che a lui non costa nulla): testamento biologico, soldi alle scuole cattoliche, limiti alla pillola-aborto, revisione delle leggi sulla fecondazione assistita, eccetera.
Grandi piccoli e piccolissimi giornali sono d´accordo. Finalmente si tornerà a parlare di problemi seri, alla moda di Tremonti. La libertà di stampa e il controllo dei poteri di garanzia sull'operato del governo non sono un problema serio, non sono una questione preliminare, sono bazzecole.
Casini è cauto. Su Boffo non ha sparso molte lacrime, però non si fida. Alle regionali marcerà in ordine sparso secondo le convenienze ma alcune scelte saranno comunque decisive, per esempio nel Lazio, in Puglia, in Piemonte. Poi si vedrà.
Anche Confalonieri è contento. La colpa è sola di Repubblica, perciò sia castigata. Sembra un uomo di pace, Confalonieri, ma invece è la bocca dentata del Caimano. Secondo lui Repubblica è rea d´aver trasformato un fatto privato in una questione pubblica. Dimentica che l´origine sta in una pubblica dichiarazione di Veronica Lario, portata in tivù da Berlusconi. E dimentica anche che Libero allora diretto da Vittorio Feltri quarantotto ore dopo pubblicò la foto di Veronica a seno nudo e le attribuì il suo autista come amante. Ricordate «L'opera da tre soldi»? «Mackie Messer ha il coltello / ma vedere non lo fa». La memoria di Confalonieri non funziona? Colpa della vecchiaia? O di un innato servilismo?
* * *
Un´ultima domanda: la Lega è cattolica? Ma certo che lo è. Lo è nelle intime fibre. Vuole la famiglia compatta. Di colore bianca. Vuole che si muoia quando arriva la morte e non prima. Non le piacciono gli immigrati, che c'è di male? Neanche «i terroni» e pazienza. Ma qualche soldo, purché restino a casa loro, diamoglielo. E poi Alberto da Giussano non stava dalla parte del Papa? Il resto sono bubbole. I dialetti stanno stretti a Umberto Eco? E chi se ne frega. Fini? Fini chi? Vogliamo almeno tre Regioni nel Nord e viva Berlusconi. Piacerebbe sapere che impressione ne ha avuto il cardinal Bagnasco che li ha incontrati. Bagnasco chi?Corriere della Sera 6.9.09
Il travaglio e le tensioni della Chiesa
La ricostruzione dei contrasti tra Segreteria di Stato e Cei. «Ora riorganizzare i compiti»
di Gian Guido Vecchi
CITTÀ DEL VATICANO — «La Chiesa non agisce per estendere il suo potere o affermare il suo dominio, ma per portare a tutti Cristo, salvezza del mondo ». Le parole di Benedetto XVI, nel messaggio diffuso ieri per la giornata missionaria, richiamano quanto aveva scritto ai vescovi del mondo mentre infuriavano le polemiche sulla remissione della scomunica ai lefebvriani, «la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo». Il Papa spiegò la sua preoccupazione con le parole di San Paolo ai Galati, « ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri! ».
Appunto. Nella Chiesa, Oltretevere come alla Cei, si è aperto ora uno «spazio di riflessione e silenzio». Dopo l’«attacco basso e virulento» a Dino Boffo e le sue dimissioni dalla direzione di Avvenire, ora bisogna decidere come muoversi. E non si tratta solo di scegliere il successore. Si attende il consiglio permanente della Cei, il 21 settembre a Roma, e in novembre l’assemblea generale dei vescovi ad Assisi. Di là dalla necessità di compattare l’istituzione «contro le operazioni per dividerla», l’ultima settimana ha mostrato un serissimo problema di governance , nel rapporto tra la Santa Sede e la Cei, del quale sono tutti consapevoli. «Qualche acciaccatura è difficile non rimanga» sospirava ieri un alto esponente vaticano: «Ma bisognerà pensare a una redistribuzione dei compiti, un coordinamento per non essere vulnerabili».
Ecco: «vulnerabili». Nella «guerra» mediatica su Boffo, la mancanza di sintonia, anche nella versione dei fatti, è apparsa evidente. Alla Cei sono sobbalzati quando Giovanni Maria Vian, direttore dell’ Osservatore Romano, nell’intervista apparsa lunedì sul Corriere ha rivendicato che il quotidiano della Santa Sede non si fosse mai occupato delle vicende del premier, giudicando «imprudente ed esagerato» un editoriale di Avvenire sulle stragi di immigrati in mare. Dal vertice Cei è partita una telefonata alla Segreteria di Stato: Vian parlava a titolo personale o no? L’irritazione è rimasta: dalla Segreteria non è arrivata nessuna risposta ufficiale.
È stato il segnale più importante di una tensione che risale al 25 marzo 2007, quando il cardinale Tarcisio Bertone scrisse una lettera al neoeletto presidente della Cei: «Per quanto concerne i rapporti con le istituzioni politiche, assicuro fin d’ora a Vostra Eccellenza la cordiale collaborazione e la rispettosa guida della Santa Sede, nonché mia personale». Il segretario di Stato rivendicava a sé la «guida» di ciò che il cardinale Ruini aveva gestito in modo autonomo. Al di là dello stile più «pastorale» di Bagnasco, rispetto alla Chiesa che «parla a voce alta» di Ruini, tutto risale ad allora: chi tiene i rapporti con il mondo politico? Ogni intervento dalla Cei, o da Avvenire, faceva storcere il naso a chi sostiene la linea «istituzionale» di Bertone. Del resto, tra i vescovi, si racconta che all’inizio il cardinale Bertone desiderava non ci fosse più la «prolusione» del presidente Cei al consiglio e all’assemblea, discorso che ha grande rilevanza politica. Bagnasco l’ha mantenuto.
Malumori sottotraccia, anche nella Curia romana. Tensioni emerse già nel caos della vicenda lefebvriani. Finché Benedetto XVI aveva deciso di prendere su di sé il peso di tutta la situazione e scrivere, cosa mai accaduta, una lettera per spiegare le sue ragioni. Ma chi aveva «sottovalutato» il caso del vescovo Williamson, il lefebvriano che nega la Shoah? Di chi la colpa del caos? Tensioni, voci. Oltretevere ci fu chi accusò la Segreteria di Stato. O, secondo i punti di vista, chi aveva «remato contro» Bertone. A metà aprile si parlò di un incontro riservato del Papa, a Castel Gandolfo, con i cardinali Bagnasco, Ruini, Scola e Schönborn. L’assenza di Bertone venne interpretata — da chi non gli è vicino — come un segno di «sfiducia» del Papa. Chi gli è vicino, invece, fece notare il grande segno di amicizia durante le vacanze in Val d’Aosta: Benedetto XVI, appena ingessato al polso, che il 19 luglio va in visita nel paese natale del segretario di Stato, Romano Canavese, recita l’Angelus e pranza con la famiglia Bertone. Il 17 agosto si è poi completato il nuovo assetto della Segreteria di Stato con la nomina di monsignor Ettore Balestrero, 42 anni, a sottosegretario per i Rapporti con gli Stati: ora i vertici sono tutti di nomina ratzingeriana e Bertone, dicono fonti vicine, ha più che mai «in mano la macchina » .
Nel frattempo, però, anche la telefonata di Benedetto XVI al cardinale Bagnasco, martedì — con il Papa che chiedeva «notizie e valutazioni» — è riuscita a diventare un «giallo». C’è chi, nell’episcopato, vi ha visto un altro segno di «insoddisfazione » del pontefice verso Bertone. Chi, nella Santa Sede, lo ha letto invece come un congedo a Boffo. E chi, nella Cei, lo ha interpretato all’opposto come un invito a «resistere» — linea che cominciava a cedere anche tra l’episcopato. Di certo la Santa Sede era preoccupata, Boffo ha poi preso la sua decisione.
Resta la mancanza di sintonia. E, diffusa, l’«amarezza» per l’immagine d’una lotta senza esclusione di colpi nel mondo cattolico. Non è simpatico che la velina anonima contro il direttore di Avvenire , poi pubblicata dal Giornale , sia spuntata in maggio all’Istituto Toniolo di Milano, ente fondatore della Cattolica, mentre si rinnovavano i vertici di cui Boffo fa parte. Un clima di veleni in cui anche l’uscita del libro Vaticano Spa è stata vista come una «manovra » mentre è in ballo la possibile successione di Angelo Caloia al vertice dello Ior.
Del resto la consapevolezza è comune, i «pontieri» sono all’opera. «Tra la Santa Sede e l’episcopato deve esserci sintonia », dicono ambienti della segreteria di Stato. Lo stesso si dice fra i vescovi. I primi a volerlo sono Bertone e Bagnasco. Di certo l’«attacco» è destinato a ridisegnare i rapporti tra Chiesa e mondo politico. I vescovi si sentono colpiti, c’è chi dice che «è stato un errore dare una delega in bianco al centrodestra», nella base cresce il malumore. Finito il «ruinismo», la linea «istituzionale » della Santa Sede come si sintonizzerà con i vescovi? Si vedrà. Intanto si cerca di lasciar sedimentare, tornare all’essenziale. Oggi l ’Osservatore pubblica un’ampia riflessione del cardinale Giacomo Biffi sul giudizio finale e l’aldilà: «Non saremo come acciughe in un barile».
Corriere della Sera 6.9.09
Dopo il Consiglio permanente Cei del 21 e l’assemblea generale si capirà come muoversi «Vulnerabilità»
La guerra mediatica su Boffo ha messo in luce un problema di «governance»
Ora le grandi linee di governo vengono avocate dal vertice della Chiesa
di Vittorio Messori
L’intervento L’inaspettata rovina professionale di un singolo ha gettato un’ombra di sospetto sul sistema dei media cattolici
Le carte blindate di Boffo e il riequilibrio dei poteri
È indubbio che è venuto da colui che è pur sempre il Primate d’Italia, oltre che vescovo di Roma, l’input, o almeno l’accettazione, per le dimissioni di Dino Boffo dalla galassia dei media cattolici. Quotidiano nazionale, televisione nazionale, 200 radio in ogni regione: una concentrazione di potere anomala in una Chiesa che non ha soltanto trascurata la virtù cardinale della prudenza ( auriga virtutum , la chiamava San Tommaso), lasciando questo suo uomo-immagine esposto a ogni rischio di ricatto, dopo una sentenza che si pensava fosse irrilevante e che restasse sepolta per sempre in un tribunale di provincia.
Ma è anche, questa, una Chiesa che ha dimenticato un altro principio praticato dalla gerarchia cattolica di un tempo. Il principio, cioè, del divide et impera : la Catholica è l’ultima «monarchia assoluta», dove il potere illimitato del vertice si regge sull’equilibrio dialettico, sempre felpato ma non sempre idilliaco, dei poteri subordinati. Ora, invece, tutta — dicesi tutta — l’informazione della Chiesa italiana era gestita e controllata da un uomo solo, che su di sé aveva un altro uomo solo: il cardinale presidente della Cei. Un’altra imprudenza, quindi, che ha fatto sì che la crudele, inaspettata rovina professionale di un singolo abbia gettato un’ombra di sospetto e di discredito su tutto un sistema informativo per il quale, tra l’altro, la Chiesa italiana salassa i suoi bilanci.
Ma se è indubbio che input o, almeno, accettazione per le dimissioni sono venuti dal Vertice stesso della Chiesa, è altrettanto indubbio che la possibilità di defilarsi è stata accolta con sollievo dall’interessato, ad evitare guai peggiori. Lo ha detto egli stesso nella lettera al Presidente della Cei: «la bufera mediatica è lungi dall’attenuarsi», anzi, «si stanno chiamando a raccolta uomini e mezzi in una battaglia che si vuole ad oltranza». Dunque, perché «le ostilità si plachino», è necessario che il bersaglio «compia il sacrificio» di tirarsi indietro. Più che un «sacrificio», le dimissioni hanno offerto a un uomo martoriato, cui va la nostra fraterna comprensione, la possibilità di ritrovare un po’ di sonno dopo la settimana infernale. Ma anche la possibilità di evitare ciò che non ha fatto e che, fa capire nella lettera di congedo, non intende fare: autorizzare, cioè, il tribunale di Terni a pubblicare l’intero fascicolo processuale. Il suo avvocato, in effetti, ha chiesto che quelle carte restino blindate. Come si sa, un magistrato esigeva il rispetto della legge, che stabilisce che la documentazione sia resa nota, ma un suo collega si è opposto per la reputazione del «condannato». Dunque, conosciamo solo le due pagine di conclusioni, senza sapere perché il giudice è pervenuto ad esse. Anche per questo, dicono, Boffo non ha presentato, almeno sinora, l’annunciata querela contro il Giornale : in questo caso, l’avvocato del denunciato avrebbe diritto di accedere al fascicolo richiuso negli archivi. Ed è ovvio che tutto finirebbe subito su tutte le prime pagine.
Ma cosa può esserci in quegli atti, che potrebbero chiudere una rissa che si è svolta attorno ad elementi formali (pur rilevanti), ma senza rispondere alla domanda vera: che cosa è successo davvero? Anche a questo, in verità, è stato alluso nella lettera di dimissioni: «Mi si vuole a tutti costi far confessare qualcosa e allora dirò che, se uno sbaglio ho fatto (...) è il non aver dato il giusto peso a un reato 'bagatellare'». Un termine giuridico, ma, forse anche un curioso riferimento a Céline, lo scrittore «maledetto», e al suo antisemita Bagatelles pour un massacre? Ci sono, dunque, piccole cose, leggerezze, svagate imprudenze, libertà di linguaggio, cose tollerabili in altri, ma che metterebbero a disagio un uomo al vertice del sistema informativo di una Chiesa che su certe cose non transige? Sembrerebbe. In ogni caso, la riduzione da uomo-istituzione a semplice privato gli ha permesso di alleggerire la pressione dei mastini che, altrimenti, non avrebbero mollato la presa perché la pubblicazione delle carte fosse autorizzata.
Ma l’imprudenza, qui, non sembra abbia contrassegnato solo la parte aggredita . È probabile che il Giornale pensasse che la faccenda si sarebbe subito conclusa, davanti alla evidenza di una condanna, con le dimissioni del direttore, accolte da una imbarazzatissima, e ammutolita, Conferenza Episcopale. Non era stato messo in conto l’arroccamento immediato di questa, il compattamento delle redazioni, la difesa ad oltranza, «a prescindere », da parte di una fetta consistente del mondo cattolico? È probabile. Il risultato potrebbe rivelarsi un boomerang politico. Una Cei che aveva un parterre moderato, non ostile all’attuale governo, parla ora (come Boffo nella sua lettera) di «un oscuro blocco di potere laicista» che, dall’interno della maggioranza, aggredirebbe la Chiesa. La rivelazione, così brutale, dei possibili «peccatucci» del direttore è stata presentata come un’operazione anticristiana. E il prossimo responsabile del quotidiano sarà obbligato a una politica meno conciliante con questo governo di quella del suo sfortunato predecessore, noto per la sua moderazione, se non addirittura per un penchant per il centro-destra.
Quanto ai molti discorsi, innescati dal caso Boffo, su dissidi e antagonismi tra Segretario di Stato e Presidente della Cei: al di là della diversità di temperamenti e di prospettive (peraltro assai meno accentuata di quanto spesso si affermi), il problema va ben oltre le persone. Già molti anni fa, in Rapporto sulla fede , Joseph Ratzinger affermava che le più che 100 Conferenze Episcopali del mondo non hanno base teologica, non fanno parte della struttura divina della Chiesa. Questa, osservava, non è una Federazione di Chiese nazionali, dove si converga solo sui grandi principi del Credo. Il potere dei «piccoli vaticani» sparsi nei cinque continenti, uno per ciascuna nazione, va ridimensionato. Pietro è uno solo. E sta a Roma. Divenuto papa, l’allora cardinal prefetto del Sant’Uffizio ha cominciato a provvedere. Sta qui il motivo del cortese ma fermo avvertimento di Bertone, il suo «primo ministro », a Bagnasco, rappresentante della «Chiesa nazionale italiana» . Rispetto e fiducia, si intende, ma le grandi linee di governo vengono avocate a sé dal Vertice della Chiesa. Non è in atto un regolamento di conti tra cardinali (malgrado le attuali difficoltà dell’arcivescovo di Genova per il caso dell’uomo- media ereditato da Ruini), è in atto semmai una strategia di lungo respiro di Benedetto XVI per contrastare un per lui inaccettabile «federalismo clericale»
Corriere della Sera 6.9.09
Il «federalismo»
Il «federalismo clericale» non piace Oltretevere Già molti anni fa, Ratzinger affermava che le cento conferenze episcopali nel mondo non hanno base teologica, non fanno parte della struttura divina della Chiesa L’arroccamento L’arroccamento sulla vicenda di «Avvenire» potrebbe rivelarsi un boomerang politico La Cei che aveva un parterre moderato parla ora, come nella lettera di Boffo, di «un oscuro blocco di potere laicista» nella maggioranza
Corriere della Sera 6.9.09
L’intervista a Sacconi. Il ministro del Welfare: il Pdl e la Lega sono naturalmente capaci di dialogare con la Chiesa sui temi «biopolitici»
«Boffo non è un cattocomunista Colpito da chi è ostile a lui e a noi»
Sacconi: tra governo e Chiesa forte consonanza su valore della vita e famiglia
Intervista di Sergio Rizzo
ROMA — Nella bufera che si è abbattuta su Dino Boffo, il direttore dell’ Avvenire dimissionario dopo gli attacchi del direttore del Giornale , Vittorio Feltri, il ministro del Welfare Maurizio Sacconi non accetta di essere definito il capo del dissenso. «Al contrario!», dice, «dato che le mie convinzioni sono le stesse della larghissima maggioranza del centrodestra».
Eppure lo scontro con la Chiesa ha generato nel suo schieramento toni al calor bianco. Come lo spiega?
«Mi preme spiegare perché non soltanto il Pdl, ma l’intera coalizione di governo, tenendo conto anche delle recenti prese di posizione della Lega, siano naturalmente capaci di dialogare con la Chiesa rispetto ai grandi temi di suo prioritario interesse che si iscrivono nell’agenda di quella che possiamo chiamare biopolitica».
Biopolitica? Che cos’è?
«Nei paesi moderni la politica è investita da problemi che impongono in relazione all’evoluzione della scienza e dei comportamenti sociali di regolare — in modi essenziali — i nodi della procreazione e del confine tra la vita e la morte. Su questi temi il Pdl, essendosi configurato come il più grande movimento popolare in Italia, in grado quindi di raccogliere il suo consenso nell’Italia profonda, si ancora inevitabilmente ai valori della tradizione dei quali è orgogliosamente conservatore».
E dove si trova questa Italia profonda?
«Non è l’Italia metropolitana delle borghesie elitarie, ma quella fatta dalle piccole comunità e dalle periferie urbane, descritta anche recentemente da De Rita, ove vive la gran parte del nostro popolo fatto di gente semplice e vitale, perché solida nei valori di riferimento a partire da quelli della tradizione cristiana, a prescindere dal rapporto di ciascuno con la fede».
Si prescinda pure, ma com’è possibile conciliare tutto questo con i principi di laicità fondamentali per tutti i Paesi occidentali sviluppati?
«Il Pdl è in sintonia con il senso comune del popolo, piuttosto che con il luogo comune di quelle che si definiscono elite . In questo senso esso è si ispira ad una laicità adulta che in ogni caso non si confonde con la liceità».
Sarebbe?
«Laicità significa un approccio del decisore che quando regola pensa a credenti e non credenti, a persone che possono avere anche un diverso rapporto con la fede. Ma ciò non significa indifferenza a profili di carattere etico come quelli tipicamente cristiani codificati nella prima parte della costituzione».
Nella prima parte della carta costituzionale il riferimento alle radici cristiane però manca del tutto.
«Che principi anche propri della cultura cristiana siano presenti nella prima parte è assolutamente evidente. Basti pensare a quei diritti inviolabili dell’uomo che costituiscono la premessa per ritenere non negoziabile il fondamentale diritto all’alimentazione e all’idratazione. La costituzione fu frutto di un grande compromesso fra i grandi partiti popolari. Lo stesso Partito comunista, in quanto innervato in una parte importante del popolo, e’ sempre stato attento a non offendere i fondamentali valori della tradizione cristiana».
Il Pdl come il Pci? Se la sente Berlusconi...
«Certamente tutti e due movimenti di grande consenso popolare. Il Pdl, non tatticamente, è portatore di una laicità adulta che incorpora i fondamentali valori cristiani come la persona, la famiglia, la comunità. La stessa possibilità di costruire uno sviluppo sostenibile dopo la crisi non può prescindere dal riconoscimento del valore della vita. Non ci può essere vitalismo economico e sociale in una società scettica.
Questo ci porta nella prossima agenda di governo a ritenere necessario difendere una regolazione della creazione della vita che rigetti ogni manipolazione genetica».
Veniamo al sodo.
«I principi che ho appena enunciato ci portano ad avere una fortissima diffidenza verso la pillola Ru486, con la quale si banalizza un atto che secondo la legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza è un disvalore e potenzialmente potrebbe comportare la violazione del percorso previsto da quella legge».
In che cosa si traduce questa diffidenza?
«Laicamente verificheremo se l’impiego della pillola abortiva sia coerente con quella legge e con il suo obiettivo primario di evitare la solitudine della donna di fronte ad una scelta tanto drammatica. L’Aifa è impegnata a produrre entro settembre un protocollo rigorosissimo di corretto impiego della pillola in strutture ospedaliere a cura di ginecologi nel pieno rispetto della stessa legge».
In una precedente intervista al «Corriere» lei ha lasciato intendere la possibilità di una possibile corsia preferenziale per la norma Englaro. Conferma?
«Ho detto che se si fosse manifestata in Parlamento la difficoltà a un ampio consenso sulla legge che regola il fine di vita si potrebbe estrapolare dal testo del Senato per l’immediata approvazione quella parte — approvata all’unanimità dal Consiglio dei ministri — che colma il vuoto normativo creatosi a seguito del provvedimento creativo della magistratura sul caso Englaro, che ha introdotto per la prima volta un percorso eutanasico nel nostro Paese. Faccio una domanda: occorre la fede per voler evitare soluzioni eugenetiche o eutanasiche?».
È cosciente del fatto che il governo sarà accusato di mettere tutto questo sul piatto della bilancia per recuperare il rapporto con la Chiesa?
«Ho descritto un’agenda nata in tempi non sospetti rispetto alle più recenti vicende. Con la Chiesa c’è una consonanza profonda sul valore della vita, sulla famiglia, sulla sussidiarietà, che va oltre il tatticismo».
Tatticismo od opportunismo?
«Vedo molto più opportunismo quando alcuni segmenti della base ecclesiale sostengono nella candidatura a sindaco chi propugna le coppie omosessuali, o agisce in direzione opposta a quelli che sono temi fondamentali della Chiesa. In quel caso non posso non individuare uno scambio cinico, magari con piccoli favori amministrativi a strutture ecclesiali. Cosa diversa è il rapporto che nasce naturalmente perché quelli sono i nostri valori. Siamo un movimento politico laico e cristiano insieme».
Nel centrodestra molti sono convinti che senza i cattolici il governo non starebbe in piedi. La sua opinione?
«Credo che se questa maggioranza parlamentare si allontanasse dalle radici del nostro popolo, ne perderebbe il consenso come è accaduto al Pd rispetto al Pci. Ma il problema non è la formale coerenza con la Chiesa».
Non vorrà negare che lo scontro con l’«Avvenire» abbia causato qualche problemino. Se non sbaglio lei stesso ha chiesto a Boffo di ritirare le dimissioni.
«Boffo è stato vittima incolpevole di questo violento clima polemico partito dall’aggressione al presidente del Consiglio. A me dispiace perché ho un’amicizia personale con lui, mio conterraneo, ho sempre trovato in lui un cattolico liberale, non certo un cattocomunista » .
Questo ha un significato nella sua presa di posizione, ministro?
«Certamente. Ma non voglio entrare nella vicenda che lo riguarda, anche se è evidente che queste polemiche giornalistiche sono nate dall’interno del mondo cattolico».
Addirittura? Chi poteva nella Chiesa avere interesse a danneggiare il direttore del quotidiano della Conferenza episcopale?
«Posso immaginare che tutto sia nato in ambienti cattolici ostili a lui perché ancor più ostili a noi».
Corriere della Sera 6.9.09
«Nelle tue mani: medicina, fede, etica e diritti di Ignazio Marino (Einaudi) è in libreria da ieri
I malati e i progressi della scienza
La medicina e le mani di Dio Il giudizio della persona è centrale
di Carlo Maria Martini, cardinale, arcivescovo emerito di Milano
«Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito»: sono, secondo l’evangelista Luca (23,46), le ultime parole che Gesù morente «grida a gran voce ». Sono parole già presenti nella tradizione ebraica, dove figurano nel Salmo 31, una sofferta preghiera nella prova, che inizia con le parole «In te, Signore, mi sono rifugiato; mai sarò deluso». Al verso 6 si trovano le parole fatte proprie da Gesù morente: «Alle tue mani affido il mio spirito; tu mi hai riscattato, Signore, Dio fedele». Ma molte altre nella Bibbia sono le espressioni che indicano un abbandono dell’uomo nelle mani di Dio, come ad esempio il Sal 16[17],7: «Mi affido alle tue mani; tu mi riscatti, Signore Dio fedele». Nel Vangelo si può notare che Gesù, invece di invocare il «Signore, Dio fedele», si rivolge al «Padre», il che dà all’affidamento una accentuazione di ancora maggiore fiducia e tenerezza.
Noi sappiamo bene che questo concetto del «mi affido alle tue mani» è decisivo per ogni esistenza umana, a partire dal buttarsi fiducioso del piccolo nelle braccia della mamma e del papà, fino a tutte quelle realtà a cui affidiamo una buona parte della nostra crescita e della nostra maturazione, come la scuola, il gruppo di amici, le autorità civili e politiche, l’opinione pubblica e così via.
C’è oggi un’altra autorità a cui, più che in passato, noi sentiamo a un certo punto di essere «nelle sue mani». È l’autorità del medico, soprattutto quella che sopravviene quando non siamo più capaci di aiutarci da soli nella nostra vita fisica, quando si sviluppano in noi malattie gravi, che richiedono una cura competente e prolungata. Per questo il titolo dato al suo ultimo libro da Ignazio Marino Nelle tue mani: medicina, fede, etica e diritti corrisponde a questa esperienza di mettere, in certi momenti, il nostro futuro e la nostra sopravvivenza nelle mani di chi ha studiato il corpo umano, le sue malattie e le sorprese che esso può riserbarci: quali sono in questo caso le mie giuste aspettative, quali i miei diritti e doveri, che cosa spetta alle autorità pubbliche, quali i dilemmi che il medico vive in prima persona?
Emerge così chiaramente che quell’espressione «nelle tue mani » non si riferisce soltanto ad altri, ma tocca anche in prima persona ciascuno di noi, che sente di essere «nelle proprie mani». Così vengono a collegarsi i due elementi, cioè la forza della medicina e il sapiente e prudente giudizio della persona. I progressi dell’arte medica potrebbero portare avanti per molto tempo, usufruendo di macchine spesso complicate, anche una esistenza senza più coscienza né contatti con il mondo circostante, ridotta a pura vita vegetativa. Qui interviene il giudizio prudenziale non solo del medico, ma anzitutto della persona interessata o di chi ne ha la responsabilità, per distinguere tra mezzi ordinari e mezzi straordinari e decidere di quali mezzi straordinari vuole ancora servirsi.
Il libro esamina tanta di questa casistica e lo fa non tanto con assiomi generali, ma con la memoria di fatti avvenuti, di cui l’autore è stato testimone in prima persona. Una tale situazione in cui la vita fisica si trova in pericolo è anche l’occasione per descrivere da vicino i problemi e i dilemmi che si pongono al malato come al medico e a tutti coloro che hanno a cuore il malato stesso. Le enormi possibilità della scienza medica pongono non di rado di fronte a situazioni in cui è molto difficile stabilire che cosa sia un «rimedio ordinario», cioè quegli strumenti che ciascuno è tenuto, non per obbligo legale, ma per dovere e impulso interiore, a utilizzare, e che cosa siano invece quei «mezzi straordinari » che il malato o chi lo rappresenta, può decidere per ragionevoli motivi, di utilizzare o di respingere. Nasce qui quella domanda che vediamo emergere sempre più distintamente nel dibattito pubblico: fino a che punto può e deve spingersi la medicina? Certamente, come afferma l’autore «è dovere del medico non accanirsi, sapersi fermare quando non c’è più nulla da fare anche se questo provoca frustrazioni e sconforto». Ma quando si verificano questi casi, che vorremmo ancora chiamare «estremi », in particolare quando «c’è uno stato che non solo impedisce di esprimersi e di relazionarsi col mondo esterno, ma blocca la coscienza e riduce la persona a un puro vegetare e tale stato si rivela, dopo un attento e prolungato esame, come irreversibile?».
L’autore cerca di informare il lettore di tutte queste realtà e queste possibilità, pubblicando anche i documenti relativi, talora poco noti. Come narratore, egli ci fa partecipare ai suoi dubbi e alle sue certezze, facendoci per così dire vivere come in prima persona gli eventi narrati. Non si tratta solo di eventi riguardanti l’interrogativo dei limiti della medicina, ma anche di fatti riguardanti per esempio le sfide della sperimentazione, in particolare dei trapianti. Dal tutto traspare una umanità e una onestà nel considerare i singoli casi che spinge alla fiducia nel mettersi «nelle mani» di tanti servitori della vita. Ciò però non esclude il rischio e la responsabilità che ciascuno deve saper assumere quando venisse il momento di farlo. È così che chi sente il mistero di Dio incombere sulla propria vita potrà anche esprimere quella fiducia nelle mani del Padre, da cui siamo partiti in questa breve riflessione.
il Riformista 6.9.09
Parla il sottosegretario al welfare Eugenia Roccella: «Ma sono sicura che il Pdl saprà rimediare, cominciando dal biotestamento»
«Una ferita nel rapporto con la Chiesa»
di Alessandro Da Rold
«Non dimentichiamo che questa parte dal degrado di campagne giornalistiche, non politiche».
«È evidente che i cattolici nel Popolo della Libertà stanno vivendo un momento di difficoltà dopo le vicende di questa estate. Si è aperta una ferita che deve essere rimarginata. Ma sono convinta che la Chiesa non abbia alcuna ostilità nei confronti del nostro partito. Un partito che si fonda su una cultura laica alimentata da radici cristiane. Nel lungo periodo lo dimostreranno la nostra politica e i fatti concreti». Così Eugenia Roccella, sottosegretario al Welfare del governo, esponente cattolico nel partito di Silvio Berlusconi, in merito alla situazione interna al centrodestra, all'indomani degli attacchi partiti dal Giornale di Vittorio Feltri e le dimissioni di Dino Boffo da Avvenire.
Cosa pensa di questa vicenda? Irapporti tra Chiesa e centrodestra sono cambiati?
Sono molto fiduciosa del fatto che il centrodestra possiede una cultura politica che è più vicina alle posizioni della Chiesa: una forza popolare dalle forti radici cristiane che si fonde in Europa nel Partito Popolare.
Fiduciosa perché le sembra che il movimento cattolico sia in questo momento più vicino al centrosinistra?
Non dico questo. E non ritengo, come invece sostiene Socci, che questa ferita riavvicinerà la Chiesa al centrosinistra. Sin dalla ripresa dei lavori in Parlamento lo dimostreranno i fatti. C'è una ferita che si rimarginerà nel lungo periodo.
In che senso?
Basti pensare alla legge sul testamento biologico, la nostra maggioranza si è sempre comportata laicamente e in piena autonomia, riconoscendo che la vita è un valore non negoziabile. E questo anche durante le sessanta votazioni segrete al Senato in cui avrebbero potuto verificarsi defezioni.
Restano la questione dei comportamenti del premier.
Credo però che gran parte di quello che è successo sia dovuto a un atteggiamento dei media che in Italia non si era mai verificato prima.
Spieghi meglio.
Entrare con tanta pesantezza nel privato delle persone non era un'abitudine della stampa italiana. Insomma, ai tempi del caso Lewinsky, pensavo che una cosa del genere in Italia non si sarebbe mai verificata.
Negli ultimi giorni la Lega Nord ha incontrato il presidente della Cei, il Cardinale Angelo Bagnasco, lo stesso Gianfranco Fini sembrariavvicinarsi ai vertici del cattolicesimo italiano.
La Chiesa incontra e ascolta tutti, non credo sia questo il problema.
Quindi?
Molti politici leggono quello che avviene all'interno della Chiesa, e i rapporti che si possono avere col mondo cattolico, solo in termini di potere, come se la Chiesa fosse un partito, una parte politica con cui instaurare trattative. Niente di più sbagliato. È sbagliato parlare di tornaconti o ricatti, o di contropartite. Non c'è nessuna contropartita. Non c'è nulla da scambiare. La Chiesa è altro, e segue altre logiche.
Ma cosa pensa davvero del caso Boffo?
È una vicenda partita da un'informativa anonima, falsa, che poi - secondo me - è scappata di mano a chi l'ha fatta uscire. I media l'hanno amplificata e parte del centrosinistra l'ha strumentalizzata dal punto di vista politico, spacciandola per un attacco partito dal Popolo della Libertà. In realtà la responsabilità è solo de Il Giornale di Vittorio Feltri. E Boffo ha spiegato ampliamente le sue ragioni,
Ci sono interpretazioni contrastanti, però.
Feltri è stato spesso in disaccordo con Berlusconi e con le politiche del centrodestra. Lo ha dimostrato diverse volte: è un giornalista che opera in completa autonomia.Questa vicenda è partita su Repubblica prima dell'estate. Poi è degenerata con il passare dei mesi. È una situazione che fa paura. Io ho sempre difeso Silvio Berlusconi e lo faccio anche adesso. Lo ripeto: pensavo fossimo immuni a forzature scandalistiche di questo tipo. Evidentemente non lo siamo.
La stampa estera continua ad attaccarci. Crede che siano casi isolati?
La stampa estera, soprattutto quella inglese, ha sempre vissuto di scandali. Molto più di noi.
Quindi non esiste una questione cattolica all'interno del Pdl?
È giusto che tutti facciano un passo indietro in questo momento. Nessuno ha da guadagnare in un clima come questo, che allontana sempre di più dalla verità.
il Riformista 6.9.09
Perché Feltri e Belpietro tireranno dritto
È il giornalismo bellezza!
di Giampaolo Pansa
Nel descrivere quanto stava accadendo da mesi nei giornali italiani, prevedevo l'inizio di una guerra civile dentro la carta stampata. Dovuta alle nuove e più agguerrite direzioni dei due quotidiani lontani dalla sinistra, il Giornale e Libero. E concludevo dicendo che sarebbe colato «il sangue e anche qualcosa di più immondo».
Dal momento che Boffo mi ha citato, stuzzicando la mia vanità, anch'io voglio citare lui. La sera di domenica 30 agosto, giorno d'uscita di un altro Bestiario dedicato ai moralisti che avevano qualche difetto, il direttore di Avvenire mi ha telefonato. Preciso che entrambi non eravamo abituati a cercarci. Boffo mi ha detto che condivideva il mio articolo dalla prima riga all'ultima. Ma ci teneva a spiegarmi di non essere tra i big che descrivevo: signori importanti che speravano di farla franca se nella loro vita privata c'era qualcosa che non andava.
A quel punto gli dissi che, per il ruolo che ricopriva, aveva il dovere di raccontare la sua verità sulla faccenda delle molestie a sfondo sessuale rivolte alla ragazza di Terni. Erano venute da lui o dal misterioso assistente drogato che utilizzava il suo cellulare? Boffo mi rispose: «Lo farò a tempo debito, quando sarà il momento». Confesso che provai una gran pena. Aveva il tono dell'uomo distrutto e messo alle corde.
Da allora sono arrivati giorni infernali. Boffo è stato costretto a lasciare Avvenire. La guerra civile di carta sta infuriando. Lui avrebbe potuto spegnerla subito, spiegando come si era deciso a pagare l'ammenda per evitare un processo pubblico. Però non l'ha fatto. Forse aspetta ancora il momento adatto. È una sua scelta. Non la condivido, ma la rispetto.
Quello che non voglio rispettare è il frastuono, lo schiamazzo, la cagnara venuti dall'intera casta politica. Lascio perdere il nostro presidente del Consiglio. Silvio Berlusconi sta sbagliando tutte le mosse nei confronti dei media. La querela e la citazione per danni sparate contro Repubblica e l'Unità sono un errore catastrofico. Hanno autorizzato repliche assurde: siamo al fascismo, arriva Hitler, il Cavaliere vuol chiudere i giornali che lo attaccano.
A perdere sarà lui. Basta vedere qualche tigì per rendersi conto di quanto sia stressato, con i nervi a fior di pelle. Nei mesi scorsi gli avevo suggerito due volte di dimettersi, per salvare la propria immagine e la salute. Oggi non lo farò più, anche se continuo a pensarla così.
Ma i partiti di maggioranza e di opposizione non sono guidati da leader a un passo dalla crisi personale. O almeno così sembra. Eppure il loro comportamento è stato indecente, e non sempre rintuzzato dai giornali nel modo giusto. Uno spettacolo grottesco: destra e sinistra unite nella lotta ai maledetti giornalisti che vogliono frugare nei loro armadi, come succede in tutte le democrazie del mondo.
La rabbia che erutta dalla sinistra, nelle sue tante versioni, non mi ha stupito. Gli insulti sputati contro Vittorio Feltri e Maurizio Belpietro sono gli stessi che avevano sputato contro di me per i miei libri revisionisti sulla guerra civile. Fascista, servo di Berlusconi, bugiardo, diffamatore della Resistenza, venduto in cerca di soldi: mi hanno dipinto così. Pazienza, sono io che ho messo alle strette la nomenklatura di centro-sinistra, rivelando le bugie spacciate per sessant'anni. Adesso il Club dei Nasi Lunghi, fondato da Pinocchio, sta perdendo tifosi e voti. Pace all'anima loro.
Mi hanno sorpreso di più certi ras della destra. Primo fra tutti Gianfranco Fini che ha strillato: basta con il killeraggio dei giornali! Bel tipo, il nostro presidente della Camera. Lo smemorato di Collegno era un dilettante rispetto a lui. Se avessi dovuto interpretare i suoi umori, non avrei scritto una riga dei miei libracci. Raccontare dei morti fascisti lo infastidisce. C'era anche un suo parente? Al diavolo anche il parente.
Per venire all'oggi, Fini ci fa comprendere bene che cosa pretenda l'intera casta partitica. La casta ha difeso a spada tratta il silenzioso Boffo, del quale non gl'importava un fico, soltanto per mandare un messaggio ai giornali: non scrivete di noi, guai se osate mettere il naso nelle nostre faccende.
Purtroppo per loro, non andrà così. Volete sapere quel che avverrà? Feltri tirerà diritto. Lo stesso farà Belpietro. Gli altri giornali dovranno imitarli per non apparire mosci o reticenti, perdendo nuovi lettori. Posso sbagliarmi, però dopo il caso Boffo nulla sarà più come prima. Ma l'equilibrio fra i poteri si realizza anche così.
il Riformista 6.9.09
Procura di Bari. Così il palazzo si è trasformato in un teatro di guerra
Cento inchieste mille veleni e nessun capo
di Alessandro Calvi
Giustizia acefala. I pm, da mesi senza guida dopo l'uscita di scena del procuratore Marzano, si contendono fascicoli e testimoni. I filoni d'indagine si moltiplicano. In attesa che si insedi il nuovo capo Laudati, nominato in aprile, ma che non ha ancora preso possesso del suo ufficio.
Indaga e guarda all'Italia da Sud. A forza di fascicoli, intercettazioni e qualche nome di primissimo piano, risale lo stivale: Roma e la Sardegna. E non si ferma. Non è la Procura di Potenza, e non sono gli anni di vallettopoli. È la Procura di Bari, alle prese con inchieste che si intrecciano, si sovrappongono e riguardano sostanzialmente gli stessi episodi sui quali, però, sono al lavoro diversi magistrati le cui valutazioni non appaiono sempre univoche. Tutto ciò, infine, senza un apparente coordinamento. E, forse, non soltanto perché la Procura di Bari è, ancora oggi, una procura sostanzialmente acefala.
Si può partire proprio da qui. Già, perché, almeno formalmente, un capo la Procura barese ce l'ha: si chiama Emilio Marzano. Ma è un capo, per così dire, azzoppato. E non soltanto per le polemiche scoppiate attorno alla gestione del caso dei fratellini di Gravina di Puglia rinvenuti cadavere in un pozzo al centro del paese nel 2008, ma soprattutto perché Marzano ha raggiunto, nel novembre scorso, il limite degli 8 anni di permanenza negli incarichi direttivi. È vero che il nome del suo successore è noto dallo scorso aprile ed è quello di Antonio Laudati. E anche vero, però, che Laudati deve ancora prendere possesso del proprio ufficio.
Normale amministrazione, si dirà. Certo, però, colpisce il fatto che alcune delle più delicate inchieste giudiziarie degli ultimi anni siano nate tutte in una procura che da mesi non ha un capo nel pieno delle proprie funzioni. E colpisce ancor di più un fatto che emerge anche dalla semplice lettura di quegli stessi giornali che, con cadenza quasi quotidiana, danno conto di indiscrezioni e progressi delle varie inchieste. Ci si riferisce qui al fatto che sono diversi i pm al lavoro sugli stessi fatti ma con indagini diverse, tanto che le diverse inchieste finiscono per intrecciarsi l'una con l'altra senza nessun coordinamento. Nel via vai al quale si è assistito a palazzo di giustizia, ad esempio, è capitato che Gianpaolo Tarantini sia stato ascoltato dal pm Giuseppe Scelsi come indagato nell'ambito della inchiesta partita nella primavera scorsa dopo le dichiarazioni di Patrizia D'Addario e, poco dopo, sia stato ascoltato come persona informata sui fatti dal pm Desirée Digeronimo. Qualcosa del genere era avvenuta qualche settimana prima quando il pm Digeronimo aveva ascoltato come persona informata sui fatti Lea Cosentino la quale, il giorno successivo, veniva ascoltata da Scelsi come indagata. Né deve stupire il fatto che nell'inchiesta sugli accreditamenti sanitari istituzionali condotta dai pm Roberto Rossi e Lorenzo Nicastro si stia valutando la posizione di ex assessori, già oggetto di inchiesta da parte di Scelsi. Ma nonostanto questo, anche gli ultimi e recentissimi tentativi del procuratore aggiunto Marco Dinapoli di evitare la sovrapposizione di indagati, intercettazioni e consulenze sono caduti nel vuoto.
E non è tutto. Può infatti capitare che indagini vecchie di anni ritrovino improvviso slancio. Anche un giornale non certo ostile alle procure come Repubblica, infatti, nella sua edizione barese del 17 luglio scorso, e con un fondo del responsabile della redazione locale Stefano Costantini, finiva per ricostruire in questi termini il clima degli uffici della procura barese. A proposito di quello che Repubblica chiama «sistemaTarantini», si faceva osservare che «leggere di Gianpaolo Tarantini e soci nelle intercettazioni di sette anni fa, serve solo a spostare nel tempo l'inizio di quelle attività». «Ciò che invece lascia stupiti - scriveva Costantini - è che dal 2002 a oggi la magistratura non sia intervenuta. L'inchiesta del pm Rossi viene chiusa la settimana scorsa, anni dopo il deposito in procura delle intercettazioni». Quindi, la chiusa: «C'è da chiedersi: se non fosse scoppiato lo scandalo delle escort a Palazzo Grazioli, avremmo mai saputo di questo ennesimo mercato criminale?». Già, c'è da chiederselo. Così come ci sarebbe da chiedersi anche se i fatti dei quali la magistratura era venuta a conoscenza, siano ormai coperti da prescrizione.
Cosa accade a Bari, allora? È lecito chiedersi anche questo ma trovare una risposta non è facile. Il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, nella famosa lettera aperta al pubblico ministero Desirée Digeronimo scriveva di una «girandola di anomalie con le quali si coltiva un'inchiesta la cui efficacia si può misurare esclusivamente sui tg». E tra le asserite anomalie, la prima sarebbe che la stessa Digeronimo non «abbia sentito il dovere di astenersi, per la ovvia e nota considerazione che la sua rete di amici e parenti le impedisce di svolgere con obiettività questa specifica inchiesta». La seconda anomalia, invece, «riguarda l'aver trattenuto sotto la competenza della Procura Antimafia una mole di carte che hanno attinenza con eventuali profili di illiceità nella Pubblica Amministrazione». Infine, Vendola scrive di un «polverone che si è mangiato i fatti: quelli circostanziati legati al cosiddetto sistema di Gianpaolo Tarantini e nella festosa scena abitata da questo imprenditore io, a differenza persino di alcuni magistrati, non ho mai messo piede».
Sul Riformista del 9 agosto, Peppino Caldarola ricorda che il pm sarebbe amica della sorella del governatore. Quindi, va oltre. «Chi conosce l'ambiente - scrive Caldarola - è riuscito a decrittare l'accusa di Vendola al pm. Nichi fa riferimento a relazioni familiari e amicali della Digeronimo e probabilmente si riferisce non solo all'ex marito della pm che è un'esponente della destra ma anche a un personaggio centrale di uno dei filoni dell'inchiesta sanitaria barese, la manager Asl Lea Cosentino che è inquisita oltre che grande amica della magistrato. Se non fosse una lite in famiglia - osserva Caldarola - Vendola avrebbe avuto davanti a sé la via maestra di un esposto al Consiglio superiore della magistratura per costringere il Csm ad esautorare la Digeronimo. Invece ha scelto lo strumento eccentrico della lettera aperta per reagire alla propria destabilizzazione destabilizzando il pm che ha, a questo punto, chiesto aiuto al Csm».
Già, ma se è vero che la forma inusuale adottata da Vendola per manifestare il proprio disagio ha contribuito ad alimentare quel «polverone», è anche vero che dietro quel polverone ci sono domande alle quali nessuno sinora ha dato risposte. A farlo, presto, potrebbe essere il nuovo capo della Procura di Bari.
il Riformista 6.9.09
La Bari delle cento inchieste e dei mille veleni
È scontro a tutto campo in Puglia. Ieri c'è stato un nuovo interrogatorio di Giampaolo Tarantini, l'imprenditore della sanità al centro delle inchieste giudiziarie che alimentano sempre più lo scontro politico, ora tutto interno al centrosinistra con Michele Emiliano, sindaco di Bari, da un lato e Sergio Blasi dall'altro.
I due, si contendono la segreteria regionale, il primo, come indipendente, il secondo, che è vicino a Massimo D'Alema, è con Bersani. E ieri non si sono risparmiati nell'accusarsi l'uno con l'altro prendendo spunto proprio dalle inchieste che i magistrati baresi stanno sviluppando.
Proprio quelle inchieste, però, continuano a sollevare più di un interrogativo. Da mesi la procura del capoluogo pugliese attende il nuovo capo che prenderà il posto dell'attuale, azzoppato - per così dire - dalle polemiche sul caso dei fratellini di Gravina e dall'aver raggiunto il limite degli otto anni di permanenza negli incarichi direttivi. Nel frattempo, diversi pm continuano a lavorare senza nessun coordinamento tanto che le diverse inchieste finiscono per intrecciarsi l'una con l'altra.
Repubblica 6.9.09
Prigionieri dell'8 settembre
L´odissea dei fedeli senza Stato
di Franco Marcoaldi
La tragica storia dei seicentocinquantamila internati militari italiani che negarono la loro adesione alla Repubblica sociale viene ora ripercorsa in un libro che raccoglie diari, lettere e testimonianze dai lager nazisti. Così tra il 1943 e il ´45 nacque la prima forma di silenziosa resistenza dei traditori traditi
«Il cervello è un vulcano di pensieri: la vita, la casa, i tedeschi. La testa mi scoppia. Che fare? Alle 24, invece del cambio, arrivano altri uomini armati. Uno dice: "Altro che pace!" É la guerra di nuovo. Contro i tedeschi, stavolta». Così l´allievo ufficiale Lino Monchieri annota nel proprio diario la sensazione di assoluto smarrimento di fronte al collasso dell´8 settembre, collasso di un esercito e di una intera nazione, a cui farà seguito la cattura e la deportazione nel Terzo Reich di centinaia di migliaia di soldati e ufficiali italiani, la maggior parte dei quali, negando la loro adesione alla Repubblica Sociale, daranno vita alla prima forma di resistenza contro il nazifascismo.
La storia, a lungo rimossa, dei seicentocinquantamila internati militari italiani viene ora ripercorsa in un importante libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri, che raccoglie diari e lettere dai lager nazisti nel periodo 1943-1945. E niente come questa grande massa di documenti personali (compreso un capitolo dedicato a chi decide di stare dalla parte dei tedeschi e dei repubblichini), riesce a dar conto di una vicenda storica complessa e tragica, in cui l´umiliazione di un intero popolo si intreccia a una progressiva presa di coscienza individuale e collettiva, a una fedeltà nelle proprie convinzioni pagata molto duramente. E per nulla ricompensata dalla nazione italiana.
Dopo lo sbandamento seguito all´8 settembre, i tedeschi disarmano circa un milione di uomini, «di cui 196.000 fuggono o vengono liberati, 94.000 aderiscono subito, oltre 13.000 muoiono prima di arrivare nei lager e ben 710.000 vengono deportati con lo status di Imi». Dall´Italia, dalla Francia, dai Balcani, cominciano a partire alla volta del Terzo Reich lunghe tradotte dove i militari italiani vengono stipati come bestie, dentro vagoni sigillati: «Cerchiamo di sdraiarci alla meglio», scrive l´allievo ufficiale Giovanni Notte, «ma è impossibile. Sembra che nani maligni si siano divertiti ad allungare i piedi e le gambe. Se allunghi un piede, trovi subito dieci, venti piedi e un buon numero di persone che urlano».
L´impatto con i lager, se possibile, è ancor più terrificante di questa peregrinazione alla cieca nel cuore dell´Europa: l´offesa patita dai carcerieri, ex alleati, risulta da subito insopportabile. Chi è stato tradito dal proprio Stato ora deve, in sovraprezzo, sentirsi definire traditore. Trattato come un "sottouomo" dai suoi aguzzini.
Le condizioni igieniche sono pietose: «Il campo era privo di fogne», ricorda il sottotenente Gastone Petraglia. «L´acqua sporca stagnava lungo rigagnoli scavati nella sabbia e molto vicini alle baracche. Si beveva acqua inquinata e non potabile. Oltre a ciò lo spurgo delle latrine andava a finire nelle vicinanze di quelle pompe infiltrandosi in tal modo nell´acqua». Se a tutto ciò si assommano gli effetti dell´intollerabile freddo di un primo, rigidissimo inverno, ecco spiegato l´immediato dilagare di tubercolosi, dissenteria, malaria, tifo petecchiale.
Ma il nemico numero uno è e sarà per tutto il periodo della prigionia, la fame. Una fame lancinante, onnipresente: un buco nero che niente riesce a placare. La brodaglia quotidiana di rape e pane di segala, chiamata in gergo sbobba, è assolutamente insufficiente. Così c´è chi finisce per contendere il fieno ai cavalli, per mangiare la legna bruciata. Il rischio della pazzia è sempre dietro l´angolo e difatti non mancano casi in cui sotto il materasso di prigionieri morti di inedia, si trovano pagnotte nascoste e accumulate nel corso dei mesi.
Il cibo diventa una vera e propria ossessione che popola le fantasie notturne degli internati. Giuseppe Volpi racconta di un ricorrente "sogno aritmetico": «Turbato che il mio accantonare un settimo di razione mi desse in due giorni solo un quinto in più, stanotte ho fatto di nuovo le operazioni con le frazioni ed ho trovato la soluzione. Mettendo via un settimo più un quinto al giorno, e cioè dodici trentacinquesimi, pari per difetto a un terzo, avrò alla domenica due razioni».
Al risveglio, però, queste elucubrazioni lasciano il tempo che trovano. E nella crescente disperazione si tenta la strada del mercato nero: un orologio, un paio di guanti e di stivali contro lardo, pane, tabacco. Nel lager polacco di Benjaminowo la "borsa" ha luogo nei cessi, e i detentori del "listino" sono i polacchi destinati alla pulizia dello sterco, altrimenti detti "merdaioli". «Il mercato», annota il sottotenente Antonio Rossi, «deve svolgersi di nascosto e perciò avviene nell´interno del gabinetto ed il "merdaiolo" per far entrare la merce nel campo la mette in una cassetta che poi sprofonda nel carro sporco. E non è raro che qualche pagnotta non sia proprio pulita».
Sì, la fame è la parola chiave attorno a cui ruota tutta la vita del prigioniero. E ben lo sanno i tedeschi, che battono e ribattono su questo tasto nella loro reiterata proposta di adesione alla Repubblica Sociale rivolta agli ufficiali italiani (diverso il caso di sottufficiali e truppa, che dopo l´iniziale rifiuto vengono spediti al lavoro coatto per rimpiazzare la manodopera tedesca impegnata sui fronti di guerra).
Dunque il "no" ai nazisti da parte di ciascun ufficiale è reiterato, continuo, ciò che rende ancor più commovente e ammirevole questa lotta senza armi contro il nazifascismo. E ripropone la domanda su quali siano state le ragioni che hanno spinto un numero così alto di militari a perseverare nella propria scelta. Lo spettro delle motivazioni è quanto mai ampio e gli autori del libro (oltre a Giorgio Rochat, nella sua prefazione) ne danno puntualmente conto: soprattutto all´inizio gioca un ruolo fondamentale la stanchezza nei confronti della guerra; imprescindibile è l´attaccamento alla divisa e alle stellette, il giuramento dato al re e non a Mussolini; mentre assume un peso crescente l´odio maturato giorno dopo giorno nei confronti dei carcerieri tedeschi. Il fatto è che ciascuno di questi uomini, per la prima volta in vita sua e dopo essere stato imbevuto per anni e anni di ideologia fascista, ora deve fare i conti con la propria coscienza. E maturare individualmente le proprie decisioni, nelle peggiori condizioni possibili. «Siamo soli», scrive il capitano medico Guglielmo Dothel, «non combattiamo più per nessuno ma solo per noi stessi in nome della nostra coscienza, del nostro onore, della nostra dignità di uomini».
La scelta, oltretutto, si rivela tanto più difficile perché la condizione assolutamente anomala di "internato militare" (pervicacemente voluta da Hitler), impedisce qualunque controllo e conforto da parte degli organismi internazionali preposti, in primis della Croce Rossa. Senza contare la percezione di un totale abbandono da parte di ciò che resta dello Stato italiano, mentre per contro montano le pressioni di quei familiari che invitano i loro congiunti a lasciar perdere e a ritornare a casa.
Paradossalmente, è proprio all´interno del lager che i nostri militari troveranno le energie necessarie a portare fino in fondo la propria decisione, rinsaldata da una crescente consapevolezza antifascista. Sì, è nel lager, perché lì nasce quella singolarissima comunità che Giovanni Guareschi definirà «Città Democratica»; il primo germe di democrazia con cui vengono a contatto giovani cresciuti tra fasci littori, adunate di Balilla e Avanguardisti, e che ora - nel luogo più impensato, tremendo - si trovano a discutere della libera scelta individuale. E ad apprendere, in lunghe serate trascorse in baracca, i primi rudimenti di filosofia, politica, storia italiana, poesia, musica, teatro. Pensate solo quale concentrato di intelligenze e talenti era presente nel già citato campo di Benjaminowo: Guareschi, il caricaturista Novello, il poeta Rebora, il filosofo Enzo Paci, l´attore Gianrico Tedeschi. Che incredibile scuola di vita, deve essere stata.
In una lettera inviata dal capitano Giuseppe De Toni al fratello Nando e letta da Radio Londra, è scritto: «Ho letto di Madri, Mogli, Figli che chiedono, implorando in buona fede una firma disonorevole; io stesso ho ricevuto, e non una sola volta, una invocazione rivolta al mio cuore di marito e padre, un appello diretto alla ragione. É la prova suprema per un uomo. Ma c´è qualcosa in me, in noi, che supera ogni lato affettivo, ogni tentazione, ogni lusinga, qualcosa che ci permette di vincere anche il nostro egoismo che si fa spesso tanto prepotente».
De Toni intuisce che in Italia si comincia a insinuare che gli Imi siano in realtà degli attendisti, addirittura degli imboscati. «Siete in buona fede e solo per questo possiamo perdonare la vostra debolezza. Ma da voi, da tutti voi, non attendiamo solo un aiuto materiale, pur tanto prezioso, quell´aiuto che salva la nostra esistenza fisica. Noi attendiamo, come ancor più prezioso, più necessario, il vostro aiuto morale, il conforto della vostra comprensione, il vostro incitamento a resistere».
Purtroppo le cose non andranno nel senso auspicato dal capitano. Quando, finita la guerra, gli internati militari italiani sopravvissuti all´orrore del lager torneranno in Italia, troveranno una patria a dir poco distratta. L´unica Resistenza ufficialmente riconosciuta è quella dei partigiani. L´onore militare e la fedeltà al re sono monete vecchie, ormai fuori corso. La ferita aperta dalla catastrofe istituzionale dell´8 settembre va dimenticata a tutti i costi. Così la ribellione silenziosa e disarmata di centinaia di migliaia di italiani si trasforma in una esperienza di cui è meglio tacere, che induce addirittura a un sentimento di vergogna.
E quella drammatica storia finisce per essere allontanata dalla memoria collettiva di un paese che ancor oggi, a sessantacinque anni da quegli avvenimenti, paga un altissimo prezzo per la mancanza di un passato condiviso. Aveva ragione Guareschi: «I più pericolosi nemici dell´Italia, mi vado convincendo che sono proprio gli italiani».
il Riformista 6.9.09
Alfred, da pupillo del boia Heydrich a falsario di Adolf
di Tonia Mastrobuoni
Oblio. Naujocks fabbricò l'alibi per la Seconda guerra mondiale, fu la mente di altre operazioni truffaldine dei nazisti. Escogitò la più grande falsificazione di banconote della storia. Poi è scomparso, nessuno sa quando sia morto.
La nonna è morta. Con questa frase in codice Reinhard Heydrich, capo dei servizi di sicurezza nazisti, trasmise l'ordine che scatenò settant'anni fa la Seconda guerra mondiale. Dall'altro capo del telefono, il fidato Alfred Naujocks. Il ventisettenne Sturmbannfuehrer delle SS decifrò al volo. Poco dopo fece irruzione con i suoi uomini travestiti da soldati polacchi nella piccola stazione radio di Gleiwitz, nella Slesia. Erano le otto di sera. Una voce fece sapere alla Germania che la stazione era stata occupata da Varsavia. L'annuncio non fu portato a termine perché un povero funzionario della radio, ignaro della messinscena dei suoi connazionali, interruppe il segnale. Ma il disastro era fatto. Il "casus belli" inscenato, il sipario sul prologo del più atroce conflitto del secolo scorso si era alzato. Qualche ora dopo, nella notte del primo settembre, il cielo di Danzica fu illuminato dalle bombe naziste, un mese dopo la promessa del patto Ribbentrop-Molotov era onorata e la Polonia spartita tra Germania nazista e Unione Sovietica comunista.
Per rendere più credibile la storia, Naujocks aveva arrestato la notte prima un ragazzo di un villaggio vicino, Franciszek Honiok, lo aveva drogato e vestito con un'uniforme polacca. Quella notte del 31 agosto 1939 gli sparò e lo lasciò a terra, nella stazione radio di Gleiwitz. Il suo cadavere travestito - nome in codice "barattolo di conserva" - fu la menzogna con cui Hitler giustificò il suo blitzkrieg in Polonia.
Il travestimento di Gleiwitz non fu un episodio, nella vita di Alfred Naujocks. Il pupillo del "boia" Heydrich fu regista di altre, clamorose mise-en-scene e di gigantesche operazioni di falsificazione messe in atto dal regime. Quando disertò e si consegnò nel 1944 agli inglesi, cominciò a raccontare la sua storia. Anche quella, teatralizzata e condita di bugie, come la presunta partecipazione alla resistenza antinazista austriaca. Poi, dopo Norimberga, in tempo di pace si trasferì ad Amburgo e vendette la sua storia ai media tedeschi come «L'uomo che fece scoppiare la Seconda guerra mondiale» ma finì i suoi giorni avvolto nel mistero, forse nel 1960, forse nel 63 o 68. Nei primi anni del dopoguerra, era stato anche membro attivo dell'operazione Odessa, l'organizzazione che garantì protezione e rifugio a molti ex-SS dopo la guerra (magnificamente raccontata in un romanzo di Frederick Forsyth).
Originario di Kiel, figlio di un droghiere, Naujocks interruppe gli studi da ingegnere e fece una carriera rapida nel partito di Hitler perché era l'uomo giusto per i lavori sporchi, l'uomo più fidato del gerarca Heydrich. Come tanti esponenti di spicco del nazismo, si era fatto notare già giovanissimo come attaccabrighe. L'oggetto prediletto delle sue scorribande erano i militanti comunisti, contro i quali metteva in mostra le sue doti da pugile dilettante. Uno sport amatissimo negli anni della Repubblica di Weimar, che incantò non soltanto Bertolt Brecht, ma che era stato osannato anche da Hitler in Mein Kampf. «Nessun altro sport risveglia in modo così forte lo spirito di assalto, richiede così pronta decisione, rende forte ed elastico il corpo», aveva scritto il Führer nel suo delirante manifesto politico. Nel 1931 Naujocks entrò nelle SS e divenne il confidente di Heydrich. Da lì cominciò la sua irresistibile ascesa.
Due mesi dopo Gleiwitz, a novembre del 1939, Naujocks era già pronto per "l'operazione Venlo", un'altra farsa nazista. La mente era stata Walter Schellenberger, collega delle SS, capo del IV ufficio dei servizi per la sicurezza del Reich e rivale di Naujocks. I due erano in competizione continua per arraffarsi la fiducia di Heydrich. A Venlo, piccola cittadina olandese vicino alla frontiera tedesca, un commando di SS guidato da Naujocks rapì due ufficiali britannici e li trasferì con la loro automobile in Germania. La stampa tedesca li accusò di aver organizzato il fallito attentato a Hitler di Monaco. Tragica ironia della sorte, furono rinchiusi nello stesso campo di concentramento, Sachsenhausen, in cui fu trasferito poco dopo il falegname Johann Georg Elser, il vero attentatore di Monaco. Per questa boutade, Naujocks si guadagno la croce di ferro. Ed ebbe in premio anche la macchina dei due ufficiali inglesi.
Poco tempo dopo, nel costante affanno di ingraziarsi Heydrich e battere Schellenberger in ruffianeria, Naujocks escogitò la famigerata "operazione Bernhard". L'idea era quella di affossare la sterlina inondando la Gran Bretagna di banconote false, di indebolire il nemico precipitandolo nel baratro dell'inflazione al galoppo. Oltrettutto, in piena guerra. Prese il nome da Bernhard Krueger, il capitano delle SS incaricato da Naujocks dell'operazione. L'idea fu accolta con entusiasmo da Heydrich e sottoposta a Hitler, che diede immediatamente il via libera.
L'"Operazione Bernhard", immortalata in un film, Il Falsario (Oscar come miglior film straniero nel 2008), soprattutto, raccontata in un libro straordinario, L'officina del diavolo (Nutrimenti), dall'ex prigioniero di Auschwitz Adolf Burger, fu tenuta segretissima. Il compito di trovare il modo di fabbricare banconote fedelissime agli originali fu affidato ai prigionieri dei campi di concentramento. Tipografi come Burger, falsari, pittori, maestri cartai, incisori, chiunque potesse dare un contributo fu spostato dai campi di sterminio e di concentramento di tutta la Germania e trasferito a Sachsenhausen.
Le difficoltà iniziali furono enormi. A cominciare dal materiale delle banconote. Gli uomini di Naujocks, racconta il libro, analizzarono i biglietti originali e arrivarono alla conclusione che le sterline non erano prodotte con un tipo particolare di fibra di canna birmana, «come si teneva all'inizio», ma con stracci di lino, usati. Poi ci fu il problema di scoprire il sistema di numerazione delle banconote inglesi, quello di riprodurre alla perfezione il panneggio e gli svolazzi della dea Britannia, «nel quale, per motivi di sicurezza, era stata inserita un'insidia particolare». Alla fine il piano riuscì. E venne il momento di mettere alla prova quei soldi falsi. Ancora una volta fu escogitata una messinscena.
Su incarico di Naujocks, un agente fu mandato in Svizzera, con l'incarico di cambiare quelle banconote. Raggiunta una banca elvetica, si presentò al funzionario con le sterline e gli chiese di verificarle molto attentamente perché provenivano dal mercato nero. Gli allungò una lettera, anch'essa finta, della "sezione falsi" della Banca centrale tedesca che sollevava dubbi su quei soldi e aggiungeva che purtroppo nessuno a Berlino era in grado di controllarne l'autenticità. Tre giorni dopo, arrivò il risultato. Un'indagine approfondita mostrava che le banconote false erano vere. Un passo ulteriore fu la richiesta del mediatore di fare un'altra verifica, via telegrafo, direttamente con la Banca d'Inghilterra. «La risposta - racconta Burger - arrivò immediatamente: "Tutto regolare - stop - banconote con le date indicate sono in circolazione". Naujocks esultò. Heydrich era entusiasta. A quel punto la produzione di massa delle false banconote inglesi poteva cominciare». Ben 133 milioni di sterline furono buttate sul mercato britannico: il più vasto piano di falsificazione di banconote di tutta la storia.
L'inflazione però non piegò la Gran Bretagna. Soprattutto, Naujocks concluse la sua inarrestabile ascesa politica poco dopo. Ufficialmente, perché non obbedì a un ordine del suo capo, Heydrich. Secondo alcuni storici, tuttavia, cadde in disgrazia perché il "boia" pensò che il suo pupillo sapesse qualche dettaglio di troppo della sua vita privata. Naujocks era stato in prima fila anche per un'altra famosissima operazione nazista che permise alle gerarchie di ricattare e condannare una serie innumerevole di persone. Aiutò a stabilire a Berlino il bordello di lusso Salon Kitty, che pullulava ovunque di microfoni.
Alfred Naujocks, alias Hans Mueller, alias Alfred Bonsen, alias Rudolf Moebert, è passato alla storia banalmente come SS-Sturmbannfuehrer che fabbricò la scusa per l'invasione della Polonia. Ma fu anche, come lo ricorda Burger, «l'uomo che concepì la più grande operazione di falsificazione della storia». Un burattino e un falsario, un ruffiano micidiale e un regista crudele talmente inghiottito dalla storia che oggi è difficile ricostruire anche in che anno sia morto.
Corriere della Sera 6.9.09
Werner Herzog
Arriva con «My Son, My Son, What Have Ye Done» dopo aver presentato «Il cattivo tenente»
«Inseguo la follia ma sono l’unico sano»
L’attore: «L’importante è simulare perché è difficile definire i veri confini della pazzia»
di Maurizio Porro
Herzog a sorpresa: il primo nella storia del Lido con due film in gara
VENEZIA — È stata una super sorpresa: il film misterioso è di Werner Herzog, che diventa così il primo autore della storia in gara al Lido con due film diversi e complementari che dimostrano due personalità di regia: Il cattivo tenente e My son, my son, what have ye done con Willem Dafoe e Chloe Sevigny testimoni del flash back di un fattaccio di cronaca. «Venezia non mi ha voluto in concorso per 40 anni » commenta l’autore «ora voglio provare questa avventura suggerita da Müller, che ha amato follemente tutti e due i film». Ecco la parola: follia. È una storia vera quella che racconta il film con tanto odio-amore per l’America.
Riguarda un caso di follia, tema che insegue il regista tedesco dai tempi non sospetti di Aguirre : «Ma voglio chiarire che io non mi considero folle, anzi dico che mi sembra, oggi al Lido, di essere l’unico clinicamente sano».
Così sano da vivere a L. A. tenendo conferenze ovunque e depositando il marchio di una scuola per giovani. Malato marcio invece il protagonista, un attore classico di gran bravura che una sera, dopo una replica dell’ Orestea , torna a casa e uccide davvero la madre impicciona ma non degli Atridi. Insomma l’inclusive tour nel dilemma edipico con un tragitto andata ritorno Eschilo-Freud: dopo otto anni e mezzo di manicomio, eccolo ufficialmente guarito e libero. «Allora andai a trovarlo ma ebbi paura: viveva in un camper e, sotto un crocefisso, ardeva una candela».
Allora Herzog, che appunto matto non è, ha lasciato fare ai produttori, tra cui l’amico David Lynch con cui il film è nato per scommessa: non superare i 2 milioni di dollari. Per il ruolo del killer ha scelto (e lo paragona al suo mito Kinski) il bravo Michael Shannon, già candidato all’Oscar per aver così ben simulato la follia in Revolutionary road.
Dopo la cura intensiva e la full immersion nell’Herzog way of life (andarono insieme per i sopralluoghi in Cina e in Perù, luoghi sacri di mitici film), dopo aver recitato con una mucca su un piede, non si preoccupa più di impazzire: «L’importante è simulare perché è difficile definire i veri confini della follia. Io faccio l’attore proprio perché non voglio vivere la normalità che rende prigionieri tutti, ma quando recito mettendo in palio il subconscio, mi sento un intermediario tra la follia della realtà e la personalità a calamita di Herzog». Vecchia questione che ripropone anche il magnifico film di Solondz (ancora libero per l’Italia!) che tratta di dolori ancestrali con humour yiddish: Neil Simon travestito da Eschilo.
Chi è il colpevole? Il maggiordomo o la folla? «A volte basta affacciarsi sui panorami di San Diego e vien subito voglia di diventare pazzo» dice Shannon con slancio. Questo film lo dimostra e lo trasmette benissimo, sturm und drang di Werner, indeciso se sia folle l’assassino o tutto il mondo, visione pop di una società che s’identifica nella casa rosa e nell’ossessione dei fenicotteri: «La domanda sull’origine e confine della follia rimane aperta» dice l’autore di Fitzcarraldo , «noi coltiviamo l’arte della ricerca anche nei confronti di noi stessi, portando pure gli attori al limite di un gran viaggio nel subconscio » .
Corriere Salute 6.9.09
Psicoterapie. Le «sedute» informatiche possono giovare alla depressione nel 42% dei casi
Lo psicologo può curare online
Per la prima volta uno studio inglese ha dimostrato l’efficacia dei trattamenti via Internet
di Daniela Natali
42% La quota di pazienti depressi, seguiti online, che ha ottenuto risultati positivi
Secondo alcuni esperti, la terapia online è utile solo se si aggiungono periodici incontri faccia a faccia
Depressione Uno studio del Lancet sdogana i trattamenti online
Accanto al «lettino» la tastiera del computer
Psicoterapia virtuale: dimostrata l’efficacia
Niente «lettino», nessuna «ritualità », ognuno a casa propria, zero possibilità di guardarsi in faccia e di cogliere atteggiamenti, sguardi, spesso più eloquenti delle parole. Eppure funziona. Stiamo parlando di psicoterapia on line, una modalità di cura che fino a qualche tempo fa faceva inorridire gli psicologi europei (decisamente meno quelli americani) e che ora riceve il benestare del Lancet. Bisogna però circostanziare il campo: non stiamo parlando di psicoanalisi, ma di terapia cognitivo comportamentale ( vedi scheda ) e di una psicopatologia ben definita, la depressione. L’articolo pubblicato da Lancet riporta i risultati di uno studio inglese su 297 pazienti. Di questi, 149 oltre alle cure ricevute dal medico di famiglia (compresa la prescrizione di antidepressivi) hanno seguito una psicoterapia on line, i 148 del cosiddetto «gruppo di controllo» sono stati solo seguiti dal loro dottore di base. Al termine dei quattro mesi di esperimento, le persone affiancate dagli psicologi via computer erano migliorate nel 38% dei casi, mentre nel gruppo di controllo i risultati positivi erano presenti nel 24% dei pazienti. E, altri quattro mesi dopo, il divario tra i due gruppi era aumentato: per il primo, 42% di successi, per il secondo, 26%. Doveroso chiarimento: i pazienti comunicavano, sia pure solo via tastiera, con uno specialista che, in tempo reale, colloquiava con loro. Gli incontri via computer, dieci in tutto, erano di 55 minuti l’uno e da terminarsi in quattro mesi.
Gli autori della ricerca commentano che la possibilità di avere immediatamente, e ogni volta che si vuole, a disposizione il testo integrale del colloquio con lo psicologo crea evidentemente una «distanza» dai propri sentimenti e pensieri negativi che ne favorisce l’elaborazione. In un commento di un gruppo di ricerca americano, che accompagna le ricerca, si sottolinea che questo approccio potrebbe essere utile per chi vive in luoghi isolati o per chi non è perfettamente padrone dell’inglese ed è favorito dai tempi lenti della scrittura e della lettura.
«Questa ricerca — commenta Enrico Molinari, docente di Psicologia clinica e Psicologia della riabilitazione alla Cattolica di Milano e presidente dell’Ordine degli psicologi della Lombardia — va nella direzione della decisione presa dall’Ordine nazionale di 'sdoganare' le prestazioni psicologiche on line. Nel 2004 sono infatti state pubblicate, dopo ampio dibattito, linee guida per questo tipo di consulenza a garanzia dei pazienti ». Che debbono essere certi delle qualifiche del professionista con cui parlano e del fatto che quello che dicono resterà riservato ( vedi box ). «Detto questo, — prosegue Molinari — credo che la terapia via computer possa essere utile solo se, almeno nella fase iniziale e in qualche altro momento successivo, c’è un contatto diretto con il paziente e se non si cade nella tentazione di applicare protocolli uguali per tutti, perché le cure psicologiche vanno ritagliate sulla persona. Poi, bisognerebbe analizzare gli effetti collaterali della consulenza online. Il rischio, dopo aver fatto diventare virtuale perfino il sesso, è di diventare, passo dopo passo, del tutto virtuali, di cadere nella tentazione di voler vivere 'sicut angeli'. E, invece, noi siamo anche carne ed è bello che sia così: nell’incontro faccia a faccia, lo psicologo 'studia' il paziente, ma anche il paziente studia lo specialista. Non voglio, però, negare le opportunità offerte dall’informatica. In un esperimento, ancora in corso, condotto nel laboratorio che dirigo in Cattolica e all’Istituto auxologico, stiamo usando anche videoconferenza online e sms per sostenere i pazienti con problemi alimentari. In un altro, su circa 300 pazienti, già concluso, ci siano serviti dei cellulari per monitorare pazienti con scompenso cardiaco nell’intento di migliorare l’aderenza alle cure, riuscendo a ridurre sensibilmente i ricoveri rispetto a quanto accadeva nel gruppo di controllo».
Corriere Salute 6.9.09
Quali tutele per le sedute via Internet
«Le linee guida per le prestazioni psicologiche a distanza» dell’Ordine degli psicologi (sul sito www.opl.it) prevedono, innanzitutto, che lo psicologo online sia facilmente riconoscibile in modo da poterne verificare identità e domicilio; che quando il servizio è fornito da più specialisti questo venga chiaramente specificato e che siano fornite informazioni generali relative alle norme professionali e al codice deontologico degli psicologi.
Di norma viene richiesta anche l’identificazione dell’utente; in alcuni casi si può derogare a questa regola ed è responsabilità dello specialista valutare caso per caso, tenendo presente che gli utilizzatori possono anche essere minori o comunque sotto tutela. L’anonimato non esime il professionista dal richiedere un consenso informato al paziente.
Dovere del professionista anche assicurarsi della riservatezza delle informazioni psicologiche servendosi di «idonea strumentazione».
Repubblica 6.9.09
Boom della terapia: la scoprono in 8 milioni. "Fa bene al sesso e alla carriera"
Italiani, un popolo di ipnotizzati
di Alessandra Retico
Bastano dieci sedute per avere risultati, meno impegnativa della psicanalisi
Utile anche per smettere di fumare, dimagrire e ritrovare l´autostima
Dormire, sognare, forse guarire. Il dio Ipnos non è più paranormale, non fa il mago, non è più gemello di Thanatos quello della morte. Risolve più della psicanalisi, è più rapido di molte terapie. Lo dicono gli otto milioni di italiani che ormai ricorrono all´ipnosi, il doppio dello scorso anno, più 108 per cento solo nel primo semestre del 2009.
Per migliorare l´aspetto fisico, smettere di fumare, fare carriera e meglio l´amore. «Guardami, guardami» diceva Giucas Casella in tv, sembrava e forse era solo un gioco di prestigio, ci si divertiva in salotto davanti allo schermo ma poi i problemi si risolvevano altrove, negli studi dei discepoli accreditati di Freud e Jung. Ma che lavoro: lungo e faticoso. Adesso con dieci sedute, 80 euro circa l´una, via tutto o quasi, la vita è veloce e complicata, servono soluzioni psico fast. «Solo quando lo diciamo noi», per lasciare i dubbi, liberarsi da dipendenze, togliere qualche chilo in più.
Lily Allen, la cantante pop inglese, e l´americana Courtney Love l´ipnosi l´hanno usata infatti per dimagrire, Eva Mendes l´attrice perché aveva paura dei ragni. In Svezia ci hanno fatto anche un reality (ipnotico), Backtrack Sweden, tradotto in Italia (va su Sky) con il sottotitolo "Tracce dal passato". Forse una moda, di sicuro un fenomeno. Uno studio Cenispes, il centro italiano di studi politici, economici e sociali, ha indagato per conto dell´Accademia Internazionale "Stefano Benemeglio" delle discipline analogiche l´Italia che dorme tra le braccia di Ipnos.
Sesso, amore, libertà, prestigio e autorealizzazione. Ci vanno per questo uomini e donne dai 18 ai 65 anni, da nord a sud, a recuperare nel sonno l´energia che la veglia toglie, le ragioni che l´io censura. Cercano amore e amicizia soprattutto, vogliono risolvere problemi di coppia (27 per cento), poi libertà e indipendenza anche dalle cose più o meno importanti come smettere di fumare o piacersi di più (23 per cento), infine per sentirsi più e meglio realizzati (il 20 per cento). Città che vai, bisogno che trovi.
A Roma la maggior parte delle persone cerca amore e amicizie, è invece il sesso che interessa di più i napoletani, il prestigio i milanesi, la libertà i fiorentini, l´autorealizzazione i bolognesi. Ma in assoluto a spingere gli italiani ad affidarsi alle mani di un esperto di ipnosi, spiega il Cenispes, sono soprattutto le difficoltà nei rapporti sentimentali. Molti altri sfruttano l´ipnosi per liberarsi dalle molte dipendenze e dai tic della modernità: dallo shopping al gioco compulsivo.
Spiega l´Accademia Benemeglio: "Migliorare l´aspetto fisico, crescere professionalmente, fare l´amore più spesso, recuperare l´ex-partner di un tempo. Il segreto sta nel recuperare l´equilibrio e l´armonia, dando senso a quella parte di noi che la razionalità censura". In breve è questa la tecnica "dinamica" di Benemeglio: nella seduta si decodificano tutti quegli atti comunicativi non verbali che sono privi di significato razionale, segni e gesti portatori di sensi analogici, cioè emotivi.
Giù le barriere logiche, su le istanze irrazionali. Riaffiorano le rappresentazioni a forte carica affettiva rimosse. E infatti questo stato particolare viene chiamato l´"Io bambino", tutto quel magma ricco di impressioni e informazioni che poi formano, anche molto silenziosamente, la nostra psiche. Il terapeuta ci si mette in contatto per modificare i pensieri negativi e orientare quelli positivi. Una pratica simbolica, che agisce nel profondo, tocca le leve più interne e nascoste dalla paura, dal pudore, dalla coscienza. Niente di ascetico, questa è una storia di soluzioni e ambizioni (che si vogliono) risolte: dopo aver visto tutto quel mondo laggiù, dicono che si ritorna qui più concentrati, con risorse fresche. Per mandare la paura al diavolo, per dire che anche così va bene. L´io che ha dormito, com´è leggero.