lunedì 7 settembre 2009

Repubblica 7.9.09
Il Grande Scambio sui diritti civili
di Chiara Saraceno


Il Vaticano vuole esercitare la sua influenza sulle questioni definite "non negoziabili"
Bossi si propone come paladino cattolico, ma rafforza le pulsioni anti migratorie

Non è chiaro chi uscirà vincitore dalla complessa partita che si sta giocando nel rapporto Stato (o meglio governo) e Chiesa cattolica in queste settimane, tra minacce, aggressioni, ricatti e promesse. I giocatori sono troppi, ciascuno con un suo interesse e motivazione specifica. Berlusconi vuole mettere una pietra tombale su ogni critica non tanto ai suoi comportamenti privati, quanto alla sua disinvolta confusione tra pubblico e privato, in questioni che riguardano sesso, ospitalità, candidature e incarichi politici, affari.
Perciò, così come è disposto ad usare ogni mezzo, pubblico e privato, per mettere a tacere chi lo critica, è anche disposto ad utilizzare il proprio ruolo pubblico per offrire in cambio alla Chiesa il potere di regolare le scelte private dei cittadini sulle questioni che ad essa stanno più a cuore. Bossi vuole utilizzare il richiamo al cattolicesimo ed ai suoi valori sia per tenersi buono il suo elettorato che per rafforzarne le pulsioni anti migratorie e talvolta un po´ razziste. Proprio per questo, mentre rassicura la Chiesa sulle questioni che riguardano la famiglia e la sessualità, e si propone quale novello crociato contro l´Islam, mantiene duramente la posizione sulla legge sull´immigrazione, i respingimenti senza verifiche e il reato di clandestinità - certo che la Chiesa non romperà su questo. La Chiesa da un lato è intenta a fare i propri i conti interni, nel processo di ridefinizione degli equilibri e delle alleanze iniziato con il nuovo pontificato. La destabilizzazione che questo processo ha provocato, insieme al narcisismo mediatico cui non sono insensibili neppure i monsignori, ha consentito che venissero alla luce in modo molto più esplicito di quanto non fosse mai avvenuto prima dissensi e conflitti interni, come notato anche ieri su questo giornale da Scalfari. In questa partita, anche nella Chiesa ciascun gruppo sembra giocare per sé e utilizzare i rapporti con la politica per regolare, appunto, i conti interni. Dall´altro lato, la gerarchia mantiene una forte continuità con la gestione tutta politica instaurata da Ruini, nonostante questi sia segnalato come perdente nella vicenda del direttore dell´Avvenire. Perché un conto sono i conflitti e i rapporti di potere interni, un conto è la volontà di influenzare direttamente la politica sulle questioni definite come non negoziabili. Esse riguardano appunto la sessualità riproduttiva, la famiglia (o meglio il matrimonio, che è cosa diversa dalla famiglia), le cosiddette questioni di bioetica, che sarebbe forse meglio chiamare questioni che riguardano l´inizio e la fine della vita. Il modo di trattare l´immigrazione e gli immigrati non fa parte di queste questioni non negoziabili, come non ne fanno parte il contrasto alla povertà e neppure alla guerra. Perciò su queste si può transigere o rimanere in un atteggiamento di testimonianza critica. Il caso Boffo, da questo punto di vista, può apparire addirittura provvidenziale: ha segnato un punto nei conflitti di potere interni mentre ha consegnato a tutta la Chiesa un agnello sacrificale da giocare pesantemente nei suoi rapporti con Berlusconi. Può darsi, come hanno scritto diversi commentatori, che la gerarchia si sia lasciata trovata impreparata e divisa di fronte all´attacco al direttore dell´Avvenire. Ma non sarà affatto impreparata a utilizzarlo a fini di negoziazione politica.
Accanto a questi attori principali ce ne sono altri, innanzitutto gli aspiranti costruttori del Grande Centro. Questi sperano di utilizzare il conflitto tra pezzi dell´attuale governo e la Chiesa per guadagnare l´investitura di autentici defensor fidei e di più affidabili esecutori politici dei desideri della Chiesa sulle questioni «non negoziabili». Qualcuno tenta anche la strada della competizione sulla moralità privata. Tuttavia è un terreno, non solo sempre più scivoloso, ma neppure utile o necessario. Perché, come ha chiarito a suo tempo Ruini ed è continuamente ripetuto in queste settimane, la Chiesa è interessata non ai comportamenti privati dei politici ma alle loro azioni politiche nei settori che le stanno a cuore.
Se non è chiaro chi e come vincerà, è chiaro chi perderà: noi cittadini. Perché la merce che i nostri governanti (e coloro che aspirano a sostituirli) sono disposti a scambiare in cambio della benevolenza della Chiesa è la nostra libertà non solo di opinione, ma di comportamento su questioni rilevanti per la nostra vita e per il senso che le attribuiamo: che tipo di coppia fare, se e quando fare figli e se accettare di portare a termine una gravidanza non desiderata, come essere curati e come essere accompagnati alla morte (ovvero lasciati andare) quando ogni cura non è più possibile. Lo scambio cui tutti questi attori si accingono non è solo l´importantissima libertà di stampa e di opinione. È il fondamento stesso di ogni diritto civile: l´habeas corpus e il diritto di poter dire e decidere su di sé.

Repubblica 7.9.09
Il nuovo Partito Mediale di Massa
di Ilvo Diamanti


Nell´era della mediocrazia avanza un soggetto politico nuovo. Anche se ha sembianze note e sembra quasi antico, visto che – nella versione originaria – è sorto insieme alla prima Repubblica. Eppure è cambiato profondamente, negli ultimi anni. In modo tanto rapido che neppure ce ne siamo accorti. Lo chiameremo Partito Mediale di Massa (PMM).
Perché è entrambe le cose. Allo stesso tempo mediale e di massa. Senza soluzione di continuità. Non ci troviamo di fronte a un modello, a un caso "esemplare". Perché non è riproducibile né tanto meno ripetibile. Anche se l´intreccio fra media e politica è divenuto stretto e quasi inestricabile. Dovunque. Nei partiti: la comunicazione ha preso il posto della partecipazione; il marketing quello delle ideologie; mentre le persone hanno rimpiazzato gli apparati. Così nel dibattito politico il privato è divenuto pubblico e viceversa. È una tendenza non solo italiana, ma che in Italia ha assunto modalità del tutto inedite, determinate, ovviamente, dalla posizione dominante di Silvio Berlusconi. Il premier di un paese ormai presidenzializzato, dove il potere presidenziale è largamente riassunto dal premier (mentre il Presidente svolge funzioni di garante). Leader unico e indiscusso del partito più forte, dal punto di vista elettorale e in Parlamento. Imprenditore e proprietario del più importante gruppo mediatico privato. Nessuna novità in tutto questo. Silvio Berlusconi, infatti, ha inventato 15 anni fa questo ibrido di successo. Un partito che miscela i linguaggi e l´organizzazione del mondo calcistico (gli azzurri, i club, lo stesso marchio: Forza Italia!) con la pubblicità e la televisione. Così è divenuto difficile distinguere le passioni politiche da quelle televisive. E viceversa.
Indagini condotte alcuni anni fa (da ultimo: Demos per la Repubblica, 2007) mostrano lo stretto rapporto di fiducia che legava gli elettori di centrodestra alle reti, ai programmi e ai conduttori di Mediaset; e, parallelamente, l´alto grado di credibilità riconosciuto dagli elettori di centrosinistra ai telegiornali, ai tele-giornalisti e alle reti Rai. Anche se la realtà non sopporta divisioni tanto schematiche. Visto che l´informazione del Tg5 di Mentana - forse - non era orientata più a destra rispetto a quella del Tg1 di Mimun. È, dunque, difficile distinguere fra politica, interessi e media quando si osserva Forza Italia. Ed è impossibile, quando si osserva Berlusconi, distinguere le scelte - e gli interessi - del leader politico da quelle dell´imprenditore. Argomenti noti, da tempo.
La novità degli ultimi anni è che il partito è divenuto, progressivamente, un "sistema". Forza Italia è divenuta Pdl, associando - o meglio: assorbendo - anche An. Per cui ha assunto la "misura" elettorale dei partiti di massa di un tempo. Anche l´impianto del voto sul territorio riproduce quello dei partiti di governo degli anni Ottanta: al declino della prima Repubblica. A differenza da allora, oggi l´ideologia, la cultura, l´organizzazione fanno tutt´uno con i media. Attraverso i quali il PMM offre alla società - trasformata in pubblico - linguaggio, modelli di valore, stili di vita. Una lettura della realtà. Anche perché - altra importante differenza dal passato recente - le distinzioni fra i network televisivi nazionali, ormai, si sono quasi dissolte. Dopo le elezioni del 2008, l´influenza dei partiti di governo - quindi del premier - sulla Rai è cresciuta. Il vero bipolarismo mediatico (come ha scritto Aldo Grasso) oggi oppone Mediaset e Sky. E la Rai sta con Mediaset, per cui possiamo parlare di MediaRai (marchio più adeguato di Raiset, visto il ruolo subalterno della Rai).
Il PMM costruito da Berlusconi si avvale anche dei giornali. Il linguaggio e gli argomenti politici della destra, negli ultimi anni, sono stati imposti soprattutto da Libero e da Vittorio Feltri. Il quale è tornato, da poco, a dirigere il Giornale. Non a caso. Perché il campo di battaglia dove si stanno svolgendo i conflitti politici più aspri e violenti coincide con il sistema dei media. Investe la scelta dei dirigenti, dei direttori e vicedirettori dei Tiggì e delle reti Rai. Senza dimenticare che i direttori dei maggiori quotidiani nazionali sono cambiati quasi tutti, nell´ultimo anno. D´altra parte, la costruzione della realtà sociale passa tutta dai media. La paura e la sicurezza. Agitate a tele-comando. Mentre i lavoratori licenziati, per conquistare visibilità, hanno una sola chance: realizzare azioni clamorose per andare in televisione. Mentre i terremoti e i rifiuti che sconvolgono il territorio diventano occasioni importanti per suscitare consenso o dissenso politico. L´informazione critica diventa, per questo, assai più pericolosa di qualsiasi partito. Anche la riserva indiana della terza Rete Rai crea insofferenza. Mentre il direttore di Avvenire diventa un bersaglio esemplare. Per comunicare al mondo (politico, mediatico, religioso) che nessuno può gettare ombre - seppure lievi - sul consenso e sulla credibilità sociale del PMM. E del suo leader. Nessuno è al sicuro. Neppure il direttore dei media della Cei. Figurarsi gli altri.
I tradizionali modelli del giornale di partito e del giornale-partito, che sentiamo evocare spesso - anche in questi giorni, con riferimento a Repubblica - appaiono semplicemente anacronistici. I giornali che appartengono ai partiti. Oppure, al contrario, la stampa d´opinione che esercita pressione su di essi, per indirizzarne le scelte. Sono fuori tempo. Comunque, non possono competere. Perché hanno un pubblico molto limitato rispetto alle tivù. E, senza le tivù a rilanciarli, i loro argomenti restano confinati al pubblico dei lettori fedeli. Il PMM, invece, è un sistema integrato. Al tempo stesso: partito, istituzione rappresentativa, impresa, giornale, tivù, media. Senza soluzione di continuità. Una sola, unica persona al comando. Di questa democrazia personalizzata. Di questo paese personale.

Corriere della Sera 7.9.09
Dopo gli attacchi all'informazione
Due o tre cose su premier e stampa
di Ernesto Galli Della Loggia


La legge deve essere di manica larghissima nel consentire alla stampa libertà di critica verso i politici
Decidere se qualunque persona è adatta o inadatta a guidare il governo non è compito dei giornali: è compito degli elettori

Se c’era bisogno di una prova dell’incapacità del presidente del Consiglio di gestire i conflitti, anche di natura personale, in cui si trova coinvolto egli l’ha data con la querela ai giornali nei giorni scorsi. Gestire i conflitti, intendo, nell’unico modo in cui un uomo politico può e deve farlo: vale a dire politicamente.
L’espressione «gestire politicamente» può significare tante cose: dal cercare di venire in qualche modo a patti con l’avversario, al pagare il prezzo che c’è da pagare, al rilanciare su altri piani con una forte iniziativa che imponga all’agenda politica di girare decisamente pagina, fi­no al fare finta di nulla. E invece, di fronte agli attac­chi personali che gli stan­no piovendo addosso da mesi, Berlusconi non ha fatto niente di tutto ciò. Anzi, con la querela alla Repubblica e all ’Unità ha aggiunto benzina al fuoco della polemica.
Perché? Perché egli non capisce l’importanza della suddetta gestione politica e/o non sa met­terla in opera, si può ri­spondere. Ma forse c’è una ragione più semplice (e in certo senso più sostanziale): perché non è nel suo carattere, e Berlu­sconi sa bene che è pro­prio nel suo carattere, nel suo spontaneo modo di muoversi, di parlare, di re­agire, che sta la ragione principale del suo succes­so come politico outsider. Un temperamento legge­ro e insieme pugnacissi­mo; e poi ottimista, sicu­ro e innamorato di sé co­me pochi e naturalmente disposto all’improntitudi­ne guascona, all’iniziativa audace e fuori del consue­to: questo è l’uomo Berlu­sconi, e questa ne è l’im­magine che ha conquista­to lo straordinario consen­so elettorale che sappia­mo. Perché mai un uomo così dovrebbe preoccupar­si di trovare una soluzio­ne politica ai conflitti che riguardano la sua perso­na? Che poi della sua ag­gressiva indifferenza pos­sano scapitarci le istituzio­ni non è cosa che possa fargli cambiare idea. Se una cosa è certa, infatti, è che il presidente del Con­siglio non è quello che si dice «un uomo delle isti­tuzioni ». È l’opposto, sem­mai: un uomo pubblico a suo modo «totus politi­cus », l’uomo della politi­ca democratica ridotta al suo dato più elementare, quello del risultato delle urne.
Ma c’è un altro aspetto della questione da consi­derare. Ed è che per gesti­re, e possibilmente chiu­dere, politicamente i con­flitti è essenziale una con­dizione: bisogna che il conflitto possa concluder­si alla fine con un compro­messo. Non pare proprio però che sia tale, che sia un conflitto «compromis­sibile», quello in cui è coinvolto da settimane Sil­vio Berlusconi. Un conflitto che è partito dall’accer­tamento di alcuni aspetti indubbiamente libertini della sua vita privata — a proposito dei quali voglia­mo ricordare che il Corrie­re è stato il primo a dare notizia dell’inchiesta di Bari nonché delle gesta dell’ormai purtroppo fa­mosa Patrizia D’Addario — ma che tuttavia è subi­to diventato motivo per decretare l’incompatibili­tà dello stesso Berlusconi rispetto al suo ruolo di presidente del Consiglio.
Chi dubiti che di questo si tratti, ricordi come suonano te­stualmente alcune delle famo­se domande che hanno con­dotto alla querela contro il giornale che le ha pubblicate: «Lei ritiene di poter adempie­re alle funzioni di presidente del Consiglio?», e ancora: «Quali sono le sue condizioni di salute?». Mi chiedo quale ri­sposta sensata, anche volen­do, si possa dare a domande del genere, le quali, come ognuno capisce, già in sé con­tengono l’unica possibile da parte dell’interessato («lo ri­tengo eccome», «sono sano come un pesce»). E le quali do­mande, dunque, non hanno va­lore se non come puro stru­mento retorico: per affermare in modo indiretto, ma precisis­simo, che Berlusconi, a moti­vo del suo stile di vita, non sa­rebbe adatto a fare il capo del governo.
Il che ci porta al punto più delicato: il rapporto tra la stam­pa e il potere, sul quale a pro­posito del caso Avvenire han­no già scritto ottimamente su queste colonne sia Massimo Franco che Sergio Romano. Personalmente sono convinto che la legge debba essere di manica larghissima nel consen­tire alla stampa un’amplissima libertà di critica nei confronti degli uomini politici, anche ai limiti della calunnia, come ac­cade per esempio negli Stati Uniti dove, per non incorrere nei rigori della legge, basta che anche chi scrive il falso non ne sia però espressamente consa­pevole. Da questo punto di vi­sta, dunque, l’iniziativa del pre­sidente del Consiglio, accom­pagnata per giunta dalla richie­sta di un risarcimento astrono­mico, è sbagliata e riprovevole: essa ha di fatto un innegabile contenuto di intimidazione censoria verso i giornali presi di mira.
Con la stessa sicurezza, pe­rò, si può dubitare fortemente che rientri tra i compiti della libera stampa l’organizzazione di interminabili, feroci campa­gne giornalistiche, non già per invocare — come sarebbe sa­crosanto — che i reati even­tualmente commessi dal presi­dente del Consiglio siano per­seguiti (dal momento che nel suo libertinismo di reati non sembra esservi almeno finora traccia), ma per chiedere di fat­to le sue dimissioni, adducen­do che egli sarebbe comunque, per il suo stile di vita, «inadatto» a ricoprire la carica che ricopre. In una democra­zia, fino a prova contraria, de­cidere se qualunque persona è adatta o inadatta a guidare il governo, non è compito dei giornali: è compito degli elet­tori e soltanto degli elettori. Anche se la loro decisione può non piacere.

Corriere della Sera 7.9.09
Nel centro del potere ecclesiastico i vescovi non contano e la guida si è trovata a essere ora un primo ministro, ora un vicepapa
Il peso della Segreteria di Stato e il lento cambiamento dei vertici
I nodi intricati della Curia romana tra passato e presente
di Alberto Melloni


Ratzinger ha affidato il governo politico a un amico leale, così ha dovuto rinunciare a veder salire verso di sé gravami non sempre inutili al Papa
Problemi e soluzioni maturano spesso fuori dal Palazzo, alla luce dei media. La Chiesa non ha interessi che una politica possa far suoi per rivendicare privilegi

L’ attacco alla Chiesa cattolica e all’episco­pato italiano ha prodotto una confusio­ne forse perfino superiore a quella che ci si riprometteva. Può darsi che a suo tempo arri­vi una parola di fede, di ravvedimento, di con­solazione alla quale il clero e il popolo avreb­bero diritto. Per ora, invece, l’analisi è fatta di altro: e, nonostante le smentite, molti sento­no nella discrasia fra la volontà della Segrete­ria di Stato e quella dell’episcopato le premes­se delle recenti vicende. C’è chi vede nella competizione fra cordate e carriere la causa di questi mali; c’è chi richiama il peso dei Sosti­tuti, degli ex Sostituti e di una diplomazia vati­cana diventata marginale nel campo suo; e al­tri ancora indicano nella figura del Segretario di Stato, il cardinal Bertone, colui al quale si devono sia le svolte sia il loro costo. Si tratta di analisi volta a volta rispettose, banalmente dietrologiche o palesemente malevole.
Ma sarebbe grave se tutto si riducesse a una poltiglia di sussurri e maldicenze, a una personalizzazione dei problemi rinunciando a cogliere lo spessore istituzionale della que­stione che riguarda il governo centrale della Chiesa cattolica. Nata nel 1588 dal genio di Si­sto V, la Curia romana è stata il modello di una organizzazione specialistica e coerente del potere: riformata varie volte dopo il 1870, essa è ora come la sognò Papa Montini: cioè un governo politico, reclutato su scala inter­nazionale, dove i vescovi non contano, a me­no che non vengano chiamati a Roma come capi-dicastero. Declassato l’ex Sant’Ufficio, il Segretario di Stato s’è trovato ad essere ora un primo ministro di questo governo, ora un vicepapa, circondato però da porporati che sono nel loro ambito (la nomina dei vescovi, la prassi liturgica, la politica dottrinale, ecc.) primi ministri e vicepapi. Accanto ci sono le rappresentanze pontificie, le relazioni roma­ne, le conferenze episcopali.
In questo incrocio nascono nodi che da più di settant’anni sono assai intricati. Pio XII li tagliò lasciando vacante per tredici anni il ruolo di Segretario di Stato. Sia Roncalli con Tardini, sia Wojtyla con Casaroli e Sodano, scelsero un braccio destro ai propri antipodi culturali. Paolo VI immaginò di risolverlo consegnando ai successori una possibilità — rinominare tutti i capi di Curia — che nessu­no ha mai usato. Benedetto XVI ha risolto il problema nominando a capo di questa mac­china il cardinal Bertone, canonista di rango, vescovo di una grande diocesi e soprattutto un amico leale di lunga data del Pontefice; col che ha però dovuto rinunciare a veder sali­re verso di sé gravami non sempre inutili al Papa. Per questo i problemi e le soluzioni maturano così spesso fuori dal Palazzo, alla luce accecante dei media.
Nella macchina di governo che fa capo al Segretario di Stato si producono a ritmo con­tinuo lenti avvicendamenti: il cardinale che aveva gestito l’ affaire delle scomuniche è an­dato in pensione, uomini chiave della politi­ca cinese e italiana partono da Roma come nunzi; in capo a pochi anni si dovrà nomina­re chi farà l’ecumenismo cattolico e colui che sceglierà i vescovi della Chiesa latina di doma­ni. In questo lento movimento le spiegazioni personalistiche, politiciste o moraliste sono sempre sbagliate, per difetto.
La Chiesa cattolica rischia niente se il suo popolo o i suoi vertici si spostano politica­mente verso un punto da cui, presto o tardi emigreranno. Non ha interessi che una politi­ca — nemmeno una biopolitica — possa far suoi per rivendicare privilegi. Le interessa rendere il Vangelo vicino ad ogni uomo fatto di quella carne assunta e sanata dal Verbo di­vino. Governare questo (dis)interesse non è facile. Criticando la riforma della Curia del 1988 Eugenio Corecco, il grande canonista di Communio, aveva sentenziato con durezza che era stata fatta «senz’anima ecclesiologi­ca». La questione è ancora quella ed è tutta aperta.

Corriere della Sera 7.9.09
Biotestamento e medici Martini riapre il confronto
Patti: volontà del paziente decisiva. D’Agostino: troppi rischi
di Gianna Fregonara


ROMA — «Forse è tempo di fermarsi un po’ a pensare, prima di riprendere la discussione sul testamento biologico». Il cardinal Martini che fa la recensione del­l’ultimo saggio di Ignazio Marino, deputa­to pd e autore di una delle proposte di leg­ge sul fine vita più indigeste per la Chiesa, ha un primo effetto collaterale non irrile­vante: mette d’accordo in pochi minuti due punti di vista molto lontani, quello del teodem Enzo Carra (Pd) e dell’ideolo­go del pensiero laico di Gianfranco Fini, Alessandro Campi. Non solo, permette an­che ad un radicale come Marco Cappato di intravvedere «nei dubbi di Martini, un’impostazione liberale che indica come non vi possa essere una soluzione unica per ogni situazione».
Il cardinal Martini che mette qualche punto interrogativo tra la vita e la morte, che parla di collegare, nel momento estre­mo, «la forza della medicina e il sapiente e prudente giudizio della persona», che si interroga sulla «vita vegetativa», su quali sono i mezzi «straordinari» e quelli «ordi­nari » di cura, sui «casi estremi» e di quan­do «è dovere del medico non accanirsi e sapersi fermare, se non c’è più nulla da fa­re, anche se questo provoca frustrazioni e sconforto».
Le idee dell’ex arcivescovo di Milano so­no note e l’abitudine al dialogo con i laici e con Marino stesso non sono una novità: qualche anno fa fece molto discutere un confronto sulla bioetica, proprio tra loro due. Ma le sue parole, pubblicate sul Cor­riere di ieri, bastano a riaprire un confron­to, che prima che politico e parlamentare, è etico e filosofico.
«Ho trovato le sue parole equilibrate e intelligenti: l’idea che l’espressione della volontà della persona nel testamento bio­logico limiti la discrezionalità del medico è fondamentale — spiega un esperto co­me Salvatore Patti, professore di diritto privato all'Università La Sapienza di Ro­ma e membro del comitato scienza e dirit­to della Fondazione Veronesi —. Come è interessante la riflessione sui mezzi 'ordi­nari' e 'straordinari', poiché se nel no­stro ordinamento è un diritto per una persona cosciente rifiuta­re anche le cure ordinarie, con il testamento deve potersi decidere di dire no a interventi che serva­no solo a mantenere in vita senza prospettive di miglioramento».
Per Patti, che invita a guardare alla legge tedesca sul testamento biolo­gico appena approvata, le parole di Martini e il suo dare un’importanza pari a giudizio medico e volontà del malato indicano una strada che «po­trebbe permettere all’Italia di non ri­manere isolata nel panorama euro­peo » e alla Chiesa di trovare una via d’uscita per singoli e particolari casi come quello di Eluana.
Non la pensa così Francesco D’Agosti­no, ex presidente del Comitato nazionale di bioetica e membro della Pontificia acca­demia per la vita, che non vede «in Marti­ni come in molti altri che se ne occupano, l’adeguata consapevolezza bioetica di chi ha studiato da dentro questi problemi». Teme D’Agostino che l’idea del testamen­to biologico possa venire manipolata e falsificata. E per questo poche «battute an­che se pensose» non servono a semplifica­re un tema che rischia invece di essere svi­lito a «burocratizzazione la morte»: «Il ma­lato si rimette al medico, è un soggetto de­bole che si affida alle parole e alla scienza di chi lo cura. Dire che il medico è il mi­gliore interprete della volontà del malato è un falso di comodo, perché spesso il pa­ziente lo ha appena incontrato. Solo in po­chi casi di malati non in difficoltà si può avallare il testamento biologico che non può essere vincolante per i medici perché è una follia prevedere oggi il proprio do­mani e legare le mani al medico».
A trovare poco convincenti le argomen­tazioni di Martini è anche Eugenia Roccel­la, sottosegretario al Welfare, impegnata in prima linea sui temi della vita e della famiglia: «Mi colpisce soprattutto questa dualità corpo/mente, che pensavo fosse superata, l’idea che la parola cosciente val­ga più della vita incosciente. Non è vero che nelle situazioni di incoscienza non vi sia una relazione con gli altri». Per Roccel­la le parole del cardinale non fanno intrav­vedere spazi di modifica della legge appro­vata dal Senato, anzi: «Riconoscere, come fa Martini, che siamo affidati, nella malat­tia come in altre situazioni, nelle mani de­gli altri e dei medici, significa che ci deve essere un limite all'autodeterminazione che dunque non può essere vincolante».
Pensa invece che questo dibattito alla fine possa dar spazio ad una «Terza Via» l’ex ministra pd Livia Turco: «Questa idea di affidarsi alle mani del medico ma di avere una parte del proprio destino nelle proprie mani dimostra che la contrapposi­zione tra i due moloch fatta in Senato tra volontà del paziente e decisione del medi­co va invece rovesciata: sono le due parti di una relazione, i due principi devono sta­re insieme».
«Purtroppo — allarga le braccia Ales­sandro Campi — si sa che la discussione su un tema così importante è partita, sba­gliando, sull’onda dell’emozione del ca­so Englaro. Ma non si può non dire che è diventata merce di scambio con la Chie­sa e questo soffoca qualsiasi dibattito». Dibattito che sicuramente Martini po­trebbe riaprire, «sempre che — continua Campi — essendo intervenuto a favore di uno dei candidati nelle primarie del Pd non lo liquidino come il 'solito catto­comunista', un problema serio: e cioè quello di chiedersi se in un campo che richiede rigore medico ad una scienza senza certezze e una pietas che fa di ogni caso un unicum, non si debba interrogar­si se invece di una legge rigida non sia meglio lasciare quella zona grigia che molte circostanze consiglierebbero».

Corriere della Sera 7.9.09
La disputa su lingue e dialetti ripropone il tema delle patrie molteplici
L’identità è una matrioska: somma di incontri e storie
Il senso di appartenenza e il dialogo con le diversità Vivere le radici è l’opposto del localismo folcloristico
di Claudio Magris


L’anarchia spirituale, come il matrimonio all’interno dello stesso gruppo sociale, produce malformazioni fisiche e culturali

Le dispute agosta­ne sui dialetti e gli inni nazionali o locali possono essere tutte sfatate da una lapidaria riflessione di Raf­faele La Capria sulla diffe­renza tra essere napoletani e fare i napole­tani.
Essere napoletani — o milanesi, trie­stini, lucani — significa sentirsi spontanea­mente legati al luogo natio in cui ci si è ri­velato il mondo, amare i suoi colori e sapo­ri che hanno segnato la nostra infanzia, parlare il suo linguaggio — lo si chiami o no dialetto — indissolubilmente legato al­la fisicità delle cose che ci circondano e al­la loro musica; pastrocio , per me triestino, non sarà mai la stessa cosa del suo equiva­lente «pasticcio».
Fare i napoletani o i lombardi falsifica questa spontanea autenticità in un’artifi­ciosa e pacchiana ideologia, aver bisogno di farsi fotografare sullo sfondo del Vesu­vio o di inventarsi antenati celti, indossare qualche pittoresco e patetico costume fol­cloristico per mascherare l’insicurezza del­la propria identità. Chi sproloquia sui dia­letti contrapponendoli all’italiano inquina la loro naturalezza, degrada la loro poesia a posa.
Il dialetto è una peculiarità fondamenta­le e ben lo sa chi, come me, lo parla corren­temente ogni giorno a proposito di qualsia­si argomento, ma spontaneamente, non per rivendicare qualche stupida identità gelosamente chiusa, pronta ad alzare il ponte levatoio per difendere la propria sbandierata purezza. L’autarchia spiritua­le, come l’endogamia, produce malforma­zioni fisiche e culturali. La diversità è crea­tiva solo quando, nell’affettuoso riconosci­mento di se stessa, si apre al riconoscimen­to e all’amore di altre diversità, egualmen­te necessarie al mosaico del mondo e alla varietà della vita. La verità umana è nella relazione, in cui ognuno cresce e si trasfor­ma senza snaturarsi, ha scritto Édouard Glissant, esortando a non sprofondare le radici nel buio atavico delle origini bensì ad allargarle in superficie, come rami che si protendono verso altri rami o mani che si tendono per stringerne altre.
Per parafrasare un celebre detto di Dan­te, l’amore per l’Arno — ossia per il luogo natale — e quello per il mare, patria uni­versale, sono complementari. Il rullo com­pressore dei nazionalismi centralisti che ha spesso schiacciato le peculiarità e le au­tonomie locali è inaccettabile, ma lo è al­trettanto il rullo compressore dei microna­zionalismi locali, pronti a schiacciare le mi­noranze ancor più piccole viventi al loro in­terno. L’ipotesi del friulano quale lingua scolastica ufficiale aveva messo subito in allarme, a suo tempo, la minoranza bisiaca parlante bisiaco (peraltro non troppo dissi­mile) che vive nel Friuli-Venezia Giulia.
Una distinzione fra lingua e dialetto è scientificamente insostenibile; sappiamo benissimo, ad esempio, che il friulano ha una sua compiuta organicità, strutturale e storica. Non so se ciò renda necessario in­segnare l’inglese o la fisica in friulano e non credo che per questo i miei avi, i miei nonni e mio padre, friulani, mi considere­rebbero un rinnegato. Diversi sistemi lin­guistici hanno diverse possibilità, egual­mente importanti ma appunto differenti. Una delle più universali liriche che io ab­bia mai letto — l’ho riportata tempo fa sul «Corriere» — è una poesia di dolore per la morte di un bambino, creata da un ignoto poeta Piaroa, un gruppo di indios dell’Ori­noco che quarant’anni fa erano soltanto tremila e forse — non lo so — oggi sono estinti.
Quella poesia è degna di Saffo (che pe­raltro scriveva in dialetto eolico) o di Saba; non credo tuttavia che in lingua Piaroa si possano scrivere La critica della ragion pu­ra, le Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni o la Comme­dia.
Ciò non significa negarle universalità, bensì prender atto di diverse possibilità e modalità di esprimerla. Herder, lo scritto­re tedesco contemporaneo di Goethe, scor­geva in Omero e nella Bibbia la creatività aurorale e perenne della poesia, ma la tro­vava pure nell’anonima canzone popolare lettone ascoltata alla festa del solstizio d’estate.
Ogni luogo — come dice Alce Nero, guerriero Sioux e grande scrittore analfa­beta — può essere il centro del mondo, piccolo o grande esso sia, molti o pochi sia­no i suoi abitanti — come i Sorbi che sono andato a visitare in Lusazia, i Cici o istroro­meni che secondo l’ultimo censimento era­no 822, un popolo a un terzo del quale ho stretto la mano, o gli abitanti di Wyimy­sau, un paesino in Polonia, che parlano una lingua unicamente loro. L’elenco po­trebbe continuare a lungo, anche se di con­tinuo muore qualche lingua, soggetta co­me gli uomini alla caducità. Ma il piccolo non è bello in quanto tale, come vuole un retorico slogan; lo è se rappresenta e fa sentire il grande, se è una finestra aperta sul mondo, un cortile di casa in cui i bam­bini giocando si aprono alla vita e all’avven­tura di tutti.
L’identità autentica assomiglia alle Ma­trioske, ognuna delle quali contiene un’al­tra e s’inserisce a sua volta in un’altra più grande. Essere emiliani ha senso solo se im­plica essere e sentirsi italiani, il che vuol di­re essere e sentirsi pure europei. La nostra identità è contemporaneamente regionale, nazionale — senza contare tutte le vitali mescolanze che sparigliano ogni rigido gio­co — ed europea; del nostro Dna culturale fanno parte Manzoni come Cervantes,
Shakespeare o Kafka o come Noventa, gran­de poeta classico che scrive in veneto. È una realtà europea, occidentale, che a sua volta si apre all’universale cultura umana, foglia o ramo di quel grande, unico e varie­gato albero che era per Herder l’umanità.
I tromboni del localismo non possono capire la poesia, la potenziale universalità del dialetto. Sviluppando un’intuizione di Croce, Marin, notevolissimo poeta in gra­dese, distingueva «poesia in dialetto» e «poesia dialettale». La prima è semplice­mente poesia tout court , che può essere an­che grandissima esprimendosi nella lin­gua che le è congeniale, il veneziano di Gol­doni o il viennese di Nestroy. La seconda è priva di universalità, è legata all’immedia­tezza vernacola e viscerale della peculiarità locale e incapace di toccare il cuore di chi non partecipa di quella peculiarità. Pure es­sa può essere molto simpatica nella sua co­lorita vitalità, ma non è poesia. Peraltro pu­re questa sua vitalità viene profanata dai cultori del geloso localismo, che senza vo­lerlo la ridicolizzano nelle loro pretese di purezza originaria, come l’acqua del Po ver­sata nel Po, non consigliabile da bersi.
C’è e c’è stata una sacrosanta rivendica­zione del dialetto quale espressione di clas­si subalterne e sfruttate, tenute a lungo lontane dalla cultura nazionale dominante e per tale ragione iniquamente disprezzate da chi le aveva ridotte in tale condizione. C’è, fra le tante, un’incisiva testimonianza di Guido Miglia, lo scrittore istriano scom­parso non molto tempo fa, che visse la drammatica esperienza dell’esodo dalla sua terra, alla fine della seconda guerra mondiale, da italiano che amava il suo pae­se senza indulgere ad alcun pregiudizio an­tislavo. Miglia ricorda come, quando inse­gnava nell’interno dell’Istria, ci fosse fra i suoi scolari uno che sapeva dire soltanto pasculat , perché portava le greggi al pasco­lo, ed era perciò tagliato fuori dall’istruzio­ne scolastica.
Come ha capito don Milani a Barbiana, agendo in conseguenza, anche chi sa espri­mersi solo con il linguaggio del suo ele­mentare vissuto quotidiano si esprime fon­dandosi su un’esperienza reale e può dun­que possedere una reale ancorché sempli­ce cultura, capace di unire con istintiva co­erenza la propria vita, la propria visione del mondo e i propri giudizi sul mondo. Tale cultura, anche se poco autoconsapevo­le ma vissuta con tutta la propria persona, può essere più profonda di quella più sofi­sticata ma orecchiata senza essere fatta ve­ramente propria. Una pretesa cultura «al­ta » che ricacci brutalmente in basso quelle linfe — da cui nasce ogni cosa e da cui è nata quindi anch’essa — è ottusamente prevaricatrice, e lo è pure un’egemone cul­tura centralista che comprima le diversità locali che hanno contribuito e contribui­scono a formarla, così come — Dante inse­gna — i diversi volgari d’Italia hanno co­struito il volgare italiano. Reprimere que­sti vitali processi è non solo ingiusto, ma anche autolesionista.
Il ragazzino inizialmente capace di dire soltanto pasculat dev’essere compreso nel­le ragioni storico-sociali che lo hanno emarginato e aiutato a riconoscere se stes­so e a conservare in sé le linfe elementari di quel pasculat . Ma, come Gramsci inse­gna, egli va soprattutto aiutato a innestare quelle linfe in una realtà intellettuale più ampia, aiutato a capire il mondo e la pro­pria stessa arretratezza e dunque a combat­tere questa ultima. Chi vagheggia culture «alternative«, dialettali o altre, favorisce la discriminazione sociale e ostacola il cam­mino di chi vuol emergere dal buio. Il dia­letto non può essere usato regressivamen­te in opposizione alla lingua nazionale. Gramsci auspicava che il «popolo» si riap­propriasse della cultura alta e magari del latino, che aiuta a capire la complessità del mondo e a non lasciarsi fregare. Ma il dia­letto che esprime la sanguigna resistenza quotidiana al potere è l’opposto del folclo­re dialettale ostentato e compiaciuto, ser­vo e strumento del potere e talora crassa espressione di potere. Chi fa il napoletano è il peggior nemico dei napoletani.

Liberazione 5.9.09
Ora si usa quell'intesa per confermare l'equivalenza tra nazismo e comunismo
Patto Ribbentrop-Molotov. le colpe dell'Europa
di Alberto Burgio


Non c'è da stupirsi se la commemorazione dell'inizio della seconda guerra mondiale, scoppiata settant'anni fa con l'aggressione nazista della Polonia, abbia suscitato polemiche e riaperto discussioni mai sopite sulle responsabilità del conflitto. Molta acqua è passata sotto i ponti in questi decenni. Molti Stati protagonisti di quello scenario non esistono più o hanno subito radicali trasformazioni. Ma il rimpallo delle responsabilità conserva un valore politico aggiunto, è un'arma sempre attuale a scopi propagandistici.
Naturalmente, in questa infinita querelle il patto di non aggressione siglato tra i ministri degli Esteri tedesco e sovietico una settimana prima dell'inizio della guerra occupa da sempre una posizione di eccellenza. Troppo appetitosa la notizia di una intesa tra nazisti e comunisti. Troppo invitante la vicenda dell'aggressione convergente ai danni della Polonia (invasa sul confine orientale dall'Armata Rossa il 17 settembre 1939). Sin troppo agevole la deduzione che tra Hitler e Stalin l'accordo era spontaneo, trattandosi di due incarnazioni del "totalitarismo". Ovvio, quindi, che martedì scorso a Westerplatte, vicino Danzica, lo "scellerato patto" sia stato nuovamente tirato in ballo come un incontrovertibile capo d'accusa contro l'Urss. Allora è forse il caso di ricordare qualcosa che troppo spesso, anche "a sinistra", si dimentica.
Il patto Ribbentrop-Molotov venne siglato il 23 agosto 1939, alla vigilia dell'invasione nazista della Polonia, dopo ripetuti tentativi sovietici di stipulare accordi di mutua difesa con la Francia e l'Inghilterra. Ancora il 18 aprile 1939 Stalin aveva proposto a Parigi e Londra un patto di reciproca sicurezza che prevedeva l'assistenza militare automatica ai Paesi dell'Europa orientale in caso di aggressione tedesca. Ma l'anticomunismo viscerale del premier inglese (e la tacita speranza che Hitler sfondasse a est, riuscendo nella benemerita impresa di liberare l'Europa dalla minaccia bolscevica) impedì qualsiasi intesa tra Mosca, Londra e Parigi.
I negoziati anglo-sovietici si protrassero stancamente sino all'estate e non approdarono a nulla per il rifiuto di Chamberlain di fornire a Stalin qualsiasi garanzia automatica e reciproca. Era sempre più evidente che si stava ripetendo il film del '36, col fallito accordo franco-sovietico e il non intervento degli alleati in Spagna. O la tragica commedia del '38, il Patto di Monaco con il quale la Francia e l'Inghilterra avevano autorizzato lo smembramento della Cecoslovacchia, nell'illusione di placare gli appetiti di Hitler e - ancora una volta - di incanalarne l'aggressività verso oriente.
In tale situazione il patto quinquennale di non-aggressione tra Berlino e Mosca si rese indispensabile per prevenire (differire) l'attacco nazista contro l'Urss, che costituisce un punto fermo sin nei primi piani di espansione di Hitler, nei quali lo "spazio vitale" della Germania nazista va dal Baltico al Mar Nero. Non si dimentichi che la gerarchia "razziale" nazista colloca i popoli slavi tra gli Untermenschen, e che nell'antisemitismo politico dei nazisti l'Unione sovietica è la patria del "giudeobolscevismo" (ragion per cui la "soluzione finale" avrebbe dovuto coinvolgere anche i cosiddetti «soldati asiatici dell'Armata Rossa»). Si consideri altresì che l'Urss non doveva difendersi soltanto dalla minaccia nazista, ma anche da quella giapponese. Nel '38 il Giappone aveva attaccato la Manciuria e le sue truppe avevano sconfinato in territorio sovietico, nella regione di Vladivostok. E ancora nell'estate del '39 tentavano di sfondare lungo il confine orientale della Repubblica popolare di Mongolia.
Si aggiunga, infine, un piccolo particolare. Fu lo "scellerato patto" Ribbentrop-Molotov a permettere all'Unione sovietica di dotarsi della potenza militare che le consentì di rompere l'assedio di Stalingrado e di rovesciare le sorti del conflitto mondiale a favore della coalizione antifascista. E' dunque proprio a questo accordo che si deve la sconfitta dell'Asse, l'infrangersi del progetto di un Nuovo ordine mondiale fondato sul dominio dei Signori della Terra e sullo sterminio o la schiavitù delle "razze inferiori".
Tutto ciò non cancella le responsabilità sovietiche nell'invasione della Polonia. Ma anche su questo aspetto andrebbe fatta chiarezza. Diversamente da quanto si suole ribadire, il patto Ribbentrop-Molotov non comprendeva alcun accordo spartitorio a danno della Polonia, ma soltanto la delimitazione di "aree di sicurezza" nei territori di confine. Se l'Armata Rossa invase la Polonia oltre due settimane dopo l'attacco tedesco, ciò discese da considerazioni di carattere strategico. I generali sovietici chiedevano l'estensione verso ovest del perimetro strategico della Russia in funzione difensiva. Ed è difficile dar loro torto, considerata l'inerzia di Francia e Inghilterra dopo l'attacco tedesco, e il concreto rischio di un Blitzkrieg che avrebbe rapidamente portato la Wehrmacht sino al confine sovietico.
Di tutto ciò è necessario conservare memoria, consapevolezza e indipendenza di giudizio. Soprattutto oggi, dato il dominio pressoché incontrastato del revisionismo storico. Pena l'accoglimento della "storiografia dei vincitori", tesa non solo a mettere Stalin sullo stesso piano di Hitler, ma anche a cancellare le pesanti responsabilità delle "democrazie occidentali" e del grande capitale finanziario americano nella ascesa di Hitler al potere e nella lunga fase di incubazione della Seconda guerra mondiale.

Repubblica 7.9.09
Così una bella donna manda in tilt il cervello di un uomo
Ecco il perché di rossori e imbarazzi
Gran parte delle risorse cognitive impiegate per impressionare e piacere
di Enrico Franceschini


LONDRA - Se in presenza di una bella donna vi capita di balbettare, confondervi, dimenticare cosa stavate facendo o dove stavate andando, consolatevi: non siete i soli. E, per di più, è madre natura che ha programmato noi uomini in maniera da comportarci in questo modo.
Una ricerca pubblicata in Gran Bretagna conferma infatti il vecchio luogo comune secondo cui il maschio, davanti alla bellezza femminile, perde la testa. Ebbene, sembra proprio così: basta un incontro fugace con una donna attraente e il cervello maschile smette di funzionare, perde colpi, non fa più il suo mestiere. "La donna più sciocca può manovrare a suo piacimento un uomo intelligente", diceva Kipling: se poi è carina, non c´è genio che possa resisterle.
"Il sex appeal fa andare l´uomo giù di testa" è il titolo con cui il quotidiano Daily Telegraph di Londra riassume la ricerca, apparsa sull´autorevole Journal of Experimental and Social Psychology. Si tratta di uno studio condotto da psicologi della Radbouds University, in Olanda, che hanno sottoposto a una serie di test un campione di studenti maschi eterosessuali.
A tutti è stato chiesto per esempio di ricordare una successione di lettere dell´alfabeto. Quindi ciascuno degli studenti ha trascorso sette minuti in compagnia di una donna attraente. Poi il test è stato ripetuto. La seconda volta, tutti gli studenti hanno ottenuto risultati decisamente peggiori della prima.
Gli studiosi pensano che la ragione sia questa: quando incontrano una donna che a loro piace, gli uomini usano istintivamente gran parte delle loro funzioni cerebrali, ossia delle risorse cognitive, per fare buona impressione su di lei, insomma per far colpo, e nel cervello rimangono dunque scarse risorse per altre funzioni.
Gli psicologi olandesi hanno avuto l´idea di condurre un simile esperimento quando uno di loro si è accorto che, dopo aver avuto una conversazione con una donna che lo aveva colpito per la sua bellezza e che non aveva mai incontrato prima, lui non riusciva a ricordare l´indirizzo di casa propria, in risposta a una domanda della sua interlocutrice per sapere dove vivesse. Il professor George Fieldman, membro della British Psychological Society, commenta sul Telegraph che i risultati riflettono il fatto che gli uomini sono programmati dall´evoluzione per pensare a come trasmettere i propri geni. «Quando un uomo incontra una donna», afferma lo studioso, «è concentrato sulla riproduzione. Ma una donna cerca anche altri attributi, come la gentilezza, la sincerità, la stabilità economica».
E in effetti la ricerca suggerisce che le donne non perdono la testa allo stesso modo, quando incontrano un uomo bello e affascinante.
Il test, secondo gli esperti, potrà essere utile per valutare le prestazioni di uomini che flirtano con le colleghe sul posto di lavoro o i risultati accademici nelle scuole miste. Senza contare che d´ora in poi l´uomo avrà una scusa in più, se si rende ridicolo di fronte a una bella donna: potrà sempre dare la colpa ai cavernicoli nostri antenati e all´evoluzione delle specie.

Repubblica 7.9.09
La sessuologa Chiara Simonelli e i segreti dell´attrazione fra i sessi
"Ma noi siamo molto diverse sull´amore uno sguardo globale"
I maschi sono riluttanti a innamorarsi, il problema della dipendenza li spaventa
di m.c.


ROMA - Chiara Simonelli, sessuologa, cosa pensa della ricerca, trova riscontro nell´esperienza quotidiana?
«Sicuramente ha una sua validità, conferma dei meccanismi che sono alla base dell´attrazione tra uomini e donne, meccanismi che hanno un correlato biologico e una loro contestualizzazione storica. Ci sono voluti milioni di anni per lo sviluppo della corteccia cerebrale e per la costituzione di certe strutture».
Dalla ricerca risulta che gli uomini sono più sensibili ad una donna attraente, tendono a perdere la testa.
«Gli uomini sono sensibili alla fase dell´attrazione primaria, della conquista, è un po´ vero quando si dice che pensano sempre "lì". È anche vero che è una reazione legata alla riproduzione, come è vero che gli uomini sono riluttanti ad innamorarsi, perché "dopo", quando s´instaura il rapporto, scatta il problema della dipendenza, una cosa che li spaventa, subentra il momento di fare coppia che agli uomini non è gradito perché lo vivono come una limitazione».
E per le donne?
«Le donne hanno uno sguardo più globale, meno parziale e s´innamorano anche quando non s´innamorano perché non hanno paura della dipendenza, è costitutiva della costruzione dell´identità femminile così come l´accudimento, mentre per l´uomo l´accudimento vuol dire anche essere espropriato. Se ci pensa il vero eroe è solo, è il conquistatore solitario».
Sembrano vecchi archetipi.
«Eppure sepolti dentro di noi resistono».

Liberazione 6.9.09
Maschio ci nasci o ci diventi?
Ettore Lante intervista Luigi Zoja psicanalista e presidente dell'associazione analisti junghiani


Top secret. L'identità maschile rimane un sancta sanctorum . Un luogo inaccessibile allo sguardo. E' il caro prezzo pagato in cambio dell'abitudine a pensarsi - consapevolmente o meno - il detentore naturale del potere, nella sfera privata della famiglia come in quella pubblica. Ancora oggi si pensa che l'identità maschile sia soltanto una somma di predisposizioni biologiche, di muscoli e corteccia cerebrale. Che, insomma, maschio si nasce e non lo si diventa. E, invece, chissà, si potrebbe scoprire che il maschile è una costruzione storica e magari neppure tanto solida. Anzi. Maschio si diventa, e a prezzo di operazioni culturali sempre precarie, di scelte più o meno sotterranee tra modelli, riferimenti e archetipi che mal s'accordano tra loro. Per esempio, tra i due principi contrapposti di animalità e civiltà. Che il maschio umano diventi un animale capace di socialità solo attraverso un faticoso processo culturale lo sostiene Luigi Zoja, psicanalista e presidente dell'associazione che raggruppa tutti gli analisti junghiani (Iaap), oltre che del Centro italiano di psicologia analitica. La coesistenza tra la polarità animale e la capacità di convivere con gli altri in società è cosa complicata da ottenere. Un tema classico della psicanalisi da Freud in poi. Luigi Zoja se n'è occupato in saggi recenti, Contro Ismene. Considerazioni sulla violenza (Bollati Boringhieri) e La morte del prossimo (Einaudi), ma è soprattutto ne Il gesto di Ettore (uscito sempre per Bollati nel 2000) che ha messo a fuoco l'identità maschile come il terreno di lotta tra principi contrapposti. Lì era appunto la scomparsa del padre, il rifiuto della figura paterna nel suo significato più positivo di educatore alla civiltà, a spiegare il senso di un fallimento epocale, di una regressione del maschio al polo opposto dell'animalità bestiale. Come nella figura mitologica dei Centauri - tema di una relazione che Luigi Zoja ha tenuto venerdì scorso al Festival della mente di Sarzana (fino ad oggi) - riemerge nel maschio contemporaneo il polo rimosso dell'animale fecondatore, incapace di amare e di rapportarsi all'altro e, per ciò stesso, incline alla patologia dello stupro.
Il modello che in questa società riscuote più successo è quello del maschio che compete per conquistare l'oggetto del desiderio prima degli altri rivali. L'esito estremo di questa cultura è lo stupro. Perché è fallito l'altro modello, quello del padre educatore alla convivenza civile?
Questo sarebbe l'altro aspetto di un lavoro sull'identità maschile. A differenza dell'identità femminile in cui la "femmina" e la "madre", le due dimensioni orizzontale e verticale, coesistono da sempre, perché coesistono nella scala evolutiva in tutti gli animali man mano che ci si avvicina agli esseri umani e continuano a coesistere in tutte le civiltà primitive, moderne e postmoderne, quella maschile subisce invece degli sbalzi notevoli. Fondamentalmente la parte paterna comincia con la cultura. Gli animali più vicini a noi non hanno dei veri ruoli paterni, hanno soltanto il maschio che compete per le femmine, si accoppia e non riconosce i propri figli, non se ne occupa. Il padre è un'invenzione culturale. Il patriarcato è fragile, anche dal punto di vista psicologico, proprio perché è una costruzione storica. Nell'identità maschile le due polarità, "maschio competitivo animale" e "padre", non sono ben sintetizzate poiché la figura paterna compare nella scala evolutiva solo in tempi "recenti", nelle ultime centinaia di migliaia di anni. Non è una cosa consolidata da sempre attraverso tutti i passaggi dell'evoluzione come quella femminile. Il padre è un ruolo molto relativo alla cultura. Il patriarcato è stato uno dei punti di forza e, insieme, di debolezza dell'Occidente. Secondo me tutta la questione del patriarcato è una questione di decadenza. Nel Gesto di Ettore criticavo i men studies americani che parlavano tutti della crisi del padre e del patriarcato ma facendola risalire al XX secolo. Io cercavo di notare che già la rivoluzione francese, punto di arrivo dell'Illuminismo, proclama il motto liberté egalité fraternità . Il legame più importante fra gli esseri umani è orizzontale, quello dei fratelli si sostituisce, almeno nelle classi colte, come principio guida a quello del patriarcato. La rivoluzione francese nei fatti comincia a limitare il potere del padre. Fino ad allora la responsabilità dell'educazione ricadeva sotto l'autorità del pater familias . Dalla rivoluzione francese in avanti viene spostata invece sullo Stato.
La crisi del padre ha creato un vuoto nell'identità maschile. Non sarà per questo che l'identità maschile si è sbilanciata verso l'altro modello, verso l'animale competitore?
Nel mio intervento al Festival della mente mi sono soffermato appunto sull'altra polarità maschile, quella animale e selvaggia. Cerco di mettere a fuoco il profilo del maschio aggressivo e violentatore. L'idea mi è venuta osservando al Louvre le figure di Centauri che rapivano le donne. Mi sono incuriosito. La figura mitologica del Centauro non ha compagne, l'unica cosa che fa è rapire le donne. Mi sembrava una metafora mitica di quel che può succedere quando il padre se ne va. Oggi siamo in una situazione del genere. La scomparsa del padre non è avvenuta soltanto al livello delle istituzioni e dello Stato, ma purtroppo anche al livello dell'uomo della strada, delle classi medie e della cultura consumistica. Se dovessimo indagare come è cambiata, ad esempio, la comunicazione dei giovani detenuti nelle carceri, scopriremmo che fino a venticinque anni fa parlavano tutti della ragazza e mostravano sentimenti di nostalgia. Oggi parlano soprattutto della motocicletta e di oggetti. Anche questo è significativo. C'è un atteggiamento di rapina nei rapporti che si lega molto al consumismo ed è antitetico alla responsabilità paterna, alla figura del padre nel senso positivo e costruttivo di "guardiano della civiltà" che in gran parte abbiamo buttato via con tutta l'acqua sporca del patriarcato.
In genere associamo il maschio violentatore al prodotto più tipico del patriarcato, di un ordine simbolico cioè fondato sul dominio maschile. Qui invece c'è un rovesciamento di questa tesi. Scopriamo che il maschio violentatore è il prodotto della crisi del padre. O no?
La componente selvaggia e animalesca del maschile è proprio il non-padre. Il maschio competitivo e rapinatore. Come psicanalista junghiano io parlo di figure mitologiche, non punto l'attenzione sulle persone in carne e ossa. Parlo di archetipi che dominano nella società. Questo maschio competitivo lo vediamo molto attivo nel carattere delle donne in carriera, come si dice oggi.
La televisione che oggi occupa quasi tutto lo spazio pubblico, non è la principale "fabbrica di archetipi" di questo tipo?
Vero. Da un lato, la struttura economica ipercompetitiva della società è un incoraggiamento a sviluppare questa componente aggressiva della propria personalità per avere successo e, da un altro lato, i mass media vendono questo modello come il più adatto in una vita consumistica.
Non per fare del riduzionismo volgare però non crede che i casi di stupri oggi siano figli di questa identità maschile non più capace di fare da padre?
E' molto difficile dire se gli stupri siano aumentati. Le statistiche possono aiutarci solo fino a un certo punto. Tra i risultati negativi dello stupro è proprio di far tacere le persone, di creare un clima di inibizione, trauma e vergogna. Però è importante che se ne parli ed è importante, a mio giudizio, metterlo in relazione con tutto il problema storico dell'identità maschile. Date queste due polarità, il maschio pre-civile e il padre, con lo sprofondare del padre - come nel gioco della bilancia - sale invece l'altro.
Però così sembra che non il patriarcato c'entri qualcosa con lo stupro, quanto invece - e paradossalmente - la sua crisi. Ma così si dimentica che il patriarcato è un rapporto di dominio del maschile sul femminile. O no?
La direi in un altro modo. Il patriarcato è già una struttura sociale o, addirittura, politica. Preferisco parlare di crisi dell'identità paterna. C'è un ritorno a un'identità maschile di tipo pre-paterno. La scomparsa del padre fa parte di una lenta decadenza. Il punto più alto è stato toccato in Grecia e nell'antica Roma. Dopo di allora il patriarcato è vissuto sulle glorie passate ma in realtà ha imboccato la strada di una lenta crisi. L'Illuminismo - come dicevo prima - critica il patriarcato. E il primo a scrivere del mito dell'Edipo non è Freud, ma Voltaire. Il padre va in lenta decadenza. Ultimamente anche la struttura economica della società tende a far emergere l'altra polarità maschile, cioè il maschio competitivo. Anche questo è un altro aspetto della scomparsa della padre.
C'è da dire però che la scomparsa del padre non ha prodotto una grande riflessione. A differenza di quanto è avvenuto con il femminismo non c'è stato un approfondimento sull'identità maschile e i suoi cambiamenti. O no?
Non c'è stata una grande riflessione. Infatti mi stupisce il relativo successo del mio libro, Il gesto di Ettore che continua a essere venduto nonostante sia pubblicato da una casa editrice abbastanza specialistica, Bollati Boringhieri. Conosco gruppi di uomini ma fanno abbastanza poco. In America, invece, di riflessioni ce ne sono anche troppe, secondo me scivolano sul sentimentale. In Europa ci lavorano sopra gruppi un po' più colti ma rimangono comunque nelle nicchie della società. Più in là queste riflessioni non vanno.
Insomma questa società ha la sua base ideologica e materiale nell'archetipo del maschio fecondatore, animale e competitore. Vero?
Per questo la metafora del Centauro corrisponde al nostro tempo. E' completamente incapace di amore, sa solo rapire. Il ratto significa sia rapimento che stupro. Il Centauro conosce solo questa modalità di rapporto col femminile. Secondo me è una delle conseguenze del consumismo e dei mass media. Anche se poi ci raccontano che i mass media narrano storie hollywoodiane in cui vincono sempre i buoni. Non è vero per niente. Nel messaggio hollywoodiano vince l'impazienza. Non la capacità educativa, non la pazienza pedagogica, bensì la figura del maschio che va subito allo scopo. Simbolicamente il maschio che rapisce la femmina e non si impegna in un rapporto.

il Messaggero 3.9.09
Bellocchio: «Perché non ho mai girato uno spot in vita mia? Lasciamo stare...».
di Salvatore Taverna


«Perché non ho mai girato uno spot in vita mia? Lasciamo stare...». Marco Bellocchio autore di grandi film come Nel nome del padre, Sbatti il mostro in prima pagina, Il diavolo in corpo, l’Ora di religione, Buongiorno notte e Vincere, si asciuga il sudore della fronte con un fazzoletto a quadretti. In un autolavaggio sulla Laurentina guida attori e comparse per un maxi-super-spot, Una storia italiana. «Papà ha sempre rifiutato tutte le pubblicità possibili. Ve lo immaginate alle prese con i pannolini o con i detersivi? Ma alla banca Monte dei Paschi di Siena e a questo progetto non ha saputo dire di no. E sta lavorando con tutta l’energia come se girasse un suo film», dice il figlio Pier Giorgio Bellocchio, che segue il genitore alla macchina da presa. Qui, niente digitale, solo pellicola.
Il sole picchia duro: mezzogiorno. Ma il maestro ripete la scena della Cinquecento nera: viene lavata mentre, casualmente, i tifosi della nazionale transitano con le bandiere per andare allo stadio, giocano gli azzurri. Curiosità. I primi spot di questa storia italiana li realizzò Giuseppe Tornatore. E ora un altro grande autore, Bellocchio, che partì con I pugni in tasca, si è tuffato in questo affresco italiano (spot da 15 e 30 secondi) che inizia con l’arrivo del camion dei giornali e l’apertura di un’edicola. Nel pomeriggio il set, sempre seguito dal camper supertecnologico della banca che informa, attimo per attimo, tutto quello che succede sul set con immagini e filmati, si sposta nella scuola elementare Franchetti in piazza Bernini, dove una splendida maestra l’attrice Aglaia Mora, insegna con passione a quindici bambini...
La strategia creativa ruota intorno al fascino della Banca Monte dei Paschi di Siena, un grande marchio italiano con la sua tradizione, la sua storia (dal 1472), il suo patrimonio, i suoi valori. Una presenza sul mercato di oltre cinque secoli da raccontare attraverso la vita di una giornata italiana. Attenzione: la piattaforma web www.unastoriaitaliana.it è stata vista da 120.000 utenti unici provenienti da 110 paesi del mondo.
Tra la regia, la direzione creativa di Catoni & Leonini, gli addetti alla produzione Flying film, gli art director Michelini & Vigni, si muove con il suo stile poetico Daniele Ciprì, qui direttore della fotografia, ma famoso regista trasgressivo in coppia con Franco Maresco. Insieme hanno smosso il mondo del cinema tradizionale con pellicole come Totò che visse due volte e Il ritorno di Cagliostro. In questo spot Ciprì, esposimetro alla mano, crea la luce. E Bellocchio lo consulta spesso per raggiungere la perfezione artistica. Così per 10 giorni di riprese in tutta Italia con 250 comparse, 35 attori e tanta creatività... che andrà in onda da novembre sulle tv.

domenica 6 settembre 2009

l'Unità 6.9.09
Chi è più furbo
di Concita De Gregorio


Dice un antico adagio che in Italia senza il Vaticano non si governa. Quando è ostile suonano campane a morto. Lo spiegava Gianni Letta qualche giorno fa ai suoi più giovani colleghi, gli anziani lo sanno benissimo. Lo diceva ieri su questo giornale Cirino Pomicino, l’antica scuola democristiana non lascia dubbi: quando la Chiesa volta le spalle comincia il conto alla rovescia. È accaduto a governi di ogni colore, è accaduto sempre. Non c’è dubbio che l’eliminazione di Boffo avvenuta per mano del giornale di Berlusconi seppure funzionale ad una resa dei conti tutta interna alle gerarchie ecclesiastiche segni un punto di non ritorno. Letta aveva lavorato a lungo, nei mesi estivi, per accorciare la distanza tra le due sponde del Tevere. Oggi, dopo gli stracci, la distanza è una voragine. Dunque: meno dieci, meno nove... Per il dopo Berlusconi vescovi e cardinali stanno lavorando alla ricostituzione di una nuova Dc: un nuovo centro, si chiami Rosa bianca o altro, capace di tenere insieme i cattolici in fuga da Berlusconi e quelli che non dovessero sentirsi più a loro agio nel Pd in caso di sconfitta del progetto Franceschini. L’ago della bilancia il magnete della nuova Dc sarebbe in questo caso Pierferdinando Casini, da tempo in sapiente equilibrio al Centro. A sinistra c’è chi pensa, Bersani tra questi, che si debba guardare in prospettiva ad alleanze strategiche con l’Udc. C’è anche chi osserva Franceschini e Marino, in modo diversamente esplicito che le articolazioni dell’Udc sul territorio, i dirigenti locali nelle regioni e nelle città non siano esattamente quello che si intende quando si parla di rinnovamento e di risanamento della classe politica. Il popolo della sinistra forse, chissà non gradirebbe: a Cosenza e a Tempio Pausania assai meno che a Roma. A destra intanto scalda i muscoli Gianfranco Fini proiettato verso un prestigioso avvenire. An sta lavorando a un progetto sul testamento biologico, per dire l’ultima, assai distante da quello degli alleati di governo. Più equilibrato, diciamo. E sull’immigrazione, e sulle donne, e sul lavoro: Fini si smarca. In prospettiva anche il partito di Fini (depurato dai berluscones) potrebbe essere un buon alleato del Nuovo centro. Quando c’è di mezzo il Vaticano direbbe Andreotti non conviene fare a chi è più furbo. Meno che mai se Berlusconi impalla l’orizzonte. Speriamo che chi sovrintende alle strategie abbia fatto bene i conti nel disegnare il percorso dei prossimi cinque anni, speriamo che lo sforzo di prevedere il futuro non offuschi il presente. Bisognerebbe pensare ad una proposta per il paese, nell’attesa: una proposta di lungo respiro e se non porta frutti subito pazienza. Le astuzie, in tempi così, durano un attimo. Dei tempi che ci aspettano vi raccontiamo: storie di precari della scuola, di medici inoccupati, di operai ancora sui tetti. Un autunno disperato e frastornato dai rulli di tamburo delle truppe del Caimano assoldate per zittire. Lo scriveva qui Luigi De Magistris: è alle porte il tentativo finale di affondare il sistema democratico. Da oggi ogni domenica De Magistris scriverà per noi una pagina di diario: la sua «Agenda rossa», come quella scomparsa di Borsellino. Agenda dall’Europa, rossa perché è un gran bel colore. Benvenuto tra noi.

l'Unità 6.9.09
Il documentario
E il capitalismo cinese? Tristezza e miseria
Guo Xiaolu racconta dodici storie esemplare dalla Repubblica popolare cinese: il contadino, l’operaio, l’imprenditrice... Altro che liberalismo
«Il disastro è iniziato proprio con l’ossessione per il mercato»
di GA.G.


Michael Moore ci racconta la morte del capitalismo. La cinese Guo Xiaolu quella del comunismo. Vincitrice a Locarno con She a Chinese, qui presenta un documentario che dice davvero tanto sulla sua terra, un «tempo paese proletario»: Once upon a Time Proletarian, appunto, viaggio poetico ed esistenziale attraverso la Cina contemporanea raccontata dalle voci dei suoi cittadini, «selezionati» per classi sociali e generazioni. Il vecchio contadino, che ha perso la terra e mostra lo squallore e la povertà estrema delle campagne. «I comunisti oggi sono tutti corrotti. Quando c’era Mao tutto era sotto controllo. Invece adesso la gente pensa solo ai soldi». Anche l’operaio di una fabbrica di armi rimpiange quei tempi, nonostante abbia vissuto sulla sua pelle la Rivoluzione culturale e l’orrore di Tien An Men. L’adolescente arrivato in città a fare il lavamacchine ce l’ha «coi ricchi che sono senza cuore». Nessuno parla di libertà. Piuttosto di miseria e ritmi di lavoro massacranti. O magari di fede, come la signora che ha una bottega di ristoro nel paese di Lei Feng, eroe proletario della propaganda di un tempo che le canzoncine di regime celebravano come colui che «sa cos’è giusto e cos’è sbagliato». Del suo credo la donna parla con pudore, mentre racconta del «ministero dell’evoluzione spirituale» che si occupa anche delle anime dei cinesi. Ci sono gli uomini d’affari che si lamentano dell’andamento discontinuo delle società cinesi, ma alla sera l’unica preoccupazione è trovare la escort di turno, possibilmente russa «perché hanno le tette grosse». E c’è la costruttrice rampante che fa parte dell’associazione «giovani imprenditori di successo», sicura che quella del mercato sia la via giusta per una Cina moderna: «Qui si vive bene e ci sono molte più possibilità che in Occidente», dice mostrando un gigantesco cantiere di grattaceli destinati ai nuovi ricchi. «Volevo mettere in luce – spiega la regista – molti aspetti degli stenti del passato, mostrando anche il nuovo desiderio materialista e la fredda indifferenza verso la responsabilità sociale che entra in sintonia con l’impulso nazionale della nuova Cina. Un processo che fa parte del paesaggio capitalistico globale». C’è riuscita.?

l'Unità 6.9.09
Quella follia che chiamiamo identità
Percorsi Dall’uomo predatore al Leviathano, dall’idea di Stato alla formazione delle varie identità sociali: che non sono un sentimento,
ma un modo di essere riconosciuti. Un saggio del grande sociologo
di Alessandro Pizzorno
Sociologo


Luterani, Calvinisti, cattolici, ebrei... tutti figli di Hobbes?
La paura più grande: l'uomo non teme di essere attaccato ma di essere lasciato solo

Chi non ricorda il famoso motto di Hobbes: homo hominis lupus, e le sue conseguenze sull’antropologia negativa della natura umana che ne seguirono? Si sa che Hobbes era vissuto in tempi difficili, trent’anni di Guerre religiose, Cattolici, Luterani e Calvinisti che si scannavano a vicenda in gran parte d’Europa, il re che veniva decapitato in Inghilterra. Nel suoi libri che aprono il dibattito contemporaneo sulla teoria della giustizia Rawls si domanda come si spiega il mistero che popoli che entravano in guerra perchè avevano differenti idee sulla immortalità dell’anima individuale o sulla natura delle pene che si sarebbero sofferte nell’inferno siano riusciti in meno di tre secoli a mettersi d’accordo e a lavorare l’uno vicino all’altro indipendentemente dall’idea che intrattenevano sulla forma del giudizio universale (e naturalmente anche a scannarsi per altre ragioni del tutto differenti). Resta il fatto che la concezione hobbesiana della natura umana, pur nata in tempi particolarmente difficili, è rimasta a caratterizzare tutta l’idea dell’uomo che si è fatta la modernità fino ad oggi. L’idea dell’uomo ereditata dalla teoria economica che spiega il capitalismo come prodotto di scelte utilitarie, dalla teoria politica che spiega e giustifica il liberalismo, e dalla stessa teoria che spiega fenomemi marginali come il socialismo sovietico.
UN’IDEA DELL’UOMO
Vediamo meglio l’essenziale di questa idea dell’uomo. La natura umana è quella tipica dell’animale predatore. Come tutti gli animali predatori, l’uomo è convinto di avere tutti i diritti. Ma se mantiene simile convinzione è condannato a una guerra perpetua. Così non può durare. Va in cerca di una situazione in cui qualcuno lo protegga. Questo sarà il Leviathano, il grande dio mortale capace di togliere agli individui l’idea di possedere ognuno tutti diritti e assumerli per sè. È lo Stato, che promette protezione in cambio di ubbidienza. Ma non è facile creare il Leviatano, perchè non tutti gli uomini accettano di rinunciare ai propri diritti. E basta che uno non accetti, e si troverà immediatamente in vantaggio sugli altri. Basta che un membro della società non paghi le tasse, e tutti gli altri saranno danneggiati. (...)
Ritorniamo per un momento a Hobbes e la sua idea dello stato di natura: ce la descrive come una situazione orribile, insopportabile, con un’altra delle sue formule diventate famose: solitary, poor, nasty, bruti and short (solitaria, povera, odiosa, brutale e breve). Incomicia con solitaria. Come mai? In questo mondo di animali umani rapaci l’essere solitari, isolati dagli altri dovrebbe essere una fortuna. Ma vediamo meglio. Hobbes, e anche noi, sappiamo altre cose della natura umana. Per esempio (...) gli uomini cercano la gloria, la fama, la reputazione. E da chi mai ricevono queste cose che tanto ambiscono? E il potere? Su cosa mai è fondato, se non sul riconoscimento che altri danno a chi ha il potere. Ma sono obbligati a riconoscerlo, si dirà: c’è l’esercito, la polizia. E chi convince l’esercito, la polizia a riconoscere chi ha il potere? Non si è mai soli quando si possiede il potere. Si potrebbe addirittura dire che si cerca il potere perchè non si vuole essere soli. O perchè si vuole avere persone intorno che lo riconoscano; o perchè si vuole aver denaro per aver persone intorno cui farlo riconoscere.
RICONOSCERSI
Saltiamo secoli e situazioni. Germania, anni Trenta del Novecento. 400.000 Ebrei. Tra di essi Ebrei ortodossi ed Ebrei liberali, Ebrei che frequentano la Comunità, Ebrei che non ci vanno mai, e che non sanno neppure dove sia, Ebrei che vivono tra Ebrei ed Ebrei che vivono essenzialmente tra tedeschi, Ebrei ufficiali dell’esercito tedesco con decorazioni al valore della prima Guerra mondiale, o che in essa hanno perso i figli o i padri. 1934, viene emessa una legge che stabilisce che tutti i 400.000 individui in questione, indipendentemente da loro comportamenti specifici hanno un identità legale che comporta, per tutti, determinate conseguenze. Ecco, questa è la parola che cercavamo – identità e ora sappiamo come si può creare. Ma si trattava di un sentimento di identità che toccava la persona, era interno alla persona. Non è vero. L’identità non è un sentimento, è un riconoscimento con cui qualcuno ci definisce. Cioè, è un modo di venir riconosciuti da altri, in questo caso da un sistema legale. Non sappiamo per quanti si trattava anche di un sentimento, non sappiamo bene neanche come questo tipo di sentimenti sia eventualmente conoscibile. Sappiamo, questo sì, da dichiarazioni, diari, racconti, che gli Ebrei che sono usciti dai campi hanno una concezione della loro identità diversa da quella che avevano prima di entrare nei campi, o da quella che avevano i loro padri. Qualche settimana fa i giornali hanno riportato di una ragazza nordafricana, di religione mussulmana, cittadina francese, figlia di una famiglia integrata, laureata, insegnante di francese, poetessa in quella lingua, ha deciso di indossare il velo mussulmano. Ho citato due modi con cui l’identità si esprime. I primo implica che qualcuno definisce l’identità di una persona, di un gruppo, di una collettività, la quale non esisteva prima che qualcuno la identificasse. È assai probabile, ma non necessario, che dopo che qualcuno ha identificato una certa collettività come portatrice di un’identità (...) i membri di questa collettività che si accorgano inevitabilmente di appartenervi, acquisiscano questo sentimento. Ma non è del tutto esatto chiamarlo un sentimento. Si tratta semplicemente della consapevolezza che per gli altri si è oggi la stessa persona che si era il mese scorso. (...) Ora il secondo esempio, quello della poetessa franco-mussulmana. Lì, l’identità preesiste, con le sue cerimonie e i suoi simboli. Si è trattato di sceglierla: adottando un certo abito, simbolo, in quel particolare momento di quella identità, il velo. Perchè lo si fatto? Chi non sa, avendo viaggiato in paesi mussulmani, che il velo è lì molto meno universalmente indossato di quanto lo sia tra gli immigrati mussulmani in Europa. Come si spiega? Così: che quanto più i portatori di un’identità la sentono minacciata, tanto più moltiplicano l’uso di simboli e riti e teorie per farla sopravvivere. Non è stato forse il divampare del marxismo in Europa negli anni 70 il segno di una disperata difesa, tra i giovani europei, di quell’identità che credevano di poter ereditare dai loro maggiori? Di quella descrizione dello stato di natura che propone Hobbes, la parola che più conta mi sembra debba essere la prima: solitario. È quella che, segretamente, terrorizza di più. L’uomo non teme di essere atè oggi la stessa persona che si era il mese scorso. (...)
Ora il secondo esempio, quello della poetessa franco-mussulmana. Lì, l’identità preesiste, con le sue cerimonie e i suoi simboli. Si è trattato di sceglierla: adottando un certo abito, simbolo, in quel particolare momento di quella identità, il velo. Perchè lo si fatto? Chi non sa, avendo viaggiato in paesi mussulmani, che il velo è lì molto meno universalmente indossato di quanto lo sia tra gli immigrati mussulmani in Europa. Come si spiega? Così: che quanto più i portatori di un’identità la sentono minacciata, tanto più moltiplicano l’uso di simboli e riti e teorie per farla sopravvivere. Non è stato forse il divampare del marxismo in Europa negli anni 70 il segno di una disperata difesa, tra i giovani europei, di quell’identità che credevano di poter ereditare dai loro maggiori? Di quella descrizione dello stato di natura che propone Hobbes, la parola che più conta mi sembra debba essere la prima: solitario. È quella che, segretamente, terrorizza di più. L’uomo non teme di essere attaccato dagli altri uomini, ma di essere lasciato solo. I conflitti non sono mai, o, crediamo, quasi mai, contro attaccanti che non conosciamo (e non ci si citi il Nine Eleven), ma contro chi attacca perchè, per qualche ragione, pazza o giustificata, si sente tradito. La lotta è contro chi minaccia, o ostacola, o mina la solidarietà che credevamo ci potesse proteggere. La lotta per il potere, lungi dall’essere una gara (come si esprimeva Hobbes) per i superamento dell’altro, è una gara per l’avvicinamento all’altro, e una lotta contro chi tale avvicinamento ostacola.

Repubblica 6.9.09
Il coltello del solito Mackie Messer
di Eugenio Scalfari


Sotto la testata dell´Osservatore ci sono due motti: Unicuique Suum e Non Praevalebunt. Chi sono i nemici contro i quali Vaticano, la Chiesa e i cattolici devono mobilitarsi?

Si chiama Grande Centro. Il partito di Casini e Buttiglione più Montezemolo. Può diventare l'esecutore testamentario quando Berlusconi deciderà di farsi da parte

L´ATTENZIONE pubblica si è spostata dopo le dimissioni del direttore dell´Avvenire. Ora è tutta sulla Chiesa. Che cosa farà la Chiesa? Ci sono correnti all´interno della Chiesa? Quale Chiesa? Chi comanda veramente nella Chiesa?
Perfino la grande stampa internazionale, a cominciare dal Wall Street Journal, si pone queste domande sia pure con la sufficienza e il distacco che si ha quando si affrontano questioni che non riguardano casa propria, questioni esotiche il cui soffio di vento non riesce neppure a increspare l´erba che cresce nel proprio paese. Ma qui in Italia non è certo così; perciò quelle domande scuotono l´intero establishment nazionale, dato ma non concesso che ci sia un establishment e sia degno del nome in questo paese. Riflettevo oggi sulle dimissioni di Boffo e sulla lettera da lui indirizzata al cardinal Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale che ha la proprietà dell´Avvenire. Riflettevo e sfogliavo L´Osservatore Romano, il quotidiano del Vaticano il cui direttore pochi giorni fa ha lanciato un siluro contro il collega dell'Avvenire proprio mentre si trovava sotto il tiro di Vittorio Feltri e di Belpietro.
L'Osservatore Romano è il solo quotidiano che si stampa nello Stato vaticano ed ha naturalmente «l´imprimatur» della Segreteria di Stato. Sotto la testata ci sono due motti: «Unicuique Suum», «Non Praevalebunt». Il primo è di facile comprensione, ma il secondo è oscuro. «Non Praevalebunt»: di chi si parla? Chi sono i nemici contro i quali il Vaticano, la Chiesa, i cattolici debbono mobilitarsi?
I cattivi, ovviamente; i seguaci del diavolo. Dunque i peccatori? No, i peccati. Quali peccati? Prioritariamente quelli scritti nelle tavole mosaiche. Chi sono i responsabili dei peccati? Il diavolo naturalmente. E chi li commette? Se si confessa e si pente sarà perdonato. E se non li confessa e non si pente? Sarà giudicato alla fine dei tempi. Ma intanto? La Chiesa può sciogliere o legare secondo il mandato di Cristo all´apostolo Pietro e ai suoi successori. E qui, oggi, in Italia? Vedete, ho anch´io qualche domanda da proporre, ma arrivati al dunque, a quest´ultima domanda non c´è risposta, oppure ce ne sono molte ma contrastanti. Quanto al successore dell´apostolo Pietro attualmente in cattedra, una prassi millenaria gli ha insegnato come destreggiarsi in casi difficili: dica parole ispirate di speranza e di verità rampognando chi non le ascolta, ma poiché tutti le accolgono con compunzione e le condividono, quelle rampogne restano senza destinatario.
Qualcuno nel frattempo cade a terra colpito da fuoco amico? Dispiace. Recitiamo in suo suffragio il «requiescat in pace» e andiamo avanti.
Questo del resto l´ha detto perfino Vittorio Feltri: «Umanamente mi dispiace per Boffo». E l´ha detto, più o meno con le stesse parole, Francesco Cossiga in una lettera pubblicata dal Corriere della Sera e diretta al cardinal Bagnasco. E l´aveva già detto con largo anticipo il presidente di Mediaset, Confalonieri, in quanto persona «informata dei fatti» in un´intervista a quello stesso giornale pubblicata, vedi caso, insieme all´intervista di Vian, direttore dell´Osservatore Romano.
Mi viene in mente quella canzone che dice: «Son contento di morire ma mi dispiace / mi dispiace di morire ma son contento».
Di queste ipocrisie, per chi ci crede, sono lastricate le vie dell´Inferno.
* * *
In mancanza di altri lumi dobbiamo dunque orientarci da soli. Proviamoci.
La Chiesa cattolica ha una sua gerarchia: il Papa, vescovo di Roma, e i vescovi che con lui condividono il ministero pastorale.
Così fu per secoli, ma ben presto il quadro cambiò quando i fedeli si moltiplicarono, gli interessi temporali si affiancarono alla missione pastorale, la gerarchia iniziale si rivelò insufficiente. Il Papa ebbe bisogno di collaboratori esperti, i vescovi di esser coadiuvati.
A quel punto la gerarchia si specializzò in due diverse direzioni, per altro strettamente intrecciate: la Santa Sede e la Curia per il governo della Chiesa e per i necessari contatti con i governi delle nazioni da un lato, i vescovi e il clero con cura d´anime dall´altro. E poi, altro elemento fondamentale della Chiesa, il popolo di Dio, cioè i fedeli.
La Santa Sede mantiene i rapporti politici. Il clero con cura d´anime predica la salvezza, amministra i sacramenti, scioglie e lega secondo il mandato del Signore. Il Papa, al di sopra di tutti, incoraggia, rampogna e benedice.
* * *
Oggi in Italia.
Il cardinal Bertone, segretario di Stato, gestisce gli interessi della Chiesa nel mondo e in particolare in Italia. Per farlo deve colloquiare con i governi in carica. I giudizi morali se li tiene nell´intimo suo perché i suoi interlocutori sono spesso il fior fiore dei peccatori.
Berlusconi è sicuramente un peccatore, l´ha detto lui stesso. Se la veda con il suo confessore se avrà voglia di confessarsi, o con i tribunali quando i peccati siano diventati reati. Non è compito della Santa Sede.
Ma è compito del clero combattere i peccati. Denunciarli. Avvertire i fedeli affinché a loro volta non cadano in tentazione. Lo fanno. Lo ha fatto la stampa diocesana. L´ha fatto l´Avvenire. Con prudenza ma con chiarezza.
Sfortuna volle che Berlusconi perdesse, come si dice, la tramontana e non volesse più sentirsi criticato.
Il direttore dell´Osservatore Romano si è pubblicamente dato il merito di non aver mai sollevato il tema d'un peccato privato ed ha criticato il collega Boffo per averlo fatto. Strano vanto in verità. E quel «Non Praevalebunt» perché non sopprimerlo dalla testata del giornale? Può essere d´imbarazzo, collega Vian.
Ma Bertone non è il solo a gestire interessi. C´è Bagnasco alla testa dei vescovi. E c'è anche Ruini, vecchio ma non domo. Ci sono i cardinali arcivescovi che governano diocesi a volte grandi e popolose come piccoli Stati. Grandi elettori nei conclavi. Ci sono Università, Ospedali, Scuole cattoliche. Congregazioni. Ci sono gli Ordini religiosi, le Comunità. Un immenso universo sparso su cinque continenti ma il cuore sta a Roma e in Italia.
Questo cuore non prevedeva che il capo del governo italiano perdesse la tramontana. Non prevedeva che avesse imprevisti accessi di rabbia e li manifestasse in continuazione e pubblicamente. Non prevedeva che stesse sbagliando contro i propri interessi. E non prevedeva che armasse la mano del killer di turno.
Perciò la Chiesa nel suo complesso è stata presa alla sprovvista. Il Papa, Bertone, Bagnasco. Alla sprovvista. Forse Ruini, più esperto, aveva capito che uno «tsunami» era in arrivo e forse sperava che tornasse utile ad un progetto in via di prender forma.
* * *
Il progetto ha un nome. Si chiama Grande Centro. Il partito di Casini e Buttiglione più Montezemolo. Oppure di Montezemolo più Casini e Buttiglione. E il Forum delle famiglie, e l'associazione per la vita, e Formigoni sullo sfondo e Vittadini e le Coop bianche, eccetera eccetera.
Questo Grande Centro non sarà mai grandissimo e non potrà mai governare da solo, ma può diventare il pesce pilota e l'esecutore testamentario quando Berlusconi deciderà di farsi da parte (con tutti gli onori e senza alcun onere, beninteso).
L'assetto finale è il grande partito dei moderati con forti venature cattoliche. A Ruini piace. A Bertone piace. Bagnasco? Piacerà anche a lui e poi Bagnasco semmai è un incidente di percorso.
Però la ferita Boffo brucia ancora. Perciò Berlusconi dovrà pagare un prezzo (che a lui non costa nulla): testamento biologico, soldi alle scuole cattoliche, limiti alla pillola-aborto, revisione delle leggi sulla fecondazione assistita, eccetera.
Grandi piccoli e piccolissimi giornali sono d´accordo. Finalmente si tornerà a parlare di problemi seri, alla moda di Tremonti. La libertà di stampa e il controllo dei poteri di garanzia sull'operato del governo non sono un problema serio, non sono una questione preliminare, sono bazzecole.
Casini è cauto. Su Boffo non ha sparso molte lacrime, però non si fida. Alle regionali marcerà in ordine sparso secondo le convenienze ma alcune scelte saranno comunque decisive, per esempio nel Lazio, in Puglia, in Piemonte. Poi si vedrà.
Anche Confalonieri è contento. La colpa è sola di Repubblica, perciò sia castigata. Sembra un uomo di pace, Confalonieri, ma invece è la bocca dentata del Caimano. Secondo lui Repubblica è rea d´aver trasformato un fatto privato in una questione pubblica. Dimentica che l´origine sta in una pubblica dichiarazione di Veronica Lario, portata in tivù da Berlusconi. E dimentica anche che Libero allora diretto da Vittorio Feltri quarantotto ore dopo pubblicò la foto di Veronica a seno nudo e le attribuì il suo autista come amante. Ricordate «L'opera da tre soldi»? «Mackie Messer ha il coltello / ma vedere non lo fa». La memoria di Confalonieri non funziona? Colpa della vecchiaia? O di un innato servilismo?
* * *
Un´ultima domanda: la Lega è cattolica? Ma certo che lo è. Lo è nelle intime fibre. Vuole la famiglia compatta. Di colore bianca. Vuole che si muoia quando arriva la morte e non prima. Non le piacciono gli immigrati, che c'è di male? Neanche «i terroni» e pazienza. Ma qualche soldo, purché restino a casa loro, diamoglielo. E poi Alberto da Giussano non stava dalla parte del Papa? Il resto sono bubbole. I dialetti stanno stretti a Umberto Eco? E chi se ne frega. Fini? Fini chi? Vogliamo almeno tre Regioni nel Nord e viva Berlusconi. Piacerebbe sapere che impressione ne ha avuto il cardinal Bagnasco che li ha incontrati. Bagnasco chi?

Corriere della Sera 6.9.09
Il travaglio e le tensioni della Chiesa
La ricostruzione dei contrasti tra Segreteria di Stato e Cei. «Ora riorganizzare i compiti»
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — «La Chiesa non agisce per esten­dere il suo potere o affermare il suo dominio, ma per portare a tutti Cristo, salvezza del mon­do ». Le parole di Benedetto XVI, nel messaggio diffuso ieri per la giornata missionaria, richiama­no quanto aveva scritto ai vesco­vi del mondo mentre infuriava­no le polemiche sulla remissio­ne della scomunica ai lefebvria­ni, «la priorità che sta al di so­pra di tutte è di rendere Dio pre­sente in questo mondo». Il Papa spiegò la sua preoccupazione con le parole di San Paolo ai Ga­lati, « ma se vi mordete e divora­te a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri! ».
Appunto. Nella Chiesa, Oltre­tevere come alla Cei, si è aperto ora uno «spazio di riflessione e silenzio». Dopo l’«attacco basso e virulento» a Dino Boffo e le sue dimissioni dalla direzione di Avvenire, ora bisogna decide­re come muoversi. E non si trat­ta solo di scegliere il successo­re. Si attende il consiglio perma­nente della Cei, il 21 settembre a Roma, e in novembre l’assem­blea generale dei vescovi ad As­sisi. Di là dalla necessità di com­pattare l’istituzione «contro le operazioni per dividerla», l’ulti­ma settimana ha mostrato un serissimo problema di gover­nance , nel rapporto tra la Santa Sede e la Cei, del quale so­no tutti consapevoli. «Qualche acciaccatura è difficile non ri­manga» sospirava ieri un alto esponente vaticano: «Ma biso­gnerà pensare a una redistri­buzione dei compiti, un co­ordinamento per non es­sere vulnerabili».
Ecco: «vulnerabili». Nella «guerra» mediati­ca su Boffo, la mancan­za di sintonia, anche nella versione dei fatti, è apparsa evidente. Alla Cei sono sobbalzati quando Giovanni Maria Vian, direttore dell’ Osser­vatore Romano, nell’inter­vista apparsa lunedì sul Corriere ha rivendicato che il quotidiano della Santa Sede non si fosse mai occupato delle vicende del premier, giudican­do «imprudente ed esagerato» un editoriale di Avvenire sulle stragi di immigrati in mare. Dal vertice Cei è partita una telefo­nata alla Segreteria di Stato: Vian parlava a titolo personale o no? L’irritazione è rimasta: dal­la Segreteria non è arrivata nes­suna risposta ufficiale.
È stato il segnale più impor­tante di una tensione che risale al 25 marzo 2007, quando il car­dinale Tarcisio Bertone scrisse una lettera al neoeletto presi­dente della Cei: «Per quanto concerne i rapporti con le istitu­zioni politiche, assicuro fin d’ora a Vostra Eccellenza la cor­diale collaborazione e la rispet­tosa guida della Santa Sede, non­ché mia personale». Il segreta­rio di Stato rivendicava a sé la «guida» di ciò che il cardinale Ruini aveva gestito in modo au­tonomo. Al di là dello stile più «pastorale» di Bagnasco, rispet­to alla Chiesa che «parla a voce alta» di Ruini, tutto risale ad al­lora: chi tiene i rapporti con il mondo politico? Ogni interven­to dalla Cei, o da Avvenire, face­va storcere il naso a chi sostiene la linea «istituzionale» di Berto­ne. Del resto, tra i vescovi, si rac­conta che all’inizio il cardinale Bertone desiderava non ci fosse più la «prolusione» del presi­dente Cei al consiglio e all’as­semblea, discorso che ha gran­de rilevanza politica. Bagnasco l’ha mantenuto.
Malumori sottotraccia, an­che nella Curia romana. Tensio­ni emerse già nel caos della vi­cenda lefebvriani. Finché Bene­detto XVI aveva deciso di pren­dere su di sé il peso di tutta la situazione e scrivere, cosa mai accaduta, una lettera per spiega­re le sue ragioni. Ma chi aveva «sottovalutato» il caso del ve­scovo Williamson, il lefebvria­no che nega la Shoah? Di chi la colpa del caos? Tensioni, voci. Oltretevere ci fu chi accusò la Segreteria di Stato. O, secondo i punti di vista, chi aveva «rema­to contro» Bertone. A metà apri­le si parlò di un incontro riserva­to del Papa, a Castel Gandolfo, con i cardinali Bagnasco, Ruini, Scola e Schönborn. L’assenza di Bertone venne interpretata — da chi non gli è vicino — come un segno di «sfiducia» del Papa. Chi gli è vicino, invece, fece no­tare il grande segno di amicizia durante le vacanze in Val d’Ao­sta: Benedetto XVI, appena in­gessato al polso, che il 19 luglio va in visita nel paese natale del segretario di Stato, Romano Ca­navese, recita l’Angelus e pran­za con la famiglia Bertone. Il 17 agosto si è poi completato il nuovo assetto della Segreteria di Stato con la nomina di monsi­gnor Ettore Balestrero, 42 anni, a sottosegretario per i Rapporti con gli Stati: ora i vertici sono tutti di nomina ratzingeriana e Bertone, dicono fonti vicine, ha più che mai «in mano la macchi­na » .
Nel frattempo, però, anche la telefonata di Benedetto XVI al cardinale Bagnasco, martedì — con il Papa che chiedeva «noti­zie e valutazioni» — è riuscita a diventare un «giallo». C’è chi, nell’episcopato, vi ha visto un altro segno di «insoddisfazio­ne » del pontefice verso Berto­ne. Chi, nella Santa Sede, lo ha letto invece come un congedo a Boffo. E chi, nella Cei, lo ha in­terpretato all’opposto come un invito a «resistere» — linea che cominciava a cedere anche tra l’episcopato. Di certo la Santa Sede era preoccupata, Boffo ha poi preso la sua decisione.
Resta la mancanza di sinto­nia. E, diffusa, l’«amarezza» per l’immagine d’una lotta senza esclusione di colpi nel mondo cattolico. Non è simpatico che la velina anonima contro il di­rettore di Avvenire , poi pubbli­cata dal Giornale , sia spuntata in maggio all’Istituto Toniolo di Milano, ente fondatore della Cattolica, mentre si rinnovava­no i vertici di cui Boffo fa parte. Un clima di veleni in cui anche l’uscita del libro Vaticano Spa è stata vista come una «mano­vra » mentre è in ballo la possibi­le successione di Angelo Caloia al vertice dello Ior.
Del resto la consapevolezza è comune, i «pontieri» sono al­l’opera. «Tra la Santa Sede e l’episcopato deve esserci sinto­nia », dicono ambienti della se­greteria di Stato. Lo stesso si di­ce fra i vescovi. I primi a volerlo sono Bertone e Bagnasco. Di cer­to l’«attacco» è destinato a ridi­segnare i rapporti tra Chiesa e mondo politico. I vescovi si sen­tono colpiti, c’è chi dice che «è stato un errore dare una delega in bianco al centrodestra», nella base cresce il malumore. Finito il «ruinismo», la linea «istituzio­nale » della Santa Sede come si sintonizzerà con i vescovi? Si ve­drà. Intanto si cerca di lasciar se­dimentare, tornare all’essenzia­le. Oggi l ’Osservatore pubblica un’ampia riflessione del cardi­nale Giacomo Biffi sul giudizio finale e l’aldilà: «Non saremo co­me acciughe in un barile».

Corriere della Sera 6.9.09
Dopo il Consiglio permanente Cei del 21 e l’assemblea generale si capirà come muoversi «Vulnerabilità»
La guerra mediatica su Boffo ha messo in luce un problema di «governance»
Ora le grandi linee di governo vengono avocate dal vertice della Chiesa
di Vittorio Messori


L’intervento L’inaspettata rovina professionale di un singolo ha gettato un’ombra di sospetto sul sistema dei media cattolici
Le carte blindate di Boffo e il riequilibrio dei poteri

È indubbio che è venuto da colui che è pur sempre il Primate d’Italia, oltre che vescovo di Roma, l’input, o alme­no l’accettazione, per le dimissioni di Dino Boffo dalla galassia dei media cattolici. Quo­tidiano nazionale, televisione nazionale, 200 radio in ogni regione: una concentrazione di potere anomala in una Chiesa che non ha sol­tanto trascurata la virtù cardinale della pru­denza ( auriga virtutum , la chiamava San Tommaso), lasciando questo suo uomo-im­magine esposto a ogni rischio di ricatto, do­po una sentenza che si pensava fosse irrile­vante e che restasse sepolta per sempre in un tribunale di provincia.
Ma è anche, questa, una Chiesa che ha di­menticato un altro principio praticato dalla gerarchia cattolica di un tempo. Il principio, cioè, del divide et impera : la Catholica è l’ul­tima «monarchia assoluta», dove il potere il­limitato del vertice si regge sull’equilibrio dialettico, sempre felpato ma non sempre idilliaco, dei poteri subordinati. Ora, invece, tutta — dicesi tutta — l’informazione della Chiesa italiana era gestita e controllata da un uomo solo, che su di sé aveva un altro uomo solo: il cardinale presidente della Cei. Un’al­tra imprudenza, quindi, che ha fatto sì che la crudele, inaspettata rovina professionale di un singolo abbia gettato un’ombra di sospet­to e di discredito su tutto un sistema infor­mativo per il quale, tra l’altro, la Chiesa italiana salassa i suoi bilanci.
Ma se è indubbio che input o, almeno, accettazione per le dimissioni sono venuti dal Vertice stesso della Chiesa, è altrettanto indubbio che la possibilità di defilarsi è stata accolta con sollievo dall’interessato, ad evitare guai peggiori. Lo ha detto egli stesso nella lettera al Presidente della Cei: «la bufera mediatica è lungi dall’attenuarsi», anzi, «si stanno chiamando a raccolta uomini e mezzi in una battaglia che si vuole ad oltranza». Dunque, perché «le ostilità si plachino», è necessario che il bersaglio «compia il sacrificio» di tirarsi indietro. Più che un «sacrificio», le dimissioni hanno offerto a un uomo martoriato, cui va la nostra fraterna comprensione, la possibilità di ritrovare un po’ di sonno dopo la settimana infernale. Ma anche la possibilità di evitare ciò che non ha fatto e che, fa capire nella lettera di congedo, non intende fare: autorizzare, cioè, il tribunale di Terni a pubblicare l’intero fascicolo processuale. Il suo avvocato, in effetti, ha chiesto che quelle carte restino blindate. Come si sa, un magistrato esigeva il rispetto della legge, che stabilisce che la documentazione sia resa nota, ma un suo collega si è opposto per la reputazione del «condannato». Dunque, conosciamo solo le due pagine di conclusio­ni, senza sapere perché il giudice è pervenu­to ad esse. Anche per questo, dicono, Boffo non ha presentato, almeno sinora, l’annun­ciata querela contro il Giornale : in questo caso, l’avvocato del denunciato avrebbe diritto di accedere al fascicolo richiuso negli archivi. Ed è ovvio che tutto finirebbe subito su tutte le prime pagine.
Ma cosa può esserci in quegli atti, che po­trebbero chiudere una rissa che si è svolta attorno ad elementi formali (pur rilevanti), ma senza rispondere alla domanda vera: che cosa è successo davvero? Anche a questo, in verità, è stato alluso nella lettera di dimissio­ni: «Mi si vuole a tutti costi far confessare qualcosa e allora dirò che, se uno sbaglio ho fatto (...) è il non aver dato il giusto peso a un reato 'bagatellare'». Un termine giuridi­co, ma, forse anche un curioso riferimento a Céline, lo scrittore «maledetto», e al suo anti­semita Bagatelles pour un massacre? Ci so­no, dunque, piccole cose, leggerezze, svaga­te imprudenze, libertà di linguaggio, cose tollerabili in altri, ma che metterebbero a di­sagio un uomo al vertice del sistema infor­mativo di una Chiesa che su certe cose non transige? Sembrerebbe. In ogni caso, la ridu­zione da uomo-istituzione a semplice priva­to gli ha permesso di alleggerire la pressione dei mastini che, altrimenti, non avrebbero mollato la presa perché la pubblicazione del­le carte fosse autorizzata.
Ma l’imprudenza, qui, non sembra abbia contrassegnato solo la parte aggredita . È pro­babile che il Giornale pensasse che la faccen­da si sarebbe subito conclusa, davanti alla evidenza di una condanna, con le dimissioni del direttore, accolte da una imbarazzatissi­ma, e ammutolita, Conferenza Episcopale. Non era stato messo in conto l’arroccamento immediato di questa, il compattamento delle redazioni, la difesa ad oltranza, «a prescinde­re », da parte di una fetta consistente del mondo cattolico? È probabile. Il risultato po­trebbe rivelarsi un boomerang politico. Una Cei che aveva un parterre moderato, non osti­le all’attuale governo, parla ora (come Boffo nella sua lettera) di «un oscuro blocco di po­tere laicista» che, dall’interno della maggio­ranza, aggredirebbe la Chiesa. La rivelazione, così brutale, dei possibili «peccatucci» del di­rettore è stata presentata come un’operazio­ne anticristiana. E il prossimo responsabile del quotidiano sarà obbligato a una politica meno conciliante con questo governo di quella del suo sfortunato predecessore, noto per la sua moderazione, se non addirittura per un penchant per il centro-destra.
Quanto ai molti discorsi, innescati dal ca­so Boffo, su dissidi e antagonismi tra Segre­tario di Stato e Presidente della Cei: al di là della diversità di temperamenti e di prospet­tive (peraltro assai meno accentuata di quanto spesso si affermi), il problema va ben oltre le persone. Già molti anni fa, in Rapporto sulla fede , Joseph Ratzinger affer­mava che le più che 100 Conferenze Episco­pali del mondo non hanno base teologica, non fanno parte della struttura divina della Chiesa. Questa, osservava, non è una Federa­zione di Chiese nazionali, dove si converga solo sui grandi principi del Credo. Il potere dei «piccoli vaticani» sparsi nei cinque con­tinenti, uno per ciascuna nazione, va ridi­mensionato. Pietro è uno solo. E sta a Ro­ma. Divenuto papa, l’allora cardinal prefetto del Sant’Uffizio ha cominciato a provvedere. Sta qui il motivo del cortese ma fermo avver­timento di Bertone, il suo «primo mini­stro », a Bagnasco, rappresentante della «Chiesa nazionale italiana» . Rispetto e fidu­cia, si intende, ma le grandi linee di gover­no vengono avocate a sé dal Vertice della Chiesa. Non è in atto un regolamento di con­ti tra cardinali (malgrado le attuali difficoltà dell’arcivescovo di Genova per il caso del­l’uomo- media ereditato da Ruini), è in atto semmai una strategia di lungo respiro di Be­nedetto XVI per contrastare un per lui inac­cettabile «federalismo clericale»

Corriere della Sera 6.9.09
Il «federalismo»


Il «federalismo clericale» non piace Oltretevere Già molti anni fa, Ratzinger affermava che le cento conferenze episcopali nel mondo non hanno base teologica, non fanno parte della struttura divina della Chiesa L’arroccamento L’arroccamento sulla vicenda di «Avvenire» potrebbe rivelarsi un boomerang politico La Cei che aveva un parterre moderato parla ora, come nella lettera di Boffo, di «un oscuro blocco di potere laicista» nella maggioranza

Corriere della Sera 6.9.09
L’intervista a Sacconi. Il ministro del Welfare: il Pdl e la Lega sono naturalmente capaci di dialogare con la Chiesa sui temi «biopolitici»
«Boffo non è un cattocomunista Colpito da chi è ostile a lui e a noi»
Sacconi: tra governo e Chiesa forte consonanza su valore della vita e famiglia
Intervista di Sergio Rizzo


ROMA — Nella bufera che si è abbat­tuta su Dino Boffo, il direttore dell’ Av­venire dimissionario dopo gli attacchi del direttore del Giornale , Vittorio Fel­tri, il ministro del Welfare Maurizio Sacconi non accetta di essere definito il capo del dissenso. «Al contrario!», di­ce, «dato che le mie convinzioni sono le stesse della larghissima maggioran­za del centrodestra».
Eppure lo scontro con la Chiesa ha generato nel suo schieramento toni al calor bianco. Come lo spiega?
«Mi preme spiegare perché non sol­tanto il Pdl, ma l’intera coalizione di go­verno, tenendo conto anche delle re­centi prese di posizione della Lega, sia­no naturalmente capaci di dialogare con la Chiesa rispetto ai grandi temi di suo prioritario interesse che si iscrivo­no nell’agenda di quella che possiamo chiamare biopolitica».
Biopolitica? Che cos’è?
«Nei paesi moderni la politica è inve­stita da problemi che impongono in re­lazione all’evoluzione della scienza e dei comportamenti sociali di regolare — in modi essenziali — i nodi della procreazione e del confine tra la vita e la morte. Su questi temi il Pdl, essendo­si configurato come il più grande movi­mento popolare in Italia, in grado quin­di di raccogliere il suo consenso nel­­l’Italia profonda, si ancora inevitabil­mente ai valori della tradizione dei qua­li è orgogliosamente conservatore».
E dove si trova questa Italia profon­da?
«Non è l’Italia metropolitana delle borghesie elitarie, ma quella fatta dalle piccole comunità e dalle periferie urba­ne, descritta anche recentemente da De Rita, ove vive la gran parte del no­stro popolo fatto di gente semplice e vi­tale, perché solida nei valori di riferi­mento a partire da quelli della tradizio­ne cristiana, a prescindere dal rappor­to di ciascuno con la fede».
Si prescinda pure, ma com’è possi­bile conciliare tutto questo con i prin­cipi di laicità fondamentali per tutti i Paesi occidentali sviluppati?
«Il Pdl è in sintonia con il senso co­mune del popolo, piuttosto che con il luogo comune di quelle che si defini­scono elite . In questo senso esso è si ispira ad una laicità adulta che in ogni caso non si confonde con la liceità».
Sarebbe?
«Laicità significa un approccio del decisore che quando regola pensa a cre­denti e non credenti, a persone che pos­sono avere anche un diverso rapporto con la fede. Ma ciò non significa indif­ferenza a profili di carattere etico come quelli tipicamente cristiani codificati nella prima parte della costituzione».
Nella prima parte della carta costi­tuzionale il riferimento alle radici cri­stiane però manca del tutto.
«Che principi anche propri della cul­tura cristiana siano presenti nella pri­ma parte è assolutamente evidente. Ba­sti pensare a quei diritti inviolabili del­l’uomo che costituiscono la premessa per ritenere non negoziabile il fonda­mentale diritto all’alimentazione e al­l’idratazione. La costituzione fu frutto di un grande compromesso fra i grandi partiti popolari. Lo stesso Partito comu­nista, in quanto innervato in una parte importante del popolo, e’ sempre stato attento a non offendere i fondamentali valori della tradizione cristiana».
Il Pdl come il Pci? Se la sente Berlu­sconi...
«Certamente tutti e due movimenti di grande consenso popolare. Il Pdl, non tatticamente, è portatore di una laicità adulta che incorpora i fonda­mentali valori cristiani come la perso­na, la famiglia, la comunità. La stessa possibilità di costruire uno sviluppo so­stenibile dopo la crisi non può prescin­dere dal riconoscimento del valore del­la vita. Non ci può essere vitalismo eco­nomico e sociale in una società scetti­ca.
Questo ci porta nella prossima agen­da di governo a ritenere necessario di­fendere una regolazione della creazio­ne della vita che rigetti ogni manipola­zione genetica».
Veniamo al sodo.
«I principi che ho appena enunciato ci portano ad avere una fortissima diffi­denza verso la pillola Ru486, con la quale si banalizza un atto che secondo la legge 194 sull’interruzione volonta­ria della gravidanza è un disvalore e po­tenzialmente potrebbe comportare la violazione del percorso previsto da quella legge».
In che cosa si traduce questa diffi­denza?
«Laicamente verificheremo se l’im­piego della pillola abortiva sia coerente con quella legge e con il suo obiettivo primario di evitare la solitudine della donna di fronte ad una scelta tanto drammatica. L’Aifa è impegnata a pro­durre entro settembre un protocollo ri­gorosissimo di corretto impiego della pillola in strutture ospedaliere a cura di ginecologi nel pieno rispetto della stessa legge».
In una precedente intervista al «Corriere» lei ha lasciato intendere la possibilità di una possibile corsia preferenziale per la norma Englaro. Conferma?
«Ho detto che se si fosse manifesta­ta in Parlamento la difficoltà a un am­pio consenso sulla legge che regola il fine di vita si potrebbe estrapolare dal testo del Senato per l’immediata appro­vazione quella parte — approvata al­l’unanimità dal Consiglio dei ministri — che colma il vuoto normativo creato­si a seguito del provvedimento creati­vo della magistratura sul caso Englaro, che ha introdotto per la prima volta un percorso eutanasico nel nostro Paese. Faccio una domanda: occorre la fede per voler evitare soluzioni eugenetiche o eutanasiche?».
È cosciente del fatto che il governo sarà accusato di mettere tutto questo sul piatto della bilancia per recupera­re il rapporto con la Chiesa?
«Ho descritto un’agenda nata in tem­pi non sospetti rispetto alle più recenti vicende. Con la Chiesa c’è una conso­nanza profonda sul valore della vita, sulla famiglia, sulla sussidiarietà, che va oltre il tatticismo».
Tatticismo od opportunismo?
«Vedo molto più opportunismo quando alcuni segmenti della base ec­clesiale sostengono nella candidatura a sindaco chi propugna le coppie omo­sessuali, o agisce in direzione opposta a quelli che sono temi fondamentali della Chiesa. In quel caso non posso non individuare uno scambio cinico, magari con piccoli favori amministrati­vi a strutture ecclesiali. Cosa diversa è il rapporto che nasce naturalmente per­ché quelli sono i nostri valori. Siamo un movimento politico laico e cristia­no insieme».
Nel centrodestra molti sono con­vinti che senza i cattolici il governo non starebbe in piedi. La sua opinio­ne?
«Credo che se questa maggioranza parlamentare si allontanasse dalle radi­ci del nostro popolo, ne perderebbe il consenso come è accaduto al Pd rispet­to al Pci. Ma il problema non è la forma­le coerenza con la Chiesa».
Non vorrà negare che lo scontro con l’«Avvenire» abbia causato qual­che problemino. Se non sbaglio lei stesso ha chiesto a Boffo di ritirare le dimissioni.
«Boffo è stato vittima incolpevole di questo violento clima polemico partito dall’aggressione al presidente del Con­siglio. A me dispiace perché ho un’ami­cizia personale con lui, mio conterra­neo, ho sempre trovato in lui un cattoli­co liberale, non certo un cattocomuni­sta » .
Questo ha un significato nella sua presa di posizione, ministro?
«Certamente. Ma non voglio entrare nella vicenda che lo riguarda, anche se è evidente che queste polemiche gior­nalistiche sono nate dall’interno del mondo cattolico».
Addirittura? Chi poteva nella Chie­sa avere interesse a danneggiare il di­rettore del quotidiano della Conferen­za episcopale?
«Posso immaginare che tutto sia na­to in ambienti cattolici ostili a lui per­ché ancor più ostili a noi».

Corriere della Sera 6.9.09
«Nelle tue mani: medicina, fe­de, etica e diritti di Ignazio Mari­no (Einaudi) è in libreria da ieri
I malati e i progressi della scienza
La medicina e le mani di Dio Il giudizio della persona è centrale
di Carlo Maria Martini, cardinale, arcivescovo emerito di Milano


«Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito»: sono, secondo l’evangelista Lu­ca (23,46), le ultime parole che Gesù morente «grida a gran vo­ce ». Sono parole già presenti nel­la tradizione ebraica, dove figura­no nel Salmo 31, una sofferta pre­ghiera nella prova, che inizia con le parole «In te, Signore, mi so­no rifugiato; mai sarò deluso». Al verso 6 si trovano le parole fat­te proprie da Gesù morente: «Al­le tue mani affido il mio spirito; tu mi hai riscattato, Signore, Dio fedele». Ma molte altre nella Bib­bia sono le espressioni che indi­cano un abbandono dell’uomo nelle mani di Dio, come ad esem­pio il Sal 16[17],7: «Mi affido alle tue mani; tu mi riscatti, Signore Dio fedele». Nel Vangelo si può notare che Gesù, invece di invo­care il «Signore, Dio fedele», si rivolge al «Padre», il che dà all’af­fidamento una accentuazione di ancora maggiore fiducia e tene­rezza.
Noi sappiamo bene che que­sto concetto del «mi affido alle tue mani» è decisivo per ogni esi­stenza umana, a partire dal but­tarsi fiducioso del piccolo nelle braccia della mamma e del papà, fino a tutte quelle realtà a cui affi­diamo una buona parte della no­stra crescita e della nostra matu­razione, come la scuola, il grup­po di amici, le autorità civili e po­litiche, l’opinione pubblica e così via.
C’è oggi un’altra autorità a cui, più che in passato, noi sentiamo a un certo punto di essere «nelle sue mani». È l’autorità del medi­co, soprattutto quella che soprav­viene quando non siamo più ca­paci di aiutarci da soli nella no­stra vita fisica, quando si svilup­pano in noi malattie gravi, che ri­chiedono una cura competente e prolungata. Per questo il titolo dato al suo ultimo libro da Igna­zio Marino Nelle tue mani: medi­cina, fede, etica e diritti corri­sponde a questa esperienza di mettere, in certi momenti, il no­stro futuro e la nostra sopravvi­venza nelle mani di chi ha studia­to il corpo umano, le sue malat­tie e le sorprese che esso può ri­serbarci: quali sono in questo ca­so le mie giuste aspettative, quali i miei diritti e doveri, che cosa spetta alle autorità pubbliche, quali i dilemmi che il medico vi­ve in prima persona?
Emerge così chiaramente che quell’espressione «nelle tue ma­ni » non si riferisce soltanto ad al­tri, ma tocca anche in prima per­sona ciascuno di noi, che sente di essere «nelle proprie mani». Così vengono a collegarsi i due elementi, cioè la forza della me­dicina e il sapiente e prudente giudizio della persona. I progres­si dell’arte medica potrebbero portare avanti per molto tempo, usufruendo di macchine spesso complicate, anche una esistenza senza più coscienza né contatti con il mondo circostante, ridotta a pura vita vegetativa. Qui inter­viene il giudizio prudenziale non solo del medico, ma anzitutto della persona interessata o di chi ne ha la responsabilità, per di­stinguere tra mezzi ordinari e mezzi straordinari e decidere di quali mezzi straordinari vuole an­cora servirsi.
Il libro esamina tanta di que­sta casistica e lo fa non tanto con assiomi generali, ma con la me­moria di fatti avvenuti, di cui l’au­tore è stato testimone in prima persona. Una tale situazione in cui la vita fisica si trova in perico­lo è anche l’occasione per descri­vere da vicino i problemi e i di­lemmi che si pongono al malato come al medico e a tutti coloro che hanno a cuore il malato stes­so. Le enormi possibilità della scienza medica pongono non di rado di fronte a situazioni in cui è molto difficile stabilire che co­sa sia un «rimedio ordinario», cioè quegli strumenti che ciascu­no è tenuto, non per obbligo le­gale, ma per dovere e impulso in­teriore, a utilizzare, e che cosa si­ano invece quei «mezzi straordi­nari » che il malato o chi lo rap­presenta, può decidere per ragio­nevoli motivi, di utilizzare o di re­spingere. Nasce qui quella do­manda che vediamo emergere sempre più distintamente nel di­battito pubblico: fino a che pun­to può e deve spingersi la medici­na? Certamente, come afferma l’autore «è dovere del medico non accanirsi, sapersi fermare quando non c’è più nulla da fare anche se questo provoca frustra­zioni e sconforto». Ma quando si verificano questi casi, che vor­remmo ancora chiamare «estre­mi », in particolare quando «c’è uno stato che non solo impedi­sce di esprimersi e di relazionar­si col mondo esterno, ma blocca la coscienza e riduce la persona a un puro vegetare e tale stato si ri­vela, dopo un attento e prolunga­to esame, come irreversibile?».
L’autore cerca di informare il lettore di tutte queste realtà e queste possibilità, pubblicando anche i documenti relativi, talo­ra poco noti. Come narratore, egli ci fa partecipare ai suoi dub­bi e alle sue certezze, facendoci per così dire vivere come in pri­ma persona gli eventi narrati. Non si tratta solo di eventi riguar­danti l’interrogativo dei limiti della medicina, ma anche di fatti riguardanti per esempio le sfide della sperimentazione, in parti­colare dei trapianti. Dal tutto traspare una umani­tà e una onestà nel considerare i singoli casi che spinge alla fidu­cia nel mettersi «nelle mani» di tanti servitori della vita. Ciò però non esclude il rischio e la respon­sabilità che ciascuno deve saper assumere quando venisse il mo­mento di farlo. È così che chi sen­te il mistero di Dio incombere sulla propria vita potrà anche esprimere quella fiducia nelle mani del Padre, da cui siamo par­titi in questa breve riflessione.

il Riformista 6.9.09
Parla il sottosegretario al welfare Eugenia Roccella: «Ma sono sicura che il Pdl saprà rimediare, cominciando dal biotestamento»
«Una ferita nel rapporto con la Chiesa»
di Alessandro Da Rold


«Non dimentichiamo che questa parte dal degrado di campagne giornalistiche, non politiche».

«È evidente che i cattolici nel Popolo della Libertà stanno vivendo un momento di difficoltà dopo le vicende di questa estate. Si è aperta una ferita che deve essere rimarginata. Ma sono convinta che la Chiesa non abbia alcuna ostilità nei confronti del nostro partito. Un partito che si fonda su una cultura laica alimentata da radici cristiane. Nel lungo periodo lo dimostreranno la nostra politica e i fatti concreti». Così Eugenia Roccella, sottosegretario al Welfare del governo, esponente cattolico nel partito di Silvio Berlusconi, in merito alla situazione interna al centrodestra, all'indomani degli attacchi partiti dal Giornale di Vittorio Feltri e le dimissioni di Dino Boffo da Avvenire.
Cosa pensa di questa vicenda? Irapporti tra Chiesa e centrodestra sono cambiati?
Sono molto fiduciosa del fatto che il centrodestra possiede una cultura politica che è più vicina alle posizioni della Chiesa: una forza popolare dalle forti radici cristiane che si fonde in Europa nel Partito Popolare.
Fiduciosa perché le sembra che il movimento cattolico sia in questo momento più vicino al centrosinistra?
Non dico questo. E non ritengo, come invece sostiene Socci, che questa ferita riavvicinerà la Chiesa al centrosinistra. Sin dalla ripresa dei lavori in Parlamento lo dimostreranno i fatti. C'è una ferita che si rimarginerà nel lungo periodo.
In che senso?
Basti pensare alla legge sul testamento biologico, la nostra maggioranza si è sempre comportata laicamente e in piena autonomia, riconoscendo che la vita è un valore non negoziabile. E questo anche durante le sessanta votazioni segrete al Senato in cui avrebbero potuto verificarsi defezioni.
Restano la questione dei comportamenti del premier.
Credo però che gran parte di quello che è successo sia dovuto a un atteggiamento dei media che in Italia non si era mai verificato prima.
Spieghi meglio.
Entrare con tanta pesantezza nel privato delle persone non era un'abitudine della stampa italiana. Insomma, ai tempi del caso Lewinsky, pensavo che una cosa del genere in Italia non si sarebbe mai verificata.
Negli ultimi giorni la Lega Nord ha incontrato il presidente della Cei, il Cardinale Angelo Bagnasco, lo stesso Gianfranco Fini sembrariavvicinarsi ai vertici del cattolicesimo italiano.
La Chiesa incontra e ascolta tutti, non credo sia questo il problema.
Quindi?
Molti politici leggono quello che avviene all'interno della Chiesa, e i rapporti che si possono avere col mondo cattolico, solo in termini di potere, come se la Chiesa fosse un partito, una parte politica con cui instaurare trattative. Niente di più sbagliato. È sbagliato parlare di tornaconti o ricatti, o di contropartite. Non c'è nessuna contropartita. Non c'è nulla da scambiare. La Chiesa è altro, e segue altre logiche.
Ma cosa pensa davvero del caso Boffo?
È una vicenda partita da un'informativa anonima, falsa, che poi - secondo me - è scappata di mano a chi l'ha fatta uscire. I media l'hanno amplificata e parte del centrosinistra l'ha strumentalizzata dal punto di vista politico, spacciandola per un attacco partito dal Popolo della Libertà. In realtà la responsabilità è solo de Il Giornale di Vittorio Feltri. E Boffo ha spiegato ampliamente le sue ragioni,
Ci sono interpretazioni contrastanti, però.
Feltri è stato spesso in disaccordo con Berlusconi e con le politiche del centrodestra. Lo ha dimostrato diverse volte: è un giornalista che opera in completa autonomia.Questa vicenda è partita su Repubblica prima dell'estate. Poi è degenerata con il passare dei mesi. È una situazione che fa paura. Io ho sempre difeso Silvio Berlusconi e lo faccio anche adesso. Lo ripeto: pensavo fossimo immuni a forzature scandalistiche di questo tipo. Evidentemente non lo siamo.
La stampa estera continua ad attaccarci. Crede che siano casi isolati?
La stampa estera, soprattutto quella inglese, ha sempre vissuto di scandali. Molto più di noi.
Quindi non esiste una questione cattolica all'interno del Pdl?
È giusto che tutti facciano un passo indietro in questo momento. Nessuno ha da guadagnare in un clima come questo, che allontana sempre di più dalla verità.

il Riformista 6.9.09
Perché Feltri e Belpietro tireranno dritto
È il giornalismo bellezza!
di Giampaolo Pansa


Nel descrivere quanto stava accadendo da mesi nei giornali italiani, prevedevo l'inizio di una guerra civile dentro la carta stampata. Dovuta alle nuove e più agguerrite direzioni dei due quotidiani lontani dalla sinistra, il Giornale e Libero. E concludevo dicendo che sarebbe colato «il sangue e anche qualcosa di più immondo».
Dal momento che Boffo mi ha citato, stuzzicando la mia vanità, anch'io voglio citare lui. La sera di domenica 30 agosto, giorno d'uscita di un altro Bestiario dedicato ai moralisti che avevano qualche difetto, il direttore di Avvenire mi ha telefonato. Preciso che entrambi non eravamo abituati a cercarci. Boffo mi ha detto che condivideva il mio articolo dalla prima riga all'ultima. Ma ci teneva a spiegarmi di non essere tra i big che descrivevo: signori importanti che speravano di farla franca se nella loro vita privata c'era qualcosa che non andava.
A quel punto gli dissi che, per il ruolo che ricopriva, aveva il dovere di raccontare la sua verità sulla faccenda delle molestie a sfondo sessuale rivolte alla ragazza di Terni. Erano venute da lui o dal misterioso assistente drogato che utilizzava il suo cellulare? Boffo mi rispose: «Lo farò a tempo debito, quando sarà il momento». Confesso che provai una gran pena. Aveva il tono dell'uomo distrutto e messo alle corde.
Da allora sono arrivati giorni infernali. Boffo è stato costretto a lasciare Avvenire. La guerra civile di carta sta infuriando. Lui avrebbe potuto spegnerla subito, spiegando come si era deciso a pagare l'ammenda per evitare un processo pubblico. Però non l'ha fatto. Forse aspetta ancora il momento adatto. È una sua scelta. Non la condivido, ma la rispetto.
Quello che non voglio rispettare è il frastuono, lo schiamazzo, la cagnara venuti dall'intera casta politica. Lascio perdere il nostro presidente del Consiglio. Silvio Berlusconi sta sbagliando tutte le mosse nei confronti dei media. La querela e la citazione per danni sparate contro Repubblica e l'Unità sono un errore catastrofico. Hanno autorizzato repliche assurde: siamo al fascismo, arriva Hitler, il Cavaliere vuol chiudere i giornali che lo attaccano.
A perdere sarà lui. Basta vedere qualche tigì per rendersi conto di quanto sia stressato, con i nervi a fior di pelle. Nei mesi scorsi gli avevo suggerito due volte di dimettersi, per salvare la propria immagine e la salute. Oggi non lo farò più, anche se continuo a pensarla così.
Ma i partiti di maggioranza e di opposizione non sono guidati da leader a un passo dalla crisi personale. O almeno così sembra. Eppure il loro comportamento è stato indecente, e non sempre rintuzzato dai giornali nel modo giusto. Uno spettacolo grottesco: destra e sinistra unite nella lotta ai maledetti giornalisti che vogliono frugare nei loro armadi, come succede in tutte le democrazie del mondo.
La rabbia che erutta dalla sinistra, nelle sue tante versioni, non mi ha stupito. Gli insulti sputati contro Vittorio Feltri e Maurizio Belpietro sono gli stessi che avevano sputato contro di me per i miei libri revisionisti sulla guerra civile. Fascista, servo di Berlusconi, bugiardo, diffamatore della Resistenza, venduto in cerca di soldi: mi hanno dipinto così. Pazienza, sono io che ho messo alle strette la nomenklatura di centro-sinistra, rivelando le bugie spacciate per sessant'anni. Adesso il Club dei Nasi Lunghi, fondato da Pinocchio, sta perdendo tifosi e voti. Pace all'anima loro.
Mi hanno sorpreso di più certi ras della destra. Primo fra tutti Gianfranco Fini che ha strillato: basta con il killeraggio dei giornali! Bel tipo, il nostro presidente della Camera. Lo smemorato di Collegno era un dilettante rispetto a lui. Se avessi dovuto interpretare i suoi umori, non avrei scritto una riga dei miei libracci. Raccontare dei morti fascisti lo infastidisce. C'era anche un suo parente? Al diavolo anche il parente.
Per venire all'oggi, Fini ci fa comprendere bene che cosa pretenda l'intera casta partitica. La casta ha difeso a spada tratta il silenzioso Boffo, del quale non gl'importava un fico, soltanto per mandare un messaggio ai giornali: non scrivete di noi, guai se osate mettere il naso nelle nostre faccende.
Purtroppo per loro, non andrà così. Volete sapere quel che avverrà? Feltri tirerà diritto. Lo stesso farà Belpietro. Gli altri giornali dovranno imitarli per non apparire mosci o reticenti, perdendo nuovi lettori. Posso sbagliarmi, però dopo il caso Boffo nulla sarà più come prima. Ma l'equilibrio fra i poteri si realizza anche così.

il Riformista 6.9.09
Procura di Bari. Così il palazzo si è trasformato in un teatro di guerra
Cento inchieste mille veleni e nessun capo
di Alessandro Calvi


Giustizia acefala. I pm, da mesi senza guida dopo l'uscita di scena del procuratore Marzano, si contendono fascicoli e testimoni. I filoni d'indagine si moltiplicano. In attesa che si insedi il nuovo capo Laudati, nominato in aprile, ma che non ha ancora preso possesso del suo ufficio.

Indaga e guarda all'Italia da Sud. A forza di fascicoli, intercettazioni e qualche nome di primissimo piano, risale lo stivale: Roma e la Sardegna. E non si ferma. Non è la Procura di Potenza, e non sono gli anni di vallettopoli. È la Procura di Bari, alle prese con inchieste che si intrecciano, si sovrappongono e riguardano sostanzialmente gli stessi episodi sui quali, però, sono al lavoro diversi magistrati le cui valutazioni non appaiono sempre univoche. Tutto ciò, infine, senza un apparente coordinamento. E, forse, non soltanto perché la Procura di Bari è, ancora oggi, una procura sostanzialmente acefala.
Si può partire proprio da qui. Già, perché, almeno formalmente, un capo la Procura barese ce l'ha: si chiama Emilio Marzano. Ma è un capo, per così dire, azzoppato. E non soltanto per le polemiche scoppiate attorno alla gestione del caso dei fratellini di Gravina di Puglia rinvenuti cadavere in un pozzo al centro del paese nel 2008, ma soprattutto perché Marzano ha raggiunto, nel novembre scorso, il limite degli 8 anni di permanenza negli incarichi direttivi. È vero che il nome del suo successore è noto dallo scorso aprile ed è quello di Antonio Laudati. E anche vero, però, che Laudati deve ancora prendere possesso del proprio ufficio.
Normale amministrazione, si dirà. Certo, però, colpisce il fatto che alcune delle più delicate inchieste giudiziarie degli ultimi anni siano nate tutte in una procura che da mesi non ha un capo nel pieno delle proprie funzioni. E colpisce ancor di più un fatto che emerge anche dalla semplice lettura di quegli stessi giornali che, con cadenza quasi quotidiana, danno conto di indiscrezioni e progressi delle varie inchieste. Ci si riferisce qui al fatto che sono diversi i pm al lavoro sugli stessi fatti ma con indagini diverse, tanto che le diverse inchieste finiscono per intrecciarsi l'una con l'altra senza nessun coordinamento. Nel via vai al quale si è assistito a palazzo di giustizia, ad esempio, è capitato che Gianpaolo Tarantini sia stato ascoltato dal pm Giuseppe Scelsi come indagato nell'ambito della inchiesta partita nella primavera scorsa dopo le dichiarazioni di Patrizia D'Addario e, poco dopo, sia stato ascoltato come persona informata sui fatti dal pm Desirée Digeronimo. Qualcosa del genere era avvenuta qualche settimana prima quando il pm Digeronimo aveva ascoltato come persona informata sui fatti Lea Cosentino la quale, il giorno successivo, veniva ascoltata da Scelsi come indagata. Né deve stupire il fatto che nell'inchiesta sugli accreditamenti sanitari istituzionali condotta dai pm Roberto Rossi e Lorenzo Nicastro si stia valutando la posizione di ex assessori, già oggetto di inchiesta da parte di Scelsi. Ma nonostanto questo, anche gli ultimi e recentissimi tentativi del procuratore aggiunto Marco Dinapoli di evitare la sovrapposizione di indagati, intercettazioni e consulenze sono caduti nel vuoto.
E non è tutto. Può infatti capitare che indagini vecchie di anni ritrovino improvviso slancio. Anche un giornale non certo ostile alle procure come Repubblica, infatti, nella sua edizione barese del 17 luglio scorso, e con un fondo del responsabile della redazione locale Stefano Costantini, finiva per ricostruire in questi termini il clima degli uffici della procura barese. A proposito di quello che Repubblica chiama «sistemaTarantini», si faceva osservare che «leggere di Gianpaolo Tarantini e soci nelle intercettazioni di sette anni fa, serve solo a spostare nel tempo l'inizio di quelle attività». «Ciò che invece lascia stupiti - scriveva Costantini - è che dal 2002 a oggi la magistratura non sia intervenuta. L'inchiesta del pm Rossi viene chiusa la settimana scorsa, anni dopo il deposito in procura delle intercettazioni». Quindi, la chiusa: «C'è da chiedersi: se non fosse scoppiato lo scandalo delle escort a Palazzo Grazioli, avremmo mai saputo di questo ennesimo mercato criminale?». Già, c'è da chiederselo. Così come ci sarebbe da chiedersi anche se i fatti dei quali la magistratura era venuta a conoscenza, siano ormai coperti da prescrizione.
Cosa accade a Bari, allora? È lecito chiedersi anche questo ma trovare una risposta non è facile. Il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, nella famosa lettera aperta al pubblico ministero Desirée Digeronimo scriveva di una «girandola di anomalie con le quali si coltiva un'inchiesta la cui efficacia si può misurare esclusivamente sui tg». E tra le asserite anomalie, la prima sarebbe che la stessa Digeronimo non «abbia sentito il dovere di astenersi, per la ovvia e nota considerazione che la sua rete di amici e parenti le impedisce di svolgere con obiettività questa specifica inchiesta». La seconda anomalia, invece, «riguarda l'aver trattenuto sotto la competenza della Procura Antimafia una mole di carte che hanno attinenza con eventuali profili di illiceità nella Pubblica Amministrazione». Infine, Vendola scrive di un «polverone che si è mangiato i fatti: quelli circostanziati legati al cosiddetto sistema di Gianpaolo Tarantini e nella festosa scena abitata da questo imprenditore io, a differenza persino di alcuni magistrati, non ho mai messo piede».
Sul Riformista del 9 agosto, Peppino Caldarola ricorda che il pm sarebbe amica della sorella del governatore. Quindi, va oltre. «Chi conosce l'ambiente - scrive Caldarola - è riuscito a decrittare l'accusa di Vendola al pm. Nichi fa riferimento a relazioni familiari e amicali della Digeronimo e probabilmente si riferisce non solo all'ex marito della pm che è un'esponente della destra ma anche a un personaggio centrale di uno dei filoni dell'inchiesta sanitaria barese, la manager Asl Lea Cosentino che è inquisita oltre che grande amica della magistrato. Se non fosse una lite in famiglia - osserva Caldarola - Vendola avrebbe avuto davanti a sé la via maestra di un esposto al Consiglio superiore della magistratura per costringere il Csm ad esautorare la Digeronimo. Invece ha scelto lo strumento eccentrico della lettera aperta per reagire alla propria destabilizzazione destabilizzando il pm che ha, a questo punto, chiesto aiuto al Csm».
Già, ma se è vero che la forma inusuale adottata da Vendola per manifestare il proprio disagio ha contribuito ad alimentare quel «polverone», è anche vero che dietro quel polverone ci sono domande alle quali nessuno sinora ha dato risposte. A farlo, presto, potrebbe essere il nuovo capo della Procura di Bari.

il Riformista 6.9.09
La Bari delle cento inchieste e dei mille veleni


È scontro a tutto campo in Puglia. Ieri c'è stato un nuovo interrogatorio di Giampaolo Tarantini, l'imprenditore della sanità al centro delle inchieste giudiziarie che alimentano sempre più lo scontro politico, ora tutto interno al centrosinistra con Michele Emiliano, sindaco di Bari, da un lato e Sergio Blasi dall'altro.
I due, si contendono la segreteria regionale, il primo, come indipendente, il secondo, che è vicino a Massimo D'Alema, è con Bersani. E ieri non si sono risparmiati nell'accusarsi l'uno con l'altro prendendo spunto proprio dalle inchieste che i magistrati baresi stanno sviluppando.
Proprio quelle inchieste, però, continuano a sollevare più di un interrogativo. Da mesi la procura del capoluogo pugliese attende il nuovo capo che prenderà il posto dell'attuale, azzoppato - per così dire - dalle polemiche sul caso dei fratellini di Gravina e dall'aver raggiunto il limite degli otto anni di permanenza negli incarichi direttivi. Nel frattempo, diversi pm continuano a lavorare senza nessun coordinamento tanto che le diverse inchieste finiscono per intrecciarsi l'una con l'altra.

Repubblica 6.9.09
Prigionieri dell'8 settembre
L´odissea dei fedeli senza Stato
di Franco Marcoaldi


La tragica storia dei seicentocinquantamila internati militari italiani che negarono la loro adesione alla Repubblica sociale viene ora ripercorsa in un libro che raccoglie diari, lettere e testimonianze dai lager nazisti. Così tra il 1943 e il ´45 nacque la prima forma di silenziosa resistenza dei traditori traditi

«Il cervello è un vulcano di pensieri: la vita, la casa, i tedeschi. La testa mi scoppia. Che fare? Alle 24, invece del cambio, arrivano altri uomini armati. Uno dice: "Altro che pace!" É la guerra di nuovo. Contro i tedeschi, stavolta». Così l´allievo ufficiale Lino Monchieri annota nel proprio diario la sensazione di assoluto smarrimento di fronte al collasso dell´8 settembre, collasso di un esercito e di una intera nazione, a cui farà seguito la cattura e la deportazione nel Terzo Reich di centinaia di migliaia di soldati e ufficiali italiani, la maggior parte dei quali, negando la loro adesione alla Repubblica Sociale, daranno vita alla prima forma di resistenza contro il nazifascismo.
La storia, a lungo rimossa, dei seicentocinquantamila internati militari italiani viene ora ripercorsa in un importante libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri, che raccoglie diari e lettere dai lager nazisti nel periodo 1943-1945. E niente come questa grande massa di documenti personali (compreso un capitolo dedicato a chi decide di stare dalla parte dei tedeschi e dei repubblichini), riesce a dar conto di una vicenda storica complessa e tragica, in cui l´umiliazione di un intero popolo si intreccia a una progressiva presa di coscienza individuale e collettiva, a una fedeltà nelle proprie convinzioni pagata molto duramente. E per nulla ricompensata dalla nazione italiana.
Dopo lo sbandamento seguito all´8 settembre, i tedeschi disarmano circa un milione di uomini, «di cui 196.000 fuggono o vengono liberati, 94.000 aderiscono subito, oltre 13.000 muoiono prima di arrivare nei lager e ben 710.000 vengono deportati con lo status di Imi». Dall´Italia, dalla Francia, dai Balcani, cominciano a partire alla volta del Terzo Reich lunghe tradotte dove i militari italiani vengono stipati come bestie, dentro vagoni sigillati: «Cerchiamo di sdraiarci alla meglio», scrive l´allievo ufficiale Giovanni Notte, «ma è impossibile. Sembra che nani maligni si siano divertiti ad allungare i piedi e le gambe. Se allunghi un piede, trovi subito dieci, venti piedi e un buon numero di persone che urlano».
L´impatto con i lager, se possibile, è ancor più terrificante di questa peregrinazione alla cieca nel cuore dell´Europa: l´offesa patita dai carcerieri, ex alleati, risulta da subito insopportabile. Chi è stato tradito dal proprio Stato ora deve, in sovraprezzo, sentirsi definire traditore. Trattato come un "sottouomo" dai suoi aguzzini.
Le condizioni igieniche sono pietose: «Il campo era privo di fogne», ricorda il sottotenente Gastone Petraglia. «L´acqua sporca stagnava lungo rigagnoli scavati nella sabbia e molto vicini alle baracche. Si beveva acqua inquinata e non potabile. Oltre a ciò lo spurgo delle latrine andava a finire nelle vicinanze di quelle pompe infiltrandosi in tal modo nell´acqua». Se a tutto ciò si assommano gli effetti dell´intollerabile freddo di un primo, rigidissimo inverno, ecco spiegato l´immediato dilagare di tubercolosi, dissenteria, malaria, tifo petecchiale.
Ma il nemico numero uno è e sarà per tutto il periodo della prigionia, la fame. Una fame lancinante, onnipresente: un buco nero che niente riesce a placare. La brodaglia quotidiana di rape e pane di segala, chiamata in gergo sbobba, è assolutamente insufficiente. Così c´è chi finisce per contendere il fieno ai cavalli, per mangiare la legna bruciata. Il rischio della pazzia è sempre dietro l´angolo e difatti non mancano casi in cui sotto il materasso di prigionieri morti di inedia, si trovano pagnotte nascoste e accumulate nel corso dei mesi.
Il cibo diventa una vera e propria ossessione che popola le fantasie notturne degli internati. Giuseppe Volpi racconta di un ricorrente "sogno aritmetico": «Turbato che il mio accantonare un settimo di razione mi desse in due giorni solo un quinto in più, stanotte ho fatto di nuovo le operazioni con le frazioni ed ho trovato la soluzione. Mettendo via un settimo più un quinto al giorno, e cioè dodici trentacinquesimi, pari per difetto a un terzo, avrò alla domenica due razioni».
Al risveglio, però, queste elucubrazioni lasciano il tempo che trovano. E nella crescente disperazione si tenta la strada del mercato nero: un orologio, un paio di guanti e di stivali contro lardo, pane, tabacco. Nel lager polacco di Benjaminowo la "borsa" ha luogo nei cessi, e i detentori del "listino" sono i polacchi destinati alla pulizia dello sterco, altrimenti detti "merdaioli". «Il mercato», annota il sottotenente Antonio Rossi, «deve svolgersi di nascosto e perciò avviene nell´interno del gabinetto ed il "merdaiolo" per far entrare la merce nel campo la mette in una cassetta che poi sprofonda nel carro sporco. E non è raro che qualche pagnotta non sia proprio pulita».
Sì, la fame è la parola chiave attorno a cui ruota tutta la vita del prigioniero. E ben lo sanno i tedeschi, che battono e ribattono su questo tasto nella loro reiterata proposta di adesione alla Repubblica Sociale rivolta agli ufficiali italiani (diverso il caso di sottufficiali e truppa, che dopo l´iniziale rifiuto vengono spediti al lavoro coatto per rimpiazzare la manodopera tedesca impegnata sui fronti di guerra).
Dunque il "no" ai nazisti da parte di ciascun ufficiale è reiterato, continuo, ciò che rende ancor più commovente e ammirevole questa lotta senza armi contro il nazifascismo. E ripropone la domanda su quali siano state le ragioni che hanno spinto un numero così alto di militari a perseverare nella propria scelta. Lo spettro delle motivazioni è quanto mai ampio e gli autori del libro (oltre a Giorgio Rochat, nella sua prefazione) ne danno puntualmente conto: soprattutto all´inizio gioca un ruolo fondamentale la stanchezza nei confronti della guerra; imprescindibile è l´attaccamento alla divisa e alle stellette, il giuramento dato al re e non a Mussolini; mentre assume un peso crescente l´odio maturato giorno dopo giorno nei confronti dei carcerieri tedeschi. Il fatto è che ciascuno di questi uomini, per la prima volta in vita sua e dopo essere stato imbevuto per anni e anni di ideologia fascista, ora deve fare i conti con la propria coscienza. E maturare individualmente le proprie decisioni, nelle peggiori condizioni possibili. «Siamo soli», scrive il capitano medico Guglielmo Dothel, «non combattiamo più per nessuno ma solo per noi stessi in nome della nostra coscienza, del nostro onore, della nostra dignità di uomini».
La scelta, oltretutto, si rivela tanto più difficile perché la condizione assolutamente anomala di "internato militare" (pervicacemente voluta da Hitler), impedisce qualunque controllo e conforto da parte degli organismi internazionali preposti, in primis della Croce Rossa. Senza contare la percezione di un totale abbandono da parte di ciò che resta dello Stato italiano, mentre per contro montano le pressioni di quei familiari che invitano i loro congiunti a lasciar perdere e a ritornare a casa.
Paradossalmente, è proprio all´interno del lager che i nostri militari troveranno le energie necessarie a portare fino in fondo la propria decisione, rinsaldata da una crescente consapevolezza antifascista. Sì, è nel lager, perché lì nasce quella singolarissima comunità che Giovanni Guareschi definirà «Città Democratica»; il primo germe di democrazia con cui vengono a contatto giovani cresciuti tra fasci littori, adunate di Balilla e Avanguardisti, e che ora - nel luogo più impensato, tremendo - si trovano a discutere della libera scelta individuale. E ad apprendere, in lunghe serate trascorse in baracca, i primi rudimenti di filosofia, politica, storia italiana, poesia, musica, teatro. Pensate solo quale concentrato di intelligenze e talenti era presente nel già citato campo di Benjaminowo: Guareschi, il caricaturista Novello, il poeta Rebora, il filosofo Enzo Paci, l´attore Gianrico Tedeschi. Che incredibile scuola di vita, deve essere stata.
In una lettera inviata dal capitano Giuseppe De Toni al fratello Nando e letta da Radio Londra, è scritto: «Ho letto di Madri, Mogli, Figli che chiedono, implorando in buona fede una firma disonorevole; io stesso ho ricevuto, e non una sola volta, una invocazione rivolta al mio cuore di marito e padre, un appello diretto alla ragione. É la prova suprema per un uomo. Ma c´è qualcosa in me, in noi, che supera ogni lato affettivo, ogni tentazione, ogni lusinga, qualcosa che ci permette di vincere anche il nostro egoismo che si fa spesso tanto prepotente».
De Toni intuisce che in Italia si comincia a insinuare che gli Imi siano in realtà degli attendisti, addirittura degli imboscati. «Siete in buona fede e solo per questo possiamo perdonare la vostra debolezza. Ma da voi, da tutti voi, non attendiamo solo un aiuto materiale, pur tanto prezioso, quell´aiuto che salva la nostra esistenza fisica. Noi attendiamo, come ancor più prezioso, più necessario, il vostro aiuto morale, il conforto della vostra comprensione, il vostro incitamento a resistere».
Purtroppo le cose non andranno nel senso auspicato dal capitano. Quando, finita la guerra, gli internati militari italiani sopravvissuti all´orrore del lager torneranno in Italia, troveranno una patria a dir poco distratta. L´unica Resistenza ufficialmente riconosciuta è quella dei partigiani. L´onore militare e la fedeltà al re sono monete vecchie, ormai fuori corso. La ferita aperta dalla catastrofe istituzionale dell´8 settembre va dimenticata a tutti i costi. Così la ribellione silenziosa e disarmata di centinaia di migliaia di italiani si trasforma in una esperienza di cui è meglio tacere, che induce addirittura a un sentimento di vergogna.
E quella drammatica storia finisce per essere allontanata dalla memoria collettiva di un paese che ancor oggi, a sessantacinque anni da quegli avvenimenti, paga un altissimo prezzo per la mancanza di un passato condiviso. Aveva ragione Guareschi: «I più pericolosi nemici dell´Italia, mi vado convincendo che sono proprio gli italiani».

il Riformista 6.9.09
Alfred, da pupillo del boia Heydrich a falsario di Adolf
di Tonia Mastrobuoni


Oblio. Naujocks fabbricò l'alibi per la Seconda guerra mondiale, fu la mente di altre operazioni truffaldine dei nazisti. Escogitò la più grande falsificazione di banconote della storia. Poi è scomparso, nessuno sa quando sia morto.

La nonna è morta. Con questa frase in codice Reinhard Heydrich, capo dei servizi di sicurezza nazisti, trasmise l'ordine che scatenò settant'anni fa la Seconda guerra mondiale. Dall'altro capo del telefono, il fidato Alfred Naujocks. Il ventisettenne Sturmbannfuehrer delle SS decifrò al volo. Poco dopo fece irruzione con i suoi uomini travestiti da soldati polacchi nella piccola stazione radio di Gleiwitz, nella Slesia. Erano le otto di sera. Una voce fece sapere alla Germania che la stazione era stata occupata da Varsavia. L'annuncio non fu portato a termine perché un povero funzionario della radio, ignaro della messinscena dei suoi connazionali, interruppe il segnale. Ma il disastro era fatto. Il "casus belli" inscenato, il sipario sul prologo del più atroce conflitto del secolo scorso si era alzato. Qualche ora dopo, nella notte del primo settembre, il cielo di Danzica fu illuminato dalle bombe naziste, un mese dopo la promessa del patto Ribbentrop-Molotov era onorata e la Polonia spartita tra Germania nazista e Unione Sovietica comunista.
Per rendere più credibile la storia, Naujocks aveva arrestato la notte prima un ragazzo di un villaggio vicino, Franciszek Honiok, lo aveva drogato e vestito con un'uniforme polacca. Quella notte del 31 agosto 1939 gli sparò e lo lasciò a terra, nella stazione radio di Gleiwitz. Il suo cadavere travestito - nome in codice "barattolo di conserva" - fu la menzogna con cui Hitler giustificò il suo blitzkrieg in Polonia.
Il travestimento di Gleiwitz non fu un episodio, nella vita di Alfred Naujocks. Il pupillo del "boia" Heydrich fu regista di altre, clamorose mise-en-scene e di gigantesche operazioni di falsificazione messe in atto dal regime. Quando disertò e si consegnò nel 1944 agli inglesi, cominciò a raccontare la sua storia. Anche quella, teatralizzata e condita di bugie, come la presunta partecipazione alla resistenza antinazista austriaca. Poi, dopo Norimberga, in tempo di pace si trasferì ad Amburgo e vendette la sua storia ai media tedeschi come «L'uomo che fece scoppiare la Seconda guerra mondiale» ma finì i suoi giorni avvolto nel mistero, forse nel 1960, forse nel 63 o 68. Nei primi anni del dopoguerra, era stato anche membro attivo dell'operazione Odessa, l'organizzazione che garantì protezione e rifugio a molti ex-SS dopo la guerra (magnificamente raccontata in un romanzo di Frederick Forsyth).
Originario di Kiel, figlio di un droghiere, Naujocks interruppe gli studi da ingegnere e fece una carriera rapida nel partito di Hitler perché era l'uomo giusto per i lavori sporchi, l'uomo più fidato del gerarca Heydrich. Come tanti esponenti di spicco del nazismo, si era fatto notare già giovanissimo come attaccabrighe. L'oggetto prediletto delle sue scorribande erano i militanti comunisti, contro i quali metteva in mostra le sue doti da pugile dilettante. Uno sport amatissimo negli anni della Repubblica di Weimar, che incantò non soltanto Bertolt Brecht, ma che era stato osannato anche da Hitler in Mein Kampf. «Nessun altro sport risveglia in modo così forte lo spirito di assalto, richiede così pronta decisione, rende forte ed elastico il corpo», aveva scritto il Führer nel suo delirante manifesto politico. Nel 1931 Naujocks entrò nelle SS e divenne il confidente di Heydrich. Da lì cominciò la sua irresistibile ascesa.
Due mesi dopo Gleiwitz, a novembre del 1939, Naujocks era già pronto per "l'operazione Venlo", un'altra farsa nazista. La mente era stata Walter Schellenberger, collega delle SS, capo del IV ufficio dei servizi per la sicurezza del Reich e rivale di Naujocks. I due erano in competizione continua per arraffarsi la fiducia di Heydrich. A Venlo, piccola cittadina olandese vicino alla frontiera tedesca, un commando di SS guidato da Naujocks rapì due ufficiali britannici e li trasferì con la loro automobile in Germania. La stampa tedesca li accusò di aver organizzato il fallito attentato a Hitler di Monaco. Tragica ironia della sorte, furono rinchiusi nello stesso campo di concentramento, Sachsenhausen, in cui fu trasferito poco dopo il falegname Johann Georg Elser, il vero attentatore di Monaco. Per questa boutade, Naujocks si guadagno la croce di ferro. Ed ebbe in premio anche la macchina dei due ufficiali inglesi.
Poco tempo dopo, nel costante affanno di ingraziarsi Heydrich e battere Schellenberger in ruffianeria, Naujocks escogitò la famigerata "operazione Bernhard". L'idea era quella di affossare la sterlina inondando la Gran Bretagna di banconote false, di indebolire il nemico precipitandolo nel baratro dell'inflazione al galoppo. Oltrettutto, in piena guerra. Prese il nome da Bernhard Krueger, il capitano delle SS incaricato da Naujocks dell'operazione. L'idea fu accolta con entusiasmo da Heydrich e sottoposta a Hitler, che diede immediatamente il via libera.
L'"Operazione Bernhard", immortalata in un film, Il Falsario (Oscar come miglior film straniero nel 2008), soprattutto, raccontata in un libro straordinario, L'officina del diavolo (Nutrimenti), dall'ex prigioniero di Auschwitz Adolf Burger, fu tenuta segretissima. Il compito di trovare il modo di fabbricare banconote fedelissime agli originali fu affidato ai prigionieri dei campi di concentramento. Tipografi come Burger, falsari, pittori, maestri cartai, incisori, chiunque potesse dare un contributo fu spostato dai campi di sterminio e di concentramento di tutta la Germania e trasferito a Sachsenhausen.
Le difficoltà iniziali furono enormi. A cominciare dal materiale delle banconote. Gli uomini di Naujocks, racconta il libro, analizzarono i biglietti originali e arrivarono alla conclusione che le sterline non erano prodotte con un tipo particolare di fibra di canna birmana, «come si teneva all'inizio», ma con stracci di lino, usati. Poi ci fu il problema di scoprire il sistema di numerazione delle banconote inglesi, quello di riprodurre alla perfezione il panneggio e gli svolazzi della dea Britannia, «nel quale, per motivi di sicurezza, era stata inserita un'insidia particolare». Alla fine il piano riuscì. E venne il momento di mettere alla prova quei soldi falsi. Ancora una volta fu escogitata una messinscena.
Su incarico di Naujocks, un agente fu mandato in Svizzera, con l'incarico di cambiare quelle banconote. Raggiunta una banca elvetica, si presentò al funzionario con le sterline e gli chiese di verificarle molto attentamente perché provenivano dal mercato nero. Gli allungò una lettera, anch'essa finta, della "sezione falsi" della Banca centrale tedesca che sollevava dubbi su quei soldi e aggiungeva che purtroppo nessuno a Berlino era in grado di controllarne l'autenticità. Tre giorni dopo, arrivò il risultato. Un'indagine approfondita mostrava che le banconote false erano vere. Un passo ulteriore fu la richiesta del mediatore di fare un'altra verifica, via telegrafo, direttamente con la Banca d'Inghilterra. «La risposta - racconta Burger - arrivò immediatamente: "Tutto regolare - stop - banconote con le date indicate sono in circolazione". Naujocks esultò. Heydrich era entusiasta. A quel punto la produzione di massa delle false banconote inglesi poteva cominciare». Ben 133 milioni di sterline furono buttate sul mercato britannico: il più vasto piano di falsificazione di banconote di tutta la storia.
L'inflazione però non piegò la Gran Bretagna. Soprattutto, Naujocks concluse la sua inarrestabile ascesa politica poco dopo. Ufficialmente, perché non obbedì a un ordine del suo capo, Heydrich. Secondo alcuni storici, tuttavia, cadde in disgrazia perché il "boia" pensò che il suo pupillo sapesse qualche dettaglio di troppo della sua vita privata. Naujocks era stato in prima fila anche per un'altra famosissima operazione nazista che permise alle gerarchie di ricattare e condannare una serie innumerevole di persone. Aiutò a stabilire a Berlino il bordello di lusso Salon Kitty, che pullulava ovunque di microfoni.
Alfred Naujocks, alias Hans Mueller, alias Alfred Bonsen, alias Rudolf Moebert, è passato alla storia banalmente come SS-Sturmbannfuehrer che fabbricò la scusa per l'invasione della Polonia. Ma fu anche, come lo ricorda Burger, «l'uomo che concepì la più grande operazione di falsificazione della storia». Un burattino e un falsario, un ruffiano micidiale e un regista crudele talmente inghiottito dalla storia che oggi è difficile ricostruire anche in che anno sia morto.

Corriere della Sera 6.9.09
Werner Herzog
Arriva con «My Son, My Son, What Have Ye Done» dopo aver presentato «Il cattivo tenente»
«Inseguo la follia ma sono l’unico sano»
L’attore: «L’importante è simulare perché è difficile definire i veri confini della pazzia»
di Maurizio Porro


Herzog a sorpresa: il primo nella storia del Lido con due film in gara

VENEZIA — È stata una su­per sorpresa: il film misterio­so è di Werner Herzog, che di­venta così il primo autore del­la storia in gara al Lido con due film diversi e complemen­tari che dimostrano due perso­nalità di regia: Il cattivo tenen­te e My son, my son, what ha­ve ye done con Willem Dafoe e Chloe Sevigny testimoni del flash back di un fattaccio di cronaca. «Venezia non mi ha voluto in concorso per 40 an­ni » commenta l’autore «ora voglio provare questa avventu­ra suggerita da Müller, che ha amato follemente tutti e due i film». Ecco la parola: follia. È una storia vera quella che rac­conta il film con tanto odio-amore per l’America.
Riguarda un caso di follia, tema che insegue il regista te­desco dai tempi non sospetti di Aguirre : «Ma voglio chiari­re che io non mi considero fol­le, anzi dico che mi sembra, oggi al Lido, di essere l’unico clinicamente sano».
Così sano da vivere a L. A. tenendo conferenze ovunque e depositando il marchio di una scuola per giovani. Mala­to marcio invece il protagoni­sta, un attore classico di gran bravura che una sera, dopo una replica dell’ Orestea , torna a casa e uccide davvero la ma­dre impicciona ma non degli Atridi. Insomma l’inclusive tour nel dilemma edipico con un tragitto andata ritorno Eschilo-Freud: dopo otto anni e mezzo di manicomio, ecco­lo ufficialmente guarito e libe­ro. «Allora andai a trovarlo ma ebbi paura: viveva in un camper e, sotto un crocefisso, ardeva una candela».
Allora Herzog, che appunto matto non è, ha lasciato fare ai produttori, tra cui l’amico David Lynch con cui il film è nato per scommessa: non su­perare i 2 milioni di dollari. Per il ruolo del killer ha scelto (e lo paragona al suo mito Kin­ski) il bravo Michael Shan­non, già candidato all’Oscar per aver così ben simulato la follia in Revolutionary road.
Dopo la cura intensiva e la full immersion nell’Herzog way of life (andarono insieme per i sopralluoghi in Cina e in Perù, luoghi sacri di mitici film), dopo aver recitato con una mucca su un piede, non si preoccupa più di impazzire: «L’importante è simulare per­ché è difficile definire i veri confini della follia. Io faccio l’attore proprio perché non vo­glio vivere la normalità che rende prigionieri tutti, ma quando recito mettendo in pa­lio il subconscio, mi sento un intermediario tra la follia del­la realtà e la personalità a cala­mita di Herzog». Vecchia que­stione che ripropone anche il magnifico film di Solondz (an­cora libero per l’Italia!) che tratta di dolori ancestrali con humour yiddish: Neil Simon travestito da Eschilo.
Chi è il colpevole? Il mag­giordomo o la folla? «A volte basta affacciarsi sui panorami di San Diego e vien subito vo­glia di diventare pazzo» dice Shannon con slancio. Questo film lo dimostra e lo trasmet­te benissimo, sturm und drang di Werner, indeciso se sia folle l’assassino o tutto il mondo, visione pop di una so­cietà che s’identifica nella ca­sa rosa e nell’ossessione dei fe­nicotteri: «La domanda sul­l’origine e confine della follia rimane aperta» dice l’autore di Fitzcarraldo , «noi coltivia­mo l’arte della ricerca anche nei confronti di noi stessi, por­tando pure gli attori al limite di un gran viaggio nel subcon­scio » .

Corriere Salute 6.9.09
Psicoterapie. Le «sedute» informatiche possono giovare alla depressione nel 42% dei casi
Lo psicologo può curare online
Per la prima volta uno studio inglese ha dimostrato l’efficacia dei trattamenti via Internet
di Daniela Natali


42% La quota di pazienti depressi, seguiti online, che ha ottenuto risultati positivi
Secondo alcuni esperti, la terapia online è utile solo se si aggiungono periodici incontri faccia a faccia
Depressione Uno studio del Lancet sdogana i trattamenti online
Accanto al «lettino» la tastiera del computer
Psicoterapia virtuale: dimostrata l’efficacia

Niente «lettino», nessuna «ri­tualità », ognuno a casa propria, zero possibilità di guardarsi in faccia e di cogliere atteggiamen­ti, sguardi, spesso più eloquen­ti delle parole. Eppure funzio­na. Stiamo parlando di psicote­rapia on line, una modalità di cura che fino a qualche tempo fa faceva inorridire gli psicolo­gi europei (decisamente meno quelli americani) e che ora rice­ve il benestare del Lancet. Biso­gna però circostanziare il cam­po: non stiamo parlando di psi­coanalisi, ma di terapia cogniti­vo comportamentale ( vedi sche­da ) e di una psicopatologia ben definita, la depressione. L’arti­colo pubblicato da Lancet ripor­ta i risultati di uno studio ingle­se su 297 pazienti. Di questi, 149 oltre alle cure ricevute dal medico di famiglia (compresa la prescrizione di antidepressi­vi) hanno seguito una psicote­rapia on line, i 148 del cosiddet­to «gruppo di controllo» sono stati solo seguiti dal loro dotto­re di base. Al termine dei quat­tro mesi di esperimento, le per­sone affiancate dagli psicologi via computer erano migliorate nel 38% dei casi, mentre nel gruppo di controllo i risultati positivi erano presenti nel 24% dei pazienti. E, altri quattro me­si dopo, il divario tra i due grup­pi era aumentato: per il primo, 42% di successi, per il secondo, 26%. Doveroso chiarimento: i pazienti comunicavano, sia pu­re solo via tastiera, con uno spe­cialista che, in tempo reale, col­loquiava con loro. Gli incontri via computer, dieci in tutto, era­no di 55 minuti l’uno e da termi­narsi in quattro mesi.
Gli autori della ricerca com­mentano che la possibilità di avere immediatamente, e ogni volta che si vuole, a disposizio­ne il testo integrale del collo­quio con lo psicologo crea evi­dentemente una «distanza» dai propri sentimenti e pensieri ne­gativi che ne favorisce l’elabora­zione. In un commento di un gruppo di ricerca americano, che accompagna le ricerca, si sottolinea che questo approc­cio potrebbe essere utile per chi vive in luoghi isolati o per chi non è perfettamente padro­ne dell’inglese ed è favorito dai tempi lenti della scrittura e del­la lettura.
«Questa ricerca — commen­ta Enrico Molinari, docente di Psicologia clinica e Psicologia della riabilitazione alla Cattoli­ca di Milano e presidente del­l’Ordine degli psicologi della Lombardia — va nella direzio­ne della decisione presa dall’Or­dine nazionale di 'sdoganare' le prestazioni psicologiche on li­ne. Nel 2004 sono infatti state pubblicate, dopo ampio dibatti­to, linee guida per questo tipo di consulenza a garanzia dei pa­zienti ». Che debbono essere cer­ti delle qualifiche del professio­nista con cui parlano e del fatto che quello che dicono resterà ri­servato ( vedi box ). «Detto que­sto, — prosegue Molinari — credo che la terapia via compu­ter possa essere utile solo se, al­meno nella fase iniziale e in qualche altro momento succes­sivo, c’è un contatto diretto con il paziente e se non si cade nella tentazione di applicare proto­colli uguali per tutti, perché le cure psicologiche vanno rita­gliate sulla persona. Poi, biso­gnerebbe analizzare gli effetti collaterali della consulenza onli­ne. Il rischio, dopo aver fatto di­ventare virtuale perfino il ses­so, è di diventare, passo dopo passo, del tutto virtuali, di cade­re nella tentazione di voler vive­re 'sicut angeli'. E, invece, noi siamo anche carne ed è bello che sia così: nell’incontro fac­cia a faccia, lo psicologo 'stu­dia' il paziente, ma anche il pa­ziente studia lo specialista. Non voglio, però, negare le opportu­nità offerte dall’informatica. In un esperimento, ancora in cor­so, condotto nel laboratorio che dirigo in Cattolica e all’Isti­tuto auxologico, stiamo usando anche videoconferenza online e sms per sostenere i pazienti con problemi alimentari. In un altro, su circa 300 pazienti, già concluso, ci siano serviti dei cel­lulari per monitorare pazienti con scompenso cardiaco nell’in­tento di migliorare l’aderenza alle cure, riuscendo a ridurre sensibilmente i ricoveri rispet­to a quanto accadeva nel grup­po di controllo».

Corriere Salute 6.9.09
Quali tutele per le sedute via Internet


«Le linee guida per le prestazioni psicologiche a distanza» dell’Ordine degli psicologi (sul sito www.opl.it) prevedono, innanzitutto, che lo psicologo online sia facilmente riconoscibile in modo da poterne verificare identità e domicilio; che quando il servizio è fornito da più specialisti questo venga chiaramente specificato e che siano fornite informazioni generali relative alle norme professionali e al codice deontologico degli psicologi.
Di norma viene richiesta anche l’identificazione dell’utente; in alcuni casi si può derogare a questa regola ed è responsabilità dello specialista valutare caso per caso, tenendo presente che gli utilizzatori possono anche essere minori o comunque sotto tutela. L’anonimato non esime il professionista dal richiedere un consenso informato al paziente.
Dovere del professionista anche assicurarsi della riservatezza delle informazioni psicologiche servendosi di «idonea strumentazione».

Repubblica 6.9.09
Boom della terapia: la scoprono in 8 milioni. "Fa bene al sesso e alla carriera"
Italiani, un popolo di ipnotizzati
di Alessandra Retico


Bastano dieci sedute per avere risultati, meno impegnativa della psicanalisi
Utile anche per smettere di fumare, dimagrire e ritrovare l´autostima

Dormire, sognare, forse guarire. Il dio Ipnos non è più paranormale, non fa il mago, non è più gemello di Thanatos quello della morte. Risolve più della psicanalisi, è più rapido di molte terapie. Lo dicono gli otto milioni di italiani che ormai ricorrono all´ipnosi, il doppio dello scorso anno, più 108 per cento solo nel primo semestre del 2009.
Per migliorare l´aspetto fisico, smettere di fumare, fare carriera e meglio l´amore. «Guardami, guardami» diceva Giucas Casella in tv, sembrava e forse era solo un gioco di prestigio, ci si divertiva in salotto davanti allo schermo ma poi i problemi si risolvevano altrove, negli studi dei discepoli accreditati di Freud e Jung. Ma che lavoro: lungo e faticoso. Adesso con dieci sedute, 80 euro circa l´una, via tutto o quasi, la vita è veloce e complicata, servono soluzioni psico fast. «Solo quando lo diciamo noi», per lasciare i dubbi, liberarsi da dipendenze, togliere qualche chilo in più.
Lily Allen, la cantante pop inglese, e l´americana Courtney Love l´ipnosi l´hanno usata infatti per dimagrire, Eva Mendes l´attrice perché aveva paura dei ragni. In Svezia ci hanno fatto anche un reality (ipnotico), Backtrack Sweden, tradotto in Italia (va su Sky) con il sottotitolo "Tracce dal passato". Forse una moda, di sicuro un fenomeno. Uno studio Cenispes, il centro italiano di studi politici, economici e sociali, ha indagato per conto dell´Accademia Internazionale "Stefano Benemeglio" delle discipline analogiche l´Italia che dorme tra le braccia di Ipnos.
Sesso, amore, libertà, prestigio e autorealizzazione. Ci vanno per questo uomini e donne dai 18 ai 65 anni, da nord a sud, a recuperare nel sonno l´energia che la veglia toglie, le ragioni che l´io censura. Cercano amore e amicizia soprattutto, vogliono risolvere problemi di coppia (27 per cento), poi libertà e indipendenza anche dalle cose più o meno importanti come smettere di fumare o piacersi di più (23 per cento), infine per sentirsi più e meglio realizzati (il 20 per cento). Città che vai, bisogno che trovi.
A Roma la maggior parte delle persone cerca amore e amicizie, è invece il sesso che interessa di più i napoletani, il prestigio i milanesi, la libertà i fiorentini, l´autorealizzazione i bolognesi. Ma in assoluto a spingere gli italiani ad affidarsi alle mani di un esperto di ipnosi, spiega il Cenispes, sono soprattutto le difficoltà nei rapporti sentimentali. Molti altri sfruttano l´ipnosi per liberarsi dalle molte dipendenze e dai tic della modernità: dallo shopping al gioco compulsivo.
Spiega l´Accademia Benemeglio: "Migliorare l´aspetto fisico, crescere professionalmente, fare l´amore più spesso, recuperare l´ex-partner di un tempo. Il segreto sta nel recuperare l´equilibrio e l´armonia, dando senso a quella parte di noi che la razionalità censura". In breve è questa la tecnica "dinamica" di Benemeglio: nella seduta si decodificano tutti quegli atti comunicativi non verbali che sono privi di significato razionale, segni e gesti portatori di sensi analogici, cioè emotivi.
Giù le barriere logiche, su le istanze irrazionali. Riaffiorano le rappresentazioni a forte carica affettiva rimosse. E infatti questo stato particolare viene chiamato l´"Io bambino", tutto quel magma ricco di impressioni e informazioni che poi formano, anche molto silenziosamente, la nostra psiche. Il terapeuta ci si mette in contatto per modificare i pensieri negativi e orientare quelli positivi. Una pratica simbolica, che agisce nel profondo, tocca le leve più interne e nascoste dalla paura, dal pudore, dalla coscienza. Niente di ascetico, questa è una storia di soluzioni e ambizioni (che si vogliono) risolte: dopo aver visto tutto quel mondo laggiù, dicono che si ritorna qui più concentrati, con risorse fresche. Per mandare la paura al diavolo, per dire che anche così va bene. L´io che ha dormito, com´è leggero.