martedì 8 settembre 2009

l’Unità 8.9.09
Non azzerate la cultura laica
Lettera aperta ai tre candidati del Pd: temi e protagonisti del riformismo liberal-democratico emarginati dal dibattito e dai gruppi dirigenti
di Stefano Passigli


Cari amici, Vi scrivo nella vostra veste di candidati alla se-
greteria del Pd. Sin dalla crisi della I Repubblica e dalla scelta di un sistema elettorale maggioritario si fece strada nel centrosinistra la convinzione che occorresse superare le precedenti appartenenze partitiche e unire in una casa comune le diverse tradizioni del riformismo italiano. Fu questo il principio ispiratore del progetto dell’Ulivo nel 1996, e della nascita dei Ds nel 1998 che segnò il definitivo incontro degli eredi del comunismo italiano con le varie espressioni del riformismo socialista, ambientalista, e azionista-repubblicano. Anche la nascita della Margherita segnò il superamento di una logica strettamente identitaria, unendo all’impegno politico dei cattolici quello di alcune componenti della cultura liberal-democratica.
Questo processo si è interrotto in questi ultimi 2-3 anni con la progressiva marginalizzazione di quella cultura “laica” che è stata tanta parte della storia unitaria del nostro paese; che con Gobetti, Croce, Amendola, i Rosselli, Salvemini, Spinelli ha fornito la più emblematica opposizione al Fascismo; che ha dato un contributo essenziale alla formulazione della nostra Costituzione; e infine che ha garantito le grandi scelte di politica estera (dall’alleanza atlantica all’Europa) e di politica economica (dal libero scambio alla politica dei redditi) che hanno assicurato all’Italia libertà, sicurezza e sviluppo economico.
Complici le liste bloccate introdotte dal porcellum e le scelte di un gruppo dirigente sempre più auto-referenziale, la cultura politica laica è stata insomma emarginata, come dimostra la progressiva esclusione dal Parlamento e da significative responsabilità di partito di personalità di origine socialista come Amato, Bassanini o Ruffolo, o azionista e repubblicana come per non autocitarmi Maccanico, Manzella o Ayala. Per non parlare di esponenti liberal-democratici come Zanone o Debenedetti.
Cari amici, vi siete candidati a guidare il futuro Pd e a rimediare ai tanti errori sinora compiuti dalla sua dirigenza, primo tra tutti l’aver contribuito ad accelerare la fine della scorsa legislatura senza aver prima corretto, se non le leggi ad personam e il conflitto di interessi garantendo la libertà dell’informazione, almeno la legge elettorale.
Tra errori così gravi l’emarginazione della cultura politica laica ancora largamente presente nell’università, nell’informazione, nell’imprenditoria e professioni: in breve nella classe dirigente potrebbe forse apparirvi una colpa minore. Non lo è. Il riformismo laico ha una matrice illuminista ed è legato alla storia del costituzionalismo liberal-democratico. È infatti con l’illuminismo che si apre la stagione dei diritti e si diffonde quel principio di tolleranza che è alla radice della laicità delle odierne società europee e ne rappresenta il tratto distintivo rispetto ai risorgenti fondamentalismi. Ed è con l’illuminismo che si consolida il principio dell’autonomia della scienza da ogni morale e la fiducia nella ricerca come fonte del benessere dell’individuo e della società.
È infine con il costituzionalismo liberal-democratico che si rafforza il principio della separazione e dell’equilibrio tra poteri; un principio che nell’Italia di oggi che vede un Governo sempre più onnipotente, un Parlamento esautorato e a rischio l’autonomia e indipendenza del Giudiziario impone una strenua difesa della forma parlamentare di Governo e degli equilibri sanciti dalla nostra Costituzione. Equilibri che anche l’eccessiva torsione maggioritaria della rappresentanza prodotta da un bipartitismo coatto porrebbe a rischio. Al di là di temi specifici (dalla scuola alla ricerca, dai Dico al testamento biologico) sono i principi fondamentali del riformismo laico che appaiono oggi negletti nel PD.
Mi auguro che condividiate le preoccupazioni che vi ho esposto e che vogliate con una risposta pubblica rassicurare i tanti che sperano che il congresso e le primarie segnino un deciso punto di svolta rispetto alla passata gestione del PD, ma temono che il confronto in atto tra voi possa risolversi solo in uno scontro tra schieramenti interni senza precise scelte di contenuto. In un momento in cui sembra riaprirsi la possibilità per le forze di opposizione di dar vita ad alleanze in grado di farle tornare ad essere maggioranza ciò sarebbe particolarmente grave. Con amicizia

Repubblica 8.9.09
Berlusconi stringe i tempi per ricucire con il Vaticano. Al via la prossima settimana alla Camera l´esame della legge
Il Pdl accelera sul biotestamento "Rafforzeremo l´intesa con la Chiesa"
di Giovanna Casadio


Finocchiaro, Pd: "Vogliono regolare i rapporti con la Santa Sede con una logica di scambio"

ROMA - Con il viatico di Berlusconi tra una settimana, martedì 15, in Parlamento si ricomincia a discutere del testamento biologico. Una accelerazione. Al premier la cosa sta molto a cuore in questo momento. Come si è capito dalla dichiarazione con cui ieri ha negato le tensioni tra il suo governo e la Chiesa. «Rapporti eccellenti - ha detto il presidente del Consiglio - che consolideremo nei prossimi mesi anche su questioni importanti come il testamento biologico». In realtà, dopo il "caso Boffo", Berlusconi ha la necessità di ritrovare una serenità di clima, se non un´intesa, con le gerarchie ecclesiastiche e la legge sul biotestamento - in un "pacchetto" più ampio di questioni - rappresenta il primo banco di prova.
«Abbiamo già trenta iscritti a parlare, ma l´iter procederà in modo sereno. Entro la fine di ottobre, il testo potrebbe essere pronto per l´aula» prevede Giuseppe Palumbo, il presidente della commissione Affari sociali, dove il dibattito riprenderà appunto martedì. «Non esiste, è insultante pensare a tempi stretti, a meno che non si voglia fare un colpo di mano. L´esame deve essere approfondito; per la legge sulle cure palliative, che voteremo la settimana prossima in aula, nonostante non ci siano stati punti di grande frizione, abbiamo impiegato un anno di dibattiti», attacca Livia Turco, ex ministro della Sanità e capogruppo del Pd in commissione.
I Democratici accusano Berlusconi di ridurre la bioetica a merce di scambio per tentare una rappacificazione con la Chiesa. «Provo i brividi che un tema delicato, personale quale è il testamento biologico, stia nella testa di Berlusconi come merce di scambio con la Chiesa. Sia chiaro il principio della laicità dello Stato», afferma Dario Franceschini, segretario Pd. Un appello ai «cattolici e laici del Pdl» perché si smarchino da questa visione «mercantile», viene da Anna Finocchiaro, presidente dei senatori Pd: «È grave l´affermazione di Berlusconi sul biotestamento che svela l´uomo e il politico, perché equivale ad ammettere che i rapporti con la Santa Sede, nella testa del premier, sono e saranno regolati da una logica di scambio e da un atteggiamento tattico e strumentale». «Queste parole sono un insulto alla Chiesa», per Ignazio Marino. E la dipietrista Silvana Mura si rivolge ai laici che pure ci sono nel Pdl invitandoli a battere un colpo.
Dal punto di vista parlamentare lo scontro si annuncia aspro e trasversale. Gianfranco Fini, l´ex leader di An e presidente della Camera, ha criticato la legge sul fine vita così come è stata approvata in prima lettura dal Senato, avvertendo dei rischi di uno Stato etico. Ha detto che si sarebbe impegnato affinché a Montecitorio il testo fosse modificato. Su Fini si sono abbattuti gli strali dei capigruppo del Pdl al Senato, Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. Mentre Fabio Granata, finiano, ha sottoscritto le proposte di Eugenio Mazzarella, il filosofo deputato Pd, che ha riformulato la "norma Englaro" - quella cioè che obbliga all´alimentazione e all´idratazione artificiale e che il governo, la maggioranza e l´Udc vogliono blindare. Mazzarella sarà sentito tra i primi in commissione, la sua è una mediazione che raccoglie il consenso di molti cattolici. Il relatore della legge, il pdl Domenico Di Virgilio garantisce che non ha ricevuto pressioni, che si vedrà quale testo adottare ma che non si può buttare a mare il lavoro del Senato. Palumbo, anche lui medico e "liberal" del Pdl, teme invece che, se non si risolvono alcune incongruenze, la legge sul fine vita «possa essere incostituzionale» e perciò le modifiche sono necessarie. E Maria Ida Germontani, Pdl, ex An, sottolinea i dubbi del cardinale Carlo Maria Martini, pertanto «i legislatori scelgano ispirandosi a buonsenso e rispetto».

Repubblica 8.9.09
Una mente prigioniera
di Giuseppe D’Avanzo


Lo spettacolo, che va in scena da quindici anni, ha avuto una nuova replica da una televisione di Casa Berlusconi. Consueto il paradigma del capo del governo: un manipolo di «comunisti e catto-comunisti» conduce una «campagna eversiva» per tirarlo giù dalla sedia dove è stato collocato dalla volontà popolare e inaugurare «una tirannia». Addirittura, una tirannia. C´è qualcosa di disperante e di disperato in questa rappresentazione del discorso pubblico e domestico.
Parla più di Berlusconi, e delle sue ossessioni, che di un Paese governato con una maggioranza sovrabbondante e un´opposizione solida come il vapor acqueo. Ci dice molto di più dei fantasmi che, in chiave paranoide, assediano il premier che delle critiche che gli vengono proposte, da qualche isolata voce, in Italia e, da un coro, nel mondo. Risoluto a fare dei nostri giorni una nera notte con un unico punto di luce – se stesso –, Berlusconi è oggi incapace di riconciliarsi con la realtà o almeno con un suo succedaneo. È come se la strategia di comunicazione che lo ha condotto a uno straordinario successo, personale e politico, lo abbia imprigionato precludendogli ogni apprezzabile sguardo sul reale. Il Mago è stato sequestrato dallo specchio in cui ama guardarsi, dalle Lanterne che egli stesso ha costruito. Le relazioni con il Vaticano? Eccellenti, dice. L´azione del governo? Irresistibile, dice. Gli italiani? Vogliono essere come me, giura. Le domande che mi rivolgono? Insulti, mistificazioni, diffamazione, accusa.
È stupefacente che siano state dieci ordinarie domande a precipitarlo in questa sindrome che oggi preoccupa anche alleati, come Gianfranco Fini, ultima vittima delle sue fobie. Berlusconi avrebbe fatto meglio a rispondere, a levarsi dallo stato di «minorità civile» che lo ha afferrato, come gli suggerivano i consiglieri più sapienti. Non lo ha fatto e, peggio, ha chiesto l´intervento della magistratura perché non gli siano mai più proposte, siano vietate per ordinanza di un giudice.
Un´intimidazione, concorda con qualche ritardo il Corriere della sera con Ernesto Galli Della Loggia. Dei suoi argomenti è utile discutere. Scrutiamo la trama del suo ragionamento. C´è una premessa: l´iniziativa giudiziaria del premier è «sbagliata e riprovevole, ha di fatto un innegabile contenuto di intimidazione censoria». La premessa, che sembra richiamare un mondo comune – un codice e un metodo condiviso tra i media, qualche principio logico, un rispetto di regole, doveri e diritti, un´attitudine disinteressata alla discussione –, è utile a preparare un giudizio (dubbio) e due risultati (stralunati). Il giudizio. Quelle domande sono un «puro strumento retorico» (è lo stesso argomento degli avvocati di Berlusconi, ahimè, che giudicano quelle domande diffamatorie e ne chiedono la censura). Quindi, sono quesiti tendenziosi: «Quale risposta sensata si può dare alla domanda: quali sono le sue condizioni di salute? Una domanda di quel tipo vuole affermare in modo indiretto, ma precisissimo, che non sarebbe adatto a fare il capo del governo».
La valutazione apre la strada alla prescrizione di quel che la stampa non deve fare. Non è «compito della libera stampa l´organizzazione di interminabili, feroci campagne giornalistiche». «Non è compito dei giornali decidere se qualunque persona è adatta o inadatta a guidare il governo, è compito degli elettori e soltanto degli elettori».
È evidente che di "comune" nel mondo dell´informazione predicato da Galli Della Loggia c´è molto poco, quasi nulla. Domandare, vi appare un´offesa. Reiterare una domanda che non trova ostinatamente una risposta è addirittura «ferocia». Chiedere poi della salute di chi ci governa, un passo a mezzo tra l´insensatezza e la provocazione. Così non è, con buona pace del Corriere, in tutto il mondo occidentale. I candidati alla Casa Bianca presentano in pubblico, con le cartelle del fisco, le cartelle cliniche per dimostrare che le loro capacità psicofisiche sono adeguate alla responsabilità che chiedono agli elettori. Thomas Eagleton, vice di George McGovern, in piena campagna elettorale nel 1972, abbandonò quando si scoprì che era sottoposto ad elettroshock per curare la depressione. Nel 1984, al secondo mandato, l´età di Ronald Reagan, 73 anni, fu motivo di perplessità e pressioni dei media. Nel match televisivo con Walter Mondale, 56 anni, Reagan esordì con una risposta strepitosa alla domanda di un giornalista: «Non farò della giovane età e inesperienza del mio rivale un motivo di scontro». Anche Mondale rise con il pubblico e il fattore età non ebbe più alcuna importanza. Ritornò rilevante quando Reagan fu operato per un cancro al colon. Lo staff medico rese trasparente i guai del presidente. Lo stesso è accaduto a John McCain quando Time (14 maggio 2008) chiese in copertina «Quanto è sano McCain?». Il candidato non si tirò indietro e i medici della Mayo Clinic misero a disposizione dei cronisti le cartelle cliniche (Cnn, 23 maggio 2008). Anche in Italia è apparso legittimo – né stravagante né tendenzioso – interrogarsi sullo stato di salute di Francesco Cossiga, presidente della Repubblica a cavallo degli anni Novanta. Egli ammise «una depressione» e lo stesso Galli Della Loggia ne paventò una sindrome dietro «il suo ossessivo presenzialismo televisivo» (la Stampa, 8 dicembre 1991). Il lato comodo dello scrivere in Italia è che basta esporre i fatti. È stata la moglie del premier a porre all´attenzione pubblica la questione della salute di Silvio Berlusconi, dopo averla proposta in privato a Gianni Letta. «[Silvio] non sta bene. Ho chiesto al suo medico di aiutarlo come si fa con le persone che non stanno bene», ha detto Veronica Lario e, anche le rivelazioni di Patrizia D´Addario, raccolte proprio dal Corriere, hanno confermato quell´ipotesi di sexual addiction che avvelena la vita del capo del governo. Dinanzi a quella denuncia pubblica, bisognava tacere forse? Chiudere gli occhi, far finta di niente? Non è compito dell´informazione accertare lo stato delle cose? Repubblica ha cercato di farlo. Nel modo più diretto e corretto. Domenica 10 maggio, ha chiesto al sottosegretario Letta di incontrare il premier per rivolgergli alcune domande sollecitate dalle incoerenze emerse dal «caso Noemi», una minorenne, e dalle sue personali difficoltà svelate dalle parole di Veronica Lario. Si convenne che entro 72 ore ci sarebbe stata una risposta di Palazzo Chigi. Non è mai arrivata. Così si è deciso di rendere pubbliche le domande destinate al premier. È «feroce», questo metodo o è una prassi ordinaria, accettata nel "mondo comune" dell´informazione occidentale che non pretende di sostituire naturalmente gli elettori nelle loro decisioni (che ovvietà!), ma di renderli più consapevoli e informati nelle loro scelte. Il ruolo dei media non è altro che questo, come ha dimostrato l´Economist quando giudicò Berlusconi «inadatto al governo» sia nel 2001 che nel 2008, senza guadagnarsi le reprimende etiche, politiche e deontologiche di un Galli Della Loggia forse distratto.
Quel che preoccupa (e dovrebbe preoccupare chiunque) nel ragionamento del Corriere della sera è l´accettazione che la realtà, quale che sia, non possa fare capolino nel discorso pubblico più di tanto. Che evocarla, magari nelle prudenti anche se ostinate forme dell´interrogazione, sia una mossa abusiva e politicamente scorretta e faziosa. È una convinzione che appare del tutto egemonizzata culturalmente da un´idea di informazione effimera e istantanea. Disegna un mondo dove non esistono "fatti" né alcun modo di stabilire ciò che è vero perché non c´è più alcun criterio di verità praticabile se si esclude «ciò che viene dichiarato vero in ogni istante». È il mondo, il metodo, il dispositivo di potere di Berlusconi. Il premier pretende di confondere e confonderci avviluppandoci in un garbuglio di «credenze» che annullano eventi, circostanze, parole, ma il mestiere dell´informare non è accompagnare questa deriva, ma opporvicisi. È quello che ha fatto e farà Repubblica. Siamo certi che lo farà anche il Corriere quando accerterà che non c´è alcun «complotto eversivo catto-comunista» alle viste né alcuna «tirannia» alle porte, ma soltanto un uomo prigioniero dei suoi fantasmi e di una rabbia pericolosa per le istituzioni che rappresenta e il Paese che governa.

Repubblica 8.9.09
Sotto tiro i simboli di un Paese
di Andrea Manzella


Sono sotto tiro i simboli e i legamenti che tengono assieme questo paese: la bandiera, la lingua, l´inno, la capitale. Certo, c´è stato anche un gran rifiuto contro questo sfascismo, con voci variegate giunte un po´ da tutte le parti. E alcune, sprezzanti, parlano di «colpi di sole». Ma è più probabile il rischio opposto. Che sia cioè lo sdegno a svanire presto come polverone di mezza estate. Mentre l´offesa simbolica fa, per sua natura, danni irreversibili: e segna ulteriori tratti di un disegno che si precisa.
I rifiuti, per essere credibili, dovrebbero perciò legarsi ad un´idea forte della Costituzione: che quei simboli racchiude e riassume come emblemi unificanti di un «programma» politicamente vivo. Ma questa idea forte non trova un partito, un movimento, una forza politica che la faccia propria, come linea generale di azione repubblicana.
La ragione è anche di cultura istituzionale. Da tempo, si contrappongono due «costituzionalismi»: entrambi estranei agli interessi attuali degli italiani. Da un lato, il costituzionalismo tecnico dei ragionieri del diritto, con le formule «miglioriste» preparate a freddo, con le rime baciate dei compromessi: il costituzionalismo insomma delle «bicamerali», delle «bozze», delle «appendici» istituzionali ai programmoni elettorali. Dall´altro lato, c´è il costituzionalismo dei retori, impegnati a tramandare come miti la scrittura costituzionale e il suo tempo storico: un costituzionalismo senza Costituzione, dato che quella del 1948 è stata profondamente trasformata dall´Unione europea, dalla legge elettorale, dalla Corte costituzionale. Non trova posto, invece, un costituzionalismo che assuma la Costituzione come programma politico: per l´attuazione dei suoi obiettivi mancati; per il ristabilimento dei suoi equilibri scomposti. È intorno a questa «politicizzazione» della Costituzione che possono coagularsi organizzazione, adesione ideale, persuasiva comunicazione popolare, passioni.
È, d´altronde, la stessa struttura della nostra Costituzione ad essere politicamente programmatica. Ogni suo articolo rivela la consapevolezza di dover far fronte – in un futuro che allora appena cominciava – a storiche fragilità italiane. La frattura Nord-Sud. La sudditanza partitica della pubblica amministrazione. L´ottusità nazionalistica della proiezione estera dell´Italia. La vocazione protezionistica di un capitalismo assistito. La debolezza delle condizioni del lavoro subordinato. E, insieme a questa realistica visione d´avvenire, la Costituzione incorporò l´autocoscienza di una sempre possibile ricaduta nei «vizi biografici nazionali» che avevano condotto, da ultimo, al fascismo. Costruì perciò un ordine di garanzie e di libertà, di autonomie territoriali, di congegni istituzionali di contropotere. Fu, insomma, nell´uno e nell´altro senso, una Costituzione di opposizione. Nei confronti di un passato, da cui tuttavia si recuperarono preziose tradizioni; nei confronti dell´avvenire democratico, che si cautelava con forme e limiti al prepotere elettorale. Materiali, gli uni e gli altri, essenziali per comporre una nuova identità italiana.
L´esperienza di oggi ci mostra, invece, una maggioranza che vive la Costituzione come un impaccio, senza del quale la sua presunta capacità di decisioni non avrebbe ostacoli né ritardi. Sicché è persino naturale che, in questa insofferenza di fondo, trovi agevole ruolo, nel cuore stesso del governo di coalizione, un gruppo che, attaccando i simboli nazionali, mira a sbarazzarsi di fatto della Costituzione: almeno come rappresentazione della superiore unità che quei simboli riassume.
Ma l´esperienza di oggi ci mostra anche una opposizione che, di fronte a questa deriva di logoramento, non si accorge degli spazi amplissimi che gli si aprono per un programma politico di costituzionalismo nazionale.
Certo, protesta. Ma su certi punti si avvertono debolezze.
Come sul federalismo fiscale: dove le deleghe multiple e genericissime possono far saltare ogni ponte tra Regione e Regione, tra città e Regioni, tra Stato e Regioni. O quando si affaccia l´azzardo di una federazione di partiti territoriali: mentre è proprio la drammatica mancanza di partiti capaci di idee nazionali e tenuta istituzionale, a causare la crisi di sistema. O quando si mostra volenterosa indulgenza «tecnica» a progetti di rafforzamento dei poteri del governo: progetti che, con l´attuale legge elettorale e nel collasso delle garanzie, avrebbero il solo sicuro effetto di legittimare prassi oligarchiche antiparlamentari. O come quando qualcuno si affretta a istituire corsi di dialetto, come se si trattasse soltanto di una (peraltro, benemerita) questione culturale.
Non stupisce allora che, ormai da anni, la politica costituzionale la faccia, in solitudine, la Presidenza della Repubblica. La faceva Ciampi con la sua vittoriosa promozione del Tricolore e del canto di Mameli. La fa ora Napolitano: con un potere di persuasione tanto più efficace quanto più animato dal visibile sforzo di ammonire e correggere senza sanzionare, di ottenere adeguamenti evitando conflitti e crisi istituzionali.
Ma può continuare ad addossarsi ad una sola Istituzione, per prestigiosa e autorevole che sia, il compito di respingere continui assalti e sgorbi alla Costituzione? No, non è possibile. Basti solo pensare, per comprenderlo, alla molteplicità degli ultimi atti del capo dello Stato, prima delle ferie. C´è in quegli atti il richiamo al bene civico elementare della certezza di diritto. C´è la denuncia di criticità nelle norme sull´immigrazione e sulle «ronde». C´è l´imposizione di correzioni, a difesa dell´indipendenza della Banca d´Italia e della Corte dei Conti. C´è perfino la richiesta di chiarimenti sull´oscura questione Rai-Sky: per il peso di maggiore sofferenza nella condizione costituzionale dell´informazione pubblica.
Un panorama di per sé inquietante. Da esso si capisce anche però che il vero punto è la necessità di passare dalla Costituzione-garanzia alla Costituzione-programma. E questo non è compito del presidente della Repubblica.
Occorre una forza politica che abbia il coraggio e la cultura necessari per porre al centro della sua identità la questione istituzionale. E per organizzarsi intorno all´idea portante di Costituzione e di unità. Intorno all´idea di patria repubblicana, insomma, che sembra eclissarsi con i suoi simboli.

Corriere della Sera 8.9.09
Attaccando Fini il centrodestra lancia un segnale di ricucitura al Vaticano
L’ex leader di An colpito anche per la sua linea sul testamento biologico
di Massimo Franco




La parabola discendente di Silvio Berlusconi sarà pu­re cominciata, come annunciano gli avversari e ipo­tizzano alcuni alleati. Ma non se ne vedono ancora né la durata né il punto d’arrivo. E soprattutto, non si capisce chi dovrebbe esserne il beneficiario. L’unico fatto certo è che l’asse con la Segreteria di Stato vaticana copre per ora l’irritazione dei vescovi dopo le dimissioni traumatiche del direttore di Avvenire, Dino Boffo. E la sottolineatura della «evidente serenità istituzio­nale » fra Vaticano e governo da parte dell’Osservatore romano è un punto che il premier incassa in un momento di nervosismo.
Gli serve a disarmare quanti, nel mondo cattolico e all’opposi­zione, sottolineano la crisi del berlusconismo: in testa l’Udc di Pier Ferdinando Casini, che vede nell’episodio una crepa promet­tente per aumentare margini di manovra e consensi. Di più: per ricamare strategie sul dopo-Berlusconi. Non a caso il ministro Sandro Bondi replica a Casini: siamo ancora noi gli interlocutori. E il presidente del Consiglio nega incontri a breve scadenza con il cardinale Tarcisio Bertone, perché «non ce n’è bisogno». Il tentati­vo, insomma, è di accreditare una normalità contestata dagli av­versari, esterni e nella maggioranza. Berlusconi ironizza sulle accuse di attentare alla libertà di stampa: sarebbe una «barzelletta cattoco­munista ». Evoca invece piani ever­sivi per metterlo da parte a dispet­to del voto. Un allarme del genere gli permette di alzare i toni in mo­do teoricamente illimitato. Per que­sto non sorprende la durezza con la quale palazzo Chigi muove le pe­dine contro Gianfranco Fini. Un esponente della maggioranza che critichi Berlusconi diventa compli­ce dei nemici.
Le uscite ripetute del presidente della Camera contro il potere solitario del premier diventano così un’eresia. Ieri il Cavaliere ha detto di non condividere gli attacchi sferrati a Fini dal Giornale della sua famiglia; e gli ha dato la propria solidarietà. Ma in Vatica­no si legge l’offensiva come un segnale distensivo mandato da pa­lazzo Chigi alla Chiesa, alla vigilia del voto sul biotestamento: una questione che vede Fini schierato col centrosinistra, mentre Berlu­sconi e Lega la usano per rinsaldare i rapporti con la Chiesa. È la dimostrazione che gli spazi saranno sempre più stretti, per Fini. Non è un caso che a difenderlo siano rimasti i fedelissimi.
Lo schema di un Berlusconi «solo contro tutti», accredi­tato dagli avversari, è opinabile; e soprattutto non si capi­sce se lo indebolisca. Fa riflettere che i suoi lo adottino, seppure rovesciandolo: sarebbero «tutti contro uno», il Cavaliere. Il ribaltamento tende a trasformare la difficoltà in un vantaggio. In una situazione torbida, segnata dalla campagna elettorale per le regionali del 2010, la solitudi­ne di Berlusconi verrà usata come arma di mobilitazione. L’offensiva del premier contro i giornali, per quanto stupe­facente nella sua grossolanità, non va sottovalutata: le ma­nifestazioni di piazza contro di lui si possono rivelare un antidoto poco efficace, se non controproducente. 


il Riformista 8.9.09
L’assalto a Fini. Si è aperto il dopo Berlusconi
di Alessandro Campi


S'è aperta la fase due del "grande gioco" al massacro che comunque vada a finire rischia di cambiare per sempre la politica italiana. Messi in riga i cattolici e i giornali dissidenti, tocca ora a Fini subire accuse e reprimenda: Bossi e i suoi gli danno pubblicamente del matto, preconizzando per lui un futuro ai giardinetti, Feltri, ispirato dall'odio di Veneziani per l'uomo che avrebbe tradito la destra di cui quest'ultimo s'è fatto custode ortodosso, lo accusa di essere un mezzo comunista, un voltagabbana e un cinico ambizioso.
L'idea che sostiene tutti questi attacchi è, all'ingrosso, quella di soffocare o delegittimare ogni pensiero critico nei confronti del Cavaliere, di costruirgli intorno una cintura di sicurezza, di creare un nuovo ordine a partire dal caos generalizzato. La divisione del lavoro appare chiara: il Giornale crocifigge gli avversari, reali o supposti, interni o esterni, a mezzo stampa, insultando e denigrando, la Lega mette a disposizione le truppe, in Parlamento e nelle piazze, Ghedini si occupa dei contenziosi in tribunali a colpi di carte bollate.
Quello che non si capisce di questa strategia è se serva davvero a liberare il Cavaliere dai petulanti che lo accusano e lo incalzano - peraltro senza nemmeno distinguere tra chi lo vorrebbe morto e chi, più modestamente, lo vorrebbe soltanto all'altezza del suo ruolo istituzionale, nuovamente capace di fare politica - o piuttosto a renderlo prigioniero dei suoi nuovi e feroci pretoriani. Berlusconi era il politico del sorriso, degli slanci generosi e delle grandi visioni. E per questo ha vinto e convinto. Lo stanno rendendo, più di quanto già non sia da qualche mese in qua, un uomo assediato e impaurito, perennemente accigliato, mosso solo dal risentimento e dallo spirito di vendetta. Contenti loro, contento lui…
L'attacco di Feltri a Fini, che da ieri tiene banco, era nell'aria. Da settimane, in settori del centrodestra, gli si rimproverava di aver venduto l'anima all'avversario, di cercare il plauso della sinistra per ragioni di carriera e di mettere i bastoni tra le ruote al governo. Da tempo si diceva che, così continuando, si sarebbe trovato solo e privo di seguito politico, come se il muoversi in controtendenza rispetto alla vulgata fosse divenuto d'improvviso una colpa e senza nemmeno rendersi conto che proprio l'agire in solitudine, il giocare d'anticipo e fuori da ogni schema, è stata a suo tempo la virtù che ha fatto politicamente grande e unico Berlusconi. Ma hanno egualmente colpito la virulenza e il tono delle imputazioni, segno che qualcosa si è rotto per sempre nell'equilibrio dei poteri e nel costume civile di questo sfortunato paese.
Ma cosa si imputa a Fini, fatti tutti i conti e una volta accettato l'invito di Feltri, sinceramente paradossale provenendo da lui, ad una discussione pacata e ragionevole? Di aver cambiato idea strada facendo - come capita sovente a chi fa politica prendendola sul serio, considerandola cioè l'arte di dare risposte nuove a problemi nuovi - e di perseguire oggi un'idea di destra, e un'idea di sé e del proprio ruolo sulla scena pubblica, che non piace evidentemente a chi sullo scontro all'arma bianca e sulla logica amico-nemico, volgarizzata al limite del parossismo, ritiene che si debbano costruire le fortune di un partito o di un leader. Non dunque sulla contrapposizione di idee e di programmi, che dovrebbe essere il sale della politica democratica, ma sulla delegittimazione dell'avversario e sulla messa in ridicolo dei suoi argomenti. Strada imboccata a suo tempo proprio contro Berlusconi dalla sinistra, che di fatti ha perso tutte le sue battaglie, e oggi curiosamente percorsa a larghe falcate anche dal centrodestra.
Sulla collocazione politico-ideologica di Fini, inequivocabilmente di destra, coerente con l'evoluzione che quest'ultima ha subito in anni recenti su scala europea, ma in linea su molti punti anche con le posizioni tipiche di quella italiana nel secondo dopoguerra, si potrebbe scrivere un lungo e argomentato saggio. Ma non è questo, con ogni evidenza, che interessa Feltri e coloro che ragionano alla sua stregua. Nulla importa loro delle esperienze di Cameron e Sarkozy, che rispetto ai loro omologhi italiani al governo davvero parlano un'altra lingua e hanno un altro stile. E nemmeno li riguarda il fatto che i grandi numi tutelari della destra italiana nelle sue molte anime - da Gentile a Evola, da Prezzolini a Spirito, da Volpe a Montanelli - nulla hanno mai avuto a che fare con una politica che si limita ad aggregare e costruire consenso vellicando gli istinti e mortificando la ragione, che urla e sbraita senza mai costruire nulla, che appare dogmatica e militaresca non in virtù delle sue certezze granitiche ma semplicemente perché manca di idee e di luoghi ove eventualmente discuterle.
Feltri imputa a Fini di non fare proposte, ma solo di criticare la sua stessa maggioranza. L'evidenza dice il contrario, come si è visto con riferimento a questioni quali il testamento biologico, il diritto di voto amministrativo agli immigrati regolari, la riduzione dei tempi per ottenere la cittadinanza italiana. Solo che - chissà per quale ragione - queste che sono a tutti gli effetti proposte e contributi alla discussione politica vengono regolarmente scambiate, soprattutto nel centrodestra, per "provocazioni" che rischiano di confondere le idee al popolo. Senza rendersi conto, ciò dicendo, che la politica (e tanto più coloro che si piccano di essere leader) il popolo dovrebbe guidarlo, non assecondarlo nelle sue paure e nei suoi pregiudizi, peraltro irresponsabilmente alimentati per ragioni di basso e miope tornaconto elettorale. E senza avere chiaro cosa il popolo pensi davvero.
Ma ciò che Feltri più gli rimprovera - più dei suoi ammiccamenti a sinistra, più delle sue estemporanee alzate d'ingegno - è, al dunque, di non scendere in campo impugnando anch'egli la spada. Il che è davvero paradossale. Da un lato, quando sostiene posizioni che appaiono eterodosse, si vorrebbe un Fini silente, in omaggio al suo ruolo istituzionale, in realtà in obbedienza ad un formalismo peloso, nello spirito da caserma che così continuando porterà il Pdl alla tomba anzitempo, dall'altro però lo si vorrebbe omologo allo stile, urlante e battagliero, demagogico e sguaiato, che la destra italiana, negando la sua stessa storia, s'è data negli ultimi anni come sua estrema cifra ideologica. Una destra istituzionale e rispettosa dello Stato, amante della legalità e delle regole, composta e pensosa, capace di ripensare se stessa e all'altezza della storia, sembra diventata in Italia una chimera, un sogno impossibile.
La verità, per capire ciò che sta davvero accadendo, per trovare un senso in tanta confusione, è che il dopo Berlusconi si è aperto. Ma nel modo peggiore. Invece di accompagnarlo in un chiave politica, compito che spetterebbe al medesimo Berlusconi, si è deciso di esorcizzarlo, di affrontarlo in una chiave grossolana e meramente tattica, puntando a blindare il centrodestra intorno al suo leader di oggi e a gettare in panico in campo avversario, attraverso l'uso di strumenti d'offesa poco convenzionali, dall'insulto ad hominem al dossier anonimo. E così, lungi dal costruire il grande partito dei moderati, che sia lo sviluppo coerente ma non meccanico di questi quindici anni di storia berlusconiana, si stanno ponendo le premesse perché esso imploda in un fragore sordo, dissolto in mille spezzoni. Sarà un campo di rovine l'eredità del Cavaliere grazie ai suoi volenterosi miliziani?

il Riformista 8.9.09
Sinistra svegliati, Gianfry è di destra post-berlusconi
Il fondatore di Alleanza Nazionale è l'unico che può ereditare il berlusconismo. Lo ha criticato, ma ne è stato un alfiere. E le sue idee non sono affatto eretiche nel suo schieramento.
di Peppino Calderola


E se Fini fosse di destra? La domanda paradossale viene spontanea dopo la gragnuola di colpi che Feltri ha inferto al presidente della Camera. C'è una destra che mal sopporta l'ex capo di An, i suoi colonnelli si dissociano ogni volta che lui prende la parola, la sinistra si è innamorata dell'erede di Giorgio Almirante. È tutta una gara a considerarlo fuori dai giochi del centro destra.
L'accusa è duplice. La presidenza della Camera gli ha fatto perdere il rapporto con la politica e con la sua base tradizionale. Il miraggio del Colle lo spinge a inseguire i voti di una sinistra in piena crisi di leadership. Accusato per tanti anni, e non infondatamente, di essere l'oggetto misterioso della politica italiana, il leader capace di giocare solo di rimessa ma troppo pigro e di scarso coraggio per gettarsi nella battaglia politica aperta, oggi Fini si trova al centro di sentimenti di amore e di odio che tornano a dividere la sinistra dalla destra.
Feltri ha la mano pesante, ovviamente. Torna indietro, gli dice, oppure vattene. Dopo la B di Boffo siamo saltati alla F di Fini, in una resa dei conti che non dovrebbe lasciare in piedi nessun avversario, soprattutto di quelli interni, del premier. E se fosse un nuovo boomerang delle "teste di cuoio" del Cavaliere impegnate a liberare l'ostaggio anche a rischio di ucciderlo?
Destra e sinistra giudicano allo stesso modo la svolta di Fini. Le sue tesi sulla laicità e sull'immigrazione vengono lette come un abbandono del campo precedente. Gli applausi dei militanti della Festa del Pd sarebbero la prova che il suo nuovo popolo sta a sinistra. Ma siamo davvero sicuri che il popolo di destra abbia espulso Fini o si appresti a farlo? La mia tesi è che Fini non è mai stato così ben insediato nella destra come ora, così come nessuna polemica berlusconiana ha mai espulso Casini da questa stessa destra.
Il primo dato che viene in soccorso è la continua popolarità del presidente della Camera. Non sappiamo se negli ultimi sondaggi questa popolarità sia stata scalfita (attenzione a quelli taroccati!), ma Fini resta, dopo Berlusconi, uno degli uomini pubblici più cari al mondo di centro destra. Questo mondo vivrà con rammarico e persino con fastidio le sue continue dissociazioni, ma non c'è un solo segnale che dica che la sua vicenda politica sia considerata estranea al popolo della destra. Delle due posizioni che l'hanno caratterizzato l'una, quella laicista, è una componente molto profonda della storia della destra italiana. Non dimentichiamo che l'anticlericalismo è stato di sinistra ma anche soprattutto di destra. Il primato dello Stato laico, il timore dell'interferenza della Chiesa non sono un patrimonio né della sinistra né del mondo dei non credenti. Sono stati anticlericali gli intellettuali di destra, è stata laica la stessa Democrazia cristiana.
Le posizioni di Fini appaiono eterodosse solo in quel mondo di destra che si muove con gravi ondeggiamenti fra l'adesione pedissequa ad alcune richieste legislative della gerarchia e la tentazione dell'attacco frontale ai vescovi. Il Fini laicista che difende Dino Boffo chiude il cerchio. Afferma da un lato la necessità di un compromesso non subalterno con la Chiesa, dall'altro conferma lo spazio pubblico della Chiesa che sta nell'ampia liberta di critica che la politica moderna non può non assegnare alle autorità religiose. L'imbarazzo con cui settori cattolici di centro-destra hanno guardato allo scontro frontale con la Cei, imbarazzo che ha disorientato la base cattolica del centro-destra, ha trovato nelle posizioni del presidente della Camera un atteggiamento più lungimirante di quello di chi ha innescato la "madre di tutte le battaglie" contro il quotidiano L'Avvenire.
Fini appare un pesce fuor d'acqua a destra anche per le sue dichiarazioni sull'immigrazione. Una di queste è nota da alcuni anni, il diritto di voti dei nuovi cittadini immigrati, l'altra, quella relativa all'umanizzazione della legislazione anti-immigrati, non piace allo zoccolo duro della Lega e agli estremisti filo-governativi, ma non è estranea agli interessi concreti del popolo di destra che non cerca la xenofobia ma una legislazione di contenimento moderna e impostata su criteri di umanità. Se la curva Sud del popolo di destra prova rabbia per Fini, la destra riflessiva, cioè la sua parte più moderata, non vede minacce o abbandoni di campo.
C'è, infine, il dato politico di fondo che rischia di trasformare in un boomerang la seconda battaglia di Vittorio Feltri. La destra è alla ricerca di un leader. Non sono fra quelli che pensa a un rapido declino di Berlusconi, ma solo il clan ristretto del premier può non vedere, ovvero lo vede e lo teme, che il dopo Berlusconi è la caratteristica principale di questa fase politica. Il premier ha indubbia vitalità e fantasia per resistere ancora a lungo. Appunto, "per resistere", perché non c'è alcun dirigente o militante del centro-destra che non si interroghi su quel che accadrà quando il ciclo berlusconiano si sarà esaurito. La scommessa di Fini si basa, probabilmente, su due elementi forti. Il primo la prosecuzione del berlusconismo oltre Berlusconi. Il berlusconismo è un fenomeno profondo della politica italiana che sopravviverà al suo fondatore. Quest'uomo è entrato nei libri di storia. E per il mondo di destra conterà il fatto che Fini negli snodi fondamentali è stato con il Cavaliere. Se gli altri candidati leader lo hanno "servito", lui ha cercato, con una personale impronta, di assecondarne i progetti di fondo. Non saranno l'atto di accusa di Feltri o gli elogi della sinistra a cancellare il berlusconismo storico di Gianfranco Fini. Non sarebbe la prima volta che l'erede ribelle si rivela come l'erede autentico. Il secondo elemento fa riferimento a un dato che il mondo della destra ha ben presente. Il berlusconismo è irripetibile. Non ci sarà leader che potrà ricalcarne le orme. Nei paesi caudillisti ci hanno pensato le mogli, qui non siamo in un paese caudillista e di mogli è meglio non parlare. Quindi Fini rappresenterà l'unica possibilità per proseguire il berlusconismo senza lo stile, i tic, il carisma, i vizi del grande capo. La destra post-berlusconiana si guarderà intorno e si affiderà a lui, dopo una dura e sanguinosa guerra di successione.
Per molti a sinistra l'ipotesi che sia Fini il dopo-Berlusconi significa l'iscrizione della destra italiana in quella europea. Non è chiaro che cosa la sinistra intenda per destra normale, visto che non riesce neppure a definire l'identikit di una sinistra normale. Tuttavia rischia di andare incontro a una grave delusione. La destra moderata ed europea di Fini sarà un avversario molto duro. Chi ha osservato in questi anni il presidente della Camera non può non aver notato in lui uno sforzo eccezionale di contenere le reazioni emotive ma anche una rabbia spesso mal dissimulata. Vorrei dirlo meglio. Fini può apparire pigro, indolente ma è politicamente "cattivo". Leggetevi i suoi discorsi. Feltri cerca di impedirgli di diventare capo dello Stato. Difficilmente gli riuscirà di buttarlo fuori dalla destra.

il Riformista 8.9.09
Il "progetto" di Ruini. Che cosa è in gioco
Chiesa, politica e libertas ecclesiae
di Benedetto Ippolito


Gli ultimi dieci giorni sono stati un'accelerazione storica incredibile dei rapporti tra la Chiesa e il mondo politico. Non che tutto possa riassumersi nella vicenda Boffo, per carità, anche se certamente la campagna scandalistica del Giornale di Vittorio Feltri contro l'ex direttore di Avvenire ha scoperchiato un vaso di Pandora colmo fino all'orlo.

Il progetto culturale di Ruini?
Affermare la "libertas Ecclesiae" modelli. Se, dopo il caso di Avvenire, con le dimissioni del direttore Boffo, è eccessivo parlare di affronto all'autonomia della Chiesa, di certo ci troviamo ad analizzare un attacco alla legittimità stessa di un dissenso forte della società civile dal potere politico.
È importante inventarsi presto una soluzione, anche a costo di far uscire una risposta miracolosa, come una colomba dal cilindro di un mago. Sotto accusa non è stata messa soltanto la legittima autonomia professionale di alcuni giornalisti cattolici. La controversia ha fatto emergere, piuttosto, la fragile indipendenza della stampa e il valore democratico sostanziale che ha la libertà d'opinione della Chiesa nella società civile italiana. Insieme alla libertà di un giornale è stata attaccata effettivamente la legittimità stessa di un dissenso forte della società civile dal potere politico.
Certo, parlare di un affronto alla libertà della Chiesa è usare parole grosse. Basti pensare che la formula latina "libertas Ecclesiae" fu impiegata dalla Riforma gregoriana per illustrare la posta in gioco che era in ballo quando nell'undicesimo secolo il potere politico condizionava totalmente l'autonomia spirituale e materiale della società. La minaccia, però, incombe soprattutto oggi.
Il valore più grande che il cardinale Camillo Ruini ha intuito e messo al centro della sua prospettiva pastorale è stato esattamente questo. Dopo il Concilio Vaticano II e davanti alla scomparsa della Democrazia cristiana, scommettere di nuovo sulla libertà della Chiesa. Una consapevolezza forte che è emersa distintamente al Convegno ecclesiale di Loreto del 1985, traducendosi poi nel Progetto culturale, nell'azione indipendente della Conferenza episcopale italiana dalla politica dei partiti, fino alla grande vittoria popolare del referendum sulla legge 40 (procreazione assistita, ndr) e alla riuscita trionfale del Family Day del 12 maggio 2007 in piazza San Giovanni a Roma.
Nella visione di Ruini era impellente reclamare una libertà formale e solenne per la Chiesa istituzionale e coinvolgere a pieno le diverse dimensioni ecclesiali, laicali, associative, diocesane o semplicemente individuali per renderle autonome e incisive pubblicamente.
La sintesi di questa idea di libertà cristiana ha prodotto lentamente un laicato compatto e dinamico, in grado di assicurare la presenza della Chiesa gerarchica nella società e di garantire la partecipazione autonoma, progettuale, talvolta perfino disparata, dei laici credenti nella società in cui vivono e in cui operano concretamente. Oggi, qualcosa di questa prospettiva è andato distrutto. E solo la sostituzione di un direttore e una buona legge sul fine vita non possono garantire da sé il ritorno automatico di un equilibrio tanto consistente quanto sottile che si è frantumato repentinamente.
Il Papa domenica a Viterbo ha esortato i fedeli laici, i giovani e le famiglie «a non avere paura di vivere e di testimoniare la fede nei vari ambiti della società, nelle molteplici situazioni dell'esistenza umana». Il fatto stesso che, oltre alla straordinaria figura di san Bonaventura, vero teologo della libertà, Benedetto XVI abbia ricordato papa Leone Magno, ossia colui che lottò strenuamente per difendere la Chiesa antica dalla potenza imperiale, è un'esortazione più eloquente di qualsiasi commento. Sebbene, infatti, la situazione attuale sia diversissima da allora, il parallelismo non può sfuggire all'attenzione di nessuno, perché il rimedio passa sempre attraverso il riconoscimento pieno della libertà di azione e di opinione dei credenti davanti alle molte insidie del potere.
La libertà della Chiesa, d'altronde, non è negata esclusivamente quando la politica condiziona l'espressione della stampa ufficiale, com'è avvenuto nei riguardi di Avvenire, ma anche e soprattutto quando si cerca di strumentalizzare la libertà cattolica in nome di un'iniziativa opposta e contraria alla precedente. I buoni rapporti della politica con il mondo cattolico non si costruiscono, cioè, né attraverso la minaccia, né attraverso la "falsa adulazione", vera e presunta, e neanche vietando al Papa di parlare in pubblico in un'università o impedendo ai deputati credenti di legiferare compattamente su temi etici rilevanti e sensibili.
La vera libertà della Chiesa si afferma, invece, garantendo l'indipendenza ideale, associativa e individuale, che ogni singolo credente ha di poter vivere e contribuire democraticamente per mezzo della sua influenza alla costruzione di un'autentica civiltà cristiana.

il Riformista 8.9.09
Tutti i laici che ora vanno pazzi per la Cei


Uno degli effetti collaterali e paradossali del caso Boffo è che ha un po' rimescolato le carte delle amicizie e inimicizie. Secondo la logica tribale che vige nel dibattito pubblico italiano, secondo la quale il nemico del mio nemico è mio amico, molti nemici di Boffo, e della Cei e della Chiesa cattolica italiana, sono diventati improvvisamente suoi amici.
Così in questi giorni stiamo vedendo fior di laici, e talvolta di laicisti, schierarsi come un sol uomo al fianco di colui che più di tanti altri ha interpretato per quindici anni la politica e la strategia della Cei di Ruini. Eugenio Scalfari, per esempio, nel suo fondo domenicale, accedendo alla tesi secondo la quale il segreterio di Stato vaticano Tarcisio Bertone avrebbe lasciato da solo Boffo per colpire la Cei di Ruini, ha simpatizzato con i vescovi condannati fino a ieri per il loro interventismo nel dibattito pubblico e legislativo. «È compito del clero combattere i peccati - ha scritto il fondatore di Repubblica - Denunciarli. Avvertire i fedeli affinché a loro volta non cadano in tentazione. Lo fanno. Lo ha fatto la stampa diocesana. L'ha fatto l'Avvenire. Con prudenza ma con chiarezza». Più che giusto, oggi che è riferito alla vita privata di Berlusconi. Ma forse era giusto anche quando i vescovi intervenivano in campi, come il biotestamento, altrettanto pubblici, dai quali invece Scalfari ha più volte intimato loro di tenersi alla larga.
Allo stesso tempo, fior di esponenti del movimento gay hanno trovato parole ferme e giuste per denunciare l'uso neanche tanto sottilmente omofobo che Feltri ha fatto della vicenda della condanna penale di Boffo, ma senza aggiungere una parola - con l'eccezione di Grillini - sulle accuse di omofobia che fino a ieri avevano rivolto proprio alla Cei e alla Chiesa italiana.

l’Unità 8.9.09
Il fastidio della democrazia
di Dijana Pavlovic


Una delle ragioni per le quali me ne sono andata dal mio Paese è stata la morte della democrazia. Nel 1995 ho vi-sto la casa di Arkan, comandante delle Truppe Paramilitari serbe impegnate in Slavonia dell’Est, in Bosnia-Erzegovina e poi anche in Kosovo, massacratore e criminale di guerra: in casa e in giardino si aggiravano le tigri alle quali deve la sua terribile nomea. Esibiva con sfrontatezza il suo potere tragico e i suoi modi davanti ai mezzi di comunicazione. Così come Milosevic, il suo capo, non aveva paura né della nostra opposizione di studenti che insieme con il nascente partito democratico ne denunciavamo i soprusi, né dell’informazione nazionale e internazionale. Troppo sicuri del loro potere, lasciavano fare –certo ci picchiavano quando manifestavamo– ma era come se considerassero le nostre parole non un pericolo, ma un necessario fastidio. Mi sono venuti in mente questi ricordi di fronte all’attacco furibondo con denunce e richieste milionarie di danni a giornali italiani e stranieri che si sono occupati dei fatti “privati” di Silvio Berlusconi. Addirittura il suo avvocato si occupa di difendere la sua virilità, messa in dubbio più che dall’operazione alla prostata dalle registrazioni delle “utilizzate finali”. L’ultimo attacco sfrenato alla libertà d’informazione da parte del presidente del Consiglio mi pare impossibile in un paese democratico senza che se ne chiedano le dimissioni. E mi chiedo di che cosa può aver paura un uomo così potente, politicamente ed economicamente intendo, come Berlusconi. Ma forse non è la paura che la sua immagine deperisca. Probabilmente è solo l’insofferenza di un potente arrogante che non ammette che nulla di lui venga messo in discussione. Il suo sogno è avere lo stesso potere del suo amico Gheddafi, un tiranno clownesco e tragico che non ha opposizione ma solo lager.

l’Unità 8.9.09
Respingimenti. Ecco tutto ciò che si deve sapere
Immigrazione e luoghi comuni
di Pietro Soldini


In molti si chiedono se i “respingimenti” dei migranti che arrivano nel Mediterraneo sono legittimi o no? Secondo la Convenzione di Ginevra 1951 non sono legittimi. Il tratto distintivo di quel-la convenzione, il suo titolo è esattamente: «no refoulemente», «no respingimento».
Se arriva una barca carica di persone inermi che chiedono aiuto tu non puoi respingerla, la devi accogliere, devi identificare le persone, verificare se hanno diritto a chiedere asilo politico o protezione umanitaria, per quelli che eventualmente non avessero questo diritto, tu hai la possibilità di rimpatriarli nel loro paese d’origine e se non è possibile in un «paese terzo sicuro» dove non siano a rischio di incolumità.
Ma, si dice, noi «li abbiamo respinti mentre erano in acque internazionali». E dove sta scritto che si possano respingere se stanno in acque internazionali? Non è affatto previsto. Se incroci una barca in acque internazionali, di persone inermi che chiedono aiuto, tu la devi soccorrere e se li prendi a bordo di una nave che batte bandiera italiana, sono nel tuo territorio e devi tutelare il loro diritto d’asilo. Queste sono le norme internazionali che hanno evitato genocidi, persecuzioni, deportazioni e schiavismi che si sono verificati prima dell’entrata in vigore di queste norme e che hanno reso più civile questo mondo contemporaneo.
Allora si dice, noi «non possiamo accogliere tutti i disperati e rifugiati del mondo». Infatti non li accogliamo... Nel mondo ci sono 42 milioni di profughi, l’80% di essi si trova nei paesi in via di sviluppo (Asia, Africa ecc...). Solo il 20% 8 milioni e mezzo circa -, si trovano nei paesi ricchi sviluppati e solo 4 milioni e mezzo stanno in Europa.
E però «noi siamo una frontiera europea e quindi l’Europa ci deve aiutare a gestire questo problema perché noi non possiamo essere il paese colabrodo rifugio di tutti i profughi che arrivano in Europa». Non è così perché attualmente in Italia ci sono 47.000 rifugiati (0,7 ogni 1000 abitanti. In Germania ce ne sono 580.000 più di 7 ogni 1000 abitanti). Nel Regno Unito ce ne sono 290.000 (quasi 5 ogni 1000 abitanti) in Francia ce ne sono 160.000, nei Paesi Bassi 80.000 ecc. Quindi noi siamo il Paese che accoglie di gran lunga meno e quei pochi li assistiamo male, che si arrangino abbandonati a se stessi e forse è proprio per questo che sono mal visti dall’opinione pubblica.
Se l’Europa, così come si è impegnata, farà un piano per distribuire equamente il carico dei rifugiati fra tutti i paesi europei, non potrà che chiedere all’Italia di accoglierne un numero più alto.
Se fossero confutati questi dati sarei disponibile a cambiare idea, invece il Governo insiste, nonostante i richiami, sulla strada della violazione del diritto internazionale, parte integrante della nostra Costituzione democratica.

Corriere della Sera 8.9.09
L’attrice protesta per l’omaggio che la mostra dedica a Tel Aviv: «Chi oggi celebra la città ignorando che esiste Gaza, è come se 20 anni fa avesse ignorato Soweto»
Jane Fonda contro il festival di Toronto: «Propaganda pro Israele»
di Francesco Battistini



GERUSALEMME — Da Ha­noi Jane a Jaffa Jane: a 71 an­ni, due Oscar vinti e un’infi­nità di battaglie civili com­battute, la pasionaria di Hol­lywood mette l’elmetto con­tro l’ennesima passerella ci­nematografica che invita re­gisti israeliani. Stavolta ce l’ha col Toronto Internatio­nal Film Festival, che per i cent’anni di Tel Aviv s’è in­ventato una sezione apposi­ta, mandando sullo schermo dieci pellicole a tema. Israele è uguale al Sudafrica del­­l’apartheid, dice Jane Fonda, un «regime razzista» ha mes­so in moto «una potente macchina di propaganda» per dare all’estero un’imma­gine accattivante di sé: «E chi celebra oggi la moderna e sofisticata Tel Aviv, igno­rando che esistono la Cisgior­dania e Gaza, è come se vent’anni fa avesse parlato solo di Città del Capo o di Johannesburg, eleganti e con uno stile di vita bianco, fa­cendo finta che non ci fosse­ro anche Khayelitsha e Sowe­to ».
No logo: la promozione di Tel Aviv fa parte d’un rilan­cio d’immagine, varato dal governo israeliano dopo la guerra di Gaza. Ma dalle par­ti del cinema non funziona granché. Al Festival di Edim­burgo, il regista Ken Loach s’era ritirato perché gli organizzatori ave­vano pagato biglietto aereo e albergo a una collega telavivi. A To­ronto s’è allestito un set di protesta diretto dalla Fonda, dallo stes­so Loach, dal musicista David Byrne e da altre star, come Eve Ensler o Danny Glover, quello che vanta un’amicizia perso­nale con Hugo Chávez. Il filmmaker canadese John Greyson ha ritirato la sua opera. Naomi Klein, la scrit­trice no-global che a Toron­to vive, ha organizzato sit-in. Ed è stato presentato un documento, cinquanta fir­me, per protestare contro «l’assenza assoluta di registi palestinesi» e il voluto silen­zio sulla parte araba di Tel Aviv, Jaffa, e sulla «sofferen­za di migliaia di discendenti dei palestinesi che abitavano lì e oggi vivono nei campi profughi dei Territori occu­pati, dopo l’esilio di massa del 1948».
La difesa degli organizzato­ri è altrettanto decisa: innan­zi tutto ci sono due titoli pale­stinesi in cartellone, dicono, e poi non si può accusare di propaganda un film come «La Bolla» di Eytan Fox, che critica la società israeliana. Anche la stampa telavivi re­plica dura intervistando Mar­vin Hier, lui pure vincitore di due Oscar e cofondatore a Los Angeles del Centro Wie­senthal: «La gente che firma questo genere d’appelli — di­ce — è contraria alla soluzio­ne dei due Stati. Perché quan­do si mette in discussione la legittimazione di Tel Aviv, si sostiene la soluzione d’un so­lo Stato. E la distruzione di quello d’Israele». Potrebbe ci­tare un vecchio successo di Ja­ne, il rabbino Hier: non si uc­cidono così anche i cavalli?

l’Unità 8.9.09
Emergency festeggia i 15 anni a Firenze
La prima volta senza Teresa Strada


Emergency ha appena perduto la fondatrice Teresa Strada e festeggia i 15 anni dalla nascita come lei stessa desiderava. Da oggi a domenica Firenze ospita l’ottavo incontro nazionale dell’associazione che dal 1994 a oggi ha curato in zone di guerra 3 milioni e mezzo di persone spesso in condizioni estreme. Una setti-
mana di incontri, convegni medici e spettacolo (fino a giovedì a Firenze Fiera vicino alla stazione, da venerdì al Mandela Forum) per ricordare che l’associazione vive del contributo privato dei cittadini.
Apre la settimana un dibattito sull’Afghanistan oggi alle 18. «Lì siamo in missione di guerra afferma Maso Notarianni, del direttivo, giornalista c’è l’intera Folgore più qualche altro corpo speciale ben addestrato ma non per costruire scuole. Se cambiamo le regole d’ingaggio dei militari italiani non credo cambierà molto per l’Afghanistan mentre temo che cambierà qualcosa per l’Italia. Mi risulta che si voglia cambiare l’articolo della Costituzione che vieta la guerra». La morte di Teresa Strada ha mutato i toni ma non il programma. «Senza di lei è cambiato tutto insiste Notarianni e al tempo stesso facciamo questa festa perché le cose vanno fatte e lei per prima non voleva che la annullassimo». Per Emergency accorrono molti artisti: tra gli altri, con show gratuiti, Lella Costa (domani), Moni Ovadia (giovedì), Jovanotti, Pelù e Marco Paolini introdotti da Gino Strada e Cugia (venerdì), Serena Dandini in una serata con Hendel, Cornacchione, Banda Osiris....

l’Unità 8.9.09
Precari, si allarga la protesta
La Cgil: «Pronti allo sciopero»
Ancora occupazioni e proteste in tutta Italia contro i tagli del ministro Gelmini. la Cgil vara il suo calendario di lotta e minaccia lo sciopero generale: «Speriamo sia unitario». A Torino «occupata» piazza Carlo Alberto.
di Virginia Lori


Non si ferma l’agitazione dei lavoratori. Ieri manifestazione al ministero
ParlamentariPd: «Il governo riferisca in aula e torni indietro sui tagli»
Piotto (Flc Torino): «I precari non hanno volto né storia, e tutti li possono calpestare»

Con le prime campanelle che iniziano a suonare un po’ ovunque, non accenna a posarsi il caos della scuola italiana che rischia di essere travolta dalla mobilitazione degli insegnati precari. Sul piede di guerra in tutta Italia, con occupazioni dei provveditorati (da Milano a Roma a Torino) e manifestazioni in piazza contro le decisioni del ministro Maristella Gelmini. A cui alcuni parlamentari del Pd hanno chiesto di riferire in Parlamento: «in quella sede hanno spiegato gli onorevoli Ghizzoni, Zampa, Marchignoli, Ghedini, Soliani, Bertuzzi, Marchi, Marchioni e Vitali ribadiremo la necessità di ingranare da subito la retromarcia sui tagli». Ma il ministro Gelmini intanto deve fare i conti anche con la minaccia di uno sciopero generale. Rischio paventato dalla flc Cgil, comparto scuola del sindacato, che ieri si è detta «pronta a proclamare lo sciopero generale e una manifestazione nazionale. L’auspicio ha spiegato il sindacato in una nota è che questo avvenga co-
me in passato unitariamente». Nel frattempo, però, la Cgil ha già fissato un proprio calendario di lotta. Che inizia giovedì 10, giorno in cui è stato programmato un sit in sotto al ministero dell’Istruzione. Altre iniziative, inoltre, saranno studiate per il 14 settembre (primo giorno di scuola) in tutta Italia mentre all’inizio d’ottobre, ha annunciato la Cgil, «sarà individuata una giornata per essere in “100 piazze per la conoscenza”».
INIZIATIVE IN TUTTO IL PAESE
Ieri intanto a Roma i precari, che da giorni stanno occupando il provveditorato, si sono riuniti in una assemblea (a cui ha preso parte anche il candidato alla segretaria del Pd Ignazio Marino) da cui poi è scaturito un corteo che ha fatto rotta verso viale Trastevere. «Chiediamo le dimissioni immediate del ministro Gelmini hanno spiegato i docenti del Cps, il coordinamento precari scuola che ha annunciato l’idea di accamparsi davanti al ministero vogliamo anche il ritiro dei tagli e l’assunzione a tempo indeterminato di tutti i precari sui posti vacanti che ci sono e possono, quindi, essere occupati a tempo pieno da insegnanti di ruolo e non da supplenti». Nel frattempo di fronte a viale Trastevere si era già concluso il sit in organizzato da Sinistra Libertà nel corso del quale una cattedra era stata simbolicamente “tagliata” in due, metafora dei tagli della Gelmini raffigurata come una “donna di denari”. «La scuola taglia cattedre ha spiegato Paolo Cento col più grande licenziamento di massa in un momento in cui il governo dovrebbe invece investire nell’occupazione».
Ma le manifestazioni dei precari della scuola ieri sono proseguite intensificandosi in tutta Italia. A Torino, ad esempio, i precari della scuola coordinati dalla Flc Cgil hanno deciso di occupare simbolicamente piazza Carlo Alberto dove resteranno per tutta la settimana. A terra, poi, sono state disegnate delle sagome bianche a simboleggiare, hanno spiegato, «i lavoratori che in questi giorni saranno espulsi dal mondo della scuola e per quelli che si trovano in situazione di vulnerabilità sociale». È arrivata invece al sesto giorno l’occupazione del provveditorato agli studi di Catania ad opera di insegnanti precari e personale ata. Dopo il «No Gelmini Day» di sabato, quando tremila persone hanno sfilato in corteo, oggi una delegazione sarà a Palermo per un incontro con il presidente della Regione Raffaele Lombardo.

Repubblica Roma 8.9.09
In centinaia manifestano dalla sede dell´ex provveditorato al ministero dell´Istruzione
E i precari marciano in città "Troppi tagli uccidono la scuola"
di Cecilia Cirinei Laura Serloni


Francesca Pandolfi, ha 39 anni, è precaria da 7 nonostante i corsi di specializzazione e le ore passate in classe con gli alunni. E ieri sera è stata costretta a lasciare a casa due figli, scendere in strada e montare la tenda, con decine di altri docenti precari davanti al ministero della Pubblica Istruzione, in viale Trastevere. La notte si passa lì. Continua e non si ferma la lotta degli insegnanti. «Devo manifestare, è un obbligo, un dovere – ammette – sia per salvare il posto di lavoro che in 4.500 rischiamo di perdere, sia per salvare la scuola pubblica. Non ci sono più risorse, ho sempre avuto classi con non meno di 25 studenti e non si possono fare accorpamenti, ne va della qualità dell´insegnamento».
Prima c´è stata l´occupazione dell´ex Provveditorato di via Pianciani e ieri in centinaia hanno sfilato da viale Manzoni a via Labicana fino al Colosseo e poi giù per viale Aventino e via Marmorata e si sono fermati, educati e civili senza provocare un intoppo lungo il percorso e senza dare troppo fastidio al traffico, davanti alla sede del ministero guidato da Mariastella Gelmini, in viale Trastevere. Una manifestazione pacifica. Un corteo dai cori intonati nell´altoparlante e con balli improvvisati in strada. "La lotta non ci fa paura, la lotta non ci fermerà: Gelmini stiamo ad arrivà", hanno urlato all´unisono i tanti precari della scuola. Ad aprire la protesta dietro lo striscione "Tagli alla scuola: una truffa per tutti", i volti dei trentenni e quarantenni che da anni aspettano di diventare docenti di ruolo. Nel corteo anche il senatore Pd Vincenzo Vita: «È una battaglia da sostenere e troveremo gli strumenti parlamentari per farlo. Una lotta doverosa. E´ stato un corteo tranquillo e civile nei confronti dell´inciviltà di un governo che non si degna neanche di rispondere»
«Il presidio davanti al ministero è permanente – annuncia Carlo Seravalli del Coordinamento precari scuola Roma – andremo avanti per giorni, settimane, mesi». Intanto ieri notte in camper e tende, con sacchi a pelo e lettini improvvisati hanno occupato i marciapiedi di viale Trastevere. E oggi alle 18.30 ancora assemblea per decidere le prossime forme di protesta. «Blocchiamo l´inizio dell´anno scolastico – incalza Dino Bruno, precario dal 2000 – solo così potremo restare uniti nella lotta». Già, perché molti non vedranno i contratti rinnovati, ma tanti altri avranno «solo la magra consolazione di un contratto di disponibilità – spiegano i precari – cioè faremo da tappabuchi nelle ore di laboratorio». Annunciano una grande manifestazione nazionale da organizzare per fine settembre, ma intanto partiranno nelle scuole le ronde dei precari per riuscire a coinvolgere nella protesta anche i docenti di ruolo.

lunedì 7 settembre 2009

Repubblica 7.9.09
Il Grande Scambio sui diritti civili
di Chiara Saraceno


Il Vaticano vuole esercitare la sua influenza sulle questioni definite "non negoziabili"
Bossi si propone come paladino cattolico, ma rafforza le pulsioni anti migratorie

Non è chiaro chi uscirà vincitore dalla complessa partita che si sta giocando nel rapporto Stato (o meglio governo) e Chiesa cattolica in queste settimane, tra minacce, aggressioni, ricatti e promesse. I giocatori sono troppi, ciascuno con un suo interesse e motivazione specifica. Berlusconi vuole mettere una pietra tombale su ogni critica non tanto ai suoi comportamenti privati, quanto alla sua disinvolta confusione tra pubblico e privato, in questioni che riguardano sesso, ospitalità, candidature e incarichi politici, affari.
Perciò, così come è disposto ad usare ogni mezzo, pubblico e privato, per mettere a tacere chi lo critica, è anche disposto ad utilizzare il proprio ruolo pubblico per offrire in cambio alla Chiesa il potere di regolare le scelte private dei cittadini sulle questioni che ad essa stanno più a cuore. Bossi vuole utilizzare il richiamo al cattolicesimo ed ai suoi valori sia per tenersi buono il suo elettorato che per rafforzarne le pulsioni anti migratorie e talvolta un po´ razziste. Proprio per questo, mentre rassicura la Chiesa sulle questioni che riguardano la famiglia e la sessualità, e si propone quale novello crociato contro l´Islam, mantiene duramente la posizione sulla legge sull´immigrazione, i respingimenti senza verifiche e il reato di clandestinità - certo che la Chiesa non romperà su questo. La Chiesa da un lato è intenta a fare i propri i conti interni, nel processo di ridefinizione degli equilibri e delle alleanze iniziato con il nuovo pontificato. La destabilizzazione che questo processo ha provocato, insieme al narcisismo mediatico cui non sono insensibili neppure i monsignori, ha consentito che venissero alla luce in modo molto più esplicito di quanto non fosse mai avvenuto prima dissensi e conflitti interni, come notato anche ieri su questo giornale da Scalfari. In questa partita, anche nella Chiesa ciascun gruppo sembra giocare per sé e utilizzare i rapporti con la politica per regolare, appunto, i conti interni. Dall´altro lato, la gerarchia mantiene una forte continuità con la gestione tutta politica instaurata da Ruini, nonostante questi sia segnalato come perdente nella vicenda del direttore dell´Avvenire. Perché un conto sono i conflitti e i rapporti di potere interni, un conto è la volontà di influenzare direttamente la politica sulle questioni definite come non negoziabili. Esse riguardano appunto la sessualità riproduttiva, la famiglia (o meglio il matrimonio, che è cosa diversa dalla famiglia), le cosiddette questioni di bioetica, che sarebbe forse meglio chiamare questioni che riguardano l´inizio e la fine della vita. Il modo di trattare l´immigrazione e gli immigrati non fa parte di queste questioni non negoziabili, come non ne fanno parte il contrasto alla povertà e neppure alla guerra. Perciò su queste si può transigere o rimanere in un atteggiamento di testimonianza critica. Il caso Boffo, da questo punto di vista, può apparire addirittura provvidenziale: ha segnato un punto nei conflitti di potere interni mentre ha consegnato a tutta la Chiesa un agnello sacrificale da giocare pesantemente nei suoi rapporti con Berlusconi. Può darsi, come hanno scritto diversi commentatori, che la gerarchia si sia lasciata trovata impreparata e divisa di fronte all´attacco al direttore dell´Avvenire. Ma non sarà affatto impreparata a utilizzarlo a fini di negoziazione politica.
Accanto a questi attori principali ce ne sono altri, innanzitutto gli aspiranti costruttori del Grande Centro. Questi sperano di utilizzare il conflitto tra pezzi dell´attuale governo e la Chiesa per guadagnare l´investitura di autentici defensor fidei e di più affidabili esecutori politici dei desideri della Chiesa sulle questioni «non negoziabili». Qualcuno tenta anche la strada della competizione sulla moralità privata. Tuttavia è un terreno, non solo sempre più scivoloso, ma neppure utile o necessario. Perché, come ha chiarito a suo tempo Ruini ed è continuamente ripetuto in queste settimane, la Chiesa è interessata non ai comportamenti privati dei politici ma alle loro azioni politiche nei settori che le stanno a cuore.
Se non è chiaro chi e come vincerà, è chiaro chi perderà: noi cittadini. Perché la merce che i nostri governanti (e coloro che aspirano a sostituirli) sono disposti a scambiare in cambio della benevolenza della Chiesa è la nostra libertà non solo di opinione, ma di comportamento su questioni rilevanti per la nostra vita e per il senso che le attribuiamo: che tipo di coppia fare, se e quando fare figli e se accettare di portare a termine una gravidanza non desiderata, come essere curati e come essere accompagnati alla morte (ovvero lasciati andare) quando ogni cura non è più possibile. Lo scambio cui tutti questi attori si accingono non è solo l´importantissima libertà di stampa e di opinione. È il fondamento stesso di ogni diritto civile: l´habeas corpus e il diritto di poter dire e decidere su di sé.

Repubblica 7.9.09
Il nuovo Partito Mediale di Massa
di Ilvo Diamanti


Nell´era della mediocrazia avanza un soggetto politico nuovo. Anche se ha sembianze note e sembra quasi antico, visto che – nella versione originaria – è sorto insieme alla prima Repubblica. Eppure è cambiato profondamente, negli ultimi anni. In modo tanto rapido che neppure ce ne siamo accorti. Lo chiameremo Partito Mediale di Massa (PMM).
Perché è entrambe le cose. Allo stesso tempo mediale e di massa. Senza soluzione di continuità. Non ci troviamo di fronte a un modello, a un caso "esemplare". Perché non è riproducibile né tanto meno ripetibile. Anche se l´intreccio fra media e politica è divenuto stretto e quasi inestricabile. Dovunque. Nei partiti: la comunicazione ha preso il posto della partecipazione; il marketing quello delle ideologie; mentre le persone hanno rimpiazzato gli apparati. Così nel dibattito politico il privato è divenuto pubblico e viceversa. È una tendenza non solo italiana, ma che in Italia ha assunto modalità del tutto inedite, determinate, ovviamente, dalla posizione dominante di Silvio Berlusconi. Il premier di un paese ormai presidenzializzato, dove il potere presidenziale è largamente riassunto dal premier (mentre il Presidente svolge funzioni di garante). Leader unico e indiscusso del partito più forte, dal punto di vista elettorale e in Parlamento. Imprenditore e proprietario del più importante gruppo mediatico privato. Nessuna novità in tutto questo. Silvio Berlusconi, infatti, ha inventato 15 anni fa questo ibrido di successo. Un partito che miscela i linguaggi e l´organizzazione del mondo calcistico (gli azzurri, i club, lo stesso marchio: Forza Italia!) con la pubblicità e la televisione. Così è divenuto difficile distinguere le passioni politiche da quelle televisive. E viceversa.
Indagini condotte alcuni anni fa (da ultimo: Demos per la Repubblica, 2007) mostrano lo stretto rapporto di fiducia che legava gli elettori di centrodestra alle reti, ai programmi e ai conduttori di Mediaset; e, parallelamente, l´alto grado di credibilità riconosciuto dagli elettori di centrosinistra ai telegiornali, ai tele-giornalisti e alle reti Rai. Anche se la realtà non sopporta divisioni tanto schematiche. Visto che l´informazione del Tg5 di Mentana - forse - non era orientata più a destra rispetto a quella del Tg1 di Mimun. È, dunque, difficile distinguere fra politica, interessi e media quando si osserva Forza Italia. Ed è impossibile, quando si osserva Berlusconi, distinguere le scelte - e gli interessi - del leader politico da quelle dell´imprenditore. Argomenti noti, da tempo.
La novità degli ultimi anni è che il partito è divenuto, progressivamente, un "sistema". Forza Italia è divenuta Pdl, associando - o meglio: assorbendo - anche An. Per cui ha assunto la "misura" elettorale dei partiti di massa di un tempo. Anche l´impianto del voto sul territorio riproduce quello dei partiti di governo degli anni Ottanta: al declino della prima Repubblica. A differenza da allora, oggi l´ideologia, la cultura, l´organizzazione fanno tutt´uno con i media. Attraverso i quali il PMM offre alla società - trasformata in pubblico - linguaggio, modelli di valore, stili di vita. Una lettura della realtà. Anche perché - altra importante differenza dal passato recente - le distinzioni fra i network televisivi nazionali, ormai, si sono quasi dissolte. Dopo le elezioni del 2008, l´influenza dei partiti di governo - quindi del premier - sulla Rai è cresciuta. Il vero bipolarismo mediatico (come ha scritto Aldo Grasso) oggi oppone Mediaset e Sky. E la Rai sta con Mediaset, per cui possiamo parlare di MediaRai (marchio più adeguato di Raiset, visto il ruolo subalterno della Rai).
Il PMM costruito da Berlusconi si avvale anche dei giornali. Il linguaggio e gli argomenti politici della destra, negli ultimi anni, sono stati imposti soprattutto da Libero e da Vittorio Feltri. Il quale è tornato, da poco, a dirigere il Giornale. Non a caso. Perché il campo di battaglia dove si stanno svolgendo i conflitti politici più aspri e violenti coincide con il sistema dei media. Investe la scelta dei dirigenti, dei direttori e vicedirettori dei Tiggì e delle reti Rai. Senza dimenticare che i direttori dei maggiori quotidiani nazionali sono cambiati quasi tutti, nell´ultimo anno. D´altra parte, la costruzione della realtà sociale passa tutta dai media. La paura e la sicurezza. Agitate a tele-comando. Mentre i lavoratori licenziati, per conquistare visibilità, hanno una sola chance: realizzare azioni clamorose per andare in televisione. Mentre i terremoti e i rifiuti che sconvolgono il territorio diventano occasioni importanti per suscitare consenso o dissenso politico. L´informazione critica diventa, per questo, assai più pericolosa di qualsiasi partito. Anche la riserva indiana della terza Rete Rai crea insofferenza. Mentre il direttore di Avvenire diventa un bersaglio esemplare. Per comunicare al mondo (politico, mediatico, religioso) che nessuno può gettare ombre - seppure lievi - sul consenso e sulla credibilità sociale del PMM. E del suo leader. Nessuno è al sicuro. Neppure il direttore dei media della Cei. Figurarsi gli altri.
I tradizionali modelli del giornale di partito e del giornale-partito, che sentiamo evocare spesso - anche in questi giorni, con riferimento a Repubblica - appaiono semplicemente anacronistici. I giornali che appartengono ai partiti. Oppure, al contrario, la stampa d´opinione che esercita pressione su di essi, per indirizzarne le scelte. Sono fuori tempo. Comunque, non possono competere. Perché hanno un pubblico molto limitato rispetto alle tivù. E, senza le tivù a rilanciarli, i loro argomenti restano confinati al pubblico dei lettori fedeli. Il PMM, invece, è un sistema integrato. Al tempo stesso: partito, istituzione rappresentativa, impresa, giornale, tivù, media. Senza soluzione di continuità. Una sola, unica persona al comando. Di questa democrazia personalizzata. Di questo paese personale.

Corriere della Sera 7.9.09
Dopo gli attacchi all'informazione
Due o tre cose su premier e stampa
di Ernesto Galli Della Loggia


La legge deve essere di manica larghissima nel consentire alla stampa libertà di critica verso i politici
Decidere se qualunque persona è adatta o inadatta a guidare il governo non è compito dei giornali: è compito degli elettori

Se c’era bisogno di una prova dell’incapacità del presidente del Consiglio di gestire i conflitti, anche di natura personale, in cui si trova coinvolto egli l’ha data con la querela ai giornali nei giorni scorsi. Gestire i conflitti, intendo, nell’unico modo in cui un uomo politico può e deve farlo: vale a dire politicamente.
L’espressione «gestire politicamente» può significare tante cose: dal cercare di venire in qualche modo a patti con l’avversario, al pagare il prezzo che c’è da pagare, al rilanciare su altri piani con una forte iniziativa che imponga all’agenda politica di girare decisamente pagina, fi­no al fare finta di nulla. E invece, di fronte agli attac­chi personali che gli stan­no piovendo addosso da mesi, Berlusconi non ha fatto niente di tutto ciò. Anzi, con la querela alla Repubblica e all ’Unità ha aggiunto benzina al fuoco della polemica.
Perché? Perché egli non capisce l’importanza della suddetta gestione politica e/o non sa met­terla in opera, si può ri­spondere. Ma forse c’è una ragione più semplice (e in certo senso più sostanziale): perché non è nel suo carattere, e Berlu­sconi sa bene che è pro­prio nel suo carattere, nel suo spontaneo modo di muoversi, di parlare, di re­agire, che sta la ragione principale del suo succes­so come politico outsider. Un temperamento legge­ro e insieme pugnacissi­mo; e poi ottimista, sicu­ro e innamorato di sé co­me pochi e naturalmente disposto all’improntitudi­ne guascona, all’iniziativa audace e fuori del consue­to: questo è l’uomo Berlu­sconi, e questa ne è l’im­magine che ha conquista­to lo straordinario consen­so elettorale che sappia­mo. Perché mai un uomo così dovrebbe preoccupar­si di trovare una soluzio­ne politica ai conflitti che riguardano la sua perso­na? Che poi della sua ag­gressiva indifferenza pos­sano scapitarci le istituzio­ni non è cosa che possa fargli cambiare idea. Se una cosa è certa, infatti, è che il presidente del Con­siglio non è quello che si dice «un uomo delle isti­tuzioni ». È l’opposto, sem­mai: un uomo pubblico a suo modo «totus politi­cus », l’uomo della politi­ca democratica ridotta al suo dato più elementare, quello del risultato delle urne.
Ma c’è un altro aspetto della questione da consi­derare. Ed è che per gesti­re, e possibilmente chiu­dere, politicamente i con­flitti è essenziale una con­dizione: bisogna che il conflitto possa concluder­si alla fine con un compro­messo. Non pare proprio però che sia tale, che sia un conflitto «compromis­sibile», quello in cui è coinvolto da settimane Sil­vio Berlusconi. Un conflitto che è partito dall’accer­tamento di alcuni aspetti indubbiamente libertini della sua vita privata — a proposito dei quali voglia­mo ricordare che il Corrie­re è stato il primo a dare notizia dell’inchiesta di Bari nonché delle gesta dell’ormai purtroppo fa­mosa Patrizia D’Addario — ma che tuttavia è subi­to diventato motivo per decretare l’incompatibili­tà dello stesso Berlusconi rispetto al suo ruolo di presidente del Consiglio.
Chi dubiti che di questo si tratti, ricordi come suonano te­stualmente alcune delle famo­se domande che hanno con­dotto alla querela contro il giornale che le ha pubblicate: «Lei ritiene di poter adempie­re alle funzioni di presidente del Consiglio?», e ancora: «Quali sono le sue condizioni di salute?». Mi chiedo quale ri­sposta sensata, anche volen­do, si possa dare a domande del genere, le quali, come ognuno capisce, già in sé con­tengono l’unica possibile da parte dell’interessato («lo ri­tengo eccome», «sono sano come un pesce»). E le quali do­mande, dunque, non hanno va­lore se non come puro stru­mento retorico: per affermare in modo indiretto, ma precisis­simo, che Berlusconi, a moti­vo del suo stile di vita, non sa­rebbe adatto a fare il capo del governo.
Il che ci porta al punto più delicato: il rapporto tra la stam­pa e il potere, sul quale a pro­posito del caso Avvenire han­no già scritto ottimamente su queste colonne sia Massimo Franco che Sergio Romano. Personalmente sono convinto che la legge debba essere di manica larghissima nel consen­tire alla stampa un’amplissima libertà di critica nei confronti degli uomini politici, anche ai limiti della calunnia, come ac­cade per esempio negli Stati Uniti dove, per non incorrere nei rigori della legge, basta che anche chi scrive il falso non ne sia però espressamente consa­pevole. Da questo punto di vi­sta, dunque, l’iniziativa del pre­sidente del Consiglio, accom­pagnata per giunta dalla richie­sta di un risarcimento astrono­mico, è sbagliata e riprovevole: essa ha di fatto un innegabile contenuto di intimidazione censoria verso i giornali presi di mira.
Con la stessa sicurezza, pe­rò, si può dubitare fortemente che rientri tra i compiti della libera stampa l’organizzazione di interminabili, feroci campa­gne giornalistiche, non già per invocare — come sarebbe sa­crosanto — che i reati even­tualmente commessi dal presi­dente del Consiglio siano per­seguiti (dal momento che nel suo libertinismo di reati non sembra esservi almeno finora traccia), ma per chiedere di fat­to le sue dimissioni, adducen­do che egli sarebbe comunque, per il suo stile di vita, «inadatto» a ricoprire la carica che ricopre. In una democra­zia, fino a prova contraria, de­cidere se qualunque persona è adatta o inadatta a guidare il governo, non è compito dei giornali: è compito degli elet­tori e soltanto degli elettori. Anche se la loro decisione può non piacere.

Corriere della Sera 7.9.09
Nel centro del potere ecclesiastico i vescovi non contano e la guida si è trovata a essere ora un primo ministro, ora un vicepapa
Il peso della Segreteria di Stato e il lento cambiamento dei vertici
I nodi intricati della Curia romana tra passato e presente
di Alberto Melloni


Ratzinger ha affidato il governo politico a un amico leale, così ha dovuto rinunciare a veder salire verso di sé gravami non sempre inutili al Papa
Problemi e soluzioni maturano spesso fuori dal Palazzo, alla luce dei media. La Chiesa non ha interessi che una politica possa far suoi per rivendicare privilegi

L’ attacco alla Chiesa cattolica e all’episco­pato italiano ha prodotto una confusio­ne forse perfino superiore a quella che ci si riprometteva. Può darsi che a suo tempo arri­vi una parola di fede, di ravvedimento, di con­solazione alla quale il clero e il popolo avreb­bero diritto. Per ora, invece, l’analisi è fatta di altro: e, nonostante le smentite, molti sento­no nella discrasia fra la volontà della Segrete­ria di Stato e quella dell’episcopato le premes­se delle recenti vicende. C’è chi vede nella competizione fra cordate e carriere la causa di questi mali; c’è chi richiama il peso dei Sosti­tuti, degli ex Sostituti e di una diplomazia vati­cana diventata marginale nel campo suo; e al­tri ancora indicano nella figura del Segretario di Stato, il cardinal Bertone, colui al quale si devono sia le svolte sia il loro costo. Si tratta di analisi volta a volta rispettose, banalmente dietrologiche o palesemente malevole.
Ma sarebbe grave se tutto si riducesse a una poltiglia di sussurri e maldicenze, a una personalizzazione dei problemi rinunciando a cogliere lo spessore istituzionale della que­stione che riguarda il governo centrale della Chiesa cattolica. Nata nel 1588 dal genio di Si­sto V, la Curia romana è stata il modello di una organizzazione specialistica e coerente del potere: riformata varie volte dopo il 1870, essa è ora come la sognò Papa Montini: cioè un governo politico, reclutato su scala inter­nazionale, dove i vescovi non contano, a me­no che non vengano chiamati a Roma come capi-dicastero. Declassato l’ex Sant’Ufficio, il Segretario di Stato s’è trovato ad essere ora un primo ministro di questo governo, ora un vicepapa, circondato però da porporati che sono nel loro ambito (la nomina dei vescovi, la prassi liturgica, la politica dottrinale, ecc.) primi ministri e vicepapi. Accanto ci sono le rappresentanze pontificie, le relazioni roma­ne, le conferenze episcopali.
In questo incrocio nascono nodi che da più di settant’anni sono assai intricati. Pio XII li tagliò lasciando vacante per tredici anni il ruolo di Segretario di Stato. Sia Roncalli con Tardini, sia Wojtyla con Casaroli e Sodano, scelsero un braccio destro ai propri antipodi culturali. Paolo VI immaginò di risolverlo consegnando ai successori una possibilità — rinominare tutti i capi di Curia — che nessu­no ha mai usato. Benedetto XVI ha risolto il problema nominando a capo di questa mac­china il cardinal Bertone, canonista di rango, vescovo di una grande diocesi e soprattutto un amico leale di lunga data del Pontefice; col che ha però dovuto rinunciare a veder sali­re verso di sé gravami non sempre inutili al Papa. Per questo i problemi e le soluzioni maturano così spesso fuori dal Palazzo, alla luce accecante dei media.
Nella macchina di governo che fa capo al Segretario di Stato si producono a ritmo con­tinuo lenti avvicendamenti: il cardinale che aveva gestito l’ affaire delle scomuniche è an­dato in pensione, uomini chiave della politi­ca cinese e italiana partono da Roma come nunzi; in capo a pochi anni si dovrà nomina­re chi farà l’ecumenismo cattolico e colui che sceglierà i vescovi della Chiesa latina di doma­ni. In questo lento movimento le spiegazioni personalistiche, politiciste o moraliste sono sempre sbagliate, per difetto.
La Chiesa cattolica rischia niente se il suo popolo o i suoi vertici si spostano politica­mente verso un punto da cui, presto o tardi emigreranno. Non ha interessi che una politi­ca — nemmeno una biopolitica — possa far suoi per rivendicare privilegi. Le interessa rendere il Vangelo vicino ad ogni uomo fatto di quella carne assunta e sanata dal Verbo di­vino. Governare questo (dis)interesse non è facile. Criticando la riforma della Curia del 1988 Eugenio Corecco, il grande canonista di Communio, aveva sentenziato con durezza che era stata fatta «senz’anima ecclesiologi­ca». La questione è ancora quella ed è tutta aperta.

Corriere della Sera 7.9.09
Biotestamento e medici Martini riapre il confronto
Patti: volontà del paziente decisiva. D’Agostino: troppi rischi
di Gianna Fregonara


ROMA — «Forse è tempo di fermarsi un po’ a pensare, prima di riprendere la discussione sul testamento biologico». Il cardinal Martini che fa la recensione del­l’ultimo saggio di Ignazio Marino, deputa­to pd e autore di una delle proposte di leg­ge sul fine vita più indigeste per la Chiesa, ha un primo effetto collaterale non irrile­vante: mette d’accordo in pochi minuti due punti di vista molto lontani, quello del teodem Enzo Carra (Pd) e dell’ideolo­go del pensiero laico di Gianfranco Fini, Alessandro Campi. Non solo, permette an­che ad un radicale come Marco Cappato di intravvedere «nei dubbi di Martini, un’impostazione liberale che indica come non vi possa essere una soluzione unica per ogni situazione».
Il cardinal Martini che mette qualche punto interrogativo tra la vita e la morte, che parla di collegare, nel momento estre­mo, «la forza della medicina e il sapiente e prudente giudizio della persona», che si interroga sulla «vita vegetativa», su quali sono i mezzi «straordinari» e quelli «ordi­nari » di cura, sui «casi estremi» e di quan­do «è dovere del medico non accanirsi e sapersi fermare, se non c’è più nulla da fa­re, anche se questo provoca frustrazioni e sconforto».
Le idee dell’ex arcivescovo di Milano so­no note e l’abitudine al dialogo con i laici e con Marino stesso non sono una novità: qualche anno fa fece molto discutere un confronto sulla bioetica, proprio tra loro due. Ma le sue parole, pubblicate sul Cor­riere di ieri, bastano a riaprire un confron­to, che prima che politico e parlamentare, è etico e filosofico.
«Ho trovato le sue parole equilibrate e intelligenti: l’idea che l’espressione della volontà della persona nel testamento bio­logico limiti la discrezionalità del medico è fondamentale — spiega un esperto co­me Salvatore Patti, professore di diritto privato all'Università La Sapienza di Ro­ma e membro del comitato scienza e dirit­to della Fondazione Veronesi —. Come è interessante la riflessione sui mezzi 'ordi­nari' e 'straordinari', poiché se nel no­stro ordinamento è un diritto per una persona cosciente rifiuta­re anche le cure ordinarie, con il testamento deve potersi decidere di dire no a interventi che serva­no solo a mantenere in vita senza prospettive di miglioramento».
Per Patti, che invita a guardare alla legge tedesca sul testamento biolo­gico appena approvata, le parole di Martini e il suo dare un’importanza pari a giudizio medico e volontà del malato indicano una strada che «po­trebbe permettere all’Italia di non ri­manere isolata nel panorama euro­peo » e alla Chiesa di trovare una via d’uscita per singoli e particolari casi come quello di Eluana.
Non la pensa così Francesco D’Agosti­no, ex presidente del Comitato nazionale di bioetica e membro della Pontificia acca­demia per la vita, che non vede «in Marti­ni come in molti altri che se ne occupano, l’adeguata consapevolezza bioetica di chi ha studiato da dentro questi problemi». Teme D’Agostino che l’idea del testamen­to biologico possa venire manipolata e falsificata. E per questo poche «battute an­che se pensose» non servono a semplifica­re un tema che rischia invece di essere svi­lito a «burocratizzazione la morte»: «Il ma­lato si rimette al medico, è un soggetto de­bole che si affida alle parole e alla scienza di chi lo cura. Dire che il medico è il mi­gliore interprete della volontà del malato è un falso di comodo, perché spesso il pa­ziente lo ha appena incontrato. Solo in po­chi casi di malati non in difficoltà si può avallare il testamento biologico che non può essere vincolante per i medici perché è una follia prevedere oggi il proprio do­mani e legare le mani al medico».
A trovare poco convincenti le argomen­tazioni di Martini è anche Eugenia Roccel­la, sottosegretario al Welfare, impegnata in prima linea sui temi della vita e della famiglia: «Mi colpisce soprattutto questa dualità corpo/mente, che pensavo fosse superata, l’idea che la parola cosciente val­ga più della vita incosciente. Non è vero che nelle situazioni di incoscienza non vi sia una relazione con gli altri». Per Roccel­la le parole del cardinale non fanno intrav­vedere spazi di modifica della legge appro­vata dal Senato, anzi: «Riconoscere, come fa Martini, che siamo affidati, nella malat­tia come in altre situazioni, nelle mani de­gli altri e dei medici, significa che ci deve essere un limite all'autodeterminazione che dunque non può essere vincolante».
Pensa invece che questo dibattito alla fine possa dar spazio ad una «Terza Via» l’ex ministra pd Livia Turco: «Questa idea di affidarsi alle mani del medico ma di avere una parte del proprio destino nelle proprie mani dimostra che la contrapposi­zione tra i due moloch fatta in Senato tra volontà del paziente e decisione del medi­co va invece rovesciata: sono le due parti di una relazione, i due principi devono sta­re insieme».
«Purtroppo — allarga le braccia Ales­sandro Campi — si sa che la discussione su un tema così importante è partita, sba­gliando, sull’onda dell’emozione del ca­so Englaro. Ma non si può non dire che è diventata merce di scambio con la Chie­sa e questo soffoca qualsiasi dibattito». Dibattito che sicuramente Martini po­trebbe riaprire, «sempre che — continua Campi — essendo intervenuto a favore di uno dei candidati nelle primarie del Pd non lo liquidino come il 'solito catto­comunista', un problema serio: e cioè quello di chiedersi se in un campo che richiede rigore medico ad una scienza senza certezze e una pietas che fa di ogni caso un unicum, non si debba interrogar­si se invece di una legge rigida non sia meglio lasciare quella zona grigia che molte circostanze consiglierebbero».

Corriere della Sera 7.9.09
La disputa su lingue e dialetti ripropone il tema delle patrie molteplici
L’identità è una matrioska: somma di incontri e storie
Il senso di appartenenza e il dialogo con le diversità Vivere le radici è l’opposto del localismo folcloristico
di Claudio Magris


L’anarchia spirituale, come il matrimonio all’interno dello stesso gruppo sociale, produce malformazioni fisiche e culturali

Le dispute agosta­ne sui dialetti e gli inni nazionali o locali possono essere tutte sfatate da una lapidaria riflessione di Raf­faele La Capria sulla diffe­renza tra essere napoletani e fare i napole­tani.
Essere napoletani — o milanesi, trie­stini, lucani — significa sentirsi spontanea­mente legati al luogo natio in cui ci si è ri­velato il mondo, amare i suoi colori e sapo­ri che hanno segnato la nostra infanzia, parlare il suo linguaggio — lo si chiami o no dialetto — indissolubilmente legato al­la fisicità delle cose che ci circondano e al­la loro musica; pastrocio , per me triestino, non sarà mai la stessa cosa del suo equiva­lente «pasticcio».
Fare i napoletani o i lombardi falsifica questa spontanea autenticità in un’artifi­ciosa e pacchiana ideologia, aver bisogno di farsi fotografare sullo sfondo del Vesu­vio o di inventarsi antenati celti, indossare qualche pittoresco e patetico costume fol­cloristico per mascherare l’insicurezza del­la propria identità. Chi sproloquia sui dia­letti contrapponendoli all’italiano inquina la loro naturalezza, degrada la loro poesia a posa.
Il dialetto è una peculiarità fondamenta­le e ben lo sa chi, come me, lo parla corren­temente ogni giorno a proposito di qualsia­si argomento, ma spontaneamente, non per rivendicare qualche stupida identità gelosamente chiusa, pronta ad alzare il ponte levatoio per difendere la propria sbandierata purezza. L’autarchia spiritua­le, come l’endogamia, produce malforma­zioni fisiche e culturali. La diversità è crea­tiva solo quando, nell’affettuoso riconosci­mento di se stessa, si apre al riconoscimen­to e all’amore di altre diversità, egualmen­te necessarie al mosaico del mondo e alla varietà della vita. La verità umana è nella relazione, in cui ognuno cresce e si trasfor­ma senza snaturarsi, ha scritto Édouard Glissant, esortando a non sprofondare le radici nel buio atavico delle origini bensì ad allargarle in superficie, come rami che si protendono verso altri rami o mani che si tendono per stringerne altre.
Per parafrasare un celebre detto di Dan­te, l’amore per l’Arno — ossia per il luogo natale — e quello per il mare, patria uni­versale, sono complementari. Il rullo com­pressore dei nazionalismi centralisti che ha spesso schiacciato le peculiarità e le au­tonomie locali è inaccettabile, ma lo è al­trettanto il rullo compressore dei microna­zionalismi locali, pronti a schiacciare le mi­noranze ancor più piccole viventi al loro in­terno. L’ipotesi del friulano quale lingua scolastica ufficiale aveva messo subito in allarme, a suo tempo, la minoranza bisiaca parlante bisiaco (peraltro non troppo dissi­mile) che vive nel Friuli-Venezia Giulia.
Una distinzione fra lingua e dialetto è scientificamente insostenibile; sappiamo benissimo, ad esempio, che il friulano ha una sua compiuta organicità, strutturale e storica. Non so se ciò renda necessario in­segnare l’inglese o la fisica in friulano e non credo che per questo i miei avi, i miei nonni e mio padre, friulani, mi considere­rebbero un rinnegato. Diversi sistemi lin­guistici hanno diverse possibilità, egual­mente importanti ma appunto differenti. Una delle più universali liriche che io ab­bia mai letto — l’ho riportata tempo fa sul «Corriere» — è una poesia di dolore per la morte di un bambino, creata da un ignoto poeta Piaroa, un gruppo di indios dell’Ori­noco che quarant’anni fa erano soltanto tremila e forse — non lo so — oggi sono estinti.
Quella poesia è degna di Saffo (che pe­raltro scriveva in dialetto eolico) o di Saba; non credo tuttavia che in lingua Piaroa si possano scrivere La critica della ragion pu­ra, le Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni o la Comme­dia.
Ciò non significa negarle universalità, bensì prender atto di diverse possibilità e modalità di esprimerla. Herder, lo scritto­re tedesco contemporaneo di Goethe, scor­geva in Omero e nella Bibbia la creatività aurorale e perenne della poesia, ma la tro­vava pure nell’anonima canzone popolare lettone ascoltata alla festa del solstizio d’estate.
Ogni luogo — come dice Alce Nero, guerriero Sioux e grande scrittore analfa­beta — può essere il centro del mondo, piccolo o grande esso sia, molti o pochi sia­no i suoi abitanti — come i Sorbi che sono andato a visitare in Lusazia, i Cici o istroro­meni che secondo l’ultimo censimento era­no 822, un popolo a un terzo del quale ho stretto la mano, o gli abitanti di Wyimy­sau, un paesino in Polonia, che parlano una lingua unicamente loro. L’elenco po­trebbe continuare a lungo, anche se di con­tinuo muore qualche lingua, soggetta co­me gli uomini alla caducità. Ma il piccolo non è bello in quanto tale, come vuole un retorico slogan; lo è se rappresenta e fa sentire il grande, se è una finestra aperta sul mondo, un cortile di casa in cui i bam­bini giocando si aprono alla vita e all’avven­tura di tutti.
L’identità autentica assomiglia alle Ma­trioske, ognuna delle quali contiene un’al­tra e s’inserisce a sua volta in un’altra più grande. Essere emiliani ha senso solo se im­plica essere e sentirsi italiani, il che vuol di­re essere e sentirsi pure europei. La nostra identità è contemporaneamente regionale, nazionale — senza contare tutte le vitali mescolanze che sparigliano ogni rigido gio­co — ed europea; del nostro Dna culturale fanno parte Manzoni come Cervantes,
Shakespeare o Kafka o come Noventa, gran­de poeta classico che scrive in veneto. È una realtà europea, occidentale, che a sua volta si apre all’universale cultura umana, foglia o ramo di quel grande, unico e varie­gato albero che era per Herder l’umanità.
I tromboni del localismo non possono capire la poesia, la potenziale universalità del dialetto. Sviluppando un’intuizione di Croce, Marin, notevolissimo poeta in gra­dese, distingueva «poesia in dialetto» e «poesia dialettale». La prima è semplice­mente poesia tout court , che può essere an­che grandissima esprimendosi nella lin­gua che le è congeniale, il veneziano di Gol­doni o il viennese di Nestroy. La seconda è priva di universalità, è legata all’immedia­tezza vernacola e viscerale della peculiarità locale e incapace di toccare il cuore di chi non partecipa di quella peculiarità. Pure es­sa può essere molto simpatica nella sua co­lorita vitalità, ma non è poesia. Peraltro pu­re questa sua vitalità viene profanata dai cultori del geloso localismo, che senza vo­lerlo la ridicolizzano nelle loro pretese di purezza originaria, come l’acqua del Po ver­sata nel Po, non consigliabile da bersi.
C’è e c’è stata una sacrosanta rivendica­zione del dialetto quale espressione di clas­si subalterne e sfruttate, tenute a lungo lontane dalla cultura nazionale dominante e per tale ragione iniquamente disprezzate da chi le aveva ridotte in tale condizione. C’è, fra le tante, un’incisiva testimonianza di Guido Miglia, lo scrittore istriano scom­parso non molto tempo fa, che visse la drammatica esperienza dell’esodo dalla sua terra, alla fine della seconda guerra mondiale, da italiano che amava il suo pae­se senza indulgere ad alcun pregiudizio an­tislavo. Miglia ricorda come, quando inse­gnava nell’interno dell’Istria, ci fosse fra i suoi scolari uno che sapeva dire soltanto pasculat , perché portava le greggi al pasco­lo, ed era perciò tagliato fuori dall’istruzio­ne scolastica.
Come ha capito don Milani a Barbiana, agendo in conseguenza, anche chi sa espri­mersi solo con il linguaggio del suo ele­mentare vissuto quotidiano si esprime fon­dandosi su un’esperienza reale e può dun­que possedere una reale ancorché sempli­ce cultura, capace di unire con istintiva co­erenza la propria vita, la propria visione del mondo e i propri giudizi sul mondo. Tale cultura, anche se poco autoconsapevo­le ma vissuta con tutta la propria persona, può essere più profonda di quella più sofi­sticata ma orecchiata senza essere fatta ve­ramente propria. Una pretesa cultura «al­ta » che ricacci brutalmente in basso quelle linfe — da cui nasce ogni cosa e da cui è nata quindi anch’essa — è ottusamente prevaricatrice, e lo è pure un’egemone cul­tura centralista che comprima le diversità locali che hanno contribuito e contribui­scono a formarla, così come — Dante inse­gna — i diversi volgari d’Italia hanno co­struito il volgare italiano. Reprimere que­sti vitali processi è non solo ingiusto, ma anche autolesionista.
Il ragazzino inizialmente capace di dire soltanto pasculat dev’essere compreso nel­le ragioni storico-sociali che lo hanno emarginato e aiutato a riconoscere se stes­so e a conservare in sé le linfe elementari di quel pasculat . Ma, come Gramsci inse­gna, egli va soprattutto aiutato a innestare quelle linfe in una realtà intellettuale più ampia, aiutato a capire il mondo e la pro­pria stessa arretratezza e dunque a combat­tere questa ultima. Chi vagheggia culture «alternative«, dialettali o altre, favorisce la discriminazione sociale e ostacola il cam­mino di chi vuol emergere dal buio. Il dia­letto non può essere usato regressivamen­te in opposizione alla lingua nazionale. Gramsci auspicava che il «popolo» si riap­propriasse della cultura alta e magari del latino, che aiuta a capire la complessità del mondo e a non lasciarsi fregare. Ma il dia­letto che esprime la sanguigna resistenza quotidiana al potere è l’opposto del folclo­re dialettale ostentato e compiaciuto, ser­vo e strumento del potere e talora crassa espressione di potere. Chi fa il napoletano è il peggior nemico dei napoletani.

Liberazione 5.9.09
Ora si usa quell'intesa per confermare l'equivalenza tra nazismo e comunismo
Patto Ribbentrop-Molotov. le colpe dell'Europa
di Alberto Burgio


Non c'è da stupirsi se la commemorazione dell'inizio della seconda guerra mondiale, scoppiata settant'anni fa con l'aggressione nazista della Polonia, abbia suscitato polemiche e riaperto discussioni mai sopite sulle responsabilità del conflitto. Molta acqua è passata sotto i ponti in questi decenni. Molti Stati protagonisti di quello scenario non esistono più o hanno subito radicali trasformazioni. Ma il rimpallo delle responsabilità conserva un valore politico aggiunto, è un'arma sempre attuale a scopi propagandistici.
Naturalmente, in questa infinita querelle il patto di non aggressione siglato tra i ministri degli Esteri tedesco e sovietico una settimana prima dell'inizio della guerra occupa da sempre una posizione di eccellenza. Troppo appetitosa la notizia di una intesa tra nazisti e comunisti. Troppo invitante la vicenda dell'aggressione convergente ai danni della Polonia (invasa sul confine orientale dall'Armata Rossa il 17 settembre 1939). Sin troppo agevole la deduzione che tra Hitler e Stalin l'accordo era spontaneo, trattandosi di due incarnazioni del "totalitarismo". Ovvio, quindi, che martedì scorso a Westerplatte, vicino Danzica, lo "scellerato patto" sia stato nuovamente tirato in ballo come un incontrovertibile capo d'accusa contro l'Urss. Allora è forse il caso di ricordare qualcosa che troppo spesso, anche "a sinistra", si dimentica.
Il patto Ribbentrop-Molotov venne siglato il 23 agosto 1939, alla vigilia dell'invasione nazista della Polonia, dopo ripetuti tentativi sovietici di stipulare accordi di mutua difesa con la Francia e l'Inghilterra. Ancora il 18 aprile 1939 Stalin aveva proposto a Parigi e Londra un patto di reciproca sicurezza che prevedeva l'assistenza militare automatica ai Paesi dell'Europa orientale in caso di aggressione tedesca. Ma l'anticomunismo viscerale del premier inglese (e la tacita speranza che Hitler sfondasse a est, riuscendo nella benemerita impresa di liberare l'Europa dalla minaccia bolscevica) impedì qualsiasi intesa tra Mosca, Londra e Parigi.
I negoziati anglo-sovietici si protrassero stancamente sino all'estate e non approdarono a nulla per il rifiuto di Chamberlain di fornire a Stalin qualsiasi garanzia automatica e reciproca. Era sempre più evidente che si stava ripetendo il film del '36, col fallito accordo franco-sovietico e il non intervento degli alleati in Spagna. O la tragica commedia del '38, il Patto di Monaco con il quale la Francia e l'Inghilterra avevano autorizzato lo smembramento della Cecoslovacchia, nell'illusione di placare gli appetiti di Hitler e - ancora una volta - di incanalarne l'aggressività verso oriente.
In tale situazione il patto quinquennale di non-aggressione tra Berlino e Mosca si rese indispensabile per prevenire (differire) l'attacco nazista contro l'Urss, che costituisce un punto fermo sin nei primi piani di espansione di Hitler, nei quali lo "spazio vitale" della Germania nazista va dal Baltico al Mar Nero. Non si dimentichi che la gerarchia "razziale" nazista colloca i popoli slavi tra gli Untermenschen, e che nell'antisemitismo politico dei nazisti l'Unione sovietica è la patria del "giudeobolscevismo" (ragion per cui la "soluzione finale" avrebbe dovuto coinvolgere anche i cosiddetti «soldati asiatici dell'Armata Rossa»). Si consideri altresì che l'Urss non doveva difendersi soltanto dalla minaccia nazista, ma anche da quella giapponese. Nel '38 il Giappone aveva attaccato la Manciuria e le sue truppe avevano sconfinato in territorio sovietico, nella regione di Vladivostok. E ancora nell'estate del '39 tentavano di sfondare lungo il confine orientale della Repubblica popolare di Mongolia.
Si aggiunga, infine, un piccolo particolare. Fu lo "scellerato patto" Ribbentrop-Molotov a permettere all'Unione sovietica di dotarsi della potenza militare che le consentì di rompere l'assedio di Stalingrado e di rovesciare le sorti del conflitto mondiale a favore della coalizione antifascista. E' dunque proprio a questo accordo che si deve la sconfitta dell'Asse, l'infrangersi del progetto di un Nuovo ordine mondiale fondato sul dominio dei Signori della Terra e sullo sterminio o la schiavitù delle "razze inferiori".
Tutto ciò non cancella le responsabilità sovietiche nell'invasione della Polonia. Ma anche su questo aspetto andrebbe fatta chiarezza. Diversamente da quanto si suole ribadire, il patto Ribbentrop-Molotov non comprendeva alcun accordo spartitorio a danno della Polonia, ma soltanto la delimitazione di "aree di sicurezza" nei territori di confine. Se l'Armata Rossa invase la Polonia oltre due settimane dopo l'attacco tedesco, ciò discese da considerazioni di carattere strategico. I generali sovietici chiedevano l'estensione verso ovest del perimetro strategico della Russia in funzione difensiva. Ed è difficile dar loro torto, considerata l'inerzia di Francia e Inghilterra dopo l'attacco tedesco, e il concreto rischio di un Blitzkrieg che avrebbe rapidamente portato la Wehrmacht sino al confine sovietico.
Di tutto ciò è necessario conservare memoria, consapevolezza e indipendenza di giudizio. Soprattutto oggi, dato il dominio pressoché incontrastato del revisionismo storico. Pena l'accoglimento della "storiografia dei vincitori", tesa non solo a mettere Stalin sullo stesso piano di Hitler, ma anche a cancellare le pesanti responsabilità delle "democrazie occidentali" e del grande capitale finanziario americano nella ascesa di Hitler al potere e nella lunga fase di incubazione della Seconda guerra mondiale.

Repubblica 7.9.09
Così una bella donna manda in tilt il cervello di un uomo
Ecco il perché di rossori e imbarazzi
Gran parte delle risorse cognitive impiegate per impressionare e piacere
di Enrico Franceschini


LONDRA - Se in presenza di una bella donna vi capita di balbettare, confondervi, dimenticare cosa stavate facendo o dove stavate andando, consolatevi: non siete i soli. E, per di più, è madre natura che ha programmato noi uomini in maniera da comportarci in questo modo.
Una ricerca pubblicata in Gran Bretagna conferma infatti il vecchio luogo comune secondo cui il maschio, davanti alla bellezza femminile, perde la testa. Ebbene, sembra proprio così: basta un incontro fugace con una donna attraente e il cervello maschile smette di funzionare, perde colpi, non fa più il suo mestiere. "La donna più sciocca può manovrare a suo piacimento un uomo intelligente", diceva Kipling: se poi è carina, non c´è genio che possa resisterle.
"Il sex appeal fa andare l´uomo giù di testa" è il titolo con cui il quotidiano Daily Telegraph di Londra riassume la ricerca, apparsa sull´autorevole Journal of Experimental and Social Psychology. Si tratta di uno studio condotto da psicologi della Radbouds University, in Olanda, che hanno sottoposto a una serie di test un campione di studenti maschi eterosessuali.
A tutti è stato chiesto per esempio di ricordare una successione di lettere dell´alfabeto. Quindi ciascuno degli studenti ha trascorso sette minuti in compagnia di una donna attraente. Poi il test è stato ripetuto. La seconda volta, tutti gli studenti hanno ottenuto risultati decisamente peggiori della prima.
Gli studiosi pensano che la ragione sia questa: quando incontrano una donna che a loro piace, gli uomini usano istintivamente gran parte delle loro funzioni cerebrali, ossia delle risorse cognitive, per fare buona impressione su di lei, insomma per far colpo, e nel cervello rimangono dunque scarse risorse per altre funzioni.
Gli psicologi olandesi hanno avuto l´idea di condurre un simile esperimento quando uno di loro si è accorto che, dopo aver avuto una conversazione con una donna che lo aveva colpito per la sua bellezza e che non aveva mai incontrato prima, lui non riusciva a ricordare l´indirizzo di casa propria, in risposta a una domanda della sua interlocutrice per sapere dove vivesse. Il professor George Fieldman, membro della British Psychological Society, commenta sul Telegraph che i risultati riflettono il fatto che gli uomini sono programmati dall´evoluzione per pensare a come trasmettere i propri geni. «Quando un uomo incontra una donna», afferma lo studioso, «è concentrato sulla riproduzione. Ma una donna cerca anche altri attributi, come la gentilezza, la sincerità, la stabilità economica».
E in effetti la ricerca suggerisce che le donne non perdono la testa allo stesso modo, quando incontrano un uomo bello e affascinante.
Il test, secondo gli esperti, potrà essere utile per valutare le prestazioni di uomini che flirtano con le colleghe sul posto di lavoro o i risultati accademici nelle scuole miste. Senza contare che d´ora in poi l´uomo avrà una scusa in più, se si rende ridicolo di fronte a una bella donna: potrà sempre dare la colpa ai cavernicoli nostri antenati e all´evoluzione delle specie.

Repubblica 7.9.09
La sessuologa Chiara Simonelli e i segreti dell´attrazione fra i sessi
"Ma noi siamo molto diverse sull´amore uno sguardo globale"
I maschi sono riluttanti a innamorarsi, il problema della dipendenza li spaventa
di m.c.


ROMA - Chiara Simonelli, sessuologa, cosa pensa della ricerca, trova riscontro nell´esperienza quotidiana?
«Sicuramente ha una sua validità, conferma dei meccanismi che sono alla base dell´attrazione tra uomini e donne, meccanismi che hanno un correlato biologico e una loro contestualizzazione storica. Ci sono voluti milioni di anni per lo sviluppo della corteccia cerebrale e per la costituzione di certe strutture».
Dalla ricerca risulta che gli uomini sono più sensibili ad una donna attraente, tendono a perdere la testa.
«Gli uomini sono sensibili alla fase dell´attrazione primaria, della conquista, è un po´ vero quando si dice che pensano sempre "lì". È anche vero che è una reazione legata alla riproduzione, come è vero che gli uomini sono riluttanti ad innamorarsi, perché "dopo", quando s´instaura il rapporto, scatta il problema della dipendenza, una cosa che li spaventa, subentra il momento di fare coppia che agli uomini non è gradito perché lo vivono come una limitazione».
E per le donne?
«Le donne hanno uno sguardo più globale, meno parziale e s´innamorano anche quando non s´innamorano perché non hanno paura della dipendenza, è costitutiva della costruzione dell´identità femminile così come l´accudimento, mentre per l´uomo l´accudimento vuol dire anche essere espropriato. Se ci pensa il vero eroe è solo, è il conquistatore solitario».
Sembrano vecchi archetipi.
«Eppure sepolti dentro di noi resistono».

Liberazione 6.9.09
Maschio ci nasci o ci diventi?
Ettore Lante intervista Luigi Zoja psicanalista e presidente dell'associazione analisti junghiani


Top secret. L'identità maschile rimane un sancta sanctorum . Un luogo inaccessibile allo sguardo. E' il caro prezzo pagato in cambio dell'abitudine a pensarsi - consapevolmente o meno - il detentore naturale del potere, nella sfera privata della famiglia come in quella pubblica. Ancora oggi si pensa che l'identità maschile sia soltanto una somma di predisposizioni biologiche, di muscoli e corteccia cerebrale. Che, insomma, maschio si nasce e non lo si diventa. E, invece, chissà, si potrebbe scoprire che il maschile è una costruzione storica e magari neppure tanto solida. Anzi. Maschio si diventa, e a prezzo di operazioni culturali sempre precarie, di scelte più o meno sotterranee tra modelli, riferimenti e archetipi che mal s'accordano tra loro. Per esempio, tra i due principi contrapposti di animalità e civiltà. Che il maschio umano diventi un animale capace di socialità solo attraverso un faticoso processo culturale lo sostiene Luigi Zoja, psicanalista e presidente dell'associazione che raggruppa tutti gli analisti junghiani (Iaap), oltre che del Centro italiano di psicologia analitica. La coesistenza tra la polarità animale e la capacità di convivere con gli altri in società è cosa complicata da ottenere. Un tema classico della psicanalisi da Freud in poi. Luigi Zoja se n'è occupato in saggi recenti, Contro Ismene. Considerazioni sulla violenza (Bollati Boringhieri) e La morte del prossimo (Einaudi), ma è soprattutto ne Il gesto di Ettore (uscito sempre per Bollati nel 2000) che ha messo a fuoco l'identità maschile come il terreno di lotta tra principi contrapposti. Lì era appunto la scomparsa del padre, il rifiuto della figura paterna nel suo significato più positivo di educatore alla civiltà, a spiegare il senso di un fallimento epocale, di una regressione del maschio al polo opposto dell'animalità bestiale. Come nella figura mitologica dei Centauri - tema di una relazione che Luigi Zoja ha tenuto venerdì scorso al Festival della mente di Sarzana (fino ad oggi) - riemerge nel maschio contemporaneo il polo rimosso dell'animale fecondatore, incapace di amare e di rapportarsi all'altro e, per ciò stesso, incline alla patologia dello stupro.
Il modello che in questa società riscuote più successo è quello del maschio che compete per conquistare l'oggetto del desiderio prima degli altri rivali. L'esito estremo di questa cultura è lo stupro. Perché è fallito l'altro modello, quello del padre educatore alla convivenza civile?
Questo sarebbe l'altro aspetto di un lavoro sull'identità maschile. A differenza dell'identità femminile in cui la "femmina" e la "madre", le due dimensioni orizzontale e verticale, coesistono da sempre, perché coesistono nella scala evolutiva in tutti gli animali man mano che ci si avvicina agli esseri umani e continuano a coesistere in tutte le civiltà primitive, moderne e postmoderne, quella maschile subisce invece degli sbalzi notevoli. Fondamentalmente la parte paterna comincia con la cultura. Gli animali più vicini a noi non hanno dei veri ruoli paterni, hanno soltanto il maschio che compete per le femmine, si accoppia e non riconosce i propri figli, non se ne occupa. Il padre è un'invenzione culturale. Il patriarcato è fragile, anche dal punto di vista psicologico, proprio perché è una costruzione storica. Nell'identità maschile le due polarità, "maschio competitivo animale" e "padre", non sono ben sintetizzate poiché la figura paterna compare nella scala evolutiva solo in tempi "recenti", nelle ultime centinaia di migliaia di anni. Non è una cosa consolidata da sempre attraverso tutti i passaggi dell'evoluzione come quella femminile. Il padre è un ruolo molto relativo alla cultura. Il patriarcato è stato uno dei punti di forza e, insieme, di debolezza dell'Occidente. Secondo me tutta la questione del patriarcato è una questione di decadenza. Nel Gesto di Ettore criticavo i men studies americani che parlavano tutti della crisi del padre e del patriarcato ma facendola risalire al XX secolo. Io cercavo di notare che già la rivoluzione francese, punto di arrivo dell'Illuminismo, proclama il motto liberté egalité fraternità . Il legame più importante fra gli esseri umani è orizzontale, quello dei fratelli si sostituisce, almeno nelle classi colte, come principio guida a quello del patriarcato. La rivoluzione francese nei fatti comincia a limitare il potere del padre. Fino ad allora la responsabilità dell'educazione ricadeva sotto l'autorità del pater familias . Dalla rivoluzione francese in avanti viene spostata invece sullo Stato.
La crisi del padre ha creato un vuoto nell'identità maschile. Non sarà per questo che l'identità maschile si è sbilanciata verso l'altro modello, verso l'animale competitore?
Nel mio intervento al Festival della mente mi sono soffermato appunto sull'altra polarità maschile, quella animale e selvaggia. Cerco di mettere a fuoco il profilo del maschio aggressivo e violentatore. L'idea mi è venuta osservando al Louvre le figure di Centauri che rapivano le donne. Mi sono incuriosito. La figura mitologica del Centauro non ha compagne, l'unica cosa che fa è rapire le donne. Mi sembrava una metafora mitica di quel che può succedere quando il padre se ne va. Oggi siamo in una situazione del genere. La scomparsa del padre non è avvenuta soltanto al livello delle istituzioni e dello Stato, ma purtroppo anche al livello dell'uomo della strada, delle classi medie e della cultura consumistica. Se dovessimo indagare come è cambiata, ad esempio, la comunicazione dei giovani detenuti nelle carceri, scopriremmo che fino a venticinque anni fa parlavano tutti della ragazza e mostravano sentimenti di nostalgia. Oggi parlano soprattutto della motocicletta e di oggetti. Anche questo è significativo. C'è un atteggiamento di rapina nei rapporti che si lega molto al consumismo ed è antitetico alla responsabilità paterna, alla figura del padre nel senso positivo e costruttivo di "guardiano della civiltà" che in gran parte abbiamo buttato via con tutta l'acqua sporca del patriarcato.
In genere associamo il maschio violentatore al prodotto più tipico del patriarcato, di un ordine simbolico cioè fondato sul dominio maschile. Qui invece c'è un rovesciamento di questa tesi. Scopriamo che il maschio violentatore è il prodotto della crisi del padre. O no?
La componente selvaggia e animalesca del maschile è proprio il non-padre. Il maschio competitivo e rapinatore. Come psicanalista junghiano io parlo di figure mitologiche, non punto l'attenzione sulle persone in carne e ossa. Parlo di archetipi che dominano nella società. Questo maschio competitivo lo vediamo molto attivo nel carattere delle donne in carriera, come si dice oggi.
La televisione che oggi occupa quasi tutto lo spazio pubblico, non è la principale "fabbrica di archetipi" di questo tipo?
Vero. Da un lato, la struttura economica ipercompetitiva della società è un incoraggiamento a sviluppare questa componente aggressiva della propria personalità per avere successo e, da un altro lato, i mass media vendono questo modello come il più adatto in una vita consumistica.
Non per fare del riduzionismo volgare però non crede che i casi di stupri oggi siano figli di questa identità maschile non più capace di fare da padre?
E' molto difficile dire se gli stupri siano aumentati. Le statistiche possono aiutarci solo fino a un certo punto. Tra i risultati negativi dello stupro è proprio di far tacere le persone, di creare un clima di inibizione, trauma e vergogna. Però è importante che se ne parli ed è importante, a mio giudizio, metterlo in relazione con tutto il problema storico dell'identità maschile. Date queste due polarità, il maschio pre-civile e il padre, con lo sprofondare del padre - come nel gioco della bilancia - sale invece l'altro.
Però così sembra che non il patriarcato c'entri qualcosa con lo stupro, quanto invece - e paradossalmente - la sua crisi. Ma così si dimentica che il patriarcato è un rapporto di dominio del maschile sul femminile. O no?
La direi in un altro modo. Il patriarcato è già una struttura sociale o, addirittura, politica. Preferisco parlare di crisi dell'identità paterna. C'è un ritorno a un'identità maschile di tipo pre-paterno. La scomparsa del padre fa parte di una lenta decadenza. Il punto più alto è stato toccato in Grecia e nell'antica Roma. Dopo di allora il patriarcato è vissuto sulle glorie passate ma in realtà ha imboccato la strada di una lenta crisi. L'Illuminismo - come dicevo prima - critica il patriarcato. E il primo a scrivere del mito dell'Edipo non è Freud, ma Voltaire. Il padre va in lenta decadenza. Ultimamente anche la struttura economica della società tende a far emergere l'altra polarità maschile, cioè il maschio competitivo. Anche questo è un altro aspetto della scomparsa della padre.
C'è da dire però che la scomparsa del padre non ha prodotto una grande riflessione. A differenza di quanto è avvenuto con il femminismo non c'è stato un approfondimento sull'identità maschile e i suoi cambiamenti. O no?
Non c'è stata una grande riflessione. Infatti mi stupisce il relativo successo del mio libro, Il gesto di Ettore che continua a essere venduto nonostante sia pubblicato da una casa editrice abbastanza specialistica, Bollati Boringhieri. Conosco gruppi di uomini ma fanno abbastanza poco. In America, invece, di riflessioni ce ne sono anche troppe, secondo me scivolano sul sentimentale. In Europa ci lavorano sopra gruppi un po' più colti ma rimangono comunque nelle nicchie della società. Più in là queste riflessioni non vanno.
Insomma questa società ha la sua base ideologica e materiale nell'archetipo del maschio fecondatore, animale e competitore. Vero?
Per questo la metafora del Centauro corrisponde al nostro tempo. E' completamente incapace di amore, sa solo rapire. Il ratto significa sia rapimento che stupro. Il Centauro conosce solo questa modalità di rapporto col femminile. Secondo me è una delle conseguenze del consumismo e dei mass media. Anche se poi ci raccontano che i mass media narrano storie hollywoodiane in cui vincono sempre i buoni. Non è vero per niente. Nel messaggio hollywoodiano vince l'impazienza. Non la capacità educativa, non la pazienza pedagogica, bensì la figura del maschio che va subito allo scopo. Simbolicamente il maschio che rapisce la femmina e non si impegna in un rapporto.

il Messaggero 3.9.09
Bellocchio: «Perché non ho mai girato uno spot in vita mia? Lasciamo stare...».
di Salvatore Taverna


«Perché non ho mai girato uno spot in vita mia? Lasciamo stare...». Marco Bellocchio autore di grandi film come Nel nome del padre, Sbatti il mostro in prima pagina, Il diavolo in corpo, l’Ora di religione, Buongiorno notte e Vincere, si asciuga il sudore della fronte con un fazzoletto a quadretti. In un autolavaggio sulla Laurentina guida attori e comparse per un maxi-super-spot, Una storia italiana. «Papà ha sempre rifiutato tutte le pubblicità possibili. Ve lo immaginate alle prese con i pannolini o con i detersivi? Ma alla banca Monte dei Paschi di Siena e a questo progetto non ha saputo dire di no. E sta lavorando con tutta l’energia come se girasse un suo film», dice il figlio Pier Giorgio Bellocchio, che segue il genitore alla macchina da presa. Qui, niente digitale, solo pellicola.
Il sole picchia duro: mezzogiorno. Ma il maestro ripete la scena della Cinquecento nera: viene lavata mentre, casualmente, i tifosi della nazionale transitano con le bandiere per andare allo stadio, giocano gli azzurri. Curiosità. I primi spot di questa storia italiana li realizzò Giuseppe Tornatore. E ora un altro grande autore, Bellocchio, che partì con I pugni in tasca, si è tuffato in questo affresco italiano (spot da 15 e 30 secondi) che inizia con l’arrivo del camion dei giornali e l’apertura di un’edicola. Nel pomeriggio il set, sempre seguito dal camper supertecnologico della banca che informa, attimo per attimo, tutto quello che succede sul set con immagini e filmati, si sposta nella scuola elementare Franchetti in piazza Bernini, dove una splendida maestra l’attrice Aglaia Mora, insegna con passione a quindici bambini...
La strategia creativa ruota intorno al fascino della Banca Monte dei Paschi di Siena, un grande marchio italiano con la sua tradizione, la sua storia (dal 1472), il suo patrimonio, i suoi valori. Una presenza sul mercato di oltre cinque secoli da raccontare attraverso la vita di una giornata italiana. Attenzione: la piattaforma web www.unastoriaitaliana.it è stata vista da 120.000 utenti unici provenienti da 110 paesi del mondo.
Tra la regia, la direzione creativa di Catoni & Leonini, gli addetti alla produzione Flying film, gli art director Michelini & Vigni, si muove con il suo stile poetico Daniele Ciprì, qui direttore della fotografia, ma famoso regista trasgressivo in coppia con Franco Maresco. Insieme hanno smosso il mondo del cinema tradizionale con pellicole come Totò che visse due volte e Il ritorno di Cagliostro. In questo spot Ciprì, esposimetro alla mano, crea la luce. E Bellocchio lo consulta spesso per raggiungere la perfezione artistica. Così per 10 giorni di riprese in tutta Italia con 250 comparse, 35 attori e tanta creatività... che andrà in onda da novembre sulle tv.