mercoledì 9 settembre 2009

l’Unità 9.9.09
Stampa e libertà
Censura. Il sistema Italia
di Silvia Ballestra


Sarà il bisogno di adulazione che aguzza l’ingegno. Sarà che qui siamo in mezzo all’Europa e certe cose non si possono fare: la libertà di stampa alla Putin, la libertà di stampa alla Gheddafi, non sono praticabili. Qui servono astuzia e misura: il rozzo fascismo che usava decreti di censura e sequestri, non è praticabile. Urge una traduzione, un adattamento ai tempi. Non serve la censura: basta un buon sistema di richieste milionarie, intimidazioni di carta moneta per tacitare i più indipendenti, o poveri o liberi tra i media (è successo all’Unità e a Repubblica). Al posto del decreto di censura c’è la lentezza burocratica: il contratto non arriva e la trasmissione ritarda (sta accadendo ad Annozero). Oppure il programma d’inchiesta perde l’assistenza legale e dunque rischia (sta accadendo a Report). Basterà al capo del governo dire: «Quel direttore deve cambiare mestiere» e oplà, quel quotidiano cambierà direttore (è accaduto al Corriere, e alla Stampa, fatti recenti). Oppure basterà nominare i direttori delle reti concorrenti (è successo al Tg1 e al Tg2). E poi basterà attaccare – con stupefacenti complicità a sinistra – l’unica rete libera rimasta (sta succedendo a Paolo Ruffini). E poi basterà spaventarsi un pochino per l’informazione che viene dal basso, e allora si minaccerà costantemente di penalizzare Internet (sta succedendo con la legge che imbavaglia i blog). Senza manganellate, senza sequestri, senza violenza, fare la violenza peggiore di tutte: occupare tutti gli spazi disponibili. Alla fine, come beffa finale, chiamare questo consenso obbligatorio “libertà” e fingere stupore: poco liberi? Qui? Mavalà!

Repubblica 9.9.09
Gli ordini di guerra
di Massimo Giannini


Non è una novità. Silvio Berlusconi ha una visione imperiale della leadership, e una gestione militare del Partito delle Libertà. Ma quella a cui stiamo assistendo è un´ulteriore, drammatica evoluzione-involuzione del suo sistema di potere. Stiamo rapidamente passando dal classico «berlusconismo di lotta e di governo» a un vero e proprio «berlusconismo di guerra».
Il caso di Gianfranco Fini è l´ultimo paradigma di questa trasformazione. Prima lo fa impiombare dai suoi sicari, attraverso il giornale di famiglia. Poi, molte ore dopo il delitto, finge di prendere le distanze e chiede alla vittima di «fare squadra». Pensa così di convincere a «rientrare nei ranghi» (come da «consiglio non richiesto» di Vittorio Feltri) tutti quelli che non ci stanno. E di chiudere quella che Alessandro Campi definisce «la fase due del grande gioco al massacro» che si è aperta con i cattolici diffidenti, con la stampa dissidente e ora con l´alleato recalcitrante. Ma Fini resiste, almeno per ora. E rende visibile quello che il Cavaliere vuole occultare: i problemi politici esistono, ed è paradossale che il premier cerchi di negarli.
Cosa nasconde, lo scontro tra Berlusconi e Fini? In prospettiva c´è la partita sulla successione ereditaria del Pdl: il presidente della Camera ha qualche chance di vincerla. Ma qui ed ora c´è la battaglia sul profilo identitario della destra: e questa, con tutta evidenza, il presidente della Camera l´ha già persa. Non lo testimoniano solo l´assordante silenzio di molti esponenti della maggioranza o l´imbarazzante difesa d´ufficio di pochi luogotenenti dell´ex An, di fronte al killeraggio compiuto dal «Giornale». Prima ancora di questo, che pure conta, lo dice l´atto di nascita del nuovo centrodestra, che germoglia da quella «rivoluzione del predellino» che un Berlusconi esaltato ha imposto plebiscitariamente e che un Fini disperato ha subito passivamente. Lo urla il congresso fondativo del «partito unico», che vede un Berlusconi nei panni del federatore assoluto e un Fini nel ruolo del moderatore riluttante.
È lì che il presidente della Camera, nel definire «compiuta» la missione della costituzionalizzazione della destra ex-fascista finiana, ne traccia un profilo moderno e post-ideologico, già allora inconciliabile e antitetico con quello della destra populista berlusconiana. Una destra delle idee, che ruota intorno a tre perni valoriali: dignità della persona (e quindi tutela dei diritti, a prescindere dal colore della pelle), difesa delle istituzioni (quindi rispetto e bilanciamento dei poteri), laicità dello Stato (quindi libertà religiosa ma primato delle leggi). In questa piattaforma programmatica, a volerla vedere, c´era già la negazione del berlusconismo. E c´era già tutto ciò che l´impasto politico-culturale del forzaleghismo dominante non sarà e non potrà mai essere. Aveva un bel dire, allora, il presidente della Camera, che si entrava nel Pdl «con la schiena dritta». Come poteva, la sua idea di destra laica, istituzionale e repubblicana, convivere con la destra atea-devota, para-rivoluzionaria e a-repubblicana incarnata da Berlusconi e Bossi?
Infatti non può. Salvo cessare di esistere, prima ancora di aver messo radici in un gruppo dirigente, e forse anche in un corpo elettorale, che sembrano rifiutarla a priori, presi come sono nell´ossequiosa contemplazione delle virtù taumaturgiche del solito uomo solo al comando. E così, oggi, i pochi custodi del pensiero finiano, rimasti soli nella trincea del «Secolo» e di «Farefuturo», hanno un bel recriminare, contro «un partito becero, nevrastenico e con la bava alla bocca, che abbia contro gli avversari e adesso anche contro gli alleati, con un furore non giustificato dai fatti», o contro il disegno «di soffocare o delegittimare ogni pensiero critico nei confronti del Cavaliere, di costruirgli intorno una cintura di sicurezza, di creare un nuovo ordine a partire dal caos generalizzato». Ed hanno un bel rimpiangere, le Flavia Perina e i Luciano Lanna, «una destra non ideologica, sobria e meritocratica, colta e risorgimentale, elegante e rigorosa, laica e non bacchettona, libertaria e attenta ai diritti, diffidente della società di massa e dell´antipolitica», o una grande forza plurale «che parli la lingua di Cameron e Sarkozy», «un grande partito dei moderati» ispirato ai «grandi numi tutelari della destra italiana nelle sue molte anime - da Gentile a Evola, da Prezzolini a Spirito, da Volpe a Martinelli - che sia lo sviluppo coerente ma non meccanico di questi ultimi quindici anni di storia».
Questa battaglia delle idee, Fini e lo sparuto drappello dei suoi intellettuali d´area, purtroppo l´hanno già perduta. Le appassionate prolusioni sul ruolo del Parlamento e sull´unità nazionale, le ottime intenzioni sulla civiltà dell´accoglienza per gli immigrati e sul testamento biologico, purtroppo non cambiano l´agenda del governo, non ne attenuano i furori ideologici, non ne minacciano la tenuta politica. Un´«altra destra» era possibile. Forse lo sarà, domani. Ma di sicuro non lo è oggi, nella fase cruciale del «berlusconismo da combattimento». Oggi il Pdl è proprio quella «casermetta in cui qualcuno comanda» e di cui lo stesso presidente della Camera si è lamentato una settimana fa a Mirabello, quando ha riaperto le ostilità con il Cavaliere e ha quasi anticipato ciò che gli sarebbe accaduto solo poche ore più tardi: «In Italia ormai non si tenta di demolire un´idea, ma colui che di quell´idea è portatore. Si va dritti al killeraggio delle persone...». Dopo Boffo, è toccato a lui. E, per usare la formula di Stalin con i papi, quante «divisioni» ha Fini, per arginare questa deriva tecnicamente totalitaria e far vivere la sua idea di un´«altra destra» possibile in questa Italia berlusconizzata? Poche, a giudicare da ciò che si vede nel Palazzo e si sente al di fuori. Così, l´ex leader di An deve accontentarsi, ma anche preoccuparsi, del suo paradosso: essere apprezzato, e anche applaudito, solo dal centrosinistra. E per di più, proprio per questo, essere accusato dal suo centrodestra di essere un cinico opportunista, che si ingrazia i favori del nemico solo per puntare dritto al Quirinale.
La politica è una sapiente miscela di convinzione e di convenienza, gli ha ricordato qualche mese fa Angelo Panebianco. Se hai solo convenienze, sei un trasformista di professione. Se hai solo convinzioni, sei condannato alle prediche inutili. Il «buon politico» deve avere convinzioni precise, ma anche strategie che gli consentano di acquisire consensi, appoggi, voti. Nel caso di Fini, secondo Panebianco, si individua la convinzione ma non si capisce quale sia la convenienza. Come dire: Fini predica bene, ma a quale parte del Paese intende parlare? Quella domanda, finora, non ha ancora una risposta chiara. E questo, per il presidente della Camera e per il suo ruolo all´interno della maggioranza, è effettivamente un problema. Panebianco concludeva con una previsione fallimentare, intorno al progetto finiano, secondo un assunto non meno cinico del cinismo che in molti rimproverano alla terza carica dello Stato: «politica e testimonianza morale sono incompatibili».
L´unica speranza è che, non adesso ma in un qualche futuro post-berlusconiano che prima o poi dovrà pur esserci, la «testimonianza morale» dell´ex capo di An, oggi palesemente minoritaria, possa tornare utile a far nascere una destra italiana finalmente compiuta, moderata ma moderna, conservatrice ma riformista. In una parola: una destra europea, che Berlusconi non rappresenta e non potrà mai rappresentare.
m. gianninirepubblica. it

Repubblica 9.9.09
Allarme rosso del Cavaliere sul Lodo Alfano
"E Gianfranco invece di aiutarmi mi attacca"
di Francesco Bei


Il premier teme che la Consulta possa bocciare a ottobre lo scudo che lo protegge dai pm
Il presidente della Camera avverte: «Non mi faccio prendere in giro. A Gubbio parlerò io»

ROMA - A palazzo Chigi è allarme rosso per la possibile bocciatura del lodo Alfano e la falla che si è aperta sotto la linea di galleggiamento, provocata dallo scontro con Fini, va richiusa al più presto. I pompieri di Forza Italia sono già in azione. Fabrizio Cicchitto e Gaetano Quagliariello, tra tutti, sono quelli che si stanno spendendo di più per trovare almeno una ricomposizione politica fra Berlusconi e Fini, giacché quella umana appare ormai impossibile. Anche se, al momento, il Cavaliere non sembra particolarmente ansioso di ricucire, visto che si sente persino «offeso» per la mancanza di riguardo che gli avrebbe usato ieri l´avversario.
La rabbia contro Fini è quindi montata. Anche perché Berlusconi, visto il temporale che s´annuncia all´orizzonte, sta contando in questi giorni amici e nemici e l´ex leader di An, insieme con Casini, è finito nella lista dei secondi. Intorno al Cavaliere si riaffacciano prepotentemente i timori di una bocciatura totale o parziale di quel lodo Alfano che gli sta facendo scudo da vecchi processi (come quello sul caso Mills, già arrivato a un passo dalla sentenza) e nuove inchieste. La Consulta, dal 6 ottobre, inizierà ad esaminare la legge che garantisce l´immunità al premier e il dispositivo dovrebbe essere reso noto a fine mese. Da qui i sospetti di una manovra concentrica, di una «cospirazione» ai suoi danni che punterebbe a travolgerlo con l´accusa di mafiosità per le stragi dei primi anni Novanta.
E in questa situazione Fini cosa fa? Visto da palazzo Grazioli, invece di difendere il fortino apre la porta agli assedianti. «Già, Fini secondo voi cosa ha per la testa?», ha chiesto il Cavaliere l´altra notte ai suoi ospiti ad Arcore. «Ormai nemmeno i suoi gli vanno più dietro - ha proseguito - se dovessi rifare le quote del Pdl, altro che 30%». Poi, dopo una maratona di barzellette - una trentina, alcune raccontate anche da Giulio Tremonti - e una gara canora, Berlusconi è tornato a ragionare su Fini: «A differenza di Casini, che può allearsi con la sinistra, Fini dove va? Certo, con quelle sue prese di posizione ci fa perdere voti e li regala a voi della Lega». Insomma, più un fastidio che un reale problema. Tanto che oggi, quando Berlusconi sarà alla festa dei giovani ex An, ospite di Giorgia Meloni, dovrebbe evitare ritorsioni pesanti sul presidente della Camera. Durante la cena di Arcore, nonostante le barzellette, il premier ha anche mostrato uno certo "spleen", raccontando la sua noiosa estate 2009: «Sono rimasto chiuso ad Arcore tutto il tempo, in Sardegna non posso più andare. Ormai, appena scendo dall´aereo, ci sono fotografi ad aspettarmi e si appostano in alcune piazzole intorno a casa mia per spiarmi. Non posso uscire in costume da bagno o grattarmi che mi beccano».
E dunque l´ordine impartito dal Cavaliere per sterilizzare il caso Fini è quello di non alimentare polemiche interne in un momento di assedio. Con Fini una quadratura si troverà. «Il problema - ragiona un alto esponente del Pdl - è che nel partito manca un luogo di confronto dove Fini possa esprimere liberamente la sua opinione. E magari finire in minoranza. E poi occorre ripristinare al più presto una consultazione al vertice tra i due». Questa è l´opinione dei pompieri, convinti che basti aggiungere alla cena del lunedì con Bossi il pranzo del martedì con Fini. Ma sembra difficile che il presidente della Camera possa accontentarsi di un ossequio formale. Raccontano che ieri sia andato in bestia quando gli sono state riferite al telefono le parole di Berlusconi («con Fini nessun problema») e sia immediatamente scattato dettando la replica. Per togliersi i sassolini dalle scarpe Fini aspetterà invece domani, quando interverrà alla scuola del Pdl a Gubbio per ribadire punto per punto le sue ragioni e la visione di un centrodestra diverso da quello berlusconiano.

Repubblica 9.9.09
Se l’Illuminismo diventa “bieco”
di Stefano Rodotà


Stiamo affrontando un tempo difficile in piena regressione culturale, radice e fondamento d´ogni cattiva politica. Pur sapendo quanto lunga sia la schiera dei detrattori dell´Illuminismo, ad esempio, mai mi sarei aspettato che, nel 2009, fosse definito "bieco", con un ritorno nello spirito e nel linguaggio all´invettiva contro Pio IX che Giuseppe Gioachino Belli mette in bocca al suo popolano romano, nostalgico del "papa morto", Gregorio XVI, "nun fuss´antro pe avé mess´in castello,/Senza pietà, cquela gginia futtuta", per aver imprigionato i biechi "giacubbini". Di quella ingombrante eredità – che continua a parlarci di libertà, eguaglianza e fraternità - bisogna liberarsi nel momento in cui i diritti fondamentali delle persone diventano l´offerta sacrificale per riguadagnare il favore della Chiesa, la libertà d´opinione appare intollerabile e, soprattutto, si insiste sull´investitura elettorale e sul favore dei sondaggi per riproporre un uso del potere della maggioranza che non tollera né limiti, né pudore.
In agosto, il Presidente della Cei aveva messo in evidenza i limiti del principio di maggioranza, al quale non dovrebbero essere sottomessi i valori. L´annuncio di questi giorni del presidente del Consiglio e dei suoi, invece, va nella direzione opposta, per il modo in cui si torna a parlare di testamento biologico, pillola Ru 486, insegnamento della religione, procreazione assistita, unioni di fatto. Sono questi i temi che la maggioranza annuncia di voler sottomettere a quella forza dei "numeri" dalla quale il cardinal Bagnasco, per un momento, sembrava aver allontanato la discussione sui valori. Una maggioranza prepotente proprio sui valori vuole di dire l´ultima parola, dando concretezza alla pretesa di trasformare le istituzioni nel veicolo di un´etica di Stato, nel braccio secolare di convinzioni religiose. Al presidente del Consiglio vale la pena di ricordare un brano del discorso pronunciato da Aldo Moro nel 1974, all´indomani della sconfitta della Democrazia cristiana nel referendum sul divorzio, mettendo in guardia contro le forzature «con lo strumento della legge, con l´autorità del potere, al modo comune di intendere e disciplinare, in alcuni punti sensibili, i rapporti umani»; e si consigliava «di realizzare la difesa di principi e valori cristiani al di fuori delle istituzioni e delle leggi, e cioè nel vivo, aperto e disponibile tessuto della nostra vita sociale». Una posizione, questa, nella quale si rifletteva anche la consapevolezza dei limiti costituzionali all´ingerenza del legislatore nella vita delle persone.
Ma la questione della maggioranza e dei suoi poteri si pone anche in campi diversi, in primo luogo per la riforma dei regolamenti parlamentari che si annuncia come uno dei temi centrali della prossima stagione politica. Il Governo, fin dal primo giorno di questa legislatura, ha sistematicamente mortificato il Parlamento, usando la propria maggioranza per forzature continue, abusando del voto di fiducia, del decreto legge, dei maxiemendamenti. Ora si avanzano proposte di riforme regolamentari che dovrebbero almeno limitare questi abusi. Ma, considerandone i contenuti, si ha la sgradevole sensazione che, nella gran parte dei casi, si trasformino in procedure formali quelle che oggi sono forzature, spianando la strada al Governo anche con strumenti attinti alla parte più autoritaria (e oggi contestata) della costituzione gollista, come il voto "bloccato" che cancella gli emendamenti agli articoli delle leggi in discussione. In cambio, all´opposizione verrebbe concesso un ingannevole "statuto", che dovrebbe rafforzarne il ruolo. Ma si tratta di concessioni che la maggioranza può sempre vanificare appunto con la forza dei numeri. Ricordo, come ammonimento, quel che accadde diversi anni fa, quando una riduzione dei poteri dell´opposizione venne "compensata" con la concessione del parere di costituzionalità in sede di commissione parlamentare. Bene, maggioranze più o meno blindate hanno sempre dato via libera, a occhi chiusi, anche a provvedimenti di cui la incostituzionalità era evidente, e sarebbe stata poi dichiarata dalla Corte.
Mi auguro che l´opposizione se ne renda conto, e non si lasci intrappolare da questo diversivo, che avrebbe come unico effetto quello di rendere rispettabile ciò che oggi ha il carattere di una forzatura. Un diversivo doppiamente pericoloso, perché distoglie l´attenzione da quelli che oggi sono i veri punti critici di una riforma del Parlamento, non riducibile al solo superamento dell´attuale bicameralismo (che tuttavia, in tempi di prepotenze e di ignoranze, ha almeno reso più difficile qualche forzatura, come sta accadendo ad esempio per la legge sulle intercettazioni telefoniche). Da tempo scrivo che, con l´avvento della democrazia "continua", segnata da una presenza sempre più variegata e costante dei cittadini, dev´essere ripensato il rapporto tra il Parlamento e la società, dando così nuovi fondamenti sia al principio maggioritario che al rapporto tra maggioranza e opposizione. Molte sono le vie percorribili. Rivitalizzare l´iniziativa legislativa popolare, prevedendo presenze dei promotori nell´esame parlamentare in commissioni e vincoli temporali per la discussione delle proposte. Cogliere l´indicazione del Trattato di Lisbona, che accompagna la democrazia rappresentativa appunto con il diritto di proposta da parte di un milione di cittadini europei. Sviluppare questa indicazione nel senso reso visibile dalla strategia di Barack Obama, che non ha ridotto il ricorso alle tecnologie della comunicazione alla logica del marketing politico, ma sta integrando la sfera della democrazia rappresentativa con quella delle reti sociali. Solo così è possibile una riforma che non sia un gioco sterile all´interno delle attuali istituzioni parlamentari.
Ma, per imboccare questa strada, è indispensabile uscire da una forma di schizofrenia che percorre la discussione politica. La forza delle cose ci mette di fronte alla concentrazione personale del potere, all´affossamento della separazione dei poteri, alla distruzione dei controlli, all´infeudamento del sistema della comunicazione, alla disunione del paese, in sintesi a quello che è stato chiamato lo sfascio dell´Italia. E, tuttavia, mai ci si pone una domanda, che pure dovrebbe essere ineludibile: come è potuto accadere, quali sono state le condizioni istituzionali che hanno contribuito a rendere possibile tutto questo? La domanda viene elusa perché esigerebbe una riflessione sul modo in cui è stato realizzato il passaggio dal sistema proporzionale a quello maggioritario. Una politica debole, incapace di immaginare il proprio futuro, si è consegnata ad una modellistica costituzionale che, a destra come a sinistra, esaltava il solo momento della decisione e per ciò scioglieva la maggioranza da ogni vincolo che non fosse il giudizio pronunciato dagli elettori alla fine della legislatura, aprendo la strada alla democrazia d´investitura e al potere personale. Senza ammortizzatori costituzionali e senza le forme di mediazione fino a quel momento assicurate dai partiti di massa, la politica è fatalmente degenerata in conflitto personale, in scontri oligarchici, in una ricerca del consenso senza esclusione di colpi .
Non per nostalgie del passato, ma per fronteggiare il presente e costruire il futuro, abbiamo bisogno di questa consapevolezza. È venuto il momento di abbandonare l´ingegneria costituzionale e di tornare ad una politica costituzionale capace di riportare la maggioranza alla sua giusta funzione, in un quadro di principi che essa stessa non può violare.

Repubblica 9.9.09
L´unità nazionale in pericolo
di Giorgio Ruffolo


Altri grandi paesi europei non celebrano la loro unità. Per alcuni è troppo remota per avere un significato attuale. Altri come la Francia preferiscono celebrare il loro più grande conflitto storico: la rivoluzione. Tutti considerano l´unità come un fatto acquisito che non ha bisogno di essere celebrato. Per noi non è così. Perciò finiremo per celebrarla controvoglia.
Il fatto è che l´unità italiana è scarsamente sentita dagli italiani. Lo testimonia la svogliatezza con la quale l´attuale governo, pur pressato dal Presidente della Repubblica, ha abbandonato le celebrazioni ormai prossime del centocinquantesimo anniversario alla fantasia burocratica e dissipatrice di Regioni e Comuni. Né maggiore interesse è dimostrato dall´opposizione.
Solo una minoranza politica, diciamo la verità, coltiva il mito del Risorgimento. Per la maggioranza Mazzini e Garibaldi fanno parte del folklore domestico, non certo di una salda coscienza patriottica. C´è anche chi, come un giovane e intelligente studente, addirittura se ne vergogna pubblicamente. E in effetti ragioni, se non di vergogna, di grande perplessità non mancano sul modo in cui quell´unità fu raggiunta: tra l´altro, in forme impreviste e persino indesiderate dai suoi protagonisti.
Tra questi il suo massimo artefice, Cavour, l´aveva fin quasi al suo compimento definita una "sciocchezza" restando all´ipotesi del "Belgio grasso" al Nord e di un Regno del Mezzogiorno al Sud, con una mediazione pontificia al centro: il tutto nell´ambito, al massimo, di una lasca confederazione.
È vero dunque che l´unificazione politica del Paese fu il risultato di una conquista sabauda, non di una patriottica intesa. Se poi si vuole infierire, fu anche il risultato di umilianti sconfitte militari. Ma due cose non sono vere.
La prima è che manchi all´unità del Paese la sua base storica. L´Italia si riconosce non solo nella pizza, nel gioco del pallone e nell´autocompiacenza amatoria, ma in una grande lingua e in una grandissima civiltà. La seconda è che il Risorgimento non fu soltanto conquista effimera e frutto di fortunose sconfitte. Fu anche movimento di popolo. Ci fu certamente il Risorgimento freddo, ma ci fu anche un Risorgimento caldo, fiammeggiante nelle giornate di Milano e di Brescia, nella repubblica romana, nella resistenza di Venezia, nell´avventura garibaldina.
Non soltanto. Contrapposto alla storia che inopinatamente si realizzò, il Risorgimento fu anche un grande disegno alternativo fallito ma ancora oggi carico di significato. Fu il progetto di una Federazione nella quale le realtà storiche del Paese, così ricche di irriducibile "personalità", costruissero, sulla base di una loro gelosa autonomia, una cangiante e meravigliosa unità.
Questo era il grande disegno di Cattaneo, di Salvemini, di Dorso. Un federalismo unitario, come tutti gli autentici federalismi vittoriosi, da quello americano a quello svizzero a quello tedesco. Unitario e patriottico. Niente da spartire con un leghismo protezionistico, tendenzialmente separatista e desolantemente, caro ragazzo, bigotto.
Questo grande disegno alternativo risultò sconfitto con grave danno dell´intero Paese al quale veniva a mancare la dorsale di sostegno: l´integrazione tra il Nord e il Sud d´Italia.
Ciò che ancora i "belgi" del Nord non hanno capito è la diversità sostanziale tra la questione meridionale e quella settentrionale. Quest´ultima è la sacrosanta espressione di interessi locali e di culture specifiche da tutelare. La prima invece è la colonna vertebrale dell´intero Paese.
Ecco perché i grandi meridionalisti hanno sempre mantenuto le distanze da un sudismo becero: hanno parlato non a nome di Palermo e di Napoli, ma dell´Italia e dell´Europa.
La prima vittima della soluzione unitaria-autoritaria è stato proprio il meridionalismo. All´ombra di quella la questione meridionale si è sbriciolata in una poltiglia di pretese locali; la classe politica si è decomposta in una serie di consorterie clientelari; il disegno dell´intervento straordinario, concepito inizialmente come grande progetto unitario di scala nazionale si è sminuzzato in una serie di interventi particolari esposti alle sollecitazioni e pressioni "private".
La tremenda minaccia che si addensa oggi sul Mezzogiorno non è più, come Gramsci denunciava, l´asservimento del Sud agli interessi dominanti del Nord. La depressione politica del Mezzogiorno non si identifica più nel potere della classe agraria e nella sua alleanza subalterna con la borghesia industriale del Nord, ma nel potere di una borghesia mafiosa e nello scambio elettorale tra la garanzia politica che essa assicura al governo centrale e le risorse finanziarie che ne riceve e che gestisce come un gigantesco "pizzo" attraverso i governi locali.
La "tremenda minaccia" è che il governo di quelle risorse sfugga anche a quella intermediazione e cada direttamente nelle mani delle grandi reti della criminalità internazionale.
Non accade già in certe regioni del Sud?
Queste domande ripropongono a centocinquant´anni di distanza il problema dell´unità d´Italia. Non è mai troppo tardi.

Corriere della Sera 9.9.09
Un braccio di ferro che ufficializza una rottura annunciata
Un Fini sempre più ai margini del Pdl innervosisce ma rafforza il premier
di Massimo Franco


Il braccio di ferro in atto fra Silvio Berlusconi e Gian­franco Fini adesso è ufficiale, ma non sorprendente. E per il modo in cui si sta sviluppando, appare squili­brato: nel senso che i rapporti di forza nel centrodestra non prefigurano una lotta dura fra il premier ed il presidente del­la Camera. Piuttosto, promettono di accentuare l’immagine di isolamento di Fini nella «sua» maggioranza; e di rendere politicamente imbarazzante la solidarietà ostentata che gli ar­riva dall’opposizione. Che la terza carica dello Stato fosse in rotta con palazzo Chigi e la politica del Pdl e della Lega era noto. Nuova, però, è la reazione infastidita che la coalizione mostra nei suoi confronti. L’idea finiana di «un altro centro­destra » sta diventando una tesi quasi provocatoria, con le re­gionali a primavera.
Viene avvertita come un distinguo, di più, uno smarcamen­to da Berlusconi e da Umberto Bossi, ritenuto inaccettabile. Nel governo i più benevoli sostengono che l’«indisciplina» del presidente della Camera nasce dall’assenza di un’opposi­zione; e dunque dalla tentazione dei vari esponenti del centro­destra di coprire l’intero spettro delle posizioni politiche. La versione malevola iscrive invece Fini d’ufficio al «partito del dopo-Berlusconi». Addita le sue ambizioni per il Quirinale ed il sostegno degli avversari, che sfruttano lo scontro per mette­re in dubbio l’esistenza della maggioranza. Per di più, il «tut­to a posto» detto ieri da Berlusconi alla Fiera tessile di Milano per archiviare gli attacchi della stampa del centrodestra al presidente della Camera non è stato raccolto da Fini.
E così, invece di sigillare una possibile tregua, ha vidimato ed ufficializzato un conflitto fra i capi di due partiti che si sono appena unificati: uno scon­tro che l’Idv di Antonio Di Pie­tro ritiene istituzionale; e che fa presagire al Pd una frattura du­ratura e grave nella coalizione governativa. «I problemi politi­ci rimangono», ha replicato in­fatti Fini al premier. «Ed è para­dossale che lui li neghi». Non so­lo. Si è premurato di annunciare che spiegherà di nuovo la sua idea del Pdl in un convegno in programma nelle prossime ore a Gubbio. Ma è difficile pensare che un’altra uscita di contestazione del Cavaliere e del suo modo di esercitare la leadership possa restituirgli peso fra gli alleati. Anzi, l’ipotesi più probabile è che sospinga ulterior­mente il presidente della Camera verso un limbo politico insi­dioso; e rafforzi quanti, come alcuni leghisti, lo provocano chiedendogli le dimissioni dal vertice dell’assemblea di Mon­tecitorio.
Qualche esponente del Pdl proveniente da An invita le avanguardie berlusconiane alla prudenza; a scongiurare una collisione che sarebbe comunque lacerante. Eppure, il sospet­to è che nel governo e a palazzo Chigi la lacerazione sia stata già data per avvenuta; e che il presidente del Consiglio riten­ga di non avere nulla da temere da una resa dei conti con Fini: non, almeno, sulle posizioni politiche che Fini ha assun­to negli ultimi mesi sulle questioni etiche ed i rapporti col Vaticano; e su un Pdl bollato come «una caserma dove coman­da uno solo», fra le lodi e la solidarietà degli avversari del governo. È soprattutto quest’ultimo aspetto, forse non valuta­to appieno, a mettere l’ex leader di An in una posizione delica­ta; e ad esporlo ad attacchi ancora più brutali.
«Non è un problema mio» ha replicato Berlusconi ai leghi­sti Bossi e Calderoli che l’altra sera hanno cenato con lui e col ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Il premier non sem­bra preoccupato neppure dalla prospettiva di qualche imbo­scata parlamentare: anche perché in quel caso non ci sarebbe un secondo governo Berlusconi. I fedelissimi del premier sus­surrano che si andrebbe diritti ad elezioni anticipate; e con un Cavaliere pronto a rilanciare, approfittando anche del gua­do in cui si trova l’opposizione. Naturalmente, si tratta di sce­nari estremi. Ma il solo fatto che affiorino mostra la tensione nella maggioranza; e la determinazione berlusconiana a con­solidare l’asse con la Lega per smaltire le ultime sacche di dissenso. C’è la campagna elettorale e Fini, pare di capire, de­ve adeguarsi. Il problema è che accadrà se non si arriverà ad un compromesso con lui.

il Riformista 9.9.09
L'arma finale di Berlusconi. Elezioni anticipate a marzo
Retroscena. Altri dossier in rampa di lancio, lo scontro con Fini, lo spettro della bocciatura del lodo Alfano: a Palazzo Grazioli si ragiona di un accorpamento con le regionali come rimedio estremo al precipitare degli eventi. Nuovo attacco alle Procure e al Pd, ma c'è chi auspica una tregua "giudiziaria" col Pd di Bersani.
di Alessandro De Angelis



Ai suoi, da giorni, lo ripete in continuazione: «Saranno mesi difficili, vedrete, arriveranno altri attacchi». Silvio Berlusconi si prepara al peggio. Sa che nelle redazioni ci sono arsenali pronti ad esplodere. Li ha Repubblica. Li sta preparando Feltri. Per non parlare dello scontro con Fini. L'accusa è esplicita: è uno che fa la fronda, che vuole andare al Colle con i voti della sinistra. I rapporti tra i due co-fondatori del Pdl sono logori. Come testimonia il botta a risposta a distanza di ieri: «Con Fini nessun problema». Risposta rispedita al mittente dal presidente della Camera: «Non si può far finta di nulla». Quando poi è trapelata l'indiscrezione che a Gubbio domani l'ex capo di An terrà un discorso duro, ai fedelissimi sono saltati i nervi: «Ormai è chiaro che lavora per fondare un altro partito». Palazzo Chigi pare un fortino assediato. E la paura sull'esito del lodo Alfano non aiuta certo a rasserenare il clima. Nella cerchia ristretta del premier nessuno è più disposto a scommettere, come qualche mese fa, sulla non bocciatura del lodo: «Siamo 50 a 50».
 Quindi Berlusconi si prepara al peggio. Ed è sulla base delle più fosche previsioni che ha utilizzato la sua prima uscita dopo la pausa estiva - ieri ha inaugurato a Milano la fiera del tessile - per mandare un messaggio (a tutti, fuori e dentro la maggioranza) che suona così: o abbassate i toni o tiro dritto. Ai giornali: «Ci attaccano come tori inferociti, ma qui c'è un torero che non ha paura di nessuno». A chi parla di regime: «In questi giorni si è dimostrato che in Italia c'è la libertà di mistificare, di calunniare, di diffamare. Questa non è una dittatura. Un dittatore, di solito, prima attua la censura, poi chiude i giornali». Al Pd, forse l'avviso più viscerale. Complice un lapsus (parlando della ricostruzione abruzzese, dice «tangentopoli» invece di «tendopoli») afferma, senza troppi giri di parole, che nessuno è senza peccati: «Tangentopoli è una cosa del passato? Vediamo. A Bari è aperta una inchiesta interessante. Mi sono stancato di prenderle soltanto». 
In base alle informazioni in suo possesso, il premier è convinto che l'inchiesta pugliese sui legami tra sanità e finanziamento ai partiti può avere risvolti pesanti per gli uomini di D'Alema. Per questo vuole vedere che cosa esce da Bari prima di accelerare sulle intercettazioni. E per questo, parallelamente, ha lanciato strali contro le procure che remerebbero contro di lui: «So che ci sono fermenti in procura, a Palermo, a Milano. Si ricominciano a guardare i fatti del '93, '94, e del '92. Follia pura. Gente che con i soldi di tutti fa cose cospirando contro di noi». Per il premier il disarmo passa proprio dalle procure perché - ha spiegato ai suoi - «deve essere bilaterale». Non ha intenzione di abbassare i toni per primo. Non si fida. Vuole un «segnale». Certo è complicato possa arrivare prima della fine del congresso del Pd. Ma - dicono i suoi - «con Bersani torna D'Alema e ci si può parlare, anche se ora alza i toni per vincere contro Franceschini». Tanto che a palazzo Chigi a microfoni spenti raccontano di pontieri a lavoro per stabilire contatti prima della fine del congresso.
Se dovesse arrivare un messaggio di «tregua» dal Pd (che implica anche il disarmo di Repubblica), Berlusconi è pronto a trattare. Altrimenti tirerà dritto. È lo scenario che il Cavaliere ritiene più probabile. D'altronde a palazzo Chigi le colombe contano assai poco nel determinare la linea politica. Gianni Letta non è più il regista del gioco governativo come ai vecchi tempi. Anzi sugli attacchi di Feltri a Fini ha manifestato più di un malumore. E le preoccupazioni, sul clima che si è creato, di Fabrizio Cicchitto e Gaetano Quagliariello, altre due colombe, sono il termometro che lo scontro è destinato a salire. Fino alle estreme conseguenze. Già, le estreme. Ancora non si può parlare di un "piano b", qualora la tregua si rivelasse sono un'ipotesi scuola e il lodo venisse bocciato. Ma nella cerchia ristretta del premier, come nei momenti più bui del sexgate, lo scenario di elezioni anticipate non è un tabù. Un azzurro vicinissimo a Berlusconi chiede l'anonimato per spiegare il quadro: «Se venisse bocciato il lodo Alfano si aprirebbe una situazione ingovernabile: le procure inizierebbero la demolizione giudiziaria di Berlusconi, la sinistra e i giornali continuerebbero con gli attacchi personali. Questo porterebbe inevitabilmente a un logoramento dell'esecutivo, costretto a giocare sulla difensiva e quindi impossibilitato a realizzare il suo disegno riformatore. A quel punto l'unica soluzione sarebbe un ritorno alle urne, accorpando politiche e regionali». È più di una suggestione. Berlusconi è tentato. Ne ha parlato con i suoi. I sondaggi che ha in mano dicono poi che il suo consenso personale ha resistito all'urto di questi mesi, dagli scandali sessuali alla crisi con la Santa Sede. E poi chi ha parlato con lui in questi giorni lo descrive stanco «di essere cucinato a fuoco lento» e desideroso di una resa dei conti definitiva. Con tutti. Fini compreso.

il Riformista 9.9.09
Fini: non cedo neanche se si vota a marzo Il personaggio
di Stefano Cappellini


Il presidente della Camera respinge la tregua del premier («Inutile che neghi i problemi»), incassa la solidarietà di Letta e ritrova l'asse con Pier. Scenario: urne anticipate e scissione Pdl.

La misura dello scontro in atto è data dalla prontezza, oltre alla durezza, con cui Gianfranco Fini ha cacciato indietro il tentativo di Silvio Berlusconi di sedare la polemica reciproca («Con Fini? Tutto a posto»). Pochi minuti e le agenzie di stampa hanno battuto una dichiarazione che non concede alcuno spiraglio alla tregua: «Non è tutto a posto - rilancia il presidente della Camera - anzi i problemi politici rimangono ed è paradossale che Berlusconi li neghi». Fini non vuole tendere la mano. Al contrario, si dice pronto alla guerra totale. Chi gli ha parlato ieri ha raccolto propositi di sfida: «Sia chiaro - sibila - che io non arretro di un millimetro». E lo dimostrerà domani, con un intervento molto poco diplomatico a Gubbio, alla scuola di formazione politica del Pdl. 
L'ex leader di An non è rimasto sorpreso dall'intemerata del Giornale di Feltri. Da giorni erano arrivate anche al suo orecchio le voci che davano conto di un dossier politico-giornalistico già confezionato contro di lui (e quello uscito non sarebbe l'unico, a dirla tutta). Non vuole enfatizzare l'episodio: «Feltri c'ha preso gusto, ma fa solo il lavoro che gli è stato chiesto», taglia corto. Piuttosto, insieme ai consiglieri più fidati, Fini sta cercando di capire se l'attacco è parte di una più ampia strategia e se, per esempio, può essere collegato all'eventuale tentazione del Cavaliere di anticipare le urne per spiazzare i suoi avversari interni ed esterni e chiudere la stagione del sexgate inseguendo un plebiscito elettorale.
 È uno scenario apocalittico, naturalmente. Ma Fini lo ha preso in considerazione. Più di un fedelissimo ha raccolto e riportato al leader le ultime indiscrezioni da Palazzo Grazioli: Berlusconi starebbe preparando un piano "estremo", cioè abbinare le politiche alle regionali del prossimo marzo, motivando il ritorno alle urne con la necessità di liberare l'azione di governo dai presunti «sabotatori» dentro la maggioranza. Proprio per questo, per giustificare la fine anticipata di una legislatura in cui il centrodestra ha una maggioranza schiacciante in Parlamento, avrebbe bisogno di uno o più nemici da additare all'opinione pubblica. Fini sarebbe solo il primo della lista. 
Ma stavolta non c'è "predellino" che tenga. Il dissenso di Fini dal premier non rientrerà. Per questo il presidente della Camera vuole che a Berlusconi arrivi chiaro un messaggio: «Sbaglia Silvio se pensa di potere andare a elezioni anticipate puntando sullo scontro interno al Pdl. Perché non tutto il Pdl lo seguirebbe. E stavolta alle urne si andrebbe con schieramenti diversi da quelli dell'ultima volta». Sarebbe la fine del Pdl e il totale rimescolamento delle carte. Un terremoto politico.
Sui temi in agenda, che saranno il terreno concreto su cui si misurerà lo scontro nelle prossime settimane, Fini ritiene di avere buoni margini di manovra. Ma distingue tra biotestamento e immigrazione. Sul primo, riflette il presidente della Camera, «non è detto che ci siano i numeri per andare avanti su una legge come quella licenziata dal Senato». Molto dipenderà poi dal dibattito interno alla Chiesa, dove ci sono sensibilità diverse, riemerse puntualmente anche all'indomani del caso Boffo. Diverso il discorso sull'immigrazione. Lì i numeri della maggioranza sono schiaccianti: «La Lega ne fa una questione di bandiera, non lascerà alcuno spazio». 
Insomma, il presidente della Camera non si sente isolato. Sa, per esempio, che Gianni Letta ha deplorato con forza l'attacco nei suoi confronti. «Furibondo», è l'inedito aggettivo attribuito da più parti all'umore del sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Fini è convinto che il metodo degli attacchi del Giornale con successiva dissociazione del premier non possa andare avanti ancora a lungo. Perlomeno, non senza conseguenze gravi sulla tenuta del governo e della maggioranza. Le parole alla Stampa del finiano Italo Bocchino, vicecapogruppo alla Camera del Pdl («Se gli interessi di Berlusconi e di Feltri sono così divergenti, forse sarebbe bene che Berlusconi rinunciasse a Feltri»), sono in questo senso una sorta di ultimatum: il giochino della dissociazione non sarà più tollerato da chi nel Pdl ne sarà bersaglio (durissima, peraltro, la reazione di Feltri: «Bocchino è un fascista»). Soprattutto, Fini è convinto di avere in Casini una sponda importante. Non dà credito alla possibilità che il corteggiamento di Berlusconi riporti stabilmente l'Udc nel centrodestra: «Nell'avvicinamento di Berlusconi a Casini - ragiona coi suoi - non vedo una logica politica, ma mercantile. I sondaggi dicono che quel partito è decisivo in cinque o sei regioni. Tanto basta a Silvio. E comunque non credo che Pier sia così disponibile». Difficile non mettere in relazione il rinascente feeling tra Casini e Fini con la preparazione delle contromisure in vista della possibile offensiva elettorale dal Cavaliere. Con una postilla non secondaria. Il piano di elezioni anticipate potrebbe anche rimanere sulla carta. Il nuovo asse Fini-Casini pare una realtà destinata a restare in campo ben oltre il prossimo marzo.

il Riformista 9.9.09
Che succede al Cav?
L'uomo-immagine ha cambiato faccia
Ha scoperto che il mondo gli è nemico. E non se l'aspettava
di Ritanna Armeni


La nostra - si sa - è una società dell'immagine e la politica si è da tempo adeguata. C'è chi se ne lamenta e rimpiange i vecchi tempi, ma il processo sembra irreversibile. Come si appare, come ci si comporta, la vita personale, gli umori e persino il look per un uomo o una donna che hanno un ruolo pubblico hanno una importanza, una attenzione, mai avuta in passato. Attraverso di loro si può comunicare con il Paese, si possono mandare messaggi e facilitare la trasmissione di idee che altrimenti avrebbero incontrato difficoltà.
Non sono tra coloro che demonizzano l'uso dell'immagine. Può essere chiarificatrice, eliminare ipocrisie su cui si è costruita la vecchia politica. Non solo. Sono convinta che l'immagine per quanto possa essere costruita e artefatta a lungo andare non può che rappresentare gli uomini e le donne per quello che sono e per quello che pensano realmente. Può essere quindi un modo efficace per comunicare quello che si è e non solo - come i più pessimisti pensano - quello che si vuole sembrare. In questo quadro è oggi di grande interesse osservare l'immagine di Berlusconi e la sua trasformazione. La differenza fra quella che il premier ha fornito all'inizio della sua straordinaria avventura politica e quella che oggi egli stesso ci propone.
Essa è, senza alcuna esagerazione, enorme. Tra il primo Berlusconi, quello che è sceso in politica sulle rovine della Prima Repubblica, e quello di oggi non sono passati solo 15 anni, con le normali modificazioni di immagine che gli anni naturalmente comportano, ma c'è un vero rivolgimento. Tanto più rilevante perché il premier - primo assoluto fra i politici italiani - ha fatto proprio dell'immagine l'emblema della sua politica. Per primo ha compreso che il messaggio ideologico, politico-economico, morale e umorale che mandava al Paese passava non solo attraverso le parole e gli slogan ma attraverso il corpo, l'atteggiamento e persino il look. La sua immagine è stata costruita per la sua affermazione in politica. Ma quale immagine appunto? La descriveva qualche giorno fa sul Corriere della sera Ernesto Galli Della Loggia. «Un temperamento leggero e, insieme, pugnacissimo; e poi ottimista, sicuro di sé come pochi e naturalmente disposto all'improntitudine guascona, all'iniziativa audace e fuori dal consueto». Quell'ottimismo è piaciuto agli italiani, stanchi di un catastrofismo senza costrutto che ha caratterizzato (e, purtroppo, ancora caratterizza) la politica soprattutto a sinistra, così come non è dispiaciuta la ricchezza ostentata. Essa - questo il messaggio - poteva essere raggiunta da tutti così come era stata raggiunta dall'uomo comune Berlusconi. È diventata, in qualche modo, democratica. Ha fatto breccia il buonumore, una visione del mondo che poteva essere trasformato, bastava volerlo, e un'ansia di libertà che sfiorava la liceità, non aveva timore di rompere le regole, anche le più sacre del vivere civile e non conosceva compromessi se non quelli a cui qualche volta altri la costringevano, ma che non offuscavano la freschezza della proposta del leader.
Guardiamo al Berlusconi di oggi e troviamo un'immagine addirittura capovolta. Cupo, arrabbiato, segnato, a volte infuriato. Spesso amaro, si dipinge come una vittima di congiure e sul vittimismo cerca di tenere insieme un elettorato che fino a oggi ha trangugiato il suo ottimismo come una bibita gelata in una torrida giornata d'estate. Ricavandone refrigerio e buonumore. Ed ecco che l'ottimismo è crollato, il buonumore è finito, lo sguardo che la tv, anche la più amichevole, rimanda è diventato corrucciato, ostile. Quello di un uomo che ha scoperto che il mondo gli è nemico e non se l'aspettava. E ora ricambia quell'ostilità. Non sono le querele, l'attacco alla stampa, e neppure la leggerezza con la quale ha lasciato trapelare la sua vita sessuale (gli italiani erano pronti a comprendere) che hanno cambiato radicalmente l'immagine di Berlusconi. Così come l'avevano intaccata solo relativamente gli scandali o il discredito internazionale. Ma quello sguardo e quel viso duro e freddo, quegli occhi di un uomo che non si fida più di nessuno. E anche quella propensione a perdere la testa, a non mantenere il controllo.
Certo Berlusconi in questi mesi di colpi ne ha subiti e le preoccupazioni non sono mancate: gli attacchi della moglie e della figlia, le foto sulla sua vita personale sui tabloid stranieri, la campagna lanciata contro di lui da mass media autorevoli, il discredito internazionale, la tempesta nei rapporti con la Chiesa, i silenzi o le critiche all'interno del Pdl, l'incertezza di una situazione economica e sociale finora abbastanza controllata, ma che potrebbe diventare dirompente. Tutto vero, ma proprio lui ha insegnato alla politica che l'immagine è importante e oggi l'immagine che appare è quella di un uomo infelice e sconfitto. Non è un caso che non pochi politici e commentatori parlino dell'inizio della fine. Il premier non ha autostima, ha scritto di recente sul Foglio Giuliano Ferrara. Probabilmente ha ragione. Berlusconi ha perduto autostima, quell'autostima che diventava ottimismo e dava fiducia. Ci pare che sia stata sostituita dalla depressione, dalla rabbia e forse dalla disperazione. Almeno per il momento. Resta da vedere se nelle prossime settimane quell'immagine si trasformerà ancora o se sostituirà definitivamente quella iniziale. In quest'ultimo caso dovremo aspettarci cambiamenti conseguenti non solo nel rapporto fra premier e opinione pubblica, ma nello scenario della politica italiana dentro e fuori il Pdl.

Corriere della Sera 9.9.09
Ancora poche quelle che hanno il coraggio di rivolgersi alla polizia. Nel 49 per cento dei casi la violenza è psicologica
L’esercito silenzioso delle donne maltrattate
Sette milioni sono state vittime di violenza fisica o sessuale In quasi la metà dei casi a picchiare e minacciare è il partner
di Giulia Ziino


Una rosa bianca, immacola­ta. Che lentamente anneri­sce, sporcata da un male che nasce da dentro. È la violenza domestica, la più segreta, quella che si consuma tra le mura di casa. Un mondo sommerso fatto di bot­te fisiche e mentali, che corrode dall’interno colpendo soprattutto le donne, vittime di aggressori che troppo spesso hanno i volti di ma­riti e fidanzati. Oggi e domani le principali città italiane saranno in­vase da migliaia di braccialetti di gomma bianchissimi, inviati an­che a tutte le parlamentari donne: un modo di raccogliere l’invito del ministero delle Pari opportunità a indossare qualcosa di bianco, per solidarietà con le vittime degli abu­si. Per riportare la rosa sporcata al suo vero colore. L’occasione è la Conferenza internazionale sulla violenza contro le donne, in corso a Roma, promossa col ministero degli Esteri. Per capire, e combatte­re, un fenomeno che fa paura. E sfugge, per i confini resi incerti dal­la difficoltà a denunciare la vergo­gna della violenza casalinga. In Italia sette milioni di donne hanno subito violenza fisica o ses­suale nel corso della vita. Di que­ste (dati Istat) 2 milioni e 938 mila hanno subit violenza dal partner o dall’ex. Un universo di sopraffazio­ne di cui fa ancora più paura la fac­cia che rimane oscura, quel 93% di abusi che non viene denunciato, sommerso da mille paure. Sette mi­lioni di vittime silenziose, secon­do il ministero. «Il passo più diffi­cile per una donna — spiega Ga­briella Carnieri Moscatelli, presi­dente di Telefono Rosa — è con­vincersi a chiedere aiuto». Ma usci­re dall’isolamento è solo il primo passo: «Poi c’è l’iter giudiziario e la ricostruzione di sé». Del proprio io massacrato a calci e pugni da chi credevamo vicino: «Da una mappatura del nostro Osservato­rio — continua Moscatelli — su un campione delle circa duemila donne che hanno chiesto aiuto nel primo semestre 2009, risulta che autori delle violenze sono i mariti nel 34% dei casi, gli ex mariti nel 12% e nell’8% i conviventi». Part­ner senza controllo, capaci di acca­nirsi in molti modi: «Nel 49% dei casi la violenza è psicologica, nel 34% fisica, nel 13% economica e un buon 21% è vittima di minacce e stalking, spesso anticamera di abusi più pesanti».
In un anno al Telefono Rosa (che su Facebook ha aperto una pe­tizione per chiedere l’abolizione dei benefici di legge per chi com­mette violenze sulle donne) arriva­no in media 5 mila telefonate. Una è stata quella di Rosaria, 3 figli, 40 anni. Ne aveva 15 quando ha cono­sciuto il fidanzato, 20 quando l’ha sposato. Da allora ne sono dovuti passare altri 20 per venir fuori dal­l’inferno. «I primi tempi mi ero ac­corta di qualche sua reazione vio­lenta — racconta — ma ero troppo giovane per capire. Poi sono co­minciati gli schiaffi, i calci, i pu­gni, le sedie che volavano. Quando gli ho detto che mi volevo separa­re è iniziata la guerra». A Rosaria non è bastato andare via di casa: lui l’aspettava fuori, la seguiva al lavoro, la caricava in macchina con la forza. Ci sono volute un’ami­ca e le parole della figlia 18enne per spingerla a chiedere aiuto: «Co­me ho fatto a resistere vent’anni? Arrivi a pensare che sia quella la vi­ta che ti spetta». Poi la separazio­ne, il giudice. Come per Angela, 40 anni anche lei, un bimbo di 4, cin­que di convivenza con un compa­gno che la picchiava. «Con un fi­glio di mezzo è difficile pensare di reagire — racconta — ma dopo es­sere stata spedita troppe volte al pronto soccorso la mia è diventata una scelta obbligata». Angela co­mincia adesso a non avere più pau­ra quando torna a casa, quando guarda negli occhi la gente.
Per due che hanno spezzato il vincolo, quante altre restano in si­lenzio? Il baratro oggi è più profon­do o abbiamo solo scoperchiato un vaso? «Difficile dirlo — dice Marina Bacciconi, responsabile dell’Osservatorio nazionale violen­za domestica — poiché la maggior attenzione sociale e mediatica agi­sce da lente distorsiva e, d’altra parte, l’informalizzazione del ma­trimonio e della parentela nella so­cietà (e non solo in Italia) si affer­ma sempre più come dato struttu­rale, culturale. Lo stesso modesto aumento negli ultimi anni può aver poco significato e derivare dalle stesse ragioni». Ma se non è possibile quantificare la violenza si può qualificarla: anche gli abusi hanno un genere. Quasi sempre maschile singolare. «Il nostro mo­nitoraggio (registriamo un feno­meno quando tribunali, polizia, ca­rabinieri, Pronto soccorso e medi­ci di famiglia lo incontrano in mo­do da avere una fotografia ad 'alta definizione' del fenomeno) — con­tinua Bacciconi — evidenzia che fra le vittime circa 1 su 3 è ma­schio, minore o anziano ma anche adulto. Ma la donna è certamente la principale vittima». È sulle dina­miche dell’atto violento che emer­gono le differenze più sensibili: «Il maschio conta più sulla propria forza fisica (pugni, calci, minac­ce), la donna per lo più sull’uso di oggetti disponibili in casa, nella vi­ta quotidiana.
Il coltello e altri strumenti da ta­glio appartengono a entrambi, an­che se forse con diverso significa­to ». Legato quasi sempre all’istin­to di difesa: da una ricerca dell’Uni­versità di Bristol che mette in rela­zione violenza domestica e «di ge­nere » risulta che gli uomini prefe­riscono usare la forza fisica (61% dei casi monitorati) ma scendono all’11% nel ricorso alle armi. Que­sto perché la violenza femminile è il più delle volte autodifesa. Gli uo­mini tendono a reiterare gli abusi, combinando violenze fisiche, ver­bali e psicologiche per creare un contesto di paura per controllare la partner. Un inferno tra le pareti di casa.

Corriere della Sera 9.9.09
Obbligo di cura reciproca anche per chi convive
La Corte d’Appello di Milano: stessi doveri degli sposati
di Luigi Ferrarella


MILANO — Non soltanto il matrimonio tra marito e mo­glie, ma anche il rapporto di convivenza, se intenso e pro­tratto nel tempo, possono fare scaturire lo stesso «dovere di cura», gli stessi «reciproci obbli­ghi di assistenza morale e mate­riale » che la legge pone a carico dei soli coniugi e presidia con pene da 1 a 8 anni in caso di «abbandono di persona incapa­ce »: è l’innovativo principio prospettato dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano nel proces­so a un uomo imputato di aver per due mesi abbandonato nel degrado e da sola sul letto di ca­sa la convivente, incapace di provvedere a se stessa a causa di una grave malattia, immobi­­lizzata da una frattura al femore ignorata, e infine morta prima di quanto sarebbe accaduto se fosse stata curata per tempo.
La 56enne ricoverata al Poli­clinico nel maggio 2002, trova­ta dai lettighieri «in condizioni d’igiene scadentissime» nella casa dove viveva con un uomo da 15 anni, appariva devastata dal progredire di un tumore non diagnosticato, bloccata a letto da una frattura al femore non trattata, immersa nelle pro­prie feci tra dolori atroci. Il gior­no seguente era morta. Ed era emerso uno spaccato domesti­co di sofferenza ai limiti del di­sagio mentale anche per il con­vivente («mi diceva che avreb­be chiamato lei il medico...»).
Incriminato per «abbandono di incapace», l’uomo era stato assolto nel 2007 perché per i giudici di primo grado la legge limitava ai soli coniugi l’obbli­go all’assistenza morale e mate­riale, le due persone non erano marito e moglie ma conviventi, dunque all’uomo non poteva es­sere applicata («pena una inam­missibile interpretazione in sen­so sfavorevole») la norma pena­le che punisce l’abbandono.
Ma ora in Appello la prima Corte d’Assise «non condivide l’impostazione» dell’assoluzio­ne e ritiene invece configurabi­le che anche «un rapporto di convivenza, prolungato nel tempo, dia luogo a vincoli di di­pendenza reciproca che com­portano necessariamente il rico­noscimento giuridico dei dove­ri di carattere sociale sanciti dal­la Costituzione inerenti alla na­tura del rapporto, che assumo­no quale contenuto il soddisfa­cimento quantomeno dei biso­gni primari, quali appunto la sa­lute e l’alimentazione». I giudi­ci non si avventurano in una equiparazione secca tra coniugi e conviventi. Nutrono invece la loro tesi di una interpretazione costituzionalmente orientata di norme del codice civile che già oggi contemplano l’ordine del giudice di pagare un assegno periodico a favore delle perso­ne conviventi che, per effetto di provvedimenti di allontana­mento, rimangano privi di mez­zi adeguati. «Sembrerebbe illo­gicamente incoerente», osserva allora il giudice estensore Filip­po Grisolia, un sistema norma­tivo che tuteli una reciproca aspettativa di manifestazioni solidaristiche persino quando il rapporto di convivenza è in­terrotto dall’allontanamento giudiziario, e invece «non riten­ga meritevole di tutela lo stesso 'affidamento' in costanza del rapporto di convivenza, non im­ponendo un dovere reciproco di cura tra conviventi».
Nel caso concreto l’uomo è stato assolto lo stesso, ma solo per mancanza di dolo: in un «contesto così tragicamente anomalo» e degradato, i giudici si sono convinti che non che in­tendesse abbandonare la convi­vente, ma che non avesse l’«esatta percezione» della real­tà in cui versava.

Repubblica 9.9.09
L’Ocse: i prof in Italia sottopagati e lasciati soli
Rapporto shock. Gelmini: riforma necessaria
di Mario Reggio


ROMA - Pagati poco. Senza un sistema di valutazione moderno. Abbandonati a se stessi. Sono gli insegnanti della scuola italiana. È l´impietoso quadro tracciato dal rapporto dell´Ocse presentato ieri. E ancora. Eccessivo il numero delle ore d´insegnamento. Troppi i docenti rispetto agli studenti: uno ogni 11 rispetto ad una media di 1 a sedici. L´Italia, è vero, investe meno degli altri Paesi nell´istruzione e nell´università. Ma i risultati dei livelli di apprendimento relegano l´Italia nelle parti basse della graduatoria internazionale.
Soddisfatto il ministro Mariastella Gelmini: «I risultati della ricerca Ocse evidenziano una serie di criticità del sistema scolastico italiano che ho più volte segnalato. In primo luogo serve la valutazione dei docenti legata alla progressione di carriera. Poi l´Ocse conferma che non sempre la qualità della scuola è legata alla quantità delle ore di lezione e alle risorse investite. È indispensabile accelerare le riforme».
E riforma per il governo vuol dire in primo luogo tagli di personale: si parte da 42 mila insegnanti e 15 mila non docenti per poi proseguire nei prossimi due anni. Obiettivo: risparmiare 8 miliardi di euro. Nel 2012 la scuola italiana sarà cambiata in meglio?
«Cominciamo col dire che il ministro Gelmini dovrebbe essere messa in grado di leggere i dati dell´Ocse - commenta il professor Bendetto Vertecchi, ordinario di Pedagogia sperimentale a Roma Tre e consulente dell´Ocse - sulla scuola l´immagine è deformata, perché le comparazioni sugli organici tra l´Italia e gli altri Paesi è impossibile. Da noi gli 80 mila insegnanti di sostegno sono a carico del ministero della Pubblica Istruzione, mentre nel resto d´Europa, quando ci sono, dipendono dal ministero del Welfare. Noi abbiamo quasi 20 mila insegnanti di religione cattolica assunti con un contratto a tempo indeterminato, caso unico in Europa. In totale fanno 100 mila: un ottavo dell´intero corpo docente».
Altra nota dolente. Il numero eccessivo delle ore trascorse in classe dagli studenti italiani: in media più di mille ore l´anno rispetto le 900 degli altri Paesi Ocse.
Ma è davvero così? Non proprio. «L´Ocse calcola le ore di lezione in classe. Ma nei Paesi con un sistema moderno d´istruzione, più della metà delle ore d´insegnamento si fanno in laboratorio o all´esterno della scuola - precisa il professor Vertecchi - in Finlandia, che è in testa nelle valutazioni Ocse, alla fine le ore passate a scuola dagli studenti sono molto superiori a quelle italiane. Noi abbiamo un´organizzazione del lavoro ottocentesca, fatta di compiti in classe, esercizi, interrogazioni, quindi il confronto è improponibile».
Cosa fare per rivitalizzare la scuola italiana? «L´Ocse ribadisce che è strategico investire in istruzione per battere la crisi e creare nuova occupazione - dichiara il segretario della Flc Cgil Mimmo Pantaleo - quindi sarebbe opportuno un radicale cambiamento della politica di governo che intende distruggere la scuola pubblica e mercificare i saperi».

l’Unità 9.9.09
Il Bundestag riabilita i «traditori di guerra» condannati dai nazisti


BERLINO Il Bundestag ieri ha riabilitato, quasi 65 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, tutti i «traditori di guerra» condannati dal regime nazista: i deputati tedeschi hanno approvato, con un voto a larga maggioranza, un disegno di legge in gestazione da decenni, ma alla fine appoggiato da tutti i partiti rappresentati in Parlamento.
La legge mette la parola fine a una lunga battaglia combattuta da coloro che, durante il nazismo, si rifiutarono di obbedire ad Adolf Hitler. Si tratta dell'unico gruppo di vittime della dittatura che non era ancora stato riabilitato appieno, anche se nel 2002 la Camera bassa del Parlamento aveva concesso la riabilitazione ad alcuni ex soldati su base individuale.
In quegli anni, circa 100 mila persone vennero incarcerate dal regime con l'accusa di essere «traditori di guerra», circa 30 mila di loro vennero condannati a morte e di questi circa 20 mila vennero giustiziati.
Tra i principali sostenitori dell'iniziativa, c'è Ludwig Baumann, 87 anni, uno degli ultimi disertori del Terzo Reich sopravvissuti, fondatore dell'associazione federale delle vittime della giustizia militare dei nazionalsocialisti. Baumann, che vive a Brema, era ieri in Parlamento per assistere allo storico voto.❖

l’Unità 9.9.09
Quell’odore di morte che devasta «Lebanon»
La pellicola israeliana potrebbe rivoluzionare i pronostici: un film durissimo senza buoni e cattivi, forse da Leone d’Oro
di Dario Zonta


Il film israeliano in Concorso potrebbe vincere il Leone d’Oro, o aggiudicarsi qualche premio importante. È il tipico film che arriva a metà festival a sconquassare i pronostici, a riformulare i bilanci, a definire nuove prospettive. È un film durissimo, anche discutibile (almeno per chi è sensibile al senso del limite della rappresentazione, quando si tratta di corpi sventrati in scene di guerra), ma molto potente, e bello, e originale.
Il regista Samel Maoz è israeliano, e a 20 anni, come tutti i suoi compagni, ha fatto la leva obbligatoria nel Corpo Corazzato (il proletariato delle Forze Armate israeliane, come lui lo definisce). Fu messo in un carro armato a sparare a bidoni di benzina per fare allenamento. Poi, un giorno, la guerra, quella vera, quella del Libano, nel 1982. E lì non c’erano bidoni finti ma persone vere, e una l’ha uccisa, per davvero, «non per scelta – confessa – né perché mi fu ordinato, ma per una reazione istintiva d’autodifesa». Un’esperienza devastante che ha bruciato nelle narici della sua memoria per decenni, fino a quando è diventato un film per cercare di levarsi l’odore della morte da dentro le narici e comprendere il lutto, degli altri.
E l’odore si percepisce in questo film, tutto girato dentro un carroarmato. Un impianto drammaturgico originale, una sorta di dramma da camera in un film di guerra, la piéce teatrale di una tragedia di gruppo, tutta vissuta dal di dentro, mentre fuori l’orrore si scatena e passa dal reticolo del congegno di mira. Non si scende mai dal trabiccolo. Le azioni di guerra, fuori, passano solo attraverso l’occhio del carro, dal mirino del tiratore (alter ego del regista). La guerra è in soggettiva. Samuel Maoz non mette elementi politici nel film. Loro sono gli israeliani, gli altri sono gli arabi. Sono uomini in guerra, pieni di paura, senza gradi militari, solo l’asfissia, il caldo, la puzza, la morte. Il carrarmato è già una tomba, e tutti lo sanno. Non manca la solidarietà, così come descritta in un finale di compassionevole, vero e umano. Per certi versi Lebanon ricorda Walzer con Bashir, seppur imploso dentro, senza più la coscienza del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, dei buoni e dei cattivi.❖

l’Unità 9.9.09
Battaglia legale in Israele sull’eredità Kafka


Il tesoro di lettere, cartoline e forse anche di disegni di Franz Kafka è arrivato in questi giorni nelle aule del tribunale di Ramat Gan (Tel Aviv) dove una vertenza giudiziaria mette a confronto due due anziane signore israeliane e la Biblioteca Nazionale di Gerusalemme, che ha preso l'iniziativa per cercar di impedire che quei preziosi documenti restino in mani private e poi, forse, vengano trasferiti all'estero. La vicenda, singolarmente intricata, inizia nel 1924 a Vienna quando sentendosi in punto di morte il celebre scrittore affidò le proprie carte all’amico Max Brod chiedendogli di darle alle fiamme. Brod, com’è noto, si rifiutò. Nel 1939 Brod lasciò la Cecoslovacchia e raggiunse (con gli scritti di Kafka) Tel Aviv, dove morì nel 1968. La segretaria di Brod, Ilse Esther Hoffe, mantenne un controllo assoluto degli scritti e, alla sua morte nel 2007, ha lasciato tutto alle due figlie, Ruth e Hawa, adesso impegnate in un'aspra schermaglia con la Biblioteca Nazionale. Ai giudici il direttore della Biblioteca ha spiegato che va tenuta in considerazione la ben diversa capacità di preservazione dei documenti.



il Riformista 9.9.09
64.179. Sono i detenuti presenti nei penitenziari italiani sottoposti a trattamenti disumani e degradanti
La pena nel nostro Paese è vera e propria tortura
Strasburgo ci ha condannato, ma al di là della sanzione economica nessuno si è occupato dell'inciviltà delle carceri
di Alfredo Sperati


Il sistema carcerario del nostro paese ha una capienza di circa qurantatre mila persone detenute. Negli istituti di pena sono però rinchiusi circa 64.179 detenuti. Da Nord a Sud la fotografia di una cella è diventata drammaticamente simile. Buia e sporca, con i letti a castello accatastati alle pareti e dentro dieci, dodici, venti persone chiuse per ventuno ore al giorno. Un esempio. Ragusa, cella di nove metri quadri, il cubicolo, ospita nove persone stipate, su letti a castello di tre piani, la bocca di lupo copre la finestra ed impedisce all'aria di entrare oltre a non permettere la distinzione tra il giorno e la notte.
L'ingegneria penitenziaria si è superata a Termini Imerese, dove in celle di quattro per quattro vi sono dodici persone, grazie a grattacieli-brande, letti a castello di quattro piani. Strutture all'avanguardia che presentano problemi per ciò che concerne la discesa: un ragazzo è venuto giù dal quarto piano ed ha riportato un trauma cranico, il quale ha richiesto l'apposizione di punti di sutura.
Carceri italiane che hanno interessato anche Corte europea dei diritti dell'uomo, la quale, costretta dal signor Sulejmanovic, che dal 30 novembre 2003 era residente a Rebibbia, ha verificato le condizioni di vivibilità del noto carcere situato alle porte di Roma. Disumano e degradante. Lapidario il giudizio dei Giudici europei, al quale sono giunti dopo avere constatato che il detenuto viveva in una cella di 16,20 mq, divisa con altre 5 persone.
La Corte ha osservato che ogni detenuto non disponeva che di 2,70 mq di media e ha stimato che una situazione tale non abbia potuto che provocare dei disagi e degli inconvenienti quotidiani, obbligando a sopravvivere in uno spazio molto esiguo, di gran lunga inferiore alla superficie minima stimata come auspicabile dal Comitato per la prevenzione della tortura. La conseguenza è stata la condanna a mille euro, perchè è stato violato l'art. 3 della Convenzione, la quale sancisce uno dei valori fondamentali delle società democratiche, proibendo in termini assoluti la tortura e le pene o i trattamenti disumani o degradanti.
I media italiani hanno dato ampio risalto alla notizia, ma paradossalmente è stato messo in risalto l'aspetto economico, la condanna dello Stato italiano ad una multa di mille euro. Alcuni quotidiani si sono chiesti quale possa essere l'esborso a cui lo Stato sarebbe condannato, se i sessantamila detenuti rinchiusi oggi nelle degradate carceri avesse percorso la stessa strada del signor Sulejmanovic. Nessuno ha considerato che la condanna della Corte europea è scaturita dalla verifica del trattamento a Rebibbia, uno dei migliori istituti di pena del nostro sistema carcerario.
Nessuno ha riflettuto che la verifica attiene a fatti relativi ad una unità temporale ricompresa tra il 2002 e 2003. Periodo questo in cui il sovraffollamento era di molto inferiore a quello odierno. Nessuno sembra si sia più di tanto preoccupato che i Giudici europei abbiamo scritto che la pena nel nostro paese è di fatto una vera e propria tortura. Non si può infatti definire diversamente la condizione di sei persone rinchiuse tutto il giorno in una stanzetta e che devono fare a turno per respirare davanti alla finestra.
Nessuno ha considerato che circa la metà di quelle persone che subiscono una tortura non sono state neanche condannate: sono in stato di custodia cautelare. Nessuno proprio nessuno. Non sicuramente coloro che occupano le aule parlamentari o il palazzo del governo. Governanti e legislatori che preso atto della propria incapacità non cercano di risolvere il problema e pertanto preferiscono non commentare una decisione internazionale che bolla il nostro paese come barbaro-incivile. Nessuno proprio nessuno. Neanche coloro che questa tortura la infliggono pronunciando la sentenza di condanna.

il Riformista 9.9.09
Francia
La caccia senza regole contro i "sans papiers"
di Chiara Rancati


Francia. L'impiegato di banca si insospettisce davanti ai documenti di un cliente e chiama la polizia. Il dipendente dell'ente pubblico tende tranelli. Il commesso della biblioteca controlla zelante le carte fedeltà. Il collaborazionismo spontaneo dilaga oltralpe e sostiene - anche aldilà della legge - la campagna di esplusione degli immigrati irregolari voluta dall'Eliseo.

I documenti del cliente che aveva appena richiesto il rinnovo della tessera bancomat non lo avevano convinto. Così un coscienzioso dipendente del Credit Lyonnais di Aulnay-sous-Bois, nella banlieue parigina, ha deciso di avvertire le forze dell'ordine. E Mamdou, trentatreenne di origine maliana, in Francia da 8 anni ma con permesso di soggiorno scaduto, è passato direttamente dallo sportello bancario al centro di detenzione amministrativa di Bobigny.
Certo, la legge transalpina incoraggia i controlli d'identità sui clienti, per evitare frodi, falsificazioni e malversazioni varie. Ma, spiega la rappresentante sindacale Chantal Lamy, utilizzare questo meccanismo per dare la caccia agli immigrati irregolari è «inammissibile». Eppure, racconta al Riformista, è già successo almeno altre due volte nell'ultimo anno: «A Parigi, per esempio, lo scorso settembre una donna non in regola ha fatto richiesta di rinnovo del Bancomat. La nuova tessera le è stata inviata, ma poi qualcuno deve aver notato che i suoi documenti non erano più validi. Così la filiale ha deciso di bloccare la carta, obbligandola a prendere appuntamento per farla sbloccare. E quando si è presentata, la polizia l'ha fermata».
Queste forme di zelo patriottico affondano le radici nel nuovo corso in materia di politiche d'accoglienza inaugurato dalla presidenza Sarkozy. I media l'hanno ribattezzato "sistema delle quote di espulsioni", e il suo obiettivo è chiaro: togliere dalle strade francesi almeno 25mila di irregolari all'anno, per garantire maggiore sicurezza e combattere il racket dei trafficanti di uomini. Filosofia sposata con solerzia tanto dall'ex ministro dell'Immigrazione Brice Hortefeux, orgoglioso di aver concluso il 2008 con quasi 30mila espulsioni, che dal suo successore Eric Besson, desideroso di chiudere l'annata a quota 26mila. «La Repubblica francese sarà ferma nell'assicurare che la legge sia applicata - aveva precisato il Primo ministro François Fillon - Ma, naturalmente, l'applicazione deve avvenire con la più grande umanità».
Il nuovo sistema, però, ha aperto il campo a svariate forme di controllo informale sulla cui «umanità» è lecito interrogarsi. E ricordano da vicino alcune tattiche italiane, come l'obbligo per i medici di segnalare i pazienti non in regola con il permesso di soggiorno. Sono quelli che le associazioni di tutela dei diritti dei migranti chiamano "fermi illegittimi", per sottolinearne la scorrettezza sia in termini legali che morali.
In testa alla poco lusinghiera classifica dei delatori ci sono i funzionari pubblici, che tendono una trappola semplice quanto crudele: quando uno straniero prende appuntamento per presentare dei documenti, o viene convocato per l'esame della sua posizione, la cosa viene segnalata alla polizia. Che può così arrivare sul posto, fermarlo e se necessario spedirlo in un centro di detenzione amministrativa in attesa di espulsione.
È successo al signor Gokkaya, bloccato all'uscita della prefettura di Melun, non lontano da Parigi,dove aveva appena depositato la domanda di regolarizzazione. «Il suo datore di lavoro aveva fatto tutto il necessario - spiegano al Riformista dalla Cimade, associazione di solidarietà ai migranti - Si era rivolto alla Direzione dipartimentale dell'impiego che aveva concesso l'autorizzazione, invitando l'interessato a presentarsi in prefettura per gli ultimi adempimenti». Ma l'impiegato, notando che Gokkaya mesi prima era stato colpito da un provvedimento di rimpatrio, ha avvertito le forze dell'ordine, ignorando il più recente nulla osta delle autorità locali.
Il trucco è ormai così consolidato nelle abitudini delle prefetture d'Oltralpe da essere persino oggetto di una nota interna, destinata agli impiegati incaricati dell'assistenza agli irregolari. Che stabilisce per filo e per segno come comportarsi se l'immigrato giunto «di sua spontanea volontà a chiedere il riesame della sua posizione» sia stato oggetto, nell'ultimo anno, di un provvedimento amministrativo di espulsione. «Lo straniero dovrà consegnare il proprio passaporto al funzionario - spiega la circolare, firmata dalla Direzione per la Popolazione e la Cittadinanza - e prendere posto nella sala d'attesa, mentre vengono allertati i superiori e la direzione dipartimentale di polizia, che provvederà poi al fermo in camera di sicurezza».
Eppure, la corte di Cassazione transalpina già agli inizi del 2008 aveva giudicato il metodo illegittimo. «L'amministrazione non può utilizzare la convocazione in prefettura di uno straniero che sollecita l'esame della sua posizione per procedere al suo fermo in attesa del trasferimento in centri di detenzione - sentenziavano senza mezzi termini i giudici della Prima camera civile - quindi la Corte, per questo unico motivo, giudica che un fermo a tali condizioni è contrario all'articolo 5 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo». L'altolà ha avuto effetto deterrente per qualche tempo, ma è stato presto dimenticato. E la lista degli irregolari prelevati in occasione di appuntamenti con centri per l'impiego, uffici della Cassa per il sostegno familiare e altri enti pubblici è tornata ad allungarsi.
I funzionari statali non hanno però l'esclusiva delle denunce illegittime. Oltre al già citato caso degli sportelli bancari, infatti, anche le biglietterie ferroviarie e gli uffici postali si sono più volte trasformate in trappole per i sans papier. Passati direttamente dalla richiesta di un abbonamento o dal pagamento di una bolletta ai controlli della polizia sulla loro identità. «Ma c'è di più - elenca senza entusiasmo Damien Nantes della Cimade - un irregolare intercettato alla cassa di un Castorama nella banlieue di Bondy, un cliente di un altro centro commerciale finito in camera di sicurezza dopo aver fatto domanda per una tessera fedeltà, su denuncia della cassiera. E persino un acquirente della Fnac di Montparnasse, segnalato da un commesso scettico sull'assegno che aveva usato per pagare».

Repubblica “Napoli 9.9.09
Bellocchio: "Città bellissima ma i cittadini sono depressi"
La vostra città, lontana dai luoghi comuni"
Il maestro del cinema realizza lo spot "Una nuova storia italiana" per il Monte Paschi di Siena Riprese a Castel dell´Ovo
Per la prima volta il regista si impegna in una campagna pubblicitaria "Dura soltanto trenta secondi ma è come un vero film"
di Antonio Tricomi


Una lunga tavolata da “Zi’ Teresa", lo storico ristorante del Borgo Marinari. Marco Bellocchio indossa una t-shirt bianca e azzurra, accanto a lui il figlio Piergiorgio e il direttore della fotografia Daniele Ciprì. Sono appena terminate le riprese dell´episodio napoletano di "Una nuova storia italiana", spot diretto dal maestro del cinema italiano per il Monte dei Paschi di Siena, in onda da novembre sulle reti nazionali.
Prima volta del 69enne regista piacentino con la pubblicità, se si esclude «una piccola cosa di qualche anno fa per promuovere l´Arbre Magique, l´allora famoso deodorante per l´auto. Ma fu davvero una cosetta, lo facemmo in una mattinata. Questo invece è come un microscopico film, realizzato con criteri cinematografici: ci abbiamo messo due giorni a realizzarlo, dura trenta secondi ma dentro c´è una storia».
E prima volta di Bellocchio a Napoli, città che l´autore di "I pugni in tasca" e "L´ora di religione" confessa di conoscere poco. «Ma sulla quale è doveroso un discorso complesso, senza mai fermarsi alle prime impressioni, né all´immagine raccontata dai media: rischierei la superficialità, ed è proprio una cosa che non mi piace. Parlare di Napoli mi è possibile solo per minime impressioni». Per esempio? «Attraversandola in taxi, mi si è presentata davanti agli occhi una città bellissima, fervente, operosa, tutt´altro che oleografica. Sicuramente esiste una Napoli molto lontana dai luoghi comuni e dalle immagini che passano sui media. È una città che però nessuno più è in grado di interpretare. Una realtà talmente drammatica e complessa che si può affrontare soltanto con la massima discrezione».
E i napoletani? «Mi sembrano depressi, rassegnati. Dai tassisti raccolgo racconti disperati e nostalgie borboniche. Ecco, questa è davvero una singolarità. Dovunque in Italia i tassisti, accogliendoti a bordo, non fanno altro che decantare le bellezze della propria città. A Napoli invece si comportano molto diversamente. E non fanno che screditarla, la città, dandone un´immagine desolata a disperata, buttandola giù in tutti i modi. Io per conto mio, lo ripeto, non voglio dare giudizi. Non è che uno può venirci ogni tanto, dare uno sguardo e dire la sua. Bisognerebbe viverci per mesi e poi magari parlare».
Interviene Daniele Ciprì, che per lo spot di Bellocchio fa il direttore della fotografia, ma che è anche titolare di una carriera di regista, da solo o in coppia con il collega Franco Maresco: «Io invece - azzarda Ciprì - un giudizio mi sento di darlo: sono palermitano, a Napoli mi sento a casa mia e tanti segnali riesco a leggerli. Qui ci ho fatto il militare, nel 1982. E devo dire che preferisco la città di allora a quella di oggi. Piazza Plebiscito era un immenso parcheggio, una volta mi trovai coinvolto in una sparatoria e mi salvai nascondendomi sotto un´auto. Però la città era più viva, nel suo disordine, nel suo tumulto: aveva ancora una sua dimensione. Oggi mi sembra tutto omologato. A questa città - prosegue Ciprì - devo, tra l´altro, il mio ingresso nel mondo del cinema. Alcuni di noi militari fummo distaccati al Giffoni Film Festival, a dare una mano per le proiezioni in piazza: si trattava, allora, di una manifestazione molto povera. Quando si accorsero che sapevo fare le foto, fui promosso a fotografo ufficiale del festival».

L’Altro 9.9.09
In Italia c’è la poena di morte. È il carcere
di Marco Pannella


Cari compagni e amici de L’Altro, consentitemi oggi di abusare del vostro letteralmente straordinario invito (di ieri e fino a qualche ora fa... l’unico) a intervenire sul tema e sull’obiettivo "Amnistia subito!". Soprattutto in questa Italia dov’è reinstaurata una pena di morte surrettizia quanto certa: 40 suicidi finora nel 2009, più altri 14 morti di prigione italiana. L’ultimo ieri l’altro, un ragazzo tunisino che si è lasciato morire di fame nel carcere di Pavia. Per un po’ di informazione contestuale, e di "propaganda" Radicale, a premessa utile per imputare domani se potete consentirmelo) agli sgovernanti di Governo e di Opposizione, come anche a Tonino Di Pietro, scelte e responsabilità criminogene e criminose, disastrose, che da decenni ormai possono essere compiute e difese solamente censurando ogni dibattito, quindi ogni informazione così realizzando un’ormai sessantennale (in)giustizia di classe, senza precedenti, ivi compreso quello del Regime precedente l’attuale, quello del Ventennio fascista. 
Veniamo a bomba: il ministro Alfano ha immediatamente reagito alla nostra ri-proposta (dal 1977 fatta in Parlamento, ribadita continuamente da allora) decretando laconicamente, da Innominato manzoniano: «Questa Amnistia, con gli indulti non s’ha da fare!». A Radio Radicale molti esponenti di destra e sinistra si sono pronunciati, spesso a favore. Niente da fare, il tema è Verboten! Totale, ma proprio totale su Mediaset, Sky, La7, unica eccezione, da Mineo! Ma quel che è stato più interessante è il black-out di tutti gli Editori e di tutti... Editi, tranne una eccezione qualche ora fa! On-line e off-line: silenzio (siti e audiovisivi Radicali a parte, naturalmente)! 
Sull’origine e la causa prima di quest’ultima fase del Regime partitocratico italiano, sul suo autore, sul sistema di monopartitismo sostanziale, sulla sua forma biciclica, sul suo odierno attore principale e quello di scorta, noi non ci troviamo impreparati: abbiamo ormai da decenni costituito una Resistenza politica e sociale di carattere strategico. Abbiamo infatti combattuto sempre in modo da prefigurare, anche nelle forme delle lotte e dell’organizzazione, i fini e forme di autogoverno democratico, federalista, austero e libertario, nonviolento; gandhianamente, socraticamente, kantianamente, illuministicamente, antropologicamente, forse buddisticamente (mia personale ipotesi) scoprendoci così connotati e alimentati. 
Siamo giunti alla conclusione che la nostra Resistenza ha oggi un dovere, un’opportunità straordinaria: è il popolo italiano. Antipartitocratico, anticommistioni fra poteri vaticani o talebani e religiosità di libertà e di liberazione, di responsabilità civile, sociale, virtualmente, ormai, ecologisticamente planetaria. Sessant’anni di occupazione hanno miracolosamente salvato gli "occupati" e isolato gli occupanti. È un popolo che ha in sé la nostra Resistenza, ha riconosciuto come suoi i nostri caduti, i Coscioni o i Welby, o i vivi, gli Enzo Tortora e , credo, Eluana liberata dall’amore e dalla forza di Beppe Englaro. 
L’obiettivo cui, d’ora in poi, daremo animo e daremo corpo è quello di candidarci, in tempi rapidi, politici a promuovere e costituire il governo e la Riforma "americana", in alternativa allo sfascio e al fascio partitocratico, per salvarlo e salvarci dalla sua rovina tragica che sarebbe altrimenti anche quella di tutti gli italiani. Nell’attuale contesto internazionale, piazzali Loreto et similia, tentati o riusciti sarebbero tragedie non più tremendamente solo domestiche, a cominciare dai loro sciagurati e disperati autori. 
Siamo, saremo alternativa anche a questo. Spero, cari amici de L’Altro, che vi saranno individui e "forze" che, ammaestrati anche dal tempo prendano in considerazione, sul serio, questo nostro obiettivo. Sulla lotta immediata per la conquista con l’Amnistia della Grande Riforma per la Giustizia, appuntamento – se L’Altro può - a domani.

Il Foglio 9.9.09
Da dove vengono le idee di Fini


Descritto come un partito-caserma dai suoi spregiatori, il Popolo della libertà mostra una vivacità di contrasti nei quali si riflettono aspetti rilevanti delle differenze di orientamento presenti nella società, com’è ovvio che accada in una formazione politica a vocazione maggioritaria. E’ un’aberrazione ottica quella che fa ritenere che posizioni come quelle espresse da Gianfranco Fini, per il fatto di evidenziare diversità da quelle maggioritarie nel suo partito, siano l’effetto di ,una sua natura o svolta di sinistra. Non è stato solo Vittorio Feltri, inviperito per le critiche ricevute dal presidente della Camera, a chiamarlo "compagno". Anche sul sussiegoso Monde si può leggere un’allucinata previsione di un ruolo da leader della sinistra per l’ex segretario del Movimento sociale. In queste semplificazioni giornalistiche incide una certa difficoltà o pigrizia a interpretare la varietà e le diverse origini della destra italiana, la cui immagine è ricondotta esclusivamente alla nostalgia per il fascismo e poi all’abbandono di questo sentimento. In realtà la destra italiana ha costruito il suo nazionalismo sull’epopea garibaldina, interpretata in modo autoritario da Francesco Crispi, nell’ambito di un atteggiamento laicista e anticlericale che aveva i suoi esempi nel kulturkampf bismarkiano e nelle leggi sulla laicità dello stato promulgate dalla Terza repubblica. Il filone concordatario, che pure fa parte del patrimonio della destra, fu però poi assunto a simbolo della consociazione tra Dc e Pci, in quella cosiddetta "Repubblica conciliare" che fu l’obiettivo polemico del Msi, che aderì alle campagne referendarie contro l’aborto e il divorzio anche perché vi vedeva, peraltro erroneamente, l’occasione per disarticolare il compromesso tra Dc e sinistra. Le iniziative di Fini a sostegno, invece, dell’integrazione degli immigrati (rivolte all’immigrazione regolare) derivano dal filone sociale dell’ispirazione della destra, che punta a conferire alla nazione il ruolo di unificazione "patriottica" delle classi e delle comunità etniche, più o meno secondo lo schema proposto da Nicolas Sarkozy, che non è neppure lui un leader di sinistra. Si tratta di un complesso di posizioni discusse e discutibili, con qualche concessione automatica al paradigma della sinistra liberal, ma posizioni politiche di piena cittadinanza,in un centrodestra moderno; che dovrebbe discuterle diventando più ricco in un confronto d’idee serio e aperto.

martedì 8 settembre 2009

l’Unità 8.9.09
Non azzerate la cultura laica
Lettera aperta ai tre candidati del Pd: temi e protagonisti del riformismo liberal-democratico emarginati dal dibattito e dai gruppi dirigenti
di Stefano Passigli


Cari amici, Vi scrivo nella vostra veste di candidati alla se-
greteria del Pd. Sin dalla crisi della I Repubblica e dalla scelta di un sistema elettorale maggioritario si fece strada nel centrosinistra la convinzione che occorresse superare le precedenti appartenenze partitiche e unire in una casa comune le diverse tradizioni del riformismo italiano. Fu questo il principio ispiratore del progetto dell’Ulivo nel 1996, e della nascita dei Ds nel 1998 che segnò il definitivo incontro degli eredi del comunismo italiano con le varie espressioni del riformismo socialista, ambientalista, e azionista-repubblicano. Anche la nascita della Margherita segnò il superamento di una logica strettamente identitaria, unendo all’impegno politico dei cattolici quello di alcune componenti della cultura liberal-democratica.
Questo processo si è interrotto in questi ultimi 2-3 anni con la progressiva marginalizzazione di quella cultura “laica” che è stata tanta parte della storia unitaria del nostro paese; che con Gobetti, Croce, Amendola, i Rosselli, Salvemini, Spinelli ha fornito la più emblematica opposizione al Fascismo; che ha dato un contributo essenziale alla formulazione della nostra Costituzione; e infine che ha garantito le grandi scelte di politica estera (dall’alleanza atlantica all’Europa) e di politica economica (dal libero scambio alla politica dei redditi) che hanno assicurato all’Italia libertà, sicurezza e sviluppo economico.
Complici le liste bloccate introdotte dal porcellum e le scelte di un gruppo dirigente sempre più auto-referenziale, la cultura politica laica è stata insomma emarginata, come dimostra la progressiva esclusione dal Parlamento e da significative responsabilità di partito di personalità di origine socialista come Amato, Bassanini o Ruffolo, o azionista e repubblicana come per non autocitarmi Maccanico, Manzella o Ayala. Per non parlare di esponenti liberal-democratici come Zanone o Debenedetti.
Cari amici, vi siete candidati a guidare il futuro Pd e a rimediare ai tanti errori sinora compiuti dalla sua dirigenza, primo tra tutti l’aver contribuito ad accelerare la fine della scorsa legislatura senza aver prima corretto, se non le leggi ad personam e il conflitto di interessi garantendo la libertà dell’informazione, almeno la legge elettorale.
Tra errori così gravi l’emarginazione della cultura politica laica ancora largamente presente nell’università, nell’informazione, nell’imprenditoria e professioni: in breve nella classe dirigente potrebbe forse apparirvi una colpa minore. Non lo è. Il riformismo laico ha una matrice illuminista ed è legato alla storia del costituzionalismo liberal-democratico. È infatti con l’illuminismo che si apre la stagione dei diritti e si diffonde quel principio di tolleranza che è alla radice della laicità delle odierne società europee e ne rappresenta il tratto distintivo rispetto ai risorgenti fondamentalismi. Ed è con l’illuminismo che si consolida il principio dell’autonomia della scienza da ogni morale e la fiducia nella ricerca come fonte del benessere dell’individuo e della società.
È infine con il costituzionalismo liberal-democratico che si rafforza il principio della separazione e dell’equilibrio tra poteri; un principio che nell’Italia di oggi che vede un Governo sempre più onnipotente, un Parlamento esautorato e a rischio l’autonomia e indipendenza del Giudiziario impone una strenua difesa della forma parlamentare di Governo e degli equilibri sanciti dalla nostra Costituzione. Equilibri che anche l’eccessiva torsione maggioritaria della rappresentanza prodotta da un bipartitismo coatto porrebbe a rischio. Al di là di temi specifici (dalla scuola alla ricerca, dai Dico al testamento biologico) sono i principi fondamentali del riformismo laico che appaiono oggi negletti nel PD.
Mi auguro che condividiate le preoccupazioni che vi ho esposto e che vogliate con una risposta pubblica rassicurare i tanti che sperano che il congresso e le primarie segnino un deciso punto di svolta rispetto alla passata gestione del PD, ma temono che il confronto in atto tra voi possa risolversi solo in uno scontro tra schieramenti interni senza precise scelte di contenuto. In un momento in cui sembra riaprirsi la possibilità per le forze di opposizione di dar vita ad alleanze in grado di farle tornare ad essere maggioranza ciò sarebbe particolarmente grave. Con amicizia

Repubblica 8.9.09
Berlusconi stringe i tempi per ricucire con il Vaticano. Al via la prossima settimana alla Camera l´esame della legge
Il Pdl accelera sul biotestamento "Rafforzeremo l´intesa con la Chiesa"
di Giovanna Casadio


Finocchiaro, Pd: "Vogliono regolare i rapporti con la Santa Sede con una logica di scambio"

ROMA - Con il viatico di Berlusconi tra una settimana, martedì 15, in Parlamento si ricomincia a discutere del testamento biologico. Una accelerazione. Al premier la cosa sta molto a cuore in questo momento. Come si è capito dalla dichiarazione con cui ieri ha negato le tensioni tra il suo governo e la Chiesa. «Rapporti eccellenti - ha detto il presidente del Consiglio - che consolideremo nei prossimi mesi anche su questioni importanti come il testamento biologico». In realtà, dopo il "caso Boffo", Berlusconi ha la necessità di ritrovare una serenità di clima, se non un´intesa, con le gerarchie ecclesiastiche e la legge sul biotestamento - in un "pacchetto" più ampio di questioni - rappresenta il primo banco di prova.
«Abbiamo già trenta iscritti a parlare, ma l´iter procederà in modo sereno. Entro la fine di ottobre, il testo potrebbe essere pronto per l´aula» prevede Giuseppe Palumbo, il presidente della commissione Affari sociali, dove il dibattito riprenderà appunto martedì. «Non esiste, è insultante pensare a tempi stretti, a meno che non si voglia fare un colpo di mano. L´esame deve essere approfondito; per la legge sulle cure palliative, che voteremo la settimana prossima in aula, nonostante non ci siano stati punti di grande frizione, abbiamo impiegato un anno di dibattiti», attacca Livia Turco, ex ministro della Sanità e capogruppo del Pd in commissione.
I Democratici accusano Berlusconi di ridurre la bioetica a merce di scambio per tentare una rappacificazione con la Chiesa. «Provo i brividi che un tema delicato, personale quale è il testamento biologico, stia nella testa di Berlusconi come merce di scambio con la Chiesa. Sia chiaro il principio della laicità dello Stato», afferma Dario Franceschini, segretario Pd. Un appello ai «cattolici e laici del Pdl» perché si smarchino da questa visione «mercantile», viene da Anna Finocchiaro, presidente dei senatori Pd: «È grave l´affermazione di Berlusconi sul biotestamento che svela l´uomo e il politico, perché equivale ad ammettere che i rapporti con la Santa Sede, nella testa del premier, sono e saranno regolati da una logica di scambio e da un atteggiamento tattico e strumentale». «Queste parole sono un insulto alla Chiesa», per Ignazio Marino. E la dipietrista Silvana Mura si rivolge ai laici che pure ci sono nel Pdl invitandoli a battere un colpo.
Dal punto di vista parlamentare lo scontro si annuncia aspro e trasversale. Gianfranco Fini, l´ex leader di An e presidente della Camera, ha criticato la legge sul fine vita così come è stata approvata in prima lettura dal Senato, avvertendo dei rischi di uno Stato etico. Ha detto che si sarebbe impegnato affinché a Montecitorio il testo fosse modificato. Su Fini si sono abbattuti gli strali dei capigruppo del Pdl al Senato, Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. Mentre Fabio Granata, finiano, ha sottoscritto le proposte di Eugenio Mazzarella, il filosofo deputato Pd, che ha riformulato la "norma Englaro" - quella cioè che obbliga all´alimentazione e all´idratazione artificiale e che il governo, la maggioranza e l´Udc vogliono blindare. Mazzarella sarà sentito tra i primi in commissione, la sua è una mediazione che raccoglie il consenso di molti cattolici. Il relatore della legge, il pdl Domenico Di Virgilio garantisce che non ha ricevuto pressioni, che si vedrà quale testo adottare ma che non si può buttare a mare il lavoro del Senato. Palumbo, anche lui medico e "liberal" del Pdl, teme invece che, se non si risolvono alcune incongruenze, la legge sul fine vita «possa essere incostituzionale» e perciò le modifiche sono necessarie. E Maria Ida Germontani, Pdl, ex An, sottolinea i dubbi del cardinale Carlo Maria Martini, pertanto «i legislatori scelgano ispirandosi a buonsenso e rispetto».

Repubblica 8.9.09
Una mente prigioniera
di Giuseppe D’Avanzo


Lo spettacolo, che va in scena da quindici anni, ha avuto una nuova replica da una televisione di Casa Berlusconi. Consueto il paradigma del capo del governo: un manipolo di «comunisti e catto-comunisti» conduce una «campagna eversiva» per tirarlo giù dalla sedia dove è stato collocato dalla volontà popolare e inaugurare «una tirannia». Addirittura, una tirannia. C´è qualcosa di disperante e di disperato in questa rappresentazione del discorso pubblico e domestico.
Parla più di Berlusconi, e delle sue ossessioni, che di un Paese governato con una maggioranza sovrabbondante e un´opposizione solida come il vapor acqueo. Ci dice molto di più dei fantasmi che, in chiave paranoide, assediano il premier che delle critiche che gli vengono proposte, da qualche isolata voce, in Italia e, da un coro, nel mondo. Risoluto a fare dei nostri giorni una nera notte con un unico punto di luce – se stesso –, Berlusconi è oggi incapace di riconciliarsi con la realtà o almeno con un suo succedaneo. È come se la strategia di comunicazione che lo ha condotto a uno straordinario successo, personale e politico, lo abbia imprigionato precludendogli ogni apprezzabile sguardo sul reale. Il Mago è stato sequestrato dallo specchio in cui ama guardarsi, dalle Lanterne che egli stesso ha costruito. Le relazioni con il Vaticano? Eccellenti, dice. L´azione del governo? Irresistibile, dice. Gli italiani? Vogliono essere come me, giura. Le domande che mi rivolgono? Insulti, mistificazioni, diffamazione, accusa.
È stupefacente che siano state dieci ordinarie domande a precipitarlo in questa sindrome che oggi preoccupa anche alleati, come Gianfranco Fini, ultima vittima delle sue fobie. Berlusconi avrebbe fatto meglio a rispondere, a levarsi dallo stato di «minorità civile» che lo ha afferrato, come gli suggerivano i consiglieri più sapienti. Non lo ha fatto e, peggio, ha chiesto l´intervento della magistratura perché non gli siano mai più proposte, siano vietate per ordinanza di un giudice.
Un´intimidazione, concorda con qualche ritardo il Corriere della sera con Ernesto Galli Della Loggia. Dei suoi argomenti è utile discutere. Scrutiamo la trama del suo ragionamento. C´è una premessa: l´iniziativa giudiziaria del premier è «sbagliata e riprovevole, ha di fatto un innegabile contenuto di intimidazione censoria». La premessa, che sembra richiamare un mondo comune – un codice e un metodo condiviso tra i media, qualche principio logico, un rispetto di regole, doveri e diritti, un´attitudine disinteressata alla discussione –, è utile a preparare un giudizio (dubbio) e due risultati (stralunati). Il giudizio. Quelle domande sono un «puro strumento retorico» (è lo stesso argomento degli avvocati di Berlusconi, ahimè, che giudicano quelle domande diffamatorie e ne chiedono la censura). Quindi, sono quesiti tendenziosi: «Quale risposta sensata si può dare alla domanda: quali sono le sue condizioni di salute? Una domanda di quel tipo vuole affermare in modo indiretto, ma precisissimo, che non sarebbe adatto a fare il capo del governo».
La valutazione apre la strada alla prescrizione di quel che la stampa non deve fare. Non è «compito della libera stampa l´organizzazione di interminabili, feroci campagne giornalistiche». «Non è compito dei giornali decidere se qualunque persona è adatta o inadatta a guidare il governo, è compito degli elettori e soltanto degli elettori».
È evidente che di "comune" nel mondo dell´informazione predicato da Galli Della Loggia c´è molto poco, quasi nulla. Domandare, vi appare un´offesa. Reiterare una domanda che non trova ostinatamente una risposta è addirittura «ferocia». Chiedere poi della salute di chi ci governa, un passo a mezzo tra l´insensatezza e la provocazione. Così non è, con buona pace del Corriere, in tutto il mondo occidentale. I candidati alla Casa Bianca presentano in pubblico, con le cartelle del fisco, le cartelle cliniche per dimostrare che le loro capacità psicofisiche sono adeguate alla responsabilità che chiedono agli elettori. Thomas Eagleton, vice di George McGovern, in piena campagna elettorale nel 1972, abbandonò quando si scoprì che era sottoposto ad elettroshock per curare la depressione. Nel 1984, al secondo mandato, l´età di Ronald Reagan, 73 anni, fu motivo di perplessità e pressioni dei media. Nel match televisivo con Walter Mondale, 56 anni, Reagan esordì con una risposta strepitosa alla domanda di un giornalista: «Non farò della giovane età e inesperienza del mio rivale un motivo di scontro». Anche Mondale rise con il pubblico e il fattore età non ebbe più alcuna importanza. Ritornò rilevante quando Reagan fu operato per un cancro al colon. Lo staff medico rese trasparente i guai del presidente. Lo stesso è accaduto a John McCain quando Time (14 maggio 2008) chiese in copertina «Quanto è sano McCain?». Il candidato non si tirò indietro e i medici della Mayo Clinic misero a disposizione dei cronisti le cartelle cliniche (Cnn, 23 maggio 2008). Anche in Italia è apparso legittimo – né stravagante né tendenzioso – interrogarsi sullo stato di salute di Francesco Cossiga, presidente della Repubblica a cavallo degli anni Novanta. Egli ammise «una depressione» e lo stesso Galli Della Loggia ne paventò una sindrome dietro «il suo ossessivo presenzialismo televisivo» (la Stampa, 8 dicembre 1991). Il lato comodo dello scrivere in Italia è che basta esporre i fatti. È stata la moglie del premier a porre all´attenzione pubblica la questione della salute di Silvio Berlusconi, dopo averla proposta in privato a Gianni Letta. «[Silvio] non sta bene. Ho chiesto al suo medico di aiutarlo come si fa con le persone che non stanno bene», ha detto Veronica Lario e, anche le rivelazioni di Patrizia D´Addario, raccolte proprio dal Corriere, hanno confermato quell´ipotesi di sexual addiction che avvelena la vita del capo del governo. Dinanzi a quella denuncia pubblica, bisognava tacere forse? Chiudere gli occhi, far finta di niente? Non è compito dell´informazione accertare lo stato delle cose? Repubblica ha cercato di farlo. Nel modo più diretto e corretto. Domenica 10 maggio, ha chiesto al sottosegretario Letta di incontrare il premier per rivolgergli alcune domande sollecitate dalle incoerenze emerse dal «caso Noemi», una minorenne, e dalle sue personali difficoltà svelate dalle parole di Veronica Lario. Si convenne che entro 72 ore ci sarebbe stata una risposta di Palazzo Chigi. Non è mai arrivata. Così si è deciso di rendere pubbliche le domande destinate al premier. È «feroce», questo metodo o è una prassi ordinaria, accettata nel "mondo comune" dell´informazione occidentale che non pretende di sostituire naturalmente gli elettori nelle loro decisioni (che ovvietà!), ma di renderli più consapevoli e informati nelle loro scelte. Il ruolo dei media non è altro che questo, come ha dimostrato l´Economist quando giudicò Berlusconi «inadatto al governo» sia nel 2001 che nel 2008, senza guadagnarsi le reprimende etiche, politiche e deontologiche di un Galli Della Loggia forse distratto.
Quel che preoccupa (e dovrebbe preoccupare chiunque) nel ragionamento del Corriere della sera è l´accettazione che la realtà, quale che sia, non possa fare capolino nel discorso pubblico più di tanto. Che evocarla, magari nelle prudenti anche se ostinate forme dell´interrogazione, sia una mossa abusiva e politicamente scorretta e faziosa. È una convinzione che appare del tutto egemonizzata culturalmente da un´idea di informazione effimera e istantanea. Disegna un mondo dove non esistono "fatti" né alcun modo di stabilire ciò che è vero perché non c´è più alcun criterio di verità praticabile se si esclude «ciò che viene dichiarato vero in ogni istante». È il mondo, il metodo, il dispositivo di potere di Berlusconi. Il premier pretende di confondere e confonderci avviluppandoci in un garbuglio di «credenze» che annullano eventi, circostanze, parole, ma il mestiere dell´informare non è accompagnare questa deriva, ma opporvicisi. È quello che ha fatto e farà Repubblica. Siamo certi che lo farà anche il Corriere quando accerterà che non c´è alcun «complotto eversivo catto-comunista» alle viste né alcuna «tirannia» alle porte, ma soltanto un uomo prigioniero dei suoi fantasmi e di una rabbia pericolosa per le istituzioni che rappresenta e il Paese che governa.

Repubblica 8.9.09
Sotto tiro i simboli di un Paese
di Andrea Manzella


Sono sotto tiro i simboli e i legamenti che tengono assieme questo paese: la bandiera, la lingua, l´inno, la capitale. Certo, c´è stato anche un gran rifiuto contro questo sfascismo, con voci variegate giunte un po´ da tutte le parti. E alcune, sprezzanti, parlano di «colpi di sole». Ma è più probabile il rischio opposto. Che sia cioè lo sdegno a svanire presto come polverone di mezza estate. Mentre l´offesa simbolica fa, per sua natura, danni irreversibili: e segna ulteriori tratti di un disegno che si precisa.
I rifiuti, per essere credibili, dovrebbero perciò legarsi ad un´idea forte della Costituzione: che quei simboli racchiude e riassume come emblemi unificanti di un «programma» politicamente vivo. Ma questa idea forte non trova un partito, un movimento, una forza politica che la faccia propria, come linea generale di azione repubblicana.
La ragione è anche di cultura istituzionale. Da tempo, si contrappongono due «costituzionalismi»: entrambi estranei agli interessi attuali degli italiani. Da un lato, il costituzionalismo tecnico dei ragionieri del diritto, con le formule «miglioriste» preparate a freddo, con le rime baciate dei compromessi: il costituzionalismo insomma delle «bicamerali», delle «bozze», delle «appendici» istituzionali ai programmoni elettorali. Dall´altro lato, c´è il costituzionalismo dei retori, impegnati a tramandare come miti la scrittura costituzionale e il suo tempo storico: un costituzionalismo senza Costituzione, dato che quella del 1948 è stata profondamente trasformata dall´Unione europea, dalla legge elettorale, dalla Corte costituzionale. Non trova posto, invece, un costituzionalismo che assuma la Costituzione come programma politico: per l´attuazione dei suoi obiettivi mancati; per il ristabilimento dei suoi equilibri scomposti. È intorno a questa «politicizzazione» della Costituzione che possono coagularsi organizzazione, adesione ideale, persuasiva comunicazione popolare, passioni.
È, d´altronde, la stessa struttura della nostra Costituzione ad essere politicamente programmatica. Ogni suo articolo rivela la consapevolezza di dover far fronte – in un futuro che allora appena cominciava – a storiche fragilità italiane. La frattura Nord-Sud. La sudditanza partitica della pubblica amministrazione. L´ottusità nazionalistica della proiezione estera dell´Italia. La vocazione protezionistica di un capitalismo assistito. La debolezza delle condizioni del lavoro subordinato. E, insieme a questa realistica visione d´avvenire, la Costituzione incorporò l´autocoscienza di una sempre possibile ricaduta nei «vizi biografici nazionali» che avevano condotto, da ultimo, al fascismo. Costruì perciò un ordine di garanzie e di libertà, di autonomie territoriali, di congegni istituzionali di contropotere. Fu, insomma, nell´uno e nell´altro senso, una Costituzione di opposizione. Nei confronti di un passato, da cui tuttavia si recuperarono preziose tradizioni; nei confronti dell´avvenire democratico, che si cautelava con forme e limiti al prepotere elettorale. Materiali, gli uni e gli altri, essenziali per comporre una nuova identità italiana.
L´esperienza di oggi ci mostra, invece, una maggioranza che vive la Costituzione come un impaccio, senza del quale la sua presunta capacità di decisioni non avrebbe ostacoli né ritardi. Sicché è persino naturale che, in questa insofferenza di fondo, trovi agevole ruolo, nel cuore stesso del governo di coalizione, un gruppo che, attaccando i simboli nazionali, mira a sbarazzarsi di fatto della Costituzione: almeno come rappresentazione della superiore unità che quei simboli riassume.
Ma l´esperienza di oggi ci mostra anche una opposizione che, di fronte a questa deriva di logoramento, non si accorge degli spazi amplissimi che gli si aprono per un programma politico di costituzionalismo nazionale.
Certo, protesta. Ma su certi punti si avvertono debolezze.
Come sul federalismo fiscale: dove le deleghe multiple e genericissime possono far saltare ogni ponte tra Regione e Regione, tra città e Regioni, tra Stato e Regioni. O quando si affaccia l´azzardo di una federazione di partiti territoriali: mentre è proprio la drammatica mancanza di partiti capaci di idee nazionali e tenuta istituzionale, a causare la crisi di sistema. O quando si mostra volenterosa indulgenza «tecnica» a progetti di rafforzamento dei poteri del governo: progetti che, con l´attuale legge elettorale e nel collasso delle garanzie, avrebbero il solo sicuro effetto di legittimare prassi oligarchiche antiparlamentari. O come quando qualcuno si affretta a istituire corsi di dialetto, come se si trattasse soltanto di una (peraltro, benemerita) questione culturale.
Non stupisce allora che, ormai da anni, la politica costituzionale la faccia, in solitudine, la Presidenza della Repubblica. La faceva Ciampi con la sua vittoriosa promozione del Tricolore e del canto di Mameli. La fa ora Napolitano: con un potere di persuasione tanto più efficace quanto più animato dal visibile sforzo di ammonire e correggere senza sanzionare, di ottenere adeguamenti evitando conflitti e crisi istituzionali.
Ma può continuare ad addossarsi ad una sola Istituzione, per prestigiosa e autorevole che sia, il compito di respingere continui assalti e sgorbi alla Costituzione? No, non è possibile. Basti solo pensare, per comprenderlo, alla molteplicità degli ultimi atti del capo dello Stato, prima delle ferie. C´è in quegli atti il richiamo al bene civico elementare della certezza di diritto. C´è la denuncia di criticità nelle norme sull´immigrazione e sulle «ronde». C´è l´imposizione di correzioni, a difesa dell´indipendenza della Banca d´Italia e della Corte dei Conti. C´è perfino la richiesta di chiarimenti sull´oscura questione Rai-Sky: per il peso di maggiore sofferenza nella condizione costituzionale dell´informazione pubblica.
Un panorama di per sé inquietante. Da esso si capisce anche però che il vero punto è la necessità di passare dalla Costituzione-garanzia alla Costituzione-programma. E questo non è compito del presidente della Repubblica.
Occorre una forza politica che abbia il coraggio e la cultura necessari per porre al centro della sua identità la questione istituzionale. E per organizzarsi intorno all´idea portante di Costituzione e di unità. Intorno all´idea di patria repubblicana, insomma, che sembra eclissarsi con i suoi simboli.

Corriere della Sera 8.9.09
Attaccando Fini il centrodestra lancia un segnale di ricucitura al Vaticano
L’ex leader di An colpito anche per la sua linea sul testamento biologico
di Massimo Franco




La parabola discendente di Silvio Berlusconi sarà pu­re cominciata, come annunciano gli avversari e ipo­tizzano alcuni alleati. Ma non se ne vedono ancora né la durata né il punto d’arrivo. E soprattutto, non si capisce chi dovrebbe esserne il beneficiario. L’unico fatto certo è che l’asse con la Segreteria di Stato vaticana copre per ora l’irritazione dei vescovi dopo le dimissioni traumatiche del direttore di Avvenire, Dino Boffo. E la sottolineatura della «evidente serenità istituzio­nale » fra Vaticano e governo da parte dell’Osservatore romano è un punto che il premier incassa in un momento di nervosismo.
Gli serve a disarmare quanti, nel mondo cattolico e all’opposi­zione, sottolineano la crisi del berlusconismo: in testa l’Udc di Pier Ferdinando Casini, che vede nell’episodio una crepa promet­tente per aumentare margini di manovra e consensi. Di più: per ricamare strategie sul dopo-Berlusconi. Non a caso il ministro Sandro Bondi replica a Casini: siamo ancora noi gli interlocutori. E il presidente del Consiglio nega incontri a breve scadenza con il cardinale Tarcisio Bertone, perché «non ce n’è bisogno». Il tentati­vo, insomma, è di accreditare una normalità contestata dagli av­versari, esterni e nella maggioranza. Berlusconi ironizza sulle accuse di attentare alla libertà di stampa: sarebbe una «barzelletta cattoco­munista ». Evoca invece piani ever­sivi per metterlo da parte a dispet­to del voto. Un allarme del genere gli permette di alzare i toni in mo­do teoricamente illimitato. Per que­sto non sorprende la durezza con la quale palazzo Chigi muove le pe­dine contro Gianfranco Fini. Un esponente della maggioranza che critichi Berlusconi diventa compli­ce dei nemici.
Le uscite ripetute del presidente della Camera contro il potere solitario del premier diventano così un’eresia. Ieri il Cavaliere ha detto di non condividere gli attacchi sferrati a Fini dal Giornale della sua famiglia; e gli ha dato la propria solidarietà. Ma in Vatica­no si legge l’offensiva come un segnale distensivo mandato da pa­lazzo Chigi alla Chiesa, alla vigilia del voto sul biotestamento: una questione che vede Fini schierato col centrosinistra, mentre Berlu­sconi e Lega la usano per rinsaldare i rapporti con la Chiesa. È la dimostrazione che gli spazi saranno sempre più stretti, per Fini. Non è un caso che a difenderlo siano rimasti i fedelissimi.
Lo schema di un Berlusconi «solo contro tutti», accredi­tato dagli avversari, è opinabile; e soprattutto non si capi­sce se lo indebolisca. Fa riflettere che i suoi lo adottino, seppure rovesciandolo: sarebbero «tutti contro uno», il Cavaliere. Il ribaltamento tende a trasformare la difficoltà in un vantaggio. In una situazione torbida, segnata dalla campagna elettorale per le regionali del 2010, la solitudi­ne di Berlusconi verrà usata come arma di mobilitazione. L’offensiva del premier contro i giornali, per quanto stupe­facente nella sua grossolanità, non va sottovalutata: le ma­nifestazioni di piazza contro di lui si possono rivelare un antidoto poco efficace, se non controproducente. 


il Riformista 8.9.09
L’assalto a Fini. Si è aperto il dopo Berlusconi
di Alessandro Campi


S'è aperta la fase due del "grande gioco" al massacro che comunque vada a finire rischia di cambiare per sempre la politica italiana. Messi in riga i cattolici e i giornali dissidenti, tocca ora a Fini subire accuse e reprimenda: Bossi e i suoi gli danno pubblicamente del matto, preconizzando per lui un futuro ai giardinetti, Feltri, ispirato dall'odio di Veneziani per l'uomo che avrebbe tradito la destra di cui quest'ultimo s'è fatto custode ortodosso, lo accusa di essere un mezzo comunista, un voltagabbana e un cinico ambizioso.
L'idea che sostiene tutti questi attacchi è, all'ingrosso, quella di soffocare o delegittimare ogni pensiero critico nei confronti del Cavaliere, di costruirgli intorno una cintura di sicurezza, di creare un nuovo ordine a partire dal caos generalizzato. La divisione del lavoro appare chiara: il Giornale crocifigge gli avversari, reali o supposti, interni o esterni, a mezzo stampa, insultando e denigrando, la Lega mette a disposizione le truppe, in Parlamento e nelle piazze, Ghedini si occupa dei contenziosi in tribunali a colpi di carte bollate.
Quello che non si capisce di questa strategia è se serva davvero a liberare il Cavaliere dai petulanti che lo accusano e lo incalzano - peraltro senza nemmeno distinguere tra chi lo vorrebbe morto e chi, più modestamente, lo vorrebbe soltanto all'altezza del suo ruolo istituzionale, nuovamente capace di fare politica - o piuttosto a renderlo prigioniero dei suoi nuovi e feroci pretoriani. Berlusconi era il politico del sorriso, degli slanci generosi e delle grandi visioni. E per questo ha vinto e convinto. Lo stanno rendendo, più di quanto già non sia da qualche mese in qua, un uomo assediato e impaurito, perennemente accigliato, mosso solo dal risentimento e dallo spirito di vendetta. Contenti loro, contento lui…
L'attacco di Feltri a Fini, che da ieri tiene banco, era nell'aria. Da settimane, in settori del centrodestra, gli si rimproverava di aver venduto l'anima all'avversario, di cercare il plauso della sinistra per ragioni di carriera e di mettere i bastoni tra le ruote al governo. Da tempo si diceva che, così continuando, si sarebbe trovato solo e privo di seguito politico, come se il muoversi in controtendenza rispetto alla vulgata fosse divenuto d'improvviso una colpa e senza nemmeno rendersi conto che proprio l'agire in solitudine, il giocare d'anticipo e fuori da ogni schema, è stata a suo tempo la virtù che ha fatto politicamente grande e unico Berlusconi. Ma hanno egualmente colpito la virulenza e il tono delle imputazioni, segno che qualcosa si è rotto per sempre nell'equilibrio dei poteri e nel costume civile di questo sfortunato paese.
Ma cosa si imputa a Fini, fatti tutti i conti e una volta accettato l'invito di Feltri, sinceramente paradossale provenendo da lui, ad una discussione pacata e ragionevole? Di aver cambiato idea strada facendo - come capita sovente a chi fa politica prendendola sul serio, considerandola cioè l'arte di dare risposte nuove a problemi nuovi - e di perseguire oggi un'idea di destra, e un'idea di sé e del proprio ruolo sulla scena pubblica, che non piace evidentemente a chi sullo scontro all'arma bianca e sulla logica amico-nemico, volgarizzata al limite del parossismo, ritiene che si debbano costruire le fortune di un partito o di un leader. Non dunque sulla contrapposizione di idee e di programmi, che dovrebbe essere il sale della politica democratica, ma sulla delegittimazione dell'avversario e sulla messa in ridicolo dei suoi argomenti. Strada imboccata a suo tempo proprio contro Berlusconi dalla sinistra, che di fatti ha perso tutte le sue battaglie, e oggi curiosamente percorsa a larghe falcate anche dal centrodestra.
Sulla collocazione politico-ideologica di Fini, inequivocabilmente di destra, coerente con l'evoluzione che quest'ultima ha subito in anni recenti su scala europea, ma in linea su molti punti anche con le posizioni tipiche di quella italiana nel secondo dopoguerra, si potrebbe scrivere un lungo e argomentato saggio. Ma non è questo, con ogni evidenza, che interessa Feltri e coloro che ragionano alla sua stregua. Nulla importa loro delle esperienze di Cameron e Sarkozy, che rispetto ai loro omologhi italiani al governo davvero parlano un'altra lingua e hanno un altro stile. E nemmeno li riguarda il fatto che i grandi numi tutelari della destra italiana nelle sue molte anime - da Gentile a Evola, da Prezzolini a Spirito, da Volpe a Montanelli - nulla hanno mai avuto a che fare con una politica che si limita ad aggregare e costruire consenso vellicando gli istinti e mortificando la ragione, che urla e sbraita senza mai costruire nulla, che appare dogmatica e militaresca non in virtù delle sue certezze granitiche ma semplicemente perché manca di idee e di luoghi ove eventualmente discuterle.
Feltri imputa a Fini di non fare proposte, ma solo di criticare la sua stessa maggioranza. L'evidenza dice il contrario, come si è visto con riferimento a questioni quali il testamento biologico, il diritto di voto amministrativo agli immigrati regolari, la riduzione dei tempi per ottenere la cittadinanza italiana. Solo che - chissà per quale ragione - queste che sono a tutti gli effetti proposte e contributi alla discussione politica vengono regolarmente scambiate, soprattutto nel centrodestra, per "provocazioni" che rischiano di confondere le idee al popolo. Senza rendersi conto, ciò dicendo, che la politica (e tanto più coloro che si piccano di essere leader) il popolo dovrebbe guidarlo, non assecondarlo nelle sue paure e nei suoi pregiudizi, peraltro irresponsabilmente alimentati per ragioni di basso e miope tornaconto elettorale. E senza avere chiaro cosa il popolo pensi davvero.
Ma ciò che Feltri più gli rimprovera - più dei suoi ammiccamenti a sinistra, più delle sue estemporanee alzate d'ingegno - è, al dunque, di non scendere in campo impugnando anch'egli la spada. Il che è davvero paradossale. Da un lato, quando sostiene posizioni che appaiono eterodosse, si vorrebbe un Fini silente, in omaggio al suo ruolo istituzionale, in realtà in obbedienza ad un formalismo peloso, nello spirito da caserma che così continuando porterà il Pdl alla tomba anzitempo, dall'altro però lo si vorrebbe omologo allo stile, urlante e battagliero, demagogico e sguaiato, che la destra italiana, negando la sua stessa storia, s'è data negli ultimi anni come sua estrema cifra ideologica. Una destra istituzionale e rispettosa dello Stato, amante della legalità e delle regole, composta e pensosa, capace di ripensare se stessa e all'altezza della storia, sembra diventata in Italia una chimera, un sogno impossibile.
La verità, per capire ciò che sta davvero accadendo, per trovare un senso in tanta confusione, è che il dopo Berlusconi si è aperto. Ma nel modo peggiore. Invece di accompagnarlo in un chiave politica, compito che spetterebbe al medesimo Berlusconi, si è deciso di esorcizzarlo, di affrontarlo in una chiave grossolana e meramente tattica, puntando a blindare il centrodestra intorno al suo leader di oggi e a gettare in panico in campo avversario, attraverso l'uso di strumenti d'offesa poco convenzionali, dall'insulto ad hominem al dossier anonimo. E così, lungi dal costruire il grande partito dei moderati, che sia lo sviluppo coerente ma non meccanico di questi quindici anni di storia berlusconiana, si stanno ponendo le premesse perché esso imploda in un fragore sordo, dissolto in mille spezzoni. Sarà un campo di rovine l'eredità del Cavaliere grazie ai suoi volenterosi miliziani?

il Riformista 8.9.09
Sinistra svegliati, Gianfry è di destra post-berlusconi
Il fondatore di Alleanza Nazionale è l'unico che può ereditare il berlusconismo. Lo ha criticato, ma ne è stato un alfiere. E le sue idee non sono affatto eretiche nel suo schieramento.
di Peppino Calderola


E se Fini fosse di destra? La domanda paradossale viene spontanea dopo la gragnuola di colpi che Feltri ha inferto al presidente della Camera. C'è una destra che mal sopporta l'ex capo di An, i suoi colonnelli si dissociano ogni volta che lui prende la parola, la sinistra si è innamorata dell'erede di Giorgio Almirante. È tutta una gara a considerarlo fuori dai giochi del centro destra.
L'accusa è duplice. La presidenza della Camera gli ha fatto perdere il rapporto con la politica e con la sua base tradizionale. Il miraggio del Colle lo spinge a inseguire i voti di una sinistra in piena crisi di leadership. Accusato per tanti anni, e non infondatamente, di essere l'oggetto misterioso della politica italiana, il leader capace di giocare solo di rimessa ma troppo pigro e di scarso coraggio per gettarsi nella battaglia politica aperta, oggi Fini si trova al centro di sentimenti di amore e di odio che tornano a dividere la sinistra dalla destra.
Feltri ha la mano pesante, ovviamente. Torna indietro, gli dice, oppure vattene. Dopo la B di Boffo siamo saltati alla F di Fini, in una resa dei conti che non dovrebbe lasciare in piedi nessun avversario, soprattutto di quelli interni, del premier. E se fosse un nuovo boomerang delle "teste di cuoio" del Cavaliere impegnate a liberare l'ostaggio anche a rischio di ucciderlo?
Destra e sinistra giudicano allo stesso modo la svolta di Fini. Le sue tesi sulla laicità e sull'immigrazione vengono lette come un abbandono del campo precedente. Gli applausi dei militanti della Festa del Pd sarebbero la prova che il suo nuovo popolo sta a sinistra. Ma siamo davvero sicuri che il popolo di destra abbia espulso Fini o si appresti a farlo? La mia tesi è che Fini non è mai stato così ben insediato nella destra come ora, così come nessuna polemica berlusconiana ha mai espulso Casini da questa stessa destra.
Il primo dato che viene in soccorso è la continua popolarità del presidente della Camera. Non sappiamo se negli ultimi sondaggi questa popolarità sia stata scalfita (attenzione a quelli taroccati!), ma Fini resta, dopo Berlusconi, uno degli uomini pubblici più cari al mondo di centro destra. Questo mondo vivrà con rammarico e persino con fastidio le sue continue dissociazioni, ma non c'è un solo segnale che dica che la sua vicenda politica sia considerata estranea al popolo della destra. Delle due posizioni che l'hanno caratterizzato l'una, quella laicista, è una componente molto profonda della storia della destra italiana. Non dimentichiamo che l'anticlericalismo è stato di sinistra ma anche soprattutto di destra. Il primato dello Stato laico, il timore dell'interferenza della Chiesa non sono un patrimonio né della sinistra né del mondo dei non credenti. Sono stati anticlericali gli intellettuali di destra, è stata laica la stessa Democrazia cristiana.
Le posizioni di Fini appaiono eterodosse solo in quel mondo di destra che si muove con gravi ondeggiamenti fra l'adesione pedissequa ad alcune richieste legislative della gerarchia e la tentazione dell'attacco frontale ai vescovi. Il Fini laicista che difende Dino Boffo chiude il cerchio. Afferma da un lato la necessità di un compromesso non subalterno con la Chiesa, dall'altro conferma lo spazio pubblico della Chiesa che sta nell'ampia liberta di critica che la politica moderna non può non assegnare alle autorità religiose. L'imbarazzo con cui settori cattolici di centro-destra hanno guardato allo scontro frontale con la Cei, imbarazzo che ha disorientato la base cattolica del centro-destra, ha trovato nelle posizioni del presidente della Camera un atteggiamento più lungimirante di quello di chi ha innescato la "madre di tutte le battaglie" contro il quotidiano L'Avvenire.
Fini appare un pesce fuor d'acqua a destra anche per le sue dichiarazioni sull'immigrazione. Una di queste è nota da alcuni anni, il diritto di voti dei nuovi cittadini immigrati, l'altra, quella relativa all'umanizzazione della legislazione anti-immigrati, non piace allo zoccolo duro della Lega e agli estremisti filo-governativi, ma non è estranea agli interessi concreti del popolo di destra che non cerca la xenofobia ma una legislazione di contenimento moderna e impostata su criteri di umanità. Se la curva Sud del popolo di destra prova rabbia per Fini, la destra riflessiva, cioè la sua parte più moderata, non vede minacce o abbandoni di campo.
C'è, infine, il dato politico di fondo che rischia di trasformare in un boomerang la seconda battaglia di Vittorio Feltri. La destra è alla ricerca di un leader. Non sono fra quelli che pensa a un rapido declino di Berlusconi, ma solo il clan ristretto del premier può non vedere, ovvero lo vede e lo teme, che il dopo Berlusconi è la caratteristica principale di questa fase politica. Il premier ha indubbia vitalità e fantasia per resistere ancora a lungo. Appunto, "per resistere", perché non c'è alcun dirigente o militante del centro-destra che non si interroghi su quel che accadrà quando il ciclo berlusconiano si sarà esaurito. La scommessa di Fini si basa, probabilmente, su due elementi forti. Il primo la prosecuzione del berlusconismo oltre Berlusconi. Il berlusconismo è un fenomeno profondo della politica italiana che sopravviverà al suo fondatore. Quest'uomo è entrato nei libri di storia. E per il mondo di destra conterà il fatto che Fini negli snodi fondamentali è stato con il Cavaliere. Se gli altri candidati leader lo hanno "servito", lui ha cercato, con una personale impronta, di assecondarne i progetti di fondo. Non saranno l'atto di accusa di Feltri o gli elogi della sinistra a cancellare il berlusconismo storico di Gianfranco Fini. Non sarebbe la prima volta che l'erede ribelle si rivela come l'erede autentico. Il secondo elemento fa riferimento a un dato che il mondo della destra ha ben presente. Il berlusconismo è irripetibile. Non ci sarà leader che potrà ricalcarne le orme. Nei paesi caudillisti ci hanno pensato le mogli, qui non siamo in un paese caudillista e di mogli è meglio non parlare. Quindi Fini rappresenterà l'unica possibilità per proseguire il berlusconismo senza lo stile, i tic, il carisma, i vizi del grande capo. La destra post-berlusconiana si guarderà intorno e si affiderà a lui, dopo una dura e sanguinosa guerra di successione.
Per molti a sinistra l'ipotesi che sia Fini il dopo-Berlusconi significa l'iscrizione della destra italiana in quella europea. Non è chiaro che cosa la sinistra intenda per destra normale, visto che non riesce neppure a definire l'identikit di una sinistra normale. Tuttavia rischia di andare incontro a una grave delusione. La destra moderata ed europea di Fini sarà un avversario molto duro. Chi ha osservato in questi anni il presidente della Camera non può non aver notato in lui uno sforzo eccezionale di contenere le reazioni emotive ma anche una rabbia spesso mal dissimulata. Vorrei dirlo meglio. Fini può apparire pigro, indolente ma è politicamente "cattivo". Leggetevi i suoi discorsi. Feltri cerca di impedirgli di diventare capo dello Stato. Difficilmente gli riuscirà di buttarlo fuori dalla destra.

il Riformista 8.9.09
Il "progetto" di Ruini. Che cosa è in gioco
Chiesa, politica e libertas ecclesiae
di Benedetto Ippolito


Gli ultimi dieci giorni sono stati un'accelerazione storica incredibile dei rapporti tra la Chiesa e il mondo politico. Non che tutto possa riassumersi nella vicenda Boffo, per carità, anche se certamente la campagna scandalistica del Giornale di Vittorio Feltri contro l'ex direttore di Avvenire ha scoperchiato un vaso di Pandora colmo fino all'orlo.

Il progetto culturale di Ruini?
Affermare la "libertas Ecclesiae" modelli. Se, dopo il caso di Avvenire, con le dimissioni del direttore Boffo, è eccessivo parlare di affronto all'autonomia della Chiesa, di certo ci troviamo ad analizzare un attacco alla legittimità stessa di un dissenso forte della società civile dal potere politico.
È importante inventarsi presto una soluzione, anche a costo di far uscire una risposta miracolosa, come una colomba dal cilindro di un mago. Sotto accusa non è stata messa soltanto la legittima autonomia professionale di alcuni giornalisti cattolici. La controversia ha fatto emergere, piuttosto, la fragile indipendenza della stampa e il valore democratico sostanziale che ha la libertà d'opinione della Chiesa nella società civile italiana. Insieme alla libertà di un giornale è stata attaccata effettivamente la legittimità stessa di un dissenso forte della società civile dal potere politico.
Certo, parlare di un affronto alla libertà della Chiesa è usare parole grosse. Basti pensare che la formula latina "libertas Ecclesiae" fu impiegata dalla Riforma gregoriana per illustrare la posta in gioco che era in ballo quando nell'undicesimo secolo il potere politico condizionava totalmente l'autonomia spirituale e materiale della società. La minaccia, però, incombe soprattutto oggi.
Il valore più grande che il cardinale Camillo Ruini ha intuito e messo al centro della sua prospettiva pastorale è stato esattamente questo. Dopo il Concilio Vaticano II e davanti alla scomparsa della Democrazia cristiana, scommettere di nuovo sulla libertà della Chiesa. Una consapevolezza forte che è emersa distintamente al Convegno ecclesiale di Loreto del 1985, traducendosi poi nel Progetto culturale, nell'azione indipendente della Conferenza episcopale italiana dalla politica dei partiti, fino alla grande vittoria popolare del referendum sulla legge 40 (procreazione assistita, ndr) e alla riuscita trionfale del Family Day del 12 maggio 2007 in piazza San Giovanni a Roma.
Nella visione di Ruini era impellente reclamare una libertà formale e solenne per la Chiesa istituzionale e coinvolgere a pieno le diverse dimensioni ecclesiali, laicali, associative, diocesane o semplicemente individuali per renderle autonome e incisive pubblicamente.
La sintesi di questa idea di libertà cristiana ha prodotto lentamente un laicato compatto e dinamico, in grado di assicurare la presenza della Chiesa gerarchica nella società e di garantire la partecipazione autonoma, progettuale, talvolta perfino disparata, dei laici credenti nella società in cui vivono e in cui operano concretamente. Oggi, qualcosa di questa prospettiva è andato distrutto. E solo la sostituzione di un direttore e una buona legge sul fine vita non possono garantire da sé il ritorno automatico di un equilibrio tanto consistente quanto sottile che si è frantumato repentinamente.
Il Papa domenica a Viterbo ha esortato i fedeli laici, i giovani e le famiglie «a non avere paura di vivere e di testimoniare la fede nei vari ambiti della società, nelle molteplici situazioni dell'esistenza umana». Il fatto stesso che, oltre alla straordinaria figura di san Bonaventura, vero teologo della libertà, Benedetto XVI abbia ricordato papa Leone Magno, ossia colui che lottò strenuamente per difendere la Chiesa antica dalla potenza imperiale, è un'esortazione più eloquente di qualsiasi commento. Sebbene, infatti, la situazione attuale sia diversissima da allora, il parallelismo non può sfuggire all'attenzione di nessuno, perché il rimedio passa sempre attraverso il riconoscimento pieno della libertà di azione e di opinione dei credenti davanti alle molte insidie del potere.
La libertà della Chiesa, d'altronde, non è negata esclusivamente quando la politica condiziona l'espressione della stampa ufficiale, com'è avvenuto nei riguardi di Avvenire, ma anche e soprattutto quando si cerca di strumentalizzare la libertà cattolica in nome di un'iniziativa opposta e contraria alla precedente. I buoni rapporti della politica con il mondo cattolico non si costruiscono, cioè, né attraverso la minaccia, né attraverso la "falsa adulazione", vera e presunta, e neanche vietando al Papa di parlare in pubblico in un'università o impedendo ai deputati credenti di legiferare compattamente su temi etici rilevanti e sensibili.
La vera libertà della Chiesa si afferma, invece, garantendo l'indipendenza ideale, associativa e individuale, che ogni singolo credente ha di poter vivere e contribuire democraticamente per mezzo della sua influenza alla costruzione di un'autentica civiltà cristiana.

il Riformista 8.9.09
Tutti i laici che ora vanno pazzi per la Cei


Uno degli effetti collaterali e paradossali del caso Boffo è che ha un po' rimescolato le carte delle amicizie e inimicizie. Secondo la logica tribale che vige nel dibattito pubblico italiano, secondo la quale il nemico del mio nemico è mio amico, molti nemici di Boffo, e della Cei e della Chiesa cattolica italiana, sono diventati improvvisamente suoi amici.
Così in questi giorni stiamo vedendo fior di laici, e talvolta di laicisti, schierarsi come un sol uomo al fianco di colui che più di tanti altri ha interpretato per quindici anni la politica e la strategia della Cei di Ruini. Eugenio Scalfari, per esempio, nel suo fondo domenicale, accedendo alla tesi secondo la quale il segreterio di Stato vaticano Tarcisio Bertone avrebbe lasciato da solo Boffo per colpire la Cei di Ruini, ha simpatizzato con i vescovi condannati fino a ieri per il loro interventismo nel dibattito pubblico e legislativo. «È compito del clero combattere i peccati - ha scritto il fondatore di Repubblica - Denunciarli. Avvertire i fedeli affinché a loro volta non cadano in tentazione. Lo fanno. Lo ha fatto la stampa diocesana. L'ha fatto l'Avvenire. Con prudenza ma con chiarezza». Più che giusto, oggi che è riferito alla vita privata di Berlusconi. Ma forse era giusto anche quando i vescovi intervenivano in campi, come il biotestamento, altrettanto pubblici, dai quali invece Scalfari ha più volte intimato loro di tenersi alla larga.
Allo stesso tempo, fior di esponenti del movimento gay hanno trovato parole ferme e giuste per denunciare l'uso neanche tanto sottilmente omofobo che Feltri ha fatto della vicenda della condanna penale di Boffo, ma senza aggiungere una parola - con l'eccezione di Grillini - sulle accuse di omofobia che fino a ieri avevano rivolto proprio alla Cei e alla Chiesa italiana.

l’Unità 8.9.09
Il fastidio della democrazia
di Dijana Pavlovic


Una delle ragioni per le quali me ne sono andata dal mio Paese è stata la morte della democrazia. Nel 1995 ho vi-sto la casa di Arkan, comandante delle Truppe Paramilitari serbe impegnate in Slavonia dell’Est, in Bosnia-Erzegovina e poi anche in Kosovo, massacratore e criminale di guerra: in casa e in giardino si aggiravano le tigri alle quali deve la sua terribile nomea. Esibiva con sfrontatezza il suo potere tragico e i suoi modi davanti ai mezzi di comunicazione. Così come Milosevic, il suo capo, non aveva paura né della nostra opposizione di studenti che insieme con il nascente partito democratico ne denunciavamo i soprusi, né dell’informazione nazionale e internazionale. Troppo sicuri del loro potere, lasciavano fare –certo ci picchiavano quando manifestavamo– ma era come se considerassero le nostre parole non un pericolo, ma un necessario fastidio. Mi sono venuti in mente questi ricordi di fronte all’attacco furibondo con denunce e richieste milionarie di danni a giornali italiani e stranieri che si sono occupati dei fatti “privati” di Silvio Berlusconi. Addirittura il suo avvocato si occupa di difendere la sua virilità, messa in dubbio più che dall’operazione alla prostata dalle registrazioni delle “utilizzate finali”. L’ultimo attacco sfrenato alla libertà d’informazione da parte del presidente del Consiglio mi pare impossibile in un paese democratico senza che se ne chiedano le dimissioni. E mi chiedo di che cosa può aver paura un uomo così potente, politicamente ed economicamente intendo, come Berlusconi. Ma forse non è la paura che la sua immagine deperisca. Probabilmente è solo l’insofferenza di un potente arrogante che non ammette che nulla di lui venga messo in discussione. Il suo sogno è avere lo stesso potere del suo amico Gheddafi, un tiranno clownesco e tragico che non ha opposizione ma solo lager.

l’Unità 8.9.09
Respingimenti. Ecco tutto ciò che si deve sapere
Immigrazione e luoghi comuni
di Pietro Soldini


In molti si chiedono se i “respingimenti” dei migranti che arrivano nel Mediterraneo sono legittimi o no? Secondo la Convenzione di Ginevra 1951 non sono legittimi. Il tratto distintivo di quel-la convenzione, il suo titolo è esattamente: «no refoulemente», «no respingimento».
Se arriva una barca carica di persone inermi che chiedono aiuto tu non puoi respingerla, la devi accogliere, devi identificare le persone, verificare se hanno diritto a chiedere asilo politico o protezione umanitaria, per quelli che eventualmente non avessero questo diritto, tu hai la possibilità di rimpatriarli nel loro paese d’origine e se non è possibile in un «paese terzo sicuro» dove non siano a rischio di incolumità.
Ma, si dice, noi «li abbiamo respinti mentre erano in acque internazionali». E dove sta scritto che si possano respingere se stanno in acque internazionali? Non è affatto previsto. Se incroci una barca in acque internazionali, di persone inermi che chiedono aiuto, tu la devi soccorrere e se li prendi a bordo di una nave che batte bandiera italiana, sono nel tuo territorio e devi tutelare il loro diritto d’asilo. Queste sono le norme internazionali che hanno evitato genocidi, persecuzioni, deportazioni e schiavismi che si sono verificati prima dell’entrata in vigore di queste norme e che hanno reso più civile questo mondo contemporaneo.
Allora si dice, noi «non possiamo accogliere tutti i disperati e rifugiati del mondo». Infatti non li accogliamo... Nel mondo ci sono 42 milioni di profughi, l’80% di essi si trova nei paesi in via di sviluppo (Asia, Africa ecc...). Solo il 20% 8 milioni e mezzo circa -, si trovano nei paesi ricchi sviluppati e solo 4 milioni e mezzo stanno in Europa.
E però «noi siamo una frontiera europea e quindi l’Europa ci deve aiutare a gestire questo problema perché noi non possiamo essere il paese colabrodo rifugio di tutti i profughi che arrivano in Europa». Non è così perché attualmente in Italia ci sono 47.000 rifugiati (0,7 ogni 1000 abitanti. In Germania ce ne sono 580.000 più di 7 ogni 1000 abitanti). Nel Regno Unito ce ne sono 290.000 (quasi 5 ogni 1000 abitanti) in Francia ce ne sono 160.000, nei Paesi Bassi 80.000 ecc. Quindi noi siamo il Paese che accoglie di gran lunga meno e quei pochi li assistiamo male, che si arrangino abbandonati a se stessi e forse è proprio per questo che sono mal visti dall’opinione pubblica.
Se l’Europa, così come si è impegnata, farà un piano per distribuire equamente il carico dei rifugiati fra tutti i paesi europei, non potrà che chiedere all’Italia di accoglierne un numero più alto.
Se fossero confutati questi dati sarei disponibile a cambiare idea, invece il Governo insiste, nonostante i richiami, sulla strada della violazione del diritto internazionale, parte integrante della nostra Costituzione democratica.

Corriere della Sera 8.9.09
L’attrice protesta per l’omaggio che la mostra dedica a Tel Aviv: «Chi oggi celebra la città ignorando che esiste Gaza, è come se 20 anni fa avesse ignorato Soweto»
Jane Fonda contro il festival di Toronto: «Propaganda pro Israele»
di Francesco Battistini



GERUSALEMME — Da Ha­noi Jane a Jaffa Jane: a 71 an­ni, due Oscar vinti e un’infi­nità di battaglie civili com­battute, la pasionaria di Hol­lywood mette l’elmetto con­tro l’ennesima passerella ci­nematografica che invita re­gisti israeliani. Stavolta ce l’ha col Toronto Internatio­nal Film Festival, che per i cent’anni di Tel Aviv s’è in­ventato una sezione apposi­ta, mandando sullo schermo dieci pellicole a tema. Israele è uguale al Sudafrica del­­l’apartheid, dice Jane Fonda, un «regime razzista» ha mes­so in moto «una potente macchina di propaganda» per dare all’estero un’imma­gine accattivante di sé: «E chi celebra oggi la moderna e sofisticata Tel Aviv, igno­rando che esistono la Cisgior­dania e Gaza, è come se vent’anni fa avesse parlato solo di Città del Capo o di Johannesburg, eleganti e con uno stile di vita bianco, fa­cendo finta che non ci fosse­ro anche Khayelitsha e Sowe­to ».
No logo: la promozione di Tel Aviv fa parte d’un rilan­cio d’immagine, varato dal governo israeliano dopo la guerra di Gaza. Ma dalle par­ti del cinema non funziona granché. Al Festival di Edim­burgo, il regista Ken Loach s’era ritirato perché gli organizzatori ave­vano pagato biglietto aereo e albergo a una collega telavivi. A To­ronto s’è allestito un set di protesta diretto dalla Fonda, dallo stes­so Loach, dal musicista David Byrne e da altre star, come Eve Ensler o Danny Glover, quello che vanta un’amicizia perso­nale con Hugo Chávez. Il filmmaker canadese John Greyson ha ritirato la sua opera. Naomi Klein, la scrit­trice no-global che a Toron­to vive, ha organizzato sit-in. Ed è stato presentato un documento, cinquanta fir­me, per protestare contro «l’assenza assoluta di registi palestinesi» e il voluto silen­zio sulla parte araba di Tel Aviv, Jaffa, e sulla «sofferen­za di migliaia di discendenti dei palestinesi che abitavano lì e oggi vivono nei campi profughi dei Territori occu­pati, dopo l’esilio di massa del 1948».
La difesa degli organizzato­ri è altrettanto decisa: innan­zi tutto ci sono due titoli pale­stinesi in cartellone, dicono, e poi non si può accusare di propaganda un film come «La Bolla» di Eytan Fox, che critica la società israeliana. Anche la stampa telavivi re­plica dura intervistando Mar­vin Hier, lui pure vincitore di due Oscar e cofondatore a Los Angeles del Centro Wie­senthal: «La gente che firma questo genere d’appelli — di­ce — è contraria alla soluzio­ne dei due Stati. Perché quan­do si mette in discussione la legittimazione di Tel Aviv, si sostiene la soluzione d’un so­lo Stato. E la distruzione di quello d’Israele». Potrebbe ci­tare un vecchio successo di Ja­ne, il rabbino Hier: non si uc­cidono così anche i cavalli?

l’Unità 8.9.09
Emergency festeggia i 15 anni a Firenze
La prima volta senza Teresa Strada


Emergency ha appena perduto la fondatrice Teresa Strada e festeggia i 15 anni dalla nascita come lei stessa desiderava. Da oggi a domenica Firenze ospita l’ottavo incontro nazionale dell’associazione che dal 1994 a oggi ha curato in zone di guerra 3 milioni e mezzo di persone spesso in condizioni estreme. Una setti-
mana di incontri, convegni medici e spettacolo (fino a giovedì a Firenze Fiera vicino alla stazione, da venerdì al Mandela Forum) per ricordare che l’associazione vive del contributo privato dei cittadini.
Apre la settimana un dibattito sull’Afghanistan oggi alle 18. «Lì siamo in missione di guerra afferma Maso Notarianni, del direttivo, giornalista c’è l’intera Folgore più qualche altro corpo speciale ben addestrato ma non per costruire scuole. Se cambiamo le regole d’ingaggio dei militari italiani non credo cambierà molto per l’Afghanistan mentre temo che cambierà qualcosa per l’Italia. Mi risulta che si voglia cambiare l’articolo della Costituzione che vieta la guerra». La morte di Teresa Strada ha mutato i toni ma non il programma. «Senza di lei è cambiato tutto insiste Notarianni e al tempo stesso facciamo questa festa perché le cose vanno fatte e lei per prima non voleva che la annullassimo». Per Emergency accorrono molti artisti: tra gli altri, con show gratuiti, Lella Costa (domani), Moni Ovadia (giovedì), Jovanotti, Pelù e Marco Paolini introdotti da Gino Strada e Cugia (venerdì), Serena Dandini in una serata con Hendel, Cornacchione, Banda Osiris....

l’Unità 8.9.09
Precari, si allarga la protesta
La Cgil: «Pronti allo sciopero»
Ancora occupazioni e proteste in tutta Italia contro i tagli del ministro Gelmini. la Cgil vara il suo calendario di lotta e minaccia lo sciopero generale: «Speriamo sia unitario». A Torino «occupata» piazza Carlo Alberto.
di Virginia Lori


Non si ferma l’agitazione dei lavoratori. Ieri manifestazione al ministero
ParlamentariPd: «Il governo riferisca in aula e torni indietro sui tagli»
Piotto (Flc Torino): «I precari non hanno volto né storia, e tutti li possono calpestare»

Con le prime campanelle che iniziano a suonare un po’ ovunque, non accenna a posarsi il caos della scuola italiana che rischia di essere travolta dalla mobilitazione degli insegnati precari. Sul piede di guerra in tutta Italia, con occupazioni dei provveditorati (da Milano a Roma a Torino) e manifestazioni in piazza contro le decisioni del ministro Maristella Gelmini. A cui alcuni parlamentari del Pd hanno chiesto di riferire in Parlamento: «in quella sede hanno spiegato gli onorevoli Ghizzoni, Zampa, Marchignoli, Ghedini, Soliani, Bertuzzi, Marchi, Marchioni e Vitali ribadiremo la necessità di ingranare da subito la retromarcia sui tagli». Ma il ministro Gelmini intanto deve fare i conti anche con la minaccia di uno sciopero generale. Rischio paventato dalla flc Cgil, comparto scuola del sindacato, che ieri si è detta «pronta a proclamare lo sciopero generale e una manifestazione nazionale. L’auspicio ha spiegato il sindacato in una nota è che questo avvenga co-
me in passato unitariamente». Nel frattempo, però, la Cgil ha già fissato un proprio calendario di lotta. Che inizia giovedì 10, giorno in cui è stato programmato un sit in sotto al ministero dell’Istruzione. Altre iniziative, inoltre, saranno studiate per il 14 settembre (primo giorno di scuola) in tutta Italia mentre all’inizio d’ottobre, ha annunciato la Cgil, «sarà individuata una giornata per essere in “100 piazze per la conoscenza”».
INIZIATIVE IN TUTTO IL PAESE
Ieri intanto a Roma i precari, che da giorni stanno occupando il provveditorato, si sono riuniti in una assemblea (a cui ha preso parte anche il candidato alla segretaria del Pd Ignazio Marino) da cui poi è scaturito un corteo che ha fatto rotta verso viale Trastevere. «Chiediamo le dimissioni immediate del ministro Gelmini hanno spiegato i docenti del Cps, il coordinamento precari scuola che ha annunciato l’idea di accamparsi davanti al ministero vogliamo anche il ritiro dei tagli e l’assunzione a tempo indeterminato di tutti i precari sui posti vacanti che ci sono e possono, quindi, essere occupati a tempo pieno da insegnanti di ruolo e non da supplenti». Nel frattempo di fronte a viale Trastevere si era già concluso il sit in organizzato da Sinistra Libertà nel corso del quale una cattedra era stata simbolicamente “tagliata” in due, metafora dei tagli della Gelmini raffigurata come una “donna di denari”. «La scuola taglia cattedre ha spiegato Paolo Cento col più grande licenziamento di massa in un momento in cui il governo dovrebbe invece investire nell’occupazione».
Ma le manifestazioni dei precari della scuola ieri sono proseguite intensificandosi in tutta Italia. A Torino, ad esempio, i precari della scuola coordinati dalla Flc Cgil hanno deciso di occupare simbolicamente piazza Carlo Alberto dove resteranno per tutta la settimana. A terra, poi, sono state disegnate delle sagome bianche a simboleggiare, hanno spiegato, «i lavoratori che in questi giorni saranno espulsi dal mondo della scuola e per quelli che si trovano in situazione di vulnerabilità sociale». È arrivata invece al sesto giorno l’occupazione del provveditorato agli studi di Catania ad opera di insegnanti precari e personale ata. Dopo il «No Gelmini Day» di sabato, quando tremila persone hanno sfilato in corteo, oggi una delegazione sarà a Palermo per un incontro con il presidente della Regione Raffaele Lombardo.

Repubblica Roma 8.9.09
In centinaia manifestano dalla sede dell´ex provveditorato al ministero dell´Istruzione
E i precari marciano in città "Troppi tagli uccidono la scuola"
di Cecilia Cirinei Laura Serloni


Francesca Pandolfi, ha 39 anni, è precaria da 7 nonostante i corsi di specializzazione e le ore passate in classe con gli alunni. E ieri sera è stata costretta a lasciare a casa due figli, scendere in strada e montare la tenda, con decine di altri docenti precari davanti al ministero della Pubblica Istruzione, in viale Trastevere. La notte si passa lì. Continua e non si ferma la lotta degli insegnanti. «Devo manifestare, è un obbligo, un dovere – ammette – sia per salvare il posto di lavoro che in 4.500 rischiamo di perdere, sia per salvare la scuola pubblica. Non ci sono più risorse, ho sempre avuto classi con non meno di 25 studenti e non si possono fare accorpamenti, ne va della qualità dell´insegnamento».
Prima c´è stata l´occupazione dell´ex Provveditorato di via Pianciani e ieri in centinaia hanno sfilato da viale Manzoni a via Labicana fino al Colosseo e poi giù per viale Aventino e via Marmorata e si sono fermati, educati e civili senza provocare un intoppo lungo il percorso e senza dare troppo fastidio al traffico, davanti alla sede del ministero guidato da Mariastella Gelmini, in viale Trastevere. Una manifestazione pacifica. Un corteo dai cori intonati nell´altoparlante e con balli improvvisati in strada. "La lotta non ci fa paura, la lotta non ci fermerà: Gelmini stiamo ad arrivà", hanno urlato all´unisono i tanti precari della scuola. Ad aprire la protesta dietro lo striscione "Tagli alla scuola: una truffa per tutti", i volti dei trentenni e quarantenni che da anni aspettano di diventare docenti di ruolo. Nel corteo anche il senatore Pd Vincenzo Vita: «È una battaglia da sostenere e troveremo gli strumenti parlamentari per farlo. Una lotta doverosa. E´ stato un corteo tranquillo e civile nei confronti dell´inciviltà di un governo che non si degna neanche di rispondere»
«Il presidio davanti al ministero è permanente – annuncia Carlo Seravalli del Coordinamento precari scuola Roma – andremo avanti per giorni, settimane, mesi». Intanto ieri notte in camper e tende, con sacchi a pelo e lettini improvvisati hanno occupato i marciapiedi di viale Trastevere. E oggi alle 18.30 ancora assemblea per decidere le prossime forme di protesta. «Blocchiamo l´inizio dell´anno scolastico – incalza Dino Bruno, precario dal 2000 – solo così potremo restare uniti nella lotta». Già, perché molti non vedranno i contratti rinnovati, ma tanti altri avranno «solo la magra consolazione di un contratto di disponibilità – spiegano i precari – cioè faremo da tappabuchi nelle ore di laboratorio». Annunciano una grande manifestazione nazionale da organizzare per fine settembre, ma intanto partiranno nelle scuole le ronde dei precari per riuscire a coinvolgere nella protesta anche i docenti di ruolo.