giovedì 10 settembre 2009

Repubblica 10.9.09
Lo scandalo in parlamento
di Giuseppe D’Avanzo


È giunto il tempo che Silvio Berlusconi vada in Parlamento ad affrontare uno scandalo che, sempre di più e ancor più limpidamente, rivela il disordine della sua vita privata.
Che sarebbe anche affar suo, certo (lo si dice per i "neutralisti"), se non fosse contraddittorio con l´ordine che voleva imporre per legge alla nostra vita e incompatibile con la rappresentazione che ha dato di se stesso agli elettori. Questo è già un problema di difficile soluzione per Berlusconi, ma non appare più il cuore dello scandalo. La gravità del caso politico – da affrontare con urgenza alla Camera e al Senato, nel luogo "politico" per eccellenza, – si annuncia nella sventatezza con cui il capo del governo assolve alle sue responsabilità pubbliche e si radica nella sua vulnerabilità. Un controllo delle date delle "feste" a Palazzo con gli impegni pubblici del presidente del Consiglio svela come, a volte, il premier viene meno ai suoi doveri istituzionali per non rinunciare ai suoi piaceri privati. La serietà della questione è soprattutto, però, nella vulnerabilità che oggi circonda la sua persona e il suo ufficio. Il via vai di prostitute a Palazzo Grazioli, le cene, le feste, il sesso, le orge, insomma le abitudini di vita e il veleno della satiriasi espongono con tutta evidenza Silvio Berlusconi a pressioni e tensioni che nessuno è in grado oggi di immaginare. Nemmeno il presidente del Consiglio. Nemmeno l´occhiuta "squadra" dei suoi collaboratori più stretti che finora ha pensato di uscire dall´angolo in cui il premier si era cacciato da solo con le intimidazioni all´informazione, le pressioni sui possibili testimoni, i trucchi di sottomesse burocrazie della sicurezza.
Che l´Egocrate si fosse cacciato in un guaio che, con il tempo, sarebbe diventato catastrofico, è stato chiaro quando Patrizia D´Addario ha mostrato le fotografie e le registrazioni raccolte nella notte trascorsa con il premier. Ora Gianpaolo Tarantini completa il disegno e quel che si vede è esattamente quel si intuisce e si racconta da mesi. Un giovanotto ambiziosissimo, uomo d´affari temerario e cinico grimpeur sociale, fa leva sulle ossessioni personali di Berlusconi (ritorniamo a chiederlo, dopo la denuncia pubblica della moglie: quali sono le sue condizioni di salute?) per avvicinarlo, blandirlo, conquistarne l´attenzione e l´amicizia. Tarantini ingaggia prostitute per il premier. Le accompagna nel suo Palazzo. Le rimborsa con moderazione e le paga, generoso, se fanno sesso con Berlusconi che finge di non sapere, non vedere, non capire. In qualche occasione, Tarantini offre alle "ragazze" (e lo ammette) della cocaina per ricompensarle. In cambio, il giovanotto, diventato prosseneta, chiede al capo del governo buoni contatti e autorevole influenza per chiudere affari con lo Stato. Il capo del governo glieli offre.
Sesso, prostituzione, affari, droga. In questo ambiente è precipitato Silvio Berlusconi, per un´intima fragilità irrisolta e denunciata per tempo da Veronica Lario. Da questo ambiente possono saltar fuori molti intrighi e troppi ricatti che il capo del governo è ormai palesemente incapace di prevedere e controllare, come ha fatto sempre in passato immaginando per se stesso un´impunità eterna. Se ieri il tentativo di liquidare quest´affare come «spazzatura» e violazione della privacy era malinconico, oggi è irresponsabile. La vita disordinata che ha condotto – e che, secondo alcune fonti, ancora conduce in palazzi più appartati – rende Silvio Berlusconi pericolosamente esposto a coercizioni e vulnerabile alle pressioni. Questa sua debolezza non è un "affare di famiglia" (ammesso che lo sia mai stato), ma interpella la credibilità delle istituzioni e minaccia la sicurezza nazionale. Quante sono le ragazze che possono umiliare pubblicamente o addirittura compromettere il capo del governo? Le amiche di Tarantini, se il giovanotto ha detto il vero, sono più o meno trenta. Come Patrizia D´Addario, qualcuna tra loro ha conservato imbarazzanti documenti sonori o visivi di Berlusconi? Dove finiscono o dove possono finire le informazioni – e magari le registrazioni e le immagini – in loro possesso? Senza voler considerare, poi, che Gianpaolo Tarantini è stato soltanto uno – uno solo – dei ruffiani del presidente, l´ultimo arrivato, il più arruffone a quanto pare.
Il lento ma inesorabile disvelamento della vita disordinata di un premier attossicato dalla sexual addiction deve pure trovare un punto di arrivo con un chiarimento pubblico se non si vuole trascinare nel baratro – con la reputazione di Berlusconi – anche la credibilità delle istituzioni. I costi pagati dal rifiuto del capo di governo a illuminare ciò che ancora oggi è oscuro non possono essere illimitati. Per evitare di chiarire i suoi rapporti con una minorenne, è salito su un ottovolante di dinieghi, abusi, aggressività, conflitti brutali che non gli ha portato e non gli può portare fortuna. La festa di Casoria; le rivelazioni degli incontri con Noemi allora minorenne lo hanno costretto a mentire in televisione. Quella menzogna non l´ha avuta vinta e sono saltati fuori i portfolio che vengono consegnati a Berlusconi per scegliere i «volti angelici»; la cerchia dei ruffiani che gli riempie il Palazzo e la Villa di donne a pagamento; migliaia di foto che lo ritraggono, solo, circondato da decine di ragazze di volta in volta diverse; i ricordi imbarazzati e imbarazzanti di capi di Stato che gli hanno fatto visita; la confessione di una prostituta pagata per una cena e per una notte di sesso con in più la promessa di una candidatura alle Europee e poi in consiglio comunale; intercettazioni telefoniche (un centinaio) con cui gli vengono annunciate "brune" e "bionde", indimenticabili che giustificano la diserzione del premier da un appuntamento ufficiale. Fino a quando potrà durare il silenzio dell´Egocrate? Che cosa lo costringe a mentire o gli impone di tacere? Non sono una via di uscita – ieri ce n´è stato un altro – gli ininterrotti flussi verbali, uguali nelle parole, nei gesti, nelle pause, nell´inutilità di guadagnare il rispetto che ha perduto. Che cosa deve ancora accadere perché Berlusconi trovi la forza, il coraggio, l´assennatezza di offrire al Paese quella verità su se stesso che ancora oggi rifiuta? La crisi personale di una leadership può diventare, per ostinazione di un narciso smarrito, discredito di una nazione? Il dramma di un uomo e di una leadership può diventare la tragedia di un Paese? Vada in Parlamento, finalmente, e si racconti, ci racconti. Non può cavarsela consigliando, al solito, di non leggere i giornali. L´informazione non ha altra possibilità che continuare a raccontarlo. La questione è se Berlusconi può raccontare se stesso. In pubblico e senza complicità.

Corriere della Sera 10.9.09
Comunicato sindacale : «Quel fastidio per il lavoro dei giornali»
Fnsi: si indaghi sui fatti oscuri non sui cronisti




Il lavoro che i redattori del Corriere della Sera svolgono al servizio dei lettori e dell’informazione ha dato, ancora una volta, fastidio.
L’«Ordine di esibizione dei documenti» recapitato ieri a Fiorenza Sarzanini del Corriere della Sera e ad Angela Balenzano e Maddalena Tulanti del Corriere del Mezzogiorno-Puglia appare come un gesto intimidatorio.
Anche in un caso che coinvolge i massimi protagonisti della politica italiana, la segretezza delle fonti è, e deve restare, uno dei cardini del lavoro di inchiesta e di controllo di poteri e istituzioni connaturato alla professione del libero giornalista. Il Cdr del Corriere della Sera esprime solidarietà alle colleghe e allarme per l’azione intrapresa anche alla luce del Disegno di Legge Alfano, un provvedimento che mira a limitare il diritto di cronaca. 
Il Cdr del «Corriere della Sera»
Il sindacato dei giornalisti

MILANO — «Siamo alle solite: giornalisti che documentano notizie e le pubblicano diventano destinatari di atti di indagine della magistratura. I giudici cercano di ottenere le fonti del loro lavoro su cui invece, per legge e responsabilità professionale, i giornalisti hanno l’obbligo della riservatezza e della tutela». Così, in una nota, la Federazione nazionale della stampa esprime totale solidarietà alle colleghe del Corriere del Mezzogiorno e del 

Corriere della Sera , Maddalena Tulanti, Angela Balenzano e Fiorenza Sarzanini dopo la notifica del decreto di esibizione delle carte per la pubblicazione dei verbali sul caso escort e sanità. «I giornalisti non sono un 'potere contro' ma operatori impegnati a documentare fatti delle vicende pubbliche del Paese di cui sono venuti a conoscenza. Non si sprechino risorse su indagini inutili contro i giornalisti, serve fare chiarezza su fatti oscuri e discutibili».

il Riformista 10.9.09
Salto di qualità. È tornato il Corriere
E nel mirino c'è Kagemusha
Il governissimo dietro la svolta del Corsera
di Fabrizio d'Esposito


Neobarricaderi. Via Solferino ritorna agguerrita contro il premier un po' perché teme di perdere copie un po' perché pensa che la sua fine sia vicina e si sta preparando al dopo. Il Cavaliere è convinto che dietro i discorsi di Fini ci sia Paolo Mieli.

Un salto di qualità che nasconde la storia di due fantasmi che da Noemi in poi aleggiano nei palazzi romani. Quello di Gianni Letta, un tempo premier ombra e oggi potenziale leader moderato distante in maniera siderale dal berlusconismo modello Grand Guignol. E quello di Kagemusha, il guerriero ombra di Akira Kurosawa, ovvero il nome in codice che la "Ditta", garbuglio trasversale di poteri vari, ha affibbiato al Cavaliere sempre più solo e debole.

Chi è al corrente di ciò che si muoverebbe realmente dietro le quinte della politica e della finanza, inquadra così la svolta di ieri del Corriere debortoliano: l'apertura del giornale, con un titolo a sei colonne, dedicata alle nuove rivelazioni del pugliese Giampaolo Tarantini su altre trenta ragazze dell'harem di Palazzo Grazioli. Meno di tre mesi fa, invece, il quotidiano di via Solferino aveva quasi nascosto in prima pagina lo scoop dell'anno di Fiorenza Sarzanini: l'intervista a Patrizia D'Addario sulla notte di sesso insieme con Silvio Berlusconi. Un salto di qualità, appunto. E che rimette il Corriere della Sera al centro dei movimenti postberlusconiani anche per spezzare il radicalismo della guerra tra la Repubblica di Ezio Mauro e il Giornale di Vittorio Feltri.
La prima chiave di lettura dell'esclusiva di ieri sui verbali di Bari è questa. Dopo la defenestrazione di Paolo Mieli, speculare a quella di Giulio Anselmi alla Stampa, il Corriere bis di de Bortoli si era imposto una progressiva autoemarginazione per niente parente del famigerato terzismo. Un ruolo da pompiere che però di fronte ai nuovi scenari provocati dallo scontro finale tra berlusconiani e resto del mondo non poteva reggere ulteriormente. Di qui gli aggiustamenti degli ultimi giorni, con articoli al vetriolo contro i ministri Brunetta e Scajola (e che hanno causato forte irritazione nel governo) e attacchi a Tremonti per il dossier banche. Dice la nostra fonte: «Sinora ai fuochisti conveniva tenere Kagemusha, ossia il fantasma di Berlusconi, in questa posizione di debolezza, ma adesso è venuto il momento di mantenere alto il livello della fiamma». In pratica, la tregua siglata con la normalizzazione post-mielista è terminata e il Corriere avrebbe finalmente deciso di partecipare all'ultimo e decisivo conflitto della Seconda Repubblica.
Sullo sfondo, un approdo già delineato all'indomani dello scandalo di Casoria da spezzoni importanti delle nostre élite: un governissimo o governo dei migliori che sia con a capo Gianni Letta, il secondo fantasma di questa lunga estate, o in seconda battuta Tremonti. È questa la prospettiva "responsabile" su cui i vari soggetti della "Ditta" stanno lavorando per sabotare l'ipotesi delle elezioni anticipate, l'arma letale agitata dal presidente del Consiglio. Perché su un punto sono tutti d'accordo, berlusconiani e non: di questo passo, con il Cavaliere sulla graticola perenne del sexgate e forse sotto ricatto, la legislatura molto difficilmente spirerà di morte naturale. E non è un caso che, sempre dietro le quinte, c'è chi tra i poteri forti gioca su due tavoli ed è contento della linea celodurista imposta da Feltri al Cavaliere. Aver forzato la mano in modo violento e sanguigno al premier significa infatti accelerare l'ora fatale del redde rationem. Come se il direttore del Giornale fosse un cavallo di Troia.
In questo quadro che posto trovano i piani di un grande centro con Montezemolo, Casini, eventualmente Rutelli e Fini staccati dai rispettivi poli? Ieri Dagospia, il sito di Roberto D'Agostino indicato ormai da molti come il termometro più attendibile di queste manovre, ha definito «montezemolata» la svolta del Corriere. Per la fonte interpellata dal Riformista si tratta di «pura nebbia gettata per nascondere la sostanza, che è fare un passo in avanti nella destabilizzazione di Berlusconi e arrivare presto a una transizione». Senza contare, aggiunge, che «i rapporti tra Montezemolo e de Bortoli sono pessimi, i due non si sono mai sopportati». In ogni caso il nuovo polo moderato è un progetto di medio periodo, ammesso che esista, e non si potrebbe mai trovare nella condizione di raccogliere a breve i cocci del governo Berlusconi. Non solo.
Un altro dei protagonisti di questa partita attorno a Letta sarebbe Massimo D'Alema, redivivo statista del Pd. I suoi nuovi messaggi sull'arrivo di altre scosse vengono decrittati in questo modo: «D'Alema sta facendo come Cavour durante la guerra di Crimea. Il conte piemontese inviò poche divisioni contro i russi solo per sedersi successivamente al tavolo dei vincitori. Il leader del Pd sta facendo lo stesso. Il suo contributo è minimo ma alla fine gli consentirà di partecipare alla trattativa».
Solo scenari? Può darsi. Certo è che, da destra, un pesante attacco al Corriere di de Bortoli è già arrivato l'altro giorno, alla vigilia dell'ultima puntata di Tarantini: i 650 milioni di euro chiesti da Angelo Rizzoli a chi, secondo lui, gli portò via il giornale senza tanti complimenti all'epoca della P2. Oggi la moglie di Rizzoli è una parlamentare del Pdl. Infine, martedì sera a tavola, Berlusconi avrebbe confidato ai suoi commensali di essere sicuro che i discorsi di Fini vengano pensati e scritti da autorevoli giornalisti del Corriere, compreso l'ex direttore Mieli. Insomma, è tornato il Corriere.

Liberazione 9.9.09
Buttiglione: «Con Fini leader possibile alleanza, ma con Silvio guardiamo a sinistra»
Intervista di Angela Mauro


Presidente Buttiglione, partiamo da Berlusconi, secondo cui "la libertà di stampa è diventata libertà di calunniare". E' così?

E' vero da una parte e dall'altra. Adesso è proibito essere neutrali. Uno come Boffo ha espresso giudizi oggettivi, diveva bene o male senza schierarsi pregiudizialmente. Feltri invece non ha avuto il mandato di condurre una campagna acerba, ma il compito di colpire il centro. E' significativo che non abbia cominciato da Repubblica, bensì dall' Avvenire commettendo un errore gravissimo. Su Berlusconi c'è un profondo disagio nel popolo cristiano. La Chiesa ha il diritto-dovere di giudicare i fatti che accadono. Quello di Feltri contro Boffo è stato un attentato alla libertà della Chiesa perchè una società è libera quando i peccatori hanno diritto di peccare e i parroci hanno diritto di replica. L'impressione è che ora si voglia fare terra bruciata: o si coincide con le posizioni di Berlusconi o si viene trattati peggio dei nemici.


Dunque, la mossa di Feltri contro Fini, "il laico del Pdl" con le sue posizioni sulla bioetica, non era un tentativo di riavvicinamento al mondo cattolico?
Non credo che Fini venga attaccato per questo, piuttosto perchè è l'eredità migliore di Almirante. Fini crede nella democrazia parlamentare e nel dialogo con l'opposizione, non in una democrazia plebiscitaria che tratti il confronto in Parlamento come perdita di tempo. Non accetta una mentalità da capo azienda. L'attacco contro di lui nasce in questa prospettiva non nell'altra. Io potrei attaccarlo sulla bioetica e mi auguro di non doverlo fare nella discussione sul testo sul "fine vita" alla Camera. 

E' evidente la sua vicinanza a Fini, si conferma la distanza con Berlusconi. Tutto come prima? Nessun riavvicinamento al Pdl?

Noi andiamo avanti per il nostro cammino, più ci allontaniamo più la gente ci capisce e maggiori consensi prendiamo. Però, per onestà, dico la
verità: Fini non è attaccato per la bioetica, ma perchè è uomo democratico. Nel precedente governo Berlusconi c'era equlibrio tra le pulsioni decisioniste e la Costituzione, tra la Lega e le altre posizioni. Adesso si è perso. Prima la Lega sparava le sue boutade, noi e Fini ci indignavamo, Berlusconi mediava. Ora Berlusconi ha cacciato tutti quelli che potevano equilibrare la Lega: me, Casini, Fini; resiste ancora Cicchitto, Pisanu è silente, Letta è in grande imbarazzo perchè l'attacco a Boffo era anche un attacco a lui.


Berlusconi ha appena ufficializzato la ricandidatura di Formigoni a governatore lombardo. Tenta di arginare le smanie leghiste. Vi alleate con il Pdl in Lombardia?

E' un buon segnale. Sulle alleanze decidono i lombardi. Mettiamola così: se il candidato non è Formigoni, non se ne parla di alleanze. 

Chi ha più paura del "Nuovo centro", il Pdl o il Pd?

Il Pdl si è scagliato con violenza contro Boffo. Adesso siamo in una fase paragonabile a quella dell'Opera dei Congressi prima che don Sturzo fondasse un partito per rappresentare l'area cattolica. Oggi il 40% dell'elettorato cattolico è incerto, dopo le delusioni di Berlusconi e di Prodi. E il calo di fiducia per Berlusconi è in atto da tempo - checchè ne dicano i suoi sondaggi - sui temi della difesa della vita, sui temi sociali...


Cosa si aspetta da Fini nel passaggio alla Camera del testo sul "fine vita"?

Imparzialità, che si ricordi che quel testo è stato già approvato dal Senato e quindi ha già una sanzione di sovranità del popolo. Si comporti da presidente di tutti.


Pd: la discussione congressuale mette più in luce la parte laica del partito, l'anima cattolica appare sottotono. Sempre più distanti?

Dico che una coalizione per battere Berlusconi dovrebbe essere formata da un forte partito di centro e un grande partito socialista, con una corrente maggioritaria riformista e una massimalista ma con cultura di governo e autocritica rispetto al marxismo, che è morto anche se non tutto, per esempio il movimento operaio è vivo con modalità diverse. Ci ha rovinato Prodi che ha voluto costringere, in un unico partito, cattolici e comunisti... 

Beh, anche Veltroni...

L'origine prima è stato Prodi. E' ora di mettere in libertà le forze di centro bloccate lì dentro. E la sinistra non rinunci alla giustizia sociale in nome della rivoluzione dei costumi, sennò con noi niente alleanze e gli operai continueranno a votare Lega.


Un Fini dove lo colloca?

Fini pensa ad un tipo di centrodestra con cui, se si realizzasse, il centro potrebbe allearsi. Ora la destra presenta un macigno che si chiama cultura decisionista: Berlusconi. Comunque, per le regionali decideremo caso per caso, a livello nazionale vedremo.


Berlusconi non escluderebbe le elezioni anticipate.
Non sta a lui sciogliere le Camere, ma stia attento: chi chiama alle elezioni anticipate di solito le perde, sono una forzatura. Salvo errori gravi, non è il caso di un voto anticipato.

l’Unità 10.9.09
La Congregazione per l’educazione cattolica: «Studio di diverse fedi creerebbe confusione»
Messa in discussione la sentenza del Tar del Lazio: «I figli devono seguire la fede dei genitori»
Ora di religione La Santa Sede «Sia quella cattolica»
L’ora di religione «cattolica» non si tocca. Non può essere sostituita da insegnamenti «multiconfessionali». All’apertura dell’anno scolastico il Vaticano dà la linea a tutte le conferenze episcopali, non solo alla Cei.
di Roberto Monteforte


All’ora di religione «cattolica» nelle scuole il Vaticano non intende proprio rinunciare. È troppo importante quel «contatto» formativo con le giovani generazioni, e non solo in Italia. All’inizio dell’anno scolastico la Santa Sede pone ufficialmente il problema. Davanti alle esigenze poste da società sempre più multietniche e plurireligiose che hanno messo in discussione «la natura e il ruolo dell’insegnamento della religione nella scuola» mette le mani avanti. Fa muro contro le tendenze a sostituirlo con insegnamenti multiconfessionali sul fatto religioso o di etica e cultura religiosa. Con una «lettera circolare» sull’insegnamento della religione nella scuola, inviata il 5 maggio dalla Congregazione vaticana per l’Educazione Cattolica dà la linea alle «conferenze episcopali» dei paesi di tradizione cattolica o dove i cattolici sono minoranza. «Il rispetto della libertà religiosa esige la possibilità di offrire agli alunni nelle scuole pubbliche e private un’educazione religiosa coerente con la loro fede» puntualizza il documento che reca le firme del cardinale Zenon Grocholewski e monsignor Jean-Louis Brugues, prefetto e segretario della Congregazione. Il punto è quello della libertà religiosa e di indirizzo educativo dei giovani cui sono «primi responsabili» i genitori. «I diritti dei genitori sono violati insiste la lettera se i figli sono costretti a frequentare lezioni scolastiche che non corrispondono alla persuasione religiosa dei genitori o se viene imposta un’unica forma di educazione dalla quale sia completamente esclusa la formazione religiosa». Da qui lo sbarramento anche verso un insegnamento «limitato ad un’esposizione delle diverse religioni comparativo o neutro». «Potrebbe creare confusione o generare relativismo o indifferentismo religioso». Il punto è chiaro: in Italia ed anche altrove, non deve essere messo in discussione quell’insegnamento che non presuppone l’adesione alla fede, ma «intende trasmettere le conoscenze sull’identità del cristianesimo e della vita cristiana». Si chiede abbia «lo status di disciplina scolastica», con la stessa esigenza di sistematicità e rigore che hanno le altre discipline» e deve svilupparsi in «necessario dialogo interdisciplinare». La Chiesa ribadisce pure la sua prerogativa di stabilire i contenuti autentici dell'insegnamento della religione cattolica nella scuola». Che è poi quanto prevede il Concordato tra l’Italia e la Santa Sede ratificato nel 1984.
Scatta immediato l’allineamento del ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini: «Condivido questa posizione e credo che nel nostro paese questo avvenga regolarmente». «L’ora di religione aggiunge non deve essere un’ora di catechismo, ma sicuramente un’ora in cui si insegna la religione cattolica».
Chiude così in modo sbrigativo un confronto sulla laicità dello Stato e sull’uguaglianza dei diritti dei cittadini non cattolici che ha portato alla recente sentenza del Tar del Lazio proprio sulla rilevanza dell’insegnamento della religione cattolica nella valutazione degli studenti. Che quell’insegnamento non debba essere strettamente confessionale lo pensa anche il sindaco di Venezia Massimo Cacciari e la moderatora della Tavola Valdese, pastora Maria Bonafede. Le comunità islamiche in Italia, con l’Ucoii chiedono che all’ora di religione cattolica ne sia affiancata una di storia delle religioni, gestita dalle stesse comunità. Il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni osserva che nella Italia a maggioranza cattolica «è giusto insegnare a scuola questa confessione», ma che non deve essere discriminato chi chiede l’esenzione.❖

Corriere della Sera 10.9.09
L’ex presidente Cei presenta il suo libro a Milano
Ruini e il «diritto di influire» «La fede ha un ruolo pubblico»
di Paolo Foschini


MILANO — «Tutte le reli­gioni, compreso naturalmen­te il cristianesimo, hanno di per sé non minori titoli che ogni altra realtà o fenomeno sociale a influire sulla scena pubblica, ivi compresa la di­mensione propriamente poli­tica ». La frase è dell’ex presi­dente dei vescovi italiani, car­dinale Camillo Ruini. Aveva già detto qualcosa di simile pochi giorni fa a Cernobbio. Ieri ha voluto ripetere il con­cetto, e alla luce delle ultime polemiche tra Chiesa e politi­ca non deve essere un’insi­stenza casuale. Specie per­ché, attenzione ai termini, Ruini non si limita a richiama­re un diritto della Chiesa a parlare di politica: il titolo ri­vendicato è quello di «influi­re ». Certo, nel «rispetto delle regole democratiche»: e quin­di senza nessun bisogno di «speciali condizioni». E gli unici a poter decidere se e quanto la Chiesa sia «convin­cente » o meno, alla fine, so­no «i cittadini». In che modo? Con il voto, chiarisce Ruini.
L’ex presidente della Cei ha pronunciato il suo intervento a Milano presentando il libro Confini , scritto insieme con il politologo Ernesto Galli della Loggia, nell’ambito di un in­contro pubblico organizzato dall’associazione Sant’Ansel­mo su «La nuova laicità» e in particolare sui rapporti tra re­ligioni, laici e politica: in altre parole il tema del «ruolo pub­blico delle religioni» e delle «condizioni alle quali posso­no eventualmente esercitar­lo ». C’erano tra gli altri il di­rettore dell’Osservatore Ro­mano Giovanni Maria Vian, il rettore dell’Università Cattoli­ca Lorenzo Ornaghi, il presi­dente di Rcs libri Paolo Mieli nella sua veste di storico.
Ruini l’ha presa molto dal­­l’alto, a cominciare dall’inter­rogativo fondamentale sul­l’esistenza di Dio: credenti e non credenti — dice in sinte­si — danno naturalmente ri­sposte diverse alla domanda sul senso del mondo. Ma su certe cose esiste comunque un «consenso sostanziale, an­che se spesso mascherato da polemiche piuttosto strumen­tali ». Tra i punti di consenso ormai raggiunti c’è senz’al­tro, sottolinea il cardinale, l’affermazione della «libertà religiosa» specie dopo «la svolta operata dal Concilio Va­ticano II rispetto alle posizio­ni precedenti della Chiesa in materia». Lo scontro vero è tra chi vorrebbe «ridurre il ruolo pubblico delle religioni sin quasi a sopprimerlo», in nome di una religiosità esclu­sivamente «privata, spiritua­le, intima», e chi invece quel ruolo «pubblico, sociale, isti­tuzionale » lo ritiene essenzia­le. È una divisione oggi «tra­sversale », nota Ruini: «Tra i cattolici si trovano non pochi sostenitori di una religiosità spirituale che sono facilmen­te critici nei confronti delle re­ligioni, mentre fra i laici sono numerosi quelli che un tale ruolo pubblico delle religioni non solo lo riconoscono ma lo auspicano».
«Il mio punto di vista è che non vi è ragione — chiude il cardinale — di porre alle reli­gioni particolari condizioni per esercitare un ruolo pub­blico, meno che mai quelle ri­guardanti la razionalità del lo­ro argomentare». Perché la valutazione se un «argomen­tare » sia «razionale, o plausi­bile, o convincente, è affidata in ultima analisi alla generali­tà dei cittadini nelle sedi ap­propriate: anzitutto quelle elettorali».

Repubblica 10.9.09
Ora di religione il Vaticano vuole lo Stato catechista
di Adriano Prosperi


Che fra i tanti problemi dell´Italia di oggi si debba porre in evidenza – ancora una volta – quello dell´ora di religione potrà sembrare un lusso da laicisti incalliti. E invece è probabile che proprio in questo dettaglio si trovi un bandolo dell´imbrogliata matassa italiana. Vediamo. Nel testo della lettera inviata dal prefetto della Congregazione vaticana per l´educazione cattolica ai presidenti delle conferenze episcopali si affermano punti secchi e precisi: 1. l´insegnamento della religione non può essere «limitato ad un´esposizione delle diverse religioni, in modo comparativo o neutro», ma deve concentrarsi nell´insegnamento della religione cattolica.
2. Il potere civile «deve riconoscere la vita religiosa dei cittadini e favorirla»; ma uscirebbe dai suoi limiti se presumesse di «dirigere o di impedire gli atti religiosi». Dunque «spetta alla Chiesa stabilire i contenuti autentici dell´insegnamento della religione cattolica nella scuola» garantendo così genitori e alunni che quello che viene insegnato è proprio il cattolicesimo.
Questa direttiva può essere letta da molti punti di vista: se ne ricava intanto un´idea di quanto scarsa sia l´autonomia dei vescovi e delle loro conferenze nazionali nel governo religioso dei fedeli cattolici. Il Concilio Vaticano II aveva segnato un momento di svolta rispetto all´avanzata del potere delle congregazioni vaticane, veri ministeri centralizzati capaci di ridurre i vescovi a obbedienti impiegati di concetto. Ma poi la Curia ha ripreso la sua marcia. Con qualche vittima e con evidenti conflitti tra figure dell´episcopato e mondo vaticano, come quelli intravisti nell´episodio dell´aggressione al direttore di «Avvenire» e delle sue dimissioni.
Oggi il capo del governo italiano si prepara a pagare alla dirigenza vaticana della Chiesa un prezzo tanto più salato in termini di limitazione o erosione dei diritti costituzionali quanto più logora appare la sua rappresentatività allo sguardo non offuscato dalla propaganda mediatica: dichiarare – come ha fatto Berlusconi – che quelle relazioni sono «eccellenti» significa solo che il debitore si impegna a pagare qualunque prezzo. Oltre al testamento biologico avremo dunque sempre più uno Stato catechista, anzi uno Stato chierichetto. Perché una cosa di cui il cardinale Grocholewski sembra non rendersi conto è questa: che quel pericolo di uno Stato che presuma di dirigere o di impedire atti religiosi è proprio ciò che la sua lettera tende a realizzare e che in Italia già esiste.
Non potremmo definire altrimenti lo Stato obbediente che a) impone nelle sue scuole pubbliche l´insegnamento di una sola e specifica religione; b) fa svolgere quell´insegnamento da persone scelte dall´autorità ecclesiastica; c) si prepara a garantire a quell´insegnamento la stessa autorevolezza delle altre discipline scolastiche e la stessa remunerazione in crediti, in barba alla sentenza del Tar del Lazio, assicurando che questa ora di religione ha «la stessa esigenza di sistematicità e di rigore che hanno le altre discipline». Noi non vogliamo negare che lo studio delle dottrine cattoliche possa avere sistematicità e rigore. In popoli che il caso geografico e le svolte storiche hanno lasciato più lontani di noi da Piazza San Pietro ci sono eccellenti facoltà di teologia cattoliche sorte per emulazione accanto a quelle protestanti. Qui, come ben sa l´attuale pontefice che ne è stato un docente, le questioni dottrinali dell´intricato sistema di segni e di concetti elaborato nel corso di millenni vengono dottamente discusse seguendo le regole della ricerca intellettuale: conoscenza critica dei testi, rigore di analisi. Ma nell´insegnamento scolastico di cui qui si tratta abbiamo solo la distribuzione di verità in pillole per lottare contro i pericoli sommi evocati dalla lettera cardinalizia di cui sopra: «creare confusione o generare relativismo o indifferentismo religioso».
Tra l´esercizio dell´intelligenza aperta e ancora fresca delle menti giovanili e l´obbligo di inculcare certezze, tra la libera ricerca del vero e l´apologetica di una religione c´è un abisso. Quale sia poi l´effetto di questa dimensione catechistica sulla vita religiosa di un popolo è la storia a dircelo. Da secoli, in un modo o nell´altro, con una breve parentesi di scuola laica nell´Italia dello Statuto albertino, gli italiani imparano il catechismo cattolico, da quello di San Roberto Bellarmino in poi. Ebbene, quale sia lo stato della religione degli italiani è sotto gli occhi di tutti. Non parliamo solo di conoscenza: ché qui l´abisso è grande come sanno i pochi volenterosi che tentano ogni tanto di diffondere la conoscenza della Bibbia. Parliamo di morale, quella dei Vangeli cristiani e del decalogo ebraico. Parliamo della capacità cristiana di testimoniare la fede in faccia al potere. L´Italia non ha conosciuto martiri se non quelli creati dal potere ecclesiastico. Ha conosciuto ipocriti, eredi di di ser Ciappelletto e di Tartufo. Nel paese dove un tempo fiorivano i marxisti immaginari, oggi pullulano i convertiti religiosi. «Franza o Spagna, purchè se magna», si diceva nel ‘600.

l’Unità 10.9.09
Allarme violenza. Donne all’inferno
di Umberto De Giovannangeli


Nel mondo 140 milioni di vittime. Da Occidente a Oriente stupri e molestie senza confini. La famiglia continua a essere luogo di orrori e umiliazioni: 50mila omicidi all’anno commessi da parenti stretti. L’Italia maglia nera: in sette milioni hanno subito abusi. I racconti drammatici delle afghane

Picchiate, terrorizzate, vendute, violentate, umiliate. Un mondo rosa segnato dai più terribili crimini. Spesso impuniti, se non giustificati da codici vergognosi e da società patriarcali che considerano la donna molto meno di un oggetto. Dati agghiaccianti, testimonianze sconvolgenti, denunce argomentate: sono il sale della Conferenza internazionale sulla violenza contro le donne promossa dall’Italia come presidente di turno del G8 apertasi ieri alla Farnesina. I dati, innanzitutto: ripresi nel suo intervento dalla ministra per le Pari Opportunità Mara Carfagna. Centoquaranta milioni: sono le donne vittime nel mondo di abusi fisici, psicologici e sessuali. Una violenza diffusa, un terribile filo rosso-sangue che unisce Oriente a Occidente, democrazie «evolute» a regimi teocratici e sessuofobici. E non è certo l’istituzione-famiglia a far argine alla violenza contro le donne. È vero il contrario.
Non solo cifre. Violenza e orrori si consumano nella maggior parte dei casi tra le mura domestiche: 50mila donne sono uccise ogni anno da parenti stretti, molti dei quali riescono a farla franca perché coperti da codici retrivi, come quello sui «delitti d’onore» che vige ancora in decine di Paesi in Africa, Asia, Medio Oriente.
Dietro ognuna delle 140 milioni di donne vittime di abusi e violenze, di stupri domestici e di stupri di guerra, c’è un volto, una storia, spesso il tentativo eroico, pagato con la morte, di ribellarsi ai propri aguzzini. Il loro sacrificio ha generato ribellione, ha portato altre donne, in Africa, in Asia, nella civilizzata Europa, a essere protagoniste di straordinarie battaglie di libertà. Alcune di loro sono presenti a Roma. Presenti anche per quelle donne che sono divenute il simbolo di una battaglia di civiltà e che hanno pagato per questo un prezzo altissimo: con gli arresti domiciliari che si protraggono da anni, la premio Nobel birmana Aung San Suu Kyi, o ancor peggio con la morte, Neda Salehi Agha-Soltani, la studentessa iraniana uccisa dai miliziani, divenuta il simbolo dell’«Onda verde» di Teheran. Il loro vissuto, la loro determinazione sono una goccia di speranza. Una goccia in un mare putrido. Quello che l’Organizzazione Mondiale della Sanità sintetizza in questo dato: almeno una donna su cinque nel mondo è stata vittima di abusi fisici o sessuali; una su quattro è stata maltrattata da un partner o ex partner; quasi tutte le donne hanno subito una o più molestie di tipo sessuale: telefonate oscene, esibizionismi, molestie sul lavoro. Statistiche della Banca Mondiale segnalano che per le donne da i 15 ai 44 anni, il rischio di subire violenze domestiche o stupri è maggiore del rischio di cancro, incidenti o malaria.
La famiglia è un luogo a rischio per le violenze alle donne, ma il 93% degli abusi sessuali perpetrati dai partner (il 67%) non sono denunciati. Si tratta di un fenomeno in crescita, come in crescita è il numero delle spose bambine (8-14 anni): oggi sono oltre sessanta milioni. Un universo di dolore e di rivolta che ha il volto, le parole, le lacrime di Isoke Aikpitanyi, nigeriana, 30 anni. Alla platea della Conferenza di Roma, Isoke racconta la drammatica esperienza del terribile viaggio dalla Nigeria, del suo arrivo in Italia, delle violenze di cui è oggetto da parte di donne connazionali (maman) e di uomini che la impongono sulla strada. «La prima violenza che si subisce dice è proprio quella delle maman che trattano le altre donne come serve. In Africa fra le donne c’è solidarietà, in Europa diventano carnefici». Isoke parla delle violenze subite, della famiglia che «fa finta di niente e che ci chiede soldi. Spesso si scappa da un inferno che non è peggiore di quello che si trova. Ciò che pesa tanto è il giudizio pubblico, il fatto che vedendoci sulle strade, magari mezze nude, si pensi che tutto ciò sia voluto da noi». La storia di Isoke Aikpitanyi è a lieto fine. Nel 2003 incontra un cliente che poi l’aiuterà a trovare il coraggio di scappare dai suoi aguzzini e che diventerà suo marito. Ma per una storia a lieto fine ve ne sono mille altre dall’esito opposto.
L’Italia alla sbarra. Di questo universo di violenza sopraffazione, abusi contro le donne, l’Italia è parte integrante. Nel nostro Paese sette milioni di donne hanno subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita. Di queste (dati Istat) 2 milioni e 938 mila hanno subito violenza dal partner o dall’ex. Il rapporto dell’Istat sottolinea come «nella quasi totalità dei casi le violenze non sono denunciate; il sommerso è elevatissimo e raggiunge circa il 93% delle violenze da un partner, ed inoltre, è consistente anche la quota di donne che non parla con nessuno delle violenze subite (33,9% per quelle subite dal partner)».
Storie personali s’intrecciano con la tragedia di un popolo. È il caso dell’Afghanistan: «Le donne sono le vere vittime della guerra che da decenni sconvolge il mio Paese e sono state discriminate sia sotto il governo dei talebani che, precedentemente, dei mujahiddin». Due movimenti estremisti, che «impedivano con la forza alle ragazze di frequentare le scuole», denuncia Nasima Rahmani, coordinatrice del programma ActionAid per i diritti delle donne in Afghani-
stan. «Io stessa racconta non ho potuto studiare fino all’età di nove anni e ho impiegato ben 13 anni per potermi laureare in legge perché i talebani ci obbligavano a rimanere in casa». Con la caduta del regime del mullah Omar, aggiunge Nasima, «l’accesso all’istruzione è diventato più facile, anche se ancora oggi meno di un terzo degli iscritti a scuola in Afghanistan è donna». La violenza contro le donne è anche questo: negar loro il diritto all’istruzione. A ricordarlo è anche la yemenita Shada Nasser, l’avvocata che ha difeso le «spose bambine» nelle cause di divorzio: il problema dello Yemen, dice, «è la povertà e l’analfabetismo. Rivendicazioni di libertà che cominciano a far breccia anche nelle realtà più chiuse. Samar Al Mogren, giornalista dell’Arabia Saudita, sottolinea che nonostante nel suo Paese il percorso per l’emancipazione sia partito tardi ora sta andando avanti in modo spedito. Lì le donne non possono ancora guidare l’auto e per recarsi all’estero hanno
bisogno del permesso scritto del marito (come è capitato a lei) ma, ad esempio, sul fronte dell’informazione, rileva, «si iniziano a vedere spiragli interessanti». «La violenza contro le donne è un fenomeno trasversale a tutti i Paesi e
a tutte le classi sociali» sostiene con decisione Mufuliat Fijabi, rappresentante dell’Ong nigeriana Baobab. «Ci sono violenze in presenza di tutte le religioni, in tutto il mondo – le fa eco Sayran Ates, avvocata turca che vive in Germania dove ricopre incarichi direttivi nella Conferenza islamica tedesca. Il problema viene dal fondamentalismo. L’Islam ha bisogno di una rivoluzione sessuale. Bisogna dare alle donne i propri diritti e parlare di sessualità, libera e non discriminata».❖

l’Unità 10.9.09
Le associazioni criticano il summit: «Solo parole, il governo stanzi fondi»


L’aveva anticipato nei giorni scorsi in un’intervista a l’Unità. Lo ha ribadito ieri: Quella promossa dall’Italia è una Conferenza «inutile, non c’è alcuna proposta concreta. La violenza alle donne non si combatte con i braccialetti ma con progetti e programmi. E poi qui non sono rappresentati i Movimenti delle donne». Assenza denunciata anche dall’Udi. Così Daniela Colombo, presidente di Aidos, una ong che realizza programmi di cooperazione allo sviluppo per i diritti delle donne. Colombo critica «la mancanza di continuità con il passato» che inficia i risultati degli interventi contro la violenza, «qui ognuno parla per conto suo, dice qualcosa, ma senza una proposta concreta. Domani (oggi, ndr) vedremo il documento ma per ora non c’è nulla di concreto».
La presidente dell’Aidos sottolinea che la violenza contro le donne si combatte con programmi educativi sin dall’infanzia e con interventi nel sistema sanitario («ci sono manuali dell’Onu su questo») e poi c’è la questione delle risorse: «L’Italia denuncia Daniela Colombo quest’anno ha dato appena 500mila euro alle agenzie dell’Onu come Unifem e Unfpa, contro i 4 milioni dello scorso anno e i 50 milioni della Spagna».
Cifre che inchiodano il governo Berlusconi a impegni assunti e non mantenuti. A parole senza fatti. Un classico del Cavaliere. U.D.G.

l’Unità 10.9.09
Scuola, il decreto «salva precari» lascia fuori 13mila lavoratori
di Ma. Ier.


«Dalle parole del minsitro non risulta chiaro chi siano i destinatari del provvedimento. Preoccupante il silenzio sul personale Ata». È l’allarme di Mimmo Panteleo della Flc Cgil sul provvedimento adottato ieri.

Contratti di disponibilità. I docenti precari rimasti senza lavoro e stipendio non fermano le occupazioni e i presidi in tutt’Italia. Dopo le proteste sui tetti e il presidio anche notturno sotto l’Istruzione, il governo ha varato in consiglio dei ministri la norma che consente di tutelare gli insegnanti precari. Il provvedimento, che è inserito nel decreto legge Ronchi (che in realtà riguarda l’ambiente) interesserà però circa 12 mila docenti che fino allo scorso anno hanno avuto supplenze annuali. I precari diventati «invisibili» sono invece oltre 25mila. Ben 13mila persone quindi restano all’asciutto di tutto. In particolare tra gli aiuti ai precari non vengono menzionati gli Ata: bidelli e personale scolastico di segreteria. Ma il ministro Gelmini questo non lo dice, lo nasconde. Preferisce dire che la Finanziaria «prevedeva un taglio di 43.000 Posti. Di questi 30.000 si sono liberati attraverso i pensionamenti. Restano 12-13.000 insegnanti che hanno il diritto all’indennità di disoccupazione». Senza però diffondere il testo dell’intesa raggiunta a Palazzo Chigi.
LA VIA «PREFERENZIALE»
Con questo provvedimento questi insegnanti potranno avere, secondo la versione del ministro, una via preferenziale per rimanere all’interno della scuola, attraverso le supplenze brevi, e potranno essere coinvolti in progetti educativi: contro la dispersione scolastica, il sostegno ai soggetti più deboli, o per l’orientamento. Secondo il ministro Gelmini con questa norma, inserita in un decreto legge e quindi immediatamente efficace, «il governo ha mantenuto un impegno preciso e importante che anche i sindacati aspettavano con ansia». Ora si procederà con accordi con le Regioni, le quali hanno già preso posizione: «No ad accordi bilaterali tra singoli governatori e il ministero dell’Istruzione sui temi della scuola e i precari». Il riferimento è all’intesa raggiunta nei giorni scorsi con la Lombardia di Formigoni.
I sindacati che chiedono un piano per le immissioni in ruolo, si dicono soddisfatti a metà. Più agguerrita fra tutte è la Flc-Cgil. «Il governo non ha accolto nessuna delle richieste sindacali ha detto Mimmo Pantaleo La proposta dei contratti di disponibilità resta fumosa, insufficiente e iniqua. Dalle parole del minsitro non risulta chiaro chi siano i destinatari del provvedimento. Preoccupante il silenzio sul personale Ata».
Anche i Comitati inseganti precari ribadiscono la loro contrarietà ai contratti di disponibilità: «Non risolvono l’emergenza, sono solo un palliativo con un parziale mantenimento del reddito». I docenti in presidio sotto il ministero dell’Istruzione lo gridono forte nei megafoni: «Restano fuori dal provvedimento del governo i docenti che hanno avuto incarichi dai presidi e non con l'assegnazione annuale, e tutti coloro che hanno maturato un anno di servizio tra diverse scuole insegnando materie diverse».❖

l’Unità 10.9.09
Cobas in piazza il 23 ottobre


Il 23 ottobre i Cobas saranno in piazza a Roma contro i tagli del governo sulla scuola. «I provvedimenti del ministro Mariastella Gelmini sui precari «sono inspiegabili e inutili». perché «i costi pagati dall’Inps e dalla pubblica istruzione per indennità e supplenze sono sostanzialmente sovrapponibili al costo del rinnovo
del contratto annuale per gli oltre 19.000 docenti e 7.000 ATA». Lo dice l’ex ministro all’istruzione Giuseppe Fioroni, responsabile del dipartimento educazione del Pd. «La misura annunciata dal ministro è un’indegna presa in giro», tuona Mariangela Bastico, responsabile scuola del Pd. Mentre Manuela Ghizzoni (capogruppo Pd in commissione Cultura alla Camera) traduce così il provvedimento: «Non c’è incremento dell’indennità già prevista mentre ci preoccupa il tentativo di spezzare il fronte dei precari creando una fascia di serie A ed una di serie B. La prima, secondo criteri da chiarire, beneficerà della disoccupazione e della possibilità di insegnare attraverso le supplenze brevi di istituto, la seconda sarà costituita dai precari più giovani che fino ad oggi hanno vissuto proprio con le supplenze brevi: per loro Gelmini può promettere solo zero ore a zero euro». ❖

l’Unità Firenze 10.9.09
«È il licenziamento più grande della storia d’Italia», protestano i docenti rimasti senza lavoro
Precari in rivolta occupano il provveditorato di Pisa
di Buti Casagrande


Salteranno 178 cattedrea Pisa,141 a Livorno e 370 a Firenze, senza contare gli amministrativi
A pochi giorni dal rientro in aula dilaga in Toscana la protesta dei precari della scuola. Dopo l’occupazione dell’Ufficio scolastico ieri a Pisa, oggi si manifesta a Livorno e domani la nuova Onda raggiungerà Firenze.

In Toscana la riforma Gelmini ha fatto fuori 1712 insegnanti. Lunedì, quando suonerà la prima campanella del nuovo anno scolastico, rimarranno tutti a casa con le braccia incrociate, e non per scelta. Ieri alcuni di loro, insieme al personale amministrativo, si sono alzati presto e si sono dati appuntamento in via Pascoli, nel centro di Pisa, dove sorge il provveditorato. E lo hanno occupato per tutto il giorno.
OCCUPAZIONE
Circa cento persone della Rete dei precari della scuola di Pisa si sono fermate fino a sera inoltrata nell’atrio dell’Ufficio scolastico provinciale. Il presidio era già stato annunciato nei giorni scorsi. Ma dopo il colloquio con uno dei dirigenti del provveditorato, i precari sono saliti e hanno occupato le stanze. Si sono sistemati con sedie e scrivanie, pc alla mano e volantini. Il via vai non si è fermato un minuto. Molti passanti si sono affacciati a dare la loro solidarietà, incuriositi dallo striscione a caratteri cubitali che svettava dal balcone del palazzo occupato a due passi da Corso Italia, nel cuore della città: “Scuola tagliata, ignoranza assicurata”. E non è mancata la Digos a fare compagnia agli occupanti. «Siamo qui contro il licenziamento più grande della storia d'Italia, per chiedere che i tagli previsti siano azzerati e chi sia avviato un piano di immissioni in ruolo nei posti vacanti» dice Daniele Ippolito, rappresentate della Rete, che ha ricevuto il sostegno dei Cobas scuola e del Comitato dei genitori. I dati sono quelli ormai famosi: a livello nazionale verranno mandati a casa 42 mila docenti e 15 mila Ata, il personale tecnico amministrativo. I tagli della 133 a Pisa cancellano 269 posti di lavoro: 178 docenti, 91 Ata. Tra loro c’è E.R, una insegnante di 40 anni che ieri ha dovuto lasciare l’occupazione per andare in cerca di un posto: dopo dieci anni di precariato alle medie, da lunedì sarà disoccupata. Come Andrea Moneta, che vanta sul curriculum una laurea e un dottorato in filosofia, l’abilitazione all’insegnamento e la specializzazione per il sostegno. La Gelmini ha tolto il lavoro anche a lui. Ma i dolori arriveranno anche per i bambini e i ragazzi, dalle elementari in su, che si ritroveranno più numerosi e stretti come sardine in classi tagliate nel numero e prive di laboratori, tempi pieni e compresenze «in barba alle logiche della didattica e alle norme sulla sicurezza, con classi di oltre 34 persone» dice Ippolito. Alle materne di Pisa ci sono stati i problemi più grandi ma la Regione ci ha messo una pezza da 1,6 milioni e ha salvato le classi in cinque scuole da Bientina a Ponsacco. Oggi, dopo il blitz di ieri al provveditorato, i precari pisani si dirigono verso gli istituti scolastici. «Andremo a chiedere ai docenti di ruolo di non accettare le ore di supplenza su spezzone orario, sette ore al massimo in una settimana che potrebbero essere invece assegnate ai precari» dice Ippolito.
PROSSIME MOSSE
Nel pomeriggio la protesta si sposterà a Livorno: appuntamento alle 14.30 in piazza Vigo per presidiare, anche qui, il provveditorato. Nella città labronica saranno 141 le cattedre a saltare e per gli alunni disabili e stranieri ci saranno ben 11 insegnanti di sostegno in meno rispetto l’anno scorso. Numeri ancor più preoccupanti quelli relativi alla Provincia fiorentina, dove tra docenti ordinari e di sostegno si arriva a quota 370 e si dovrà fare a meno anche di 130 addetti tecnici e amministrativi, a fronte di un aumento di oltre 1880 studenti. «Praticamente 26 classi in più», spiega Alessandro Rapezzi della Flc Cgil, che invita tutti i precari della scuola a partecipare all’assemblea provinciale convocata per martedì 29 settembre presso la sede del sindacato. Intanto domani mattina anche la Cgil parteciperà, insieme a Cobas e Gilda, al sit in davanti all’Ufficio scolastico indetto dal Tavolo regionale della Toscana per la Difesa della scuola statale, una sigla nata l’autunno scorso per protestare contro la legge Gelmini e che riunisce numerose associazioni e forze politiche: il Pd della Versilia e le liste di sinistra alternative al Pd (Prc, Pdci, Verdi, Perunaltracittà), l’Unione atei agnostici, l’associazione “Per la scuola della Repubblica”, il Collettivo insegnanti precari e inoccupati Cipì, il Comitato genitori-insegnanti di Firenze e tanti altri. Il ritrovo è fissato per le dieci in via Mannelli 113. ❖

Repubblica 10.9.09
Gli immigrati e la cittadinanza
di Gad Lerner


A furia di inseguire consensi promettendo "meno stranieri" Berlusconi e Bossi rifiutano l´idea che possano esserci "più italiani" e "nuovi italiani". La loro idea di italianità è ferma agli anni Trenta

Se un cittadino dalla pelle non perfettamente candida aspirasse a incarichi politici in Italia, sarà meglio che ci ripensi. «Non vorrei tra cinque anni e un mese trovarmi un presidente abbronzato», ha dichiarato Roberto Calderoli l´altra sera a Treviso.
Il ministro leghista si era già distinto per un´analoga sortita nei confronti della sua concittadina italiana Rula Jebreal. Imitato dal presidente del Consiglio che rivolse la stessa «carineria» a Barack Obama. Tali affermazioni desterebbero scandalo se pronunciate da uomini di governo in qualsiasi altro paese occidentale. E delineano, all´interno della maggioranza di centrodestra, una spaccatura su principi della massima rilevanza per il futuro della nostra democrazia. Chi ha diritto a essere considerato italiano, e quali devono essere le procedure di ottenimento della cittadinanza?
La proposta di legge che divide la destra è stata presentata in Commissione Affari Costituzionali da Fabio Granata (Pdl) e da Andrea Sarubbi (Pd). Le modifiche mirano ad abbreviare da dieci a cinque anni il periodo di residenza continuativa necessario per ottenere il passaporto italiano a un immigrato che dimostri inoltre stabilità di reddito e una sufficiente conoscenza della lingua. Granata e Sarubbi propongono ancora che venga naturalizzato il minore nato in Italia da stranieri, se uno dei genitori vi soggiorna da cinque anni; così come il minore che abbia completato un percorso scolastico nel nostro paese.
Quando poi il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha ribadito la sua idea di attribuire il diritto di voto amministrativo agli stranieri residenti da almeno cinque anni sul territorio nazionale, Umberto Bossi ha reagito dandogli del «matto». Ma più pesante ancora giunge il no di Silvio Berlusconi a concedere la cittadinanza e il diritto di voto amministrativo agli stranieri: «Io difendo la sicurezza di tutti, evitando che la sinistra apra le frontiere, per poi concedere loro la cittadinanza e il diritto al voto, un subdolo stratagemma per garantirsi una futura preminenza elettorale».
È interessante notare che Berlusconi e Bossi non si limitano a definire prematura o frettolosa la revisione delle norme sulla cittadinanza. In più occasioni pubbliche questi leader della destra si sono dichiarati contrari all´idea stessa di una «società multietnica»; come testimonia anche la greve battuta di Calderoli sul pericolo di ritrovarci fra cinque anni e un mese con un «presidente abbronzato». Probabilmente non se ne rendono conto, ma con le loro parole stanno propugnando un ritorno all´indietro dai principi di cittadinanza così come li definì oltre due secoli fa la Rivoluzione Francese. Berlusconi e Bossi rigettano la teoria democratica secondo cui lo Stato-nazione è luogo di attuazione di diritti universali civili e politici. Da secoli a una nazione democratica non si appartiene più per mera discendenza, bensì per cittadinanza. Un passo avanti storico rispetto all´ideologia reazionaria Blut und Boden, «sangue e terra», perché la nazione non può venire ridotta al «pezzetto di terra dove si è nati e cresciuti» teorizzato da Justus Moser.
A furia di inseguire consensi promettendo «meno stranieri», Berlusconi e Bossi rifiutano l´idea che possano esserci «più italiani» e «nuovi italiani». La loro idea di italianità è ferma agli anni Trenta del secolo scorso: l´appartenenza razziale. Lungi dal farsi interpreti di un nuovo patriottismo, alla vigilia del centocinquantesimo anniversario dello Stato unitario, essi paventano come minacciosa l´eventualità che uno straniero possa diventare italiano se non per concessione arbitraria. La divergenza emersa all´interno della destra, quindi, non riguarda solo la volontà o meno di integrare gli stranieri residenti attraverso una politica lineare dei diritti e dei doveri. La prossima discussione parlamentare renderà manifeste due opposte nozioni di cittadinanza. Ma non facciamo finta che siano entrambe compatibili con una democrazia in cui vivono già quattro milioni di immigrati.

il Riformista 10.9.09
Post-nazismo. La legge è passata a fatica al Bundestag, con l'opposizione dei democristiani
I traditori di guerra del Reich riabilitati con 60 anni di ritardo
di Paolo Petrillo


Ludwig Baumann. Lotta da sempre per far ripulire la sua fedina penale e quella di altre migliaia di persone, condannate perché intralciarono la Wehrmacht. «Ora me ne posso andare in pace». Ma a loro la Germania democratica ha reso la vita difficile.
Baumann. Presidente dell´Associazione vittime della giustizia nazista

Berlino. Ironia delle date. Lo scorso 8 settembre - 66esimo anniversario del "tradimento" italiano nei confronti del Terzo Reich - il Bundestag ha finalmente approvato una legge che riabilita coloro che, negli anni del Secondo condlitto mondiale, erano stati giudicati dai Tribunali nazisti come "traditori di guerra" . Un marchio infamante, peggiore di quello di "disertore": "traditore di guerra" - alla lettera - era quel militare che aveva passato informazioni al nemico, mettendo così a repentaglio la salvezza della patria nonché quella dei suoi stessi commilitoni.
In realtà le cose non sono andate esattamente così: "traditore di guerra" lo diventava anche il soldato che aveva aiutato gli ebrei a nascondersi o a fuggire oltre confine; chi in un momento di stress o di ubriachezza aveva sparato su una foto del Fuehrer; chi aveva scritto a casa o nel diario personale che la guerra, no, non si poteva più vincere; o chi si era permesso di scambiare due parole con un prigioniero, a maggior ragione se sovietico.
"Traditori di guerra" furono in sommo grado il colonnello von Stauffenberg e i suoi complici, cioè coloro che il 20 luglio del 1944 attentarono alla vita di Adolf Hitler cercando poi, inutilmente, di prendere il potere a Berlino. Comprensibile, se si considerano le cose con gli occhi della Germania hitleriana. Molto meno comprensibile, se si pensa invece alla Germania post-1945: quella Germania per cui Hitler ha rappresentato ufficialmente il "male assoluto" e che poi ha avuto bisogno di oltre sessant'anni per riabilitare coloro che, a vari livelli, si erano in qualche modo opposti ai dettami del Reich nazista.
Complessivamente circa 100 mila militari si trovarono ad esser bollati come "Kriegsverraeter"; 30 mila le condanne a morte, di cui circa 20 mila quelle eseguite. Ora il Bundestag - al termine di un travagliato iter parlamentare, che ha visto Cdu e Csu opporsi in ogni modo all'approvazione della legge - ha "ripulito" quelle fedine penali, annullando i verdetti emessi dalle Corti naziste. Un passo importante ma giocoforza solo simbolico, visto che ormai la quasi totalità degli interessati è passata a miglior vita. Non solo simboliche furono però, nei decenni passati, le conseguenze di quelle condanne: chi era stato riconosciuto come "traditore di guerra", oltre a dover sopportare una pesante stigmatizzazione sociale, ha avuto poi serie difficoltà a trovare un posto di lavoro, soprattutto nell'amministrazione dello Stato.
Difficoltà simili a quelle incontrate da chi, da quegli stessi Tribunali nazisti, era stato riconosciuto colpevole del reato di "diserzione". Anche nel loro caso la battaglia parlamentare per annullare i verdetti è stata lunga e difficile. La Bundeswehr - cioè le nuove forze armate tedesche, eredi della Wehrmacht - si opponeva drasticamente all'eventualità sostenendo, sempre con l'appoggio di Cdu e Csu, che graziare i disertori avrebbe inflitto un colpo mortale allo spirito combattentistico e alla fedeltà alla bandiera dell'apparato militare.
Solo nel 2002, con il governo rosso-verde di Gerhard Schroeder e Joschka Fischer, il Bundestag varò una legge che annullava le condanne di diserzione. Era la conseguenza di un lento processo di mutamento sociale: prima c'era stato il '68, il cancellierato del socialdemocratico Willy Brandt all'inizio degli anni '70, il famoso discorso del presidente della Repubblica Richard von Weizsäcker dell'8 maggio 1985 - a 40 anni dalla resa tedesca - e infine una prima, vaga, legge in materia del 1998, sul finire dell'"era Kohl". Eppure ancora nel 2002 i rosso-verdi se l'erano sentita di scagionare i "disertori", ma non i "traditori di guerra". C'era il rischio - fu più o meno la motivazione - che alcuni di loro avessere in effetti nuociuto ai commilitoni, con i loro atti.
Se ora il Bundestag ha finalmente varato la legge che riabilita i "traditori" lo si deve in gran parte agli sforzi e alla testardaggine di due persone: un giovane deputato della Linke, Jan Korte, e un anziano ex disertore, Ludwig Baumann, 87 anni, presidente dell'Associazione vittime della giustizia nazista. «Di quelle vittime - racconta con un sorriso Baumann al Riformista - sono forse l'unico ancora in vita. Gli anni del dopoguerra furono durissimi. Cercavamo la riabilitazione, ma ovunque trovavamo un muro. Venivamo trattati da vigliacchi, da traditori; il disprezzo era tangibile e ancora oggi mi capita di ricevere lettere anonime, di gente che mi accusa di aver tradito il mio Paese. Ho fondato l'Associazione nel 1990, nella speranza che la Germania unita fosse in qualche modo pronta ad ascoltare. Ci sono voluti altri vent'anni ma oggi, in qualche modo, il sogno si è realizzato. E volendo, finalmente, me ne posso andare in pace».

l’Unità 10.9.09
Shirin Neshat: «Arte e cinema per non arrenderci mai»
Il fim-denuncia dell’artista contro l’integralismo religioso e sulla drammatica condizione femminile nel mondo islamico
di Gabriella Gallozzi


Dal ’53 a oggi. Il popolo iraniano continua a combattere per la democrazia

Le sue donne velate, tatuate, coi fucili in primo piano hanno fatto il giro del mondo. Con la loro carica di denuncia contro gli integralismi religiosi e la drammatica condizione femminile nel mondo islamico. Ora quelle stesse donne sono diventate protagoniste di uno dei film più «tosti» e visionari del concorso: Women Without Men, ispirato all’omonimo romanzo dell’ iraniana Shahrnush Parsipur, scrittrice censurata ed esiliata a causa di questo suo testo-denuncia in cui racconta una pagina cruciale della storia dell’Iran: il golpe della Cia del ’53, che portò alla destituzione del premier Mohammad Mossadeng «colpevole» di aver nazionalizzato il petrolio iraniano e al ritorno dello Shah Palevi.
Una storia dimenticata che Shirin Neshat, fotografa ed artista visiva, ha scelto di portare al cinema proprio per questo. Continuando, così, il suo percorso artistico «militante» anche sul grande schermo. E lo fa nel suo stile, qui dai colori saturi e dallo sguardo onirico, attraverso la storia di quattro donne che vivono ognuna a suo modo quei drammatici giorni di rivolta e repressione nella Teheran del ’53.
Munis, una ragazza con una sua coscienza politica, ma che deve fare i conti con l’isolamento a cui la costringe un fratello tradizionalista e integralista. Zarin, una giovane prostituta che non sopporta più la violenza degli uomini. Faezeh, la più semplice, che assiste indifferenze agli eventi e sogna il matrimonio col dispotico fratello di Munis. E infine Fakhri. La più anziana delle quattro, a sua volta intrappolata in un opprimente matrimonio. «Ognuna di loro racconta Shirin Neshat ha qualcosa della mia storia. Ma soprattutto hanno in loro il desiderio di libertà delle donne». Che, ieri come oggi, va ancora conquistata, non solo in Iran.
Corrono le immagini sullo schermo. Le vite delle quattro protagoniste si intrecciano alla Storia. Corrono i manifestanti sotto i colpi dei militari. Siamo nel ’53, ma potrebbe essere oggi. Le immagini riportano in un attimo alle manifestazioni di questa estate. All’Iran infuocato dalla protesta contro il regime di Ahmadinejad. Lo conferma la stessa Neshat, infatti. «Sembra una coincidenza spiega l’artista eppure è la conferma di come il popolo iraniano, ancora oggi, continui a combattere per la libertà e la democrazia che nella nostra società ancora non esistono». Il suo stesso percorso artistico, sottolinea, è in questa direzione: «la lotta per la libertà sia delle donne che subiscono ancora violenza che per l’Iran», in cerca di democrazia. «Nel tempo sono cambiati i costumi aggiunge le persone, i contesti, ma la lotta del popolo iraniano continua».
Per questo spiega Shirin «ho fatto questo film. È rivolto alla nostra gente, ma anche al mondo. Perché si sappia che il nostro Paese viene da una storia dolorosa, difficile, ma noi non smetteremo mai di lottare e riusciremo a vincere. Perché non bisogna mai perdere la speranza e questo è il messaggio importante da trasmettere: non ci arrenderemo mai». E giù uno scroscio di applausi dalla platea di giornalisti per questa donna minuta, esile che ha la forza di un Leone. Quello della Biennale Arte, del resto, già l’ha portato a casa anni fa coi suoi video (Turbolent e Rapture).
E chissà se questa volta ne strapperà un altro col suo primo film. Per lei quello che conta, del resto, è il valore di denuncia del suo lavoro. E per questo ha scelto la strada del cinema che ritiene «più democratico dell’arte. Il pubblico compra il biglietto e vede il film senza istruzione, senza la necessità di chissà quale cultura. In questo modo la storia può arrivare ad un pubblico più vasto. Può andare oltre. E questa è la mia sfida con me stessa».❖

Tra Teheran e New York con il video nel cuore
Shirin Neshat (nata il 26 marzo 1957 a Qazvin, Iran) è un artista di arte visiva contemporanea, conosciuta soprattutto per il suo lavoro nei video e nella fotografia. Vive attualmente tra il suo paese di origine e New York. Tra i suoi video più noti, «Anchorage» (1996), proiettato su due pareti opposte, «Turbulent» (1998), «Rapture» e «Soliloquy» (1999).

il Riformista 10.9.09
Il film. Zanan Bedoone Mardan dell'artista iraniana Shirin Neshat, che è stato presentato alla Mostra di Venezia, riporta alla memoria l'Iran del 1953, teatro del colpo di Stato orchestrato da Cia e Mi-6 contro Mossadeq
Mossadeq, la miccia dell'odio anti Usa
di Antonello Guerrera


Il film Zanan Bedoone Mardan dell'artista iraniana Shirin Neshat, che è stato presentato alla Mostra di Venezia, riporta alla memoria l'Iran del 1953, teatro del colpo di Stato orchestrato da Cia e Mi-6 contro Mossadeq. Una soluzione finale, quella di Stati Uniti e Gran Bretagna, le cui conseguenze antioccidentali sono ancora vivissime nel tessuto sociale e politico iraniano.
Un imperdibile racconto dell'evento e delle cause che convinsero i servizi americani a cavalcare l'operazione TpAjax (Tp era il codice identificativo della Cia per l'Iran) è rintracciabile in Iran 1953 - Nazionalismo, petrolio e guerra fredda (Gan, 321 pp., euro 18) di Benjamin Petrini. Quest'ultimo, impiegato presso la Banca Mondiale nell'ambito di conflitti armati e violenza, traccia un limpido ritratto di quei tesissimi anni, e da parte occidentale e da parte iraniana, sino alle ultime ore che proclamarono la caduta di Mossadeq.
Motivo scatenante della "rappresaglia" di Usa e Gran Bretagna fu la crisi petrolifera del 1951, che infervorò la Corona britannica in un momento molto delicato, tra postcolonialismo e pesanti interessi economici in Medio Oriente, schiacciata dal dualismo Usa-Urss. La nazionalizzazione iraniana della Anglo-Iranian Oli Company (Aioc), l'impresa britannica a forte partecipazione statale titolare della concessione petrolifera in Iran, fu uno strappo troppo violento. La posta in gioco era enorme: in quegli anni l'Aioc era la più grande compagnia concessionaria del Medio Oriente e l'Iran il maggior produttore di greggio dell'area mediorientale. E se le incombenze dall'esterno erano di carattere prettamente economico, la mossa di Mossadeq fu espressione di una infervorata retorica nazionalista, il collante vero della sua reggenza che verrà meno quando i religiosi iraniani ritireranno il loro supporto al leader politico. In uno scenario di crisi politica, economica e soprattutto sociale.
La soluzione finale, come si diceva, avrà una gestazione di due anni. Scintilla scatenante fu l'arrivo alla Casa Bianca del repubblicano Dwight Eisenhower. Che, supportato dai falchi di partito, farà dimenticare la politica più restia e diplomatica di Truman, che non voleva arrivare ad un colpo di Stato per risolvere la crisi. Prima di giungere alla caduta di Mossadeq, Petrini ricorda con gran dovizia di particolari la recente storia dell'Iran, mettendone in risalto l'evoluzione del sistema politico interno, la politica estera e, infine, l'ingerenza straniera e, di contro, il nazionalismo.
Un nazionalismo che, dopo gli eventi del 1953, crescerà a dismisura. Opportunamente, l'autore ricorda come l'operazione Ajax cambiò radicalmente il sentimento, precedentemente benevolo, degli iraniani nei confronti dell'Occidente. La successiva dittatura di Mohammed Reza, repressiva all'interno e compiacente nei confronti di Usa e Gb non fece altro che peggiorare il risentimento interno e dell'intera area. Tanto che la crisi degli ostaggi nel '79 e l'Undici Settembre hanno le loro nefaste radici proprio nel colpo di Stato del 1953. Che, rimarca Petrini, «frustrò i tentativi modernizzatori dell'Iran, ne ritardò lo sviluppo economico e, cosa più grave, (...) il perfezionamento delle pratiche parlamentari e costituzionali nate all'inizio del 900». In un paese che, sottolinea l'autore, rappresentava un'eccezione in Medio Oriente come modello di sistema partecipativo.

il Riformista 10.9.09
La pioggia non c’è. I contadini d'India vendono le figlie


Siccità. Il monsone ha tradito e per far fronte ai debiti, nelle regioni più povere del subcontinente, gli agricoltori cedono le donne agli strozzini. O le mettono sul mercato, per cento euro scarsi. Immense note a margine della favola del boom.

Delhi. Quando il cielo è stato avaro d'acqua e la terra non riesce a sfamare, se si è speso tutto ciò che si aveva in fertilizzanti che non hanno reso quel che promettevano e alla porta cominciano a bussare gli usurai, nel Subcontinente indiano l'assicurazione sulla vita che resta possono essere le donne. Figlie, mogli, sorelle come commodities. Questo sono diventate alcune giovani che, a causa di una delle più gravi siccità registrate nel paese da anni, vengono vendute come merce al miglior offerente da alcuni contadini dell'India del Nord.
Mentre giorni fa il ministro delle Finanze Pranab Mukherjee rassicurava una platea di imprenditori a Nuova Delhi sostenendo che l'India sta tenendo il colpo di fronte alla crisi economica globale, che dall'industria e dai servizi arrivano «segnali positivi», la stampa locale ha denunciato che nella poverissima regione del Bundelkhand diverse donne - una manciata secondo alcuni giornali, decine per altri - sono state date in sposa in cambio di denaro. Cedute per poter ripagare i debiti contratti con gli usurai per acquistare semenze e diserbanti, o date direttamente agli stessi "banchieri" dei villaggi per mettere i conti a pari. Comunque gesti estremi che possono fruttare dai 60 ai 180 euro, a seconda della bellezza delle fanciulle magari. E che hanno fatto annunciare alla Commissione nazionale per le donne l'invio di alcuni investigatori sul posto.
In un caso, quantomeno, riferito dal Times of India, una donna ha avuto la forza di ribellarsi. Alla notizia che era stata venduta allo strozzino di turno, Sukhiya si è scagliata contro di lui strangolandolo. E, prima di essere arrestata, non ha mancato di coronare la sua vendetta con una liberatoria amputazione dei genitali. Per il resto, però, nelle testimonianze rilasciate alle autorità non c'è che rassegnazione all'ineluttabilità della miseria. «Sono stata venduta perché la mia famiglia non aveva alternative» ha dichiarato Sangeeta, venduta dal padre come sposa. «Cosa possiamo mangiare? Possediamo un terreno ma non ci cresce nulla perché non ha piovuto» è stato il lamento di un'altra vittima.
Negli ultimi dieci anni l'India si è presentata sui mercati globali come leader dell'outsorcing, hub dell'Information Techonolgy, patria di galoppanti imprese di software. Eppure più della metà degli indiani ancora rivolge gli occhi al cielo per sopravvivere. Per quanto le metropoli si allarghino e spuntino fabbriche, l'India resta un paese di agricoltori. E, con il 60 per cento dei terreni che non è raggiunto da sistemi d'irrigazione e le falde freatiche che si stanno prosciugando spaventosamente, la maggior parte dei raccolti continua a dipendere dalla generosità dei monsoni.
Quest'anno la stagione monsonica è stata però micragnosa. In molte zone le tipiche piogge che bagnano il Subcontinente da giugno a settembre hanno registrato una calo di oltre il 30% rispetto alla media degli ultimi anni. Tanto che un terzo del paese è ufficialmente affetto da siccità. Non che ci sia il rischio di carestie come quelle che colpirono l'India il secolo scorso. Ad agosto il premier Manmohan Singh ha assicurato che nei silos ci sono scorte sufficienti per tutti.
Ma non è con i sussidi governativi sotto forma di riso o fertilizzanti che i contadini potranno ripagare i loro debiti. E difatti la tratta delle mogli nel Bundelkhand - regione che tra l'altro si trova in uno stato, l'Uttar Pradesh, governato da una donna, Mayawati - non è l'unica tragedia innescata dalla penuria idrica. Nel meridionale Andra Pradesh oltre 40 contadini si sono suicidati negli ultimi due mesi.
Uno dei motivi che a maggio scorso aveva portato alla rielezione il governo Singh era stato un maxi-condono dei debiti agli agricoltori approvato lo scorso anno. Ma l'India è paese dove gli usurai fanno ancora concorrenza al credito ufficiale. Soprattutto, il deficit fiscale indiano è oggi troppo alto perché il governo possa permettersi un'altra manovra simile. Aiuti statali ai contadini, del resto, non mancano. L'International Food Policy Research Institute ha stimato che Nuova Delhi nel 2008 ha speso 25 miliardi di dollari di sussidi in fertilizzanti e solo 5 in investimenti in agricoltura, anche se questi creano un ritorno 10 volte superiore. Oggi d'agricoltura campano sette indiani su 10, ma il contributo del settore al Pil è solo del 16%. Se, invece di assicurarsi anche le prossime elezioni con lauti sussidi, la coalizione governativa vuole un posto nella storia del paese, farebbe meglio a inventarsi dei modi per produrre più cibo con meno acqua.

il Riformista 10.9.09
L'attrazione fatale di Adolf Hitler per l'ebreo Mahler
di Alex Ross


"IL RESTO È RUMORE". Nel suo ultimo libro il musicologo Alex Ross racconta il XX secolo attraverso la musica. Martoriata dalla censura di dittatori come il Führer. E colma di paradossi.
Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto del libro "Il resto è rumore. Ascoltare il XX secolo" di Alex Ross, in libreria da ieri 9 settembre 2009.

La musica era uno dei pochi argomenti, insieme ai bambini e ai cani, a risvegliare una certa tenerezza in Adolf Hitler. Nel 1934, quando il nuovo leader della Germania apparve a una commemorazione wagneriana a Lipsia, gli osservatori notarono che parlò con «le lacrime nella voce» - frase che appare di rado nelle duemilatrecento pagine dell'edizione dei discorsi del Führer curata da Max Domarus. L'anno prima Hitler aveva salutato il primo congresso del partito a Norimberga con una citazione dai Meistersinger di Wagner, «Wach' auf!» ("Svegliatevi!"). D'altra parte Hitler non era l'unico nazista a ostentare la propria venerazione per la tradizione musicale tedesca. Hans Frank, governatore generale della Polonia occupata, disse che i suoi compositori preferiti erano Bach, Brahms e Reger. La Staatkapelle di Berlino eseguì la Marcia funebre di Sigfrido alle esequie dell'Obergruppenführer delle ss Reinhard Tristan Eugen Heydrich, il cui padre aveva fatto parte dell'orchestra di Hans von Bülow e aveva interpretato ruoli tenorili di primo piano a Bayreuth. Dal canto suo, Josef Mengele fischiettava le sue arie preferite mentre sceglieva le vittime delle camere a gas di Auschwitz. Ci sono numerosi aneddoti sulla musica nel Terzo Reich, e rafforzano la tesi di Thomas Mann, ampiamente dibattuta ma difficilmente confutabile, secondo cui durante la dittatura di Hitler la grande arte fu alleata della grande malvagità. «Grazie a Dio», disse Strauss quando Hitler assunse il potere, «finalmente un cancelliere del Reich che si interessa di arte!».
Nel XIX secolo la musica, e in particolare la musica tedesca, era considerata un regno sacro e autosufficiente, che si librava a una grande altezza sul mondo della quotidianità. Secondo la caustica frase di Nietzsche, divenne «un telefono dall'al di là». Arthur Schopenhauer affermò con grande convinzione che l'arte e la vita non avevano nulla a che fare: «Accanto alla storia del mondo, la storia della filosofia, della scienza e dell'arte è priva di colpe e non è macchiata dal sangue». Hans Pfizner pose queste parole in epigrafe alla sua opera Palestrina, del 1917, che celebrava la capacità di un compositore di sollevarsi al di sopra della politica del suo tempo. In seguito, il compositore usò quella stessa pagina della partitura per scrivere una dedica a Mussolini. Questa azione destituì di qualunque valore la pretesa che l'arte potesse conquistare la completa autonomia dalla società che la circondava. È proprio la sua natura non verbale a renderla facile preda dell'assimilazione ideologica e dell'uso a fini politici.
A causa di Hitler, la musica classica non soffrì soltanto danni materiali incalcolabili - compositori assassinati nei campi di concentramento, futuri talenti uccisi sulle spiagge della Normandia e sul fronte orientale, teatri dell'opera e sale da concerti distrutte, esuli dimenticati in terra straniera - ma una più profonda perdita di autorità morale. Durante la guerra gli alleati fecero del loro meglio per salvare i capolavori della tradizione tedesca dalla propaganda nazista, riappropriandosene in quanto emblemi della lotta contro la tirannide. Le prime note della Quinta di Beethoven furono fatte corrispondere nel codice Morse alla V di "Vittoria". Col passare degli anni, la musica classica acquisì tuttavia un'aura sinistra nella cultura popolare. Hollywood, che un tempo aveva fatto dei musicisti i fragili eroi dei film più prestigiosi, cominciò a dar loro un'aria sadica. Negli anni settanta la giustapposizione di "grande musica" e barbarie era divenuta un cliché cinematografico: in Arancia meccanica, un giovane delinquente si perde in fantasticherie ultraviolente sulle note della Nona di Beethoven, e in Apocalypse Now i soldati americani assaltano un villaggio vietnamita con l'aiuto della Cavalcata delle Valchirie di Wagner. Adesso, quando un arcicriminale hollywoodiano che si rispetti si accinge ad asservire l'umanità, ascolta un po' di musica classica per entrare nell'umore giusto.
La massima correlazione tra musica e orrore si trova in una poesia di Paul Celan del 1944-45, Fuga di morte, in cui un tedesco dagli occhi azzurri istruisce i detenuti in un campo di concentramento nell'arte di scavarsi la fossa. Mentre parla, si trasforma in un direttore d'orchestra che così esorta la sezione dei violini, «suonate più cupo», perché «la morte è un Meister tedesco».
Gli strascichi del corrosivo amore per la musica di Hitler sono inevitabili. Gran parte della storia successiva della musica nel XX secolo costituisce un tentativo di fare i conti con esso. (...) «C'è troppa musica in Germania», scrisse Romain Rolland, all'acme di Mahler e Strauss. Si nascondeva qualcosa, sospettava lo scrittore francese, in queste colossali sinfonie e drammi per musica teutonici - un culto della potenza, un «ipnotismo della forza». Gli stessi tedeschi riconoscevano una tensione demoniaca nella loro cultura. Durante la prima guerra mondiale, Thomas Mann, non ancora diventato un liberal-democratico, scrisse un manifesto intitolato Considerazioni di un impolitico, nel quale lodava tutte le tendenze regressive tedesche che in seguito avrebbe deplorato nelle pagine del Doctor Faustus. Nella prima opera, Mann afferma che l'arte «ha una natura fondamentalmente inaffidabile, infida; la sua gioia per la scandalosa irrazionalità, la sua tendenza alla ‘barbarie' creatrice del bello, non può esser sradicata…".
L'alleanza tra musica tedesca e ideologia reazionaria risale a Wagner. Il pamphlet scritto dal compositore nel 1850, Das Judetum in der Musik, ossia Gli ebrei nella musica, lamentava l'"ebraizzazione" della musica tedesca e auspicava che gli ebrei facessero esperienza di Untergang e Selbstvernichtung - rovina e auto-annullamento. Vernichtung è il termine che i nazisti usarono per descrivere il genocidio degli ebrei europei, come sottolineano i più severi tra i critici contemporanei di Wagner, ad esempio Paul Lawrence Rose e Joachim Köhler. (...) Tuttavia, anche nel coro dell'antisemitismo ottocentesco, le farneticazioni di Wagner spiccavano per la loro malevola veemenza. Gli ebrei, disse una volta, erano «i nemici giurati della vera umanità e di tutto ciò che di nobile c'è nell'uomo». Erano anche, disse, «il demone della rovina dell'umanità» - una frase che Joseph Göbbels usò spesso nei suoi discorsi, e che compare nel disgustoso film antisemita L'eterno ebreo. Inevitabilmente, l'antisemitismo si insinuò nelle discussioni sulla musica stessa. Anche quando Wagner era in vita, i cattivi delle sue opere - i nani Alberich e Mime e il semi-umano Hagen dell'Anello, il pedante Beckmesser dei Meistersinger, il mago malvagio Klingsor del Parsifal - furono a volte interpretati come satire degli ebrei. Gustav Mahler pensava che Mime incarnasse «i tratti caratteristici - gretta intelligenza e avidità» della razza ebraica. (...)
Alcune delle esperienze musicali decisive di Hitler si svolsero sullo sfondo familiare dell'Austria del 1906. All'inizio di maggio compì il suo primo viaggio a Vienna, avventurandosi fuori dalla città natale di Linz. Il 7 maggio mandò all'amico August Kubizek una cartolina accennando al fatto che la sera dopo avrebbe assistito al Tristano all'Opera di Corte, e quella successiva all'Olandese volante. (...) Il Tristano cui Hitler assistette a Vienna nel 1906 era la celebre produzione che fu realizzata sotto la direzione di Mahler. (...) Le immagini del Tristano gli rimasero impresse in maniera indelebile: in un album per schizzi del 1925-26 riprodusse l'immagine degli amanti avvinti in un amplesso sotto una volta stellata, e nel 1934, quando infine incontrò Roller, ricordava ancora dettagliatamente la scenografia, compresa «la torre con la fievole luce sulla sinistra».
Le biografie di Hitler hanno generalmente tralasciato il fatto che a dirigere il Tristano l'8 maggio fu Mahler in persona. Kubizek, i cui ricordi vanno presi con estrema cautela, afferma che l'amico ammirava Mahler «perché gli stavano a cuore i drammi per musica di Wagner e li produsse con una perfezione che per l'epoca era veramente straordinaria». La cosa è parzialmente confermata da una frase che Hitler rivolse a Göbbels nel 1940, secondo cui «non contestava l'abilità e i meriti» di alcuni artisti ebrei di prim'ordine, ad esempio Mahler e Max Reinhardt. (...) Sembra che qui avvenga uno strano transfert, dato che era un ebreo a esser salito sul podio durante quella che fu forse la più sconvolgente esperienza musicale della vita di Hitler. Mahler era forse un simbolo tormentoso del potere ebreo in mezzo ai fallimenti di Hitler? O forse il giovane si identificò con l'aura di Mahler, con la sua capacità di comandare immense forze con un cenno del braccio? Dalle fotografie, sembra di notare una vaga somiglianza tra alcune pose oratorie di Hitler e la direzione di Mahler: la mano destra alzata, stretta a pugno e ruotata, la sinistra tirata all'indietro e aperta ad artiglio.

Il libro di Alex Ross "Il resto è rumore. Ascoltare il XX secolo" (Bompiani) è un viaggio nella vicenda epica ed umanissima del secolo breve, ascoltato attraverso la sua musica, tra musicisti, dittatori, mecenati e quant'altro. Il libro ha vinto il National Book Critics Circle Award 2007 e il Guardian First Book Award 2008 ed è stato finalista al Pulitzer 2008. L'autore sarà presente a Milano, domenica 13 Settembre, al Mito Festival Internazionale della Musica.

mercoledì 9 settembre 2009

l’Unità 9.9.09
Stampa e libertà
Censura. Il sistema Italia
di Silvia Ballestra


Sarà il bisogno di adulazione che aguzza l’ingegno. Sarà che qui siamo in mezzo all’Europa e certe cose non si possono fare: la libertà di stampa alla Putin, la libertà di stampa alla Gheddafi, non sono praticabili. Qui servono astuzia e misura: il rozzo fascismo che usava decreti di censura e sequestri, non è praticabile. Urge una traduzione, un adattamento ai tempi. Non serve la censura: basta un buon sistema di richieste milionarie, intimidazioni di carta moneta per tacitare i più indipendenti, o poveri o liberi tra i media (è successo all’Unità e a Repubblica). Al posto del decreto di censura c’è la lentezza burocratica: il contratto non arriva e la trasmissione ritarda (sta accadendo ad Annozero). Oppure il programma d’inchiesta perde l’assistenza legale e dunque rischia (sta accadendo a Report). Basterà al capo del governo dire: «Quel direttore deve cambiare mestiere» e oplà, quel quotidiano cambierà direttore (è accaduto al Corriere, e alla Stampa, fatti recenti). Oppure basterà nominare i direttori delle reti concorrenti (è successo al Tg1 e al Tg2). E poi basterà attaccare – con stupefacenti complicità a sinistra – l’unica rete libera rimasta (sta succedendo a Paolo Ruffini). E poi basterà spaventarsi un pochino per l’informazione che viene dal basso, e allora si minaccerà costantemente di penalizzare Internet (sta succedendo con la legge che imbavaglia i blog). Senza manganellate, senza sequestri, senza violenza, fare la violenza peggiore di tutte: occupare tutti gli spazi disponibili. Alla fine, come beffa finale, chiamare questo consenso obbligatorio “libertà” e fingere stupore: poco liberi? Qui? Mavalà!

Repubblica 9.9.09
Gli ordini di guerra
di Massimo Giannini


Non è una novità. Silvio Berlusconi ha una visione imperiale della leadership, e una gestione militare del Partito delle Libertà. Ma quella a cui stiamo assistendo è un´ulteriore, drammatica evoluzione-involuzione del suo sistema di potere. Stiamo rapidamente passando dal classico «berlusconismo di lotta e di governo» a un vero e proprio «berlusconismo di guerra».
Il caso di Gianfranco Fini è l´ultimo paradigma di questa trasformazione. Prima lo fa impiombare dai suoi sicari, attraverso il giornale di famiglia. Poi, molte ore dopo il delitto, finge di prendere le distanze e chiede alla vittima di «fare squadra». Pensa così di convincere a «rientrare nei ranghi» (come da «consiglio non richiesto» di Vittorio Feltri) tutti quelli che non ci stanno. E di chiudere quella che Alessandro Campi definisce «la fase due del grande gioco al massacro» che si è aperta con i cattolici diffidenti, con la stampa dissidente e ora con l´alleato recalcitrante. Ma Fini resiste, almeno per ora. E rende visibile quello che il Cavaliere vuole occultare: i problemi politici esistono, ed è paradossale che il premier cerchi di negarli.
Cosa nasconde, lo scontro tra Berlusconi e Fini? In prospettiva c´è la partita sulla successione ereditaria del Pdl: il presidente della Camera ha qualche chance di vincerla. Ma qui ed ora c´è la battaglia sul profilo identitario della destra: e questa, con tutta evidenza, il presidente della Camera l´ha già persa. Non lo testimoniano solo l´assordante silenzio di molti esponenti della maggioranza o l´imbarazzante difesa d´ufficio di pochi luogotenenti dell´ex An, di fronte al killeraggio compiuto dal «Giornale». Prima ancora di questo, che pure conta, lo dice l´atto di nascita del nuovo centrodestra, che germoglia da quella «rivoluzione del predellino» che un Berlusconi esaltato ha imposto plebiscitariamente e che un Fini disperato ha subito passivamente. Lo urla il congresso fondativo del «partito unico», che vede un Berlusconi nei panni del federatore assoluto e un Fini nel ruolo del moderatore riluttante.
È lì che il presidente della Camera, nel definire «compiuta» la missione della costituzionalizzazione della destra ex-fascista finiana, ne traccia un profilo moderno e post-ideologico, già allora inconciliabile e antitetico con quello della destra populista berlusconiana. Una destra delle idee, che ruota intorno a tre perni valoriali: dignità della persona (e quindi tutela dei diritti, a prescindere dal colore della pelle), difesa delle istituzioni (quindi rispetto e bilanciamento dei poteri), laicità dello Stato (quindi libertà religiosa ma primato delle leggi). In questa piattaforma programmatica, a volerla vedere, c´era già la negazione del berlusconismo. E c´era già tutto ciò che l´impasto politico-culturale del forzaleghismo dominante non sarà e non potrà mai essere. Aveva un bel dire, allora, il presidente della Camera, che si entrava nel Pdl «con la schiena dritta». Come poteva, la sua idea di destra laica, istituzionale e repubblicana, convivere con la destra atea-devota, para-rivoluzionaria e a-repubblicana incarnata da Berlusconi e Bossi?
Infatti non può. Salvo cessare di esistere, prima ancora di aver messo radici in un gruppo dirigente, e forse anche in un corpo elettorale, che sembrano rifiutarla a priori, presi come sono nell´ossequiosa contemplazione delle virtù taumaturgiche del solito uomo solo al comando. E così, oggi, i pochi custodi del pensiero finiano, rimasti soli nella trincea del «Secolo» e di «Farefuturo», hanno un bel recriminare, contro «un partito becero, nevrastenico e con la bava alla bocca, che abbia contro gli avversari e adesso anche contro gli alleati, con un furore non giustificato dai fatti», o contro il disegno «di soffocare o delegittimare ogni pensiero critico nei confronti del Cavaliere, di costruirgli intorno una cintura di sicurezza, di creare un nuovo ordine a partire dal caos generalizzato». Ed hanno un bel rimpiangere, le Flavia Perina e i Luciano Lanna, «una destra non ideologica, sobria e meritocratica, colta e risorgimentale, elegante e rigorosa, laica e non bacchettona, libertaria e attenta ai diritti, diffidente della società di massa e dell´antipolitica», o una grande forza plurale «che parli la lingua di Cameron e Sarkozy», «un grande partito dei moderati» ispirato ai «grandi numi tutelari della destra italiana nelle sue molte anime - da Gentile a Evola, da Prezzolini a Spirito, da Volpe a Martinelli - che sia lo sviluppo coerente ma non meccanico di questi ultimi quindici anni di storia».
Questa battaglia delle idee, Fini e lo sparuto drappello dei suoi intellettuali d´area, purtroppo l´hanno già perduta. Le appassionate prolusioni sul ruolo del Parlamento e sull´unità nazionale, le ottime intenzioni sulla civiltà dell´accoglienza per gli immigrati e sul testamento biologico, purtroppo non cambiano l´agenda del governo, non ne attenuano i furori ideologici, non ne minacciano la tenuta politica. Un´«altra destra» era possibile. Forse lo sarà, domani. Ma di sicuro non lo è oggi, nella fase cruciale del «berlusconismo da combattimento». Oggi il Pdl è proprio quella «casermetta in cui qualcuno comanda» e di cui lo stesso presidente della Camera si è lamentato una settimana fa a Mirabello, quando ha riaperto le ostilità con il Cavaliere e ha quasi anticipato ciò che gli sarebbe accaduto solo poche ore più tardi: «In Italia ormai non si tenta di demolire un´idea, ma colui che di quell´idea è portatore. Si va dritti al killeraggio delle persone...». Dopo Boffo, è toccato a lui. E, per usare la formula di Stalin con i papi, quante «divisioni» ha Fini, per arginare questa deriva tecnicamente totalitaria e far vivere la sua idea di un´«altra destra» possibile in questa Italia berlusconizzata? Poche, a giudicare da ciò che si vede nel Palazzo e si sente al di fuori. Così, l´ex leader di An deve accontentarsi, ma anche preoccuparsi, del suo paradosso: essere apprezzato, e anche applaudito, solo dal centrosinistra. E per di più, proprio per questo, essere accusato dal suo centrodestra di essere un cinico opportunista, che si ingrazia i favori del nemico solo per puntare dritto al Quirinale.
La politica è una sapiente miscela di convinzione e di convenienza, gli ha ricordato qualche mese fa Angelo Panebianco. Se hai solo convenienze, sei un trasformista di professione. Se hai solo convinzioni, sei condannato alle prediche inutili. Il «buon politico» deve avere convinzioni precise, ma anche strategie che gli consentano di acquisire consensi, appoggi, voti. Nel caso di Fini, secondo Panebianco, si individua la convinzione ma non si capisce quale sia la convenienza. Come dire: Fini predica bene, ma a quale parte del Paese intende parlare? Quella domanda, finora, non ha ancora una risposta chiara. E questo, per il presidente della Camera e per il suo ruolo all´interno della maggioranza, è effettivamente un problema. Panebianco concludeva con una previsione fallimentare, intorno al progetto finiano, secondo un assunto non meno cinico del cinismo che in molti rimproverano alla terza carica dello Stato: «politica e testimonianza morale sono incompatibili».
L´unica speranza è che, non adesso ma in un qualche futuro post-berlusconiano che prima o poi dovrà pur esserci, la «testimonianza morale» dell´ex capo di An, oggi palesemente minoritaria, possa tornare utile a far nascere una destra italiana finalmente compiuta, moderata ma moderna, conservatrice ma riformista. In una parola: una destra europea, che Berlusconi non rappresenta e non potrà mai rappresentare.
m. gianninirepubblica. it

Repubblica 9.9.09
Allarme rosso del Cavaliere sul Lodo Alfano
"E Gianfranco invece di aiutarmi mi attacca"
di Francesco Bei


Il premier teme che la Consulta possa bocciare a ottobre lo scudo che lo protegge dai pm
Il presidente della Camera avverte: «Non mi faccio prendere in giro. A Gubbio parlerò io»

ROMA - A palazzo Chigi è allarme rosso per la possibile bocciatura del lodo Alfano e la falla che si è aperta sotto la linea di galleggiamento, provocata dallo scontro con Fini, va richiusa al più presto. I pompieri di Forza Italia sono già in azione. Fabrizio Cicchitto e Gaetano Quagliariello, tra tutti, sono quelli che si stanno spendendo di più per trovare almeno una ricomposizione politica fra Berlusconi e Fini, giacché quella umana appare ormai impossibile. Anche se, al momento, il Cavaliere non sembra particolarmente ansioso di ricucire, visto che si sente persino «offeso» per la mancanza di riguardo che gli avrebbe usato ieri l´avversario.
La rabbia contro Fini è quindi montata. Anche perché Berlusconi, visto il temporale che s´annuncia all´orizzonte, sta contando in questi giorni amici e nemici e l´ex leader di An, insieme con Casini, è finito nella lista dei secondi. Intorno al Cavaliere si riaffacciano prepotentemente i timori di una bocciatura totale o parziale di quel lodo Alfano che gli sta facendo scudo da vecchi processi (come quello sul caso Mills, già arrivato a un passo dalla sentenza) e nuove inchieste. La Consulta, dal 6 ottobre, inizierà ad esaminare la legge che garantisce l´immunità al premier e il dispositivo dovrebbe essere reso noto a fine mese. Da qui i sospetti di una manovra concentrica, di una «cospirazione» ai suoi danni che punterebbe a travolgerlo con l´accusa di mafiosità per le stragi dei primi anni Novanta.
E in questa situazione Fini cosa fa? Visto da palazzo Grazioli, invece di difendere il fortino apre la porta agli assedianti. «Già, Fini secondo voi cosa ha per la testa?», ha chiesto il Cavaliere l´altra notte ai suoi ospiti ad Arcore. «Ormai nemmeno i suoi gli vanno più dietro - ha proseguito - se dovessi rifare le quote del Pdl, altro che 30%». Poi, dopo una maratona di barzellette - una trentina, alcune raccontate anche da Giulio Tremonti - e una gara canora, Berlusconi è tornato a ragionare su Fini: «A differenza di Casini, che può allearsi con la sinistra, Fini dove va? Certo, con quelle sue prese di posizione ci fa perdere voti e li regala a voi della Lega». Insomma, più un fastidio che un reale problema. Tanto che oggi, quando Berlusconi sarà alla festa dei giovani ex An, ospite di Giorgia Meloni, dovrebbe evitare ritorsioni pesanti sul presidente della Camera. Durante la cena di Arcore, nonostante le barzellette, il premier ha anche mostrato uno certo "spleen", raccontando la sua noiosa estate 2009: «Sono rimasto chiuso ad Arcore tutto il tempo, in Sardegna non posso più andare. Ormai, appena scendo dall´aereo, ci sono fotografi ad aspettarmi e si appostano in alcune piazzole intorno a casa mia per spiarmi. Non posso uscire in costume da bagno o grattarmi che mi beccano».
E dunque l´ordine impartito dal Cavaliere per sterilizzare il caso Fini è quello di non alimentare polemiche interne in un momento di assedio. Con Fini una quadratura si troverà. «Il problema - ragiona un alto esponente del Pdl - è che nel partito manca un luogo di confronto dove Fini possa esprimere liberamente la sua opinione. E magari finire in minoranza. E poi occorre ripristinare al più presto una consultazione al vertice tra i due». Questa è l´opinione dei pompieri, convinti che basti aggiungere alla cena del lunedì con Bossi il pranzo del martedì con Fini. Ma sembra difficile che il presidente della Camera possa accontentarsi di un ossequio formale. Raccontano che ieri sia andato in bestia quando gli sono state riferite al telefono le parole di Berlusconi («con Fini nessun problema») e sia immediatamente scattato dettando la replica. Per togliersi i sassolini dalle scarpe Fini aspetterà invece domani, quando interverrà alla scuola del Pdl a Gubbio per ribadire punto per punto le sue ragioni e la visione di un centrodestra diverso da quello berlusconiano.

Repubblica 9.9.09
Se l’Illuminismo diventa “bieco”
di Stefano Rodotà


Stiamo affrontando un tempo difficile in piena regressione culturale, radice e fondamento d´ogni cattiva politica. Pur sapendo quanto lunga sia la schiera dei detrattori dell´Illuminismo, ad esempio, mai mi sarei aspettato che, nel 2009, fosse definito "bieco", con un ritorno nello spirito e nel linguaggio all´invettiva contro Pio IX che Giuseppe Gioachino Belli mette in bocca al suo popolano romano, nostalgico del "papa morto", Gregorio XVI, "nun fuss´antro pe avé mess´in castello,/Senza pietà, cquela gginia futtuta", per aver imprigionato i biechi "giacubbini". Di quella ingombrante eredità – che continua a parlarci di libertà, eguaglianza e fraternità - bisogna liberarsi nel momento in cui i diritti fondamentali delle persone diventano l´offerta sacrificale per riguadagnare il favore della Chiesa, la libertà d´opinione appare intollerabile e, soprattutto, si insiste sull´investitura elettorale e sul favore dei sondaggi per riproporre un uso del potere della maggioranza che non tollera né limiti, né pudore.
In agosto, il Presidente della Cei aveva messo in evidenza i limiti del principio di maggioranza, al quale non dovrebbero essere sottomessi i valori. L´annuncio di questi giorni del presidente del Consiglio e dei suoi, invece, va nella direzione opposta, per il modo in cui si torna a parlare di testamento biologico, pillola Ru 486, insegnamento della religione, procreazione assistita, unioni di fatto. Sono questi i temi che la maggioranza annuncia di voler sottomettere a quella forza dei "numeri" dalla quale il cardinal Bagnasco, per un momento, sembrava aver allontanato la discussione sui valori. Una maggioranza prepotente proprio sui valori vuole di dire l´ultima parola, dando concretezza alla pretesa di trasformare le istituzioni nel veicolo di un´etica di Stato, nel braccio secolare di convinzioni religiose. Al presidente del Consiglio vale la pena di ricordare un brano del discorso pronunciato da Aldo Moro nel 1974, all´indomani della sconfitta della Democrazia cristiana nel referendum sul divorzio, mettendo in guardia contro le forzature «con lo strumento della legge, con l´autorità del potere, al modo comune di intendere e disciplinare, in alcuni punti sensibili, i rapporti umani»; e si consigliava «di realizzare la difesa di principi e valori cristiani al di fuori delle istituzioni e delle leggi, e cioè nel vivo, aperto e disponibile tessuto della nostra vita sociale». Una posizione, questa, nella quale si rifletteva anche la consapevolezza dei limiti costituzionali all´ingerenza del legislatore nella vita delle persone.
Ma la questione della maggioranza e dei suoi poteri si pone anche in campi diversi, in primo luogo per la riforma dei regolamenti parlamentari che si annuncia come uno dei temi centrali della prossima stagione politica. Il Governo, fin dal primo giorno di questa legislatura, ha sistematicamente mortificato il Parlamento, usando la propria maggioranza per forzature continue, abusando del voto di fiducia, del decreto legge, dei maxiemendamenti. Ora si avanzano proposte di riforme regolamentari che dovrebbero almeno limitare questi abusi. Ma, considerandone i contenuti, si ha la sgradevole sensazione che, nella gran parte dei casi, si trasformino in procedure formali quelle che oggi sono forzature, spianando la strada al Governo anche con strumenti attinti alla parte più autoritaria (e oggi contestata) della costituzione gollista, come il voto "bloccato" che cancella gli emendamenti agli articoli delle leggi in discussione. In cambio, all´opposizione verrebbe concesso un ingannevole "statuto", che dovrebbe rafforzarne il ruolo. Ma si tratta di concessioni che la maggioranza può sempre vanificare appunto con la forza dei numeri. Ricordo, come ammonimento, quel che accadde diversi anni fa, quando una riduzione dei poteri dell´opposizione venne "compensata" con la concessione del parere di costituzionalità in sede di commissione parlamentare. Bene, maggioranze più o meno blindate hanno sempre dato via libera, a occhi chiusi, anche a provvedimenti di cui la incostituzionalità era evidente, e sarebbe stata poi dichiarata dalla Corte.
Mi auguro che l´opposizione se ne renda conto, e non si lasci intrappolare da questo diversivo, che avrebbe come unico effetto quello di rendere rispettabile ciò che oggi ha il carattere di una forzatura. Un diversivo doppiamente pericoloso, perché distoglie l´attenzione da quelli che oggi sono i veri punti critici di una riforma del Parlamento, non riducibile al solo superamento dell´attuale bicameralismo (che tuttavia, in tempi di prepotenze e di ignoranze, ha almeno reso più difficile qualche forzatura, come sta accadendo ad esempio per la legge sulle intercettazioni telefoniche). Da tempo scrivo che, con l´avvento della democrazia "continua", segnata da una presenza sempre più variegata e costante dei cittadini, dev´essere ripensato il rapporto tra il Parlamento e la società, dando così nuovi fondamenti sia al principio maggioritario che al rapporto tra maggioranza e opposizione. Molte sono le vie percorribili. Rivitalizzare l´iniziativa legislativa popolare, prevedendo presenze dei promotori nell´esame parlamentare in commissioni e vincoli temporali per la discussione delle proposte. Cogliere l´indicazione del Trattato di Lisbona, che accompagna la democrazia rappresentativa appunto con il diritto di proposta da parte di un milione di cittadini europei. Sviluppare questa indicazione nel senso reso visibile dalla strategia di Barack Obama, che non ha ridotto il ricorso alle tecnologie della comunicazione alla logica del marketing politico, ma sta integrando la sfera della democrazia rappresentativa con quella delle reti sociali. Solo così è possibile una riforma che non sia un gioco sterile all´interno delle attuali istituzioni parlamentari.
Ma, per imboccare questa strada, è indispensabile uscire da una forma di schizofrenia che percorre la discussione politica. La forza delle cose ci mette di fronte alla concentrazione personale del potere, all´affossamento della separazione dei poteri, alla distruzione dei controlli, all´infeudamento del sistema della comunicazione, alla disunione del paese, in sintesi a quello che è stato chiamato lo sfascio dell´Italia. E, tuttavia, mai ci si pone una domanda, che pure dovrebbe essere ineludibile: come è potuto accadere, quali sono state le condizioni istituzionali che hanno contribuito a rendere possibile tutto questo? La domanda viene elusa perché esigerebbe una riflessione sul modo in cui è stato realizzato il passaggio dal sistema proporzionale a quello maggioritario. Una politica debole, incapace di immaginare il proprio futuro, si è consegnata ad una modellistica costituzionale che, a destra come a sinistra, esaltava il solo momento della decisione e per ciò scioglieva la maggioranza da ogni vincolo che non fosse il giudizio pronunciato dagli elettori alla fine della legislatura, aprendo la strada alla democrazia d´investitura e al potere personale. Senza ammortizzatori costituzionali e senza le forme di mediazione fino a quel momento assicurate dai partiti di massa, la politica è fatalmente degenerata in conflitto personale, in scontri oligarchici, in una ricerca del consenso senza esclusione di colpi .
Non per nostalgie del passato, ma per fronteggiare il presente e costruire il futuro, abbiamo bisogno di questa consapevolezza. È venuto il momento di abbandonare l´ingegneria costituzionale e di tornare ad una politica costituzionale capace di riportare la maggioranza alla sua giusta funzione, in un quadro di principi che essa stessa non può violare.

Repubblica 9.9.09
L´unità nazionale in pericolo
di Giorgio Ruffolo


Altri grandi paesi europei non celebrano la loro unità. Per alcuni è troppo remota per avere un significato attuale. Altri come la Francia preferiscono celebrare il loro più grande conflitto storico: la rivoluzione. Tutti considerano l´unità come un fatto acquisito che non ha bisogno di essere celebrato. Per noi non è così. Perciò finiremo per celebrarla controvoglia.
Il fatto è che l´unità italiana è scarsamente sentita dagli italiani. Lo testimonia la svogliatezza con la quale l´attuale governo, pur pressato dal Presidente della Repubblica, ha abbandonato le celebrazioni ormai prossime del centocinquantesimo anniversario alla fantasia burocratica e dissipatrice di Regioni e Comuni. Né maggiore interesse è dimostrato dall´opposizione.
Solo una minoranza politica, diciamo la verità, coltiva il mito del Risorgimento. Per la maggioranza Mazzini e Garibaldi fanno parte del folklore domestico, non certo di una salda coscienza patriottica. C´è anche chi, come un giovane e intelligente studente, addirittura se ne vergogna pubblicamente. E in effetti ragioni, se non di vergogna, di grande perplessità non mancano sul modo in cui quell´unità fu raggiunta: tra l´altro, in forme impreviste e persino indesiderate dai suoi protagonisti.
Tra questi il suo massimo artefice, Cavour, l´aveva fin quasi al suo compimento definita una "sciocchezza" restando all´ipotesi del "Belgio grasso" al Nord e di un Regno del Mezzogiorno al Sud, con una mediazione pontificia al centro: il tutto nell´ambito, al massimo, di una lasca confederazione.
È vero dunque che l´unificazione politica del Paese fu il risultato di una conquista sabauda, non di una patriottica intesa. Se poi si vuole infierire, fu anche il risultato di umilianti sconfitte militari. Ma due cose non sono vere.
La prima è che manchi all´unità del Paese la sua base storica. L´Italia si riconosce non solo nella pizza, nel gioco del pallone e nell´autocompiacenza amatoria, ma in una grande lingua e in una grandissima civiltà. La seconda è che il Risorgimento non fu soltanto conquista effimera e frutto di fortunose sconfitte. Fu anche movimento di popolo. Ci fu certamente il Risorgimento freddo, ma ci fu anche un Risorgimento caldo, fiammeggiante nelle giornate di Milano e di Brescia, nella repubblica romana, nella resistenza di Venezia, nell´avventura garibaldina.
Non soltanto. Contrapposto alla storia che inopinatamente si realizzò, il Risorgimento fu anche un grande disegno alternativo fallito ma ancora oggi carico di significato. Fu il progetto di una Federazione nella quale le realtà storiche del Paese, così ricche di irriducibile "personalità", costruissero, sulla base di una loro gelosa autonomia, una cangiante e meravigliosa unità.
Questo era il grande disegno di Cattaneo, di Salvemini, di Dorso. Un federalismo unitario, come tutti gli autentici federalismi vittoriosi, da quello americano a quello svizzero a quello tedesco. Unitario e patriottico. Niente da spartire con un leghismo protezionistico, tendenzialmente separatista e desolantemente, caro ragazzo, bigotto.
Questo grande disegno alternativo risultò sconfitto con grave danno dell´intero Paese al quale veniva a mancare la dorsale di sostegno: l´integrazione tra il Nord e il Sud d´Italia.
Ciò che ancora i "belgi" del Nord non hanno capito è la diversità sostanziale tra la questione meridionale e quella settentrionale. Quest´ultima è la sacrosanta espressione di interessi locali e di culture specifiche da tutelare. La prima invece è la colonna vertebrale dell´intero Paese.
Ecco perché i grandi meridionalisti hanno sempre mantenuto le distanze da un sudismo becero: hanno parlato non a nome di Palermo e di Napoli, ma dell´Italia e dell´Europa.
La prima vittima della soluzione unitaria-autoritaria è stato proprio il meridionalismo. All´ombra di quella la questione meridionale si è sbriciolata in una poltiglia di pretese locali; la classe politica si è decomposta in una serie di consorterie clientelari; il disegno dell´intervento straordinario, concepito inizialmente come grande progetto unitario di scala nazionale si è sminuzzato in una serie di interventi particolari esposti alle sollecitazioni e pressioni "private".
La tremenda minaccia che si addensa oggi sul Mezzogiorno non è più, come Gramsci denunciava, l´asservimento del Sud agli interessi dominanti del Nord. La depressione politica del Mezzogiorno non si identifica più nel potere della classe agraria e nella sua alleanza subalterna con la borghesia industriale del Nord, ma nel potere di una borghesia mafiosa e nello scambio elettorale tra la garanzia politica che essa assicura al governo centrale e le risorse finanziarie che ne riceve e che gestisce come un gigantesco "pizzo" attraverso i governi locali.
La "tremenda minaccia" è che il governo di quelle risorse sfugga anche a quella intermediazione e cada direttamente nelle mani delle grandi reti della criminalità internazionale.
Non accade già in certe regioni del Sud?
Queste domande ripropongono a centocinquant´anni di distanza il problema dell´unità d´Italia. Non è mai troppo tardi.

Corriere della Sera 9.9.09
Un braccio di ferro che ufficializza una rottura annunciata
Un Fini sempre più ai margini del Pdl innervosisce ma rafforza il premier
di Massimo Franco


Il braccio di ferro in atto fra Silvio Berlusconi e Gian­franco Fini adesso è ufficiale, ma non sorprendente. E per il modo in cui si sta sviluppando, appare squili­brato: nel senso che i rapporti di forza nel centrodestra non prefigurano una lotta dura fra il premier ed il presidente del­la Camera. Piuttosto, promettono di accentuare l’immagine di isolamento di Fini nella «sua» maggioranza; e di rendere politicamente imbarazzante la solidarietà ostentata che gli ar­riva dall’opposizione. Che la terza carica dello Stato fosse in rotta con palazzo Chigi e la politica del Pdl e della Lega era noto. Nuova, però, è la reazione infastidita che la coalizione mostra nei suoi confronti. L’idea finiana di «un altro centro­destra » sta diventando una tesi quasi provocatoria, con le re­gionali a primavera.
Viene avvertita come un distinguo, di più, uno smarcamen­to da Berlusconi e da Umberto Bossi, ritenuto inaccettabile. Nel governo i più benevoli sostengono che l’«indisciplina» del presidente della Camera nasce dall’assenza di un’opposi­zione; e dunque dalla tentazione dei vari esponenti del centro­destra di coprire l’intero spettro delle posizioni politiche. La versione malevola iscrive invece Fini d’ufficio al «partito del dopo-Berlusconi». Addita le sue ambizioni per il Quirinale ed il sostegno degli avversari, che sfruttano lo scontro per mette­re in dubbio l’esistenza della maggioranza. Per di più, il «tut­to a posto» detto ieri da Berlusconi alla Fiera tessile di Milano per archiviare gli attacchi della stampa del centrodestra al presidente della Camera non è stato raccolto da Fini.
E così, invece di sigillare una possibile tregua, ha vidimato ed ufficializzato un conflitto fra i capi di due partiti che si sono appena unificati: uno scon­tro che l’Idv di Antonio Di Pie­tro ritiene istituzionale; e che fa presagire al Pd una frattura du­ratura e grave nella coalizione governativa. «I problemi politi­ci rimangono», ha replicato in­fatti Fini al premier. «Ed è para­dossale che lui li neghi». Non so­lo. Si è premurato di annunciare che spiegherà di nuovo la sua idea del Pdl in un convegno in programma nelle prossime ore a Gubbio. Ma è difficile pensare che un’altra uscita di contestazione del Cavaliere e del suo modo di esercitare la leadership possa restituirgli peso fra gli alleati. Anzi, l’ipotesi più probabile è che sospinga ulterior­mente il presidente della Camera verso un limbo politico insi­dioso; e rafforzi quanti, come alcuni leghisti, lo provocano chiedendogli le dimissioni dal vertice dell’assemblea di Mon­tecitorio.
Qualche esponente del Pdl proveniente da An invita le avanguardie berlusconiane alla prudenza; a scongiurare una collisione che sarebbe comunque lacerante. Eppure, il sospet­to è che nel governo e a palazzo Chigi la lacerazione sia stata già data per avvenuta; e che il presidente del Consiglio riten­ga di non avere nulla da temere da una resa dei conti con Fini: non, almeno, sulle posizioni politiche che Fini ha assun­to negli ultimi mesi sulle questioni etiche ed i rapporti col Vaticano; e su un Pdl bollato come «una caserma dove coman­da uno solo», fra le lodi e la solidarietà degli avversari del governo. È soprattutto quest’ultimo aspetto, forse non valuta­to appieno, a mettere l’ex leader di An in una posizione delica­ta; e ad esporlo ad attacchi ancora più brutali.
«Non è un problema mio» ha replicato Berlusconi ai leghi­sti Bossi e Calderoli che l’altra sera hanno cenato con lui e col ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Il premier non sem­bra preoccupato neppure dalla prospettiva di qualche imbo­scata parlamentare: anche perché in quel caso non ci sarebbe un secondo governo Berlusconi. I fedelissimi del premier sus­surrano che si andrebbe diritti ad elezioni anticipate; e con un Cavaliere pronto a rilanciare, approfittando anche del gua­do in cui si trova l’opposizione. Naturalmente, si tratta di sce­nari estremi. Ma il solo fatto che affiorino mostra la tensione nella maggioranza; e la determinazione berlusconiana a con­solidare l’asse con la Lega per smaltire le ultime sacche di dissenso. C’è la campagna elettorale e Fini, pare di capire, de­ve adeguarsi. Il problema è che accadrà se non si arriverà ad un compromesso con lui.

il Riformista 9.9.09
L'arma finale di Berlusconi. Elezioni anticipate a marzo
Retroscena. Altri dossier in rampa di lancio, lo scontro con Fini, lo spettro della bocciatura del lodo Alfano: a Palazzo Grazioli si ragiona di un accorpamento con le regionali come rimedio estremo al precipitare degli eventi. Nuovo attacco alle Procure e al Pd, ma c'è chi auspica una tregua "giudiziaria" col Pd di Bersani.
di Alessandro De Angelis



Ai suoi, da giorni, lo ripete in continuazione: «Saranno mesi difficili, vedrete, arriveranno altri attacchi». Silvio Berlusconi si prepara al peggio. Sa che nelle redazioni ci sono arsenali pronti ad esplodere. Li ha Repubblica. Li sta preparando Feltri. Per non parlare dello scontro con Fini. L'accusa è esplicita: è uno che fa la fronda, che vuole andare al Colle con i voti della sinistra. I rapporti tra i due co-fondatori del Pdl sono logori. Come testimonia il botta a risposta a distanza di ieri: «Con Fini nessun problema». Risposta rispedita al mittente dal presidente della Camera: «Non si può far finta di nulla». Quando poi è trapelata l'indiscrezione che a Gubbio domani l'ex capo di An terrà un discorso duro, ai fedelissimi sono saltati i nervi: «Ormai è chiaro che lavora per fondare un altro partito». Palazzo Chigi pare un fortino assediato. E la paura sull'esito del lodo Alfano non aiuta certo a rasserenare il clima. Nella cerchia ristretta del premier nessuno è più disposto a scommettere, come qualche mese fa, sulla non bocciatura del lodo: «Siamo 50 a 50».
 Quindi Berlusconi si prepara al peggio. Ed è sulla base delle più fosche previsioni che ha utilizzato la sua prima uscita dopo la pausa estiva - ieri ha inaugurato a Milano la fiera del tessile - per mandare un messaggio (a tutti, fuori e dentro la maggioranza) che suona così: o abbassate i toni o tiro dritto. Ai giornali: «Ci attaccano come tori inferociti, ma qui c'è un torero che non ha paura di nessuno». A chi parla di regime: «In questi giorni si è dimostrato che in Italia c'è la libertà di mistificare, di calunniare, di diffamare. Questa non è una dittatura. Un dittatore, di solito, prima attua la censura, poi chiude i giornali». Al Pd, forse l'avviso più viscerale. Complice un lapsus (parlando della ricostruzione abruzzese, dice «tangentopoli» invece di «tendopoli») afferma, senza troppi giri di parole, che nessuno è senza peccati: «Tangentopoli è una cosa del passato? Vediamo. A Bari è aperta una inchiesta interessante. Mi sono stancato di prenderle soltanto». 
In base alle informazioni in suo possesso, il premier è convinto che l'inchiesta pugliese sui legami tra sanità e finanziamento ai partiti può avere risvolti pesanti per gli uomini di D'Alema. Per questo vuole vedere che cosa esce da Bari prima di accelerare sulle intercettazioni. E per questo, parallelamente, ha lanciato strali contro le procure che remerebbero contro di lui: «So che ci sono fermenti in procura, a Palermo, a Milano. Si ricominciano a guardare i fatti del '93, '94, e del '92. Follia pura. Gente che con i soldi di tutti fa cose cospirando contro di noi». Per il premier il disarmo passa proprio dalle procure perché - ha spiegato ai suoi - «deve essere bilaterale». Non ha intenzione di abbassare i toni per primo. Non si fida. Vuole un «segnale». Certo è complicato possa arrivare prima della fine del congresso del Pd. Ma - dicono i suoi - «con Bersani torna D'Alema e ci si può parlare, anche se ora alza i toni per vincere contro Franceschini». Tanto che a palazzo Chigi a microfoni spenti raccontano di pontieri a lavoro per stabilire contatti prima della fine del congresso.
Se dovesse arrivare un messaggio di «tregua» dal Pd (che implica anche il disarmo di Repubblica), Berlusconi è pronto a trattare. Altrimenti tirerà dritto. È lo scenario che il Cavaliere ritiene più probabile. D'altronde a palazzo Chigi le colombe contano assai poco nel determinare la linea politica. Gianni Letta non è più il regista del gioco governativo come ai vecchi tempi. Anzi sugli attacchi di Feltri a Fini ha manifestato più di un malumore. E le preoccupazioni, sul clima che si è creato, di Fabrizio Cicchitto e Gaetano Quagliariello, altre due colombe, sono il termometro che lo scontro è destinato a salire. Fino alle estreme conseguenze. Già, le estreme. Ancora non si può parlare di un "piano b", qualora la tregua si rivelasse sono un'ipotesi scuola e il lodo venisse bocciato. Ma nella cerchia ristretta del premier, come nei momenti più bui del sexgate, lo scenario di elezioni anticipate non è un tabù. Un azzurro vicinissimo a Berlusconi chiede l'anonimato per spiegare il quadro: «Se venisse bocciato il lodo Alfano si aprirebbe una situazione ingovernabile: le procure inizierebbero la demolizione giudiziaria di Berlusconi, la sinistra e i giornali continuerebbero con gli attacchi personali. Questo porterebbe inevitabilmente a un logoramento dell'esecutivo, costretto a giocare sulla difensiva e quindi impossibilitato a realizzare il suo disegno riformatore. A quel punto l'unica soluzione sarebbe un ritorno alle urne, accorpando politiche e regionali». È più di una suggestione. Berlusconi è tentato. Ne ha parlato con i suoi. I sondaggi che ha in mano dicono poi che il suo consenso personale ha resistito all'urto di questi mesi, dagli scandali sessuali alla crisi con la Santa Sede. E poi chi ha parlato con lui in questi giorni lo descrive stanco «di essere cucinato a fuoco lento» e desideroso di una resa dei conti definitiva. Con tutti. Fini compreso.

il Riformista 9.9.09
Fini: non cedo neanche se si vota a marzo Il personaggio
di Stefano Cappellini


Il presidente della Camera respinge la tregua del premier («Inutile che neghi i problemi»), incassa la solidarietà di Letta e ritrova l'asse con Pier. Scenario: urne anticipate e scissione Pdl.

La misura dello scontro in atto è data dalla prontezza, oltre alla durezza, con cui Gianfranco Fini ha cacciato indietro il tentativo di Silvio Berlusconi di sedare la polemica reciproca («Con Fini? Tutto a posto»). Pochi minuti e le agenzie di stampa hanno battuto una dichiarazione che non concede alcuno spiraglio alla tregua: «Non è tutto a posto - rilancia il presidente della Camera - anzi i problemi politici rimangono ed è paradossale che Berlusconi li neghi». Fini non vuole tendere la mano. Al contrario, si dice pronto alla guerra totale. Chi gli ha parlato ieri ha raccolto propositi di sfida: «Sia chiaro - sibila - che io non arretro di un millimetro». E lo dimostrerà domani, con un intervento molto poco diplomatico a Gubbio, alla scuola di formazione politica del Pdl. 
L'ex leader di An non è rimasto sorpreso dall'intemerata del Giornale di Feltri. Da giorni erano arrivate anche al suo orecchio le voci che davano conto di un dossier politico-giornalistico già confezionato contro di lui (e quello uscito non sarebbe l'unico, a dirla tutta). Non vuole enfatizzare l'episodio: «Feltri c'ha preso gusto, ma fa solo il lavoro che gli è stato chiesto», taglia corto. Piuttosto, insieme ai consiglieri più fidati, Fini sta cercando di capire se l'attacco è parte di una più ampia strategia e se, per esempio, può essere collegato all'eventuale tentazione del Cavaliere di anticipare le urne per spiazzare i suoi avversari interni ed esterni e chiudere la stagione del sexgate inseguendo un plebiscito elettorale.
 È uno scenario apocalittico, naturalmente. Ma Fini lo ha preso in considerazione. Più di un fedelissimo ha raccolto e riportato al leader le ultime indiscrezioni da Palazzo Grazioli: Berlusconi starebbe preparando un piano "estremo", cioè abbinare le politiche alle regionali del prossimo marzo, motivando il ritorno alle urne con la necessità di liberare l'azione di governo dai presunti «sabotatori» dentro la maggioranza. Proprio per questo, per giustificare la fine anticipata di una legislatura in cui il centrodestra ha una maggioranza schiacciante in Parlamento, avrebbe bisogno di uno o più nemici da additare all'opinione pubblica. Fini sarebbe solo il primo della lista. 
Ma stavolta non c'è "predellino" che tenga. Il dissenso di Fini dal premier non rientrerà. Per questo il presidente della Camera vuole che a Berlusconi arrivi chiaro un messaggio: «Sbaglia Silvio se pensa di potere andare a elezioni anticipate puntando sullo scontro interno al Pdl. Perché non tutto il Pdl lo seguirebbe. E stavolta alle urne si andrebbe con schieramenti diversi da quelli dell'ultima volta». Sarebbe la fine del Pdl e il totale rimescolamento delle carte. Un terremoto politico.
Sui temi in agenda, che saranno il terreno concreto su cui si misurerà lo scontro nelle prossime settimane, Fini ritiene di avere buoni margini di manovra. Ma distingue tra biotestamento e immigrazione. Sul primo, riflette il presidente della Camera, «non è detto che ci siano i numeri per andare avanti su una legge come quella licenziata dal Senato». Molto dipenderà poi dal dibattito interno alla Chiesa, dove ci sono sensibilità diverse, riemerse puntualmente anche all'indomani del caso Boffo. Diverso il discorso sull'immigrazione. Lì i numeri della maggioranza sono schiaccianti: «La Lega ne fa una questione di bandiera, non lascerà alcuno spazio». 
Insomma, il presidente della Camera non si sente isolato. Sa, per esempio, che Gianni Letta ha deplorato con forza l'attacco nei suoi confronti. «Furibondo», è l'inedito aggettivo attribuito da più parti all'umore del sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Fini è convinto che il metodo degli attacchi del Giornale con successiva dissociazione del premier non possa andare avanti ancora a lungo. Perlomeno, non senza conseguenze gravi sulla tenuta del governo e della maggioranza. Le parole alla Stampa del finiano Italo Bocchino, vicecapogruppo alla Camera del Pdl («Se gli interessi di Berlusconi e di Feltri sono così divergenti, forse sarebbe bene che Berlusconi rinunciasse a Feltri»), sono in questo senso una sorta di ultimatum: il giochino della dissociazione non sarà più tollerato da chi nel Pdl ne sarà bersaglio (durissima, peraltro, la reazione di Feltri: «Bocchino è un fascista»). Soprattutto, Fini è convinto di avere in Casini una sponda importante. Non dà credito alla possibilità che il corteggiamento di Berlusconi riporti stabilmente l'Udc nel centrodestra: «Nell'avvicinamento di Berlusconi a Casini - ragiona coi suoi - non vedo una logica politica, ma mercantile. I sondaggi dicono che quel partito è decisivo in cinque o sei regioni. Tanto basta a Silvio. E comunque non credo che Pier sia così disponibile». Difficile non mettere in relazione il rinascente feeling tra Casini e Fini con la preparazione delle contromisure in vista della possibile offensiva elettorale dal Cavaliere. Con una postilla non secondaria. Il piano di elezioni anticipate potrebbe anche rimanere sulla carta. Il nuovo asse Fini-Casini pare una realtà destinata a restare in campo ben oltre il prossimo marzo.

il Riformista 9.9.09
Che succede al Cav?
L'uomo-immagine ha cambiato faccia
Ha scoperto che il mondo gli è nemico. E non se l'aspettava
di Ritanna Armeni


La nostra - si sa - è una società dell'immagine e la politica si è da tempo adeguata. C'è chi se ne lamenta e rimpiange i vecchi tempi, ma il processo sembra irreversibile. Come si appare, come ci si comporta, la vita personale, gli umori e persino il look per un uomo o una donna che hanno un ruolo pubblico hanno una importanza, una attenzione, mai avuta in passato. Attraverso di loro si può comunicare con il Paese, si possono mandare messaggi e facilitare la trasmissione di idee che altrimenti avrebbero incontrato difficoltà.
Non sono tra coloro che demonizzano l'uso dell'immagine. Può essere chiarificatrice, eliminare ipocrisie su cui si è costruita la vecchia politica. Non solo. Sono convinta che l'immagine per quanto possa essere costruita e artefatta a lungo andare non può che rappresentare gli uomini e le donne per quello che sono e per quello che pensano realmente. Può essere quindi un modo efficace per comunicare quello che si è e non solo - come i più pessimisti pensano - quello che si vuole sembrare. In questo quadro è oggi di grande interesse osservare l'immagine di Berlusconi e la sua trasformazione. La differenza fra quella che il premier ha fornito all'inizio della sua straordinaria avventura politica e quella che oggi egli stesso ci propone.
Essa è, senza alcuna esagerazione, enorme. Tra il primo Berlusconi, quello che è sceso in politica sulle rovine della Prima Repubblica, e quello di oggi non sono passati solo 15 anni, con le normali modificazioni di immagine che gli anni naturalmente comportano, ma c'è un vero rivolgimento. Tanto più rilevante perché il premier - primo assoluto fra i politici italiani - ha fatto proprio dell'immagine l'emblema della sua politica. Per primo ha compreso che il messaggio ideologico, politico-economico, morale e umorale che mandava al Paese passava non solo attraverso le parole e gli slogan ma attraverso il corpo, l'atteggiamento e persino il look. La sua immagine è stata costruita per la sua affermazione in politica. Ma quale immagine appunto? La descriveva qualche giorno fa sul Corriere della sera Ernesto Galli Della Loggia. «Un temperamento leggero e, insieme, pugnacissimo; e poi ottimista, sicuro di sé come pochi e naturalmente disposto all'improntitudine guascona, all'iniziativa audace e fuori dal consueto». Quell'ottimismo è piaciuto agli italiani, stanchi di un catastrofismo senza costrutto che ha caratterizzato (e, purtroppo, ancora caratterizza) la politica soprattutto a sinistra, così come non è dispiaciuta la ricchezza ostentata. Essa - questo il messaggio - poteva essere raggiunta da tutti così come era stata raggiunta dall'uomo comune Berlusconi. È diventata, in qualche modo, democratica. Ha fatto breccia il buonumore, una visione del mondo che poteva essere trasformato, bastava volerlo, e un'ansia di libertà che sfiorava la liceità, non aveva timore di rompere le regole, anche le più sacre del vivere civile e non conosceva compromessi se non quelli a cui qualche volta altri la costringevano, ma che non offuscavano la freschezza della proposta del leader.
Guardiamo al Berlusconi di oggi e troviamo un'immagine addirittura capovolta. Cupo, arrabbiato, segnato, a volte infuriato. Spesso amaro, si dipinge come una vittima di congiure e sul vittimismo cerca di tenere insieme un elettorato che fino a oggi ha trangugiato il suo ottimismo come una bibita gelata in una torrida giornata d'estate. Ricavandone refrigerio e buonumore. Ed ecco che l'ottimismo è crollato, il buonumore è finito, lo sguardo che la tv, anche la più amichevole, rimanda è diventato corrucciato, ostile. Quello di un uomo che ha scoperto che il mondo gli è nemico e non se l'aspettava. E ora ricambia quell'ostilità. Non sono le querele, l'attacco alla stampa, e neppure la leggerezza con la quale ha lasciato trapelare la sua vita sessuale (gli italiani erano pronti a comprendere) che hanno cambiato radicalmente l'immagine di Berlusconi. Così come l'avevano intaccata solo relativamente gli scandali o il discredito internazionale. Ma quello sguardo e quel viso duro e freddo, quegli occhi di un uomo che non si fida più di nessuno. E anche quella propensione a perdere la testa, a non mantenere il controllo.
Certo Berlusconi in questi mesi di colpi ne ha subiti e le preoccupazioni non sono mancate: gli attacchi della moglie e della figlia, le foto sulla sua vita personale sui tabloid stranieri, la campagna lanciata contro di lui da mass media autorevoli, il discredito internazionale, la tempesta nei rapporti con la Chiesa, i silenzi o le critiche all'interno del Pdl, l'incertezza di una situazione economica e sociale finora abbastanza controllata, ma che potrebbe diventare dirompente. Tutto vero, ma proprio lui ha insegnato alla politica che l'immagine è importante e oggi l'immagine che appare è quella di un uomo infelice e sconfitto. Non è un caso che non pochi politici e commentatori parlino dell'inizio della fine. Il premier non ha autostima, ha scritto di recente sul Foglio Giuliano Ferrara. Probabilmente ha ragione. Berlusconi ha perduto autostima, quell'autostima che diventava ottimismo e dava fiducia. Ci pare che sia stata sostituita dalla depressione, dalla rabbia e forse dalla disperazione. Almeno per il momento. Resta da vedere se nelle prossime settimane quell'immagine si trasformerà ancora o se sostituirà definitivamente quella iniziale. In quest'ultimo caso dovremo aspettarci cambiamenti conseguenti non solo nel rapporto fra premier e opinione pubblica, ma nello scenario della politica italiana dentro e fuori il Pdl.

Corriere della Sera 9.9.09
Ancora poche quelle che hanno il coraggio di rivolgersi alla polizia. Nel 49 per cento dei casi la violenza è psicologica
L’esercito silenzioso delle donne maltrattate
Sette milioni sono state vittime di violenza fisica o sessuale In quasi la metà dei casi a picchiare e minacciare è il partner
di Giulia Ziino


Una rosa bianca, immacola­ta. Che lentamente anneri­sce, sporcata da un male che nasce da dentro. È la violenza domestica, la più segreta, quella che si consuma tra le mura di casa. Un mondo sommerso fatto di bot­te fisiche e mentali, che corrode dall’interno colpendo soprattutto le donne, vittime di aggressori che troppo spesso hanno i volti di ma­riti e fidanzati. Oggi e domani le principali città italiane saranno in­vase da migliaia di braccialetti di gomma bianchissimi, inviati an­che a tutte le parlamentari donne: un modo di raccogliere l’invito del ministero delle Pari opportunità a indossare qualcosa di bianco, per solidarietà con le vittime degli abu­si. Per riportare la rosa sporcata al suo vero colore. L’occasione è la Conferenza internazionale sulla violenza contro le donne, in corso a Roma, promossa col ministero degli Esteri. Per capire, e combatte­re, un fenomeno che fa paura. E sfugge, per i confini resi incerti dal­la difficoltà a denunciare la vergo­gna della violenza casalinga. In Italia sette milioni di donne hanno subito violenza fisica o ses­suale nel corso della vita. Di que­ste (dati Istat) 2 milioni e 938 mila hanno subit violenza dal partner o dall’ex. Un universo di sopraffazio­ne di cui fa ancora più paura la fac­cia che rimane oscura, quel 93% di abusi che non viene denunciato, sommerso da mille paure. Sette mi­lioni di vittime silenziose, secon­do il ministero. «Il passo più diffi­cile per una donna — spiega Ga­briella Carnieri Moscatelli, presi­dente di Telefono Rosa — è con­vincersi a chiedere aiuto». Ma usci­re dall’isolamento è solo il primo passo: «Poi c’è l’iter giudiziario e la ricostruzione di sé». Del proprio io massacrato a calci e pugni da chi credevamo vicino: «Da una mappatura del nostro Osservato­rio — continua Moscatelli — su un campione delle circa duemila donne che hanno chiesto aiuto nel primo semestre 2009, risulta che autori delle violenze sono i mariti nel 34% dei casi, gli ex mariti nel 12% e nell’8% i conviventi». Part­ner senza controllo, capaci di acca­nirsi in molti modi: «Nel 49% dei casi la violenza è psicologica, nel 34% fisica, nel 13% economica e un buon 21% è vittima di minacce e stalking, spesso anticamera di abusi più pesanti».
In un anno al Telefono Rosa (che su Facebook ha aperto una pe­tizione per chiedere l’abolizione dei benefici di legge per chi com­mette violenze sulle donne) arriva­no in media 5 mila telefonate. Una è stata quella di Rosaria, 3 figli, 40 anni. Ne aveva 15 quando ha cono­sciuto il fidanzato, 20 quando l’ha sposato. Da allora ne sono dovuti passare altri 20 per venir fuori dal­l’inferno. «I primi tempi mi ero ac­corta di qualche sua reazione vio­lenta — racconta — ma ero troppo giovane per capire. Poi sono co­minciati gli schiaffi, i calci, i pu­gni, le sedie che volavano. Quando gli ho detto che mi volevo separa­re è iniziata la guerra». A Rosaria non è bastato andare via di casa: lui l’aspettava fuori, la seguiva al lavoro, la caricava in macchina con la forza. Ci sono volute un’ami­ca e le parole della figlia 18enne per spingerla a chiedere aiuto: «Co­me ho fatto a resistere vent’anni? Arrivi a pensare che sia quella la vi­ta che ti spetta». Poi la separazio­ne, il giudice. Come per Angela, 40 anni anche lei, un bimbo di 4, cin­que di convivenza con un compa­gno che la picchiava. «Con un fi­glio di mezzo è difficile pensare di reagire — racconta — ma dopo es­sere stata spedita troppe volte al pronto soccorso la mia è diventata una scelta obbligata». Angela co­mincia adesso a non avere più pau­ra quando torna a casa, quando guarda negli occhi la gente.
Per due che hanno spezzato il vincolo, quante altre restano in si­lenzio? Il baratro oggi è più profon­do o abbiamo solo scoperchiato un vaso? «Difficile dirlo — dice Marina Bacciconi, responsabile dell’Osservatorio nazionale violen­za domestica — poiché la maggior attenzione sociale e mediatica agi­sce da lente distorsiva e, d’altra parte, l’informalizzazione del ma­trimonio e della parentela nella so­cietà (e non solo in Italia) si affer­ma sempre più come dato struttu­rale, culturale. Lo stesso modesto aumento negli ultimi anni può aver poco significato e derivare dalle stesse ragioni». Ma se non è possibile quantificare la violenza si può qualificarla: anche gli abusi hanno un genere. Quasi sempre maschile singolare. «Il nostro mo­nitoraggio (registriamo un feno­meno quando tribunali, polizia, ca­rabinieri, Pronto soccorso e medi­ci di famiglia lo incontrano in mo­do da avere una fotografia ad 'alta definizione' del fenomeno) — con­tinua Bacciconi — evidenzia che fra le vittime circa 1 su 3 è ma­schio, minore o anziano ma anche adulto. Ma la donna è certamente la principale vittima». È sulle dina­miche dell’atto violento che emer­gono le differenze più sensibili: «Il maschio conta più sulla propria forza fisica (pugni, calci, minac­ce), la donna per lo più sull’uso di oggetti disponibili in casa, nella vi­ta quotidiana.
Il coltello e altri strumenti da ta­glio appartengono a entrambi, an­che se forse con diverso significa­to ». Legato quasi sempre all’istin­to di difesa: da una ricerca dell’Uni­versità di Bristol che mette in rela­zione violenza domestica e «di ge­nere » risulta che gli uomini prefe­riscono usare la forza fisica (61% dei casi monitorati) ma scendono all’11% nel ricorso alle armi. Que­sto perché la violenza femminile è il più delle volte autodifesa. Gli uo­mini tendono a reiterare gli abusi, combinando violenze fisiche, ver­bali e psicologiche per creare un contesto di paura per controllare la partner. Un inferno tra le pareti di casa.

Corriere della Sera 9.9.09
Obbligo di cura reciproca anche per chi convive
La Corte d’Appello di Milano: stessi doveri degli sposati
di Luigi Ferrarella


MILANO — Non soltanto il matrimonio tra marito e mo­glie, ma anche il rapporto di convivenza, se intenso e pro­tratto nel tempo, possono fare scaturire lo stesso «dovere di cura», gli stessi «reciproci obbli­ghi di assistenza morale e mate­riale » che la legge pone a carico dei soli coniugi e presidia con pene da 1 a 8 anni in caso di «abbandono di persona incapa­ce »: è l’innovativo principio prospettato dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano nel proces­so a un uomo imputato di aver per due mesi abbandonato nel degrado e da sola sul letto di ca­sa la convivente, incapace di provvedere a se stessa a causa di una grave malattia, immobi­­lizzata da una frattura al femore ignorata, e infine morta prima di quanto sarebbe accaduto se fosse stata curata per tempo.
La 56enne ricoverata al Poli­clinico nel maggio 2002, trova­ta dai lettighieri «in condizioni d’igiene scadentissime» nella casa dove viveva con un uomo da 15 anni, appariva devastata dal progredire di un tumore non diagnosticato, bloccata a letto da una frattura al femore non trattata, immersa nelle pro­prie feci tra dolori atroci. Il gior­no seguente era morta. Ed era emerso uno spaccato domesti­co di sofferenza ai limiti del di­sagio mentale anche per il con­vivente («mi diceva che avreb­be chiamato lei il medico...»).
Incriminato per «abbandono di incapace», l’uomo era stato assolto nel 2007 perché per i giudici di primo grado la legge limitava ai soli coniugi l’obbli­go all’assistenza morale e mate­riale, le due persone non erano marito e moglie ma conviventi, dunque all’uomo non poteva es­sere applicata («pena una inam­missibile interpretazione in sen­so sfavorevole») la norma pena­le che punisce l’abbandono.
Ma ora in Appello la prima Corte d’Assise «non condivide l’impostazione» dell’assoluzio­ne e ritiene invece configurabi­le che anche «un rapporto di convivenza, prolungato nel tempo, dia luogo a vincoli di di­pendenza reciproca che com­portano necessariamente il rico­noscimento giuridico dei dove­ri di carattere sociale sanciti dal­la Costituzione inerenti alla na­tura del rapporto, che assumo­no quale contenuto il soddisfa­cimento quantomeno dei biso­gni primari, quali appunto la sa­lute e l’alimentazione». I giudi­ci non si avventurano in una equiparazione secca tra coniugi e conviventi. Nutrono invece la loro tesi di una interpretazione costituzionalmente orientata di norme del codice civile che già oggi contemplano l’ordine del giudice di pagare un assegno periodico a favore delle perso­ne conviventi che, per effetto di provvedimenti di allontana­mento, rimangano privi di mez­zi adeguati. «Sembrerebbe illo­gicamente incoerente», osserva allora il giudice estensore Filip­po Grisolia, un sistema norma­tivo che tuteli una reciproca aspettativa di manifestazioni solidaristiche persino quando il rapporto di convivenza è in­terrotto dall’allontanamento giudiziario, e invece «non riten­ga meritevole di tutela lo stesso 'affidamento' in costanza del rapporto di convivenza, non im­ponendo un dovere reciproco di cura tra conviventi».
Nel caso concreto l’uomo è stato assolto lo stesso, ma solo per mancanza di dolo: in un «contesto così tragicamente anomalo» e degradato, i giudici si sono convinti che non che in­tendesse abbandonare la convi­vente, ma che non avesse l’«esatta percezione» della real­tà in cui versava.

Repubblica 9.9.09
L’Ocse: i prof in Italia sottopagati e lasciati soli
Rapporto shock. Gelmini: riforma necessaria
di Mario Reggio


ROMA - Pagati poco. Senza un sistema di valutazione moderno. Abbandonati a se stessi. Sono gli insegnanti della scuola italiana. È l´impietoso quadro tracciato dal rapporto dell´Ocse presentato ieri. E ancora. Eccessivo il numero delle ore d´insegnamento. Troppi i docenti rispetto agli studenti: uno ogni 11 rispetto ad una media di 1 a sedici. L´Italia, è vero, investe meno degli altri Paesi nell´istruzione e nell´università. Ma i risultati dei livelli di apprendimento relegano l´Italia nelle parti basse della graduatoria internazionale.
Soddisfatto il ministro Mariastella Gelmini: «I risultati della ricerca Ocse evidenziano una serie di criticità del sistema scolastico italiano che ho più volte segnalato. In primo luogo serve la valutazione dei docenti legata alla progressione di carriera. Poi l´Ocse conferma che non sempre la qualità della scuola è legata alla quantità delle ore di lezione e alle risorse investite. È indispensabile accelerare le riforme».
E riforma per il governo vuol dire in primo luogo tagli di personale: si parte da 42 mila insegnanti e 15 mila non docenti per poi proseguire nei prossimi due anni. Obiettivo: risparmiare 8 miliardi di euro. Nel 2012 la scuola italiana sarà cambiata in meglio?
«Cominciamo col dire che il ministro Gelmini dovrebbe essere messa in grado di leggere i dati dell´Ocse - commenta il professor Bendetto Vertecchi, ordinario di Pedagogia sperimentale a Roma Tre e consulente dell´Ocse - sulla scuola l´immagine è deformata, perché le comparazioni sugli organici tra l´Italia e gli altri Paesi è impossibile. Da noi gli 80 mila insegnanti di sostegno sono a carico del ministero della Pubblica Istruzione, mentre nel resto d´Europa, quando ci sono, dipendono dal ministero del Welfare. Noi abbiamo quasi 20 mila insegnanti di religione cattolica assunti con un contratto a tempo indeterminato, caso unico in Europa. In totale fanno 100 mila: un ottavo dell´intero corpo docente».
Altra nota dolente. Il numero eccessivo delle ore trascorse in classe dagli studenti italiani: in media più di mille ore l´anno rispetto le 900 degli altri Paesi Ocse.
Ma è davvero così? Non proprio. «L´Ocse calcola le ore di lezione in classe. Ma nei Paesi con un sistema moderno d´istruzione, più della metà delle ore d´insegnamento si fanno in laboratorio o all´esterno della scuola - precisa il professor Vertecchi - in Finlandia, che è in testa nelle valutazioni Ocse, alla fine le ore passate a scuola dagli studenti sono molto superiori a quelle italiane. Noi abbiamo un´organizzazione del lavoro ottocentesca, fatta di compiti in classe, esercizi, interrogazioni, quindi il confronto è improponibile».
Cosa fare per rivitalizzare la scuola italiana? «L´Ocse ribadisce che è strategico investire in istruzione per battere la crisi e creare nuova occupazione - dichiara il segretario della Flc Cgil Mimmo Pantaleo - quindi sarebbe opportuno un radicale cambiamento della politica di governo che intende distruggere la scuola pubblica e mercificare i saperi».

l’Unità 9.9.09
Il Bundestag riabilita i «traditori di guerra» condannati dai nazisti


BERLINO Il Bundestag ieri ha riabilitato, quasi 65 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, tutti i «traditori di guerra» condannati dal regime nazista: i deputati tedeschi hanno approvato, con un voto a larga maggioranza, un disegno di legge in gestazione da decenni, ma alla fine appoggiato da tutti i partiti rappresentati in Parlamento.
La legge mette la parola fine a una lunga battaglia combattuta da coloro che, durante il nazismo, si rifiutarono di obbedire ad Adolf Hitler. Si tratta dell'unico gruppo di vittime della dittatura che non era ancora stato riabilitato appieno, anche se nel 2002 la Camera bassa del Parlamento aveva concesso la riabilitazione ad alcuni ex soldati su base individuale.
In quegli anni, circa 100 mila persone vennero incarcerate dal regime con l'accusa di essere «traditori di guerra», circa 30 mila di loro vennero condannati a morte e di questi circa 20 mila vennero giustiziati.
Tra i principali sostenitori dell'iniziativa, c'è Ludwig Baumann, 87 anni, uno degli ultimi disertori del Terzo Reich sopravvissuti, fondatore dell'associazione federale delle vittime della giustizia militare dei nazionalsocialisti. Baumann, che vive a Brema, era ieri in Parlamento per assistere allo storico voto.❖

l’Unità 9.9.09
Quell’odore di morte che devasta «Lebanon»
La pellicola israeliana potrebbe rivoluzionare i pronostici: un film durissimo senza buoni e cattivi, forse da Leone d’Oro
di Dario Zonta


Il film israeliano in Concorso potrebbe vincere il Leone d’Oro, o aggiudicarsi qualche premio importante. È il tipico film che arriva a metà festival a sconquassare i pronostici, a riformulare i bilanci, a definire nuove prospettive. È un film durissimo, anche discutibile (almeno per chi è sensibile al senso del limite della rappresentazione, quando si tratta di corpi sventrati in scene di guerra), ma molto potente, e bello, e originale.
Il regista Samel Maoz è israeliano, e a 20 anni, come tutti i suoi compagni, ha fatto la leva obbligatoria nel Corpo Corazzato (il proletariato delle Forze Armate israeliane, come lui lo definisce). Fu messo in un carro armato a sparare a bidoni di benzina per fare allenamento. Poi, un giorno, la guerra, quella vera, quella del Libano, nel 1982. E lì non c’erano bidoni finti ma persone vere, e una l’ha uccisa, per davvero, «non per scelta – confessa – né perché mi fu ordinato, ma per una reazione istintiva d’autodifesa». Un’esperienza devastante che ha bruciato nelle narici della sua memoria per decenni, fino a quando è diventato un film per cercare di levarsi l’odore della morte da dentro le narici e comprendere il lutto, degli altri.
E l’odore si percepisce in questo film, tutto girato dentro un carroarmato. Un impianto drammaturgico originale, una sorta di dramma da camera in un film di guerra, la piéce teatrale di una tragedia di gruppo, tutta vissuta dal di dentro, mentre fuori l’orrore si scatena e passa dal reticolo del congegno di mira. Non si scende mai dal trabiccolo. Le azioni di guerra, fuori, passano solo attraverso l’occhio del carro, dal mirino del tiratore (alter ego del regista). La guerra è in soggettiva. Samuel Maoz non mette elementi politici nel film. Loro sono gli israeliani, gli altri sono gli arabi. Sono uomini in guerra, pieni di paura, senza gradi militari, solo l’asfissia, il caldo, la puzza, la morte. Il carrarmato è già una tomba, e tutti lo sanno. Non manca la solidarietà, così come descritta in un finale di compassionevole, vero e umano. Per certi versi Lebanon ricorda Walzer con Bashir, seppur imploso dentro, senza più la coscienza del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, dei buoni e dei cattivi.❖

l’Unità 9.9.09
Battaglia legale in Israele sull’eredità Kafka


Il tesoro di lettere, cartoline e forse anche di disegni di Franz Kafka è arrivato in questi giorni nelle aule del tribunale di Ramat Gan (Tel Aviv) dove una vertenza giudiziaria mette a confronto due due anziane signore israeliane e la Biblioteca Nazionale di Gerusalemme, che ha preso l'iniziativa per cercar di impedire che quei preziosi documenti restino in mani private e poi, forse, vengano trasferiti all'estero. La vicenda, singolarmente intricata, inizia nel 1924 a Vienna quando sentendosi in punto di morte il celebre scrittore affidò le proprie carte all’amico Max Brod chiedendogli di darle alle fiamme. Brod, com’è noto, si rifiutò. Nel 1939 Brod lasciò la Cecoslovacchia e raggiunse (con gli scritti di Kafka) Tel Aviv, dove morì nel 1968. La segretaria di Brod, Ilse Esther Hoffe, mantenne un controllo assoluto degli scritti e, alla sua morte nel 2007, ha lasciato tutto alle due figlie, Ruth e Hawa, adesso impegnate in un'aspra schermaglia con la Biblioteca Nazionale. Ai giudici il direttore della Biblioteca ha spiegato che va tenuta in considerazione la ben diversa capacità di preservazione dei documenti.



il Riformista 9.9.09
64.179. Sono i detenuti presenti nei penitenziari italiani sottoposti a trattamenti disumani e degradanti
La pena nel nostro Paese è vera e propria tortura
Strasburgo ci ha condannato, ma al di là della sanzione economica nessuno si è occupato dell'inciviltà delle carceri
di Alfredo Sperati


Il sistema carcerario del nostro paese ha una capienza di circa qurantatre mila persone detenute. Negli istituti di pena sono però rinchiusi circa 64.179 detenuti. Da Nord a Sud la fotografia di una cella è diventata drammaticamente simile. Buia e sporca, con i letti a castello accatastati alle pareti e dentro dieci, dodici, venti persone chiuse per ventuno ore al giorno. Un esempio. Ragusa, cella di nove metri quadri, il cubicolo, ospita nove persone stipate, su letti a castello di tre piani, la bocca di lupo copre la finestra ed impedisce all'aria di entrare oltre a non permettere la distinzione tra il giorno e la notte.
L'ingegneria penitenziaria si è superata a Termini Imerese, dove in celle di quattro per quattro vi sono dodici persone, grazie a grattacieli-brande, letti a castello di quattro piani. Strutture all'avanguardia che presentano problemi per ciò che concerne la discesa: un ragazzo è venuto giù dal quarto piano ed ha riportato un trauma cranico, il quale ha richiesto l'apposizione di punti di sutura.
Carceri italiane che hanno interessato anche Corte europea dei diritti dell'uomo, la quale, costretta dal signor Sulejmanovic, che dal 30 novembre 2003 era residente a Rebibbia, ha verificato le condizioni di vivibilità del noto carcere situato alle porte di Roma. Disumano e degradante. Lapidario il giudizio dei Giudici europei, al quale sono giunti dopo avere constatato che il detenuto viveva in una cella di 16,20 mq, divisa con altre 5 persone.
La Corte ha osservato che ogni detenuto non disponeva che di 2,70 mq di media e ha stimato che una situazione tale non abbia potuto che provocare dei disagi e degli inconvenienti quotidiani, obbligando a sopravvivere in uno spazio molto esiguo, di gran lunga inferiore alla superficie minima stimata come auspicabile dal Comitato per la prevenzione della tortura. La conseguenza è stata la condanna a mille euro, perchè è stato violato l'art. 3 della Convenzione, la quale sancisce uno dei valori fondamentali delle società democratiche, proibendo in termini assoluti la tortura e le pene o i trattamenti disumani o degradanti.
I media italiani hanno dato ampio risalto alla notizia, ma paradossalmente è stato messo in risalto l'aspetto economico, la condanna dello Stato italiano ad una multa di mille euro. Alcuni quotidiani si sono chiesti quale possa essere l'esborso a cui lo Stato sarebbe condannato, se i sessantamila detenuti rinchiusi oggi nelle degradate carceri avesse percorso la stessa strada del signor Sulejmanovic. Nessuno ha considerato che la condanna della Corte europea è scaturita dalla verifica del trattamento a Rebibbia, uno dei migliori istituti di pena del nostro sistema carcerario.
Nessuno ha riflettuto che la verifica attiene a fatti relativi ad una unità temporale ricompresa tra il 2002 e 2003. Periodo questo in cui il sovraffollamento era di molto inferiore a quello odierno. Nessuno sembra si sia più di tanto preoccupato che i Giudici europei abbiamo scritto che la pena nel nostro paese è di fatto una vera e propria tortura. Non si può infatti definire diversamente la condizione di sei persone rinchiuse tutto il giorno in una stanzetta e che devono fare a turno per respirare davanti alla finestra.
Nessuno ha considerato che circa la metà di quelle persone che subiscono una tortura non sono state neanche condannate: sono in stato di custodia cautelare. Nessuno proprio nessuno. Non sicuramente coloro che occupano le aule parlamentari o il palazzo del governo. Governanti e legislatori che preso atto della propria incapacità non cercano di risolvere il problema e pertanto preferiscono non commentare una decisione internazionale che bolla il nostro paese come barbaro-incivile. Nessuno proprio nessuno. Neanche coloro che questa tortura la infliggono pronunciando la sentenza di condanna.

il Riformista 9.9.09
Francia
La caccia senza regole contro i "sans papiers"
di Chiara Rancati


Francia. L'impiegato di banca si insospettisce davanti ai documenti di un cliente e chiama la polizia. Il dipendente dell'ente pubblico tende tranelli. Il commesso della biblioteca controlla zelante le carte fedeltà. Il collaborazionismo spontaneo dilaga oltralpe e sostiene - anche aldilà della legge - la campagna di esplusione degli immigrati irregolari voluta dall'Eliseo.

I documenti del cliente che aveva appena richiesto il rinnovo della tessera bancomat non lo avevano convinto. Così un coscienzioso dipendente del Credit Lyonnais di Aulnay-sous-Bois, nella banlieue parigina, ha deciso di avvertire le forze dell'ordine. E Mamdou, trentatreenne di origine maliana, in Francia da 8 anni ma con permesso di soggiorno scaduto, è passato direttamente dallo sportello bancario al centro di detenzione amministrativa di Bobigny.
Certo, la legge transalpina incoraggia i controlli d'identità sui clienti, per evitare frodi, falsificazioni e malversazioni varie. Ma, spiega la rappresentante sindacale Chantal Lamy, utilizzare questo meccanismo per dare la caccia agli immigrati irregolari è «inammissibile». Eppure, racconta al Riformista, è già successo almeno altre due volte nell'ultimo anno: «A Parigi, per esempio, lo scorso settembre una donna non in regola ha fatto richiesta di rinnovo del Bancomat. La nuova tessera le è stata inviata, ma poi qualcuno deve aver notato che i suoi documenti non erano più validi. Così la filiale ha deciso di bloccare la carta, obbligandola a prendere appuntamento per farla sbloccare. E quando si è presentata, la polizia l'ha fermata».
Queste forme di zelo patriottico affondano le radici nel nuovo corso in materia di politiche d'accoglienza inaugurato dalla presidenza Sarkozy. I media l'hanno ribattezzato "sistema delle quote di espulsioni", e il suo obiettivo è chiaro: togliere dalle strade francesi almeno 25mila di irregolari all'anno, per garantire maggiore sicurezza e combattere il racket dei trafficanti di uomini. Filosofia sposata con solerzia tanto dall'ex ministro dell'Immigrazione Brice Hortefeux, orgoglioso di aver concluso il 2008 con quasi 30mila espulsioni, che dal suo successore Eric Besson, desideroso di chiudere l'annata a quota 26mila. «La Repubblica francese sarà ferma nell'assicurare che la legge sia applicata - aveva precisato il Primo ministro François Fillon - Ma, naturalmente, l'applicazione deve avvenire con la più grande umanità».
Il nuovo sistema, però, ha aperto il campo a svariate forme di controllo informale sulla cui «umanità» è lecito interrogarsi. E ricordano da vicino alcune tattiche italiane, come l'obbligo per i medici di segnalare i pazienti non in regola con il permesso di soggiorno. Sono quelli che le associazioni di tutela dei diritti dei migranti chiamano "fermi illegittimi", per sottolinearne la scorrettezza sia in termini legali che morali.
In testa alla poco lusinghiera classifica dei delatori ci sono i funzionari pubblici, che tendono una trappola semplice quanto crudele: quando uno straniero prende appuntamento per presentare dei documenti, o viene convocato per l'esame della sua posizione, la cosa viene segnalata alla polizia. Che può così arrivare sul posto, fermarlo e se necessario spedirlo in un centro di detenzione amministrativa in attesa di espulsione.
È successo al signor Gokkaya, bloccato all'uscita della prefettura di Melun, non lontano da Parigi,dove aveva appena depositato la domanda di regolarizzazione. «Il suo datore di lavoro aveva fatto tutto il necessario - spiegano al Riformista dalla Cimade, associazione di solidarietà ai migranti - Si era rivolto alla Direzione dipartimentale dell'impiego che aveva concesso l'autorizzazione, invitando l'interessato a presentarsi in prefettura per gli ultimi adempimenti». Ma l'impiegato, notando che Gokkaya mesi prima era stato colpito da un provvedimento di rimpatrio, ha avvertito le forze dell'ordine, ignorando il più recente nulla osta delle autorità locali.
Il trucco è ormai così consolidato nelle abitudini delle prefetture d'Oltralpe da essere persino oggetto di una nota interna, destinata agli impiegati incaricati dell'assistenza agli irregolari. Che stabilisce per filo e per segno come comportarsi se l'immigrato giunto «di sua spontanea volontà a chiedere il riesame della sua posizione» sia stato oggetto, nell'ultimo anno, di un provvedimento amministrativo di espulsione. «Lo straniero dovrà consegnare il proprio passaporto al funzionario - spiega la circolare, firmata dalla Direzione per la Popolazione e la Cittadinanza - e prendere posto nella sala d'attesa, mentre vengono allertati i superiori e la direzione dipartimentale di polizia, che provvederà poi al fermo in camera di sicurezza».
Eppure, la corte di Cassazione transalpina già agli inizi del 2008 aveva giudicato il metodo illegittimo. «L'amministrazione non può utilizzare la convocazione in prefettura di uno straniero che sollecita l'esame della sua posizione per procedere al suo fermo in attesa del trasferimento in centri di detenzione - sentenziavano senza mezzi termini i giudici della Prima camera civile - quindi la Corte, per questo unico motivo, giudica che un fermo a tali condizioni è contrario all'articolo 5 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo». L'altolà ha avuto effetto deterrente per qualche tempo, ma è stato presto dimenticato. E la lista degli irregolari prelevati in occasione di appuntamenti con centri per l'impiego, uffici della Cassa per il sostegno familiare e altri enti pubblici è tornata ad allungarsi.
I funzionari statali non hanno però l'esclusiva delle denunce illegittime. Oltre al già citato caso degli sportelli bancari, infatti, anche le biglietterie ferroviarie e gli uffici postali si sono più volte trasformate in trappole per i sans papier. Passati direttamente dalla richiesta di un abbonamento o dal pagamento di una bolletta ai controlli della polizia sulla loro identità. «Ma c'è di più - elenca senza entusiasmo Damien Nantes della Cimade - un irregolare intercettato alla cassa di un Castorama nella banlieue di Bondy, un cliente di un altro centro commerciale finito in camera di sicurezza dopo aver fatto domanda per una tessera fedeltà, su denuncia della cassiera. E persino un acquirente della Fnac di Montparnasse, segnalato da un commesso scettico sull'assegno che aveva usato per pagare».

Repubblica “Napoli 9.9.09
Bellocchio: "Città bellissima ma i cittadini sono depressi"
La vostra città, lontana dai luoghi comuni"
Il maestro del cinema realizza lo spot "Una nuova storia italiana" per il Monte Paschi di Siena Riprese a Castel dell´Ovo
Per la prima volta il regista si impegna in una campagna pubblicitaria "Dura soltanto trenta secondi ma è come un vero film"
di Antonio Tricomi


Una lunga tavolata da “Zi’ Teresa", lo storico ristorante del Borgo Marinari. Marco Bellocchio indossa una t-shirt bianca e azzurra, accanto a lui il figlio Piergiorgio e il direttore della fotografia Daniele Ciprì. Sono appena terminate le riprese dell´episodio napoletano di "Una nuova storia italiana", spot diretto dal maestro del cinema italiano per il Monte dei Paschi di Siena, in onda da novembre sulle reti nazionali.
Prima volta del 69enne regista piacentino con la pubblicità, se si esclude «una piccola cosa di qualche anno fa per promuovere l´Arbre Magique, l´allora famoso deodorante per l´auto. Ma fu davvero una cosetta, lo facemmo in una mattinata. Questo invece è come un microscopico film, realizzato con criteri cinematografici: ci abbiamo messo due giorni a realizzarlo, dura trenta secondi ma dentro c´è una storia».
E prima volta di Bellocchio a Napoli, città che l´autore di "I pugni in tasca" e "L´ora di religione" confessa di conoscere poco. «Ma sulla quale è doveroso un discorso complesso, senza mai fermarsi alle prime impressioni, né all´immagine raccontata dai media: rischierei la superficialità, ed è proprio una cosa che non mi piace. Parlare di Napoli mi è possibile solo per minime impressioni». Per esempio? «Attraversandola in taxi, mi si è presentata davanti agli occhi una città bellissima, fervente, operosa, tutt´altro che oleografica. Sicuramente esiste una Napoli molto lontana dai luoghi comuni e dalle immagini che passano sui media. È una città che però nessuno più è in grado di interpretare. Una realtà talmente drammatica e complessa che si può affrontare soltanto con la massima discrezione».
E i napoletani? «Mi sembrano depressi, rassegnati. Dai tassisti raccolgo racconti disperati e nostalgie borboniche. Ecco, questa è davvero una singolarità. Dovunque in Italia i tassisti, accogliendoti a bordo, non fanno altro che decantare le bellezze della propria città. A Napoli invece si comportano molto diversamente. E non fanno che screditarla, la città, dandone un´immagine desolata a disperata, buttandola giù in tutti i modi. Io per conto mio, lo ripeto, non voglio dare giudizi. Non è che uno può venirci ogni tanto, dare uno sguardo e dire la sua. Bisognerebbe viverci per mesi e poi magari parlare».
Interviene Daniele Ciprì, che per lo spot di Bellocchio fa il direttore della fotografia, ma che è anche titolare di una carriera di regista, da solo o in coppia con il collega Franco Maresco: «Io invece - azzarda Ciprì - un giudizio mi sento di darlo: sono palermitano, a Napoli mi sento a casa mia e tanti segnali riesco a leggerli. Qui ci ho fatto il militare, nel 1982. E devo dire che preferisco la città di allora a quella di oggi. Piazza Plebiscito era un immenso parcheggio, una volta mi trovai coinvolto in una sparatoria e mi salvai nascondendomi sotto un´auto. Però la città era più viva, nel suo disordine, nel suo tumulto: aveva ancora una sua dimensione. Oggi mi sembra tutto omologato. A questa città - prosegue Ciprì - devo, tra l´altro, il mio ingresso nel mondo del cinema. Alcuni di noi militari fummo distaccati al Giffoni Film Festival, a dare una mano per le proiezioni in piazza: si trattava, allora, di una manifestazione molto povera. Quando si accorsero che sapevo fare le foto, fui promosso a fotografo ufficiale del festival».

L’Altro 9.9.09
In Italia c’è la poena di morte. È il carcere
di Marco Pannella


Cari compagni e amici de L’Altro, consentitemi oggi di abusare del vostro letteralmente straordinario invito (di ieri e fino a qualche ora fa... l’unico) a intervenire sul tema e sull’obiettivo "Amnistia subito!". Soprattutto in questa Italia dov’è reinstaurata una pena di morte surrettizia quanto certa: 40 suicidi finora nel 2009, più altri 14 morti di prigione italiana. L’ultimo ieri l’altro, un ragazzo tunisino che si è lasciato morire di fame nel carcere di Pavia. Per un po’ di informazione contestuale, e di "propaganda" Radicale, a premessa utile per imputare domani se potete consentirmelo) agli sgovernanti di Governo e di Opposizione, come anche a Tonino Di Pietro, scelte e responsabilità criminogene e criminose, disastrose, che da decenni ormai possono essere compiute e difese solamente censurando ogni dibattito, quindi ogni informazione così realizzando un’ormai sessantennale (in)giustizia di classe, senza precedenti, ivi compreso quello del Regime precedente l’attuale, quello del Ventennio fascista. 
Veniamo a bomba: il ministro Alfano ha immediatamente reagito alla nostra ri-proposta (dal 1977 fatta in Parlamento, ribadita continuamente da allora) decretando laconicamente, da Innominato manzoniano: «Questa Amnistia, con gli indulti non s’ha da fare!». A Radio Radicale molti esponenti di destra e sinistra si sono pronunciati, spesso a favore. Niente da fare, il tema è Verboten! Totale, ma proprio totale su Mediaset, Sky, La7, unica eccezione, da Mineo! Ma quel che è stato più interessante è il black-out di tutti gli Editori e di tutti... Editi, tranne una eccezione qualche ora fa! On-line e off-line: silenzio (siti e audiovisivi Radicali a parte, naturalmente)! 
Sull’origine e la causa prima di quest’ultima fase del Regime partitocratico italiano, sul suo autore, sul sistema di monopartitismo sostanziale, sulla sua forma biciclica, sul suo odierno attore principale e quello di scorta, noi non ci troviamo impreparati: abbiamo ormai da decenni costituito una Resistenza politica e sociale di carattere strategico. Abbiamo infatti combattuto sempre in modo da prefigurare, anche nelle forme delle lotte e dell’organizzazione, i fini e forme di autogoverno democratico, federalista, austero e libertario, nonviolento; gandhianamente, socraticamente, kantianamente, illuministicamente, antropologicamente, forse buddisticamente (mia personale ipotesi) scoprendoci così connotati e alimentati. 
Siamo giunti alla conclusione che la nostra Resistenza ha oggi un dovere, un’opportunità straordinaria: è il popolo italiano. Antipartitocratico, anticommistioni fra poteri vaticani o talebani e religiosità di libertà e di liberazione, di responsabilità civile, sociale, virtualmente, ormai, ecologisticamente planetaria. Sessant’anni di occupazione hanno miracolosamente salvato gli "occupati" e isolato gli occupanti. È un popolo che ha in sé la nostra Resistenza, ha riconosciuto come suoi i nostri caduti, i Coscioni o i Welby, o i vivi, gli Enzo Tortora e , credo, Eluana liberata dall’amore e dalla forza di Beppe Englaro. 
L’obiettivo cui, d’ora in poi, daremo animo e daremo corpo è quello di candidarci, in tempi rapidi, politici a promuovere e costituire il governo e la Riforma "americana", in alternativa allo sfascio e al fascio partitocratico, per salvarlo e salvarci dalla sua rovina tragica che sarebbe altrimenti anche quella di tutti gli italiani. Nell’attuale contesto internazionale, piazzali Loreto et similia, tentati o riusciti sarebbero tragedie non più tremendamente solo domestiche, a cominciare dai loro sciagurati e disperati autori. 
Siamo, saremo alternativa anche a questo. Spero, cari amici de L’Altro, che vi saranno individui e "forze" che, ammaestrati anche dal tempo prendano in considerazione, sul serio, questo nostro obiettivo. Sulla lotta immediata per la conquista con l’Amnistia della Grande Riforma per la Giustizia, appuntamento – se L’Altro può - a domani.

Il Foglio 9.9.09
Da dove vengono le idee di Fini


Descritto come un partito-caserma dai suoi spregiatori, il Popolo della libertà mostra una vivacità di contrasti nei quali si riflettono aspetti rilevanti delle differenze di orientamento presenti nella società, com’è ovvio che accada in una formazione politica a vocazione maggioritaria. E’ un’aberrazione ottica quella che fa ritenere che posizioni come quelle espresse da Gianfranco Fini, per il fatto di evidenziare diversità da quelle maggioritarie nel suo partito, siano l’effetto di ,una sua natura o svolta di sinistra. Non è stato solo Vittorio Feltri, inviperito per le critiche ricevute dal presidente della Camera, a chiamarlo "compagno". Anche sul sussiegoso Monde si può leggere un’allucinata previsione di un ruolo da leader della sinistra per l’ex segretario del Movimento sociale. In queste semplificazioni giornalistiche incide una certa difficoltà o pigrizia a interpretare la varietà e le diverse origini della destra italiana, la cui immagine è ricondotta esclusivamente alla nostalgia per il fascismo e poi all’abbandono di questo sentimento. In realtà la destra italiana ha costruito il suo nazionalismo sull’epopea garibaldina, interpretata in modo autoritario da Francesco Crispi, nell’ambito di un atteggiamento laicista e anticlericale che aveva i suoi esempi nel kulturkampf bismarkiano e nelle leggi sulla laicità dello stato promulgate dalla Terza repubblica. Il filone concordatario, che pure fa parte del patrimonio della destra, fu però poi assunto a simbolo della consociazione tra Dc e Pci, in quella cosiddetta "Repubblica conciliare" che fu l’obiettivo polemico del Msi, che aderì alle campagne referendarie contro l’aborto e il divorzio anche perché vi vedeva, peraltro erroneamente, l’occasione per disarticolare il compromesso tra Dc e sinistra. Le iniziative di Fini a sostegno, invece, dell’integrazione degli immigrati (rivolte all’immigrazione regolare) derivano dal filone sociale dell’ispirazione della destra, che punta a conferire alla nazione il ruolo di unificazione "patriottica" delle classi e delle comunità etniche, più o meno secondo lo schema proposto da Nicolas Sarkozy, che non è neppure lui un leader di sinistra. Si tratta di un complesso di posizioni discusse e discutibili, con qualche concessione automatica al paradigma della sinistra liberal, ma posizioni politiche di piena cittadinanza,in un centrodestra moderno; che dovrebbe discuterle diventando più ricco in un confronto d’idee serio e aperto.