domenica 13 settembre 2009

l’Unità 13.9.09
L’ex leader della Margherita ospite dell’Udc: unire riformatori democratici e moderati p Scontro sull’immigrazione: Fini:un suicidio negare i diritti. La Lega: con noi o si va a votare
Rutelli con Casini? «Si vedrà» Bossi contro Fini: elezioni
di Su. Tu.


Per ora è un «si vedrà», ma da ieri l’ipotesi di un nuovo centro che comprenda anche Rutelli e altri è nell’agenda della politica. Fini risponde a Bossi: un suicidio negare i diritti. La Lega parla di elezioni.

Unirsi a un eventuale progetto con Casini e Fini? «Si vedrà». Nella risposta che Francesco Rutelli, ospite dell’Udc a Chianciano, offerto a chi gli chiede conto del tormentone neocentrista di fine estate ci sono tutta la consistenza e i limiti del disegno medesimo. Un progetto che si riscalda a bordo campo mentre Bossi minaccia elezioni anticipate, lo fa in risposta agli affondi di Fini ormai in rotta con la Lega oltre che con Berlusconi. Il laboratorio neocentrista è al lavoro. Pronte le prime file. Le parole di Rutelli suonano come la conferma che «un’alternativa moderata a Berlusconi esiste», basta volerla.
È pronto Luca Cordero di Montezemolo, già tentato due anni fa da un partito azzurro con Casini e Fini che poi non si fece, e che ora – dice chi gli sta vicino «non vede l’ora di buttarsi in politica». E’pronto Pier Ferdinando Casini, forse il più longevo sostenitore di una idea in nome della quale da un anno e mezzo naviga nel mare del né di qua né di là, e ora predica «ci dobbiamo prendere per mano anche nelle diversità per creare un futuro normale». È pronto, dicono prontissimo, Francesco Rutelli. L’ex presidente della Margherita sarebbe già con un piede fuori dal Pd: il suo libro sul tema, ispirato nel titolo al fallaciano «Lettera ad un bambino mai nato», dovrebbe uscire a cavallo del congresso. Quasi ultimata la lista dei pronti a seguirlo (Giachetti, Lusetti e il teodem Calgaro). Prima delle europee Casini gli aveva ventilato l’ipotesi della segreteria del ciclicamente costituendo partito di centro. Poi le sue quotazioni sono calate, ora a quanto pare il leader Udc si limiterebbe a una calorosa accoglienza. «Lavoriamo a unire le forze che vogliono ragionare e costruire nel Pae-
se una strada in cui i riformatori democratici e moderati possano trovare approdi stabili e sicuri», ha detto ieri Rutelli, ad adiuvandum. Meno pronto, come si è visto ieri, l’altro co-fondatore (del Pdl) Gianfranco Fini, che parlando a Chianciano ha adottato una linea di prudenza che gli osservatori più attenti scommettevano arrivasse, dopo la durissima requisitoria anti-tutto che ha inflitto al Pdl a Gubbio. L’ex leader di An, che pure ha fatto l’impossibile (elicottero compreso) pur di andare a salutare gli uddiccini in una giornata carica di impegni istituzionali, ha voluto spiegare che non ci sono «dietrologie» da fare sulla sua presenza, ha marcato le differenze dai centristi spiegando che per lui il bipolarismo non è fallito, «è preda della malattia infantile della delegittimazione dell’avversario», ha evitato di parlare del Cavaliere (meglio la Lega), e battuto su immigrati e biotestamento. Come a dire che la sua critica è interna al Pdl, per ora.
Minimo comun denominatore di tutti costoro, tra gli altri, una spiccata avversione alla Lega. Non per caso uno dei passaggi più applauditi della giornata è stato quello in cui Fini, replicando a Bossi che trova «un suicidio politico» le posizioni di An sugli immigrati, ha detto: «Negare i diritti fondamentali dell’uomo è un suicidio della ragione, oltreché della pietà cristiana». Parole rispetto alle quali la controreplica di Bossi, con annessa minaccia di elezioni anticipate («i diritti spettano solo ai nostri. La Lega è molto forte, in Parlamento sono costretti a seguirci tutti, anche i nostri alleati. Ci devono dire sì. Altrimenti sì che si andrebbe a votare») equivale ad un’altra stelletta sul petto dell’ex leader di An. Da spendere in un futuro forse ipotetico, ma sempre più vicino. ❖

l’Unità 13.9.09
Prove di compromesso. Il presidente della Camera: «Rispettare la volontà del malato»
D’accordo gli esponenti cattolici: «Decisivo il ruolo della famiglia». L’uso degli analgesici
Biotestamento, Fini «catechista» piace a Buttiglione e all’Udc
Prove tecniche di compromesso sul fine vita. Fini cita il catechismo là dove indica la necessità di rispettare la volontà del malato e mette l’accento sul ruolo della famiglia. Interesse da Buttiglione.
di Su.Tu.


«Sono cose che dice il catechismo, ma ci sono dei passaggi anche in Paolo VI, nel suo messaggio al congresso dei medici cattolici», «si tratta di un tema delicatissimo, sul quale non possono esserci posizioni tagliate con l’accetta», e invece, «nel testo del Senato non c’è mai la parola famiglia. Non c’è mai, capite?». La sorprendente fotografia di un Gianfranco Fini che in gran tenuta istituzionale (ma con cravatta blu con balenine) spiega queste cose a due tra i massimi esponenti dell’Udc, di Cesa e Buttiglione che annuiscono (e concordano davvero, come si vedrà) è il doppio, in forma privata, della trovata che pochi minuti prima l’ex leader di An ha sfoderato dal palco degli Stati generali dell’Udc. Quando, parlando dell’opportunità di «deporre la becera e grossolana contrapposizione tra laici e cattolici per scrivere una bella pagina parlamentare e politica sul biotestamento», il presidente della Camera ha estratto una citazione giusta giusta per sostenere la sua tesi: il Catechismo, scritto ai tempi da Joseph Ratzinger in persona, allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. «L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima», ha letto Fini dal palco nello stupore generale, «Le decisioni devono essere prese dal paziente, o da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente». E ancora: «L’uso di analgesici per alleviare le sofferenze.. può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte (...) esoltanto prevista e tollerata come inevitabile».
COLPO AD EFFETTO
Un colpo a effetto, questo del Catechismo, che Fini aveva pronto da mesi. Ammonticchiato sulla sua scrivania insieme a passi della Dottrina della fede e citazioni di Paolo VI («dovere del medico è alleviare le sofferenze, invece di voler prolungare una vita che non è più pienamente vita umana»). Pezze d’appoggio per dimostrare che la Chiesa non è soltanto quella che vuole leggi come il testo sul fine vita del Senato. E che, dunque, anche le sue posizioni («bisogna tener conto della volontà del paziente,della famiglia, e del collegio medico») non sono per forza contrarie a quelle.
La controprova? Buttiglione, delegato dall’Udc ad occuparsi del biotestamento con Vietti, si trova perfettamente d’accordo. Su almeno due punti «il ruolo della famiglia, che non può essere ignorato». E il ricorso alle terapie del dolore: «Quello di Eluana rappresenta l’1% dei casi: di solito il problema è quello del dolore in prossimità della morte. E io credo che, anche se abbreviano la vita, gli analgesici vadano utilizzati. Avevo presentato una proposta di legge, nella quale si sosteneva proprio questo». Potrebbero diventare emendamenti Udc, alla Camera. A dimostrazione che una buona fetta della Chiesa – «anche monsignor Fisichella» dicono – davvero non sarebbe soddisfatta del testo del Senato. E punterebbe a cambiarlo alla Camera, per evitare che Berlusconi vada all’incasso presso le gerarchie con una legge che poi la Consulta boccerà.❖

Repubblica 13.9.09
Il premier: "Gianfranco ormai è un problema"
di Gianluca Luzi


La cena di Villa Madama non ha portato alla pace, ma solo a un armistizio armato con Berlusconi che per una volta ha rinunciato all´offensiva contro Fini per non compromettere irrimediabilmente i rapporti.
E Berlusconi avverte Gianfranco "Pure lui è parte del problema"
Tregua armata alla cena del G8: solo una stretta di mano
Il premier rinuncia ad intervenire al seminario di Gubbio: "Se parlo, polemica sicura"
Il sospetto di Fini è che certe bordate di Bossi siano ispirate dal Cavaliere

«A Gianfranco, questa volta, non darò l´occasione per dirmi ancora un no». È mezzogiorno e in Galleria a Milano, dopo il funerale di Mike Bongiorno che il Cavaliere ha trasformato nell´ennesima autocelebrazione, decide per una volta di dare ascolto alle «colombe» che da giorni cercano in tutti i modi di riportare al dialogo i due «padri» del Pdl.
Così, prima di entrare al Biffi dove ha pranzato con Fedele Confalonieri e il parlamentare Gregorio Fontana, ha chiamato il coordinatore Sandro Bondi per annunciargli che non avrebbe fatto la prevista telefonata al seminario del Pdl di Gubbio. Con una platea così apertamente schierata contro Fini non avrebbe potuto che menare randellate: «Se parlo scoppia di nuovo la polemica» è stata la prudente considerazione del premier, e questo non era consigliabile poche ore prima della cena a Villa Madama con Fini e i presidenti dei parlamenti del G8, la prima occasione di vedersi dopo gli scontri al calor bianco dell´ultima settimana.
Una decisione tutta politica e non tecnica come invece aveva spiegato Bondi ai fan delusi del premier, perché il funerale era finito e Berlusconi si è concesso un lungo bagno di folla in Galleria prima di pranzo. Di tempo per telefonare, quindi, ne avrebbe avuto in abbondanza.
Così, con la decisione di non parlare, il leader del Pdl ha voluto marcare con un «gesto distensivo» l´intenzione di riprendere un dialogo con la terza carica dello Stato, o perlomeno di non incattivire il duello rinviando il chiarimento alla prossima settimana incastrando il vertice tra la consegna delle prima case ai terremotati e il consiglio europeo di venerdì o forse nel fine settimana, prima della partenza per l´America. Eh già, perché la cena di ieri sera con il suo rigido cerimoniale, non ha permesso ai duellanti di ritagliarsi uno spazio per chiarire le rispettive posizioni.
L´incontro a Villa Madama è stato molto freddo: giusto una stretta di mano, poi Fini ha presentato Berlusconi ai presidenti dei parlamenti del G8 ed è cominciata la cena. Fini e Berlusconi erano seduti uno di fronte all´altro allo stesso tavolo rettangolare, troppo grande per dialogare. Comunque nessuno dei due aveva l´aria di aver voglia di intrattenersi a parlare con l´altro, segno che la tensione è ancora alta.
Berlusconi è arrabbiato, ma deve trovare un sistema per riportare un minimo di serenità, perché il suo problema è che ormai nella maggioranza la rissa è generalizzata, e i colpi proibiti che Bossi ha scagliato contro Fini non sono certo ideali per rasserenare il clima. Il sospetto di Fini, anzi la convinzione, è che le bordate del Senatur, se non sono ispirate direttamente dai falchi di Berlusconi, certo hanno il lasciapassare del Cavaliere. Però anche il premier non fa che lamentarsi per quelli che considera veri e propri attacchi del presidente della Camera. «Fini - si sfoga con i suoi - elenca i problemi del Pdl, ma dimentica di elencare se stesso, perché con le sue prese di posizione diventa lui il problema del Pdl». I soliti mediatori, Letta e La Russa in prima fila, si danno da fare per arrivare almeno all´armistizio se non alla pace.
Gli uomini del Pdl più dialoganti colgono un segnale positivo in un passaggio del discorso di Fini a Chianciano. Quando il presidente della Camera ha detto che «bisogna portare il bipolarismo ai livelli europei». Mentre impazza l´ipotesi di un Grande Centro a cui dovrebbe partecipare lo stesso Fini, questa frase viene interpretata come l´intenzione di non abbandonare il Pdl.
A questo minimo spiraglio Berlusconi risponde con un piccolo ramoscello d´ulivo durante l´intervento alla cena. «Sarebbe bene che vi riuniste più di una volta l´anno. Voi siete i nostri padroni. Nel Parlamento risiede la sovranità del popolo», una frase rivolta ai presidenti dei parlamenti, che certamente Fini avrà apprezzato. Soprattutto perché detta da un premier con cui ha avuto più di uno scontro sulla centralità del Parlamento.

Repubblica 13.9.09
il declino non si vede ma è già cominciato
di Eugenio Scalfari


Dopo il suo intervento dell´altro ieri a Gubbio e quello di ieri a Chianciano dove Casini ha riunito i dirigenti dell´Udc, si fanno previsioni e perfino scommesse sugli obiettivi di Gianfranco Fini nel prossimo futuro. E se lo domanda anche, con qualche preoccupazione, Silvio Berlusconi. Vuole dargli una spallata approfittando d´un momento di oggettiva difficoltà che il premier sta attraversando? Vuole uscire dal partito e fondarne un altro? Vuole prepararsi a prendere il posto di Napolitano quando il mandato del Capo dello Stato scadrà (nel 2013)? Vuole esser pronto a qualunque evenienza e a qualunque emergenza che potrebbe verificarsi nel quadro agitato e anomalo della politica italiana?
Tutto considerato e mettendo in fila gli interventi che si susseguono da tempo, compreso quello di ieri in casa d´un partito d´opposizione, la conclusione logica è questa: Fini si prepara a succedere a Berlusconi quando il premier dovrà cedere il comando per ragioni di calendario. Nel 2013 avrà 77 anni ed avrà governato o comunque occupato la scena politica da diciotto. Dopo quanto è accaduto in questi mesi è esclusa una sua candidatura al Quirinale e neppure il lodo Alfano potrebbe impedire che i processi a suo carico vengano riaperti.
A quel punto – ma in realtà almeno un anno prima – il problema della successione si porrà inevitabilmente e la rosa dei candidati vedrebbe Fini in "pole position". Gli altri sulla carta sono tre: Formigoni, Letta, Tremonti. Ma per valutare le rispettive "chance" occorre tener presente che il successore prescelto dovrà guidare il centrodestra alle elezioni politiche.
Deve dunque essere in grado di sostituire un formidabile comunicatore dotato di capacità seduttive e ipnotiche senza pari.
Chi può vantare un carisma che si avvicini a quello del Cavaliere? Basta porre la domanda per scartare tutti e tre i nomi dei "competitors", soprattutto Formigoni e Letta. Tremonti ha l´appoggio della Lega, ma la scelta del leader del Pdl non spetta alla Lega.
Quindi Fini, verso il quale rifluirebbero agevolmente quasi tutti gli ex di Alleanza nazionale una volta sgombrato il campo da Berlusconi.
Aggiungo un´altra considerazione. Qualora un´emergenza istituzionale dovesse prodursi all´improvviso (e la sentenza della Consulta sul lodo Alfano o altre questioni di analogo rilievo potrebbero determinarla anche a breve termine) la candidatura di Fini a sostituire l´attuale premier avrebbe forti probabilità di successo. Un governo Fini poggiato anche sul sostegno dell´Udc e su un´amichevole astensione del centrosinistra potrebbe essere la via d´uscita verso le riforme sempre auspicate ma mai portate in Parlamento, nonché su una normalizzazione della vita democratica dopo gli sconquassi del berlusconismo rampante.
La conclusione dunque è questa: Fini si propone di essere il successore di Berlusconi alla guida d´un partito di destra democratica profondamente diverso dalla gestione «eversiva» e assolutistica del Cavaliere di Arcore. Successore, non delfino. Del resto con Berlusconi i delfini non sono previsti salvo Letta che più che un delfino sarebbe un perfetto luogotenente.
* * *
Ma c´è già ora un declino di Berlusconi nella percezione degli italiani? E´ cominciato uno smottamento del consenso? L´insensata guerra contro le gerarchie cattoliche e contro i sentimenti morali dei cattolici ha prodotto crepe importanti? Il killeraggio contro gli avversari, le bravate crescenti del premier, il massimalismo leghista, la disistima internazionale che ormai si è diffusa non solo nella stampa estera ma anche nelle cancellerie europee e americane, hanno aperto falle significative nel consenso berlusconista?
Qualche crepa è visibile. L´ultimo sondaggio Ipsos commissionato da Palazzo Chigi registra un calo di 4 punti collocando il consenso attorno ad uno stentato 50 per cento. Le intenzioni di voto vedono il Pdl attorno al 38 per cento. Il Foglio di ieri ha pubblicato in prima pagina dieci domande (la formula delle dieci domande ha ormai fatto strada) che sollevano altrettanti problemi non risolti dal governo e molto scomodi da risolvere.
Ma il blocco è ancora sostanzialmente intatto. E tuttavia il declino è percepibile e il nervosismo del premier non fa che ingrandirlo. Chi ha visto la versione integrale del suo "show" nell´incontro italo-spagnolo avvenuto nell´isola di Maddalena è rimasto allibito, a cominciare da Zapatero che l´ha commentato ieri pubblicamente con parole che parlano da sole. E chi ha ascoltato il discorso di Fini a Gubbio ha percepito la differenza abissale che separa i due co - fondatori del Pdl. Del resto non è un caso se il neo - ambasciatore Usa a Roma ha cominciato le sue visite di presentazione da Fini anziché dal premier.
L´opinione di tutti gli stranieri che capita di incontrare da qualche mese a questa parte è unanime: «Non ci stupisce più il vostro premier, ma ci stupiscono gli italiani che ancora sopportano di esser rappresentati da un simile personaggio».
La sua debolezza oggettiva si riduce ad una sola parola: ricattabile. Abbiamo un premier ricattabile e ricattato. Quindi debolissimo. E alle sue spalle un partito che vive e vince in virtù del suo carisma personale. Il carisma, come tutti sanno, è un fenomeno di massima fragilità: se s´infrange, tutta la costruzione che su di esso si appoggia crolla.
L´insieme di questi elementi porta alla conclusione che il declino è in corso anche se il carisma regge ancora. Per quanto?
* * *
Queste riflessioni su Fini e su Berlusconi ci portano a considerare la situazione del Partito democratico, quello che nella percezione sia degli avversari sia dei suoi ex sostenitori e sia infine di molti osservatori viene definito un partito fantasma o il partito che non c´è; comunque un relitto che nessuno riuscirà a portare in salvo proprio nel momento in cui il paese avrebbe maggior bisogno d´un partito d´opposizione capace di attirare su di sé il disagio che sia pur lentamente si diffonde e che acquisterebbe peso e velocità dalla presenza di una valida alternativa.
Su questa delicata ma essenziale questione faccio le seguenti considerazioni (come persona informata dei fatti).
1. Conosco bene i tre candidati alla segreteria del Pd e in particolare i due maggiormente favoriti, Dario Franceschini e Pier Luigi Bersani. Sono due persone perbene. Nessuno dei due ha scheletri nell´armadio. Si battono con vigore come deve accadere in una sfida politica e come non accadde né nelle primarie che insediarono Prodi alla leadership del centrosinistra sia in quelle che insediarono Veltroni alla guida del Pd. Questa volta sta accadendo, su questioni di visione politica, senza alcun colpo sotto la cintura. Non è quello che i simpatizzanti e gli iscritti al partito volevano?
2. Chiunque dei due vincerà, il compito di costruire un partito riformista in un paese dove il riformismo ha sempre avuto vita stentata non sarà agevole anche se - ne sono convinto - ciascuno di loro ce la metterà tutta.
3. La condizione necessaria affinché questa costruzione avvenga e sia solida non sta nel programma e tantomeno nelle ragioni che hanno condotto forze culturali e politiche con storie diverse a dar vita ad un partito comune. Sia le ragioni che presiedettero alla nascita del Pd sia la sua visione d´una società «riformata» furono elencate, illustrate e unanimemente approvate nell´assemblea del Lingotto che insediò Veltroni alla guida del Pd. Si può aggiornare il programma, ma le linee di fondo di quella visione del bene comune c´è già stata ed è tuttora pienamente valida.
4. In realtà la condizione necessaria affinché la nave di questo partito esca dalla darsena e riprenda orgogliosamente il mare dipende soltanto da chi sente profondamente la necessità d´un partito seriamente riformista, capace di dar voce a tutte le speranze, le attese e i bisogni del centrosinistra italiano, da un socialismo liberale ad un laicismo che possa esser sostenuto con vigore sia da laici non credenti sia da cattolici di discendenza degasperiana; infine dai grandi valori della libertà e dell´eguaglianza che non possono mai esser disgiunti e che vanno vissuti e applicati nel quadro d´una solidarietà sentita come impegno civile.
Se almeno due milioni di elettori esprimessero quest´impegno nelle votazioni alle primarie del prossimo 25 ottobre, credo che il varo della nave democratica segnerebbe la riscossa che molti hanno nel cuore senza sapere in che modo tradurla in atto.
L´atto decisivo è quello: un varo effettuato sulle braccia e sulle spalle di qualche milione di persone.
Sabato prossimo si svolgerà a Roma in piazza del Popolo una manifestazione popolare in difesa della libera stampa. Noi che della libera stampa facciamo parte sappiamo quale importanza abbia quest´appuntamento. Non si identifica con i partiti perché non è una visione di parte ma con la difesa d´un delicatissimo diritto costituzionale che l´attuale governo ha leso e continua a ledere pervicacemente con continue intimidazioni e prevaricazioni che tra poco verranno allo scoperto anche nella Rai.
Ci auguriamo che quella piazza sia gremita e faccia sentire la sua presenza e la sua voce.
Il rinascimento della democrazia italiana è affidato agli italiani, agli uomini e alle donne di buona volontà, a chi non teme di impegnarsi in battaglie civili che ci riscattino dall´ipnosi in cui il paese sembra precipitato. Nessun dorma: non è questa la condizione necessaria per riprendere il cammino?

Repubblica 13.9.09
"Nell'aria qualcosa che non è democrazia"
Zavoli accusa. E su Libération uno speciale sul Cavaliere sotto pressione
di Mauro Favale


ROMA - Tira una brutta aria. «C´è qualcosa che non corrisponde ad una vera democrazia». Sergio Zavoli, presidente della commissione di Vigilanza Rai, dopo un lungo silenzio, torna a parlare della situazione italiana e dello stato di salute dell´informazione. Per dire che «esiste un atteggiamento perverso nei confronti della qualità dell´informazione. Non c´è più interesse ad approfondire nulla e c´è un concreto sentore del fatto che esista, nell´aria, un qualcosa che non corrisponde ad una vera democrazia». Un timore, quello di Zavoli, che si sta diffondendo anche in Europa, a leggere gli editoriali che i maggiori quotidiani esteri hanno dedicato anche ieri all´Italia.
Estremamente critici quelli francesi e spagnoli, dopo lo show di Berlusconi durante la conferenza stampa di giovedì con Zapatero. Due giorni fa il premier iberico aveva detto: «Taccio per cortesia istituzionale, tutti sanno cosa penso della parità uomo donna». Una frase dalla quale traspariva l´imbarazzo di Zapatero. Ma ieri le diplomazie hanno lavorato e in giornata i due premier si sono sentiti al telefono per ribadire la «profonda amicizia» tra i due Paesi. Il segretario di stato spagnolo, Diego Lopez Garrido, intervistato dal Tg1, ha precisato che «le dichiarazioni di Zapatero sono state chiare e non accettano nessuna interpretazione aggiuntiva: nessuna critica alle parole di Berlusconi».
Ma la stampa spagnola non molla. Ieri El Pais ha pubblicato un editoriale molto critico in cui definiva Berlusconi un personaggio «ridicolo, ogni volta che parla in pubblico». E in Francia grande spazio all´Italia è stato dedicato dall´inserto del week end di Libération. Copertina con una grande foto del premier italiano scattata a Palazzo Grazioli. All´interno quattro pagine con foto di Berlusconi, Noemi e Patrizia D´Addario. L´articolo racconta di «un´Italia che non si occupa di ciò che dice Berlusconi» e di Repubblica «un quotidiano che non molla nonostante i colpi bassi e interpella quotidianamente il capo del governo sulle sue tresche, attirandosi i fulmini del tycoon dei media». E un altro quotidiano d´oltralpe, Le Monde, ieri titolava, in italiano, a pagina due: «Basta, Cavaliere!».

Repubblica 13.9.09
Quando il potere non tollera il dissenso
di Michela Marzano


La democrazia comincia a funzionare quando la gente ha la possibilità di scegliere e selezionare la propria classe dirigente. Ma funziona realmente quando la classe dirigente scelta è in grado di assumersi la responsabilità delle proprie scelte e delle proprie azioni, di sottomettersi alle critiche e di accettare il dissenso. Ora, come ha sottolineato Nadia Urbinati sulle pagine di Repubblica, uno dei problemi principali di fronte al quale ci si trova oggi in Italia è l´intolleranza da parte del potere in carica di fronte al dissenso: "L´obiettivo è terrorizzare e ridurre al silenzio chi pensa liberamente per infine circondarsi di yes-men e yes-women".
Ma non è tutto. Perché, in fondo, quest´intolleranza di fronte al dissenso ha radici profonde: si fonda sulla volontà (più o meno rivendicata) di non assumersi la responsabilità dei propri gesti e le conseguenze delle proprie azioni. Il nostro Presidente della Repubblica ha allora perfettamente ragione quando invita i responsabili politici alla "moderazione", all´"equilibrio" e alla "responsabilità". Ma che fare quando è il senso stesso di queste parole che sembra ormai desueto? Si può ancora parlare di "senso di responsabilità" quando, deliberatamente, alcuni dei nostri dirigenti si comportano come se la realtà non esistesse?
L´attacco frontale contro la Repubblica, quello più ipocrita contro l´Avvenire e la critica feroce ad una buona parte della stampa italiana e estera da parte di Silvio Berlusconi si iscrivono direttamente in questo clima di "diniego della realtà", un diniego che porta il nostro premier a pretendere che il sistema informativo non faccia altro che indurre il lettore "a recepire come circostanze vere realtà di fatto inesistenti". Alcuni fatti sono stati dimostrati, prove alle mani. Ma Berlusconi continua ad affermare che si tratta solo di "menzogne" e "bugie": "Povera Italia, sulla stampa tutto il contrario della realtà". Cosa resta allora della realtà quando la sola realtà degna di questo nome sembra essere quella enunciata dal potere? Perché sforzarsi ancora di ricostruire gli avvenimenti, cercare di capire quello che accade, e chiedere che i responsabili politici assumano la responsabilità dei propri gesti?
A partire dal momento in cui la realtà non esiste, tutto può essere dichiarato e smentito, senza più bisogno di assumersi alcuna responsabilità. Da questo punto di vista, il caso italiano è sintomatico di una certa ideologia contemporanea, quella stessa ideologia che, promuovendo il volontarismo individualistico, porta a credere che la chiave del successo personale risieda nella capacità che alcuni hanno di manipolare la realtà. È il trionfo dei nuovi eroi carismatici, di cui Berlusconi è un esempio emblematico. A differenza dell´eroe classico, come l´Ettore dell´Iliade, che, consapevole della propria vulnerabilità, è sempre pronto al sacrificio quando le circostanze lo richiedano, l´eroe contemporaneo pensa di essere invulnerabile ma, nel momento in cui gli si chiede di assumersi la responsabilità dei propri gesti, si tira indietro: la realtà è differente da quello che sembra; i responsabili, se proprio si vuol parlare di responsabili, sono altrove. "Ho appreso ad essere forte, sempre a combattere in mezzo ai primi troiani, al padre procurando grande gloria e a me stesso", dice Ettore a Andromaca prima di partecipare alla battaglia. Il suo eroismo consiste nell´assumere fino in fondo i rischi del proprio ruolo: sa perfettamente che lo aspetta la morte, ma non si sottrae alla realtà. "Presidente - dichiara Berlusconi il 4 settembre a Giorgio Napolitano – sappi che in tutta questa storia di Boffo io non c´entro assolutamente nulla, i giornali hanno diffuso solo falsità. Feltri lo conosci anche tu. Semmai la prima vittima sono io". Leggendo queste parole, sembra quanto meno legittimo interrogarsi su ciò che caratterizza oggi molti nuovi leader. Sottrarsi alla realtà, imbrogliare le carte, chiedere ad altri di sacrificarsi al proprio posto? Tanto più che Berlusconi non è un caso isolato. Non è proprio quello che altre personalità politiche europee, come Nicolas Sarkozy o Angela Merkel, rimproverano a una parte del mondo della finanza e ad alcuni traders, i cui comportamenti irresponsabili (e raramente assunti) sono all´origine della crisi economica attuale?
Per non perdere il proprio posto di leader e evitare che un crepa possa rovinare il proprio ritratto – il ritratto di uomini dotati di onnipotenza e capaci di realizzare tutto ciò che i loro avversari non hanno mai osato o saputo intraprendere – i nostri eroi contemporanei devono potersi sottrarre alla realtà, negarla, ricostruirla a proprio piacimento. È proprio all´interno di questo meccanismo di diniego e di ricostruzione che il nuovo eroe può d´altronde muoversi a proprio agio e prosperare, incarnando alla lettera (ciò che forse spiega il suo successo) i valori dell´individualismo e del volontarismo promossi dalla contemporaneità: sottratto al ruolo che altri possono avergli assegnato, è ormai pronto a tutto; svincolato dai vecchi obblighi morali, che dettavano i precetti dell´agire, pensa di poter sempre determinare ciò che desidera. Peccato che, all´interno di questo nuovo mondo eroico, non ci sia più nessun posto per la "moderazione", l´"equilibrio" e il "senso di responsabilità" cui ci richiama il capo dello Stato! Che senso, infatti, può ancora avere parlare di "responsabilità" – termine che si riferisce direttamente ai doveri e agli obblighi legati al ruolo che si riveste e alle funzioni che si occupano – quando non solo si negano le conseguenze dei propri atti, ma si pretende anche che la realtà sia differente da quello che è? A quale "moderazione" ci può ancora riferire quando più nessun limite sembra esistere, dal momento che la realtà – che è proprio ciò che limita l´azione della volontà onnipotente – non esiste più?
Ciò cui si sta assistendo oggi in Italia mostra tutti i paradossi di una certa modernità: nel momento in cui l´autonomia e la libertà sembrano potersi finalmente affermare – permettendo alle persone di sottrarsi all´universo dell´eteronomia (in cui le norme morali vengono imposte da un´autorità esterna) e di accedere a un mondo in cui ognuno ha la possibilità di scegliere liberamente ciò che vuole fare della propria vita, assumendone però sempre le conseguenze – le derive incarnate dai nuovi leader svuotano dall´interno libertà e autonomia. La loro condotta irresponsabile sembra suggerire che basta "volere per potere" e che, una volta che si è agito, poco importano le conseguenze perché la realtà può essere manipolata e ricostruita. Come denunciava Orwell in 1984: "La realtà non è qualcosa di esterno, la realtà esiste solo nella mente […]. Non è possibile discernere la realtà se non attraverso gli occhi del partito". Peccato che, nel momento stesso in cui la realtà esterna non ha più valore, anche la libertà e la responsabilità non abbiano più senso.

il Riformista 13.9.09
La rischiosa guerriglia anti-Cav
Per Silvio ci vorrebbe l'ambulanza
Ma ha ancora troppi voti
di Giampaolo Pansa


Silvio Berlusconi sta diventando un problema irrisolvibile. Per le opposizioni, ma anche per il suo partito e gli alleati. Nel centro-destra cresce l'imbarazzo per un agitarsi sempre più scomposto. Alla Maddalena, davanti al premier spagnolo Luis Zapatero, ha detto di sé: «Sono di gran lunga il miglior presidente del Consiglio che l'Italia ha avuto negli ultimi centocinquanta anni». E nello stesso intervento ha risposto ai verbali del furbo Tarantini ("Per il premier diciotto serate con trenta ragazze") spiegando che lui le donne non le ha mai pagate.
Molti sottocapi del Popolo della Libertà avvertono la difficoltà di arginare un Cavaliere sempre più fuori dalle righe. Qualcuno di loro pensa che anche Silvio, come Gianfranco Fini, dovrebbe "rientrare nei ranghi". Ma sono speranze vane. Il premier non ha nessuna intenzione di moderarsi. Mentre il presidente della Camera è già fuori dal partito. Anzi è già contro il partito che pure ha contribuito a fondare.

Ho ascoltato per intero il discorso di Fini a Gubbio grazie alla tivù di Sky. E ho visto la sua grinta nel pronunciarlo. Se ci trovassimo in un regime sudamericano, lo definirei un intervento che precede il golpe. Ma Fini non dispone di truppe, tranne un piccolo reparto di fedelissimi. La grande maggioranza del centro-destra sta con Berlusconi. In un incontro con giovani del Pdl mi è capitato di criticare Fini per il suo fastidio a proposito del revisionismo sulla guerra civile. E sono rimasto sorpreso nel vedere che si levavano in piedi per applaudirmi.
Certo, il presidente della Camera è una spina nel fianco per il centro-destra. Però anche Berlusconi lo sta diventando. Nessuno è più in grado di arginarlo. La sparata della Maddalena è stupefacente. Qualcuno avrà pensato: "A questo punto bisogna chiamare l'ambulanza della Croce Rossa!". Però non esistono ambulanze tanto grandi da contenere il Cavaliere e i milioni di voti che lo hanno mandato a Palazzo Chigi.
Dunque non resta che aspettare i suoi prossimi show. Con lo stato d'animo di chi si sente prigioniero di un premier sempre più fuori controllo. Penso che si sentano così anche molti big del centro-destra. Ma non possono che difenderlo. O fingere di difenderlo. Del resto, sanno bene che se il Cavaliere lasciasse il comando del governo e del partito, dentro il Popolo della Libertà si aprirebbe una crisi terribile.
Ma anche il centro-sinistra è prigioniero di Berlusconi. Lo è per due motivi: uno interno e l'altro esterno. Il primo è la battaglia congressuale in corso nel Partito democratico. Di fatto oggi il Pd è privo di leader. I tre candidati in lizza si stanno combattendo ancora con un minimo di stile. Però nessuno può dire che cosa avverrà nell'imminenza del congresso. Come è sempre accaduto in tutte le parrocchie politiche, voleranno gli schiaffi. E non mancheranno i colpi bassi.
Per di più sta andando in frantumi l'immagine del Pd come partito pulito, diverso dagli altri. Chi ha vissuto l'epoca di Enrico Berlinguer ricorderà quanto sia stata nefasta la strategia di proclamare la diversità del Pci rispetto alla Dc e al Psi. Quella diversità scomparve nella stagione di Mani Pulite. Anche le Botteghe Oscure incassavano tangenti. Il Partitone rosso riuscì a non sparire solo perché venne graziato in più di un palazzo di giustizia.
Oggi è l'inchiesta sulle tangenti di Bari a costituire un pericolo grave per il Pd. A spiegarlo non sono soltanto i media moderati. Sull'Unità di giovedì 10 settembre lo diceva uno schietto retroscena scritto da Pietro Spataro, un collega che conosce a fondo i guai del partito. Dove molti si domandano perché mai l'assessore alla Sanità, obbligato alle dimissioni, abbia potuto mettersi al riparo trovando subito un seggio in Senato.
Infine, tra qualche giorno, il Pd scoprirà un avversario in più. Parlo de Il Fatto, il nuovo quotidiano diretto da Antonio Padellaro. Tutti prevedono che il bersaglio numero uno del giornale sarà Berlusconi. Ma il secondo non potrà essere che il Pd. Infine possiamo mettere nel conto una circostanza quasi fatale. Così come esistono magistrati di sinistra, ci sono pure magistrati di destra. Che forse non se ne staranno con le mani in mano.
C'è poi un motivo esterno, il più importante, a rendere il Pd prigioniero di Berlusconi. È la sua impotenza a sconfiggerlo. Il sogno di molti elettori di centro-sinistra, quello di vedere il Cavaliere al tappeto, non possono realizzarlo né Franceschini né Bersani né tantomeno Marino. Il nervosismo dei loro elettori sta crescendo. Succede sempre così nei partiti che non ce la fanno a soddisfare i propri tifosi. In più, la disaffezione è alimentata da un concorrente spietato, l'Italia dei valori di Tonino Di Pietro.
La conclusione è che il Pd si trova in una situazione senza vie d'uscita. Può soltanto aggregarsi alla guerriglia anti-Cavaliere scatenata da Repubblica. Ma se il quotidiano diretto da Ezio Mauro ricaverà qualche guadagno dalla campagna contro Berlusconi, la stessa cosa non potrà dirsi del Pd.
A questo punto una domanda è d'obbligo. Conviene alle opposizioni politiche continuare la guerriglia anti-Cav? E incendiare oltre il necessario l'opinione pubblica che già non sopporta il premier? Il rischio è di far nascere sul fronte opposto un radicalismo altrettanto furioso. In parte sta già avvenendo. L'Italia vive da tempo in un clima di contrapposizioni troppo violente. La considero una deriva pericolosa e il buon senso ci dice che va fermata. Prima che accada qualcosa di irreparabile.

Liberazione 12.9.09
Un Cavaliere sempre più in declino e il rischio di soluzioni di puro potere: l'occasione della piazza del 19 Finis Berlusconis, l'unica assente è la democrazia
di Anubi D'Avossa Lussurgiu



«Se mantengo il silenzio è per un segno di rispetto e cortesia istituzionale». E poi: «Tutti conoscono le mie opinioni sui rapporti uomo-donna». Così, ieri sera, il primo ministro dello Stato spagnolo, José Rodriguez Zapatero, che il giorno prima si era ritrovato ad assistere al fianco del presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana Silvio Berlusconi al di questi spettacolo in vece di conferenza stampa congiunta, dopo il vertice bilaterale a La Maddalena. 
Così stanno le cose. Ossia, questo è il punto cui è giunta la parabola del potere berlusconiano. Anche i più raffinati apolegeti, come quelli de il Foglio , hanno già smesso di rappresentarla quale riproduzione virtuale di movenze del tipo della rosselliniana "La presa del potere da parte di Luigi XIV". Non c'è proprio alcun potente politico in Europa cui incuta timore o rispetto, casomai imbarazzo come si vede. L'aristocrazia dei giorni nostri non sta per niente rinchiusa a Versailles, al massimo c'era Tarantini a Palazzo Grazioli, o - proprio al massimo - qualche dama del Billionaire; e non c'è solo la "Fronda" dell'ingegner De Benedetti e de la Repubblica , anche tutti gli altri menano colpi accurati dai bastioni del Corsera . Non s'intravvede a corte alcun Mazarino, al più un sempre più contrito Gianni Letta; né tampoco un Colbert, al più un Tremonti crescentemente rifugiato nella mistica - in cerca forse d'una Cabala per i conti che non tornano. Non c'è nemmeno una Montespan degna d'un qualsiasi pur spudorato riconoscimento; invece c'è una moglie potente e richiedente divorzio che ricompare in pubblico alla rappresentazione d'una piéce su Hitler...
Così vanno le cose, così devono andare. Anche se. E di anche se ve n'è più d'uno. Anche se, anzitutto, la caduta di Berlusconi è un "profumo nell'aria" e non un fatto politico, né un evento facilmente alle viste: perché l'uomo resta forte, con ancora la disponibilità di poteri temibili. E, soprattutto, non si rassegna. Il che vuol dire che intende usarli a propria difesa, fino all'estrema riserva. Si capisce dalla battaglia cui ha costretto Gianfranco Fini, pur attualmente primo d'una conta effettiva di forze per un rovesciamento interno dei rapporti e della linea Pdl. Proprio per questo ve l'ha costretto. Certo si spinge in un vicolo cieco, perché vi fa luce solo una fonte esterna e da lui indipendente (gliene ha già data ampia prova nella sua storia politica): la Lega. Non sarà un caso che il giorno dopo ogni apertura ufficiale di fronte di scontro, gli venga in soccorso Umberto Bossi. Ma tant'è, quel vicolo imbocca ed è un segno di assoluta determinazione. Che non sarebbe agibile se non vi fosse un'altra condizione: il Cavaliere è virtualmente in caduta, anche se non c'è un'opposizione politica adeguata ad approntare un'alternativa. A cominciare dal Pd, il cui congresso tutti attendono e pure lui: ma sicuro che proprio a quel punto calare l'asso della sfida elettorale. L'ultimo atto dell'avventura, che la rende massimamente insostenibile, nelle condizioni globali attuali, a chi vuole ipotecata la sua leadership ma non certo le garanzie ottenute.
E dunque: così vanno le cose, così devono andare. Come devono, in assenza d'una alternativa democratica e d'un "terzo incomodo" che non a caso tutti scoraggiano, un qualche intervento che non venga dall'alto bensì dal basso, un ritorno di democrazia dalla sua sede primaria, l'aborrita piazza. Così vanno le cose, come devono: con la rovina del Paese misurata non sulle rovine dei suoi indici sociali, bensì sulle apologie sessuali in mondovisione del presidente del Consiglio. Con la denuncia democratica esercitata in prima pagina non già sulle stragi di esseri umani nel Mare Nostrum (e del colonnello Gheddafi...), bensì sul numero di signorine ospitate nelle «cene allegre» al desco del Cavaliere. Con una battaglia culturale non su un liberismo spietato quanto più fuori tempo massimo, non sulla rapina di futuro e di diritti, non sul fascismo "minore" ormai rivendicato in dosi quotidiane dalle tribune dell'autorità politica, non sul razzismo, l'omofobia e il sessismo: bensì sul più becero terreno comune del maschilismo, puttane sante o dannate. Sante se mi compiacciono e dannate se mi testimoniano contro; no dannate se fanno carriera e sante se ti sputtanano...
C'è una manifestazione, il 19, convocata dalla Fnsi per difendere la libertà di stampa. Ecco: poiché è indubbio che vada difesa come tale anche la scelta di assediare Berlusconi nell'unico modo che ci fa veramente schifo, poiché libera informazione è una priorità fra le garanzie costituzionali che questo potere caduco aggredisce ferocemente, potrebbe essere un'occasione. Per andare oltre. E far sì che le cose non vadano proprio così. Perché, è chiaro: il problema non è la caduta, ma l'atterraggio. Per chi a terra ci sta già, specialmente.

Liberazione 12.9.09
Roberto Natale presidente Federazione nazionale stampa italiana
Il 19 in piazza
«Per difendere l'informazione. E un po' anche per fare autocritica»
intervista di An. Mil.


Il 19 in piazza per la libertà di informazione, ma forse è l'occasione anche per osare di più, per dire che Berlusconi e i suoi ministri non devono più governare l'Italia...
Sì, direi che ci serve fare qualcosa. Io credo che il problema del controllo dell'informazione sia sicuramente molto importante per una democrazia. E credo che sia un tema che, insieme a tanti altri, debba essere rilanciato con forza. A questo proposito mi piacerebbe che i promotori della manifestazione del 19 e tutti quelli che vi parteciperanno dicano in quella occasione che saranno presenti anche alla nostra manifestazione del 10 ottobre che chiederà l'approvazione della legge contro l'omofobia.
Ecco, appunto. E' possibile ritornare a pensare a una stagione di mobilitazioni per tutti i temi e i diritti civili messi in pericolo da questo governo?
Credo sia necessario e indispensabile rilanciare una stagione di mobilitazione con questo stampo. Gli italiani e le italiane devono tornare a farsi sentire e possono farlo solo scendendo in piazza. Forse questa è l'occasione buona per ricominciare a farlo.
Poi c'è il problema che il Berlusconi nell'occhio del ciclone dell'ultimo periodo è stato messo sulla graticola da parti della stessa maggioranza - politica, economica ecc.. - che lo ha supportato fino adesso. Quello che manca è l'opposizione, sia politica che sociale, non credi?
Certo, in questo momento e da un pò di tempo l'opposizione in Parlamento è del tutto latente. Non solo, anche nella comunicazione troppo spesso non riusciamo a far emergere bene le nostre posizioni e le nostre proposte. Detto questo, io voglio un Pd che faccia delle proposte, che si faccia sentire con delle idee concrete e con un'alternativa a questa situazione. Voglio che il mio partito faccia qualcosa per tornare a governare questo Paese con una piattaforma programmatica da presentare agli elettori. Insieme alla sinistra e a chi ci sta, ovviamente. Forse è arrivato il momento, forse possiamo uscire dal torpore e dire agli italiani che abbiamo da proporre loro qualcosa per convincerli a darci la fiducia per governare.

Liberazione 12.9.09
Carlo Podda segretario generale Funzione pubblica - Cgil
«Spero sia la prima molecola di un nuovo movimento»
intervista di Fabio Sebastiani


Si può trasformare l'appuntamento del 19 in una manifestazione di massa contro Berlusconi?
Il 19 rappresenta un atto importante per l'obiettivo che ha in se la manifestazione ovvero la difesa di uno deti tratti caratteristici della democrazia, la libertà di stampa. Poi, certo, è chiaro che mi aspetto molto dalla sua riuscita, considerato anche il cartello di forze che hanno aderito. Spero possa costituire la prima molecola di una riaggregazione di un movimento generale di cui questo paese ha bisogno.
Credi sia possibile tornare a rimettere al centro i temi sociali?
Abbiamo parlato della democrazia. Mi permetto di dire che il primo luogo in cui la democrazia perde colpi è proprio il lavoro. E non c'è dubbio che siamo in presenza di una vocazione fortemente autoritaria nel mondo del lavoro. Stanno costruendo un sistema in cui i contratti vengono decisi altrove. E i contratti vuol dire, lo voglio ricordare, il reddito delle persone e le condizioni materiali in cui lavorano. I lavoratori non possono dire la loro. E' evidente che siamo in presenza di un sistema fortemente autoritario. E quindi l'iniziativa del 19 rappresenta un ulteriore tassello della ricostruzione del sistema democratico del paese. Se il lavoro perde la democrazia perde partecipazione e la stessa possibilità di intravedere il cambiamento. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un insterilimento della democrazia, al peggioramento delle condizioni di lavoro e delle condizioni generali del paese. C'è una assoluta concatenazione tra i due percorsi. I lavoratori e i pensionati, in fondo, costituiscono due terzi del paese. Se le condizioni peggiorano è il paese che peggiora.
Berlusconi più che sul terreno dell'informazione ha portato attacchi diretti proprio contro il mondo del lavoro.
L'informazione è uno strumento indispensabile per Berlusconi. E' funzionale al suo progetto di rappresentare una realtà diversa da quella che la gente vive. Ciò ha fatto si di far sentire le persone nell'isolamento e quindi nella difficoltà della presa di coscienza e della stessa trasformazione. Se non mi rendo conto che l'altra gente vive la mia stessa condizione alla fine mi chiudo nel mio particolare, nella mia corporazione. Il lavoro fatto sul'informazione ha fatto in modo che il danno venisse gestito ed esteso.
Dopo un periodo di largo frontismo, non pensi che sia il caso per la sinistra di cominciare a riprendere il suo percorso?
La sinistra paga il prezzo di un lavoro mai fatto su se stessa, che era quello nel quale molti di noi speravano all'inizio degli anni duemila, quando ci si confrontava sui contenuti di una nuova proposta politica. Siccome che questa fase è stata saltata, non c'è stata la costruzione di un programma comune a partire dal basso. Abbiamo riproposto in forma diverso i contenuti del liberismo. Il risultato si è visto, arrivo al governo impreparati e mancanza di un punto di vista autonomo. Oggi tutti parlano di uguaglianza ma che il nodo fosse quello il sindacato lo diceva da anni.

Liberazione 12.9.09
Gian Carlo Caselli capo della Procura della Repubblica
presso il Tribunale di Torino
«Hanno ingaggiato una battaglia ossessiva da quando le indagini e i processi toccano i nuovi potenti»
intervista di Gemma Contin


Gian Carlo Caselli è magistrato notissimo, oggi a capo della Procura di Torino dove negli Anni Ottanta è stato giudice istruttore nei processi a Prima Linea e alle Brigate Rosse. Membro del Csm dal 1986 al 1990, nel gennaio del 1993 sbarcò a Palermo proprio il giorno dell'arresto di Totò Riina, subito dopo le uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, subentrando nel ruolo già svolto da Antonino Caponnetto nel decennio precedente, teso a ripristinare e a rilanciare l'attività condivisa e "il metodo collegiale" adottato nel condurre le indagini dal pool antimafia, "inventato" e testato proprio a Torino contro il terrorismo.
Caselli ha diretto la Procura di Palermo fino al 1999, firmando tra l'altro, con i procuratori aggiunti Roberto Scarpinato, Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli, la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del senatore a vita Giulio Andreotti. Dopo l'esperienza palermitana è stato nominato direttore generale del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e, nel 2001, rappresentante a Bruxelles nell'organizzazione comunitaria contro la criminalità organizzata Eurojust.
Dottor Caselli, cosa sta succedendo sul "pianeta Giustizia", da scatenare attacchi così furibondi e fuori misura da parte dei vertici di governo?
Niente di sostanzialmente nuovo. Ormai sono oltre quindici anni che risuona sempre lo stesso ritornello. Da quando le indagini e i processi hanno toccato i "nuovi potenti", questi hanno ingaggiato una battaglia ossessiva, fatta di leggi ad hoc e di quotidiana delegittimazione contro la magistratura, accusata addirittura di volere un "golpe" strisciante. Nasce di qui una delle maggiori anomalie italiane di questo ultimo quindicennio: il rifiuto del processo e la sua gestione come momento di scontro da parte di inquisiti "eccellenti" o di soggetti "forti". Superfluo dire che queste strategie di contestazione del processo in sé (la cosiddetta difesa "dal" processo in luogo della difesa "nel" processo) nulla hanno a che vedere con un corretto sistema di legalità.
Siamo di fronte a un anticipo di quello che questa maggioranza intende per riforma?
La giustizia in Italia non funziona. I suoi tempi sono una vergogna, ma non si fa sostanzialmente nulla per rendere il sistema più efficiente. Le riforme in cantiere (Csm, rapporti pm-polizia giudiziaria, separazione delle carriere, obbligatorietà dell'azione penale, intercettazioni) non ridurranno neanche di un minuto la durata dei processi. Incideranno invece, per un verso o per l'altro, sulla indipendenza della magistratura. Una magistratura meno indipendente avrà minori potenzialità di controllo a 360 gradi, quindi anche nei confronti delle deviazioni del potere. Se nel contempo si registra una informazione non pluralista e scarsamente indipendente, ecco un intreccio perverso che mette a rischio la qualità della nostra democrazia.
Il nodo è proprio questo: sono in atto pesanti condizionamenti sull'informazione, sull'autonomia dei giudici e in particolare dei pm, e si attua la delegittimazione preventiva dell'obbligatorietà dell'azione penale, con quella sparata sui magistrati che sprecano il denaro pubblico in indagini inutili e «contro di noi», ha detto Berlusconi. Non si introduce così l'idea che a dettare l'agenda di giornali e Procure debba essere l'esecutivo, o addirittura il capo dell'esecutivo?
Sono anni ormai che il presidente Berlusconi e i suoi epigoni si esibiscono in attacchi alla magistratura. La strategia è a geometria variabile, nel senso che l'esperienza di questi anni dimostra che gli attacchi possono riguardare qualunque magistrato, pubblico ministero o giudice, quale che sia la città in cui opera, ogni volta che abbia la "sfortuna" (questa è la parola giusta) di imbattersi in vicende delicate.
Nello stesso mirino sono finito anch'io, insieme con i miei colleghi della Procura di Palermo, durante i miei anni di lavoro in questo Ufficio. Nel settembre 2003 scrissi una lettera aperta al presidente Berlusconi, pubblicata integralmente dal quotidiano La Stampa di Torino, nella quale ponevo alcuni interrogativi che mi sembrano purtroppo ancora attuali: «E' giusto gettare pregiudizialmente fango su un magistrato solo perché indaga per fatti specifici un personaggio pubblico? E viceversa, è giusto applaudire, sempre e comunque, a prescindere, il magistrato che non fa nulla o assolve quell'imputato? "Giustizia giusta" quando si tratta di personaggi "di peso" è per definizione soltanto quella che assolve? Ragionando in questo modo non si sovvertono le regole fondamentali della giustizia? Non si incide sulla serenità di giudizio? Dove sta la linea di confine tra attacco e intimidazione?»
Concludevo la lettera osservando che fare questi ragionamenti, anche soltanto per difendersi da accuse ingiuste, costa fatica; ma tacere sarebbe sbagliato, posto che l'investitura popolare non dà a nessuno, neppure al presidente del Consiglio, il diritto di offendere, né, oggi posso ancora aggiungere, caso unico al mondo, quello italiano, la mancanza di rispetto (pur nella critica) verso l'istituzione giudiziaria.
Lei ha appena ricordato il suo lavoro alla Procura di Palermo, conosce quindi molto bene il dottor Ingroia e gli altri magistrati che lavorano in quell'Ufficio, impegnati tra l'altro, in questo momento, sul crinale delicatissimo della riapertura di indagini sulle stragi mafiose. Qual'è il suo giudizio sulle condizioni in cui operano e su quello che stanno facendo?
Chiunque abbia avuto a che fare con Antonio Ingroia o con Roberto Scarpinato sa che la loro correttezza professionale è assolutamente fuori discussione. Certo appartengono alla categoria dei magistrati che non si sottraggono al dovere di partecipare al dibattito politico-culturale. Ma un conto è questo dibattito politico-culturale condotto su questioni generali; tutt'altra cosa è il loro lavoro quotidiano, rispetto al quale la loro sensibilità istituzionale è straordinaria.

Liberazione 12.9.09
Rinaldini: «Non disponibili a subire un accordo separato»
intervista Fabio Sebastiani


Federmeccanica ha scelto la via dello scontro duro e intende applicare l'accordo separato più nel metodo che nel merito...
E' ovvio che non siamo alla definizione formale di un accordo separato. Abbiamo fatto una proposta che è stata di fatto respinta anche con dichiarazioni insultanti da parte di esponenti di altre organizzazioni sindacali e, leggo, anche le dichiarazioni del direttore generale di Federmeccanica: a volte ci sono documenti di quaranta pagine che non dicono nulla e altre volte proposte che possono essere riassunte in poche righe. Noi in sostanza abbiamo proposto in questa fase di sospendere l'adozione del sistema di regole, concordare il blocco dei licenziamenti e nello stesso tempo arrivare a una soluzione transitoria sulla parte economica. La Federmeccanica ha formalmente chiesto tempo per dare una risposta e nello stesso però ha definito con le altre organizzazioni sindacali in sede ristretta il proseguimento della trattativa per tutto il mese di settembre discutendo soltanto con la piattaforma presentata da Fim e Uilm, e considerando la piattaforma della Fiom non negoziabile perché fuori dalle regole. E' evidente che trattasi di una scelta estremamente grave e di cui si assumono per intero la responsabilità e nel Comitato centrale che abbiamo convocato per la giornata di lunedì decideremo le iniziative di mobilitazione dell'intera categoria perché non siamo disponibili a subire un accordo separato che non ha mai avuto la validazione democratica dei lavoratori interessati. 
Fim e Uilm hanno cominciato questo percorso disdettando unilateralmente il contratto vigente...
Noi partiamo da un accordo separato sulla struttura contrattuale confederale che inevitabilmente pone il problema di accettare o meno quelle regole che non sono state convalidate da nessuna assemblea dei lavoratori. L'accordo nazionale vigente prevede il rinnovo del biennio economico alla fine di dicembre. Le altre organizzazioni sindacali lo hanno disdettato senza il consenso dei lavoratori mentre, lo voglio ricordare, fu la stragrande maggioranza dei lavoratori ad approvarlo. E' evidente che va sollevato un problema di legittimità. Riteniamo illegittimo che si possa modificare la parte normativa dei contratti. Se questo avverrà prenderemo iniziative legali. Stiamo difendendo la democrazia, il diritto dei lavoraori a votare i loro contratti e le loro piattaforme.
Federmeccanica prova l'affondo subito dopo il confronto tra Epifani e la Marcegaglia a Cernobbio. Delle due l'una, o quell'intesa è carta straccia oppure gli imprenditori sono divisi.
Che ci siano dei problemi tra gli imprenditori credo sia ormai evidente. Le notizie filtrano. Ci sono posizioni diverse. Per quanto riguarda il rapporto con Cernobbio sono più cauto. Analizzata dal versante sindacale l'espressione di buona volontà che non dice nulla sul merito non è sufficiente. Non avevo letto nelle dichiarazioni qualcosa di significativo rispetto al merito e ne ho avuto conferma. Anche perché non penso che possano pensare di applicare l'accordo separato sul sistema di regole e poi aprire su altre questioni. Non a caso nella nostra proposta chiediamo il blocco dei licenziamenti, la democrazia e una soluzione transitoria per quanto riguarda il salario che tenga conto delle piattaforme presentate. 
La strategia che sembra scegliere la Cgil è di andare a vedere il piatto dei rinnovi contrattuali e provare a forza quel sistema di regole. Cosa ne pensi?
Fatta salva l'autonomia di ogni categoria, mi limito a sottolineare una cosa di per se già evidente: laddove si discute il rinnovo del contratto nazionale credo che si ponga inevitabilmente il problema del sistema di regole adottato. Tutti oggi fanno riferimento al 23 luglio. Non credo che la Confindustria accetterà di considerare quei testi. Questa è alla fin fine la stessa questione che fin dall'inizio si è posta per i meccanici. Laddove ci sono situazioni economiche in settori più favorevoli uno può anche pensare di dare venti euro in più rispetto all'indice Ipca dopo di che il problema è se porta a casa quel sistema di regole o no.
Considerando il contesto è realistico pensare a un posticipo del congresso della Cgil. Cosa ne pensi? 
La Cgil ha aperto il percorso del congresso. Il 17 c'è la prima riunione delle commissioni. Il percorso del congresso deve andare avanti. Non è pensabile alcun rinvio. Dopo di che sono altrettanto convinto che il congresso della Cgil ha un carattere di straordinarietà non per una norma statutaria ma per le questioni che si trova ad affrontare e che disegnano il sindacato del futuro: la crisi, il sistema di regole, e una Cgil che deve essere in grado di esprimere esprimere e gestire in piena autonomia la propria discussione interna rispetto alle questioni aperte in tutti i partiti della sinistra. 
Un ultima domanda sulla manifestazione del 19. Quale possibilità c'è di sollevare anche i temi sociali?
Il 19 c'è la necessità di riconnettere le fila di un progetto più complessivo che è in atto in questo paese. Ho detto della democrazia nel mondo del lavoro, a me pare che quello che sta avvenendo è la messa in discussione della democrazia materiale di questo pese. Temo che le risposte a questo processo vivano separate. Sta anche alla nostra capacità ricostruire un filo di ragionamento che tenga assieme la questione sociale con l'informazione e più in generale con la democrazia in questo paese.

l’Unità 13.9.09
Storia di Carlo, schizofrenico morto in carcere
di Luigi Manconi Andrea Boraschi


IIl 24 giugno scorso, ad Asti, un uomo, viene notato dai Carabinieri per alcune manovre vietate a bordo di una Panda. Gli intimano l’alt, ma l’uomo non si ferma; ne nasce un inseguimento che i verbali riferiscono lungo e pericoloso, tra accelerazioni brucianti e incidenti evitati per puro caso. Finché la fuga non si interrompe; e pare che le prime parole dell’uomo all’indirizzo dei gendarmi siano state «Dovreste ringraziarmi. Vi ho salvato la vita perché volevano farvi un attentato».
Il buon senso dice che poteva trattarsi di un burlone; o di una persona disturbata o alterata. L’uomo al volante era Carlo Esposito, 41 anni, bidello in una scuola di Asti. È schizofrenico e in passato è stato ricoverato più volte nel reparto psichiatrico della sua città e sottoposto a un Trattamento Sanitario Obbligatorio, una misura che consente l’imposizione di terapie a soggetti affetti da disturbi mentali.
Il giorno dopo l’uomo viene condannato per direttissima a 26 mesi di galera per resistenza a pubblico ufficiale. Nessuno, al tribunale di Asti né il pm, né il giudice, né il suo avvocato solleva il dato clinico, la schizofrenia dell’imputato, invocando il vizio parziale di mente che gli consentirebbe di godere della sospensione condizionale. A Esposito viene comminata una pena molto dura – «esemplare», direbbe qualcuno – specie se si considera la sua condizione di incensurato.
Con l’ingresso nel carcere astigiano di Quarto emergono evidenti i problemi di incompatibilità dell’uomo col regime detentivo. Esposito, oltre che schizofrenico, è diabetico, iperteso, obeso ed ha già avuto delle ischemie. Il quadro clinico non viene però ritenuto sufficiente al suo trasferimento in una struttura diversa; sarà piuttosto tradotto nel reparto psichiatrico delle Vallette, nel luglio scorso. Nei giorni successivi scrive alla madre e a un’insegnante della scuola presso la quale lavorava, denunciando di aver rischiato la vita e di aver avuto collassi in due occasioni per dosaggi sbagliati di farmaci e per cure inadeguate.
Infine, una sera di qualche giorno fa, verso le 20.30, l’uomo si sente male. Si reca in infermeria e mentre è in corso la visita ha una crisi cardiaca. L’ambulanza arriva ma tutti si rendono conto che le sue condizioni sono troppo gravi per il trasporto in ospedale. Morirà un’ora dopo.
Ora la procura di Torino ha aperto un fascicolo sul suo caso. Difficilmente l’indagine potrà dire quella che è una elementare verità: il carcere è anche il luogo dove si occulta la malattia, specie quella mentale; e questa rimozione, assai spesso, annuncia tragedie.
Scrivere a: abuondiritto@abuondiritto.it

l’Unità 13.9.09
Alla Porta d’Europa per dire «No» alla barbarie
I respingimenti negano i diritti di cittadinanza. Le migrazioni non sono fenomeni passeggeri. Un popolo come quello italiano, emigrato tra ‘800 e ‘900, dovrebbe averlo compreso
di Khalid Chaouki


Giovani italiani e di origine straniera insieme a Lampedusa per ricordare le vittime del Mediterraneo, rilanciare il tema dei diritti umani e dei diritti di cittadinanza. È questo lo spirito con cui ci siamo recati ieri in visita al cimitero di Lampedusa per ricordare insieme le vittime del Mediterraneo sepolte senza nome. Comunque persone, che aldilà della loro fede di appartenenza meritavano uno spazio dignitoso di pace dopo una tragica morte. Sempre tutti insieme abbiamo lanciato in mare una corona di fiori per dire basta alle barbarie dei respingimenti di donne e uomini che fuggono da fame, guerre e persecuzioni e richiedere un deciso rispetto della Convenzione dei diritti umani e dei rifugiati. Lo abbiamo fatto osservando un minuto di silenzio davanti alla Porta d’Europa, un monumento che guarda dritto alla sponda settentrionale dell’Africa.
Far partire da un luogo tragicamente simbolico come Lampedusa la nostra campagna nazionale sull’immigrazione e la cittadinanza «stranieri di nome, italiani di fatto» vuole significare riconoscere innanzitutto il carattere umano del fenomeno migratorio. Una storia che ha conosciuto l’umanità da millenni con la migrazione di interi popoli verso sponde nuove. Una storia che ha riguardato la vita recente anche del nostro paese con il viaggio di mi-
lioni di persone verso mete lontane come gli Stati Uniti, l’Argentina o l’Australia alla ricerca di una possibilità per una vita migliore. Ebbene, quella possibilità oggi la si vuole negare a popoli a noi vicini. Ancora peggio.
I migranti vengono dipinti come usurpatori delle nostre ricchezze, si alzano barriere di filo spinato per paura che condividano un po’ dei nostri privilegi fino ad arrivare a schedarli come criminali per la semplice colpa di non aver avuto la fortuna di essere nati dall’altra sponda del mare. In questo clima di caccia al povero e di istigazione talvolta anche alla xenofobia e al razzismo da parte di qualche esponente del governo, noi intendiamo reagire con forza denunciando il grave degrado del livello di dibattito pubblico sui fenomeni legati al tema dell’immigrazione. Inoltre riteniamo che la più grande bugia raccontata agli italiani in questi ultimi mesi sia quella di rappresentare la realtà dell’immigrazione in Italia come un fenomeno passeggero e legato ad un’emergenza. Dimenticando che in Italia i flussi migratori risalgono ad almeno vent’anni e oggi si contano circa quattro milioni di cittadini di origine straniera pienamente inseriti nel tessuto sociale e lavorativo nelle nostre città. Si dimentica che vi sono migliaia di bambini nati e cresciuti in Italia che popolano le nostre scuole e che, aldilà di una legislazione quasi unica in Europa che non riconosce loro immediatamente la cittadinanza italiana, si sentono pienamente italiani senza attendere il benestare dei protettori della Padania. E’ questa l’Italia già radicalmente multietnica che noi vogliamo rappresentare. Un’Italia che non ci può far paura perché ci fa sentire più europei e più globali. Un’Italia che non ci fa paura perché ci stimola ad un confronto continuo e positivo con persone provenienti da altre culture.
Persone che con noi ora sono disposti a condividere oltre al territorio, anche la Costituzione e i valori che hanno fatto grande la tradizione mediterranea di questo paese. ❖

l’Unità 13.9.09
I sondaggi danno la sinistra radicale al 14%. Travaso di voti anche dai socialdemocratici
Oggi la sfida tv tra la cancelliera Merkel e il candidato premier dell’Spd Steinmeier
Germania, il pantano afghano fa volare la Linke di Lafontaine
Il partito di Oscar il rosso sembra inarrestabile. Per i sondaggi sarebbe al 14%, terza forza poltica del Paese, alla pari dei liberali, dietro Cdu e Spd. È l’unico partito a chiedere il ritiro immediato da Kabul.
di Gherardo Ugolini


Berlino. Ciclone Linke in Germania. Prima il successo nelle regionali del 30 agosto in Turingia, Sassonia e Saar ha dato un’iniezione di fiducia al partito di Lafontaine e Gysi portandolo alla ribalta della scena politico-mediatica e avvalorandolo come possibile partner di governo, per lo meno a livello locale. Poi il raid Nato di Kunduz in Afganistan effettuato su richiesta del comando tedesco, con conseguente strage di civili, ha aperto un dibattito sulla presenza militare tedesca in quell’area. I leader della Linke, unico partito a chiedere il ritiro immediato delle truppe, hanno avuto buon gioco nel ribadire il proprio pacifismo intransigente. «Con le bombe non si possono imporre né la pace né la democrazia» ha detto Lafontaine intercettando sentimenti largamente diffusi nell’opinione pubblica.
LA VICENDA OPEL
Infine la conclusione della vicenda Opel, celebrata dal governo di «Grosse Koalition» come un successo per la Germania, ha lasciato una coda di dubbi e incertezze che danno fiato alla protesta delle opposizioni.
Sono tutti episodi che potrebbero fare la fortuna elettorale della sinistra radicale tedesca. Almeno così dicono concordemente i sondaggi degli ultimi giorni, in base ai quali la Linke, a due settimane dal voto, vola al livello più alto mai registrato dalla sua nascita. L’istituto demoscopico Forsa in un recentissimo rilevamento pubblicato sul settimanale «Stern» le attribuisce addirittura il 14%, una percentuale che farebbe della Linke il terzo partito del Paese, alla pari con la Fdp (14%), dietro la Cdu (al 35% in leggero calo) e la Spd (21%). Il sondaggio stima la coalizione nero-gialla (Cdu-Csu-Fdp) al 49%, il che potrebbe non bastare per avere la maggioranza nel Bundestag e formare un governo.
SFIDA IN DUE LÄNDER
Ottime prospettive per la Linke anche nei due Länder in cui si vota il 27 settembre parallelamente alle politiche. Nella regione nord-occidentale dello Schleswig-Holstein i sondaggi danno il partito della sinistra all’8%, il che vorrebbe dire superare la soglia di sbarramento e conquistare una nuova presenza in un parlamento regionale occidentale. E nel Brandeburgo, il Land orientale confinante con Berlino, la Linke è data addirittura al 28%, a soli tre punti di distacco dai socialdemocratici. Vento in poppa per la Sinistra, dunque, tanto più se si considera che tradizionalmente i sondaggi tendono a sottostimare il consenso delle formazioni più estreme. Gli analisti spiegano che i nuovi voti alla Linke vengono prevalentemente dall’elettorato socialdemocratico sempre più disorientato dalla linea moderata del candidato premier Frank-Walter Steinmeier e deluso dall’esperienza quadriennale di governo insieme alla Cdu. A proposito di Spd, le ultime cartucce da sparare prima del 27 settembre sono quelle del “duello” televisivo che oggi vedrà affrontarsi Angela Merkel, cancelliera uscente, e lo sfidante Steinmeier. C’è molta attesa per l’appuntamento che sarà trasmesso in diretta da ben quattro canali tv, i pubbliciArdeZdfeiprivatiRtleSat1.Lo scontro durerà 90 minuti. Oltre 20 milioni di spettatori sono pronti a sintonizzarsi sulla trasmissione. E tutti sperano che lo scontro porti un po’ di vivacità in una campagna elettorale finora alquanto piatta e noiosa. Essendo l’unico faccia a faccia in calendario Steinmeier dovrà fare ogni sforzo per mostrarsi competente e convincente. A suo vantaggio gioca il fatto che la Merkel non è mai stata particolarmente brillante nei confronti tv.

Corriere della Sera 13.9.09
Scuola, la vera emergenza
Su quei banchi ci siamo stati tutti
di ernesto galli Della Loggia


Da anni l’istruzio­ne è il cuore malato dell’Ita­lia inferma. È lo specchio del nostro de­clino. Siamo agli ultimi posti nella classifica dei rendimenti scolastici, il che vuol dire che i giova­ni italiani sanno far di conto, scrivere e capire un testo peggio di quasi tutti i loro colleghi non italiani, mentre i due grandi punti di forza del­la nostra tradizione scola­stica, la scuola elementa­re e il liceo, sono ormai solo la pallida ombra di ciò che furono. Sul ver­sante finale, le nostre mi­gliori università, gestite troppo a lungo dal pote­re arbitrario di chi vi in­segna, e soffocate da pro­blemi di ogni tipo, fanno una ben misera figura ri­spetto alle migliori stra­niere.

È vero: da decenni la quota di spesa pubblica destinata all’istruzione è troppo bassa; ma atten­zione: specie per quel che riguarda l’istruzione primaria e secondaria es­sa non è poi così catastro­ficamente bassa rispetto alla media europea. Guardando le cose nei lo­ro termini più generali, il problema centrale del nostro sistema d’istruzio­ne appare soprattutto un altro. È il fatto che l’ambi­to della scuola e dell’uni­versità è quello dove da circa mezzo secolo si ma­nifestano con particola­re virulenza tre aspetti critici della nostra vita collettiva: il potere sinda­cale, il timore sempre in agguato per l’ordine pub­blico (comune a tutti i partiti e a tutti i governi), e infine la diffusione, nel­la scuola e fuori, di un senso comune cultural­mente ostile alla dimen­sione del merito, del do­vere, della disciplina, del­la selezione. I lettori san­no di cosa parlo. La scuo­la è rimasta un settore dove i sindacati e le loro logiche corporative han­no in buona parte anco­ra oggi un virtuale dirit­to di veto su qualunque decisione non solo di ti­po organizzativo (circa le carriere e le assunzio­ni del personale), ma an­che sui programmi e in generale sulla didattica. Egualmente, basta la più piccola minoranza stu­dentesca che organizzi un corteo o un sit-in per­ché il mondo politico sia attraversato da un brivi­do di speranza o di pau­ra credendo di scorgere all’orizzonte una riedizio­ne del mitico Sessantot­to. E nel complesso, poi, guai a chiunque dica che nell’istruzione il permis­sivismo va messo al ban­do, che ogni apprendi­mento esige anche sacri­ficio, che non tutti alla fi­ne possono risultare ca­paci e meritevoli.
In queste condizioni fare il ministro dell’Istru­zione e dell’Università in Italia equivale a essere una specie di san Seba­stiano: bersagliato da ogni parte, schernito, vi­lipeso e mostrificato alla prima occasione, desti­nato quasi sempre a scontentare tutti. Da Gui alla Moratti, passando per De Mauro e Berlin­guer, è stato in pratica un vero e proprio marti­rologio politico, e anche l’anno scolastico che si apre in questi giorni mi­naccia come al solito tempesta sul capo del san Sebastiano di turno, il ministro Gelmini. Dal momento che scoccare frecce verso chi si trova legato al palo dell’istru­zione è facile, molto faci­le: e infatti nel corso de­gli ultimi decenni nessu­na forza politica si è sot­tratta alla tentazione di farlo ricavandone il mise­ro utile del caso.
Ma se le cose stanno così, se nella scuola e nell’università il blocco delle forze contrarie a qualunque cambiamento è così forte e variegato come a me pa­re, allora dovrebbe essere evi­dente che per rimettere ordine nel campo dell’istruzione è ne­cessario come in nessun altro uno sforzo congiunto e consape­vole di tutte le forze politiche in­teressate al bene del Paese. Alle quali dovrebbe pure venire in mente che, dopo aver assecon­dato tutte le pigrizie, le ipocri­sie e i luoghi comuni della socie­tà italiana, è forse venuto il mo­mento di cambiare strada.
Se c’è un ambito cruciale per l’avvenire di noi tutti, dove si gioca più che in ogni altro il fu­turo dell’Italia, questa è l’istru­zione. Sulle misure da prendere si possono avere idee divergen­ti, naturalmente. Quello che non è più tollerabile è il gioco al massacro, la strumentalizzazio­ne demagogica, l’opposizione senza idee, l’essere contro per l’essere contro. Di fronte a quel­la che è diventata una vera e pro­pria emergenza nazionale, l’emergenza dell’istruzione, co­me anche il Presidente Napolita­no ha più volte sottolineato, tut­ti gli schieramenti, e il ministro per primo, dovrebbero sentirsi impegnati a un atteggiamento costruttivo e nei limiti del possi­bile collaborativo.
L’Italia che si riconosce nella democrazia e nella lotta politi­ca, ma che non ne può più della cieca rissa delle fazioni, aspetta solo che si chiuda la stagione delle escort e delle querele. Il momento sembra ormai giun­to: chi può aiutare a farlo batta un colpo.

il Riformista 13.9.09
Cinema, il Leone d’oro all’israeliano «Lebanon», quello d’argento all’iraniano «Women without Men»
L'onda verde conquista Venezia
di Luca Mastrantonio


La mostra del cinema di Venezia più rossa degli ultimi anni ha partorito due Leoni verdi. Di rabbia e libertà. Il primo premio, il Leone d'oro, è andato a "Lebanon", dell'israeliano Samuel Maoz, sulla guerra in Libano dell'82, quando nasce Hezbollah. Quattro militari israeliani intrappolati in un carrarmato, per sopravvivere uccidono tutto quello che gli capita a tiro. Terroristi, nemici, innocenti... «Non c'è tempo per decidere se una guerra è giusta o no quando sei sotto il fuoco nemico», ha detto il regista.
Il Leone d'argento è andato alla video-artista iraniana Shirin Neshat, per "Women without men", storia di quattro donne, appartenenti a diverse classi sociali, in cerca di emancipazione nella Teheran degli anni '50. Sul red carpet hanno sfilato di verde vestite, le dita in segno della vittoria. «La gente fuori e dentro l'Iran - ha detto la regista - deve sapere che il Movimento Verde, per cui lottiamo, non è una contestazione appartenente alle classi sociali alte e agli intellettuali, ma di tutti». Sogna un Iran diverso da quello di oggi, con «gli scandali elettorali e non solo del fondamentalista Ahmadinejad».
ll premio speciale della giuria è andato alla commedia di Fatih Akin, "Soul kitchen", mentre la coppa Volpi maschile a Colin Firth per il patinato "A single man" di Tom Ford, e quella femminile a Ksenia Rappoport, per "La doppia ora" di Giuseppe Capotondi. Sommata al premio Mastroianni, per giovane attore/attrice emergente, andato a Jasmine Trinca (per "Il grande sogno" di Michele Placido) e alla vincitrice della italianissima sezione Controcampo, Susanna Nicchiarelli con "Cosmonauta" (storia di una giovane comunista nell'Italia del boom), si può dire che l'Italia è stata salvata dalle donne. Migliore sceneggiatura, infine, per Todd Solondz e "Life during wartime", premiata la scenografia di Jaco Van Dormael per "Mr Nobody".
Lebanon usa come prolungamento della cinepresa il mirino di un carrarmato. Lo spettatore è inchiodato alla poltrona, assieme ai quattro giovani ventenni che si trovano intrappolati in un carro che era stato mandato in ricognizione e si troverà in un inferno dove tutti trovano la morte. Innocenti e colpevoli. Per il regista, «l'anima è lacerata dal dissidio tra l'istinto di sopravvivenza e la morale. Non c'è tempo di chiedersi se è una guerra giusta o meno, sei sotto il fuoco nemico». Il film mostra cos'è la guerra e come ogni immagine sia atto di guerra. Tutto ciò che finisce nell'inquadratura-mirino del cine-carrarmato muore.
Luca Mastrantonio

il Riformista 13.9.09
Colonne sonore delle dittature del Novecento
di Antonello Guerrera


IL RESTO È RUMORE. Alex Ross, nel suo bellissimo volume pubblicato in Italia da Bompiani, racconta gli intrecci diabolici tra potere assoluto e arte musicale. Nell'Urss, le sinfonie di Leningrado e il realismo socialista, in Germania, il culto di Wagner che nel 1850 lamentava «l'ebraizzazione della musica tedesca».

Germania, anni Venti. La Repubblica di Weimar si avvia giorno dopo giorno verso la sua capitolazione. In molti cercano di esorcizzare i demoni del futuro attraverso la musica, soprattutto straniera. Anche un eremita come Harry Haller, creazione malinconica di Hermann Hesse che incarna questo Zeitgeist, viene coinvolto nelle musiche «ballabili americane», appena arrivate in Germania. «Ma non è da evitare del tutto nemmeno il jazz!», sottolinea il protagonista del Lupo della Steppa. «S'intende che, confrontata con Bach e Mozart, con la musica vera, quella musica è una porcheria, ha però il pregio di essere sincera, ha un po' del negro, un po' dell'americano, è antipatica, ma preferibile all'odierna musica accademica, è puerilmente fresca e ingenua». Altrove, invece, la musica già guardava indietro, alla gloriosa tradizione nazionale, in nome della propaganda e dell'autocelebrazione. In Ungheria con l'ammiraglio Miklós Horthy. In Italia con Benito Mussolini. Per non parlare di baffone Stalin in Urss. Ancora qualche anno ed arriveranno altri due generali del terrore a cantare requiem democratici e decretare le abluzioni belliche nel sangue del Vecchio Continente: Francisco Franco e, naturalmente, Adolf Hitler.
In questo scenario gli anni Trenta «rappresentarono l'inizio della fase più perversa e tragica della musica del XX secolo». Parola di Alex Ross, la cui opera ultima Il resto è rumore (ed. Bompiani) è finalmente giunta in Italia. L'autore, musicologo americano, ha composto un emozionante, imperdibile volume di valore assoluto (tra i numerosi premi e riconoscimenti ricevuti, Il resto è rumore è stato finalista anche al Pulitzer 2008) sugli intrecci, a volte diabolici, tra musica e storia di tutto il Novecento.
La censura, le pressioni e le tragedie alle quali la musica europea andò incontro dagli anni Trenta sino al sipario cremisi della seconda guerra mondiale hanno pochi precedenti nel corso della storia e, nel contempo, raccontano molto di quest'ultima. Ungheria, Austria, Italia, Spagna e Germania deviarono ogni sonorità per i propri fini politici. I dittatori dell'epoca segnarono e mutilarono profondamente la musica, tanto che quando gli Alleati arrivarono in Germania a ceneri di Hitler ancora calde, dovettero ricodificare gusti e "leit motiv" della musica tedesca per cancellare, o almeno rimodellare, l'indemoniato immaginario collettivo degli anni precedenti.
Due, in particolare, furono i leader musicalmente devastanti: Josif Stalin e Adolf Hitler. Ma, nonostante censure, purghe e deportazioni, il lavoro dei due fu più facile del previsto. Altro che «intrinseca superiorità morale da parte degli artisti», sottolinea giustamente Ross. I compositori dell'epoca non solo non ostacolarono l'avanzata del totalitarismo, ma anzi, la maggior parte di loro l'accolse, almeno inizialmente, a braccia aperte. Il motivo? Il precariato. L'anarchia capitalistica, difatti, aveva lasciato molti artisti in un limbo senza sostegni, perché orfani di quei referenti storici come Chiesa, nobiltà e alta borghesia che avevano qualche decennio prima. Stalin e Hitler compresero subito quel sentimento. Divennero i nuovi mecenati e, uno dopo l'altro, gli artisti si schierarono dalla loro parte.
Soprattutto il georgiano di Gori pur promuovendo inizialmente un «modernismo sovietico» attivò una repressione artistica certosina, facendo dimenticare il liberalismo dei primi anni della Rivoluzione promosso dal funzionario leniniano Anatolij Lunacarskij. Stalin filtrava tutti i dischi pubblicati in Urss, etichettandoli con «buono», «brutto», «spazzatura», e così via. Le sue chiamate agli artisti, spesso nel cuore della notte, potevano significare encomio ma anche un destino nefasto. Se, dopo una performance, veniva riferito ad un compositore di attendersi una chiamata dal grande capo che però non arrivava mai, di lì a poco sarebbero arrivati i secchi colpi alla porta della polizia segreta. Tutti i compositori, poi, erano sottoposti a iniziali rituali di umiliazione da parte del regime sovietico per testarne la tempra ideologica. Stalin inoltre ritemperò il concetto di realismo socialista che nella musica doveva unire realtà e eroismo - addirittura il 9 agosto 1942, con Leningrado assediata dai tedeschi, fece inscenare proprio la famosa Sinfonia di Leningrado di Shostakovich per sollevare il morale dei combattenti. Chi non si adeguava, cadeva nella rete del Terrore epurativo. Le purghe seviziarono senza pietà le spinte «troppo moderniste» o innovatrici della musica russa, in un clima di inquietante tradizionalismo «operaio». Persino a Dmitrij Shostakovic, il più popolare compositore sovietico del periodo, sparivano amici, cari o collaboratori in caso di opere scomode o eroicamente insoddisfacenti per il regime staliniano. La sua Lady Macbeth, perché «oscura e moralmente oscena», fu ripresa pubblicamente dalla Pravda, con un editoriale senza firma dal titolo «Caos anziché musica» che chiosava così: «Shostakovic ha giocato ad un gioco che può finire molto male». Durante i preparativi della prima opera sovietica di Prokofiev Semën Kotko, venne ucciso assieme alla moglie il "ribelle" regista Mejerchold che lavorava con lui. Mentre la sua "Sesta" e "Ottava sonata" vennero messe al bando perché inadatte. Gli fu ritirato il passaporto per evitare l'espatrio. Sino alla beffa finale. Prokofiev morì pochi minuti prima di Stalin, che ovviamente gli rubò tutto il compianto del popolo sovietico. Al quale venne comunicata la sua scomparsa solo cinque giorni dopo.
Nella Germania nazista invece le premesse furono diverse. Nonostante il grande interesse di Hitler per la musica tradizionalista - era particolarmente ossessionato da Wagner, Tristano e Parsifal in primis -, inizialmente il Führer, deciso credente nell'assolutezza schopenhaueriana dell'arte, non voleva incorporare di netto la musica nella propaganda goebbelsiana. Ma anzi, voleva mantenere l'illusione dell'autonomia delle arti tramite un unico referente artistico, la "Reichskulturkammer" (Camera culturale del Reich). Difatti, come scrive giustamente Ross, la scena musicale tedesca «non fu semplicemente nazificata dall'alto. In larga parte, fu essa stessa a nazificarsi». Basti pensare alla conversione nazista di ex ribelli weimariani come Hindemith o, più semplicemente, alle parole di Strauss - che tuttavia ebbe un rapporto più che controverso con il regime nazista -, quando Hitler assunse il potere: «Finalmente un cancelliere del Reich che si interessa di arte». Premessa di un connubio inscindibile tra musica e politica nazista a cui mai la storia aveva assistito.
L'alleanza tra musica tedesca e ideologia reazionaria risale al totem Richard Wagner. Proprio lui nel 1850 scrisse il pamphlet Gli ebrei nella musica che lamentava «l'ebraizzazione della musica tedesca», auspicando per loro "Untergang" (rovina) e "Selbstvernichtung" (autoannullamento). Da quel momento l'antisemitismo s'incanalò nella fessure ideologiche della musica tedesca, per formare crepe sempre più ampie e legarsi all'ideologia del Führer, per accompagnarla in parate e sermoni pubblici sulle note di Beethoven, Bruckner e, ovviamente, Wagner.
Hitler causò alla musica tedesca danni materiali incalcolabili. Oltre alla sterilizzazione di ogni influsso esterno e alla drammatica esclusione di artisti ebrei come Will, Klemperer, Schoenberg da ogni palcoscenico del Paese - con alcune eccezioni tuttavia, vedi lo stesso Strauss e la sua famiglia "meticcia" - è lunga la lista di compositori assassinati nei campi di concentramento, di giovani talenti uccisi in Normandia e di teatri rasi al suolo. Ma soprattutto, la musica tedesca, dopo la parentesi nazista, perse molta autorità morale, macchiandosi sempre di più di un'etichetta sinistra, inumana. In questo senso, le rappresentazioni di Hollywood sono maestre. La "Nona" di Beethoven accompagna le (dis)avventure ultraviolente di Alex Delarge in Arancia Meccanica, la pioggia di missili sul Vietnam che apre Apocalypse Now ha sullo sfondo La Cavalcata delle Valchirie di Wagner, e così via.
Tra i compositori tedeschi, l'unico vero dissidente fu Karl Amadeus Hartmann, che dedicò la partitura Miserae ai suoi «amici, morti a centinaia… Dachau 1933-34». Ma anche l'antinazismo di Hartmann lascia tuttora qualche dubbio, dal momento che non sembrava destare più di tanto gli istinti punitivi del partito nazista. In realtà, solo nell'Italia di Mussolini ci fu un musicista davvero ribelle ai canoni stabiliti dal Pnf. Il compositore Luigi Dallapiccola, il cui stile galleggiava tra Stravinskij e Schoenberg, aveva inizialmente sposato la causa fascista. Ma, di moglie ebrea, se ne allontanò decisamente dopo i patti con la Germania antisemita. Indimenticabili i suoi Canti di prigionia del 1941 che, attraverso Boezio, Maria Stuarda e Savonarola, sono un disperato grido di libertà. Bertolt Brecht scrisse: «Ci sono coloro che dimorano nelle tenebre, e coloro che dimorano nella luce». A parte i rarissimi esempi di Hartmann e Dellapiccola, la maggior parte dei compositori dell'epoca dimorarono nelle prime, o in nessuna delle due.

Corriere della Sera 13.9.09
Il noto genetista svela che cosa l’ha spinto a raccogliere in un libro le sue traduzioni degli antichi lirici greci
La scienza? È nascosta in una poesia di Saffo
di Edoardo Boncinelli


Segreti di una passione 
La mia scelta non dovrebbe stupire. La mente è una, la cultura è una. Ci sono meraviglie e tesori in ogni attività. Per scoprirli bisogna studiare molto, coltivando sempre immaginazione e rigore

«Sopra il suo capo si librava / un’infinità di uccelli, / e i pesci fuori / dall’onda scura / balzavano al dolce canto». Così Simonide descrive l’effetto che il cantare di Orfeo, l’eroe-simbolo della lirica, ha sulla na­tura stessa. Da parte sua la grande Saf­fo dice a una ragazza ignara di poesia, simboleggiata dalle rose della Pièria: «Tu morta finirai lì, né di te ricordo alcuno / né rimpianto rimarrà, per sempre. Tu non hai colto / le rose del­la Pièria e una volta partita da qui, oscura / ti aggirerai fra le oscure om­bre della casa di Ade». Tanto alto è il valore che la Grecia classica attribui­sce alla poesia e al canto! Coadiuvato da un’attrice che leggerà alcune delle liriche più belle, presenterò a Porde­nonelegge il libro I miei Lirici greci pubblicato qualche mese fa per l’Edi­trice San Raffaele. Quest’opera contie­ne le mie traduzioni delle più impor­tanti liriche greche del periodo classi­co — dal VII al V secolo prima di Cri­sto — scritte da autori come Saffo, Al­ceo, Alcmane, Simonide, Archiloco, Anacreonte e via discorrendo. Qualcu­no si stupirà che nella mia produzio­ne di libri che parlano di scienza io ab­bia avuto il tempo di inserire anche un testo classico, contenente traduzio­ni di autori noti e celebratissimi sui quali si sono in passato esercitati au­tori di ben maggiore competenza e no­torietà. Solo in lingua francese esisto­no cento traduzioni-imitazioni pub­blicate della celebre lirica di Saffo Un dio mi appare. 
Perché i lirici greci? Perché li ho sempre amati, anche da prima del li­ceo, e li considero nel loro complesso un capolavoro ineguagliato. La loro modernità, la loro semplicità e fre­schezza, l’uso magistrale che vi se ne fa di una lingua già di per sé meravi­gliosa, li fanno apparire ai miei occhi, e non solo ai miei, un patrimonio ine­stimabile e imperituro.
Perché tradurli? Perché molte tra­duzioni esistenti non mi convinceva­no e in alcuni casi mi lasciavano per­plesso. Ci si allontanava in genere un po’ troppo, secondo me, dal testo gre­co originale. Che è meravigliosamen­te eloquente, lucido e compatto. Ad esempio Saffo chiama in una lirica l’amore «glykìpikron amàchanon hòr­peton ». L’espressione equivale più o meno a «fiera dolceamara dalla quale non c’è riparo», ma ognuno dei tre ter­mini condensa in sé una molteplicità di significati. L’ultimo, ad esempio, in­dica sì una fiera selvaggia, ma veicola anche il significato di una cosa che striscia e che si insinua come un ser­pente. È difficilissimo rendere in ma­niera succinta tutti i diversi significa­ti, ma ne vale la pena. Perché pubbli­carli? Per vanità, certamente, ma an­che per un atto d’amore verso questi testi oggi non popolarissimi, con la se­greta mira di «divulgarli», di portarli cioè ancora una volta, e in veste mol­to moderna, all’attenzione di chi ama la poesia, ma che non ha magari avu­to l’occasione di accostarvicisi.
Non dovrebbe stupire, secondo me, che a quest’opera si sia accinto uno che si è occupato di scienza per tutta la vita. L’uomo è uno, la mente è una, la cultura è una. Ci sono tesori e meraviglie nella scienza e tesori e me­raviglie nella poesia. Occorre immagi­nazione e rigore nell’una attività co­me nell’altra e guai a non avere l’una cosa o l’altra! Quello che alcuni non capiscono è che studiare come è fatto veramente il mondo, richiede in gene­re più immaginazione e penetrazione che non inventarselo.
D’altra parte, un poeta senza studio e senza consequenzialità non raggiun­gerà mai grandi altezze. Basti pensare a Lucrezio, a Galileo, a Leopardi.... «L’esperienza è il fondamento di ogni conoscenza», dice venticinque secoli fa Alcmane, ma dice anche che «Ogni ragazza dalle nostre parti / elogia il suonatore di lira». 


sabato 12 settembre 2009

l’Unità 12.9.09
La protesta dilaga come un’«Onda»
Da un capo all’altro del Paese sit-in, presidi e volantinaggi contro i tagli della Gelmini. La Flc-Cgil contesta il decreto: «No alla guerra tra i poveri». Scioperi in arrivo alla riapertura
di Maristella Iervasi


La protesta dei docenti precari sta dilangando come un’Onda. Il provvedimento varato nell’ultimo Consiglio dei ministri per 13mila persone è stato rimandato al mittente dai 25mila insegnanti che sono rimasti senza lavoro e stipendio per via dei pesanti tagli all’Istru-
zione: “No ai contratti di disponibilità. No alla guerra tra poveri”. La Flc-Cgil si è incatenata con chi è “rimasto in mutande” sotto il ministero di viale Trastevere. La Gilda dell’insegnante protesterà con un presidio di due giorni in piazza Venezia. E c’è di più. Da Milano alla Sardegna continuano le occupazioni e i sit-in sotto i provveditorati e i governatori regionali. Il tutto mentre oltre sei milioni di studenti tra lunedì e martedì torneranno a scuola. Un avvio scolastico davvero incandescente. L’Unicobas ha indetto uno sciopero per il 9 ottobre. Il sindacato Flc-Cgil potrebbe proclamarlo in seguito.
Chi è già in entrato in classe non l’ha trovata più la stessa. Ha dovuto fare i conti con una scuola devastata dai pesanti tagli al personale: 42.100 insegnanti in meno da subito. Stessa cosa per 15 mila Ata (di cui 10mila bidelli). Una mannaia sull’istruzione lungua un triennio. Il risparmio complessivo a cui Tremonti tiene come l’osso è di 87mila docenti e 44mila Ata. Nei prossimi due anni la scuola perderà altri 20mila docenti e 15mila Ata. E studenti e famiglie proprio in questi giorni stanno toccando con mano l’aria che tira. Il tempo pieno laddovè è sopravvissuto è stato devastato dallo spezzatino orario. Le classi delle superiori si sono trasformate in pollai: affollattissime come non mai e magari anche con più alunni con disabilità.
Alle elementari sono state spazzate via le compresenze per far posto al maestro unico prevalente della Gelmini che solo l’11% delle famiglie italiane ha accolto con favore. E non consolano di certo gli ultimi annunci della ministra unica dell’Istruzione: “pagelle on line e assenze dei figli comunicati ai genitori per sms”.
Caos Il caos e la confusione la fanno da padrone in tutti gli istituti. E il calendario delle mobilitazioni per difendere la scuola pubblica di qualità si mette in moto. A Bologna l’assemblea di genitori e insegnanti ha optato per la “manifestazione infinita”. Si comincerà lunedì con un corteo fin sotto le finestre dell’Ufficio scolastico regionale. Una protesta no-stop per chiedere di riavere le cattedre e le ore di scuola tagliate. All’indomani, la manifestazione dei docenti “tagliati” vestiti da fantasmi sotto le scuole proprio (per il capoluogo emiliano è martedì il primo giorno di scuola), e così di seguito fino alla Notte Bianca dei precari di venerdì 18. A Sassari blocchi volanti del traffico e volantinaggio. Da Venezia a Salerno, fino alla Sicilia si moltiplicano le proteste e i volantinaggi anti-Gelmini. ❖

l’Unità 12.9.09
Al programma di Santoro rischiano anche i contratti dei telecineoperatori «storici»
Calano le azioni di Enrico Mentana alla guida del Tg3. E Di Bella dice: «Voglio restare»
RaiTre, la manifestazione del 19 «congela» il blitz contro Ruffini
«Un clima del genere non si era mai visto», dicono a Rai3. In attesa del blitz con cui la maggioranza vuole rimuovere Paolo Ruffini, «azioni di disturbo» contro Report e Annozero. Ma il dg rassicura: nessuna censura.
di Andrea Carugati


A Rai3 si stanno ormai preparando i sacchi di sabbia, da mettere davanti alle finestre la settimana prossima, quando, così si dice, la manovra berlusconiana per cambiare volto a Rete e Tg prenderà corpo. Non fino a partorire le nuove nomine nel cda di giovedì 17: il presidente Garimberti ha chiesto e, pare, ottenuto, che alla vigilia della manifestazione di piazza del Popolo per la libertà di stampa del 19 non ci siano forzature. E tuttavia la settimana prossima resta decisiva. Il cda di giovedì affronterà il caso Annozero, con molti contratti ancora da firmare, a partire da quello di Marco Travaglio, gli spot promozionali pronti da giorni e mai andati in onda, persino l’estromissione, denuncia la redazione, dei sei telecine-operatori “storici”. Qui, come a Raitre, il clima è molto teso. «No, una partenza di stagione in un clima del genere non si era mai vista..,», sussurra un dirigente. Anche a Report si descrivono come «color che son sospesi». La questione della copertura legale dei giornalisti è ancora aperta, in luglio il Dg Mauro Masi ha reso esplicita l’intenzione di eliminare questa tutela che il gruppo della Gabanelli si era conquistata dopo anni di battaglie. Qui, come da Santoro, nessuno vuole parlare, nessuno osa scandire a voce alta la parola «boicottaggio». Il di-rettore di Raitre Paolo Ruffini è il bersaglio grosso: a lui vengono imputate tutte le trasmissioni “scomode”. Compreso Glob di Enrico Bertolino, che partirà domani, finora unico sopravvissuto certo. «La satira è un ingrediente essenziale di una tv libera e anche irriverente», dice Ruffini, che si gode questo piccolo risultato.
IL BLITZ A FINE SETTEMBRE?
Su di lui le nubi non si sono ancora diradate. Passata la manifestazione, probabilmente nel cda del 24 settembre, la maggioranza si prepara al colpo di mano in cda, cinque contro quattro. Il nome più gettonato per la guida di Rai3 è sempre quello di Gianni Minoli, professionista di livello e con molte amicizie nel centrosinistra. Che avrebbe però un mandato chiaro: ridimensionare nel più breve tempo possibile Fazio e la Dandini, decurtandone le puntate. Il contratto di «Che tempo che fa» per ora sembra destinato ad andare in porto in tempo utile per il 3 ottobre. Con una previsione iniziale di due puntate a settimana.
Dalla direzione generale provano a buttare acqua sul fuoco. «Tutte le trasmissioni partiranno, il palinsesto dell’autunno è già stato votato dal cda». Su Report, assicurano gli uomini del dg Masi, «non ci sono problemi, avrà le tutele degli altri programmi Rai». Affermazione che però non trova riscontro, finora, né in redazione nè tra i dirigenti della Rete. Gli uomini di Masi provano a ridimensionare anche le vicissitudini di Annozero. «Nessuna censura, stiamo solo facendo approfondimenti». E i ritardi? «È cambiato il direttore di rete, e poi c’erano le ferie...». Ma Travaglio spiega: «Di solito mi chiamavano in agosto per il contratto, quest’anno non ho ancora sentito nessuno». «Continue azioni di disturbo», commenta il consigliere in quota Pd Nino Rizzo Nervo. Nervi tesi anche al Tg3: sembra ormai tramontata l’ipotesi Enrico Mentana, che non avrebbe nè l’ok della redazione, nè l’unanimità dei consiglieri Rai, le due condizioni poste quando ha ricevuto la proposta a metà agosto. Antonio Di Bella non molla: in un’intervista in uscita oggi sul Corriere rivendica i risultati raggiunti e fa capire chiaramente di voler restare al suo posto. Molto difficile che Bianca Berlinguer presti il suo nome a una operazione di normalizzazione. Il rebus resta aperto. Anche perché, nonostante i tentativi di Masi di proporre nomi in grado di spaccare il Pd, il clima pre-manifestazione sembra aver compattato i democratici in difesa dei «gemelli» Ruffini e Di Bella. «Non c’è nessun motivo per sostituirli, e le opposizioni fanno bene a non cadere nella trappola, a respingere ogni trattativa sottobanco», li esorta Beppe Giulietti di Articolo 21.

l’Unità 12.9.09
Donne e uomini «pensanti» per rompere il muro del silenzio
«Sono una snob, preferisco la ricchezza culturale allo scambio tra il corpo e la carriera. In Italia domina la filosofia della differenza sessuale: le donne sono simili tra loro, dolci e sensibili. L’«arma» della consapevolezza
di Nicla Vassallo


Da snob mi consento diverse cose, ormai è «facile» si è snob nel confidare nella ricchezza culturale piuttosto che in quella anti-culturale, e/o nel nutrire disinteresse per lo «scambio tra corpo e carriera», e/o nell’esprimersi contro il cinismo. Mi consento di guardare poca Tv orwelliana, sfogliare quotidiani inglesi, indignarmi: è evidente anche a me che le donne (ma non tutte le donne) stiano impiegando ogni risorsa per esibirsi con fare sguaiato, valorizzare un corpo porno–soft (o hard), concepirsi alla stregua di effettivi oggetti sessuali (in quanto oggetti, si vendono e acquistano a «prezzo di mercato»), vivere la propria sessualità in funzione della gratificazione maschile (non di tutti i maschi), agognare denari e successi facili. Già le donne (ma non tutte le donne) aspirano all’uggiosa omogeneità delle letterine, modelle, troniste, veline e, recentemente, escort. Recentemente? Dai tempi di Eva? Senza trascurare che, banalmente, benché spogliarmi sia un mio diritto (si badi bene: non un mio dovere), rimane vero che vi sono nudità e nudità: alcune belle, pure, non strumentali, altre orribilmente pornografizzate.
Il privato si è trasformato in pubblico e il pubblico in privato. C’è privacy e privacy, pubblico e pubblico. Si promuove la lotta contro la violenza sulle donne, ma si promuovono anche le escort. Il denominatore comune: esternare. Eppure rido con Roberto Begnini a radio Rtl: «Parleremo anche di cose leggere, escort, mignotte e ballerine, tutte cose pubbliche. Non vorrei, Silvio, toccare temi privati come la crisi e la disoccupazione». Rido perché Begnini è un comico, e non un comico riciclato in un politico, né un politico camuffato da comico (le troppe gaffe di George Bush non mi facevano affatto ridere). Un riso amaro perché permane il dubbio che tutto questo si connetta (come?) a un vecchio slogan femminista: il privato è politico, è pubblico. Nella nostra presente società, scurrile e volgare, gli interpreti e le interpreti dello slogan ormai eccedono: non vorrei discettare con loro di Kate Millett (chi era costei?), meglio qualche «gossip» sui modelli femminili assoluti della contemporaneità: Victoria Beckhman, Paris Hilton, e via dicendo, quando va bene.
Perché non reagire? Reagire a cosa? Non reagiamo a noi stesse che sbeffeggiamo la democrazia, astenendoci dal votare per la fecondazione assistita, la diagnosi preimpianto, la ricerca sulle cellule staminali embrionali. Non reagiamo quando gli intellettuali tessono le lodi dell’irrazionalità, col risultano che la dicotomia femmina/maschio, donna/uomo (dicotomia sessista) viene a rafforzarsi nell’immaginario collettivo, con i maschi/uomini che permangono nell’essere giudicati non solo animali umani razionali, ma anche attivi e oggettivi, in opposizione a donne che risultano non solo animali non umani (in quanto oggetti sessuali) ma anche irrazionali, emotive, passive, soggettive. Non reagiamo di fronte ai sinonimi di «uomo» e di «donna» che troviamo nella versione 2007 di Microsoft Office Word. Sinonimi di «uomo»: «essere umano, persona, individuo, genere umano, il prossimo, umanità, gente, maschio, adulto, addetto, operaio, tecnico, giocatore, atleta, soldato, militare, elemento, unità, un tizio, un tale, uno, qualcuno. Sinonimi di «donna»: «femmina,gentil sesso, bel sesso, sesso debole, signora, signorina, donna di servizio, domestica, cameriera, collaboratrice familiare, colf, governante, dama, regina. Manca «escort»: peccato! Il referendum, il fascino dell’irrazionalità, i sinonimi Microsoft appaiono innocui rispetto a «culi, fighe, peni, tette» sbattuti ovunque, oltre che in prima pagina. Apparentemente innocui. Perché se irrazionali, emotive, passive, soggettive, le donne non riescono a nutrire fiducia nelle proprie capacità intellettive, ad aspirare, per merito comprovato, non per «gnoccheria», a posizioni scientifico-culturali di spicco, ove il corpo non debba venir mercificato.
Per di più, prima di reagire in quanto donne, e non in quanto donne e uomini consapevoli nonché pensanti, occorre sollevare qualche semplice domanda: cosa abbiamo in comune noi donne, oltre il sesso d’appartenenza – sempre che con «sesso» ci si riferisca a qualcosa di univoco?; l’appartenenza a un sesso e/o a un genere è «naturale», nel senso che, se sei femmina (o maschio), donna (o uomo), rimani tale per la tua intera esistenza? Sostenendo che tutte le donne appartengono al medesimo sesso femminile e tutti gli uomini al medesimo sesso maschile non risultiamo ciechi nei confronti delle tante differenze che sussistono tra le stesse femmine/ donne e tra gli stessi maschi/uomini, rischiando di sottolineare e condizionare indebitamente comportamenti e competenze declinate al «maschile» e al «femminile»? Perché ingabbiare le nostre individualità, le nostre singole peculiarità?
In Italia domina la cosiddetta filosofia della differenza sessuale, su un piano anche socio–politico e religioso: le donne sono essenzialmente simili, e da ciò ne deriva, volente o nolente, che tutte le donne sono (o debbono essere?), più o meno, dolci, empatiche, sensibili; adatte a compiti di cura, e non a quelli dirigenziali, intellettuali, militari, politici, scientifici; umili e deferenti; poco assertive; fisicamente e psichicamente deboli. E perché non anche necessariamente provocanti, con una nuova ermeneutica inconsapevole del «questo corpo è mio e me lo gestisco io», o forse solo un’estrosa interpretazione del «my body is my own business»? È l’essenzialismo, non solo gli uomini di potere e le loro escort, a trasmetterci, almeno a livello teorico, la convinzione che ciò che è virtuoso nel femminile è patologico nel maschile, e viceversa. È virtuoso l’uomo con le rughe, che si circonda di escort, mentre è patologica la donna con le rughe che si circonda di escort; è virtuoso l’uomo duro, patologica la donna dura fortuna che le realtà ogni tanto smentiscono le fantasie: per esempio, alla fine le rughe di Hillary Clinton hanno prevalso su quelle di John McCain, mentre a capo degli istruttori dell’US Army vi è il sergente maggiore Teresa King. In verità, apparteniamo in modo fluido al mondo, in quanto donne e uomini in carne e ossa; non possiamo esentarci dalle nostre responsabilità individuali, schermandoci dietro la schematicità delle essenze. Responsabilità che concernono anche la preferenza sessuale: desideri, sogni, fantasie, identità, atti, scelte, riconoscimenti privati e pubblici, non invariabilmente eterosessuali, anzi, nonostante l’imperante eterosessismo e la crescente irragionevole omofobia.
Se il silenzio deve essere violato, non potrà, in fondo, esserlo che da donne e uomini, consapevoli e pensanti. La donna non è che pura apparenza, al pari de l’uomo, uno strumento coercitivo per imporre a singoli individui determinati comportamenti, legittimare determinate pratiche e delegittimarne altre. Ruoli culturali, professionali, sessuali e sociali distinti? Se rispondi in senso negativo, non sei una «vera donna» o un «vero uomo»? La disapprovazione contenuta nel «Tu non sei una vera donna» ci interessa sul serio? Le «vere» donne ormai (escort o madonne, che siano, nella vecchia classificazione, non affatto desueta) non risultano, forse, donne solo a causa di desideri sessuali, che corrispondono a quelli che la donna deve avere, donne che frequentano certi palazzi e certi uomini?
Come reagire? Con una comunicazione, fisico-verbale, ove non susanticonformistica, in cui le donne (almeno alcune) travalicano, anche da tempo, lo stereotipo logorato dell’oggetto da assoggettare, consumare. Donne e uomini, consapevoli e pensanti, possono relazionarsi tra loro da veri e propri individui, rispettarsi, per evidenziare le molteplici differenze che corrono tra donne, al di là di quelle insulse omogeneizzazioni che le desiderano comunque silenti. Pur ricordando che anche il silenzio è una forma di comunicazione, rompiamo il silenzio, sì, insieme agli uomini pensanti, seguendo la stupenda mente androgina di Virginia Woolf (chi era costei?) nelle Tre ghinee: «Ci troviamo qui... per porci delle domande. E sono domande molto importanti; e abbiamo pochissimo tempo per trovare la risposta. Le domande che dobbiamo porci... e a cui dobbiamo trovare una risposta in questo momento di transizione sono così importanti da cambiare, forse, la vita di tutti gli uomini e di tutte le donne, per sempre... È nostro dovere, ora, continuare a pensare... Pensare, pensare, dobbiamo... Non dobbiamo mai smettere di pensare: che “civiltà” è questa in cui ci troviamo a vivere?». Difficile accusare Virginia Woolf e la sottoscritta di bigottaggine; per quanto mi riguarda, sono solo una vecchia signora posata, di quarantasei anni, che cerca di adempiere al proprio dovere. ❖

l’Unità 12.9.09
Immagini sul regime rubate col telefono
Lo scioccante film denuncia di Hana Makhmalbaf mostra la repressione e le torture dellla dittatura di Ahmadinejad
di Ga. G.


Le donne in Iran sono come le molle: più le costringi e più salteranno in alto». Col capo coperto dal velo, ma verde, colore della protesta iraniana, è arrivata ieri alla Mostra Hana Makhmalbaf, la più giovane della celebre famiglia di cineasti «capeggiata» dal papà Mohsen. Fuori concorso ha presentato Green Day, scioccante documentario sulla repressione del regime di Teheran all’indomani del golpe che ha riportato al potere Ahmadinejad, nonostante i voti schiaccianti in favore del suo oppositore Mousavi. Girato in «clandestinità» e con molti video «rubati» col telefonino, il film ci porta attraverso l’entusiasmo della campagna elettorale le strade ingorgate di auto, come da noi dopo le partite, con i sostenitori di Mousavi e poi attraverso l’orrore della repressione. Il corpo di Neda sanguinante, le bastonate dei poliziotti, le torture. «Sono 11mila le persone imprigionate e violentate nelle carceri del mio paese», denuncia Hana. Gli stupri sono l’aspetto meno noto all’Occidente della violenza del regime. «Negli ultimi 4 anni prosegue la regista ventenne la vita di tutti noi è peggiorata. Siamo costretti ai sotterranei: l’arte, il cinema, la musica, tutto è sotterraneo perché la censura non permette più nulla. Il mio popolo è in ostaggio. Io sono in ostaggio». Eppure, proprio come l’altro giorno ha testimoniato Shirin Neshat, la voglia di lottare degli iraniani è inarrestabile. Come dimostra la massiccia presenza di registi iraniani a questa Mostra. Ultimi, un gruppo di giovanissimi filmaker di Teheran che hanno presentato i loro corti di denuncia alle Giornate degli autori.
«Ogni uomo è un esercito, ognuno di noi è ambasciatore spiega la combattiva Hana -. Ed io col mio cinema sono testimone. Io sono lo specchio del mio paese che non smette di lottare. Così com’è stato per Hitler e Saddam, il destino di ogni fascismo è segnato, non durerà in eterno». E anche per le donne sarà lo stesso. «Noi abbiamo subito tanto, il doppio degli uomini ed è per questo che oggi la protesta è donna. Col nostro manifestare vogliamo portare pace e democrazia». Per questo, conclude, «vogliamo che l’Occidente non appoggi Ahmadinejad. Al resto pensiamo noi: il nostro destino è nelle nostre mani, siamo un popolo che combatte da 30 anni per la libertà».❖

il Riformista 12.9.09
I "Green Days" di Hana
Nuova onda verde al Lido Fuori Concorso. Applausi per la figlia più giovane della factory del regista Makhmalbaf. Un "documento audiovisivo" girato in digitale, in pochi giorni, dal valore politico importante. "Per la causa" questa e altre iniziative.
di Anna Maria Pasetti



«L'ottanta per cento degli iraniani vuole cambiare. E a tutti i costi. Per questo il Movimento Verde sta rafforzandosi come linfa vitale per portare libertà e democrazia nel nostro Paese. Abbiamo bisogno della costante attenzione da parte di tutto il mondo. Ben vengano i social network e ogni mezzo possibile». Siba Shakib, scrittrice e attivista iraniana che vive tra New York, Italia e Dubai, poliglotta, possiede la calma di una che sa perfettamente di cosa sta parlando. «Non è un'utopia, ma il cambiamento può realmente avvenire. E avverrà».
Lei è al Lido in qualità di migliore amica della regista Shirin Neshat, qui in corsa con Donne senza uomini, ma anche per cercare coproduttori al suo film d'esordio. «È tratto - spiega - dal mio ultimo libro Samira & Samir (uscito in Italia per Piemme, La bambina che non esiste, ndr). Per ora abbiamo ricevuto i fondi per la sceneggiatura, trovato le location in Marocco, dove ha girato anche Shirin non potendo girare a Teheran, e il produttore principale, la società tedesca Gemini».
La signora Shakib, incontro fortunato durante gli ultimi giorni della Mostra, rappresenta un'ulteriore conferma di quanto l'Onda Verde abbia utilmente invaso la 66ma edizione.
Accanto a Donne senza uomini, diversi i film iraniani in cartellone: Tehroun di Takmil Homayoun Nader, Chaleh di Alim Karim - entrambi in Settimana della Critica -, Sokoote beine do fekr (Silenzio tra due pensieri) di Babak Payami inserito nel palinsesto di cinema e diritti umani ma soprattutto, applauditissimo ieri fuori concorso, il nuovo lavoro di Hana Makhmalbaf, Green Days. La più giovane della prodigiosa factory di papà Mohsen (è del 1988 e ha girato il suo primo film a soli 9 anni) non poteva scegliere titolo più pertinente per il suo appassionato racconto.
Girato in agile digitale e pochi giorni, è più un documento audiovisivo che un reportage, facendosi portavoce di un evento che raccolse allo stadio della capitale decine di migliaia di persone durante le ultime settimane di campagna elettorale per Mir-Hussein Moussavi. Hana, mostra la sua protagonista alterego Ava in tre situazioni che alterna durante l'intero film: nella veste di intervistatrice presso la folla mentre si reca a o ritorna dall'evento, nel ruolo di regista teatrale in cui dirige tre ragazze avvolte di nero e con la bocca sigillata da nastro adesivo, e infine nella rappresentazione di un sé solitario in preda alla depressione e alla delusione. La sua voce, narrante, è di dolore e si volge alla città come se fosse un amante: «Teheran tu sei le mie lacrime. Teheran tu eri la mia speranza, oggi tu sei sofferenza. Teheran però io ti amo».
La Makhmalbaf si chiede in continuazione se e fino a che punto anche il voto a Moussavi - prima dello scandalo elettorale perpetrato da Ahmadinejad - può cambiare la situazione del suo Paese. E lo chiede a giovani dipinti e abbigliati di verde, tifo da stadio, volti illuminati. «Lui ci cambierà, Ahmadinejad è un assassino», rispondono alcuni. Ma altri, meno fiduciosi di lei, temono che «alla fine si tratta solo di votare il meno peggio. Perché è sempre un regime che ci fa relativamente scegliere, non in maniera assoluta». Non di grandissimo valore artistico, il filmato di Hana esprime il dovere e il sentire di una giovane iraniana costretta a vivere fuori confine (a Londra) come tutti gli artisti iraniani, «criminali» secondo il regime.
E «per la causa» - come amano chiamarla qui al Lido - oltre ai film numerose sono state le iniziative organizzate. L'Ente dello Spettacolo, per volontà del presidente Dario E. Viganò, insieme all'Ass. Interfilm e all'Ass. Protestante Cinema di Roberto Sbaffi hanno dato vita al focus sull'Iran Storie di dignità umana e cinema, presenti alcuni registi qui in Mostra. Presso lo spazio delle Giornate degli Autori si è tenuta una serata dedicata ai corti iraniani intitolata Where is my vote? voluta dal giornalista Camillo De Marco. Cinque i cortometraggi presentati: brevi ma sostanziali contributi cinematografici contro chi vuole mettere gli artisti a tacere. E ieri sera, per chiudere in bellezza, lo splendido concerto di Mohsen Namjoo Echoes of Iran ideato da Fabrica e Cinecittà Luce. Applausi per una speranza che resistendo si fa sempre più azione.

Repubblica 12.9.09
Le dieci nenzogne
di Giuseppe D’Avanzo


Dice che solo in tv l´informazione è buona. Però è stato proprio a "Porta a Porta" che è iniziato il suo rosario di bugie e contraddizioni

Dice l´Egoarca che è stufo e replicherà «colpo su colpo». Dice, e sembra una sfida: «Venitemi a dire che non rispondo alle domande, siano quelle di Repubblica o di El Paìs». Più che rispondere, Silvio Berlusconi sfoggia – non è una novità, è la magia che gli riesce meglio – una sapienza stupefacente nell´uso della menzogna che manovra in ogni direzione. Ora nasconde la verità, ora la inventa di sana pianta, ora la nega contro ogni evidenza, ora la deforma secondo convenienza. Se si analizzano i nove minuti della perfomance autistica e autocelebrativa della Maddalena, dinanzi uno Zapatero sgomento, salta fuori un catalogo di dieci menzogne (e una sorprendente verità che gli sfugge inconsapevolmente).
1. La prima menzogna. L´Egoarca non risponde alle domande di Repubblica. Ne dimentica alcune. Due soprattutto suggerite dall´allarme della donna che lo conosce meglio, la moglie. Veronica Lario dice che Berlusconi «frequenta minorenni» e «non sta bene». Il capo del governo si tiene lontano da terreni che devono apparirgli minati. È stato documentato che ha frequentato due minorenni (Noemi e Roberta), invitate a Villa Certosa, senza i genitori nei giorni di Capodanno 2009.
Noemi Letizia, minorenne, lo ha accompagnato a una cena del governo. C´è altro? Silenzio. Berlusconi non osa affrontare la questione della sempre più evidente sexual addiction che lo costringe a una vita sconveniente e pericolosa.
2. Berlusconi nega che nelle sue residenze ci siano «feste e festini». Dice che, come leader del suo partito, «fa una serie di incontri con i rappresentanti e le rappresentanti di organizzazioni politiche, come i circoli "Meno male che Silvio c´è"». È una bugia. Da quel che è stato documentato dall´indagine di Bari, dalle testimonianze di Tarantini e di alcune "ospiti" retribuite, gli appuntamenti notturni del premier non prevedono né discussione politiche (si parla soltanto dei successi dell´Egoarca, se ne ammirano gli interventi in giro per il mondo, si ride della sue barzellette) né la partecipazione di comitati di fans. Un cerchio stretto di ruffiani e ruffiane invita a Palazzo o in Villa ragazze ambiziose o professioniste del sesso che accettano di passare la notte con il presidente.
3. Dice l´Egoarca: «Non è vero che ho candidato "veline". Abbiamo fatto un corso per giovani laureate che volevano diventare assistenti di eurodeputati e ne abbiamo individuate tre con grandi capacità». È una menzogna. Il "corso" è stato organizzato per preparare candidati e candidate al Parlamento di Strasburgo, come hanno confermato nel tempo i ministri che vi hanno preso parte come docenti. È stato un corso di formazione dove la presenza di "veline" era così appariscente da essere raccontata con molti particolari dai giornali (ohibò!) della destra. Il primo quotidiano che dà conto della candidatura di una "velina" alle elezioni europee è il Giornale della famiglia Berlusconi. Il 31 marzo, a pagina 12 si legge che «Barbara Matera punta a un seggio europeo». «Soubrette, già "Letterata" del Chiambretti c´è, poi "Letteronza" della Gialappa´s, quindi annunciatrice Rai e attrice della fiction Carabinieri», la Matera, scrive il Giornale, «ha voluto smentire i luoghi comuni sui giovani che non si applicano e non si impegnano. "Dicono che i ragazzi perdino tempo. Non è vero: io per esempio studio molto"». «E si vede», commenta il giornale di casa Berlusconi. Il secondo giornale che svela «la carta segreta che il Cavaliere è pronto a giocare» è Libero, il 22 aprile. A pagina 12, le rivelazioni: «Gesto da Cavaliere. Le veline azzurre candidate in pectore» è il titolo. «Silvio porta a Strasburgo una truppa di showgirl» è il sommario. I nomi della candidate che si leggono nella cronaca di Libero sono: Angela Sozio, Elisa Alloro, Emanuela Romano, Rachele Restivo, Eleonora Gaggioli, Camilla Ferranti, Barbara Matera, Ginevra Crescenzi, Antonia Ruggiero, Lara Comi, Adriana Verdirosi, Cristina Ravot, Giovanna Del Giudice, Chiara Sgarbossa, Silvia Travaini, Assunta Petron, Letizia Cioffi, Albertina Carraro. Eleonora e Imma De Vivo e «una misteriosa signorina» lituana, Giada Martirosianaite. Sono questi nomi, questi metodi a sollevare le critiche della fondazione Farefuturo, presieduta da Gianfranco Fini. La politologa Silvia Ventura avverte che «il "velinismo" non serve: assistiamo a una dirigenza di partito che fa uso dei bei volti e dei bei corpi di persone che con la politica non hanno molto da fare. Le donne non sono gingilli da utilizzare come specchietti per le allodole». «Ciarpame senza pudore», aggiunge Veronica Lario.
4. Dice l´Egoarca: «[Con Patrizia D´Addario] mi sono comportato come si deve comportare secondo me ogni padrone di casa». Quel che si sa del primo incontro di Berlusconi smentisce la correttezza di un padrone di casa consapevole di avere accanto una prostituta. «Che Patrizia fosse una escort, quella sera, lo sapevano tutti», dice Barbara Montereale, anche lei ingaggiata dal ruffiano del presidente, Gianpaolo Tarantini. C´è una traccia della consapevolezza del presidente. L´Egoarca "stropiccia" subito Patrizia D´Addario seduta accanto a lui sul divano, dinanzi agli uomini della sua scorta. Nel primo incontro, le propone di visitare la camera da letto in compagnia di altre due ragazze. La sollecita a entrare nel «lettone di Putin». La D´Addario rifiuta.
5. Dice l´Egoarca: «Nella patria di Casanova e dei playboy, la gioia più bella è la conquista. Se tu paghi che gioia ci potrebbe essere?». È una menzogna. Come Barbara Montereale, la D´Addario è stata ricompensata con una candidatura politica (doveva entrare nelle liste Europee, ottenne poi uno spazio per le elezioni comunali di Bari). Alla D´Addario Berlusconi promise anche un intervento politico per sistemare un affare edilizio. Corrispettivi dello scambio sesso-potere. Quando si alleggeriranno le pressioni corruttive e le intimidazioni sulle ragazze, anche straniere, ospiti di Villa Certosa (e immortalate dalle immagini di Zappadu) si potrà forse riferire quello che alcune testimoni hanno raccontato: e cioè come Berlusconi distribuisse egli stesso alle falene le buste con il denaro. Si potrà dire della regola imposta come assoluta di non parlare «mai, mai» con le altre ragazze del denaro ricevuto perché in quelle buste il numero delle banconote non era sempre uguale, duemila, cinquemila, diecimila euro. Il "sultano" premiava la performance, a quanto pare.
6. Dice Berlusconi: «Un imprenditore di Bari, Tarantino o Tarantini, era venuto ad alcune cene facendosi accompagnare da belle donne. Erano ragazze che questo signore portava come amiche sue, come sue conoscenti». È stupefacente che il capo del governo finga di non ricordare il nome del suo ruffiano e banalizzi ora un´intensa amicizia. Le intercettazioni delle loro conversazioni – e soprattutto la loro frequenza – contraddicono le sue parole. Tarantini e Berlusconi si sentivano anche dieci volte al giorno e nei brogliacci della procura della Repubblica ci sono decine e decine di telefonate. Nessun reato, dice ora il procuratore di Bari. In ogni caso, lo scambio tra il presidente del consiglio e il suo ruffiano è chiaro: l´Egoarca chiede «belle donne», Tarantini (pagandole) gliele procura. In cambio, il ruffiano conta sull´influenza del premier per concludere affari. Forse non c´è reato, ma il baratto può dirsi limpido per la rispettabilità delle istituzioni e neutro per la gestione della cosa pubblica?
7. La settima menzogna custodisce una singolare verità. Dice Berlusconi: «Io sono stato vittima di un attacco di una persona [la D´Addario] che ha voluto creare artatamente uno scandalo». L´Egoarca non si rende conto di confermare una delle questioni più rilevanti di questo caso: la sua vulnerabilità. Una vita disordinata e sconveniente per il decoro e l´onore della responsabilità pubblica che ricopre lo ha reso fragile, ricattabile. È falso che la D´Addario lo abbia ricattato (ha solo risposto a un pubblico ministero che la interrogava offrendo documenti sonori che da sempre maniacalmente raccoglie in ogni occasione). È vero che Berlusconi sia ricattabile. Quante sono le ragazze che possono minacciarlo? Il via vai di prostitute a Palazzo Grazioli, le cene, le feste, il sesso, le orge, le sue abitudini di vita e il veleno della satiriasi espongono con tutta evidenza Silvio Berlusconi a pressioni e tensioni che nessuno è in grado oggi di immaginare.
8. Dice l´Egoarca: «L´informazione buona è la tv». L´informazione televisiva, controllata direttamente o indirettamente dal capo del governo, è stata pessima. Si è trasformata in una "macchina del silenzio" che ha negato a sette italiani su dieci le notizie più elementari e comprensibili di un "caso" che ha screditato e scredita in tutto il mondo il presidente del consiglio e, con lui, il nostro Paese. E tuttavia è stata proprio la televisione a fargli lo scherzo più maligno. A maggio l´Egoarca va a Porta a porta per spiegare "veline" e Noemi. Infila un rosario di bugie e contraddizioni che, dopo mesi, ancora lo soffocano. Quando si accorge dell´errore, ritorna davanti alla telecamere per dire un´altra bubbola strabiliante: «Non ho detto niente».
9. Berlusconi dice: «Non c´è alcuno scontro con la Chiesa». La menzogna è contraddetta dall´impossibilità oggi per Berlusconi di incontrare il Papa, il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone, il presidente dei vescovi italiani Angelo Bagnasco. Una difficoltà acutizzata dal character assassination del direttore dell´Avvenire, Dino Boffo (accusato dal giornale del premier di omosessualità con un falso documento giudiziario). Le parole più severe contro Berlusconi sono state pronunciate dal segretario generale della Cei, il vescovo Mariano Crociata: «Assistiamo a un disprezzo esibito nei confronti di tutto ciò che dice pudore, sobrietà, autocontrollo e allo sfoggio di un libertinaggio gaio e irresponsabile che invera la parola lussuria. Nessuno deve pensare che in questo campo non ci sia gravità di comportamenti o che si tratti di affari privati. Soprattutto quando sono implicati minori, cosa la cui gravità grida vendetta al cospetto di Dio». Buoni rapporti?
10. Dice Berlusconi: «Credo di essere di gran lunga il miglior presidente del Consiglio degli ultimi 150 anni». Bè, questa è davvero la menzogna più grossa.

Repubblica 12.9.09
La prova del danno
di Massimo Giannini


Silvio Berlusconi, con l´incredibile show della Maddalena, è incappato nel primo, serio incidente internazionale del suo «premierato da combattimento». L´evocazione dei fantasmi che lo ossessionano -le escort, le inchieste giornalistiche e le indagini giudiziarie- gli costa la «sanzione» politica di un governo europeo.
Quella mezz´ora di soliloquio forsennato durante la conferenza stampa con il premier spagnolo - fuori da tutti gli schemi, le regole, le convenzioni, il buon senso e il decoro istituzionale - segna un punto di svolta non solo nel già deteriorato discorso pubblico italiano. Ma anche sul piano più delicato delle relazioni diplomatiche internazionali. Di fronte alle intemerate del Cavaliere – tra «il fascino della conquista» e le prestazioni sessuali mai pagate, tra l´autoelogio sul più grande statista degli ultimi 150 anni e l´attacco frontale non più solo a Repubblica e all´Unità ma stavolta anche al Pais – l´attonito Zapatero ha taciuto. Ha taciuto nel durante, e ha taciuto anche nelle ore successive. È evidente che quel silenzio imbarazzato, soprattutto al cospetto di una minaccia inaudita nei confronti di un grande giornale spagnolo, ha destato indignazione e malumore anche a Madrid.
Questo spiega perché, il giorno dopo, il primo ministro spagnolo ha sentito il bisogno di tornare sul caso, anche per ragioni di convenienza interna: «coprirsi» dalle critiche della sua opinione pubblica, della sua comunità politica e di tutta la libera stampa del suo Paese. Ma le parole di Zapatero, ponderate e pesate fino alla virgola e pronunciate davanti al «collega» francese Sarkozy, gravano come macigni sulla coscienza (o sull´incoscienza) del premier italiano. Proviamo a rileggerle: «Se mantengo il silenzio è per un segno di rispetto e di cortesia istituzionale che mi impone una certa prudenza. Tutti conoscono la mia opinione sull´uguaglianza tra uomo e donna, ma tra governi abbiamo buone relazioni, abbiamo progetti comuni. Sono incontri istituzionali e dunque io rispetto sempre questi incontri e il ruolo che dobbiamo mantenere»,
L´esegesi del testo è inequivoca. Zapatero, implicitamente, opera una distinzione netta nella valutazione su Berlusconi come capo di governo e sul Paese che il Cavaliere rappresenta. Ciò che pensa il premier spagnolo su quello italiano è chiarissimo: «Tutti conoscono la mia opinione sull´uguaglianza tra uomo e donna». Come dire: la sexual addiction del nostro presidente del Consiglio, e le logiche di scambio politico che la regolano, sono esecrabili e intollerabili. Ma Zapatero preferisce non parlarne pubblicamente, come preferisce non commentare gli anatemi contro il Pais, solo perché – in virtù di quella «scissione» nel giudizio - rispetta l´Italia che è partner della Spagna, come degli altri Paesi europei, in diversi «progetti comuni».
Il filo di questo ragionamento porta irrimediabilmente a una doppia, semplicissima conclusione, che conferma ciò che Repubblica sostiene da tempo. Primo: il premier è ormai drammaticamente «vulnerabile», e sistematicamente esposto al rischio di queste performance, poiché dovunque vada e con chiunque si incontri, anche oltre confine, inciampa in domande ineludibili (ancorché prive di risposte credibili) sui suoi scandali pubblico-privati. Secondo: per continuare a rispettare l´immagine del nostro Paese, le altre cancellerie d´Europa si sentono doverosamente e responsabilmente obbligate a differenziarla da quella dell´uomo che lo governa. È la prova che Berlusconi è ormai palesemente un «danno» per l´Italia. All´estero lo hanno capito quasi tutti. Prima o poi, probabilmente, lo capiranno anche gli italiani.
m.gianninirepubblica.it

Repubblica 12.9.09
Barzellette a mezzo stampa
di Giovanni Valentini


La megalomania dei giornalisti è quasi sopportabile nella sua ingenuità.
(da "È la stampa, bellezza!" di Giorgio Bocca – Feltrinelli, 2008 – pag. 75 )

Per il nostro beneamato presidente del Consiglio, dunque, è una "barzelletta" che la libertà di stampa sia a rischio in Italia. E per di più, una barzelletta di marca "cattocomunista". Ma visto che Silvio Berlusconi si ostina a non rispondere alle domande che, insieme a Repubblica, gli rivolge ormai la gran parte della stampa internazionale, proviamo a raccontarla noi qualche barzelletta di marca liberal-populista sullo stato dell´informazione nel nostro Paese.
La sapete quella del capo di governo che, caso unico al mondo, si rilascia e si rinnova da solo le concessioni televisive; si assenta dal Consiglio dei ministri al momento della decisione formale, per andare a prendere un caffè o a far pipì; stabilisce il relativo canone da corrispondere all´erario e così paga appena l´1% del fatturato della sua azienda, cioè un obolo di 24 milioni di euro all´anno, due al mese, per realizzare in totale un maxi-incasso annuale di 2,4 miliardi?
E la sapete quella del premier-tycoon, azionista di riferimento di Mediaset, che con tre reti tv registra il 40,5% degli ascolti contro il 41,8 della Rai, ma raccoglie e trasmette quasi il doppio di pubblicità, vale a dire il 55,2% contro il 28,9?
E quell´altra del presidente del Consiglio che, attraverso la sua maggioranza parlamentare, nomina la maggioranza del consiglio di amministrazione della Rai; attraverso il suo ministro del Tesoro, nomina direttore generale l´ex segretario generale di palazzo Chigi; e attraverso di loro, nomina di fatto i direttori di rete e di testata?
O quell´altra ancora del capo di governo che, per contrastare la concorrenza della pay-tv, prima raddoppia l´Iva sugli abbonamenti a Sky e poi impone ai telespettatori italiani un nuovo decoder satellitare da cento euro al pezzo?
E infine, barzelletta per barzelletta, la sapete quella del duopolio televisivo Rai-Mediaset che – sotto l´egida dello stesso presidente del Consiglio - detiene un´audience complessiva pari all´83,9%, rastrellando in questo modo più risorse pubblicitarie di tutta la carta stampata, al contrario di quello che avviene nel resto dell´Occidente, dall´Europa fino agli Stati Uniti d´America?
Se non vi siete ancora sbellicati abbastanza, provate a indovinare chi accusa Repubblica di essere un "super-partito". Ma perbacco: sono proprio gli esimi colleghi che lavorano nei quotidiani, nei settimanali e nelle televisioni che appartengono allo stesso leader del partito-azienda o alla sua famiglia. Tra cui, in prima linea, quelli del giornale-fratello che Berlusconi Silvio fu costretto a cedere – si fa per dire - a Berlusconi Paolo, in forza della normativa anti-trust contenuta nella legge Mammì, giornale da cui oggi il presidente del Consiglio sente il bisogno di dissociarsi o prendere le distanze un giorno sì e l´altro pure.
E di fronte a tutto questo, il premier-editore ha l´improntitudine di proclamare che, testualmente, il 90% della stampa italiana è in mano ai comunisti e ai cattocomunisti: a parte il nostro, quindi, anche giornali come il Corriere della Sera che è del Gruppo Rizzoli, controllato oggi da una finanziaria di cui fanno parte Gemina (famiglia Agnelli) e Mediobanca; Il Sole 24 Ore (Confindustria); La Stampa (Fiat); Il Messaggero, Il Mattino e Il Gazzettino (Gruppo Caltagirone); Il Giorno, Il Resto del Carlino e La Nazione (Gruppo Riffeser), senza citare qui tutte le testate regionali e locali che fanno capo ad altri imprenditori, né comunisti né cattocomunisti.
Se l´informazione dunque è a rischio oggi in Italia, non è soltanto per le querele o le citazioni civili per diffamazione a mezzo stampa, annunciate a scopo dimostrativo e intimidatorio dai legali di Berlusconi; per l´attacco mediatico che ha provocato le traumatiche dimissioni di Dino Boffo dalla direzione dell´Avvenire, il cattoquotidiano della Conferenza episcopale; o per l´assalto finale alla "riserva indiana" di Rai Tre. Tutte ragioni serie e rispettabili, più che sufficienti per giustificare la manifestazione di protesta indetta dal sindacato dei giornalisti per il 19 settembre a Roma.
Ma la libertà di stampa era già a rischio da tempo in Italia e per cause strutturali, croniche, per così dire ambientali. Cioè per ragioni di fondo che attengono propriamente al mercato, al pluralismo e alla libera concorrenza: a cominciare dal fatto che, secondo il Censis, il 70% della popolazione e oltre dipende dalla tv. In realtà, è l´intero sistema dell´informazione a rischio, per effetto della concentrazione televisiva e pubblicitaria; del mostruoso conflitto d´interessi che grava sul presidente del Consiglio; della crisi congiunturale e quindi della precarietà degli stessi assetti proprietari e degli organici redazionali. E si tratta di un´emergenza nazionale da cui dipendono in larga misura la formazione dell´opinione pubblica, l´aggregazione e la raccolta del consenso politico, la salute della nostra democrazia economica, il grado di benessere sociale, il confronto e la convivenza civile.
Queste, purtroppo, non sono barzellette. E comunque, non fanno ridere.
(sabatorepubblica.it)

il Riformista 12.9.09
Ma il Pdl può permettersi uno come Fini?
Il contagio che può dissolvere il Pdl
di Peppino Caldarola


Rischi. La mappa del potere interno al partito racconta di divisioni profonde, ma la sua struttura non prevede uno scontro politico come quello in corso. La leadership assoluta può accettare il dissenso, la fronda, persino la congiura, non può però sopportare l'alternativa culturale.

Il Pd è stato logorato da una leadership eccessiva che voleva abolire le sezioni, i militanti e i congressi. Il PdL rischia di farsi male per la ragione opposta, perché il partito accetta solo una leadership esagerata e mal sopporta il dualismo. Il problema Fini è tutto qui. E ha un nome preciso, molto in voga di questi tempi: "contagio". Se il metodo Fini dilagasse che cosa resterebbe in piedi del Pdl? Ovvero il Pdl può permettersi il lusso di riconoscere ad un suo leader lo statuto di oppositore permanente?
Lo sconcerto che accompagna ogni esternazione del presidente della Camera rimanda a questa paura di fondo: se si mette in discussione la leadership si indebolisce il progetto politico.
Berlusconi ha abituato il suo mondo a vivere in un fortino assediato. In verità è ben più che un fortino, è un vero castello operoso in cui vive molta gente, con una variegata divisione dei compiti, con una gerarchia riconosciuta, i suoi sacerdoti, un apparato culturale e uno militare (penso, in entrambi i casi, ai giornali e alla tv) e un popolo disposto a combattere all'ultimo sangue ogni volta che sente l'aria della battaglia finale. È un partito moderno che ha riciclato tutta la plastica delle origini. Nel castello ogni dignitario ha una sua corte di seguaci. C'è l'algido Tremonti, odiato e temuto guardiano della cassaforte, ci sono i ministri laici e quelli che cercano sponde nella Cei, la massoneria sta come a casa propria, ci sono i nuovi capi (anche di sesso femminile) selezionati avventurosamente e uno per uno dal grande leader che si stanno mettendo in proprio, ci sono quelli che in periferia prendono i voti. C'è tutta quanta la destra italiana.
È un mondo immenso che ha preso coraggio, che combatte nella società, che spera di far fortuna grazie ai nuovi potenti, che sogna ricchezza e successo, che odia la sinistra, che esibisce i suoi giornali di combattimento come i militanti del Pci esibivano l'Unità. È un mondo di interessi e di passioni. È un mondo vero. Questo mondo fa capo a Silvio Berlusconi. Mentre tutti noi, iene dattilografe, ci esercitiamo sul dopo-Berlusconi, lui riceve il tributo quotidiano da questo suo mondo di fedeli. All'improvviso spunta Fini. È un politico di razza che ha tirato fuori dalle catacombe la destra storica e che adesso vuole dargli un nuovo profilo culturale. Dice cose ragionevoli di destra che eccitano la sinistra e deprimono i suoi compagni di partito. Perché lo fa è oggetto di discussione. Se ha ambizioni fa bene ad averle, se vuole trovare un nuova visibilità ripercorre altre carriere. Tuttavia lo fa, con tenacia e con cattiveria. L'invincibile armata mediatica del Cavaliere lo sottopone ad un massacro pressocchè quotidiano, i militanti si interrogano su quale sia il suo disegno, i suoi ex compagni di partito si sono dati alla fuga, in tanti gli chiedono di fermarsi o di sparire via ma lui va avanti imperterrito.
Molti si chiedono se questo Fini sia ancora un leader della destra o se non stia pensando ad altre avventure politiche. La mia idea, che ho già raccontato su queste colonne, è che Fini è di destra ma che stia costruendo il profilo di una leadership diversa pronta per il giorno della successione. È lui l'uomo pubblico più popolare dopo Berlusconi, ha mostrato di avere la schiena dritta, si è tolto la cattiva fama del politico pigro e scarsamente combattivo. Quando Berlusconi cederà il passo, Fini avrà tutti i titoli per fare un passo avanti. I malumori che accolgono oggi le sue intemerate saranno altrettanti titoli di merito.
Ma, è questa la domanda, il Pdl può permettersi uno come Fini? Il problema non è il partito plebiscitario che ha un capo solo e mal sopporta dualismi. Il problema è che il Pdl è il primo tentativo vero di trasformare in un partito l'enorme e moderno aggregato elettorale della destra. Questa trasformazione si regge su un allargamento senza precedenti dei confini (nel Pdl l'assemblaggio di culture diverse andrebbe indagato perché è una cosa seria e profonda), su un forte radicamento sociale, su una classe dirigente locale diffusa che da un quindicennio fa l'esperienza di governo, su un ceto dirigente nazionale accuratamente selezionato.
Fini contesta la leadership nelle sue scelte, ma soprattutto lo fa con parole spesso sprezzanti alludendo ad un'altra visione del mondo. In un partito tradizionale la questione si risolverebbe in un congresso. Il Pdl non può farlo. La lenta costruzione di questa formazione politica di massa non prevede la democrazia. Ovvero non prevede la democrazia classica, quella delle maggioranze e delle minoranze. In verità non la prevede neppure Fini che si guarda bene dal chiedere verifiche congressuali e si accontenta di fare l'oppositore solitario. Ma se il contagio Fini dilagasse, l'intero Pdl rischierebbe di esplodere.
Quanti casi Fini potrebbe tollerare la periferia del partito? La mappa del potere interno al Pdl racconta di divisioni profonde - appena poche settimane fa si è parlato addirittura della minaccia di un partito del Sud - ma la struttura del partito non prevede uno scontro politico fondato su alternative culturali. Tutto va dentro il cappello del berlusconismo. Se qualcuno vuole metterci un altro cappello, il progetto va per aria. La leadership assoluta può accettare il dissenso, la fronda, persino la congiura, non può sopportare l'alternativa culturale. Se la "sindrome Fini" diventa una pandemia, non c'è vaccino per il Pdl.


Repubblica 12.9.09
"La vita ai tempi del comunismo", le testimonianze raccolte da Peter Molloy
Come si viveva all’ombra del Muro
di Vanna Vannuccini


Vent’anni fa cadeva il Muro e milioni di persone che avevano vissuto dietro una cortina di ferro da un giorno all'altro cambiarono radicalmente vita. Cos'era stata la vita nei paesi del blocco sovietico nessuno lo ricorda ve ramente più, un po' perché ognuno ha bisogno di continuità, un po' perché i ricordi non riguardano la sfera politica ma la vita normale, quella "vita giusta in un sistema sbagliato" che oggi tutti rivendicano. Tanto più che la libertà, arrivando insieme alla disoccupazione e al crollo economico, ha obbligato anche i critici del socialismo a scoprire che nemmeno il capitalismo era un sistema perfetto.
Sebbene non siano lontani, gli anni sono stati ormai inghiottiti dalla storia. Peter Molloy ha fatto un magnifico lavoro raccogliendo storie di vita in tre paesi del blocco comunista molto diversi tra loro: la Ddr, la Romania e la Cecoslovacchia. La grande varietà di testimonianze ci dà una panoramica ampia e dettagliata della vita ai tempi del comunismo. Ci sono le testimonianze di politici come Günter Schabowski, che racconta i disperati tentativi della leadership di Berlino est di salvare la Ddr dopo lo smantellamento della frontiera tra Ungheria e Austria e il no di Gorbaciov a richiamare all'ordine il governo ungherese. Quelle di uomini di chiesa come il pastore Rainer Eppelmann, figlio di un ufficiale delle SS che aveva lavorato nel campo di Buchenwald e per questa ragione aveva rifiutato di prestare giuramento militare nella Ddr, che organizzava concerti blues nella sua parrocchia a Berlino frequentata da giovani di tutto il paese che lì discutevano di problemi dell'ambiente e di diritti umani. Dopo la caduta del Muro Eppelman scoprì che sei delle sette persone che avevano partecipato alla riunione nel suo studio per decidere della prima messa blues erano collaboratori della Stasi.
Molloy ha ritrovato persone la cui vita era stata sconvolta da un semplice gesto imprudente di critica al regime; giovani idealisti convinti per il bene del Paese a lavorare per la polizia segreta fino a commettere omicidi. Oppure il generale Jon Pacepa, capo della residenza presidenziale di Ceaucescu che nel 1978 organizzò le visite del leader rumeno (allora molto apprezzato in Occidente perché prendeva le distanze dall'Unione Sovietica) a Buckingham Palace e alla Casa Bianca. E poi scappò in America, dove la Cia passò tre anni a interrogarlo. C'è anche un capitolo sul sesso nel mondo socialista, con un'interessante intervista a Kurt Starke, il più noto sessuologo della Germania est. Contrariamente al rigore puritano di altri paesi comunisti, la Ddr incoraggiava un atteggiamento libero nei confronti del sesso e dell'emancipazione sessuale femminile, e nelle scuole veniva proiettato un documentario del Museo dell'Igiene di Dresda sul come incrementare il piacere sessuale nella donna. «Allora la gente aveva voglia di sesso e di erotismo» racconta Heidi Wittwer, la prima spogliarellista a Lipsia. «Adesso quel desiderio si è affievolito, gli spogliarelli sono diventati roba di tutti i giorni».

Repubblica 12.9.09
L´iniziativa/ "Il Caffè Filosofico"
La filosofia dei Maestri
di Dario Pappalardo


I classici del pensiero, da Platone a Derrida, raccontati in una serie di conversazioni in dvd dagli studiosi di oggi
Incompresa a scuola, riscoperta nelle università, ora riaccende l´interesse del pubblico

O la si ama o la si teme. La filosofia non conosce mezze misure. Incompresa a scuola, riscoperta nelle università, oggi riaccende l´interesse delle folle nei festival, svetta nelle classifiche grazie a libri che condensano o semplificano il pensiero dei grandi, viene ospitata in tv. Da più di 2.600 anni, tenta di dare risposte alle eterne domande. Ma, soprattutto, permette di fermarsi un attimo a pensare. La nuova iniziativa di Repubblica e L´espresso, "Il Caffè Filosofico - La filosofia raccontata dai filosofi", mira ad essere proprio questo: un´occasione di riflessione. Lo spunto è offerto dai sedici dvd della collana. Sedici videoconversazioni con altrettanti esperti del pensiero, che ripercorrono la storia della filosofia: dai presocatrici a Derrida, passando per Platone, Aristotele, Sant´Agostino, San Tommaso d´Aquino, Kant, Nietzsche e Freud. Tutti citati spesso e volentieri, ma non necessariamente conosciuti.
«Mi rivolgo a chi non sa nulla della filosofia», è la premessa di Remo Bodei che, nel primo dvd della raccolta, affronta i presocratici e la nascita della filosofia. Nel secondo, poi, Maurizio Ferraris passa in rassegna Socrate, Platone e la scuola di Atene, partendo proprio dall´affresco di Raffaello delle Stanze Vaticane. Dove Platone è ritratto nell´atto di indicare il cielo con un dito, mentre Aristotele, al contrario, volge il palmo della mano verso terra. Con loro il mondo delle idee e quello della natura diventano gli oggetti di ricerca di tutto il pensiero occidentale che seguirà. Un sistema che troverà la sua sintesi in chiave teologica con Agostino d´Ippona, Tommaso d´Aquino e la scolastica medievale, raccontati da Roberta De Monticelli nella terza uscita. Per essere poi messo in discussione dai furori di Giordano Bruno - protagonista del quarto dvd a cura di Michele Ciliberto -, che concludono per sempre la stagione filosofica rinascimentale. La rivoluzione scientifica di Isaac Newton, analizzata da Paolo Rossi nella quinta uscita, segnerà poi il definitivo ingresso della scienza moderna nei sistemi filosofici. Da questo momento, la figura dello scienziato finirà pian piano per sovrapporsi a quella del filosofo. Ancora Maurizio Ferraris spiega il passaggio fondamentale rappresentato dalla filosofia di Immanuel Kant, lo stesso teorico che il "collega" Arthur Schopenhauer definirà come «il cervello più originale che sia mai stato prodotto dalla natura». Le "teste" che guidano il diciannovesimo secolo sono: Hegel, illustrato da Remo Bodei nel settimo dvd, Marx, raccontato con la sua "rivoluzione" da Umberto Curi, e ovviamente Nietzsche: il pensiero del filosofo della volontà di potenza è ripercorso da Maurizio Ferraris.
Con Freud e Jung (decimo dvd), Umberto Galimberti affronta la nascita della psicoanalisi, che dà un´impronta decisiva a tutto il Novecento. Einstein e la relatività sono il tema della videoconversazione di Piergiorgio Odifreddi, che illustra anche il pensiero di Russell. La "filosofia della crisi", che con Heidegger pone fine alla metafisica, è raccontata da Gianni Vattimo. Popper è al centro della quattordicesima uscita in cui la conversazione è affidata a Giulio Giorello. Chiudono Stefano Rodotà con Foucault e Maurizio Ferraris con Derrida. I temi di quest´ultimo, il "perdono" e l´"ospitalità", parlano alla cronaca di oggi.

Corriere della Sera 12.9.09
L’intervento Il celebre pensatore francese riflette sul tema della comunità, al centro della rassegna di Modena, Carpi e Sassuolo
Io e gli altri
Il «senso d’essere» nascosto in un piccolo grande «con»
di Jean-Luc Nancy



Se pronuncio le parole «co­munità », «comunismo», «comunione», «compassio­ne », «commemorazione», per limitarmi a questo breve elen­co, pronuncio tutte parole impor­tanti, piene di valori e di connota­zioni, cariche di storia e di pensie­ro. Nessuno presta attenzione al pre­fisso che queste parole hanno in co­mune, a quel com che per l’appunto è talmente comune che non c’è mo­tivo di soffermarvisi...
Eppure, non dovrebbe richiama­re subito la nostra attenzione il fat­to che «comune» può caricarsi di due significati così differenti, indi­cando sia un raggruppamento sia qualcosa di ordinario, sia una riu­nione di persone sia qualcosa di ba­nale?
Non mi soffermerò oggi sull’intri­gante connubio di questi due aspet­ti del «comune». Per farlo, infatti, è necessario anzitutto avere prestato la giusta attenzione al «com» stes­so. Su questo cum che il latino ci ha lasciato in eredità, dopo il syn greco che pure ritroviamo all’inizio di pa­role importanti come «sintesi», «simpatia», «simbolo».
«Con» è una categoria molto po­vera nella storia del nostro pensie­ro. In realtà, solo un filosofo — se non mi sbaglio — ne ha tratteggia­to la valenza specifica: si tratta di Heidegger quando ha parlato del Mitsein (con-essere) e del Mitda­sein (con-esserci). Heidegger, nel paragrafo 26 di «Essere e tempo», inaugura una prospettiva fino a quel momento inedita: egli non so­lo afferma che l’esistente è necessa­riamente, ontologicamente un co-esistente («mit» vuol dire «con», «cum»). Per dare a questa te­si tutto il suo rilievo, afferma anche che il «con» costitutivo dell’esisten­te deve essere inteso «non in modo categoriale, bensì esistenziale». Ciò significa che occorre trattarlo non come una semplice determinazione estrinseca, ma come una condizio­ne intrinseca della possibilità stessa dell’ek-sistenza, ossia niente meno che come la messa in gioco del sen­so stesso dell’essere o del senso d’essere.
In quanto semplice categoria, «con» è collegato a «anche» e si tro­va per noi relegato per lo più nel­l’ambito dell’esteriorità e dell’acci­dentalità: io sono con voi in questa sala, per effetto di svariate circostan­ze, come delle automobili sono le une insieme alle altre in un parcheg­gio. Si può parlare a questo riguar­do di giustapposizione, di prossimi­tà spaziale, tutt’al più di correlazio­ne.
Le cose vanno diversamente quando, in francese, diciamo che «X è con Y», perché intendiamo di­re che essi formano una coppia, che condividono la loro vita.
E tuttavia, siamo pronti a dichia­rare che la nostra presenza insieme in questa sala non si risolve in una semplice giustapposizione. Non sia­mo — ci verrebbe da dire — una fol­la al binario di una stazione. Abbia­mo delle ragioni comuni per trovar­ci qui riuniti. Ora, anche una folla ha delle ragioni per fare folla; se poi — quando si forma — subisce degli eventi particolari (uno sciopero dei treni), avvengono dei comporta­menti, nascono dei rapporti, anche fugaci, che eccedono la semplice giustapposizione inanimata.
E possiamo dire di più, anzi dob­biamo: siamo al mondo con le mon­tagne, gli alberi, i pesci, i lupi, così pure con le macchine, le costruzio­ni, le istituzioni che abbiamo crea­to. Questo «con» più generale, la co-presenza di tutti gli enti, deve es­sere intesa come semplicemente «categoriale»? Ma allora che cosa vuol dire il «mondo», se questa pa­rola deve designare una possibilità di senso (questa, all’incirca, la defi­nizione che ne dà Heidegger)?
È proprio vero dunque che biso­gna pensare il «con» come «esisten­ziale » e non come «categoriale». Il problema è che Heidegger non ha del tutto sviluppato questa necessi­tà. O, meglio, lo ha fatto facendo pas­sare per forma «autentica» o «pro­pria » del «mit» quella della comuni­tà di un popolo (molto più avanti nel­la stessa opera). E il suo smarrimen­to politico ha tratto origine da lì.
La posta in gioco è allora notevo­le: pensare il «con» ad altezza «esi­stenziale » significa allo stesso tem­po pensare due cose: la possibilità del senso — ovvero di ciò che in ef­fetti Heidegger chiama il «senso del­l’essere », ma che sarebbe meglio di­re, se lo si comprende a fondo, «sen­so d’essere» (il senso che c’è ancora da essere, da essere al mondo e da essere un mondo) — e la necessità di una politica non dominatrice (una «democrazia», se si vuole, ma questo termine richiederebbe altre considerazioni). 

Traduzione dal francese di Gianluca Valle © Consorzio per il festivalfilosofia Questo testo è un’anticipazione della lezione magistrale intitolata «Avec (con)» che Jean-Luc Nancy terrà a Sassuolo, domenica 20 settembre, nell’ambito del festivalfilosofia 2009, sul tema della comunità

Corriere della Sera 12.9.09
L’intervista. Il filosofo, sindaco di Venezia, analizza il rapporto tra identità e alterità
«Diverso e il più possibile lontano Ecco chi è oggi il nostro prossimo»
Cacciari: «Ma l’accoglienza senza regole è un errore madornale»
di Fabio Cutri


L’incontro con lo straniero desta fatalmente paura, angoscia e anche repulsione. Ma bisogna affrontarlo per imparare a conoscersi

«Ma chi è il mio prossi­mo? », do­manda ma­lizioso il dottore della Legge. Il Maestro risponde con un rac­conto. Sulla via che da Gerusa­lemme porta a Gerico giace un uomo. Dei briganti lo hanno de­rubato e bastonato, abbando­nandolo in fin di vita. Per di là passa un sacerdote, vede lo sventurato a terra ma volta lo sguardo e continua il suo cam­mino. Un altro giudeo, un levi­ta del Tempio, incontra il feri­to: anch’egli lo scansa e prose­gue oltre. Il terzo viaggiatore è uno straniero, viene dalla Sa­maria. Quando si imbatte nel­l’uomo ne ha compassione. Ver­sa olio e vino sulle sue ferite, poi lo porta con sé in una locan­da. Il giorno seguente, prima di ripartire, consegna due mone­te d’argento al padrone dell’al­bergo dicendogli di prendersi cura di lui: se fosse stato neces­sario altro denaro, lo avrebbe rimborsato al suo ritorno. È una delle parabole evangeliche più celebri, più citate e, oggi co­me non mai, più urgenti da pensare in tutta la sua profondi­tà. «Perché — spiega Massimo Cacciari — con questo raccon­to il Cristo ci porta dritti al cuo­re di una questione filosofica fondamentale: il rapporto tra identità e alterità».
Professore, chi è il prossi­mo secondo il Messia?
«Non quello che intende l’opinione comune, ovvero co­lui che mi è vicino in quanto le­gato a me da vincoli e relazioni constatabili, come la consan­guineità, la comunanza etnica, l’appartenenza religiosa. Nella parabola il prossimo è invece colui che ci è massimamente di­stante: per la mentalità giudai­ca il samaritano era infatti l’ere­tico per antonomasia e rappre­sentava il più lontano dalle tra­dizioni e dai costumi ebraici. Ecco, il samaritano di cui parla Gesù è colui che riconosce nel più lontano il suo prossimo».
Questo è un ribaltamento del significato classico di prossimo?
«Fino a un certo punto, per­ché anche se è vero che nella cultura greca non abbiamo un termine equivalente all’evange­lico plesion — che ha la stessa radice di pianeta, qualcuno che ti sta appunto lontano — in xe­nos , che noi traduciamo con straniero, risuona qualcosa che è molto affine a philos , amico. 
Ta xenia sono i doni di ospitali­tà, per non parlare di Zeus xe­nios , il dio sommo che accoglie e accudisce gli ospiti. Insom­ma, vi è l’ hospes e non l ’hostis in xenos , c’è sì stranezza ma non estraneità nemica». 
In cosa allora il senso evan­gelico si differenzia?
«Il concetto di prossimo per­de ogni carattere di consangui­neità. La prossimità non è più uno stato determinato da un’af­finità già costituita, ma un mo­vimento: il prossimo è colui al quale tu ti approssimi, viene sottolineata l’azione che devi compiere per riconoscere il prossimo. Il Cristo rovescia la domanda: non devi più chie­derti chi sia il tuo prossimo, ma che cosa fai tu per il prossi­mo » .
Questa prospettiva cambia anche il modo di concepire il soggetto?
«Certo, perché se il mio io è un risultato che ogni volta sarà messo in discussione dal mio rapportarmi agli altri, allora non posso più considerare l’identità come qualcosa di da­to una volta per tutte a cui poi si aggiunge la relazione con l’al­tro. La relazione è necessaria in quanto costitutiva del sogget­to. L’incontro con il prossimo è infatti un’approssimazione co­stante innanzitutto verso se stessi. Ma non solo questo, at­tenzione, perché io stesso sono molti».
In che senso? 
«È la stessa espe­rienza quotidiana a dir­ci che il nostro io è un campo di relazioni, di lotta, tra istanze e desi­deri diversi. In questo senso il prossimo è pri­ma di tutto l’altro che è già in me. Dunque l’approssimarsi all’al­tro 'fuori' di me, è anche l’espe­rire la presenza dell’inattingibi­le che è in me, l’eternità che è dentro ognuno di noi».
La Bibbia dice «Ama il Si­gnore e il tuo prossimo come te stesso». È possibile amare il prossimo senza amare Dio?
«Questa dialettica della pros­simità non ha bisogno di alcun presupposto di ordine religio­so. La consapevolezza che l’identità sia in sé contradditto­ria può avvenire sulla base de­gli insegnamenti del Cristo, dei precetti di tante religioni orien­tali o in termini puramente lo­gico- filosofici » .
Nei confronti dello stranie­ro bisogna perciò disporsi in un atteggiamento evangelico di pura accoglienza?
«Così come è una stupidaggi­ne il credere che l’identità di una cultura, di un linguaggio o di un individuo si possa difen­dere arroccandosi in una loro presunta purezza, allo stesso modo è un errore madornale quello di parlare astrattamente di accoglienza, di abbracci, di essere tutti buoni come Gesù Cristo. L’avvicinarsi al ferito da parte del samaritano va condot­to con regole e norme realisti­che. Il prossimo mi viene in­contro, mi si fa addosso, con i volti più diversi e imprevedibi­li. Che questo incontro con lo straniero desti angoscia, paura e anche repulsione, soprattutto in una fase drammatica come quella che viviamo oggi, non va assolutamente sottovaluta­to. È un momento fondamenta­le nella costruzione del mio io, altrimenti ci troviamo in pre­senza di un organismo debole che si fa solo fagocitare».
E come si evita il rischio del conflitto che può appunto fa­gocitare?
«Non si evita, va affrontato e basta. Il racconto di quello che ha curato il ferito ha forse un lieto fine? Il samaritano diven­ta giudeo? Nient’affatto: lo cu­ra, lascia i soldi all’oste e se ne va. La parabola non dice che il loro conflitto religioso sia venu­to meno. Però è accaduta una cosa straordinaria: hanno sco­perto che possono compararsi, hanno imparato a conoscersi. Questo è il tema fondamentale della nostra epoca: un proble­ma di traduzione tra linguaggi diversi. E ogni traduzione non è altro che approssimazione». 


Corriere della Sera 12.9.09
Uno studio italiano dimostra la prevalenza dell’emozione sulla razionalità delle scelte
Il rimpianto ci rende altruisti
Il nostro cervello condivide la sorte di chi ha perso un’occasione
di Massimo Piattelli Palmarini


Come reagiamo agli stimoli «complessi»
Il rimpianto e, nel caso opposto, il sollievo sono emozioni «complesse» che si distinguono dalle emozioni di base (paura, rabbia, disgusto) per la loro origina di natura «cognitiva», in quanto nascono da un processo di ragionamento, per quanto inconscio. Si tratta per così dire di emozioni di «ordine superiore», più «intelligenti» in quanto mediate da un processo cognitivo, seppure non deliberato
La conferma: si attivano gli stessi centri cerebrali se una persona vede un’altra persona incappare in una situazione di rimpianto. E l’effetto è più intenso nelle donne

L’esperimento appena pubbli­cato sull’ultimo numero della ri­vista internazionale Plos da una nutrita équipe di neuropsicologi dell’Università San Raffaele e del­l’Università di Parma intreccia in modo inedito tre filoni centrali di ricerca. Il primo, capitanato da Giacomo Rizzolatti, co-autore di questa ricerca, lo possiamo defi­nire empatia corporea, cioè la partecipazione attiva, nell’osser­vare l’azione o le sensazioni di qualcun altro, degli stessi centri cerebrali che si attiverebbero se ne fossimo noi stessi i protagoni­sti. La scoperta dei «neuroni spec­chio » è l’emblema di questo tran­sfert inter-individuale di azioni, sensazioni e perfino emozioni nelle profondità del nostro cer­vello.
Il secondo filone è quello della psicologia del rimpianto e ha avu­to molti capitani e pionieri, lun­go il corso degli anni, da Graham Loomes e Richard Sugden (Uni­versity of East Anglia) a Thomas Gilovich e Victoria Medvec (Cor­nell University), a Terry Connolly (Università dell’Arizona) e Mar­cel Zeelenberg (Università di Til­burg). Il nocciolo è che il valore squisitamente soggettivo di un evento, poniamo una vincita o una perdita di denaro, o l’ottene­re la medaglia di bronzo all’ Olim­piade, non dipende solo dall’am­montare reale della cifra, dalla graduatoria ufficiale, ma anche da ciò che avremmo potuto fare per evitare la perdita o per ottene­re la medaglia d’argento o d’oro, ma non abbiamo fatto. Una sensa­zione, quella del rimpianto, che può rovinare un’esistenza. Venia­mo ora al terzo filone, che l’espe­rimento di Nicola Canessa, Mat­teo Motterlini, Cinzia di Dio, Da­niela Perani, Paola Scifo e Stefa­no Cappa intreccia intimamente con i due precedenti. Si tratta, niente di meno, che di un’antica ossessione dei filosofi, quella dei cosiddetti «controfattuali» o «mondi possibili».
Ovvero l’indugiare, nella no­stra mente, spesso senza vero co­strutto, in ciò che non è succes­so, ma poteva benissimo succede­re. Alcuni di questi possibili sce­nari o mondi possibili li vediamo vicinissimi e ci turbano, altri so­no lontani e poco ce ne curiamo. Un tassista milanese, affranto, mi mostrò il biglietto di una gros­sa lotteria. Il suo terminava con un 5 e non aveva vinto, ma il bi­glietto vincitore terminava con un 6 e aveva vinto una fortuna. Altri amici mi dissero poi di aver preso lo stesso tassì e anche a lo­ro il poveretto aveva ripetuto la sua lagnanza. Il mondo possibile in cui quella vincita sarebbe stata sua gli sembrava talmente vicino (un 6 invece di un 5) da renderlo inconsolabile. Ebbene, rimpian­to e vicinanza di un mondo possi­bile si legano intimamente, dram­maticamente.
Combiniamo ora, infine, tutti e tre questi filoni. Mi viene data la scelta libera tra gio­care su due ruote della fortuna. Scelgo la prima e non vinco, pa­zienza. Ma se, dico se, vedo che avrei vinto scegliendo invece la seconda, blip, blip, si accende il rimpianto e centri cerebrali co­me la corteccia pre-frontale ven­tro- mediale, la cingolata anterio­re e l’ippocampo si attivano. Gli autori di questa ricerca avevano il sospetto, ora rivelatosi fonda­tissimo, che proprio gli stessi centri cerebrali si attivino se un soggetto vede un altro soggetto incappare in questa situazione di rimpianto. Anche confermato è il sospetto che l’effetto è più inten­so nelle donne che non negli uo­mini.
Lascio a Matteo Motterlini, uno dei principali autori di que­sto lavoro, il compito di riassu­mere la lezione che possiamo trarne nella vita quotidiana. «Questo risultato mostra quanto sia speciale e complesso il parti­colare filo che ci lega agli altri, mediante il continuo rispecchiar­si delle loro esperienze nella no­stra mente. Non siamo, forse, poi così interessati alle vincite o alle perdite di uno sconosciuto, ma ci rispecchiamo in quelle loro emo­zioni come fossero le nostre. Non c’è niente di più irragionevo­le di questo, ma le nostre emozio­ni ci guidano verso scelte che so­no così affettivamente dolorose e anche così sottilmente uma­ne ».
Sarebbe stato interessante met­termi anche io, come i soggetti di questo studio, in un apparato di risonanza magnetica funzionale quando quel tassista mi racconta­va del suo immenso rimpianto.

l’Unità 12.9.09
Racconto
Fermarsi un attimo prima che un lampo arrivi a spegnerci

di Paolo Izzo
, scrittore

Non so niente. So soltanto giocare con le parole. E allora può sembrare che io sappia. Ma non so niente. Ha ragione un amico, che mi dice «tu vuoi fare lo scrittore prima ancora di esserlo».
Fare lo scrittore, prima di esserlo. Apparenza, prima che sostanza. Infatti non so niente.
Ma scrivo tantissimo, mentre mia moglie, di là, cerca di fare piano per non disturbarmi. Gioco a sembrare che so. Che poi nemmeno serve, sapere. Qui serve sembrare. E vendere questa sembianza. Correre. E spacciare la corsa per una lentezza. O per una riflessione.
L’ho giurato sempre a me stesso: da questa frenesia non mi farò prendere. Non mi fagociteranno le loro aspettative, le loro domande su tutto, le loro richieste di saggezza. Me ne sto chiuso nello studio. Di là mia moglie che non dice niente, per non disturbarmi. Che non sa se dormo o scrivo. Se piango o se mi faccio una sega.
Invece o infatti è piombata sulla mia testa la pioggia acida di questa frenesia di essere nel mondo, col feroce retrogusto di vivere sapendo che tanto, troppo sarà un inutile affannarsi. Dire che un colpo di fucile non è bello o che la fame di un bambino non è bella; e vedere tanti, troppi che fanno sì con la testa. Vogliono fare intendere che ho ragione. E intanto pensano: però è uno scrittore, quindi non sa niente della realtà; gioca con le parole e sembra che sappia.
Invece o infatti mi affanno anch’io, in questo uragano che mi avvolge, per dire a tutti di fermarsi un momento. Prima che un lampo arrivi a spegnerci: bell’ossimoro, no? Ma è lampo o paraurti di macchina o quel colpo di fucile o la fame del bambino. Incontri uno di questi e fine delle questioni.
Allora non mi affanno più, mi immagino solitario ma onnipresente, infinitamente caotico ma ordinatamente puntato all’unica risposta. Essere presto, prima di non essere o non essere presto ed essere per sempre? Ma questa era la domanda.

il Riformista Lettere 12.9.09
Il modello berlusconiano

Caro direttore, l'esempio macroscopico, berlusconiano è in tutte le prime pagine e le tv, ma il contagio si diffonde rapidamente, pervadendo la penisola: dalla Puglia di Vendola alla Venezia di Placido. Questa nuova influenza ci dice che non si può esprimere una critica, né porre domande scomode, né tanto meno avviare indagini su presunte azioni illecite. Perché il soggetto interessato reagirà con estrema violenza e la sua violenza diventerà il nuovo oggetto dell'attenzione, fino a ribaltare l'intera dinamica probabilmente a suo favore. In questo giochetto italico, cadono perfino quanti hanno avviato con coraggio un lecito atto di accusa: anche per loro, il nuovo tema e strumento sarà la violenza. Intanto, nel chiasso della destra e nel silenzio della sinistra, i poveracci vengono respinti o lasciati morire, le donne sono ancora violentate e uccise dentro e fuori casa, i bambini - anestetizzati da tv e videogiochi - soffrono per una scuola dove niente più conta se non l'ora di religione. E a nessuno di loro viene concessa la voce per esprimere un briciolo (legittimo) di quella rabbia che invece è il nuovo stile del potere, ma esclusivo del potere. Ora verrete a dirmi che sto con i nonviolenti. Non ci provate: vi denuncio tutti!
Paolo Izzo