lunedì 14 settembre 2009

l’Unità 14.9.09
5 risposte da Laura Boldrini, Portavoce Unhcr
di Umberto De Giovannangeli


1 Emergenza rifugiati
Le condizioni di sicurezza in alcune situazioni, come ad esempio la Somalia, sono così precarie da rendere difficile la fornitura di assistenza umanitaria alle persone bisognose.
2 Copertura finanziaria
Per molti casi, specialmente quelli di lunga durata, c’è anche un problema di copertura finanziaria, le cosiddette «donor fatigue».
3 Analisi viziate
Contrariamente a quanto si dice spesso, che tutti vogliono vivere in Europa, l’80% dei rifugiati vive nel Sud del mondo, cioè in Paesi poveri. Bisognerebbe alleviare questi Paesi, o attraverso maggiori contributi da parte della comunità internazionale, o accettando delle quote di rifugiati da trasferire in Paesi che hanno più risorse e un minor numero di rifugiati.
4 Tendenza inquietante
Quello dei rifugiati è un fenomeno che, a causa della crisi finanziaria che ha toccato anche le economie dei Paesi del Sud del mondo, e anche a causa di disastri ambientali, pare destinato ad accrescersi in futuro.
5 L’Italia, che fare
Sarebbe auspicabile che l’Italia aumenti i propri contributi sia per le emergenze internazionali che per la Cooperazione allo sviluppo.

l’Unità 14.9.09
Intervista a Giovanni Floris «Sostituiti senza ragione Forse per non farci parlare?»
Il conduttore di Ballarò «Si sono inventati una trasmissione di sana pianta e a noi si chiede di non andare in onda...»
di N.L.


Spiegatemi il perché mi devono sostituire, perché Ballarò dev’essere spostato o non deve andare in onda. C’è qualcosa che non va?»: Giovanni Floris, conduttore di Ballarò, non riesce a trovare una ragione plausibile nell’ordine arrivato dalla direzione generale di lasciare il posto allo speciale di Bruno Vespa. Quando le è arrivata la richiesta di non andare in onda maretedì? La settimana scorsa avete presentato la nuova edizione. «Me l’ha detto oggi (ieri per chi legge, ndr) il direttore Ruffini, che ha manifestato il suo disaccordo all’azienda ma non è stato ascoltato. Mi ha detto: non andiamo in onda perché l’azienda vuole fare uno speciale su RaiUno sulla consegna delle case in Abruzzo. Sono amareggiato, è come lavorare per mandare in stampa un giornale, e il giorno dopo scopri che in edicola ne è andato un altro. È un atto immotivato». Spostamenti nel palinsesto capitano, ma è mai accaduto in questo modo? «È capitato per avvenimenti speciali, dei concerti o delle partite, o per eventi accaduti all’improvviso. Io non sono uno che si oppone per principio, tutti noi facciamo quello che dice l’azienda, ma questa volta ci sostituiscono. Si inventa una trasmissione di sana pianta e ci si chiede di non andare in onda? Non si tratta di un evento imprevisto, la data della consegna delle case il 15 settembre è stata annunciata da tempo, era in agenda. Voglio una spiegazione».
Nella prima puntata avreste parlato anche della consegna delle case prefabbricate ai terremotati? «Ma certo. Abbiamo un inviato in Abruzzo da due settimane. Avremmo fatto il servizio sul terremoto e avremmo anche parlato d’altro: della crisi politica, dei rapporti difficili tra Berlusconi, Fini e Bossi, della stampa straniera, della scuola e dell’economia. Tutti temi caldi alla ripresa autunnale. E alla conferenza stampa di presentazione, martedì scorso, c’era anche il capo ufficio stampa della Rai».
Pensa ci siano dei problemi di contenuti? Non è la stessa cosa far seguire un evento caro al premier da Vespa o da Floris...
«Cancellare Ballarò per far parlare una trasmissione sul tema di cui noi avremmo parlato: questo è successo. Allora vuol dire che non vogliono che siamo noi a parlare di certe cose».
A questo punto però avete accettato di cambiare giorno? «Spero che andremo in onda quanto prima. Io voglio raccontare l’Italia. Spero che questo sia solo un episodio, pur sgradevole e grave».❖

Repubblica 14.8.09
L'orgia del potere nella tv del Cavaliere
di Giovanni Valentini


Un diktat, un atto d´imperio, una censura preventiva. Non contento di avere già a disposizione tre reti televisive private controllate dalla sua azienda di famiglia e due pubbliche controllate dalla sua maggioranza di governo, in piena orgia del potere mediatico il presidente del Consiglio è deciso ora a normalizzare la Terza rete della Rai, l´ultimo bastione della resistenza catodica, per omologarla definitivamente all´informazione di regime attraverso cui controlla a sua volta gran parte dell´opinione pubblica italiana.
La decisione di cancellare la prossima puntata di Ballarò per trasferire lo show sulla consegna delle case ai terremotati dell´Abruzzo a uno speciale di Porta a porta, in programma domani sera in prima serata, conferma purtroppo tutte le preoccupazioni e i sospetti manifestati da più parti negli ultimi tempi. E imprime così il sigillo di Palazzo Chigi su ciò che ancora resta del nostro cosiddetto servizio pubblico televisivo.
Anche se la scelta corrispondesse effettivamente alla volontà di "valorizzare un momento importante per il Paese", come dichiara con falso candore il vicedirettore generale della Rai Antonio Marano; e anche se Bruno Vespa, dopo aver accondisceso senza alcuna esitazione a questa manovra, riuscisse a imbastire una puntata professionalmente ineccepibile della sua trasmissione, la brutalità dell´imposizione danneggia due volte l´immagine e la credibilità dell´azienda di viale Mazzini agli occhi dei cittadini telespettatori. Una prima volta, perché assegna a Porta a porta il crisma dell´ufficialità governativa, quasi fosse l´house organ di Palazzo Chigi, a scapito della sua residua autonomia e indipendenza. E una seconda volta, perché di fatto scredita Ballarò, bollando il programma di Giovanni Floris come infido ed eretico.
Preferenze personali a parte, si può dire in coscienza che nessuna delle due trasmissioni avrebbe meritato un tale trattamento. Né tantomeno i due conduttori, con i rispettivi pregi e difetti. Ma forse, a ben vedere, la sconfessione più grave colpisce il Tg Uno diretto da Augusto Minzolini, da pochi mesi imposto alla guida della maggiore testata giornalistica televisiva, ritenuto evidentemente inadeguato a gestire una serata così speciale: e la scomunica si estende a un corpo redazionale che pure annovera rispettabili professionisti.
Alla radice di questa scelta, c´è verosimilmente l´idea di un´informazione per così dire addomesticata; subalterna al potere politico; incline a rappresentare e a difendere l´immagine del governo, preservandolo da qualsiasi sorpresa, imprevisto, critica o contestazione. Un´informazione imbavagliata, costretta a rispettare il protocollo di Palazzo Chigi, tendenzialmente ridotta al ruolo di megafono governativo. E dunque, agli antipodi del suo ruolo e della sua responsabilità istituzionale: cioè della sua funzione di contropotere, inteso qui come controllo del potere e non già come opposizione pregiudiziale al potere costituito.
Non sappiamo ancora se domani sera assisteremo a una cerimonia autocelebrativa. Oppure a uno show di regime, con la sfilata in passerella della Protezione civile, dei pompieri e dei tanti volontari che pure hanno offerto un contributo assolutamente apprezzabile alla ricostruzione. Ovvero a un altro one-man-show come quelli che Berlusconi ha già più volte interpretato a senso unico sul palcoscenico di Porta a porta, dal celebre "contratto con gli italiani" fino al più recente "Adesso parlo io" all´indomani del caso Noemi.
Da cittadini che pagano il canone Rai, vorremmo sentire però anche le voci dei terremotati, di coloro che hanno perso la casa e magari ne hanno ritrovata una oppure che ancora l´aspettano. E soprattutto, vorremmo sentire gli amministratori locali, i tecnici, gli esperti, tutti coloro che prima e dopo il sisma hanno lanciato l´allarme, denunciando una situazione a rischio che certamente non è finita.

Repubblica 14.9.09
I ministri dell'Astio e l'assalto alla cultura
di Francesco Merlo


OGNI giorno c´è un ministro dell´Astio, il sovrauomo Brunetta innanzitutto, che vomita trivialità ora su uno ora su un altro pezzo d´Italia: i cineasti sono parassiti, la borghesia è marcia, i professori sono ignoranti, gli statali sono fannulloni, gli studenti sono stupidi, gli economisti sono sconclusionati… Insomma ogni giorno arriva un insulto, un dileggio o una derisione a carico di una categoria sociale diversa. E sono parole rivelatrici, più di un album di fotografie, parole che sono la verità di questi uomini.
parole che esprimono il senso compiuto di questi cortigiani del Principe che hanno un conto aperto con la natura o con la società e approfittano del loro potere per sfogarsi, come quei personaggi di Stendhal che cercavano a Parigi il risarcimento degli affronti subiti in provincia.
E infatti non si erano mai visti governanti così furiosi contro i governati. Giganti in esilio dentro corpi politicamente troppo angusti, Brunetta, Gelmini, Bondi e, qualche volta, anche Sacconi e Tremonti, trattano l´Italia come una pessima bestia da addomesticare, hanno elevato il disprezzo ad arte di governo, vogliono far espiare al Paese le loro inadeguatezze e le loro frustrazioni.
Bondi per esempio crede che la cultura sia il computo di sillabe in versi sciolti. Brunetta, che non sopporta la bassezza degli indici di produttività, vorrebbe disitalianizzare l´Italia per farne un campo di concentramento laburista: il lavoro detentivo rende liberi, belli, grandi e anche biondi. La Gelmini persegue un sessantotto al contrario che lobotomizzi fantasia e dottrina e mandi al potere i ragionieri con la lesina come scettro.
Di Bossi è inutile dire: vanta una lunga carriera fondata sulla parolaccia, sul dito medio, sulla scatole rotte, sulla carta igienica, sul ce l´ho duro…
Benché nessun governo abbia mai teorizzato e praticato l´offesa dei propri elettori come scienza politica, l´attacco alla cultura non è certo una novità. Goebbels, che era piccolo, nero e zoppo, metteva la mano alla pistola. Scelba, che era calvo e rotondo come un arancino, coniò il neologismo - culturame - ora rilanciato da Brunetta. Anche Togliatti sfotteva in terronio maccheronico il terrone Vittorini, e più in generale il Partito comunista riconosceva solo gli intellettuali organici, cioè gli intellettuali senza intelletto ma con il piffero…
Insomma, fare guerra alla cultura è sempre nevrosi, alla lunga perdente, ed è comunque manganello nelle sue varie forme, reali e metaforiche. Oltraggiare la cultura è uno scandalo penoso: è come sparare in chiesa, impiccare i neri, imputare all´immigrato clandestino la sua miseria, punire la sofferenza come un reato. Ed è un altro modo di organizzare ronde, magari sotto forma di squadracce ministeriali: prediche, comizi, fatwa…
Se Brunetta potesse pesterebbe i vari Placido d´Italia, da Dario Fo a Umberto Eco e, per imparzialità, anche Pippo Baudo e Fiorello. Per Brunetta e Bondi, infatti, gli uomini colti sono la misura della propria dannazione, lo specchio della propria nudità, come Berlusconi visto dalla D´Addario.
Con quegli uomini, che ora chiamano parassiti, Brunetta e Bondi non sono mai riusciti ad intrattenersi neppure quando militavano a sinistra. È da allora che covano rancori. Odiano i salotti (cioè le buone maniere) che li tenevano a distanza. Disprezzano i libri che non hanno letto né tanto meno scritto e che per il popolo della Padania sono ciapa pulver, acchiappa polvere, deposito di pulviscolo.
Sono rancorosi, Brunetta e Bondi, perché sono stati di sinistra e ora ne sono pentiti visto che solo la destra plebea e indecorosa li ha "capiti", promossi e ben ripagati. Come gli ebrei convertiti dell´Inquisizione cristiana rimproveravano a Cristo la debolezza di amare tutti, così questi ministri cortigiani rimproverano alla casa di produzione Medusa, che appartiene al loro dio, di investire sui nemici di dio, sudditi infidi che loro conoscono come se stessi.
Dunque i ministri dell´Astio danno del parassita agli artitisti di sinistra perché non sopportano che siano sovvenzionati dal loro stesso padrone senza neppure baciargli la mano. Addirittura quelli gliela addentano! Ebbene questa, signori ministri dell´Astio, è stizza.
È la stizza di chi, per avere i favori del Principe, non ha badato a spese, ha cambiato i propri connotati, ha ceduto l´anima, si è legato a doppie catene al suo carro. E ora vede che i vari Placido - non importa se bravi o meno - non si sono fatti ipnotizzare dalla medusa che li paga.
In buona sostanza, l´insulto come forma governo è espressione di malafede e di malessere, un impasto di vita vissuta male e di autoespiazione forcaiola: un film drammatico insomma. Dunque Michele Placido non li quereli, ma li metta in scena. Con i soldi della Medusa. Titolo? "La bava dei servi".

Repubblica 14.9.09
Tra il Grande Nord e il Grande Centro
di Ilvo Diamanti


Sono passati 13 anni da quando la Lega tentò di "strappare" l´Italia. Mobilitando il suo popolo, in marcia lungo il Po fino a Venezia. Dove, da allora, si riunisce puntualmente, ogni anno, a rinnovare il rito padano (e pagano) che vede Umberto Bossi versare in laguna l´ampolla con le acque del Po (ma anche del Piave e dell´Olona).
Per rammentare che l´indipendenza della Padania resta il vero orizzonte della Lega. Anche se il fallimento della manifestazione del 1996 ha costretto la Lega ad accantonare la secessione tornando all´obiettivo del federalismo. Distintivo originario dell´esperienza leghista. Non più rivoluzionario come in origine. Anche per questo la Lega ha spostato, rapidamente e decisamente, la sua offerta politica, concentrandola sui temi della sicurezza. Intorno alle paure prodotte dalla criminalità e dall´immigrazione. Ha anche ridefinito i riferimenti del territorio. I nemici: non più (solo) Roma, ma il Mondo. La globalizzazione. L´Europa larga. I paesi dell´Est. La Cina.
Oggi la Lega è tornata forte come nel 1996, dal punto di vista elettorale. Ha ottenuto oltre il 10% alle europee. Un dato che i sondaggi confermano stabile e, semmai, in ulteriore crescita. Ma, dal punto di vista politico, molto più forte di allora. È Lega di governo. Alleata del Pdl di Berlusconi. Meglio: di Berlusconi e del suo Pmm (Partito mediale di massa). Ma, soprattutto, è la principale artefice dei temi che caratterizzano l´agenda di governo. Tremonti si occupa della crisi economica e finanziaria. Opera importante, ma impopolare. Brunetta insegue i fannulloni che affollano gli uffici pubblici. Ma le questioni che preoccupano maggiormente i cittadini le affrontano gli uomini della Lega. In primo luogo, Roberto Maroni, titolare dell´Interno. Il "ministro della paura", per citare il personaggio interpretato da Antonio Albanese. Ma anche Zaia, vista l´importanza assunta dalle minacce "alimentari". La Lega oggi è soprattutto il "partito securitario". E ciò le ha permesso di sfondare anche nelle zone rosse. In molte province della Toscana, dell´Emilia Romagna e delle Marche. Le più simili alle zone pedemontane del Nord dove è maggiormente radicata. Le aree di piccola e piccolissima impresa. Per altri versi, però, la Lega si è "normalizzata". È l´ultimo partito di massa. L´unico sopravvissuto al crollo della prima Repubblica (a cui ha contribuito attivamente). Ha un´organizzazione diffusa, una base di militanti fedeli - estesa e presente sul territorio. Un giornale, alcune emittenti. Governa in centinaia di comuni piccoli e medi. Ha anche appreso dai "vizi" dei partiti tradizionali, che un tempo contestava fieramente. Ha coltivato un ceto di professionisti politici. Inseriti negli enti e nelle amministrazioni, a livello locale e nazionale. Anche a romaladrona. Basta vedere come ha gestito la vicenda delle nomine Rai. La Lega oggi è un partito forte politicamente. Nel Nord come a Roma. Ma ciò può sollevare qualche problema. Perché rischia, appunto, di normalizzarla. Farla apparire un partito come gli altri. I suoi obiettivi caratterizzanti non la caratterizzano più. Il federalismo è stato raggiunto, anche se non è chiaro cosa significhi. Il suo linguaggio, i suoi proclami, anche i più scandalosi, non scandalizzano più. D´altra parte, dopo le ronde, i respingimenti e il reato di clandestinità, non è chiaro quali altri obiettivi possano scaldare gli animi dei suoi elettori e degli antagonisti. E poi le parole più violente e le iniziative più grevi tendono a perdersi nel rumore di fondo che segna il dibattito politico - in questi tempi tristi. Quando tutti gridano e urlano. E i media frullano in modo indistinto ogni offesa e ogni minaccia, anche la più turpe. Da ciò il richiamo esplicito all´indipendenza padana. Espresso ieri ad alta voce da Bossi. Con echi secessionisti che non si udivano da un decennio. Non a caso. Perché, come nel 1996, il federalismo non basta più. Inoltre, l´etichetta di partito populista e securitario - o xenofobo - non scandalizza nessuno. Ma, anzi, rende più confusa la sua missione originaria. La rappresentanza del Nord. Peraltro, non è casuale anche la sfida lanciata da Casini. Alla Lega e agli altri partiti maggiori. Nello stesso giorno in cui Bossi riprendeva il tema della secessione. Perché c´è simmetria fra la Lega e l´Udc. Anzitutto dal punto di vista territoriale. Perché l´Udc è impiantata nel Sud, dove alimenta, a sua volta, forti spinte autonomiste. Una minaccia per il Pdl, che nel 2008 ha raccolto oltre metà dei voti nel Mezzogiorno e nel Lazio ma solo un terzo nel Nord padano. L´Udc, inoltre, nel Nord fa concorrenza alla Lega. Nel 2006 è cresciuta nelle zone dove è calata la Lega. Viceversa nel 2008. Entrambe, d´altronde, attingono dall´antico bacino elettorale democristiano. A maggior ragione, l´Udc è alternativa alla Lega nei rapporti con la Chiesa e i cattolici. Perché la Lega è una "chiesa locale", che usa i riferimenti della religiosità popolare - la famiglia, il lavoro autonomo, il localismo - come base della propria ideologia. Mentre l´Udc continua a riproporre l´antico modello collaterale. Partito al servizio degli interessi e dei valori della Chiesa. Un´ipotesi che sta raccogliendo nuova attenzione negli ambienti ecclesiali, dopo le tensioni recenti.
D´altra parte, nel 2007 Berlusconi respinse la "pretesa" dell´Udc di presentarsi con il proprio marchio. Come la Lega. Perché la Lega, più ancora di Berlusconi, non l´avrebbe accettato.
Oggi Casini guarda al di là del proprio "piccolo centro". Scommette sul declino del bipolarismo tradizionale per attrarre altri settori e altri leader politici. Ma anche del mondo imprenditoriale e associativo. Conta sulle difficoltà del Pd, impigliato in un percorso congressuale lungo. Che ne sta logorando l´identità e ancor più la leadership. Mentre il Pdl è ormai totalmente risucchiato - e sperduto - nelle vicende personali del suo leader.
La collisione Bossi e Casini pare, dunque, inevitabile. In nome di un nuovo bipolarismo. Fra il Grande Nord e il Grande Centro.

l’Unità 14.9.09
Un disturbo ormai evidente
risponde lo psichiatra Luigi Cancrini


Qualche giorno fa lei adombrava una diagnosi psichiatrica per il cav. Berlusconi. I telegiornali di qualche giorno fa l’hanno «immortalato», a fianco di Zapatero, mentre si attribuiva la palma di «miglior presidente del Consiglio» dall’unità d’Italia ad oggi. Berlusconi è il capo del governo. C’è da preoccuparsi?
Giovanni Cappellari
RISPOSTA Sì. Il potere fa male alle persone che soffrono di un disturbo narcisistico di personalità e la diretta televisiva da La Maddalena ha proposto, in modo a tratti perfino imbarazzante, l’idea di una persona malata che sta perdendo il controllo di quello che dice e la percezione dei contesti in cui si muove. Il disagio di Zapatero, le risatine del pubblico, la lunghezza spropositata dell’intervento, l’ingenuità quasi infantile di alcune affermazioni («A me piace la conquista, pagandole che piacere ne avrei?»), il bisogno irresistibile di parlare di sé dimenticando i contenuti e le ragioni politiche di un incontro fra capi di governo, le minacce fuori misura alla D’Addario e a “El País” proponevano in modo quasi caricaturale la comicità involontaria dell’uomo che straparla, che sta «fuori di testa», di fronte a persone che non sanno che fare per fermarlo. In prima fila impassibile, estasiato senza capire nulla di quello che stava accadendo c’era solo Frattini. Innamorato di un capo che sta male e pericoloso assai: per lui, che di tutto ha bisogno tranne che di una ammirazione incondizionata, e per tutti noi.

Corriere della Sera 14.9.09
Il leader udc rifiuta la «santa alleanza con il Pd contro Berlusconi»
Casini: un’altra maggioranza: «Bossi minaccia le elezioni? Facciamole»
di Andrea Garibaldi



La sfida di Pier Ferdinando Casini: «Bossi minaccia le elezioni anticipate? Facciamo­le! Ci vogliono dieci minuti per trovare un’altra maggioranza».

CHIANCIANO (Siena) — Pier Ferdinando a Chianciano mette la prima pietra del Gran­de Centro, la nuova Dc: «Un anno e mezzo fa eravamo dei sopravvissuti, oggi siamo deci­sivi. Ieri eravamo da far fuori, oggi da corteggiare». All’Udc di Casini chiedono alleanze sia il centrodestra sia il centro­sinistra, e «questa è la prova che il bipartitismo è morto», dice Casini. Anche con il sei virgola sei per cento (Europee 2009), l’Udc ha smontato i pia­ni dei due giganti: «Siamo la forza per il cambiamento del Paese. Perché la politica di og­gi non piace agli italiani». Co­sì, Casini può già lanciare una sfida clamorosa: «Bossi minac­cia le elezioni anticipate, se non viene ascoltato? Faccia­mole!
Qui c’è un partito pron­to, con ben altra forza di quel­la che si vede. Se Berlusconi non dice 'basta', ci vogliono dieci minuti per trovare in Par­lamento una maggioranza am­pia che non vuole stare a dik­tat e ricatti della Lega!». Casi­ni evoca una rivolta trasversa­le, contro «una forza politica che instilla veleno», con i dia­­letti, le bandiere, la lotta alla Chiesa, Nord contro Sud: non c’è prova della realizzabilità del progetto, ma in un mo­mento come questo la sola enunciazione può aggiungere ansie a Berlusconi. Ne ha par­lato anche D’Alema, ieri: «Non dobbiamo temere le elezioni anticipate, anche se questa mi­naccia è grave».
Ora si tratta, per Casini, di allargare i confini. Qui, attor­no all’Udc, c’erano associazio­ni cattoliche e di categoria, e Sant’Egidio, il Movimento per la vita, Bonanni e Angeletti. Casini vuole rappresentare «i volontari e non le veline», da­re un messaggio di moralità «a chi crede che la politica sia fatta di festini con escort ». Su questioni come «la sacralità della vita» chiama a raccolta i parlamentari cattolici di ogni schieramento. Fini è venuto a Chianciano sabato e sul testa­mento biologico ha citato il ca­techismo. Casini, un filo d’iro­nia, gli dice «grazie, non per la lezione di catechismo, ma perché difenderà i diritti di tutti i parlamentari». Chiede a Berlusconi di «non passare il 90 per cento del tempo a insul­tare l’opposizione». Gli chiede di coinvolgere chi non è in maggioranza, di ascoltare il Parlamento. E di fare le rifor­me, pubblica amministrazio­ne, previdenza, e le liberalizza­zioni, e fuori i partiti dalla sa­nità.
Per tre volte, poi, picchia sull’«amico Franceschini», che ripropone la «Santa Alle­anza » contro Berlusconi, che lascia alla Lega il monopolio della lotta contro la clandesti­nità, che condanna l’idea del Grande Centro.
Allora, l’Udc tentenna fra i due poli? «Ma no! Noi voglia­mo mandarli a casa, cambiare il sistema. Non possiamo oggi fare alleanze organiche né con gli uni né con gli altri. E non è furba equidistanza, non è la convenienza dei due forni. Scommettiamo sul futuro». Però, dice Casini, «non abbia­mo fatto voto di castità»: quin­di per le elezioni regionali so­no possibili accordi diversi qui e là, «ma non scegliamo mai il partito degli assessori di fronte alle nostre prospetti­ve politiche». L’obiettivo stra­tegico è il nuovo partito, per le prossime elezioni politiche. Entro poche ore Franceschini (Pd) dirà che «stiamo assisten­do al 32˚ tentativo di dare vita al Grande Centro» e Bondi (Pdl) che il Grande Centro è «una vaga formula politica». Voliamo lungo, voliamo alto, aveva concluso Casini, da Chianciano, i suoi 90 minuti da grancentrista.

l’Unità 14.9.09
I docenti di religione
di Aldo Capasso


L’accorpamento delle classi automaticamente riduce il numero degli insegnanti, e quindi anche i vari tipi di discipline.
Nel caso dell’insegnamento della religione: riducendosi le classi si dovrebbero ridurre i relativi docenti, invece questo non avviene perché, ormai non più precari, vengono, in forza della legge 186 (16/7/2003), spostati su altri insegnamenti e tolgono posti ai docenti che, seppure precari, hanno sostenuto un esame di abilitazione o altro. Al tempo, quando furono assunti più di 25 mila insegnanti, con una semplice idoneità di competenza della Curia, la classe docente statale non si rese conto del danno che avrebbe subito, ma la «solidarietà» tra colleghi e la potenza della Chiesa presero il sopravvento, nonostante la palese ingiustizia che veniva perpetrata a chi regolarmente e con fatica ha rispettato le leggi dello Stato.

l’Unità 14.9.09
Parte oggi il nuovo anno scolastico, tra strutture fatiscenti e mille proteste dei precari
Si ritorna al maestro unico e si lancia la novità degli sms. Oggi presidio al ministero
Meno insegnanti, meno ore di lezione Parte la scuola secondo Gelmini
Riapre oggi una scuola più povera: meno insegnanti, meno ore di lezione, più confusione. Il segno dell’era Gelmini sono le manifestazioni di docenti precari e le aule fatiscenti.
di Maristella Iervasi


ROMA Le pagelle magari saranno pure on line e le assenze dei figli verranno comunicate ai genitori via sms. Uno specchietto per le allodole, visto come la ministra unica dell’Istruzione ha ridotto la scuola che riapre oggi i portoni.
LA SCURE DI TREMONTI
Sempre più studenti appiccicati uno all’altro, stretti in classe fino a trentatré ragazzi adolescenti e magari con al fianco diversi alunni con disabilità. Meno ore di lezione e nuove materie come quella che debutta alle medie: un’ora di «approfondimento in materia letteraria», che non si sa a chi spetta.
E insegnanti ridotto all’osso, al punto che i presidi non sanno come fronteggiare gli esoneri alla religione cattolica. Ma non finisce qui.
Le scuole riaprono più povere di prima in tutto, e non solo per la carta igenica e il sapone che sarà sempre a carico dei genitori: alla sonora sforbiciata di cattedre e risorse si aggiunge la questione della sicurezza. Non solo per l’edilizia scolastica che cade a pezzi: la scure di Tremonti è stata usata con vigore anche sui bidelli e il personale di segreteria. La sorveglianza dei bambini e dei ragazzi è demandata al fai-da-te.
Ecco la scuola del rigore e del merito decantata dall’avvocato-ministro Mariastella Gelmini. Ore 8: scatta l’era Gelmini. Zaini in spalla, si ricomincia. È il primo giorno di scuola per oltre sei milioni e mezzo di bambini e ragazzi che vivono in dodici regioni. Ancora qualche giorno di vacanza per altri studenti: in l’Emilia Ro-
magna e il Friuli Venezia Giulia tornano nei banchi martedì, nelle Marche e in Basilicata mercoledì, il 17 sarà la volta della Sardegna e il 18 di Puglia e Sicilia. E anche nel terremotato Abruzzo riprenderanno e lezioni interrotte dal devastante sisma: tra il 21 settembre e il 3 ottobre scatta il tutti in classe.
Al pettine tutti i “guasti”, il gran caos e le mistificazioni del ministero. Per la scuola, un anno “horribilis”. Presidi e dirigenti lasciati soli a garantire la didattica e l’ordinaria amministrazione. Ma la Gelmini nel primo giorno di scuola si è assicurata il suo spazio a Mediaset. Solo dopo andrà a Napoli per inaugurare l’anno scolastico all’istituto penale per minorenni di Nisida. I docenti precari scalzati dagli ammortizzatori sociali promessi dal governo l’aspettano al varco.
ELEMENTARI
È il giorno del ritorno del maestro unico prevalente nelle classi prime ma l’imposizione della Gelmini ha fatto un sonoro flop, nonostante i numeri sulla scelta delle famiglie che il Miur ha “girato” a proprio tornaconto. L’Onda anti-Gelmini almeno in questo è riuscita a contrastare la ministra-avvocato: ha tenuto testa al maestro “tuttologo”. Pochissime le classi a 24 ore, aumentano quelle a 27-30 e 40 ore con il tempo pieno. Abolite tutte le compresenze, che vuol dire abolire i laboratori come quello di informatica, impossibili da gestire da una sola maestra con 27 alunni. A rischio anche le uscite didattiche e le attività di recupero. Si prevedono disagi per i bidelli ridotti all’osso.
MEDIE
Un tempo scuola di 30 ore settimanali. Cattedre a 18 ore, aumento del numero degli alunni per classe, fino a 30. Gli insegnanti di Lettere faranno solo lezioni frontali e non potranno più svolgere potenziamento, recupero e progetti. Anche qui laboratori a rischio per la cancellazione delle compresenze.
SUPERIORI
Un taglio di insegnanti di 11mila unità da subito. Classi-pollaio come non mai: da un minimo di 27 fino a 33 alunni. E non finisce qui. Dal prossimo anno scatta il riodino di Licei, Tecnici e Professionali. Per ora la riforma della scuola superiore non è legge. Spariranno tutte le sperimentazioni. Ai licei un tempo scuola più corto che alle medie: 27 ore al biennio e 30 al triennio (31 al Classico). Negli istituti si costituiranno dipartimenti e comitati scientifici. Come le aziende.
L'ONDA
Mobilitazioni, siti-in, occupazioni degli Uffici scolastici regionali e insegnanti precari in sciopero della fame. Dal Piemonte alla Sardegna riparte l'onda anti-Gelmini. Volantinaggi sotto le scuole del Paese: "Io non ci sto", mentre dilaga la protesta sindacale. Oggi presidio della Flc-Cgil contro la soluzione dei contratti di disponibilità in viale Trastevere. E anche la Gilda degli Insegnanti chiede provvedimenti più incisivi che diano risposte a tutti i precari. Anche i Cobas di Piero Bernocchi in prima fila. Il 9 ottobre lo sciopero dell'Unicobas. ❖

l’Unità 14.9.09
Precari scuola, nel caos l’inizio delle lezioni
Una polpetta avvelenata


Scuola, si ricomincia. E il “catalogo” della Gelmini è questo: 42.000 insegnanti e 15.000 impiegati in meno, chiusura di 350 scuole, via ai moduli, riduzione del tempo pieno al vecchio dopo scuola parcheggio e strette disciplinari in ordine sparso. È questa la polpetta avvelenata che l’esecutivo, con una serie di provvedimenti a orologeria che hanno debuttato con l’articolo 47 della legge 133, ha preparato per la scuola italiana. Non solo per i precari che da quest’anno – e almeno per i prossimi tre – perderanno il lavoro, ma per studenti, famiglie e in generale il sistema del paese: come si può ricostruire un tessuto economico, uscire bene dalla crisi se si riducono costantemente tempo scuola e risorse a disposizione per il sistema dell’istruzione, della ricerca e dell’università? Le proteste di questi giorni dei precari, colorite, fantasmagoriche, fantasiose – tra cui quella dello scorso giovedì a Roma presso il ministero della Pubblica istruzione – puntano proprio a questo: a far capire alle persone che in gioco non sono in gioco il pure fondamentale posto di lavoro di tanti insegnanti che in questi anni
hanno sulle proprie spalle retto la scuola italiana (e poi a fine anno venivano licenziati: perché costa meno che assumerli, perché ormai si fa così nel mondo del lavoro uso e getta che la nostra società ha creato) ma quello, appunto dell’intero paese. Ed è su questa lunghezza d’onde che si sta muovendo la CGIL, che ha già minacciato uno sciopero generale con manifestazione qualora i tagli non vengano ritirati.
Del resto la situazione non è cambiata con gli sbandierati provvedimenti salva precari che, nei fatti, si limitano a prevedere l’anticipazione di un’indennità di disoccupazione e la precedenza nel conferimento delle supplenze brevi. Pannicelli caldi, come già abbiamo avuto modo di scrivere su queste pagine. Né rassicurano i singoli provvedimenti che alcune regioni stanno adottando per il sostegno ai lavoratori rimasti senza posto. Aldilà dei contenuti, è pericolosa l’idea di un sistema di tutele a geometria variabile, un federalismo scolastico in cui le regioni più ricche “danno”, mentre le altre non possono farlo.
In fondo è la prova generale di un welfare a geometria variabile e sul quale, in questo caso, anche il Sole 24 Ore ha avuto da dire nei giorni scorsi.

Corriere della Sera 14.9.09
Intervista al ministro «I precari assorbiti in 5 anni». «Soglia del 30% agli stranieri in classe»
«Chi fa politica lasci la scuola»
La Gelmini sfida gli insegnanti che non applicano la riforma
di Lorenzo Salvia


Si apre l’anno scolastico e il ministro Mariastella Gelmini sfida insegnanti e dirigenti che non applica­no la riforma: «Criticare è legittimo ma comportarsi così significa far politica a scuola e questo non è cor­retto. Se un insegnante vuol far politica deve usci­re dalla scuola e farsi eleg­gere » .
Poi attacca i sindacati sui precari: «Sono state ven­dute illusioni, ma credo che nei prossimi cinque an­ni la gran parte verrà assor­bita ». Riguardo agli stranie­ri in classe chiarisce: «Dal­l’anno prossimo ci sarà un limite del 30 per cento».

ROMA — «Ci sono alcuni dirigenti scolastici e insegnanti, una minoran­za, che disattendono l’attuazione del­le riforme». In che senso disattendo­no? «Ad esempio vogliono mantenere il modulo anche se il modulo è stato abolito con il passaggio al maestro unico prevalente». Alcuni docenti, co­me sa, non condividono la riforma. «Criticare è legittimo ma comportarsi così significa far politica a scuola e questo non è corretto. Se un insegnan­te vuol far politica deve uscire dalla scuola e farsi eleggere. Quella è la se­de per le sue battaglie, non la catte­dra ». Comincia l’anno scolastico, il mi­nistro della Pubblica istruzione Maria­stella Gelmini ha appena fatto gli au­guri («in bocca al lupo») agli 8 milio­ni di studenti che da oggi torneranno in classe. Ma, con la protesta dei preca­ri e la manifestazione annunciata dal Pd, questo primo giorno di scuola sembra portare con sé nuove tensio­ni.
Ieri, sul Corriere, Ernesto Galli della Loggia ha paragonato il ruolo del ministro dell’Istruzione a San Se­bastiano, bersagliato da ogni parte e destinato quasi sempre a scontenta­re tutti. Lei è su quella poltrona da un anno e mezzo, si trova d’accor­do?
«È vero, è un ruolo complicato ma non mi sento un ministro particolar­mente contestato. Tempo fa, ricordo, ne parlai con il mio predecessore Lui­gi Berlinguer».
Anche lui ebbe qualche guaio.
«Con un certo senso dell’umori­smo mi disse che ero molto fortunata perché il vero inferno l’aveva vissuto lui, criticato anche dalla sua stessa maggioranza».
Lei non ha questo problema ma oggi ci saranno manifestazioni di protesta in tante città.
«Rispetto chi contesta ma sono con­vinta che si tratti di un numero molto limitato di persone».
Limitato?
«Limitato rispetto ai tanti genitori e studenti che non si vogliono più ac­contentare di una scuola mediocre. E che non vogliono sentir parlare solo di organici e di curriculum ma di scuo­la come luogo di educazione, di un servizio che dovrebbe stare a cuore a tutti. Come gli ospedali».
Per rimettere ordine nel campo dell’istruzione Galli della Loggia si augura proprio uno sforzo congiun­to di tutte le forze politiche interes­sate al bene del Paese. Lei ci crede?
«No. Nella mia prima audizione in Parlamento avevo auspicato che tutte le riforme venissero affrontate con uno spirito bipartisan. Dopo un anno, dalla sinistra non ho sentito proposte ma solo invettive contro il governo: se necessario, quindi, andremo avanti da soli. Su questo punto sono delusa dal mio predecessore, Giuseppe Fioro­ni ».
Alcune riforme del ministro Pd, ad esempio sull’istruzione tecnica e sulla formazione, lei però le ha con­fermate.
«Sì, perché sono decisioni che con­divido. Ma credo che ormai Fioroni debba scegliere se fare il responsabile istruzione del Pd, e quindi lavorare per il bene della scuola italiana, oppu­re fare politica punto e basta. Nessuna sorpresa se lui gioca una partita in vi­sta del congresso del suo partito ma non usi la scuola come strumento del­la contesa tra Franceschini e Bersani. La scuola non può essere il luogo del­la protesta della sinistra e della Cgil».
Intende dire che la protesta dei precari è strumentalizzata dalla sini­stra?
«La protesta esprime un disagio rea­le che va rispettato. Ma la sinistra pre­ferisce salire sui tetti per esprimere la solidarietà ai professori e cavalcare il disagio sociale senza assumersi re­sponsabilità per il passato».
Sono solo loro le responsabilità? In questi anni ha governato anche il centrodestra.
«Sono responsabilità che vengono da lontano. Per anni, complici i sinda­cati, si è data la sensazione che ci fos­se spazio per tutti quelli che volevano fare gli insegnanti, per poi lasciarli in graduatoria anni ed anni. Sono state vendute illusioni che si sono trasfor­mate in cocenti disillusioni».
Ma chi aspetta un posto da 20 an­ni ed è ancora precario ha forse tor­to a scendere in piazza e chiedere una cattedra, uno stipendio?
«No, certo. Credo che nei prossimi cinque anni, grazie ai prepensiona­menti, la gran parte di questi precari verrà assorbita negli organici. Ma è fondamentale impedire che nel frat­tempo si allunghi di nuovo la coda. Per questo abbiamo chiuso le sis, le scuole di specializzazione per l’inse­gnamento, e introdotto il numero pro­grammato ».
È vero che il Quirinale ha espres­so dubbi sull’inserimento della nor­ma salva precari nel decreto Ronchi sulle violazioni comunitarie? Servirà un decreto ad hoc?
«Dal Colle non ci è arrivata nessu­na comunicazione ufficiale. Se arrive­rà la rispetteremo anche se resto con­vinta della nostra scelta. In ogni caso sarebbe uno slittamento di pochi gior­ni ».
Ministro, gli stranieri sono sem­pre più numerosi nelle nostri classi. In alcuni casi si arriva al 97 per cen­to degli studenti: va bene così?
«No, rischiamo di creare delle clas­si ghetto. Dall’anno prossimo ci sarà un limite del 30 per cento. Volevamo introdurlo già quest’anno ma non c’erano i tempi tecnici per procede­re ».
L’inglese alla scuola media. La possibilità di aggiungere due ore al­le tre già previste si è scontrata con le ordinanze del Tar del Lazio. Ci ri­proverà l’anno prossimo?
«È vero che ci sono delle difficoltà applicative. Ma, compatibilmente con gli organici, è una strada percorribile già quest’anno. È stata chiesta dal 15 per cento delle famiglie».
E per l’università? Quando crede che arriverà in porto la riforma?
«Tra ottobre e novembre partirà l’esame in Parlamento, spero che il prossimo anno sia operativa».
Anche quest’anno ci sono stati er­rori nei test d’ingresso. È un model­lo da modificare?
«Per medicina c’era solo un errore sul sito internet, l’abbiamo corretto e il quesito sarà conteggiato. Mentre per architettura stiamo valutando se non tener conto di una domanda che forse non era chiara. In futuro i test non saranno più gestiti dalle singole università ma nazionali, per ogni fa­coltà. Così sarà possibile indirizzare ogni ragazzo verso la facoltà più adat­ta al suo talento ed al suo merito».

l’Unità 14.9.09
Il Vaticano ai farmacisti cattolici: «Non vendete la pillola abortiva»
Il farmacista cattolico sia al servizio della vita e rispetti la morale della Chiesa, non tenga conto solo del business. Dal «ministro» vaticano della Sanità monsignor Zimowski un invito: non distribuite la pillola abortiva Ru 486.
di Roberto Monteforte


CITTÀ DEL VATICANO Obiezione di coscienza e opera di dissuasione. Questa deve essere la scelta dei farmacisti cattolici qualora venissero loro richiesti farmaci che mettono in discussione la vita, come la pillola abortiva Ru 486, gli anticoncezionali o farmaci in grado di favorire di fatto l'eutanasia. Lo ribadisce l'arcivescovo Zygmunt Zimowski, presidente del Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute, intervenendo al Congresso Mondiale dei farmacisti cattolici in corso a Poznan, in Polonia e dai microfoni di Radio Vaticana. I farmacisti non devono piegarsi alle logiche del businness. Una cosa, puntualizza, è il giusto guadagno altro è compiere scelte che sarebbero in contraddizione con i principi della morale cristiana. Lo fa rilanciando una presa di posizione del 2007 di papa Ratzinger ed una del suo predecessore, Giovanni Paolo II sul ruolo di servizio alla vita del farmacista cattolico. «Nella distribuzione delle medicine affermava papa Wojtyla il farmacista non può rinunciare alle esigenze della sua coscienza in nome delle leggi del mercato, nè in nome di compiacenti legislazioni. Il guadagno, legittimo e necessario, dev' essere sempre subordinato al rispetto della legge morale e all'adesione al magistero della Chiesa». Quindi ribadiva i punti fermi della Chiesa «sul rispetto della vita e della dignità della persona umana, sin dal suo concepimento fino ai suoi ultimi momenti» che «non può essere sottoposto alle variazioni di opinioni o applicato secondo opzioni fluttuanti». È più esplicita la riproposizione del pensiero di Benedetto XVI che fa riferimento proprio allo smercio di farmaci come la pillola «abortiva» Ru 486. «Non è possibile anestetizzare le coscienze, ad esempio sugli effetti di molecole scriveva nel 2007 che hanno come fine quello di evitare l'annidamento di un embrione o di abbreviare la vita di una persona. Il farmacista deve invitare ciascuno a un sussulto di umanità, affinché ogni essere sia tutelato dal suo concepimento fino alla sua morte naturale e i farmaci svolgano veramente il ruolo terapeutico». Il
Vaticano rilancia il suo affondo per contrastare lo smercio di farmaci come la pillola abortiva Ru 486 e torna ad ipotizzare l’invito all’obiezione di coscienza dei farmacisti cattolici.
LA RISPOSTA DEGLI OPERATORI
Gli operatori del settore rispondono che per il farmacista questo, a differenza di medici e infermieri, non è consentito. «Il farmacista è tenuto per legge a dispensare un farmaco, o a procurarlo entro il più breve tempo possibile, a fronte della prescrizione del medico» precisa la presidente di Federfarma, l'associazione che riunisce i titolari di farmacie private, Annarosa Racca. E il presidente di Farmindustria, l’associazione dei produttori di farmaci, Sergio Dompé esprime «grande rispetto per il magistero della Chiesa e per il Papa», ma puntualizza«i farmaci sono fatti e pensati per risolvere problemi e aiutare le persone, e se la farmacologia e le aziende del farmaco possono mettere a disposizione soluzioni in tale direzione, è dovere delle aziende e del mondo scientifico farlo». Senza escludere soluzioni a problemi come il fine vita o il concepimento.
Il senatore del Pd, Ignazio Marino, cattolico e medico, osserva: «I farmacisti devono svolgere il loro lavoro obbedendo alle leggi dello stato laico. Se non se la sentono possono rinunciare ad avere una farmacia».❖

l’Unità 14.9.09
Intervista a Gianni Rinaldini
«Un’intesa senza Fiom è follia. Contro la crisi serve coesione»
Il segretario accusa Federmeccanica: rigettata la nostra piattaforma con parole ingiuriose «In una fase drammatica per tanti lavoratori si pensa a distruggere il contratto nazionale»
di Laura Matteucci


A questo punto, chi continua a parlare di coesione sociale prende in giro la gente. È una follia pensare di poter gestire una fase come l’attuale non solo escludendo la Fiom, ma di fatto negando qualsiasi forma di democrazia». Il segretario della Fiom Cgil Gianni Rinaldini sintetizza la situazione, dopo lo strappo dell’altro giorno con Federmeccanica, che ha rigettato la sua piattaforma e criti-
cato la proposta di una soluzione transitoria. «Le questioni aperte nel paese, economica e occupazionale, hanno necessità di iniziative coordinate e unificate. Noi siamo andati al tavolo con delle proposte chiare, e quello che abbiamo ottenuto sono state le dichiarazioni ingiuriose di Santarelli (il direttore generale di Federmeccanica, che ha definito le proposte “un foglietto bianco con quattro slogan”, ndr). Ingiuriose nei confronti dei lavoratori».
Rinaldini, facciamo un passo indietro: qual è la vostra proposta? «È una proposta precisa che non ha bisogno di un documento di 40 pagi-
ne. Chiediamo un armistizio per il prossimo biennio mettendo al centro il lavoro, una discussione su contratto e occupazione intesi come due elementi inscindibili. È la condizione per parlare poi di processi di riorganizzazione e riconversione del sistema industriale. Abbiamo chiesto il blocco dei licenziamenti e l’estensione degli ammortizzatori sociali a tutti i lavoratori. Una soluzione transitoria sulla parte economica. In più, la sospensione del sistema di regole contrattuali, con l’impegno a ridiscuterne al termine del biennio. Perchè, ricordiamolo: il contratto nazionale unitario, valido quattro anni, è stato firmato e approvato con referendum dai lavoratori, e disdettato da Fim e Uilm due anni fa senza alcun mandato da parte dei lavoratori». Non è scontato che la Fiom faccia una proposta a Federmeccanica, eppure non è stata nemmeno presa in considerazione. E l’apertura di Marcegaglia verso la Cgil, di cui si è tanto parlato solo qualche giorno fa? «Esercizi di buona volontà, che non funzionano in sede contrattuale. In realtà non avevamo avuto alcun segnale di modifica dell’atteggiamento di Federmeccanica nei nostri confronti. Comunque formalmente Santarelli si è riservato di darci delle risposte. Di fatto, è chiaro, proseguirà le trattative con Fim e Uilm. Del resto, hanno già definito il calendario degli incontri per tutto settembre, a partire da giovedì prossimo. È per questo che abbiamo abbandonato il tavolo, lasciando solo un osservatore». Un commento sull’atteggiamento di Fim e Uilm.
«Per quanto ci riguarda, sono dentro un percorso di accordo separato, discuteranno la loro piattaforma. Che dire? Ritengo una follia pensare di gestire questa situazione non solo escludendo la Fiom, ma qualsiasi forma di democrazia».
E adesso, che succede? Un altro accordo separato delle tute blu certo non aiuta a mantenere la coesione sociale e a raffreddare le tensioni. «In Italia, ci sono decine e decine di presidi e di proteste dei lavoratori. E la situazione in termini di tensione sociale è destinata a crescere. Noi della Fiom decideremo oggi le prossime mosse. Ma l’operazione, da parte di Federmeccanica e del governo, è evidente».
E qual è?
«La distruzione del contratto nazionale, passo dopo passo, mentre la contrattazione aziendale viene finalizzata solo alla produttività e ai bilanci delle imprese. Il governo pensa alla detassazione dei premi di risultato? Solo una beffa, che mira a distruggere definitivamente il sistema fiscale progressivo. Il peso del fisco ricade interamente sul lavoro dipendente, mentre vengono favorite tutte le altre forme di determinazione del reddito».❖

l’Unità 14.9.09
Mantova
Con 60.000 biglietti staccati si è chiuso ieri il Festivaletteratura
Ospite il regista di «Shoah» che ha presentato la sua autobiografia
Lanzmann: «La vostra Italia ancora all’ombra del fascismo»
di Maria Serena Palieri


Claude Lanzmann nella sua autobiografia La lepre della Patagonia racconta l’impressione che ebbe quando, nel 1946, visitò l’Italia: l’immagine che ne dà è quella di un Paese all’epoca ancora «sotto l’ombra» del fascismo, per parafrasare il titolo di un fortunato saggio di Guido Crainz. E l’Italia di oggi, sostiene, di quell’«ombra» è figlia: l’ex partigiano e autore di Shoah punta il dito non contro i nostalgici del Duce in senso stretto, ma contro l’alleanza tra Lega e Berlusconi. Lanzmann ieri pomeriggio in quello che è il luogo d’onore del Festivaletteratura, il Cortile della Cavallerizza di Palazzo Ducale (dove code interminabili e folle reverenti hanno accolto sia Erri de Luca e la sua lettura della Bibbia che Sophie Kinsella), ha chiuso la rassegna mantovana a dialogo con Luciano Minerva.
LE IRRITAZIONI DI CLAUDE
Carattere ruvidissimo, Lanzmann, qui a Mantova ha girato per due giorni evitando di incrociarsi, uno, con i rappresentanti della Einaudi, la casa editrice colpevole di aver mandato in libreria nel 2007 in dvd il suo tragico capolavoro, Shoah, doppiato anziché sottotitolato; due, con quelli della Rizzoli, colpevoli di avergli sottoposto una traduzione di La lièvre de Patagonie (in Francia uscito per Gallimard) realizzata in soli tre mesi e quindi a suo parere, per assunto, non all’altezza di un’«opera letteraria» (l’edizione italiana programmata per gennaio 2010 è così rimandata a data da destinarsi); tre,
Claude Lanzmann Un ritratto del regista ospite ieri di Festivaletteratura, Mantova
con Georges Didi-Huberman, lo storico dell’arte col quale ha avuto in Francia una polemica in stile guerra totale per l’interpretazione di alcune fotografie realizzate da detenuti di Auschwitz ai compagni di sventura del Sonderkommando. Minerva ha esordito citando dei fotogrammi-clou di Shoah, quelli in cui Abraham Bomba, barbiere a Tel Aviv, ricorda quando doveva tagliare i capelli alle donne avviate alla camera a gas, per poi interrogare Lanzmann sulla sua partecipazione al maquis, quel viaggio in Italia nel ’46, l’amicizia con Sartre e Simone de Beauvoir...
Festivaletteratura, tredicesima edizione, ha chiuso con questi numeri: 60.000 biglietti staccati e 30.000 presenze agli eventi gratuiti. Ovvero un incremento tra il 5 e il
10% rispetto all’anno scorso. A controprova di quanto si va dicendo da inizio anno: che, cioè, la crisi anziché deprimere favorisce i consumi culturali, nella misura in cui è evidente i consumi restano a prezzi bassi. L’appuntamento per l’anno prossimo sarà dall’8 al 12 settembre. Nella quattordicesima edizione ritroveremo le novità di quest’anno, la «retrospettiva» dedicata a un autore così come la lettura delle pagine culturali della stampa italiana e internazionale. Più qualcuna ulteriore che, com’è prassi, maturerà nel lungo autunno-inverno mantovano. Mesi durante i quali la città dei Gonzaga si cimenterà col gioco intrapreso negli ultimi anni: la lettura collettiva d’un romanzo popolare di altri tempi. Quest’anno, via a Zanna bianca. ❖

Repubblica 14.9.09
Bauhaus
Quando fu creata l'arte democratica


Novant´anni fa Walter Gropius fondava a Weimar la sua scuola che rivoluzionò la cultura del Novecento. A Berlino una grande rassegna rievoca quel movimento che fece nascere la modernità

BERLINO. Ma dove sta scritto che le stagioni di profonda crisi economica e sociale siano poco propizie alla creatività e alle arti? La Germania della Repubblica di Weimar, negli anni seguenti alla sconfitta della prima guerra mondiale, è la più clamorosa smentita di questo assunto. Berlino era attraversata da folle di disperati, la carta moneta era divenuta carta straccia, reduci e mutilati si aggiravano affamati per le strade. Eppure, in questo clima di disfatta, nacque, come fiore dal deserto, il Bauhaus: nella piccola Weimar fu fondata una scuola di arti e mestieri nata dalle ceneri dei Deutscher Werkbund. Il Bauhaus rivoluzionò l´arte del Novecento come nessun altra istituzione ha saputo fare nel corso del secolo: ci fu un deus ex machina e si chiama Walter Gropius; elegante e intelligente era cresciuto nella scuola di un maestro come Peter Behrens, era stato tra fondatori del Ring e del Novembergrupp, espressionisti di punta, e s´era legato alla socialdemocrazia. Riteneva Gropius che le arti dovevano rispondere ai bisogni di una società di massa: perché questo disegno democratico si realizzasse bisognava creare uno strumento di formazione capace di produrre un tecnico che sapesse dar nuova forma al mondo delle più avanzate tecnologie. Il suo credo è felicemente riassunto nel volume Per un´architettura totale, ora riedito da Abscondita.
Per circa dieci anni, dal 1919 al 1928, Gropius diresse questa scuola, dapprima a Weimar, poi dal 1925 a Dessau: nella nuova sede da lui stessa costruita - vero manifesto della nuova architettura - Gropius ebbe il talento di riunire attorno a sé pittori, architetti, scenografi, fotografi della più diversa provenienza e con vocazioni non affatto uniformi. Bauhaus. Un modello concettuale che si tiene al Martin-Gropius-Bau (fino al 4 ottobre), a cura di Annemarie Jaeggi, vuole celebrare i novant´anni di questa avventura e ricordare la mostra che si tenne al MoMa di New York ottant´anni fa. Alfred Bahr fece così conoscere all´America la produzione del Bauhaus. Circa 900 pezzi sono in mostra tra dipinti, disegni, sculture, foto, modelli con molte novità e inediti di cui è impossibile dar conto.
Il Bauhaus si chiude nel 1933: Gropius, costretto a lasciare la direzione della scuola nel 1928, emigrò in Gran Bretagna prima, negli Stati Uniti poi. Le camice brune imposero i tetti a capanna all´edificio del Bauhaus, grottesca messa in scena che avrebbe dovuto cancellare la nitida chiarezza di questa architettura che divenne icona della modernità. Grande direttore d´orchestra, al pari di Furtwängler, Gropius ebbe nel Bauhaus solisti d´eccezione: passare in rassegna i loro nomi e le loro opere, prodotte in soli 14 anni, fa dire che la modernità di cui è intriso il Novecento nasce lì.
Diciotto sale, nell´edificio classicista costruito dal prozio Martin, scandiscono in modo didatticamente felice il dispiegarsi di questa avventura artistica che ha tra i suoi protagonisti Wassily Kandinsky e Paul Klee, le cui grammatiche formative e antagoniste forgiarono decine di allievi. L´uno svizzero l´altro russo, le loro lezioni furono pubblicate in parte nei Bauhausbürcher. In taluni casi la mostra offre spazi monografici, ma la tessitura del Bauhaus è articolata e complessa e l´una rimanda all´altra: Johannes Itten esplora la teoria dei colori e costruisce tele e sculture, Lázló Mohly-Nagy, ungherese, s´occupa di fotografia e cinema, e ha per collega l´americano Lionel Feininger; Hirschfeld elabora i suoi collage sperimentali e Herbert Beyer è un grande della foto. Oscar Schlemmer, scenografo e coreografo, con i manichini meccanici, rivoluziona il teatro d´avanguardia che ebbe, in questi anni della Repubblica di Weimar, come punte di diamante Bertolt Brecht e Kurt Weil. Sono gli anni della grande sperimentazione espressionista, quando Marlen Dietrich recita nell´Angelo azzurro, tratto da Heinrich Mann. Joseph Albers, grafico e pittore, segue una sua via in sintonia con la ratio del colore. La scuola produsse oggetti di design dalla tecnologia ineccepibile, capaci di rispondere all´esigenza di qualità nel grande numero.
Gropius, con i suoi allievi, progetta per un commerciante di legno una villa tutta in legno: la casa di Adolf Sommerfeld (1921) è un esempio raro di Gesamtkunstwerk, ovvero d´opera d´arte totale, in cui alcuna distinzione si pone tra le arti. Un´aspirazione che serpeggia nei programmi artistici europei: per la verità erano stati i Futuristi a concepire forse per primi un tale disegno, ma con essi - e in stretto dialogo con il Bauhaus - il gruppo olandese di De Stijl, a cui è dedicata una sezione: le sperimentazioni di Oud, van Doesburg, Rietveld, di formazione pittori e architetti, integrano nei loro progetti le arti con audacia. I dipinti di Mondrian, protagonista geniale del gruppo, divengono trama della nuova architettura di Mies van der Rohe come testimoniano le piante di tante sue celebri architetture. Anche lui come Gropius ha una formazione espressionista, poi scarnisce il suo linguaggio fino all´astrazione come nel Padiglione di Barcellona del ‘29. Il maestro di Achen fu l´ultimo direttore del Bauhaus, succedendo a Hannes Meyer che aveva preso il posto di Gropius.
La diaspora del Bauhaus è uno dei grandi drammi del secolo: Gropius, Mies, Hilberseimer, Breuer, Albers e altri ancora approdarono negli Stati Uniti e nel giro di pochi anni conquistarono le scuole più prestigiose del paese. Hannes Meyer fu attratto dalla sirena del comunismo e si trasferì a Mosca, altri raggiunsero la terra promessa d´Israele. Questa diaspora fu di certo per la cultura tedesca un dissanguamento dalle incalcolabili conseguenze.

domenica 13 settembre 2009

l’Unità 13.9.09
L’ex leader della Margherita ospite dell’Udc: unire riformatori democratici e moderati p Scontro sull’immigrazione: Fini:un suicidio negare i diritti. La Lega: con noi o si va a votare
Rutelli con Casini? «Si vedrà» Bossi contro Fini: elezioni
di Su. Tu.


Per ora è un «si vedrà», ma da ieri l’ipotesi di un nuovo centro che comprenda anche Rutelli e altri è nell’agenda della politica. Fini risponde a Bossi: un suicidio negare i diritti. La Lega parla di elezioni.

Unirsi a un eventuale progetto con Casini e Fini? «Si vedrà». Nella risposta che Francesco Rutelli, ospite dell’Udc a Chianciano, offerto a chi gli chiede conto del tormentone neocentrista di fine estate ci sono tutta la consistenza e i limiti del disegno medesimo. Un progetto che si riscalda a bordo campo mentre Bossi minaccia elezioni anticipate, lo fa in risposta agli affondi di Fini ormai in rotta con la Lega oltre che con Berlusconi. Il laboratorio neocentrista è al lavoro. Pronte le prime file. Le parole di Rutelli suonano come la conferma che «un’alternativa moderata a Berlusconi esiste», basta volerla.
È pronto Luca Cordero di Montezemolo, già tentato due anni fa da un partito azzurro con Casini e Fini che poi non si fece, e che ora – dice chi gli sta vicino «non vede l’ora di buttarsi in politica». E’pronto Pier Ferdinando Casini, forse il più longevo sostenitore di una idea in nome della quale da un anno e mezzo naviga nel mare del né di qua né di là, e ora predica «ci dobbiamo prendere per mano anche nelle diversità per creare un futuro normale». È pronto, dicono prontissimo, Francesco Rutelli. L’ex presidente della Margherita sarebbe già con un piede fuori dal Pd: il suo libro sul tema, ispirato nel titolo al fallaciano «Lettera ad un bambino mai nato», dovrebbe uscire a cavallo del congresso. Quasi ultimata la lista dei pronti a seguirlo (Giachetti, Lusetti e il teodem Calgaro). Prima delle europee Casini gli aveva ventilato l’ipotesi della segreteria del ciclicamente costituendo partito di centro. Poi le sue quotazioni sono calate, ora a quanto pare il leader Udc si limiterebbe a una calorosa accoglienza. «Lavoriamo a unire le forze che vogliono ragionare e costruire nel Pae-
se una strada in cui i riformatori democratici e moderati possano trovare approdi stabili e sicuri», ha detto ieri Rutelli, ad adiuvandum. Meno pronto, come si è visto ieri, l’altro co-fondatore (del Pdl) Gianfranco Fini, che parlando a Chianciano ha adottato una linea di prudenza che gli osservatori più attenti scommettevano arrivasse, dopo la durissima requisitoria anti-tutto che ha inflitto al Pdl a Gubbio. L’ex leader di An, che pure ha fatto l’impossibile (elicottero compreso) pur di andare a salutare gli uddiccini in una giornata carica di impegni istituzionali, ha voluto spiegare che non ci sono «dietrologie» da fare sulla sua presenza, ha marcato le differenze dai centristi spiegando che per lui il bipolarismo non è fallito, «è preda della malattia infantile della delegittimazione dell’avversario», ha evitato di parlare del Cavaliere (meglio la Lega), e battuto su immigrati e biotestamento. Come a dire che la sua critica è interna al Pdl, per ora.
Minimo comun denominatore di tutti costoro, tra gli altri, una spiccata avversione alla Lega. Non per caso uno dei passaggi più applauditi della giornata è stato quello in cui Fini, replicando a Bossi che trova «un suicidio politico» le posizioni di An sugli immigrati, ha detto: «Negare i diritti fondamentali dell’uomo è un suicidio della ragione, oltreché della pietà cristiana». Parole rispetto alle quali la controreplica di Bossi, con annessa minaccia di elezioni anticipate («i diritti spettano solo ai nostri. La Lega è molto forte, in Parlamento sono costretti a seguirci tutti, anche i nostri alleati. Ci devono dire sì. Altrimenti sì che si andrebbe a votare») equivale ad un’altra stelletta sul petto dell’ex leader di An. Da spendere in un futuro forse ipotetico, ma sempre più vicino. ❖

l’Unità 13.9.09
Prove di compromesso. Il presidente della Camera: «Rispettare la volontà del malato»
D’accordo gli esponenti cattolici: «Decisivo il ruolo della famiglia». L’uso degli analgesici
Biotestamento, Fini «catechista» piace a Buttiglione e all’Udc
Prove tecniche di compromesso sul fine vita. Fini cita il catechismo là dove indica la necessità di rispettare la volontà del malato e mette l’accento sul ruolo della famiglia. Interesse da Buttiglione.
di Su.Tu.


«Sono cose che dice il catechismo, ma ci sono dei passaggi anche in Paolo VI, nel suo messaggio al congresso dei medici cattolici», «si tratta di un tema delicatissimo, sul quale non possono esserci posizioni tagliate con l’accetta», e invece, «nel testo del Senato non c’è mai la parola famiglia. Non c’è mai, capite?». La sorprendente fotografia di un Gianfranco Fini che in gran tenuta istituzionale (ma con cravatta blu con balenine) spiega queste cose a due tra i massimi esponenti dell’Udc, di Cesa e Buttiglione che annuiscono (e concordano davvero, come si vedrà) è il doppio, in forma privata, della trovata che pochi minuti prima l’ex leader di An ha sfoderato dal palco degli Stati generali dell’Udc. Quando, parlando dell’opportunità di «deporre la becera e grossolana contrapposizione tra laici e cattolici per scrivere una bella pagina parlamentare e politica sul biotestamento», il presidente della Camera ha estratto una citazione giusta giusta per sostenere la sua tesi: il Catechismo, scritto ai tempi da Joseph Ratzinger in persona, allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. «L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima», ha letto Fini dal palco nello stupore generale, «Le decisioni devono essere prese dal paziente, o da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente». E ancora: «L’uso di analgesici per alleviare le sofferenze.. può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte (...) esoltanto prevista e tollerata come inevitabile».
COLPO AD EFFETTO
Un colpo a effetto, questo del Catechismo, che Fini aveva pronto da mesi. Ammonticchiato sulla sua scrivania insieme a passi della Dottrina della fede e citazioni di Paolo VI («dovere del medico è alleviare le sofferenze, invece di voler prolungare una vita che non è più pienamente vita umana»). Pezze d’appoggio per dimostrare che la Chiesa non è soltanto quella che vuole leggi come il testo sul fine vita del Senato. E che, dunque, anche le sue posizioni («bisogna tener conto della volontà del paziente,della famiglia, e del collegio medico») non sono per forza contrarie a quelle.
La controprova? Buttiglione, delegato dall’Udc ad occuparsi del biotestamento con Vietti, si trova perfettamente d’accordo. Su almeno due punti «il ruolo della famiglia, che non può essere ignorato». E il ricorso alle terapie del dolore: «Quello di Eluana rappresenta l’1% dei casi: di solito il problema è quello del dolore in prossimità della morte. E io credo che, anche se abbreviano la vita, gli analgesici vadano utilizzati. Avevo presentato una proposta di legge, nella quale si sosteneva proprio questo». Potrebbero diventare emendamenti Udc, alla Camera. A dimostrazione che una buona fetta della Chiesa – «anche monsignor Fisichella» dicono – davvero non sarebbe soddisfatta del testo del Senato. E punterebbe a cambiarlo alla Camera, per evitare che Berlusconi vada all’incasso presso le gerarchie con una legge che poi la Consulta boccerà.❖

Repubblica 13.9.09
Il premier: "Gianfranco ormai è un problema"
di Gianluca Luzi


La cena di Villa Madama non ha portato alla pace, ma solo a un armistizio armato con Berlusconi che per una volta ha rinunciato all´offensiva contro Fini per non compromettere irrimediabilmente i rapporti.
E Berlusconi avverte Gianfranco "Pure lui è parte del problema"
Tregua armata alla cena del G8: solo una stretta di mano
Il premier rinuncia ad intervenire al seminario di Gubbio: "Se parlo, polemica sicura"
Il sospetto di Fini è che certe bordate di Bossi siano ispirate dal Cavaliere

«A Gianfranco, questa volta, non darò l´occasione per dirmi ancora un no». È mezzogiorno e in Galleria a Milano, dopo il funerale di Mike Bongiorno che il Cavaliere ha trasformato nell´ennesima autocelebrazione, decide per una volta di dare ascolto alle «colombe» che da giorni cercano in tutti i modi di riportare al dialogo i due «padri» del Pdl.
Così, prima di entrare al Biffi dove ha pranzato con Fedele Confalonieri e il parlamentare Gregorio Fontana, ha chiamato il coordinatore Sandro Bondi per annunciargli che non avrebbe fatto la prevista telefonata al seminario del Pdl di Gubbio. Con una platea così apertamente schierata contro Fini non avrebbe potuto che menare randellate: «Se parlo scoppia di nuovo la polemica» è stata la prudente considerazione del premier, e questo non era consigliabile poche ore prima della cena a Villa Madama con Fini e i presidenti dei parlamenti del G8, la prima occasione di vedersi dopo gli scontri al calor bianco dell´ultima settimana.
Una decisione tutta politica e non tecnica come invece aveva spiegato Bondi ai fan delusi del premier, perché il funerale era finito e Berlusconi si è concesso un lungo bagno di folla in Galleria prima di pranzo. Di tempo per telefonare, quindi, ne avrebbe avuto in abbondanza.
Così, con la decisione di non parlare, il leader del Pdl ha voluto marcare con un «gesto distensivo» l´intenzione di riprendere un dialogo con la terza carica dello Stato, o perlomeno di non incattivire il duello rinviando il chiarimento alla prossima settimana incastrando il vertice tra la consegna delle prima case ai terremotati e il consiglio europeo di venerdì o forse nel fine settimana, prima della partenza per l´America. Eh già, perché la cena di ieri sera con il suo rigido cerimoniale, non ha permesso ai duellanti di ritagliarsi uno spazio per chiarire le rispettive posizioni.
L´incontro a Villa Madama è stato molto freddo: giusto una stretta di mano, poi Fini ha presentato Berlusconi ai presidenti dei parlamenti del G8 ed è cominciata la cena. Fini e Berlusconi erano seduti uno di fronte all´altro allo stesso tavolo rettangolare, troppo grande per dialogare. Comunque nessuno dei due aveva l´aria di aver voglia di intrattenersi a parlare con l´altro, segno che la tensione è ancora alta.
Berlusconi è arrabbiato, ma deve trovare un sistema per riportare un minimo di serenità, perché il suo problema è che ormai nella maggioranza la rissa è generalizzata, e i colpi proibiti che Bossi ha scagliato contro Fini non sono certo ideali per rasserenare il clima. Il sospetto di Fini, anzi la convinzione, è che le bordate del Senatur, se non sono ispirate direttamente dai falchi di Berlusconi, certo hanno il lasciapassare del Cavaliere. Però anche il premier non fa che lamentarsi per quelli che considera veri e propri attacchi del presidente della Camera. «Fini - si sfoga con i suoi - elenca i problemi del Pdl, ma dimentica di elencare se stesso, perché con le sue prese di posizione diventa lui il problema del Pdl». I soliti mediatori, Letta e La Russa in prima fila, si danno da fare per arrivare almeno all´armistizio se non alla pace.
Gli uomini del Pdl più dialoganti colgono un segnale positivo in un passaggio del discorso di Fini a Chianciano. Quando il presidente della Camera ha detto che «bisogna portare il bipolarismo ai livelli europei». Mentre impazza l´ipotesi di un Grande Centro a cui dovrebbe partecipare lo stesso Fini, questa frase viene interpretata come l´intenzione di non abbandonare il Pdl.
A questo minimo spiraglio Berlusconi risponde con un piccolo ramoscello d´ulivo durante l´intervento alla cena. «Sarebbe bene che vi riuniste più di una volta l´anno. Voi siete i nostri padroni. Nel Parlamento risiede la sovranità del popolo», una frase rivolta ai presidenti dei parlamenti, che certamente Fini avrà apprezzato. Soprattutto perché detta da un premier con cui ha avuto più di uno scontro sulla centralità del Parlamento.

Repubblica 13.9.09
il declino non si vede ma è già cominciato
di Eugenio Scalfari


Dopo il suo intervento dell´altro ieri a Gubbio e quello di ieri a Chianciano dove Casini ha riunito i dirigenti dell´Udc, si fanno previsioni e perfino scommesse sugli obiettivi di Gianfranco Fini nel prossimo futuro. E se lo domanda anche, con qualche preoccupazione, Silvio Berlusconi. Vuole dargli una spallata approfittando d´un momento di oggettiva difficoltà che il premier sta attraversando? Vuole uscire dal partito e fondarne un altro? Vuole prepararsi a prendere il posto di Napolitano quando il mandato del Capo dello Stato scadrà (nel 2013)? Vuole esser pronto a qualunque evenienza e a qualunque emergenza che potrebbe verificarsi nel quadro agitato e anomalo della politica italiana?
Tutto considerato e mettendo in fila gli interventi che si susseguono da tempo, compreso quello di ieri in casa d´un partito d´opposizione, la conclusione logica è questa: Fini si prepara a succedere a Berlusconi quando il premier dovrà cedere il comando per ragioni di calendario. Nel 2013 avrà 77 anni ed avrà governato o comunque occupato la scena politica da diciotto. Dopo quanto è accaduto in questi mesi è esclusa una sua candidatura al Quirinale e neppure il lodo Alfano potrebbe impedire che i processi a suo carico vengano riaperti.
A quel punto – ma in realtà almeno un anno prima – il problema della successione si porrà inevitabilmente e la rosa dei candidati vedrebbe Fini in "pole position". Gli altri sulla carta sono tre: Formigoni, Letta, Tremonti. Ma per valutare le rispettive "chance" occorre tener presente che il successore prescelto dovrà guidare il centrodestra alle elezioni politiche.
Deve dunque essere in grado di sostituire un formidabile comunicatore dotato di capacità seduttive e ipnotiche senza pari.
Chi può vantare un carisma che si avvicini a quello del Cavaliere? Basta porre la domanda per scartare tutti e tre i nomi dei "competitors", soprattutto Formigoni e Letta. Tremonti ha l´appoggio della Lega, ma la scelta del leader del Pdl non spetta alla Lega.
Quindi Fini, verso il quale rifluirebbero agevolmente quasi tutti gli ex di Alleanza nazionale una volta sgombrato il campo da Berlusconi.
Aggiungo un´altra considerazione. Qualora un´emergenza istituzionale dovesse prodursi all´improvviso (e la sentenza della Consulta sul lodo Alfano o altre questioni di analogo rilievo potrebbero determinarla anche a breve termine) la candidatura di Fini a sostituire l´attuale premier avrebbe forti probabilità di successo. Un governo Fini poggiato anche sul sostegno dell´Udc e su un´amichevole astensione del centrosinistra potrebbe essere la via d´uscita verso le riforme sempre auspicate ma mai portate in Parlamento, nonché su una normalizzazione della vita democratica dopo gli sconquassi del berlusconismo rampante.
La conclusione dunque è questa: Fini si propone di essere il successore di Berlusconi alla guida d´un partito di destra democratica profondamente diverso dalla gestione «eversiva» e assolutistica del Cavaliere di Arcore. Successore, non delfino. Del resto con Berlusconi i delfini non sono previsti salvo Letta che più che un delfino sarebbe un perfetto luogotenente.
* * *
Ma c´è già ora un declino di Berlusconi nella percezione degli italiani? E´ cominciato uno smottamento del consenso? L´insensata guerra contro le gerarchie cattoliche e contro i sentimenti morali dei cattolici ha prodotto crepe importanti? Il killeraggio contro gli avversari, le bravate crescenti del premier, il massimalismo leghista, la disistima internazionale che ormai si è diffusa non solo nella stampa estera ma anche nelle cancellerie europee e americane, hanno aperto falle significative nel consenso berlusconista?
Qualche crepa è visibile. L´ultimo sondaggio Ipsos commissionato da Palazzo Chigi registra un calo di 4 punti collocando il consenso attorno ad uno stentato 50 per cento. Le intenzioni di voto vedono il Pdl attorno al 38 per cento. Il Foglio di ieri ha pubblicato in prima pagina dieci domande (la formula delle dieci domande ha ormai fatto strada) che sollevano altrettanti problemi non risolti dal governo e molto scomodi da risolvere.
Ma il blocco è ancora sostanzialmente intatto. E tuttavia il declino è percepibile e il nervosismo del premier non fa che ingrandirlo. Chi ha visto la versione integrale del suo "show" nell´incontro italo-spagnolo avvenuto nell´isola di Maddalena è rimasto allibito, a cominciare da Zapatero che l´ha commentato ieri pubblicamente con parole che parlano da sole. E chi ha ascoltato il discorso di Fini a Gubbio ha percepito la differenza abissale che separa i due co - fondatori del Pdl. Del resto non è un caso se il neo - ambasciatore Usa a Roma ha cominciato le sue visite di presentazione da Fini anziché dal premier.
L´opinione di tutti gli stranieri che capita di incontrare da qualche mese a questa parte è unanime: «Non ci stupisce più il vostro premier, ma ci stupiscono gli italiani che ancora sopportano di esser rappresentati da un simile personaggio».
La sua debolezza oggettiva si riduce ad una sola parola: ricattabile. Abbiamo un premier ricattabile e ricattato. Quindi debolissimo. E alle sue spalle un partito che vive e vince in virtù del suo carisma personale. Il carisma, come tutti sanno, è un fenomeno di massima fragilità: se s´infrange, tutta la costruzione che su di esso si appoggia crolla.
L´insieme di questi elementi porta alla conclusione che il declino è in corso anche se il carisma regge ancora. Per quanto?
* * *
Queste riflessioni su Fini e su Berlusconi ci portano a considerare la situazione del Partito democratico, quello che nella percezione sia degli avversari sia dei suoi ex sostenitori e sia infine di molti osservatori viene definito un partito fantasma o il partito che non c´è; comunque un relitto che nessuno riuscirà a portare in salvo proprio nel momento in cui il paese avrebbe maggior bisogno d´un partito d´opposizione capace di attirare su di sé il disagio che sia pur lentamente si diffonde e che acquisterebbe peso e velocità dalla presenza di una valida alternativa.
Su questa delicata ma essenziale questione faccio le seguenti considerazioni (come persona informata dei fatti).
1. Conosco bene i tre candidati alla segreteria del Pd e in particolare i due maggiormente favoriti, Dario Franceschini e Pier Luigi Bersani. Sono due persone perbene. Nessuno dei due ha scheletri nell´armadio. Si battono con vigore come deve accadere in una sfida politica e come non accadde né nelle primarie che insediarono Prodi alla leadership del centrosinistra sia in quelle che insediarono Veltroni alla guida del Pd. Questa volta sta accadendo, su questioni di visione politica, senza alcun colpo sotto la cintura. Non è quello che i simpatizzanti e gli iscritti al partito volevano?
2. Chiunque dei due vincerà, il compito di costruire un partito riformista in un paese dove il riformismo ha sempre avuto vita stentata non sarà agevole anche se - ne sono convinto - ciascuno di loro ce la metterà tutta.
3. La condizione necessaria affinché questa costruzione avvenga e sia solida non sta nel programma e tantomeno nelle ragioni che hanno condotto forze culturali e politiche con storie diverse a dar vita ad un partito comune. Sia le ragioni che presiedettero alla nascita del Pd sia la sua visione d´una società «riformata» furono elencate, illustrate e unanimemente approvate nell´assemblea del Lingotto che insediò Veltroni alla guida del Pd. Si può aggiornare il programma, ma le linee di fondo di quella visione del bene comune c´è già stata ed è tuttora pienamente valida.
4. In realtà la condizione necessaria affinché la nave di questo partito esca dalla darsena e riprenda orgogliosamente il mare dipende soltanto da chi sente profondamente la necessità d´un partito seriamente riformista, capace di dar voce a tutte le speranze, le attese e i bisogni del centrosinistra italiano, da un socialismo liberale ad un laicismo che possa esser sostenuto con vigore sia da laici non credenti sia da cattolici di discendenza degasperiana; infine dai grandi valori della libertà e dell´eguaglianza che non possono mai esser disgiunti e che vanno vissuti e applicati nel quadro d´una solidarietà sentita come impegno civile.
Se almeno due milioni di elettori esprimessero quest´impegno nelle votazioni alle primarie del prossimo 25 ottobre, credo che il varo della nave democratica segnerebbe la riscossa che molti hanno nel cuore senza sapere in che modo tradurla in atto.
L´atto decisivo è quello: un varo effettuato sulle braccia e sulle spalle di qualche milione di persone.
Sabato prossimo si svolgerà a Roma in piazza del Popolo una manifestazione popolare in difesa della libera stampa. Noi che della libera stampa facciamo parte sappiamo quale importanza abbia quest´appuntamento. Non si identifica con i partiti perché non è una visione di parte ma con la difesa d´un delicatissimo diritto costituzionale che l´attuale governo ha leso e continua a ledere pervicacemente con continue intimidazioni e prevaricazioni che tra poco verranno allo scoperto anche nella Rai.
Ci auguriamo che quella piazza sia gremita e faccia sentire la sua presenza e la sua voce.
Il rinascimento della democrazia italiana è affidato agli italiani, agli uomini e alle donne di buona volontà, a chi non teme di impegnarsi in battaglie civili che ci riscattino dall´ipnosi in cui il paese sembra precipitato. Nessun dorma: non è questa la condizione necessaria per riprendere il cammino?

Repubblica 13.9.09
"Nell'aria qualcosa che non è democrazia"
Zavoli accusa. E su Libération uno speciale sul Cavaliere sotto pressione
di Mauro Favale


ROMA - Tira una brutta aria. «C´è qualcosa che non corrisponde ad una vera democrazia». Sergio Zavoli, presidente della commissione di Vigilanza Rai, dopo un lungo silenzio, torna a parlare della situazione italiana e dello stato di salute dell´informazione. Per dire che «esiste un atteggiamento perverso nei confronti della qualità dell´informazione. Non c´è più interesse ad approfondire nulla e c´è un concreto sentore del fatto che esista, nell´aria, un qualcosa che non corrisponde ad una vera democrazia». Un timore, quello di Zavoli, che si sta diffondendo anche in Europa, a leggere gli editoriali che i maggiori quotidiani esteri hanno dedicato anche ieri all´Italia.
Estremamente critici quelli francesi e spagnoli, dopo lo show di Berlusconi durante la conferenza stampa di giovedì con Zapatero. Due giorni fa il premier iberico aveva detto: «Taccio per cortesia istituzionale, tutti sanno cosa penso della parità uomo donna». Una frase dalla quale traspariva l´imbarazzo di Zapatero. Ma ieri le diplomazie hanno lavorato e in giornata i due premier si sono sentiti al telefono per ribadire la «profonda amicizia» tra i due Paesi. Il segretario di stato spagnolo, Diego Lopez Garrido, intervistato dal Tg1, ha precisato che «le dichiarazioni di Zapatero sono state chiare e non accettano nessuna interpretazione aggiuntiva: nessuna critica alle parole di Berlusconi».
Ma la stampa spagnola non molla. Ieri El Pais ha pubblicato un editoriale molto critico in cui definiva Berlusconi un personaggio «ridicolo, ogni volta che parla in pubblico». E in Francia grande spazio all´Italia è stato dedicato dall´inserto del week end di Libération. Copertina con una grande foto del premier italiano scattata a Palazzo Grazioli. All´interno quattro pagine con foto di Berlusconi, Noemi e Patrizia D´Addario. L´articolo racconta di «un´Italia che non si occupa di ciò che dice Berlusconi» e di Repubblica «un quotidiano che non molla nonostante i colpi bassi e interpella quotidianamente il capo del governo sulle sue tresche, attirandosi i fulmini del tycoon dei media». E un altro quotidiano d´oltralpe, Le Monde, ieri titolava, in italiano, a pagina due: «Basta, Cavaliere!».

Repubblica 13.9.09
Quando il potere non tollera il dissenso
di Michela Marzano


La democrazia comincia a funzionare quando la gente ha la possibilità di scegliere e selezionare la propria classe dirigente. Ma funziona realmente quando la classe dirigente scelta è in grado di assumersi la responsabilità delle proprie scelte e delle proprie azioni, di sottomettersi alle critiche e di accettare il dissenso. Ora, come ha sottolineato Nadia Urbinati sulle pagine di Repubblica, uno dei problemi principali di fronte al quale ci si trova oggi in Italia è l´intolleranza da parte del potere in carica di fronte al dissenso: "L´obiettivo è terrorizzare e ridurre al silenzio chi pensa liberamente per infine circondarsi di yes-men e yes-women".
Ma non è tutto. Perché, in fondo, quest´intolleranza di fronte al dissenso ha radici profonde: si fonda sulla volontà (più o meno rivendicata) di non assumersi la responsabilità dei propri gesti e le conseguenze delle proprie azioni. Il nostro Presidente della Repubblica ha allora perfettamente ragione quando invita i responsabili politici alla "moderazione", all´"equilibrio" e alla "responsabilità". Ma che fare quando è il senso stesso di queste parole che sembra ormai desueto? Si può ancora parlare di "senso di responsabilità" quando, deliberatamente, alcuni dei nostri dirigenti si comportano come se la realtà non esistesse?
L´attacco frontale contro la Repubblica, quello più ipocrita contro l´Avvenire e la critica feroce ad una buona parte della stampa italiana e estera da parte di Silvio Berlusconi si iscrivono direttamente in questo clima di "diniego della realtà", un diniego che porta il nostro premier a pretendere che il sistema informativo non faccia altro che indurre il lettore "a recepire come circostanze vere realtà di fatto inesistenti". Alcuni fatti sono stati dimostrati, prove alle mani. Ma Berlusconi continua ad affermare che si tratta solo di "menzogne" e "bugie": "Povera Italia, sulla stampa tutto il contrario della realtà". Cosa resta allora della realtà quando la sola realtà degna di questo nome sembra essere quella enunciata dal potere? Perché sforzarsi ancora di ricostruire gli avvenimenti, cercare di capire quello che accade, e chiedere che i responsabili politici assumano la responsabilità dei propri gesti?
A partire dal momento in cui la realtà non esiste, tutto può essere dichiarato e smentito, senza più bisogno di assumersi alcuna responsabilità. Da questo punto di vista, il caso italiano è sintomatico di una certa ideologia contemporanea, quella stessa ideologia che, promuovendo il volontarismo individualistico, porta a credere che la chiave del successo personale risieda nella capacità che alcuni hanno di manipolare la realtà. È il trionfo dei nuovi eroi carismatici, di cui Berlusconi è un esempio emblematico. A differenza dell´eroe classico, come l´Ettore dell´Iliade, che, consapevole della propria vulnerabilità, è sempre pronto al sacrificio quando le circostanze lo richiedano, l´eroe contemporaneo pensa di essere invulnerabile ma, nel momento in cui gli si chiede di assumersi la responsabilità dei propri gesti, si tira indietro: la realtà è differente da quello che sembra; i responsabili, se proprio si vuol parlare di responsabili, sono altrove. "Ho appreso ad essere forte, sempre a combattere in mezzo ai primi troiani, al padre procurando grande gloria e a me stesso", dice Ettore a Andromaca prima di partecipare alla battaglia. Il suo eroismo consiste nell´assumere fino in fondo i rischi del proprio ruolo: sa perfettamente che lo aspetta la morte, ma non si sottrae alla realtà. "Presidente - dichiara Berlusconi il 4 settembre a Giorgio Napolitano – sappi che in tutta questa storia di Boffo io non c´entro assolutamente nulla, i giornali hanno diffuso solo falsità. Feltri lo conosci anche tu. Semmai la prima vittima sono io". Leggendo queste parole, sembra quanto meno legittimo interrogarsi su ciò che caratterizza oggi molti nuovi leader. Sottrarsi alla realtà, imbrogliare le carte, chiedere ad altri di sacrificarsi al proprio posto? Tanto più che Berlusconi non è un caso isolato. Non è proprio quello che altre personalità politiche europee, come Nicolas Sarkozy o Angela Merkel, rimproverano a una parte del mondo della finanza e ad alcuni traders, i cui comportamenti irresponsabili (e raramente assunti) sono all´origine della crisi economica attuale?
Per non perdere il proprio posto di leader e evitare che un crepa possa rovinare il proprio ritratto – il ritratto di uomini dotati di onnipotenza e capaci di realizzare tutto ciò che i loro avversari non hanno mai osato o saputo intraprendere – i nostri eroi contemporanei devono potersi sottrarre alla realtà, negarla, ricostruirla a proprio piacimento. È proprio all´interno di questo meccanismo di diniego e di ricostruzione che il nuovo eroe può d´altronde muoversi a proprio agio e prosperare, incarnando alla lettera (ciò che forse spiega il suo successo) i valori dell´individualismo e del volontarismo promossi dalla contemporaneità: sottratto al ruolo che altri possono avergli assegnato, è ormai pronto a tutto; svincolato dai vecchi obblighi morali, che dettavano i precetti dell´agire, pensa di poter sempre determinare ciò che desidera. Peccato che, all´interno di questo nuovo mondo eroico, non ci sia più nessun posto per la "moderazione", l´"equilibrio" e il "senso di responsabilità" cui ci richiama il capo dello Stato! Che senso, infatti, può ancora avere parlare di "responsabilità" – termine che si riferisce direttamente ai doveri e agli obblighi legati al ruolo che si riveste e alle funzioni che si occupano – quando non solo si negano le conseguenze dei propri atti, ma si pretende anche che la realtà sia differente da quello che è? A quale "moderazione" ci può ancora riferire quando più nessun limite sembra esistere, dal momento che la realtà – che è proprio ciò che limita l´azione della volontà onnipotente – non esiste più?
Ciò cui si sta assistendo oggi in Italia mostra tutti i paradossi di una certa modernità: nel momento in cui l´autonomia e la libertà sembrano potersi finalmente affermare – permettendo alle persone di sottrarsi all´universo dell´eteronomia (in cui le norme morali vengono imposte da un´autorità esterna) e di accedere a un mondo in cui ognuno ha la possibilità di scegliere liberamente ciò che vuole fare della propria vita, assumendone però sempre le conseguenze – le derive incarnate dai nuovi leader svuotano dall´interno libertà e autonomia. La loro condotta irresponsabile sembra suggerire che basta "volere per potere" e che, una volta che si è agito, poco importano le conseguenze perché la realtà può essere manipolata e ricostruita. Come denunciava Orwell in 1984: "La realtà non è qualcosa di esterno, la realtà esiste solo nella mente […]. Non è possibile discernere la realtà se non attraverso gli occhi del partito". Peccato che, nel momento stesso in cui la realtà esterna non ha più valore, anche la libertà e la responsabilità non abbiano più senso.

il Riformista 13.9.09
La rischiosa guerriglia anti-Cav
Per Silvio ci vorrebbe l'ambulanza
Ma ha ancora troppi voti
di Giampaolo Pansa


Silvio Berlusconi sta diventando un problema irrisolvibile. Per le opposizioni, ma anche per il suo partito e gli alleati. Nel centro-destra cresce l'imbarazzo per un agitarsi sempre più scomposto. Alla Maddalena, davanti al premier spagnolo Luis Zapatero, ha detto di sé: «Sono di gran lunga il miglior presidente del Consiglio che l'Italia ha avuto negli ultimi centocinquanta anni». E nello stesso intervento ha risposto ai verbali del furbo Tarantini ("Per il premier diciotto serate con trenta ragazze") spiegando che lui le donne non le ha mai pagate.
Molti sottocapi del Popolo della Libertà avvertono la difficoltà di arginare un Cavaliere sempre più fuori dalle righe. Qualcuno di loro pensa che anche Silvio, come Gianfranco Fini, dovrebbe "rientrare nei ranghi". Ma sono speranze vane. Il premier non ha nessuna intenzione di moderarsi. Mentre il presidente della Camera è già fuori dal partito. Anzi è già contro il partito che pure ha contribuito a fondare.

Ho ascoltato per intero il discorso di Fini a Gubbio grazie alla tivù di Sky. E ho visto la sua grinta nel pronunciarlo. Se ci trovassimo in un regime sudamericano, lo definirei un intervento che precede il golpe. Ma Fini non dispone di truppe, tranne un piccolo reparto di fedelissimi. La grande maggioranza del centro-destra sta con Berlusconi. In un incontro con giovani del Pdl mi è capitato di criticare Fini per il suo fastidio a proposito del revisionismo sulla guerra civile. E sono rimasto sorpreso nel vedere che si levavano in piedi per applaudirmi.
Certo, il presidente della Camera è una spina nel fianco per il centro-destra. Però anche Berlusconi lo sta diventando. Nessuno è più in grado di arginarlo. La sparata della Maddalena è stupefacente. Qualcuno avrà pensato: "A questo punto bisogna chiamare l'ambulanza della Croce Rossa!". Però non esistono ambulanze tanto grandi da contenere il Cavaliere e i milioni di voti che lo hanno mandato a Palazzo Chigi.
Dunque non resta che aspettare i suoi prossimi show. Con lo stato d'animo di chi si sente prigioniero di un premier sempre più fuori controllo. Penso che si sentano così anche molti big del centro-destra. Ma non possono che difenderlo. O fingere di difenderlo. Del resto, sanno bene che se il Cavaliere lasciasse il comando del governo e del partito, dentro il Popolo della Libertà si aprirebbe una crisi terribile.
Ma anche il centro-sinistra è prigioniero di Berlusconi. Lo è per due motivi: uno interno e l'altro esterno. Il primo è la battaglia congressuale in corso nel Partito democratico. Di fatto oggi il Pd è privo di leader. I tre candidati in lizza si stanno combattendo ancora con un minimo di stile. Però nessuno può dire che cosa avverrà nell'imminenza del congresso. Come è sempre accaduto in tutte le parrocchie politiche, voleranno gli schiaffi. E non mancheranno i colpi bassi.
Per di più sta andando in frantumi l'immagine del Pd come partito pulito, diverso dagli altri. Chi ha vissuto l'epoca di Enrico Berlinguer ricorderà quanto sia stata nefasta la strategia di proclamare la diversità del Pci rispetto alla Dc e al Psi. Quella diversità scomparve nella stagione di Mani Pulite. Anche le Botteghe Oscure incassavano tangenti. Il Partitone rosso riuscì a non sparire solo perché venne graziato in più di un palazzo di giustizia.
Oggi è l'inchiesta sulle tangenti di Bari a costituire un pericolo grave per il Pd. A spiegarlo non sono soltanto i media moderati. Sull'Unità di giovedì 10 settembre lo diceva uno schietto retroscena scritto da Pietro Spataro, un collega che conosce a fondo i guai del partito. Dove molti si domandano perché mai l'assessore alla Sanità, obbligato alle dimissioni, abbia potuto mettersi al riparo trovando subito un seggio in Senato.
Infine, tra qualche giorno, il Pd scoprirà un avversario in più. Parlo de Il Fatto, il nuovo quotidiano diretto da Antonio Padellaro. Tutti prevedono che il bersaglio numero uno del giornale sarà Berlusconi. Ma il secondo non potrà essere che il Pd. Infine possiamo mettere nel conto una circostanza quasi fatale. Così come esistono magistrati di sinistra, ci sono pure magistrati di destra. Che forse non se ne staranno con le mani in mano.
C'è poi un motivo esterno, il più importante, a rendere il Pd prigioniero di Berlusconi. È la sua impotenza a sconfiggerlo. Il sogno di molti elettori di centro-sinistra, quello di vedere il Cavaliere al tappeto, non possono realizzarlo né Franceschini né Bersani né tantomeno Marino. Il nervosismo dei loro elettori sta crescendo. Succede sempre così nei partiti che non ce la fanno a soddisfare i propri tifosi. In più, la disaffezione è alimentata da un concorrente spietato, l'Italia dei valori di Tonino Di Pietro.
La conclusione è che il Pd si trova in una situazione senza vie d'uscita. Può soltanto aggregarsi alla guerriglia anti-Cavaliere scatenata da Repubblica. Ma se il quotidiano diretto da Ezio Mauro ricaverà qualche guadagno dalla campagna contro Berlusconi, la stessa cosa non potrà dirsi del Pd.
A questo punto una domanda è d'obbligo. Conviene alle opposizioni politiche continuare la guerriglia anti-Cav? E incendiare oltre il necessario l'opinione pubblica che già non sopporta il premier? Il rischio è di far nascere sul fronte opposto un radicalismo altrettanto furioso. In parte sta già avvenendo. L'Italia vive da tempo in un clima di contrapposizioni troppo violente. La considero una deriva pericolosa e il buon senso ci dice che va fermata. Prima che accada qualcosa di irreparabile.

Liberazione 12.9.09
Un Cavaliere sempre più in declino e il rischio di soluzioni di puro potere: l'occasione della piazza del 19 Finis Berlusconis, l'unica assente è la democrazia
di Anubi D'Avossa Lussurgiu



«Se mantengo il silenzio è per un segno di rispetto e cortesia istituzionale». E poi: «Tutti conoscono le mie opinioni sui rapporti uomo-donna». Così, ieri sera, il primo ministro dello Stato spagnolo, José Rodriguez Zapatero, che il giorno prima si era ritrovato ad assistere al fianco del presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana Silvio Berlusconi al di questi spettacolo in vece di conferenza stampa congiunta, dopo il vertice bilaterale a La Maddalena. 
Così stanno le cose. Ossia, questo è il punto cui è giunta la parabola del potere berlusconiano. Anche i più raffinati apolegeti, come quelli de il Foglio , hanno già smesso di rappresentarla quale riproduzione virtuale di movenze del tipo della rosselliniana "La presa del potere da parte di Luigi XIV". Non c'è proprio alcun potente politico in Europa cui incuta timore o rispetto, casomai imbarazzo come si vede. L'aristocrazia dei giorni nostri non sta per niente rinchiusa a Versailles, al massimo c'era Tarantini a Palazzo Grazioli, o - proprio al massimo - qualche dama del Billionaire; e non c'è solo la "Fronda" dell'ingegner De Benedetti e de la Repubblica , anche tutti gli altri menano colpi accurati dai bastioni del Corsera . Non s'intravvede a corte alcun Mazarino, al più un sempre più contrito Gianni Letta; né tampoco un Colbert, al più un Tremonti crescentemente rifugiato nella mistica - in cerca forse d'una Cabala per i conti che non tornano. Non c'è nemmeno una Montespan degna d'un qualsiasi pur spudorato riconoscimento; invece c'è una moglie potente e richiedente divorzio che ricompare in pubblico alla rappresentazione d'una piéce su Hitler...
Così vanno le cose, così devono andare. Anche se. E di anche se ve n'è più d'uno. Anche se, anzitutto, la caduta di Berlusconi è un "profumo nell'aria" e non un fatto politico, né un evento facilmente alle viste: perché l'uomo resta forte, con ancora la disponibilità di poteri temibili. E, soprattutto, non si rassegna. Il che vuol dire che intende usarli a propria difesa, fino all'estrema riserva. Si capisce dalla battaglia cui ha costretto Gianfranco Fini, pur attualmente primo d'una conta effettiva di forze per un rovesciamento interno dei rapporti e della linea Pdl. Proprio per questo ve l'ha costretto. Certo si spinge in un vicolo cieco, perché vi fa luce solo una fonte esterna e da lui indipendente (gliene ha già data ampia prova nella sua storia politica): la Lega. Non sarà un caso che il giorno dopo ogni apertura ufficiale di fronte di scontro, gli venga in soccorso Umberto Bossi. Ma tant'è, quel vicolo imbocca ed è un segno di assoluta determinazione. Che non sarebbe agibile se non vi fosse un'altra condizione: il Cavaliere è virtualmente in caduta, anche se non c'è un'opposizione politica adeguata ad approntare un'alternativa. A cominciare dal Pd, il cui congresso tutti attendono e pure lui: ma sicuro che proprio a quel punto calare l'asso della sfida elettorale. L'ultimo atto dell'avventura, che la rende massimamente insostenibile, nelle condizioni globali attuali, a chi vuole ipotecata la sua leadership ma non certo le garanzie ottenute.
E dunque: così vanno le cose, così devono andare. Come devono, in assenza d'una alternativa democratica e d'un "terzo incomodo" che non a caso tutti scoraggiano, un qualche intervento che non venga dall'alto bensì dal basso, un ritorno di democrazia dalla sua sede primaria, l'aborrita piazza. Così vanno le cose, come devono: con la rovina del Paese misurata non sulle rovine dei suoi indici sociali, bensì sulle apologie sessuali in mondovisione del presidente del Consiglio. Con la denuncia democratica esercitata in prima pagina non già sulle stragi di esseri umani nel Mare Nostrum (e del colonnello Gheddafi...), bensì sul numero di signorine ospitate nelle «cene allegre» al desco del Cavaliere. Con una battaglia culturale non su un liberismo spietato quanto più fuori tempo massimo, non sulla rapina di futuro e di diritti, non sul fascismo "minore" ormai rivendicato in dosi quotidiane dalle tribune dell'autorità politica, non sul razzismo, l'omofobia e il sessismo: bensì sul più becero terreno comune del maschilismo, puttane sante o dannate. Sante se mi compiacciono e dannate se mi testimoniano contro; no dannate se fanno carriera e sante se ti sputtanano...
C'è una manifestazione, il 19, convocata dalla Fnsi per difendere la libertà di stampa. Ecco: poiché è indubbio che vada difesa come tale anche la scelta di assediare Berlusconi nell'unico modo che ci fa veramente schifo, poiché libera informazione è una priorità fra le garanzie costituzionali che questo potere caduco aggredisce ferocemente, potrebbe essere un'occasione. Per andare oltre. E far sì che le cose non vadano proprio così. Perché, è chiaro: il problema non è la caduta, ma l'atterraggio. Per chi a terra ci sta già, specialmente.

Liberazione 12.9.09
Roberto Natale presidente Federazione nazionale stampa italiana
Il 19 in piazza
«Per difendere l'informazione. E un po' anche per fare autocritica»
intervista di An. Mil.


Il 19 in piazza per la libertà di informazione, ma forse è l'occasione anche per osare di più, per dire che Berlusconi e i suoi ministri non devono più governare l'Italia...
Sì, direi che ci serve fare qualcosa. Io credo che il problema del controllo dell'informazione sia sicuramente molto importante per una democrazia. E credo che sia un tema che, insieme a tanti altri, debba essere rilanciato con forza. A questo proposito mi piacerebbe che i promotori della manifestazione del 19 e tutti quelli che vi parteciperanno dicano in quella occasione che saranno presenti anche alla nostra manifestazione del 10 ottobre che chiederà l'approvazione della legge contro l'omofobia.
Ecco, appunto. E' possibile ritornare a pensare a una stagione di mobilitazioni per tutti i temi e i diritti civili messi in pericolo da questo governo?
Credo sia necessario e indispensabile rilanciare una stagione di mobilitazione con questo stampo. Gli italiani e le italiane devono tornare a farsi sentire e possono farlo solo scendendo in piazza. Forse questa è l'occasione buona per ricominciare a farlo.
Poi c'è il problema che il Berlusconi nell'occhio del ciclone dell'ultimo periodo è stato messo sulla graticola da parti della stessa maggioranza - politica, economica ecc.. - che lo ha supportato fino adesso. Quello che manca è l'opposizione, sia politica che sociale, non credi?
Certo, in questo momento e da un pò di tempo l'opposizione in Parlamento è del tutto latente. Non solo, anche nella comunicazione troppo spesso non riusciamo a far emergere bene le nostre posizioni e le nostre proposte. Detto questo, io voglio un Pd che faccia delle proposte, che si faccia sentire con delle idee concrete e con un'alternativa a questa situazione. Voglio che il mio partito faccia qualcosa per tornare a governare questo Paese con una piattaforma programmatica da presentare agli elettori. Insieme alla sinistra e a chi ci sta, ovviamente. Forse è arrivato il momento, forse possiamo uscire dal torpore e dire agli italiani che abbiamo da proporre loro qualcosa per convincerli a darci la fiducia per governare.

Liberazione 12.9.09
Carlo Podda segretario generale Funzione pubblica - Cgil
«Spero sia la prima molecola di un nuovo movimento»
intervista di Fabio Sebastiani


Si può trasformare l'appuntamento del 19 in una manifestazione di massa contro Berlusconi?
Il 19 rappresenta un atto importante per l'obiettivo che ha in se la manifestazione ovvero la difesa di uno deti tratti caratteristici della democrazia, la libertà di stampa. Poi, certo, è chiaro che mi aspetto molto dalla sua riuscita, considerato anche il cartello di forze che hanno aderito. Spero possa costituire la prima molecola di una riaggregazione di un movimento generale di cui questo paese ha bisogno.
Credi sia possibile tornare a rimettere al centro i temi sociali?
Abbiamo parlato della democrazia. Mi permetto di dire che il primo luogo in cui la democrazia perde colpi è proprio il lavoro. E non c'è dubbio che siamo in presenza di una vocazione fortemente autoritaria nel mondo del lavoro. Stanno costruendo un sistema in cui i contratti vengono decisi altrove. E i contratti vuol dire, lo voglio ricordare, il reddito delle persone e le condizioni materiali in cui lavorano. I lavoratori non possono dire la loro. E' evidente che siamo in presenza di un sistema fortemente autoritario. E quindi l'iniziativa del 19 rappresenta un ulteriore tassello della ricostruzione del sistema democratico del paese. Se il lavoro perde la democrazia perde partecipazione e la stessa possibilità di intravedere il cambiamento. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un insterilimento della democrazia, al peggioramento delle condizioni di lavoro e delle condizioni generali del paese. C'è una assoluta concatenazione tra i due percorsi. I lavoratori e i pensionati, in fondo, costituiscono due terzi del paese. Se le condizioni peggiorano è il paese che peggiora.
Berlusconi più che sul terreno dell'informazione ha portato attacchi diretti proprio contro il mondo del lavoro.
L'informazione è uno strumento indispensabile per Berlusconi. E' funzionale al suo progetto di rappresentare una realtà diversa da quella che la gente vive. Ciò ha fatto si di far sentire le persone nell'isolamento e quindi nella difficoltà della presa di coscienza e della stessa trasformazione. Se non mi rendo conto che l'altra gente vive la mia stessa condizione alla fine mi chiudo nel mio particolare, nella mia corporazione. Il lavoro fatto sul'informazione ha fatto in modo che il danno venisse gestito ed esteso.
Dopo un periodo di largo frontismo, non pensi che sia il caso per la sinistra di cominciare a riprendere il suo percorso?
La sinistra paga il prezzo di un lavoro mai fatto su se stessa, che era quello nel quale molti di noi speravano all'inizio degli anni duemila, quando ci si confrontava sui contenuti di una nuova proposta politica. Siccome che questa fase è stata saltata, non c'è stata la costruzione di un programma comune a partire dal basso. Abbiamo riproposto in forma diverso i contenuti del liberismo. Il risultato si è visto, arrivo al governo impreparati e mancanza di un punto di vista autonomo. Oggi tutti parlano di uguaglianza ma che il nodo fosse quello il sindacato lo diceva da anni.

Liberazione 12.9.09
Gian Carlo Caselli capo della Procura della Repubblica
presso il Tribunale di Torino
«Hanno ingaggiato una battaglia ossessiva da quando le indagini e i processi toccano i nuovi potenti»
intervista di Gemma Contin


Gian Carlo Caselli è magistrato notissimo, oggi a capo della Procura di Torino dove negli Anni Ottanta è stato giudice istruttore nei processi a Prima Linea e alle Brigate Rosse. Membro del Csm dal 1986 al 1990, nel gennaio del 1993 sbarcò a Palermo proprio il giorno dell'arresto di Totò Riina, subito dopo le uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, subentrando nel ruolo già svolto da Antonino Caponnetto nel decennio precedente, teso a ripristinare e a rilanciare l'attività condivisa e "il metodo collegiale" adottato nel condurre le indagini dal pool antimafia, "inventato" e testato proprio a Torino contro il terrorismo.
Caselli ha diretto la Procura di Palermo fino al 1999, firmando tra l'altro, con i procuratori aggiunti Roberto Scarpinato, Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli, la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del senatore a vita Giulio Andreotti. Dopo l'esperienza palermitana è stato nominato direttore generale del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e, nel 2001, rappresentante a Bruxelles nell'organizzazione comunitaria contro la criminalità organizzata Eurojust.
Dottor Caselli, cosa sta succedendo sul "pianeta Giustizia", da scatenare attacchi così furibondi e fuori misura da parte dei vertici di governo?
Niente di sostanzialmente nuovo. Ormai sono oltre quindici anni che risuona sempre lo stesso ritornello. Da quando le indagini e i processi hanno toccato i "nuovi potenti", questi hanno ingaggiato una battaglia ossessiva, fatta di leggi ad hoc e di quotidiana delegittimazione contro la magistratura, accusata addirittura di volere un "golpe" strisciante. Nasce di qui una delle maggiori anomalie italiane di questo ultimo quindicennio: il rifiuto del processo e la sua gestione come momento di scontro da parte di inquisiti "eccellenti" o di soggetti "forti". Superfluo dire che queste strategie di contestazione del processo in sé (la cosiddetta difesa "dal" processo in luogo della difesa "nel" processo) nulla hanno a che vedere con un corretto sistema di legalità.
Siamo di fronte a un anticipo di quello che questa maggioranza intende per riforma?
La giustizia in Italia non funziona. I suoi tempi sono una vergogna, ma non si fa sostanzialmente nulla per rendere il sistema più efficiente. Le riforme in cantiere (Csm, rapporti pm-polizia giudiziaria, separazione delle carriere, obbligatorietà dell'azione penale, intercettazioni) non ridurranno neanche di un minuto la durata dei processi. Incideranno invece, per un verso o per l'altro, sulla indipendenza della magistratura. Una magistratura meno indipendente avrà minori potenzialità di controllo a 360 gradi, quindi anche nei confronti delle deviazioni del potere. Se nel contempo si registra una informazione non pluralista e scarsamente indipendente, ecco un intreccio perverso che mette a rischio la qualità della nostra democrazia.
Il nodo è proprio questo: sono in atto pesanti condizionamenti sull'informazione, sull'autonomia dei giudici e in particolare dei pm, e si attua la delegittimazione preventiva dell'obbligatorietà dell'azione penale, con quella sparata sui magistrati che sprecano il denaro pubblico in indagini inutili e «contro di noi», ha detto Berlusconi. Non si introduce così l'idea che a dettare l'agenda di giornali e Procure debba essere l'esecutivo, o addirittura il capo dell'esecutivo?
Sono anni ormai che il presidente Berlusconi e i suoi epigoni si esibiscono in attacchi alla magistratura. La strategia è a geometria variabile, nel senso che l'esperienza di questi anni dimostra che gli attacchi possono riguardare qualunque magistrato, pubblico ministero o giudice, quale che sia la città in cui opera, ogni volta che abbia la "sfortuna" (questa è la parola giusta) di imbattersi in vicende delicate.
Nello stesso mirino sono finito anch'io, insieme con i miei colleghi della Procura di Palermo, durante i miei anni di lavoro in questo Ufficio. Nel settembre 2003 scrissi una lettera aperta al presidente Berlusconi, pubblicata integralmente dal quotidiano La Stampa di Torino, nella quale ponevo alcuni interrogativi che mi sembrano purtroppo ancora attuali: «E' giusto gettare pregiudizialmente fango su un magistrato solo perché indaga per fatti specifici un personaggio pubblico? E viceversa, è giusto applaudire, sempre e comunque, a prescindere, il magistrato che non fa nulla o assolve quell'imputato? "Giustizia giusta" quando si tratta di personaggi "di peso" è per definizione soltanto quella che assolve? Ragionando in questo modo non si sovvertono le regole fondamentali della giustizia? Non si incide sulla serenità di giudizio? Dove sta la linea di confine tra attacco e intimidazione?»
Concludevo la lettera osservando che fare questi ragionamenti, anche soltanto per difendersi da accuse ingiuste, costa fatica; ma tacere sarebbe sbagliato, posto che l'investitura popolare non dà a nessuno, neppure al presidente del Consiglio, il diritto di offendere, né, oggi posso ancora aggiungere, caso unico al mondo, quello italiano, la mancanza di rispetto (pur nella critica) verso l'istituzione giudiziaria.
Lei ha appena ricordato il suo lavoro alla Procura di Palermo, conosce quindi molto bene il dottor Ingroia e gli altri magistrati che lavorano in quell'Ufficio, impegnati tra l'altro, in questo momento, sul crinale delicatissimo della riapertura di indagini sulle stragi mafiose. Qual'è il suo giudizio sulle condizioni in cui operano e su quello che stanno facendo?
Chiunque abbia avuto a che fare con Antonio Ingroia o con Roberto Scarpinato sa che la loro correttezza professionale è assolutamente fuori discussione. Certo appartengono alla categoria dei magistrati che non si sottraggono al dovere di partecipare al dibattito politico-culturale. Ma un conto è questo dibattito politico-culturale condotto su questioni generali; tutt'altra cosa è il loro lavoro quotidiano, rispetto al quale la loro sensibilità istituzionale è straordinaria.

Liberazione 12.9.09
Rinaldini: «Non disponibili a subire un accordo separato»
intervista Fabio Sebastiani


Federmeccanica ha scelto la via dello scontro duro e intende applicare l'accordo separato più nel metodo che nel merito...
E' ovvio che non siamo alla definizione formale di un accordo separato. Abbiamo fatto una proposta che è stata di fatto respinta anche con dichiarazioni insultanti da parte di esponenti di altre organizzazioni sindacali e, leggo, anche le dichiarazioni del direttore generale di Federmeccanica: a volte ci sono documenti di quaranta pagine che non dicono nulla e altre volte proposte che possono essere riassunte in poche righe. Noi in sostanza abbiamo proposto in questa fase di sospendere l'adozione del sistema di regole, concordare il blocco dei licenziamenti e nello stesso tempo arrivare a una soluzione transitoria sulla parte economica. La Federmeccanica ha formalmente chiesto tempo per dare una risposta e nello stesso però ha definito con le altre organizzazioni sindacali in sede ristretta il proseguimento della trattativa per tutto il mese di settembre discutendo soltanto con la piattaforma presentata da Fim e Uilm, e considerando la piattaforma della Fiom non negoziabile perché fuori dalle regole. E' evidente che trattasi di una scelta estremamente grave e di cui si assumono per intero la responsabilità e nel Comitato centrale che abbiamo convocato per la giornata di lunedì decideremo le iniziative di mobilitazione dell'intera categoria perché non siamo disponibili a subire un accordo separato che non ha mai avuto la validazione democratica dei lavoratori interessati. 
Fim e Uilm hanno cominciato questo percorso disdettando unilateralmente il contratto vigente...
Noi partiamo da un accordo separato sulla struttura contrattuale confederale che inevitabilmente pone il problema di accettare o meno quelle regole che non sono state convalidate da nessuna assemblea dei lavoratori. L'accordo nazionale vigente prevede il rinnovo del biennio economico alla fine di dicembre. Le altre organizzazioni sindacali lo hanno disdettato senza il consenso dei lavoratori mentre, lo voglio ricordare, fu la stragrande maggioranza dei lavoratori ad approvarlo. E' evidente che va sollevato un problema di legittimità. Riteniamo illegittimo che si possa modificare la parte normativa dei contratti. Se questo avverrà prenderemo iniziative legali. Stiamo difendendo la democrazia, il diritto dei lavoraori a votare i loro contratti e le loro piattaforme.
Federmeccanica prova l'affondo subito dopo il confronto tra Epifani e la Marcegaglia a Cernobbio. Delle due l'una, o quell'intesa è carta straccia oppure gli imprenditori sono divisi.
Che ci siano dei problemi tra gli imprenditori credo sia ormai evidente. Le notizie filtrano. Ci sono posizioni diverse. Per quanto riguarda il rapporto con Cernobbio sono più cauto. Analizzata dal versante sindacale l'espressione di buona volontà che non dice nulla sul merito non è sufficiente. Non avevo letto nelle dichiarazioni qualcosa di significativo rispetto al merito e ne ho avuto conferma. Anche perché non penso che possano pensare di applicare l'accordo separato sul sistema di regole e poi aprire su altre questioni. Non a caso nella nostra proposta chiediamo il blocco dei licenziamenti, la democrazia e una soluzione transitoria per quanto riguarda il salario che tenga conto delle piattaforme presentate. 
La strategia che sembra scegliere la Cgil è di andare a vedere il piatto dei rinnovi contrattuali e provare a forza quel sistema di regole. Cosa ne pensi?
Fatta salva l'autonomia di ogni categoria, mi limito a sottolineare una cosa di per se già evidente: laddove si discute il rinnovo del contratto nazionale credo che si ponga inevitabilmente il problema del sistema di regole adottato. Tutti oggi fanno riferimento al 23 luglio. Non credo che la Confindustria accetterà di considerare quei testi. Questa è alla fin fine la stessa questione che fin dall'inizio si è posta per i meccanici. Laddove ci sono situazioni economiche in settori più favorevoli uno può anche pensare di dare venti euro in più rispetto all'indice Ipca dopo di che il problema è se porta a casa quel sistema di regole o no.
Considerando il contesto è realistico pensare a un posticipo del congresso della Cgil. Cosa ne pensi? 
La Cgil ha aperto il percorso del congresso. Il 17 c'è la prima riunione delle commissioni. Il percorso del congresso deve andare avanti. Non è pensabile alcun rinvio. Dopo di che sono altrettanto convinto che il congresso della Cgil ha un carattere di straordinarietà non per una norma statutaria ma per le questioni che si trova ad affrontare e che disegnano il sindacato del futuro: la crisi, il sistema di regole, e una Cgil che deve essere in grado di esprimere esprimere e gestire in piena autonomia la propria discussione interna rispetto alle questioni aperte in tutti i partiti della sinistra. 
Un ultima domanda sulla manifestazione del 19. Quale possibilità c'è di sollevare anche i temi sociali?
Il 19 c'è la necessità di riconnettere le fila di un progetto più complessivo che è in atto in questo paese. Ho detto della democrazia nel mondo del lavoro, a me pare che quello che sta avvenendo è la messa in discussione della democrazia materiale di questo pese. Temo che le risposte a questo processo vivano separate. Sta anche alla nostra capacità ricostruire un filo di ragionamento che tenga assieme la questione sociale con l'informazione e più in generale con la democrazia in questo paese.

l’Unità 13.9.09
Storia di Carlo, schizofrenico morto in carcere
di Luigi Manconi Andrea Boraschi


IIl 24 giugno scorso, ad Asti, un uomo, viene notato dai Carabinieri per alcune manovre vietate a bordo di una Panda. Gli intimano l’alt, ma l’uomo non si ferma; ne nasce un inseguimento che i verbali riferiscono lungo e pericoloso, tra accelerazioni brucianti e incidenti evitati per puro caso. Finché la fuga non si interrompe; e pare che le prime parole dell’uomo all’indirizzo dei gendarmi siano state «Dovreste ringraziarmi. Vi ho salvato la vita perché volevano farvi un attentato».
Il buon senso dice che poteva trattarsi di un burlone; o di una persona disturbata o alterata. L’uomo al volante era Carlo Esposito, 41 anni, bidello in una scuola di Asti. È schizofrenico e in passato è stato ricoverato più volte nel reparto psichiatrico della sua città e sottoposto a un Trattamento Sanitario Obbligatorio, una misura che consente l’imposizione di terapie a soggetti affetti da disturbi mentali.
Il giorno dopo l’uomo viene condannato per direttissima a 26 mesi di galera per resistenza a pubblico ufficiale. Nessuno, al tribunale di Asti né il pm, né il giudice, né il suo avvocato solleva il dato clinico, la schizofrenia dell’imputato, invocando il vizio parziale di mente che gli consentirebbe di godere della sospensione condizionale. A Esposito viene comminata una pena molto dura – «esemplare», direbbe qualcuno – specie se si considera la sua condizione di incensurato.
Con l’ingresso nel carcere astigiano di Quarto emergono evidenti i problemi di incompatibilità dell’uomo col regime detentivo. Esposito, oltre che schizofrenico, è diabetico, iperteso, obeso ed ha già avuto delle ischemie. Il quadro clinico non viene però ritenuto sufficiente al suo trasferimento in una struttura diversa; sarà piuttosto tradotto nel reparto psichiatrico delle Vallette, nel luglio scorso. Nei giorni successivi scrive alla madre e a un’insegnante della scuola presso la quale lavorava, denunciando di aver rischiato la vita e di aver avuto collassi in due occasioni per dosaggi sbagliati di farmaci e per cure inadeguate.
Infine, una sera di qualche giorno fa, verso le 20.30, l’uomo si sente male. Si reca in infermeria e mentre è in corso la visita ha una crisi cardiaca. L’ambulanza arriva ma tutti si rendono conto che le sue condizioni sono troppo gravi per il trasporto in ospedale. Morirà un’ora dopo.
Ora la procura di Torino ha aperto un fascicolo sul suo caso. Difficilmente l’indagine potrà dire quella che è una elementare verità: il carcere è anche il luogo dove si occulta la malattia, specie quella mentale; e questa rimozione, assai spesso, annuncia tragedie.
Scrivere a: abuondiritto@abuondiritto.it

l’Unità 13.9.09
Alla Porta d’Europa per dire «No» alla barbarie
I respingimenti negano i diritti di cittadinanza. Le migrazioni non sono fenomeni passeggeri. Un popolo come quello italiano, emigrato tra ‘800 e ‘900, dovrebbe averlo compreso
di Khalid Chaouki


Giovani italiani e di origine straniera insieme a Lampedusa per ricordare le vittime del Mediterraneo, rilanciare il tema dei diritti umani e dei diritti di cittadinanza. È questo lo spirito con cui ci siamo recati ieri in visita al cimitero di Lampedusa per ricordare insieme le vittime del Mediterraneo sepolte senza nome. Comunque persone, che aldilà della loro fede di appartenenza meritavano uno spazio dignitoso di pace dopo una tragica morte. Sempre tutti insieme abbiamo lanciato in mare una corona di fiori per dire basta alle barbarie dei respingimenti di donne e uomini che fuggono da fame, guerre e persecuzioni e richiedere un deciso rispetto della Convenzione dei diritti umani e dei rifugiati. Lo abbiamo fatto osservando un minuto di silenzio davanti alla Porta d’Europa, un monumento che guarda dritto alla sponda settentrionale dell’Africa.
Far partire da un luogo tragicamente simbolico come Lampedusa la nostra campagna nazionale sull’immigrazione e la cittadinanza «stranieri di nome, italiani di fatto» vuole significare riconoscere innanzitutto il carattere umano del fenomeno migratorio. Una storia che ha conosciuto l’umanità da millenni con la migrazione di interi popoli verso sponde nuove. Una storia che ha riguardato la vita recente anche del nostro paese con il viaggio di mi-
lioni di persone verso mete lontane come gli Stati Uniti, l’Argentina o l’Australia alla ricerca di una possibilità per una vita migliore. Ebbene, quella possibilità oggi la si vuole negare a popoli a noi vicini. Ancora peggio.
I migranti vengono dipinti come usurpatori delle nostre ricchezze, si alzano barriere di filo spinato per paura che condividano un po’ dei nostri privilegi fino ad arrivare a schedarli come criminali per la semplice colpa di non aver avuto la fortuna di essere nati dall’altra sponda del mare. In questo clima di caccia al povero e di istigazione talvolta anche alla xenofobia e al razzismo da parte di qualche esponente del governo, noi intendiamo reagire con forza denunciando il grave degrado del livello di dibattito pubblico sui fenomeni legati al tema dell’immigrazione. Inoltre riteniamo che la più grande bugia raccontata agli italiani in questi ultimi mesi sia quella di rappresentare la realtà dell’immigrazione in Italia come un fenomeno passeggero e legato ad un’emergenza. Dimenticando che in Italia i flussi migratori risalgono ad almeno vent’anni e oggi si contano circa quattro milioni di cittadini di origine straniera pienamente inseriti nel tessuto sociale e lavorativo nelle nostre città. Si dimentica che vi sono migliaia di bambini nati e cresciuti in Italia che popolano le nostre scuole e che, aldilà di una legislazione quasi unica in Europa che non riconosce loro immediatamente la cittadinanza italiana, si sentono pienamente italiani senza attendere il benestare dei protettori della Padania. E’ questa l’Italia già radicalmente multietnica che noi vogliamo rappresentare. Un’Italia che non ci può far paura perché ci fa sentire più europei e più globali. Un’Italia che non ci fa paura perché ci stimola ad un confronto continuo e positivo con persone provenienti da altre culture.
Persone che con noi ora sono disposti a condividere oltre al territorio, anche la Costituzione e i valori che hanno fatto grande la tradizione mediterranea di questo paese. ❖

l’Unità 13.9.09
I sondaggi danno la sinistra radicale al 14%. Travaso di voti anche dai socialdemocratici
Oggi la sfida tv tra la cancelliera Merkel e il candidato premier dell’Spd Steinmeier
Germania, il pantano afghano fa volare la Linke di Lafontaine
Il partito di Oscar il rosso sembra inarrestabile. Per i sondaggi sarebbe al 14%, terza forza poltica del Paese, alla pari dei liberali, dietro Cdu e Spd. È l’unico partito a chiedere il ritiro immediato da Kabul.
di Gherardo Ugolini


Berlino. Ciclone Linke in Germania. Prima il successo nelle regionali del 30 agosto in Turingia, Sassonia e Saar ha dato un’iniezione di fiducia al partito di Lafontaine e Gysi portandolo alla ribalta della scena politico-mediatica e avvalorandolo come possibile partner di governo, per lo meno a livello locale. Poi il raid Nato di Kunduz in Afganistan effettuato su richiesta del comando tedesco, con conseguente strage di civili, ha aperto un dibattito sulla presenza militare tedesca in quell’area. I leader della Linke, unico partito a chiedere il ritiro immediato delle truppe, hanno avuto buon gioco nel ribadire il proprio pacifismo intransigente. «Con le bombe non si possono imporre né la pace né la democrazia» ha detto Lafontaine intercettando sentimenti largamente diffusi nell’opinione pubblica.
LA VICENDA OPEL
Infine la conclusione della vicenda Opel, celebrata dal governo di «Grosse Koalition» come un successo per la Germania, ha lasciato una coda di dubbi e incertezze che danno fiato alla protesta delle opposizioni.
Sono tutti episodi che potrebbero fare la fortuna elettorale della sinistra radicale tedesca. Almeno così dicono concordemente i sondaggi degli ultimi giorni, in base ai quali la Linke, a due settimane dal voto, vola al livello più alto mai registrato dalla sua nascita. L’istituto demoscopico Forsa in un recentissimo rilevamento pubblicato sul settimanale «Stern» le attribuisce addirittura il 14%, una percentuale che farebbe della Linke il terzo partito del Paese, alla pari con la Fdp (14%), dietro la Cdu (al 35% in leggero calo) e la Spd (21%). Il sondaggio stima la coalizione nero-gialla (Cdu-Csu-Fdp) al 49%, il che potrebbe non bastare per avere la maggioranza nel Bundestag e formare un governo.
SFIDA IN DUE LÄNDER
Ottime prospettive per la Linke anche nei due Länder in cui si vota il 27 settembre parallelamente alle politiche. Nella regione nord-occidentale dello Schleswig-Holstein i sondaggi danno il partito della sinistra all’8%, il che vorrebbe dire superare la soglia di sbarramento e conquistare una nuova presenza in un parlamento regionale occidentale. E nel Brandeburgo, il Land orientale confinante con Berlino, la Linke è data addirittura al 28%, a soli tre punti di distacco dai socialdemocratici. Vento in poppa per la Sinistra, dunque, tanto più se si considera che tradizionalmente i sondaggi tendono a sottostimare il consenso delle formazioni più estreme. Gli analisti spiegano che i nuovi voti alla Linke vengono prevalentemente dall’elettorato socialdemocratico sempre più disorientato dalla linea moderata del candidato premier Frank-Walter Steinmeier e deluso dall’esperienza quadriennale di governo insieme alla Cdu. A proposito di Spd, le ultime cartucce da sparare prima del 27 settembre sono quelle del “duello” televisivo che oggi vedrà affrontarsi Angela Merkel, cancelliera uscente, e lo sfidante Steinmeier. C’è molta attesa per l’appuntamento che sarà trasmesso in diretta da ben quattro canali tv, i pubbliciArdeZdfeiprivatiRtleSat1.Lo scontro durerà 90 minuti. Oltre 20 milioni di spettatori sono pronti a sintonizzarsi sulla trasmissione. E tutti sperano che lo scontro porti un po’ di vivacità in una campagna elettorale finora alquanto piatta e noiosa. Essendo l’unico faccia a faccia in calendario Steinmeier dovrà fare ogni sforzo per mostrarsi competente e convincente. A suo vantaggio gioca il fatto che la Merkel non è mai stata particolarmente brillante nei confronti tv.

Corriere della Sera 13.9.09
Scuola, la vera emergenza
Su quei banchi ci siamo stati tutti
di ernesto galli Della Loggia


Da anni l’istruzio­ne è il cuore malato dell’Ita­lia inferma. È lo specchio del nostro de­clino. Siamo agli ultimi posti nella classifica dei rendimenti scolastici, il che vuol dire che i giova­ni italiani sanno far di conto, scrivere e capire un testo peggio di quasi tutti i loro colleghi non italiani, mentre i due grandi punti di forza del­la nostra tradizione scola­stica, la scuola elementa­re e il liceo, sono ormai solo la pallida ombra di ciò che furono. Sul ver­sante finale, le nostre mi­gliori università, gestite troppo a lungo dal pote­re arbitrario di chi vi in­segna, e soffocate da pro­blemi di ogni tipo, fanno una ben misera figura ri­spetto alle migliori stra­niere.

È vero: da decenni la quota di spesa pubblica destinata all’istruzione è troppo bassa; ma atten­zione: specie per quel che riguarda l’istruzione primaria e secondaria es­sa non è poi così catastro­ficamente bassa rispetto alla media europea. Guardando le cose nei lo­ro termini più generali, il problema centrale del nostro sistema d’istruzio­ne appare soprattutto un altro. È il fatto che l’ambi­to della scuola e dell’uni­versità è quello dove da circa mezzo secolo si ma­nifestano con particola­re virulenza tre aspetti critici della nostra vita collettiva: il potere sinda­cale, il timore sempre in agguato per l’ordine pub­blico (comune a tutti i partiti e a tutti i governi), e infine la diffusione, nel­la scuola e fuori, di un senso comune cultural­mente ostile alla dimen­sione del merito, del do­vere, della disciplina, del­la selezione. I lettori san­no di cosa parlo. La scuo­la è rimasta un settore dove i sindacati e le loro logiche corporative han­no in buona parte anco­ra oggi un virtuale dirit­to di veto su qualunque decisione non solo di ti­po organizzativo (circa le carriere e le assunzio­ni del personale), ma an­che sui programmi e in generale sulla didattica. Egualmente, basta la più piccola minoranza stu­dentesca che organizzi un corteo o un sit-in per­ché il mondo politico sia attraversato da un brivi­do di speranza o di pau­ra credendo di scorgere all’orizzonte una riedizio­ne del mitico Sessantot­to. E nel complesso, poi, guai a chiunque dica che nell’istruzione il permis­sivismo va messo al ban­do, che ogni apprendi­mento esige anche sacri­ficio, che non tutti alla fi­ne possono risultare ca­paci e meritevoli.
In queste condizioni fare il ministro dell’Istru­zione e dell’Università in Italia equivale a essere una specie di san Seba­stiano: bersagliato da ogni parte, schernito, vi­lipeso e mostrificato alla prima occasione, desti­nato quasi sempre a scontentare tutti. Da Gui alla Moratti, passando per De Mauro e Berlin­guer, è stato in pratica un vero e proprio marti­rologio politico, e anche l’anno scolastico che si apre in questi giorni mi­naccia come al solito tempesta sul capo del san Sebastiano di turno, il ministro Gelmini. Dal momento che scoccare frecce verso chi si trova legato al palo dell’istru­zione è facile, molto faci­le: e infatti nel corso de­gli ultimi decenni nessu­na forza politica si è sot­tratta alla tentazione di farlo ricavandone il mise­ro utile del caso.
Ma se le cose stanno così, se nella scuola e nell’università il blocco delle forze contrarie a qualunque cambiamento è così forte e variegato come a me pa­re, allora dovrebbe essere evi­dente che per rimettere ordine nel campo dell’istruzione è ne­cessario come in nessun altro uno sforzo congiunto e consape­vole di tutte le forze politiche in­teressate al bene del Paese. Alle quali dovrebbe pure venire in mente che, dopo aver assecon­dato tutte le pigrizie, le ipocri­sie e i luoghi comuni della socie­tà italiana, è forse venuto il mo­mento di cambiare strada.
Se c’è un ambito cruciale per l’avvenire di noi tutti, dove si gioca più che in ogni altro il fu­turo dell’Italia, questa è l’istru­zione. Sulle misure da prendere si possono avere idee divergen­ti, naturalmente. Quello che non è più tollerabile è il gioco al massacro, la strumentalizzazio­ne demagogica, l’opposizione senza idee, l’essere contro per l’essere contro. Di fronte a quel­la che è diventata una vera e pro­pria emergenza nazionale, l’emergenza dell’istruzione, co­me anche il Presidente Napolita­no ha più volte sottolineato, tut­ti gli schieramenti, e il ministro per primo, dovrebbero sentirsi impegnati a un atteggiamento costruttivo e nei limiti del possi­bile collaborativo.
L’Italia che si riconosce nella democrazia e nella lotta politi­ca, ma che non ne può più della cieca rissa delle fazioni, aspetta solo che si chiuda la stagione delle escort e delle querele. Il momento sembra ormai giun­to: chi può aiutare a farlo batta un colpo.

il Riformista 13.9.09
Cinema, il Leone d’oro all’israeliano «Lebanon», quello d’argento all’iraniano «Women without Men»
L'onda verde conquista Venezia
di Luca Mastrantonio


La mostra del cinema di Venezia più rossa degli ultimi anni ha partorito due Leoni verdi. Di rabbia e libertà. Il primo premio, il Leone d'oro, è andato a "Lebanon", dell'israeliano Samuel Maoz, sulla guerra in Libano dell'82, quando nasce Hezbollah. Quattro militari israeliani intrappolati in un carrarmato, per sopravvivere uccidono tutto quello che gli capita a tiro. Terroristi, nemici, innocenti... «Non c'è tempo per decidere se una guerra è giusta o no quando sei sotto il fuoco nemico», ha detto il regista.
Il Leone d'argento è andato alla video-artista iraniana Shirin Neshat, per "Women without men", storia di quattro donne, appartenenti a diverse classi sociali, in cerca di emancipazione nella Teheran degli anni '50. Sul red carpet hanno sfilato di verde vestite, le dita in segno della vittoria. «La gente fuori e dentro l'Iran - ha detto la regista - deve sapere che il Movimento Verde, per cui lottiamo, non è una contestazione appartenente alle classi sociali alte e agli intellettuali, ma di tutti». Sogna un Iran diverso da quello di oggi, con «gli scandali elettorali e non solo del fondamentalista Ahmadinejad».
ll premio speciale della giuria è andato alla commedia di Fatih Akin, "Soul kitchen", mentre la coppa Volpi maschile a Colin Firth per il patinato "A single man" di Tom Ford, e quella femminile a Ksenia Rappoport, per "La doppia ora" di Giuseppe Capotondi. Sommata al premio Mastroianni, per giovane attore/attrice emergente, andato a Jasmine Trinca (per "Il grande sogno" di Michele Placido) e alla vincitrice della italianissima sezione Controcampo, Susanna Nicchiarelli con "Cosmonauta" (storia di una giovane comunista nell'Italia del boom), si può dire che l'Italia è stata salvata dalle donne. Migliore sceneggiatura, infine, per Todd Solondz e "Life during wartime", premiata la scenografia di Jaco Van Dormael per "Mr Nobody".
Lebanon usa come prolungamento della cinepresa il mirino di un carrarmato. Lo spettatore è inchiodato alla poltrona, assieme ai quattro giovani ventenni che si trovano intrappolati in un carro che era stato mandato in ricognizione e si troverà in un inferno dove tutti trovano la morte. Innocenti e colpevoli. Per il regista, «l'anima è lacerata dal dissidio tra l'istinto di sopravvivenza e la morale. Non c'è tempo di chiedersi se è una guerra giusta o meno, sei sotto il fuoco nemico». Il film mostra cos'è la guerra e come ogni immagine sia atto di guerra. Tutto ciò che finisce nell'inquadratura-mirino del cine-carrarmato muore.
Luca Mastrantonio

il Riformista 13.9.09
Colonne sonore delle dittature del Novecento
di Antonello Guerrera


IL RESTO È RUMORE. Alex Ross, nel suo bellissimo volume pubblicato in Italia da Bompiani, racconta gli intrecci diabolici tra potere assoluto e arte musicale. Nell'Urss, le sinfonie di Leningrado e il realismo socialista, in Germania, il culto di Wagner che nel 1850 lamentava «l'ebraizzazione della musica tedesca».

Germania, anni Venti. La Repubblica di Weimar si avvia giorno dopo giorno verso la sua capitolazione. In molti cercano di esorcizzare i demoni del futuro attraverso la musica, soprattutto straniera. Anche un eremita come Harry Haller, creazione malinconica di Hermann Hesse che incarna questo Zeitgeist, viene coinvolto nelle musiche «ballabili americane», appena arrivate in Germania. «Ma non è da evitare del tutto nemmeno il jazz!», sottolinea il protagonista del Lupo della Steppa. «S'intende che, confrontata con Bach e Mozart, con la musica vera, quella musica è una porcheria, ha però il pregio di essere sincera, ha un po' del negro, un po' dell'americano, è antipatica, ma preferibile all'odierna musica accademica, è puerilmente fresca e ingenua». Altrove, invece, la musica già guardava indietro, alla gloriosa tradizione nazionale, in nome della propaganda e dell'autocelebrazione. In Ungheria con l'ammiraglio Miklós Horthy. In Italia con Benito Mussolini. Per non parlare di baffone Stalin in Urss. Ancora qualche anno ed arriveranno altri due generali del terrore a cantare requiem democratici e decretare le abluzioni belliche nel sangue del Vecchio Continente: Francisco Franco e, naturalmente, Adolf Hitler.
In questo scenario gli anni Trenta «rappresentarono l'inizio della fase più perversa e tragica della musica del XX secolo». Parola di Alex Ross, la cui opera ultima Il resto è rumore (ed. Bompiani) è finalmente giunta in Italia. L'autore, musicologo americano, ha composto un emozionante, imperdibile volume di valore assoluto (tra i numerosi premi e riconoscimenti ricevuti, Il resto è rumore è stato finalista anche al Pulitzer 2008) sugli intrecci, a volte diabolici, tra musica e storia di tutto il Novecento.
La censura, le pressioni e le tragedie alle quali la musica europea andò incontro dagli anni Trenta sino al sipario cremisi della seconda guerra mondiale hanno pochi precedenti nel corso della storia e, nel contempo, raccontano molto di quest'ultima. Ungheria, Austria, Italia, Spagna e Germania deviarono ogni sonorità per i propri fini politici. I dittatori dell'epoca segnarono e mutilarono profondamente la musica, tanto che quando gli Alleati arrivarono in Germania a ceneri di Hitler ancora calde, dovettero ricodificare gusti e "leit motiv" della musica tedesca per cancellare, o almeno rimodellare, l'indemoniato immaginario collettivo degli anni precedenti.
Due, in particolare, furono i leader musicalmente devastanti: Josif Stalin e Adolf Hitler. Ma, nonostante censure, purghe e deportazioni, il lavoro dei due fu più facile del previsto. Altro che «intrinseca superiorità morale da parte degli artisti», sottolinea giustamente Ross. I compositori dell'epoca non solo non ostacolarono l'avanzata del totalitarismo, ma anzi, la maggior parte di loro l'accolse, almeno inizialmente, a braccia aperte. Il motivo? Il precariato. L'anarchia capitalistica, difatti, aveva lasciato molti artisti in un limbo senza sostegni, perché orfani di quei referenti storici come Chiesa, nobiltà e alta borghesia che avevano qualche decennio prima. Stalin e Hitler compresero subito quel sentimento. Divennero i nuovi mecenati e, uno dopo l'altro, gli artisti si schierarono dalla loro parte.
Soprattutto il georgiano di Gori pur promuovendo inizialmente un «modernismo sovietico» attivò una repressione artistica certosina, facendo dimenticare il liberalismo dei primi anni della Rivoluzione promosso dal funzionario leniniano Anatolij Lunacarskij. Stalin filtrava tutti i dischi pubblicati in Urss, etichettandoli con «buono», «brutto», «spazzatura», e così via. Le sue chiamate agli artisti, spesso nel cuore della notte, potevano significare encomio ma anche un destino nefasto. Se, dopo una performance, veniva riferito ad un compositore di attendersi una chiamata dal grande capo che però non arrivava mai, di lì a poco sarebbero arrivati i secchi colpi alla porta della polizia segreta. Tutti i compositori, poi, erano sottoposti a iniziali rituali di umiliazione da parte del regime sovietico per testarne la tempra ideologica. Stalin inoltre ritemperò il concetto di realismo socialista che nella musica doveva unire realtà e eroismo - addirittura il 9 agosto 1942, con Leningrado assediata dai tedeschi, fece inscenare proprio la famosa Sinfonia di Leningrado di Shostakovich per sollevare il morale dei combattenti. Chi non si adeguava, cadeva nella rete del Terrore epurativo. Le purghe seviziarono senza pietà le spinte «troppo moderniste» o innovatrici della musica russa, in un clima di inquietante tradizionalismo «operaio». Persino a Dmitrij Shostakovic, il più popolare compositore sovietico del periodo, sparivano amici, cari o collaboratori in caso di opere scomode o eroicamente insoddisfacenti per il regime staliniano. La sua Lady Macbeth, perché «oscura e moralmente oscena», fu ripresa pubblicamente dalla Pravda, con un editoriale senza firma dal titolo «Caos anziché musica» che chiosava così: «Shostakovic ha giocato ad un gioco che può finire molto male». Durante i preparativi della prima opera sovietica di Prokofiev Semën Kotko, venne ucciso assieme alla moglie il "ribelle" regista Mejerchold che lavorava con lui. Mentre la sua "Sesta" e "Ottava sonata" vennero messe al bando perché inadatte. Gli fu ritirato il passaporto per evitare l'espatrio. Sino alla beffa finale. Prokofiev morì pochi minuti prima di Stalin, che ovviamente gli rubò tutto il compianto del popolo sovietico. Al quale venne comunicata la sua scomparsa solo cinque giorni dopo.
Nella Germania nazista invece le premesse furono diverse. Nonostante il grande interesse di Hitler per la musica tradizionalista - era particolarmente ossessionato da Wagner, Tristano e Parsifal in primis -, inizialmente il Führer, deciso credente nell'assolutezza schopenhaueriana dell'arte, non voleva incorporare di netto la musica nella propaganda goebbelsiana. Ma anzi, voleva mantenere l'illusione dell'autonomia delle arti tramite un unico referente artistico, la "Reichskulturkammer" (Camera culturale del Reich). Difatti, come scrive giustamente Ross, la scena musicale tedesca «non fu semplicemente nazificata dall'alto. In larga parte, fu essa stessa a nazificarsi». Basti pensare alla conversione nazista di ex ribelli weimariani come Hindemith o, più semplicemente, alle parole di Strauss - che tuttavia ebbe un rapporto più che controverso con il regime nazista -, quando Hitler assunse il potere: «Finalmente un cancelliere del Reich che si interessa di arte». Premessa di un connubio inscindibile tra musica e politica nazista a cui mai la storia aveva assistito.
L'alleanza tra musica tedesca e ideologia reazionaria risale al totem Richard Wagner. Proprio lui nel 1850 scrisse il pamphlet Gli ebrei nella musica che lamentava «l'ebraizzazione della musica tedesca», auspicando per loro "Untergang" (rovina) e "Selbstvernichtung" (autoannullamento). Da quel momento l'antisemitismo s'incanalò nella fessure ideologiche della musica tedesca, per formare crepe sempre più ampie e legarsi all'ideologia del Führer, per accompagnarla in parate e sermoni pubblici sulle note di Beethoven, Bruckner e, ovviamente, Wagner.
Hitler causò alla musica tedesca danni materiali incalcolabili. Oltre alla sterilizzazione di ogni influsso esterno e alla drammatica esclusione di artisti ebrei come Will, Klemperer, Schoenberg da ogni palcoscenico del Paese - con alcune eccezioni tuttavia, vedi lo stesso Strauss e la sua famiglia "meticcia" - è lunga la lista di compositori assassinati nei campi di concentramento, di giovani talenti uccisi in Normandia e di teatri rasi al suolo. Ma soprattutto, la musica tedesca, dopo la parentesi nazista, perse molta autorità morale, macchiandosi sempre di più di un'etichetta sinistra, inumana. In questo senso, le rappresentazioni di Hollywood sono maestre. La "Nona" di Beethoven accompagna le (dis)avventure ultraviolente di Alex Delarge in Arancia Meccanica, la pioggia di missili sul Vietnam che apre Apocalypse Now ha sullo sfondo La Cavalcata delle Valchirie di Wagner, e così via.
Tra i compositori tedeschi, l'unico vero dissidente fu Karl Amadeus Hartmann, che dedicò la partitura Miserae ai suoi «amici, morti a centinaia… Dachau 1933-34». Ma anche l'antinazismo di Hartmann lascia tuttora qualche dubbio, dal momento che non sembrava destare più di tanto gli istinti punitivi del partito nazista. In realtà, solo nell'Italia di Mussolini ci fu un musicista davvero ribelle ai canoni stabiliti dal Pnf. Il compositore Luigi Dallapiccola, il cui stile galleggiava tra Stravinskij e Schoenberg, aveva inizialmente sposato la causa fascista. Ma, di moglie ebrea, se ne allontanò decisamente dopo i patti con la Germania antisemita. Indimenticabili i suoi Canti di prigionia del 1941 che, attraverso Boezio, Maria Stuarda e Savonarola, sono un disperato grido di libertà. Bertolt Brecht scrisse: «Ci sono coloro che dimorano nelle tenebre, e coloro che dimorano nella luce». A parte i rarissimi esempi di Hartmann e Dellapiccola, la maggior parte dei compositori dell'epoca dimorarono nelle prime, o in nessuna delle due.

Corriere della Sera 13.9.09
Il noto genetista svela che cosa l’ha spinto a raccogliere in un libro le sue traduzioni degli antichi lirici greci
La scienza? È nascosta in una poesia di Saffo
di Edoardo Boncinelli


Segreti di una passione 
La mia scelta non dovrebbe stupire. La mente è una, la cultura è una. Ci sono meraviglie e tesori in ogni attività. Per scoprirli bisogna studiare molto, coltivando sempre immaginazione e rigore

«Sopra il suo capo si librava / un’infinità di uccelli, / e i pesci fuori / dall’onda scura / balzavano al dolce canto». Così Simonide descrive l’effetto che il cantare di Orfeo, l’eroe-simbolo della lirica, ha sulla na­tura stessa. Da parte sua la grande Saf­fo dice a una ragazza ignara di poesia, simboleggiata dalle rose della Pièria: «Tu morta finirai lì, né di te ricordo alcuno / né rimpianto rimarrà, per sempre. Tu non hai colto / le rose del­la Pièria e una volta partita da qui, oscura / ti aggirerai fra le oscure om­bre della casa di Ade». Tanto alto è il valore che la Grecia classica attribui­sce alla poesia e al canto! Coadiuvato da un’attrice che leggerà alcune delle liriche più belle, presenterò a Porde­nonelegge il libro I miei Lirici greci pubblicato qualche mese fa per l’Edi­trice San Raffaele. Quest’opera contie­ne le mie traduzioni delle più impor­tanti liriche greche del periodo classi­co — dal VII al V secolo prima di Cri­sto — scritte da autori come Saffo, Al­ceo, Alcmane, Simonide, Archiloco, Anacreonte e via discorrendo. Qualcu­no si stupirà che nella mia produzio­ne di libri che parlano di scienza io ab­bia avuto il tempo di inserire anche un testo classico, contenente traduzio­ni di autori noti e celebratissimi sui quali si sono in passato esercitati au­tori di ben maggiore competenza e no­torietà. Solo in lingua francese esisto­no cento traduzioni-imitazioni pub­blicate della celebre lirica di Saffo Un dio mi appare. 
Perché i lirici greci? Perché li ho sempre amati, anche da prima del li­ceo, e li considero nel loro complesso un capolavoro ineguagliato. La loro modernità, la loro semplicità e fre­schezza, l’uso magistrale che vi se ne fa di una lingua già di per sé meravi­gliosa, li fanno apparire ai miei occhi, e non solo ai miei, un patrimonio ine­stimabile e imperituro.
Perché tradurli? Perché molte tra­duzioni esistenti non mi convinceva­no e in alcuni casi mi lasciavano per­plesso. Ci si allontanava in genere un po’ troppo, secondo me, dal testo gre­co originale. Che è meravigliosamen­te eloquente, lucido e compatto. Ad esempio Saffo chiama in una lirica l’amore «glykìpikron amàchanon hòr­peton ». L’espressione equivale più o meno a «fiera dolceamara dalla quale non c’è riparo», ma ognuno dei tre ter­mini condensa in sé una molteplicità di significati. L’ultimo, ad esempio, in­dica sì una fiera selvaggia, ma veicola anche il significato di una cosa che striscia e che si insinua come un ser­pente. È difficilissimo rendere in ma­niera succinta tutti i diversi significa­ti, ma ne vale la pena. Perché pubbli­carli? Per vanità, certamente, ma an­che per un atto d’amore verso questi testi oggi non popolarissimi, con la se­greta mira di «divulgarli», di portarli cioè ancora una volta, e in veste mol­to moderna, all’attenzione di chi ama la poesia, ma che non ha magari avu­to l’occasione di accostarvicisi.
Non dovrebbe stupire, secondo me, che a quest’opera si sia accinto uno che si è occupato di scienza per tutta la vita. L’uomo è uno, la mente è una, la cultura è una. Ci sono tesori e meraviglie nella scienza e tesori e me­raviglie nella poesia. Occorre immagi­nazione e rigore nell’una attività co­me nell’altra e guai a non avere l’una cosa o l’altra! Quello che alcuni non capiscono è che studiare come è fatto veramente il mondo, richiede in gene­re più immaginazione e penetrazione che non inventarselo.
D’altra parte, un poeta senza studio e senza consequenzialità non raggiun­gerà mai grandi altezze. Basti pensare a Lucrezio, a Galileo, a Leopardi.... «L’esperienza è il fondamento di ogni conoscenza», dice venticinque secoli fa Alcmane, ma dice anche che «Ogni ragazza dalle nostre parti / elogia il suonatore di lira».